Condividere - Economi Generali e Provinciali

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Condividere - Economi Generali e Provinciali
CONDIVIDERE BENI ALL’INTERNO DI UN ISTITUTO RELIGIOSO
di P. Alessandro Guarda, mccj
Introduzione
Dal 22 al 25 Maggio 2002 l’Unione dei Superiori Generali la 60.a Assemblea si è svolta sul tema di
Economia e Missione nella Vita Consacrata Oggi. I seminari hanno trattato di questi temi:
• La nuova figura dell’economo generale di un Istituto religioso: ruolo e compiti;
• Criteri di investimento per un Istituto religioso. Investimenti nel no profit.
• Condividere beni all’interno di un istituto religioso: modelli, esperienze e criteri.
• Economia e vita religiosa nei Paesi del terzo mondo: dipendenza, autonomia, stili di vita, aiuti.
• Gestione dei beni e criteri evangelici: come calcolare ciò che ci serve come riserva e cosa fare
con il surplus? Che posto occupa la Provvidenza nelle nostre vite? Il nostro è uno stile di vita
povero?
• Come giungere a un reciproco sostegno economico tra diversi Istituti religiosi? Come
organizzare un tale sostegno a livello intercongregazionale?
Troviamo in questi temi una concordanza con le nostre intenzioni e preoccupazioni.
Fa piacere constatare che i Superiori Generali hanno scelto un tema in linea con le stesse
preoccupazioni: questo lascia sperare una maggiore azione incisiva in seno ad ogni Istituto.
Il nostro tema
E’ possibile constatare l’esistenza (quanto generalizzata?) di Istituti religiosi al cui interno vi sono
Province che dispongono di poche risorse ed altre che possiedono abbondanti beni; all’interno di una
stessa Provincia possono esserci comunità ed opere che dispongono di molti mezzi economici e altre
pochi; non mancano casi in cui in una Provincia povera esistono opere o comunità ricche.
La nostra ricerca vuol pervenire ad evitare, o diminuire, la sperequazione tra confratelli e consorelle, in
modo che ci sia equità tra tutti, avendo come criteri di misura i bisogni delle comunità e la
programmazione comune nella provincia.
Quali possono essere gli elementi di partenza da cui maturare delle convinzioni e dei punti guida, per
far emergere dei criteri d’azione?
A – All’interno dei nostri istituti.
L’analisi fatta negli incontri passati sottolinea l’eterogeneità della provenienza culturale dei membri di
un istituto, con conseguenze sul modo di concepire e vivere la stessa “povertà evangelica”. Da qui alcuni
segni dei tempi da tenere in considerazione:
1.una nuova geografia vocazionale (consorelle e confratelli provenienti da paesi emergenti del sud);
2.nuove difficoltà economiche dovute alla diminuzione d’aiuti finanziari provenienti dai paesi
tradizionalmente donatori; al cambiamento delle situazioni sociali nei campi di attività dei rispettivi
istituti, scuole, ospedali, ecc.; tempi critici per i benefici finanziari da investimento, da dove
tradizionalmente si traevano anche le risorse.
3.L’individualismo è una caratteristica presente anche nel passato, ma nel presente è una componente
comportamentale dell’Occidente.
B - Altri segni dei tempi, individuano nella realtà sociale attuale il quadro in cui vivere la nostra
missione.
Ecco alcuni segni dei tempi evidenti a tutti coloro che scorrono, anche distrattamente l’attualità
mondiale:
4.situazioni di guerra, estrema povertà, provvisorietà, disagio, divisioni tra i popoli, ecc.
5.espandersi del neoliberalismo;
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6.globalizzazione.
L’analisi della realtà sociale globale ci fa riconoscere in sintesi
- l’esistenza di un mondo in cui viviamo che è mosso (in Occidente e nelle realtà da esso
dipendenti) da principi ideologici di neo-liberalismo.
- che questi principi sono la negazione della solidarietà tra gli esseri umani,
- che è attribuibile in gran parte ad essi l’origine delle sperequazioni economiche nel mondo,
- che esistono dei principi alternativi per la costruzione di un mondo nuovo, ispirati ai valori
evangelici del Regno.
Porrei l’accento sul rischio che abbiamo come religiosi di prendere in esame “solo” la situazione
ristretta in cui noi viviamo come provincia o come istituto: ad esempio, il settore del nostro carisma
specifico (missioni, scuole, giovani, i poveri, ecc), insensibili ai vicini, incapaci a volte di andare in
profondità e cercare le cause un po’ lontane, ma che sono spesso quelle vere, delle difficoltà incontrate
dalla gente, e che mettono in discussione il nostro stile di presenza, del nostro intervento, delle
conseguenze di ciò che facciamo nell’insieme dell’equilibrio delle forze che intervengono in una società.
