Forza paris - Il Dialogo

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Forza paris - Il Dialogo
Isola Niedda
18
Lanusei, Sardinia -Italia- dicembre 2008.
Direzione: Giovanna Mulas - Coordinazione: Gabriel Impaglione
[email protected]
Forza paris … Avanti insieme
detto popolare sardo
Codice Barbaricino
di Giovanni Meloni
Per questa comunità le leggi dello stato erano regole non comprese, e pertanto non rispettate di un
altrettanto non compreso stato nazionale. Attraverso un'indagine diretta svolta fra i membri di
questa comunità -pastori, contadini, protagonisti di clamorosi fatti di banditismo- ANTONIO
PIGLIARU nel suo libro "Il banditismo in Sardegna" ricava l'esistenza di tutta una serie di norme di
comportamento millenarie vincolanti e imperative -la balentia, l'onore- a cui tutti dovevano
conformarsi perché regolavano l'ordine e la convivenza sociale. Quando venivano violate, le
comunità ritenevano di avere il diritto di riparare all'offesa subita con la vendetta, e a sua volta
regolata da precise norme non scritte. La vendetta diventava dunque giustizia di cui si faceva carico
l'intero contesto sociale.
PRINCIPI GENERALI:
1) L'offesa deve essere vendicata. Non è uomo d'onore chi si sottrae al dovere della vendetta,
salvo nel caso che, avendo dato con il complesso della sua vita prova della propria virilità, vi
rinunci per un superiore motivo morale.
2) La legge della vendetta obbliga tutti coloro che ad un qualsivoglia titolo vivono ed operano
nell'ambito della comunità.
3) Titolare del dovere della vendetta è il soggetto offeso, come singolo o come gruppo, a seconda
che l'offesa è stata intenzionalmente recata ad un singolo individuo in quanto tale o al gruppo
sociale, nel suo complesso organico, sia immediatamente sia mediatamente.
4) Nessuno che vive ed opera nell'ambito della comunità può essere colpito dalla vendetta per
un fatto non previsto come offensivo. Nessuno può essere altresì tenuto responsabile di un offesa se
al momento in cui ha agito non era capace di intendere e di volere, nel quel caso rispondono i
moralmente responsabili.
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5) La responsabilità è o individuale o collettiva a seconda che l'evento offensivo consegua
all'azione di un singolo individuo o a quella di un gruppo organizzato operante in quanto tale. Il
gruppo organizzato sia sulla base di un vincolo naturale sia per effetto di sopravvenuti rapporti
sociali, risponde dell'offesa quando questa è cagionata da un singolo membro del gruppo con
iniziativa individuale nel caso in cui il gruppo medesimo, posto di fronte alle conseguenze
dell'azione offensiva, esprima, in modi e forme non equivoci, attiva solidarietà nei confronti del
colpevole in quanto tale.
6) La responsabilità di chiunque si trova nella condizione di ospite è solo personale e deriva
dalle eventuali azioni od omissioni di lui, in rapporto ai doveri particolari del suo stato.
7) La vendetta deve essere eseguita solo allorché si è conseguita oltre ogni dubbio possibile la
certezza circa l'esistenza della responsabilità a titolo di dolo da parte dell'agente.
8) L'offesa si estingue:
a) quando il reo lealmente ammette la propria responsabilità assumendo su di se l'onere del
risarcimento richiesto dall'offeso o stabilito con lodo arbitrale;
b) quando il colpevole ha agito in stato di necessità ovvero per errore o caso fortuito ovvero
perché costretto da altri mediante violenza cui non poteva sottrarsi. In questo ultimo caso risponde
dell'offesa l'autore della violenza.
9) L'applicazione della legge della vendetta viene altresì sospesa nei confronti di chi, pur
fondatamente sospettato, chiede e ottiene di essere sottoposto alla prova del giuramento onde essere
liberato. In tal caso il giuramento deve essere prestato secondo la seguente formula: <>. E però
ammessa, previo accordo, l'omissione della seconda parte della formula. Il giuramento liberatorio
ha valore identico agli effetti della presente norma, sia che venga effettuato in presenza di terzi
convocati in qualità di testimoni; ovvero in forma solennissima, secondo le consuetudini locali.
10) L'inadempimento fraudolento degli oneri derivanti dall'applicazione di quanto è indicato
all'art. 8,a); ovvero il giuramento che risulti falso alla luce di ulteriori prove intervenenti a
confermare le responsabilità del colpevole, costituiscono aggravante specifica. Nel caso del falso
giuramento l'offesa è ulteriormente aggravata se il giuramento è stato reso in forma solenne.
LE OFFESE:
11) Un'azione determinata è offensiva quando l'evento da cui dipende la esistenza di essa
offesa è preveduto e voluto allo scopo di ledere l'altrui onorabilità e dignità.