Questo “noi” è in primo luogo la provincia, inserita e coordinata in un piano (se esiste) ecclesiale. Quindi
ci renderemo conto che la Chiesa, come insieme di forze vive presenti, ha un vero impatto nella storia e
nella situazione del paese. Perché non domandarsi quale impatto avere nel futuro, dopo un’analisi di
questo genere? Ma come avere un impatto se non c’è una presenza omogenea dell’Istituto stesso e,
dovremmo aggiungere, delle forze religiose ed ecclesiali in un Paese?
Nel mondo aumenta progressivamente la differenza economica tra una parte e l’altra; questa situazione
scandalizza soprattutto le persone di buona volontà. Come accettare che questo “scandalo” esista
all’interno dello Stesso Istituto, della stessa Famiglia, divisa in Nord e Sud, giungendo a far esistere di
fatto “Religiosi poveri” e “Religiosi ricchi”.
Comunico in questo contesto la richiesta fatta dagli economi durante l’Assemblea dell’USG di costituire
in qualche modo un organismo o comitato di Economi Generali ufficialmente riconosciuto, che possa
essere l’interlocutore in diverse situazioni in cui i religiosi si devono esprimere nel campo economico:
allo IOR, per la costituzione eventuale di una commissione di consulenza a favore degli Istituti, per la
realizzazione di programmi di formazione in economia, per la costituzione di fondi intercongregazionali, ecc.
Quali sono i principi ideali che ispirano la nostra azione e presenza religiosa?
A questo argomento darei un’importanza prioritaria: è solo in base ad un ideale comune che si possono
prendere delle decisioni comuni.
A - Confrontiamoci con l’insegnamento sociale della Chiesa, che bisogna conoscere non solo come testi
di studio intellettuale, ma insegnamento programmatico di vita.
“L’antropologia cristiana è in realtà un capitolo della teologia e, per la stessa ragione, la dottrina sociale
della chiesa, preoccupandosi dell’uomo, interessandosi a lui e al suo modo di comportarsi nel mondo,
appartiene al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale.” (Centesimus Annus, n. 55). Le
prese di posizione pontificie nella Centesimus Annus sono così socialmente avanzate che le possiamo
ritrovare facilmente nelle affermazioni dei no global, verso i quali magari manteniamo un atteggiamento
di distacco diffidente, senza renderci conto che molte volte sono loro, e solo loro, ad esprimere in
chiaro ciò che il Papa ha già detto. Perché non dovremmo essere noi stessi?
“Per la chiesa, il messaggio sociale del vangelo non deve essere considerato una teoria, ma prima di
tutto un fondamento e una motivazione per l’azione. Spinti da questo messaggio, alcuni dei primi
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cristiani distribuivano i loro beni ai poveri, testimoniando che, nonostante le diverse provenienze sociali,
era possibile una convivenza pacifica e solidale. Con la forza del vangelo, nel corso dei secoli, i monaci
coltivarono le terre, i religiosi e le religiose fondarono ospedali e asili per i poveri…” (C.A. n.57)
Qual è il modo attuale di condividere, nel rispetto del carisma di ogni Istituto?
B – La Chiesa primitiva aveva cercato di concretizzare in alcune scelte fondamentali un progetto di
realizzazione del Regno di Dio nel mondo, secondo gli insegnamenti ricevuti dal Signore Gesù:
- distacco dai beni materiali che si materializzava nell’opzione della comunità dei beni;
- attenzione ai più poveri ed indifesi, affinché nessuno mancasse del necessario;
- separazione dal mondo “perverso”, che era destinato a perire con il ritorno del Signore.
Qual è il progetto di società nuova che la Chiesa propone oggi?
C – Nelle nostre Costituzioni abbiamo le indicazioni molto chiare per liberare il nostro cuore dalla
tentazione del possesso, anima subdola della giustificazione che troviamo sempre opportunamente per
conservare qualcosa di più.
D – La vita religiosa.
La povertà nel Vangelo non è soltanto una metodologia di azione : “Va, vendi quello che hai, dallo ai
poveri, poi vieni e seguimi” (cf. Lc.18, 22), non è soltanto l’esempio ideale di Cristo : “Il Figlio dell’Uomo
non ha dove posare il capo” (cf. Mt.8, 20) - e già questo dovrebbe avere un valore assoluto per coloro
che si dicono suoi apostoli / discepoli - ma è affermata a chiare lettere la sua relazione con il Regno di
Dio ed i suoi “cittadini” : “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt.5, 3), “Chi non
rinuncia a tutto non può essere mio discepolo” (Lc.14, 33).
A mio avviso è dubbia la solidarietà senza povertà: si identifica con il paternalismo e contraddice la
metodologia della redenzione operata dal Figlio di Dio che ha scelto l’incarnazione invece di far piovere
la sua salvezza dall’alto.