12) Il danno patrimoniale in quanto tale non costituisce offesa né motivo sufficiente di
vendetta. Il danno patrimoniale costituisce offesa quando, indipendentemente dalla sua entità, è
stato prodotto con specifica intenzione di offendere, ovvero è stato realizzato in circostanze tali da
implicare, per se medesimi, sufficiente ragione di offesa, ovvero quando in esso sia presente
l'esplicita volontà di recare danno effettivo.
13) Le circostanze dell'offesa sono oggettive e soggettive. Le circostanze oggettive dell'offesa
concernono la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto e il modo dell'azione. Le circostanze soggettive
concernono l'intensità del dolo o le condizioni e qualità del colpevole ovvero i rapporti esistenti o
esistiti tra il colpevole e l'offeso.
14) Pertanto il danno patrimoniale costituisce offesa nei seguenti casi:
a) furto di bestiame quando esso pur rientrando nella normale pratica dell'abigeato è stato
consumato: 1) da un nemico; 2) da chi è stato compagno d'ovile dell'offeso e conosce per tanto
l'organizzazione tecnica dell'ovile medesimo; 3) dal titolare dell'ovile confinante; ovvero se è stato
reso possibile dalle loro complicità od omertà;
b) furto della capra da latte destinata alla alimentazione del complesso famigliare;
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c) furto di un maiale destinato all'ingrasso per motivo di economia famigliare;
d) furto o sgarrettamento di una vacca destinata in dono al neonato, alla sposa, all'orfano;
e) furto o sgarrettamento di un cavallo ovvero di un giogo di buoi destinati alla normale pratica del
lavoro;
f) distruzione vandalica del bestiame ovino, bovino, equino;
g) incendio doloso;
h) pascolo abusivo entro un terreno recintato, consumato con scopo provocatorio ovvero a titolo di
dispetto;
i) ingiusta divisione patrimoniale, che consegue ad un comportamento sleale posto in essere con il
deliberato disegno di recare un danno effettivo a persona non in condizioni di fare valere al giusto
momento le proprie ragioni, per una qualsivoglia circostanza di fatto;
j) esercizio esoso delle proprie ragioni effettuato con intenzione di offendere.
15) Quando più persone concorrono alla esecuzione materiale di un fatto elencato nell'art. 14, non
ne risponde chiunque vi abbia partecipato:
a) non essendo a titolo personale nelle condizioni espressamente previste per quanto concerne
i casi preveduti dalla lett. a);
b) non essendo a conoscenza della particolare natura o destinazione della cosa, nei casi di alle
lettere b), c), d), e);
c) avendo agito per esecuzione di mandato ricevuto, senza altra partecipazione che di natura tecnica
al verificarsi dell'evento, nei casi di cui alle lettere f), g), h);
Non risponde altresì dell'offesa colui il quale, in ordine al caso di cui alla lettera i), abbia agito in
buona fede perché tratto in errore da terzi.
16)Inoltre costituisce offesa:
a) il passaggio provocatorio di un nemico attraverso un terreno chiuso;
b) l'ingiuria, quando l'offesa al decoro di una pecora o di un gruppo è recata con attribuzione di un
fatto determinato ma falso, tale da ledere l'onorabilità della persona o del gruppo cui il fatto
medesimo venga attribuito;
c) la diffamazione e la calunnia, quando concorrono le stesse circostanze previste per la
ingiuria;
d) la rottura di una promessa di matrimonio. In questo caso è aggravata quando il fatto è in sé privo
di giustificazione; ovvero allorché l'azione è stata posta in essere in circostanze tali da
compromettere pubblicamente l'onere della promessa sposa e insieme la dignità e l'onere della
famiglia cui essa appartiene. Costituisce altresì offesa ulteriormente aggravata la rottura della
promessa di matrimonio quando il colpevole abbia agito con lo scopo di menomare l'onore della
promessa sposa ovvero di offendere la di lei famiglia;
e) la non giustificata rottura o il mancato adempimento di un patto stabilito per qualunque motivo a
fine nelle debite forme. L'offesa è aggravata se il soggetto recedente si avvale del vantaggio a lui
derivante dalla qualità di socio per recare o favorire chi intende recare un danno all'altra parte.
L'offesa è ulteriormente aggravata quando il recesso ovvero l'inadempienza sono stati posti in essere
allo scopo di recar danno;
f) la delazione, ove non sia effettuata dalla parte lesa ma avvenga a scopo di lucro ovvero a titolo di
dispetto. L'offesa è aggravata quando viene recata con confidenza all'autorità di pubblica sicurezza
invece che all'autorità giudiziaria;
g) la falsa testimonianza resa da persona non legittimata dalla qualità di parte lesa. La falsa
testimonianza non offende quando è prestata da chi esercita la professione di teste falso ovvero da
chi dichiara il falso a favore dell'imputato indipendentemente dalla colpevolezza o non
colpevolezza di quest'ultimo;
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h) ogni azione posta in essere contro la persona ospitata. In tal caso titolare della vendetta è la
persona o il gruppo ospitante;
i) l'offesa del sangue;
17) Costituisce offesa ogni azione intesa a produrre un fatto di natura offensiva quando
l'evento non si verifica, ove ciò sia dipeso dalla mutata volontà dell'agente e tuttavia gli atti
compiuti esprimono in modo idoneo e non equivoco la volontà di recare offesa.
LA MISURA DELLA VENDETTA:
18) La vendetta deve essere proporzionata, prudente o progressiva. S'intende per vendetta
proporzionata un'offesa idonea a recare un danno maggiore ma analogo a quello subito; s'intende
per vendetta prudente un'azione offensiva posta in essere dopo la conseguita certezza circa la
esistenza della responsabilità dolosa dell'agente e successivamente al fallito tentativo di pacifica
composizione della vertenza in atto, ove le circostanze della offesa originaria rendono ciò possibile;
s'intende per vendetta progressiva un'azione offensiva posta in essere con prudenza e tuttavia
adeguantesi con l'impiego di mezzi sempre più gravi o meno gravi all'aggravarsi od all'attenuarsi
progressivo dell'offesa originaria, anche in conseguenza dell'eventuale verificarsi di nuove
circostanze che aggravino ovvero attenuino l'offesa originaria o del progressivo concorrere nel
tempo di nuove ragioni di offesa.
19) Sono mezzi normali di vendetta tutte le azioni prevedute come offensive a condizione che
siano condotte in modo da rendere lealmente manifesta la loro natura specifica.
20) Costituisce altresì strumento di vendetta il ricorso alla autorità giudiziaria quando oltre la
certezza morale sulla responsabilità dolosa dell'agente si è conseguita una ragionevole certezza sulla
sufficienza processuale delle prove raggiunte; e il danno derivante dall'esito del processo si può
prevedere sufficientemente adeguata alla natura dell'offesa secondo i principi della legge sulla
vendetta in generale.
21) Nella pratica della vendetta, entro i limiti della graduazione progressiva, nessuna offesa
esclude il ricorso al peggio sino al sangue. Parimenti nessuna offesa esclude la possibilità di una
composizione pacifica, allorché il comportamento complessivo del responsabile rende ciò possibile.
22) La vendetta deve essere esercitata entro ragionevoli limiti di tempo, a eccezione della offesa del
sangue che mai cade in prescrizione.
23) L'azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta motivo di
vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata ovvero
non adeguata, ovvero sleale. La vendetta del sangue costituisce offesa grave anche quando è stata
consumata allo scopo di vendicare una precedente offesa di sangue.
da http://barbaricina.blog.tiscali.it/yc2114441/
Il brigantaggio in Sardegna
Alcune riflessioni sul banditismo sardo sette-novecentesco
Rispetto ad altre realtà criminali, il banditismo sardo è stato scarsamente esplorato. In effetti talune interpretazioni del fenomeno si
sono basate sull’idea di una protesta armata contro le nequizie delle istituzioni, contro le sopraffazioni dei “galantuomini”, contro la
formazione di un moderno stato liberale, contro l’autorità. La stessa latitanza, secondo la dottoressa Romina De Cesaris, “costituisce
un fenomeno emblematico: essa rappresenta sia il legame col potere locale che garantisce protezione ai latitanti, sia il permanente
oltraggio alla legge”. Nel settecento le principali cause del brigantaggio sono da ascrivere al contrabbando con la Corsica, alla
protezione della nobiltà locale, alle dispute tra paese e paese, ai furti di bestiame, alle vendette dirette e trasversali, allo scarto fra le
realtà giuridiche e la coscienza popolare. Nell’ottocento si sviluppa un processo di mitizzazione della figura e del ruolo del
bandito, autorevole, silenzioso, coraggioso, crudele, combattuto con metodi altrettanto violenti quali lo squartamento e
l’esposizione dei corpi giustiziati. A fine ottocento avviene un ulteriore sviluppo del fenomeno anche a causa dei rapporti in loco fra
elementi sardi e delinquenti meridionali, ivi dislocati in numerose colonie penitenziarie.
Le bardane e le latitanze
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La bardana e la latitanza: due tipiche peculiarità del banditismo sardo
Sino alla fine dell’Ottocento, i banditi sardi praticavano la cosiddetta “bardana”, che era un gravissimo atto di brigantaggio pressoché
esclusivo della Sardegna. Consisteva, come ricorda Federico Ghiani, nell’invasione di un paese ad opera di alcune decine di banditi a
cavallo, che scendevano per l’occasione dalle montagne e mettevano a ferro e fuoco il centro abitato. Questo reato era reso possibile
dall’assoluta assenza delle istituzioni statali e dalla mancanza di autentica salvaguardia per la popolazione civile. Lo strapotere dei
banditi era forte e riconosciuto persino dai benestanti, nel mentre i piccoli nuclei di carabinieri qua e là presenti potevano fare
davvero poco. All’inizio del Novecento, le bardane venivano sostituite, con il graduale rafforzamento delle istituzioni, con gli
assalti alle auto ed alle corriere.