Ma quale Vangelo annunciamo noi ai poveri, con le parole e le opere? E’ veramente integrale? E’
esemplare, nel senso che diamo noi l’esempio di Vangelo vissuto? D’altronde l’annuncio del Vangelo può
essere sempre e solo esemplare : il mondo riceve il Vangelo non dalle parole che diciamo, o dalle opere
che facciamo, ma dallo stile di vita che viviamo ed é capito ciò che diciamo se trova spiegazione nella
vita del religioso.
Positivamente possiamo dire che la società attuale è sensibile agli esempi di condivisione e solidarietà: il
Vangelo sarà così annunciato con l’esempio della vita.
Quali sono le applicazioni possibili?
Possiamo parlare di “Condivisione dei Beni”, di Corresponsabilità ai diversi livelli come realizzazione di
questo spirito evangelico che ci deve animare dal profondo.
Le applicazioni di questi principi sono multiple e fanno già parte delle diverse tradizioni ed esperienze
negli Istituti:
+ si condivide destinando una parte più o meno elevata delle entrate comunitarie alla gestione
provinciale che sostiene alcune spese comuni; questo metodo si basa su percentuali delle entrate,
oppure su somme fisse pro-capite e periodiche;
+ si condivide destinando “l’eccedenza” comunitaria all’uso comune provinciale. Si troverà un accordo in
provincia sui criteri per fissare questo superavit. Viene fissato un criterio comune per determinare il
necessario alla comunità entro il quale esiste l’autonomia di gestione; l’eccedente viene considerato
“surplus” a disposizione della provincia.
+ si condivide con dei contributi delle comunità, volontari e occasionali, per degli scopi precisi: obiettivi
che l’autorità provinciale si è fissata, pur non disponendo dei mezzi sufficienti per portarli a termine.
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+ si condivide partecipando a Fondi provinciali dedicati a spese comuni: acquisto di veicoli delle
comunità, viaggi all’estero, malattie, (può funzionare con i criteri dell’ammortamento, da destinare al
fondo comune costituito ad hoc;la decisione sarà presa dall’autorità provinciale; la gestione è
dell’economo provinciale),solidarietà con comunità in difficoltà, finanziamento progetti, sostegno delle
spese di formazione, ecc.
+ L’applicazione più piena della condivisione consiste nell’organizzare un fondo comune provinciale (FCP)
che raccolga tutte le entrate, che saranno poi distribuite equamente alle comunità secondo i loro
bisogni e la programmazione comune.
Qual è l’elemento determinante di una gestione con FCP?
E’ sicuramente l’uso del bilancio preventivo e conseguente approvazione del Consiglio Provinciale.
Questo significa che le comunità propongono una programmazione e ne ricevono l’autorizzazione. La
Direzione Provinciale quindi diventa il cuore della presenza nella regione: deve avere un programma di
presenza nella società che si sente di svolgere con il personale ed i mezzi di cui dispone; chiede ai
confratelli disponibilità, competenza, condivisione, comunione d’intenti e di beni.
Tecnicamente si mette in moto tutto un movimento comunitario:
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La comunità, sulla base dell’esperienza e dei bilanci consuntivi, prepara il bilancio preventivo per
l’anno a venire: è un momento di condivisione degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli, delle
metodologie di lavoro, della collaborazione nelle diverse tappe e settori di attività. Questo
preventivo è una “domanda” che la comunità fa alla provincia: propone le sue attività, presenta i
mezzi che prevede di ottenere, chiede autorizzazione e mezzi complementari.
2. Parallelamente la comunità prepara le domande per progetti di realizzazioni straordinarie,
qualora vi fosse un impegno diretto economico della comunità o provincia. Il C.P. approvando,
darà disposizione di costituire un fondo in economato provinciale per l’opera che sarà finanziata
secondo una programmazione.
3. L’economo provinciale assiste tutte le comunità che ne hanno bisogno ed i segretariati
provinciali nel preparare questo preventivo. A sua volta, con l’aiuto del suo consiglio, prepara il
preventivo per i diversi fondi provinciali di spese comuni.
4. Il secondo momento è del consiglio di economia (o degli economi in assemblea a seconda delle
scelte provinciali). Bisogna valutare i progetti dal punto di vista amministrativo: realizzabilità,
confronto tra progetti delle diverse comunità, valutazione dei mezzi disponibili in provincia,
eventuali proposte di tagli ad alcuni (o a tutti i) preventivi. Le conclusioni dei lavori sono
presentate al C.P.
5. Il C.P., con l’aiuto del consiglio per l’economia (o dell’economo provinciale) valuta le proposte
emerse ed approva.
6. L’economo provinciale gestisce il FCP, portando a termine le decisioni prese dal CP.
Sulla linea di massima di questo schema si può sviluppare tutte le varianti volute e valutate nelle
situazioni concrete della provincia. Niente è obbligatorio; tutto è ispirato dalla volontà di condividere la
stessa vita ed i mezzi che la divina Provvidenza mette a disposizione.
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