L’altra particolarità del banditismo sardo è la latitanza formidabilmente presente nella storia del banditismo nell’isola. Si pensi che
nel 1830 vi erano 439 latitanti, che tredici anni dopo saliranno a 864, con uomini come Giovanni Tolu che riusciva a rimanere alla
macchia addirittura per trent’anni dal 1850 al 1880. Nel periodo fascista latitanti assai noti erano Stochino e Chironi,
successivamente Tandeddu e Mesina, che come tanti hanno attraversato l’esperienza della latitanza, scuola normale per la criminalità
sarda.
Banditi
Una bella poesia di Sebastiano Satta sui banditi sardi, allorquando la nostalgia della casa, dei familiari, del proprio paese, in
occasione delle feste natalizie, si fa più struggente
Incappucciati, foschi a passo lento/ tre banditi ascendevano la strada/ deserta e grigia tra la selva rada/ dei sughereti, sotto il
ciel d’argento./ Non rumori di madre, o voci, il vento/ agitava per l’algida contrada./ Vasti silenzi. In fondo, Monte Spada/
ridea bianco nel vespro sonnolento./ O vespro di Natale! Dentro il core/ ai banditi piangea la nostalgia/ di te, pur senza udirne
le campane/ e mesti eran, pensando al buon odore/ del porchetto e del vino, e all’allegria/ del ceppo nelle loro case lontane.
Il cane e i fratelli di Graziano Mesina
Alcuni elementi delle origini delinquenziali del mitico bandito sardo, Graziano Mesina
Il giovane ufficiale Federico Ghiani, ha dedicato la conclusione del suo diploma universitario in Scienze strategiche a riflessioni e
ricerche sul banditismo sardo, ed in quest’ambito, alla figura di Graziano Mesina. Sin da giovane Mesina aveva subito diversi arresti
per piccoli episodi di criminalità e per aver devastato l’abitazione di un individuo che gli aveva ucciso il cane. Negli anni sessanta del
Novecento i suoi fratelli venivano accusati ingiustamente per il sequestro e l’uccisione del commerciante Pietrino Crasta e Mesina
decideva di difenderli e vendicarli. Detenuto a Nuoro riuscì a fuggire, la prima delle tante sue volte. Ad Orgosolo uccideva una
persona di un clan rivale: arrestato, condannato, riusciva ancora a fuggire, acquisendo via via caratteristiche mitiche da parte
di taluni gruppi sociali. Riportava la Barbagia ai “fasti” del grande banditismo dei tempi passati. Nel ‘67 sbarcavano nell’isola oltre
mille agenti di rinforzo per porre fine ad una stagione convulsa. Mesina veniva arrestato e quando fu portato a Nuoro, in manette,
trovò una piccola folla di persone che a lungo lo applaudirono. Successivamente alcune istituzioni statali si sarebbero servite di lui
per agevolare la liberazione del piccolo Faruk, pronte, dopo la fine positiva della vicenda, a negare ogni collegamento ed iniziativa.
Montanelli ebbe con lui una ampia ed intensa intervista, da par suo, nella quale traspare una parte consistente dell’operato e dei
sentimenti di Graziano Mesina.
Giovanni Greco: Biografia
Giovanni Greco, (Salerno 1950), vive e opera a Bologna. E’ professore di Storia contemporanea presso i corsi di laurea in Scienze
dell’educazione e in Scienze della formazione primaria presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna.
Insegno Epistemologia/Storia delle scienze storiche e Didattica della storia presso la Scuola di Specializzazione per l’insegnamento
negli istituti secondari dell’Ateneo felsineo. Professore di Storia contemporanea presso l’Accademia Militare di Modena, facoltà di
Giurisprudenza, corso di laurea in Scienze strategiche, dell’Università di Modena e Reggio. Ha all’ attivo diversi saggi di storia della
criminalità, di storia delle istituzioni giuridiche e politiche, di metodologia .
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Grazia Deledda, può un Nobel
venir dimenticato?
di Valentina Fiori
Grazia Deledda, grande scrittrice sarda, appare scomparsa dalla maggior parte delle antologie scolastiche e
dimenticata da buona parte della critica, eppure si dovrebbe essere orgogliosi di lei, in quanto è stata la prima
ed attualmente unica scrittrice italiana ad essere stata insignita del prestigioso premio Nobel per la
letteratura.
Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871, in una famiglia benestante, è la quarta di sei figli; intrappolata nella
minorità sociale in cui era relegata la donna in quegli anni e in quell’ambiente, suo malgrado segue pochi
studi regolari, fino alla quarta elementare.
La sua adolescenza è contraddistinta da gravi problemi familiari e fu forse in seguito a queste difficoltà che
si accentuò nella Deledda il carattere sognante che la fece rifugiare nella lettura. Ci fu in lei un ripiegamento
interiore che le facilitò lo svilupparsi di una fantastica, sognante e protratta adolescenza, piena di
vagheggiamenti romantici.
L’elemento della formazione culturale della Deledda ha una particolare importanza, perché molta della
sua scrittura più matura è percorsa dalle suggestioni più varie, dalle influenze tematiche ed espressive più
ortodosse proprio perché frutto di quelle letture disordinate, occasionali ed onnivore di cui si nutrì la
scrittrice da ragazza: la Bibbia, i grandi narratori russi come Dostoevskj, Tolstoj e i grandi narratori francesi:
Zola, Flaubert e Maupassant. Lesse poi Fogazzaro, soprattutto “Malombra”. Fu poi lettrice di Carducci e
soprattutto di D’Annunzio, considerato da lei un vero modello culturale.
Cominciano gli anni dell’apprendistato in cui sperimenta varie scritture come novelle e poesie, poi si occupa
anche di etnologia: collaborando alla “Rivista di Tradizioni Popolari Italiane”, in particolare scrive 11
puntate delle “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna”, questa profonda conoscenza per la sua terra e per
il suo popolo, apparirà poi in tutti suoi romanzi maggiori.
La sua grande passione per la vocazione letteraria, su cui pesava il diffuso pregiudizio che “una donna
scrittrice non può essere onesta”, riesce finalmente a concretizzarsi ufficialmente con la pubblicazione del
racconto ”Sangue Sardo” sulla rivista romana “Ultima moda” (1886), da questo momento in poi, anche in
seguito a una recensione favorevole di Capuana, con tenacia continuerà la sua produzione riuscendo a
pubblicare varie novelle su diverse riviste letterarie. Anche se non mancarono le stroncature, in
particolare con dolore apprese che i suoi conterranei l’accusavano di aver calunniato la Sardegna,
descrivendone gli usi primitivi e quasi selvaggi, questo “risentimento” della sua gente si andò stemperando
con il tempo e la comprensione del valore che l’opera della Deledda ha per la Sardegna tutta.
Un viaggio a Cagliari tra l’ottobre e il dicembre del 1899 segna la svolta della sua vita. A casa dell’amica
presso quale era ospite, incontra un funzionario del Ministero delle Finanze in missione sull’isola; Palmiro
Madesani, romano. La Deledda capisce di essere davanti all’uomo della sua vita e l’11 gennaio lo sposa, nel
mese di aprile gli sposi si trasferiscono a Roma.
Si realizza in questo modo il suo sogno di evadere dalla provincia sarda, raggiungendo ben presto una
precisa coscienza di sé.
Sono questi gli anni della vita familiare, con i figli Sardus e Franz, e del lavoro regolare e quotidiano.
I suoi scritti: novelle e romanzi vengono conosciuti da un numero crescente di lettori.
Da allora in avanti pubblicherà in maniera sistematica novelle e romanzi, e saranno proprio quei romanzi, a
condurla al premio Nobel nel 1926.
Nel 1900 pubblica il primo romanzo composto a Roma, ambientato in Sardina, Elias Portolu,
considerato un capolavoro a cui seguiranno con scadenza quasi annuale gli altri romanzi sempre ambientati
nella sua isola:
“Cenere” (1904), “L’edera” (1906), “Canne al vento” (1913), “Marianna Sirca” (1915), “L’incendio
dell’uliveto” (1917), “La madre” (1919)
Accanto a questi, considerati i romanzi maggiori e che sembrano far parte di un unico progetto letterario, c’è
una vastissima produzione di novelle e di altri romanzi. Nei trent’anni trascorsi a Roma, la Deledda condusse
una vita ritirata e semplice col marito e i due figli, suoi devoti collaboratori; non teneva conferenze, non
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partecipava quasi mai a ricevimenti o feste mondane e le rare volte che era costretta ad apparire in pubblico
conservava sempre un atteggiamento modesto e dimesso.
Grazia Deledda colpita fatalmente dallo stesso male di cui parla in uno dei suoi ultimi romanzi “La chiesa
della solitudine” morì per un cancro al seno a Roma il 15 agosto del 1936, lasciando alla pubblicazione
postuma “Cosima”, il suo romanzo più evidentemente autobiografico.
Il contenuto e la ricerca della sua opera sono rivolti sempre verso la realtà del costume contemporaneo; dove
per il particolare periodo l’istituzione della famiglia, che per millenni aveva retto le regole etiche della
società, entra in crisi. La scrittrice si sofferma soprattutto sulle lacerazioni interiori, di cui l’individuo diviene
vittima, fenomeno che acquista nell’ambiente sardo maggior vigore, poichè la legge morale degli avi è
fortemente inscritta nelle coscienze e assume il ruolo di un tabù religioso.
I personaggi di Grazia Deledda appaiono pervasi dall’orrore che il violare le leggi provoca, ma nello stesso
tempo non sono in grado, né vogliono resistere all’impulso dell’agire. La scrittrice non dà nessun giudizio
morale sui personaggi, ma vive con loro il tormento e lo affronta, Lasciando sempre al destino l’ultimo gesto
e parola.
Grazia Deledda mette spesso in luce un urto tra il vecchio e il nuovo, lo stimolo a trasgredire le regole
deriva da un cambiamento che può essere sociale, morale o derivante da un esperienza che porta il
protagonista a vedere con occhi diversi il mondo. La forza drammatica della narrativa deleddiana nasce dagli
episodi in cui la crisi delle coscienze esplode, portando alla luce l’unico principio etico positivo: il sacrificio
di sé.
Negli anni dell’apprendistato sperimenta varie scritture, alcune vicine al romanzo d’appendice, ma una volta
a Roma, dopo essersi lasciata alle spalle la Sardegna, la sua arte si manifesta pronta e matura: i suoi romanzi
appaiono perfetti nella loro scrittura così pulita e lineare, dove solo in alcuni punti vi sono delle concessioni
al dialetto sardo, come il verbo alla fine della frase.
Nei trent’anni trascorsi a Roma, la Deledda continuò sempre ad attingere dalla Sardegna, e l’essersi
allontanata dalla sua isola fece si che tutto le apparisse più nitido. L’isola diventa così un territorio mitico e
senza tempo dove si svolgono le grandi tragedie umane.
Grazia Deledda fu insignita del premio Nobel per la letteratura nel 1926, il suo fu un premio che creò
molto scalpore per diversi motivi; la sua formazione culturale, quasi esclusivamente autodidatta, la tematica,
grandiosa e profonda della sua opera, il fatto che fosse una donna ( prima di lei il Nobel lo aveva avuto solo
la scrittrice svedese Selma Lagerlòf) e non ultimo l’atteggiamento della scrittrice schivo e riservato,
estremamente distante dall’ambiente letterario italiano di quegli anni.
E’ passato molto tempo da quel Nobel, ma la sua opera appare più che mai attuale, i suoi romanzi, che per la
accurata regia dei drammi psicologici possono essere considerati tra i più grandi del patrimonio letterario
italiano, vengono purtroppo sistematicamente dimenticati. Si tratta di un grave caso di ignoranza letteraria. In
una libreria di una grande città, mi sono imbattuta in una commessa che mi ha detto: “Grazia Deledda? Non
la conosco, chi è?”
Spero che questo mio articolo possa far venire a te che leggi la curiosità di conoscere l’opera della scrittrice.
Grazia Deledda con un istruzione “scolastica” quasi assente fu insignita del Nobel grazie soprattutto alla sua
sconfinata passione per la lettura e per la sua forza di volontà; possa essere questo un monito per avvicinare
tutti, giovani e meno giovani alla lettura, porta di sapere e di libertà.
Elias Portolu viene pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia», dall’agosto al dicembre del 1900, esso è
il primo dei romanzi che Grazia Deledda scrive a Roma e dimostra come la scrittrice fosse già pronta e
matura in attesa del momento del grande passo; l’allontanamento dalla Sardegna, che le permise uno sguardo
più distaccato verso la sua isola.
Esso è anche il primo dei romanzi che si potrebbero definire maggiori, per la maggiore attenzione
all’indagine psicologica dei personaggi, che prevale sull’interesse folcloristico.
Nelle prime pagine del romanzo Elias è appena uscito dal carcere, dove era stato rinchiuso per un errore di
gioventù, in seguito incontra Maddalena, la promessa sposa del fratello, per la quale nasce un amore che è il
centro pulsante della narrazione. Questo sentimento appare colpevole sin da quando i protagonisti ne hanno
coscienza, tale consapevolezza indurrà una inevitabile catena di conseguenze negative che si concluderanno
con una morte.
Gran parte del romanzo è centrato sulla figura di Elias, che sia per l’aspetto fisico, sia per il carattere appare
molto diverso dal resto dei personaggi. Infatti è alto e pallido e tendente alla riflessione, mentre i fratelli sono
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tarchiati e scuri (e ci si potrebbe domandare se nella biblioteca della Deledda fosse presente “Il rosso e il
nero” di Stendhal) . Il lettore assiste allo svolgersi degli avvenimenti che inesorabilmente portano verso il
male, anche se il protagonista attraverso un grosso tormento interiore cercherà in ogni modo di arrestarli.
Preso da un vortice di avvenimenti al quale non può o non sa sottrarsi.
Protagonista (elemento ricorrente nella tematica deleddiana) insieme ai personaggi è l’ambiente naturale che
appare grandioso, ma non prevaricatore, muovendosi spesso in assonanza con i personaggi. Un esempio su
tutti la sconfinata tanca (parte della proprietà destinata al pascolo, solitamente quella più alta e meno fertile)
che è specchio dell’altrettanto sconfinato animo umano.
In questo romanzo come negli altri pur potendosi cogliere una qualche rassomiglianza con i russi
Dostoevskij e Tolstòj, la Deledda sembra ignorare tuttavia ogni tradizione letteraria, ella ritrae un ambiente
primitivo, un popolo diverso dall’umanità internazionale del romanzo europeo, ella ha un senso tutto
interiore della vita, è in questo appunto che appare più vicina ai Russi che a un Verga o ad un Fogazzaro
nell’eterna lotta tra il bene e il male.
Il dialogo di stampo sardo: con il verbo alla fine, e ha la semplicità di un mondo isolato e lontano che ben
rappresenta questa eterna lotta.
La scrittura infine riesce a mantenersi sempre limpida e pulita, evitando le facili banalità del romanzesco
riuscendo ad evitare la caduta nello scandaloso.
Fonte: Linutiledizioni
Su tricu de Marzu non du messas attu
Il grano di marzo non tagliarlo alto
Estratto da Elias Portolu
-3Lentamente i rumori si spensero, e tutto fu silenzio su quella specie di clan addormentato. Elias rientrò e si coricò a
fianco di Pietro, sullo stesso fascio di erba ch'esalava un acre profumo. Tutta la cumbissia era sparsa di giacigli erbosi;
qualche fuoco brillava ancora, spruzzando tremuli chiarori rossastri su quel vasto quadro silenzioso: si vedeva or sì or
no una lunga barba, un costume lanoso, un volto di donna, una sella, un cane accovacciato accanto ai focolari, un fucile
appeso alla parete. Elias non poteva dormire; e gli pareva di respirare l'alito di Maddalena, coricata fra zia
Annedda e zio Portolu, e continuava a sentire un disperato desiderio di lei; ma lo combatteva.
«No, non temere, fratello mio», diceva mentalmente rivolgendosi a Pietro, «anche se essa venisse a gettarmisi fra le
braccia, io la respingerei. Non la voglio: è tua. Se fosse di un altro, anche a costo di tornare in quei luoghi, gliela
toglierei; ma è tua: dormi contento, fratello mio. Anch'io prenderò moglie, presto, subito. Chiederò Paska, la figlia del
priore.»
«Ebbene», pensava poi, «sono un idiota. Che bisogno c'è di prender moglie, che bisogno c'è di pensare alle donne? Si
può vivere anche senza le donne. Oh che non sono vissuto tre anni senza neanche vederne? Forse è per questo che,
appena tornato, la prima che vedo mi fa innamorare? Ma io sono un matto: lasciamo star le donne, che fanno diventar
matti. Dormiamo.»
Ma si voltava e rivoltava, e non poteva dormire. Così passò quasi tutta la notte, e fu anche fra i primi a svegliarsi. Dal
finestrino aperto su uno sfondo argenteo penetrava la frescura rorida dell'alba; zia Annedda e Maddalena, ancora
assonnate, preparavano già il caffè. Elias si sollevò, pallido come un cadavere, coi capelli arruffati e la gola chiusa.
«Buon giorno», disse Maddalena sorridendogli. «Guardate, zia Annedda, vostro figlio ha in volto il color della cera.
Dategli subito subito il caffè.»
«Stai male, figlio mio?»
«Credo di essere raffreddato», egli disse con voce rauca, raschiando. «Datemi da bere. Dov'è la nostra brocca?»
Cercò, prese la brocca e bevette molto, avidamente. Maddalena lo guardava e rideva.
«Perché ridi?», diss'egli deponendo la brocca. «Perché bevo appena alzato? Vuol dire che ieri sera mi sono ubriacato.
Ebbene, il vino è fatto per gli uomini.»
«Tu non sei un uomo», intervenne zio Portolu, che aveva già bevuto dell'acquavite, «tu sei un bamboccio di
formaggio fresco; basta che una donnicciuola ti soffi addosso, puf..., perché tu sii atterrato, morto, disfatto.»
«Ebbene, sia pure», disse Elias, indispettito, «basti che una donnicciuola mi soffi addosso perché io caschi morto, ma
lasciatemi tutti in pace.»
«Ah, che terribile malumore ti opprime!», esclamò Maddalena. «Forse perché ci sono io?»
«Sì, precisamente, perché ci sei tu.»
«La colomba!», gridò zio Portolu, aprendo le braccia. «La colomba che rallegra i luoghi dove passa. E mio figlio,
questo bamboccio dagli occhi di gatto, dice che lo mette di malumore? Va, va, va, fammi il piacere, va via, figlio del
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diavolo! Se sei di malumore, va e appiccati; ma certo è che tu a zio Portolu non porterai mai un'altra rosa come questa,
da rallegrargli la casa.»
Queste parole colpirono Elias al cuore; perché improvvisamente egli ricordò che Maddalena doveva andar ad abitare
nella loro casa, sposa di Pietro, fra poche settimane. Ah, quale martirio doveva essere! No, egli non avrebbe potuto
sottoporvisi.
«Bevi il caffè, figlio mio», disse zia Annedda. «Prendi questo biscotto, sta allegro ché siamo alla festa, e San Francesco
si offende se ci rattristiamo.»
«Ma io sono allegro, mamma mia, sono allegro come un uccello. Ohi!», gridò poi, volgendosi verso il focolare del
priore, «buon dì, Pasqua fiorita.»
Dopo ciò nulla d'interessante accadde quel giorno e l'indomani, nel focolare dei Portolu. La vigilia della festa arrivò
molta gente da Nuoro e dai paesi vicini; da Lula specialmente, per il sentiero erto, incassato nella montagna fra
luminose macchie di ginestra fiorita, scendevano lunghe file di donne vestite d'un costume un po' caricaturale, con la
testa esageratamente allungata da una cuffia sottoposta al gran fazzoletto frangiato, con le pesanti gonne d'orbace
cortissime, con lunghi rosari incatenati da strani ornamenti d'argento.
Anche i Portolu di Nuoro ebbero molti ospiti, ed Elias e Pietro furono tutto il giorno trascinati qua e là dai giovanotti
nuoresi venuti per la festa. Tutti si ubriacarono fino a perder la ragione, cantarono, ballarono, urlarono. A momenti
Elias pareva impazzito; rideva fino a diventar paonazzo, con gli occhi verdi, ed emetteva strane grida di gioia,
degli uaih lunghi, gutturali, trillanti, che parevano richiami di battaglia di qualche guerriero selvaggio.
Maddalena, che aiutava zia Annedda a preparare i pasti, a servire vino e caffè agli ospiti, ogni tanto lo guardava di
traverso e mormorava:
«È molto allegro vostro figlio, zia Anné, guardate come è rosso. Come ride!».
Zia Annedda guardava Elias, sospirava e si sentiva una spina nel cuore; e un momentino che ebbe tempo, entrò in
chiesa e pregò.
«Ah, Santu Franziscu meu, San Francesco bello bello, toglietemi questa spina dal cuore. Elias, il figliuolo mio, sta
ritornando nella mala via: ecco che egli si ubriaca, che si strapazza, che non è più quello. E pareva così buono al suo
ritorno, e prometteva tante cose! Abbiate pietà di noi. San Francesco mio, piccolo San Francesco mio, fatelo rientrare
nella buona via, convertitelo voi, distaccatelo dai vizi, dai cattivi compagni, dalle cose del mondo. San Francesco,
fratellino mio, fatemi questa grazia!»
Il gran Santo severo, quasi truce, ascoltava dall'alto del suo altare rozzamente adorno di fiammanti fiori d'ogni mese. E
parve esaudire la preghiera di zia Annedda, perché quella sera stessa, a cena, Elias manifestò una sua idea. Si parlava di
prete Porcheddu: alcuni lo criticavano, altri lo deridevano.
Elias, ancora ubriaco è vero, ma non molto, prese a difendere il suo amico, poi disse:
«Ebbene, abbaiate pure, cani rognosi, sparlate pure, egli s'infischia di voi, egli sta meglio del Papa. E anch'io mi farò
prete».
Tutti risero. Egli disse:
«Perché ridete voi, pezzenti morti di fame, cani rognosi, animali, che altro non siete? Ebbene, sì, mi farò prete: e cosa ci
vuole? il latino lo so leggere. E spero di portare a voi tutti il viatico e di sotterrarvi morti di fame».
«Anche a me, fratello mio?», gridò Pietro.
«Sì, anche a te.»
E Maddalena:
«Anche a me?».
«Anche a te!», gridò Elias, inferocito. «E a te perché no? Perché sei una donna? Per me donne e uomini sono la stessa
cosa, anzi le donne sono più spregevoli degli uomini.»
«Tutto questo non importa», disse zio Portolu, che ascoltava con molta attenzione le parole d'Elias. «Torniamo
all'argomento. Dunque tu ti faresti prete?»
«Pare così!», gridò Elias versandosi da bere. «Bevete, bevete, versate, trinchiamo.»
Vennero colmati i bicchieri.
«Piano, piano», gridò zio Portolu, fra l'allegria generale, «ragioniamo, prima di bere...»
«Chi non beve non è uomo, babbo mio», disse Pietro, ripetendo l'assioma tante volte pronunziato da suo padre. Ma
questi s'adirò sul serio, e più che gridando disse:
«Anche le bestie ragionano, figlio del diavolo! E tu rispetta tuo padre, e ringrazia la presenza di questi amici e di questa
colomba, altrimenti ti darei tanti schiaffi quanti capelli hai sulla testa».
«Bumh! Bumh! zio Portolu! Questo poi è troppo! Ad uno sposo parlare così!»
«Maddalena mia, io sono morto se non mi aiuti», gridò Pietro ridendo.
«Colomba, aiutalo!», disse zio Portolu con ironia; poi si volse di nuovo ad Elias e lo interrogò se davvero aveva
parlato sul serio. Ma Elias beveva, rideva, gridava, e non rispose a tono, e l'annunzio del suo bizzarro disegno era già
svanito fra la rumorosa allegria dei convitati.
Ma qualcuno l'aveva accolto con trepidanza: zia Annedda. Essa taceva, un po' per compostezza, un po' perché non
riusciva ad intender bene quello che si diceva, ma guardava intorno con occhi attenti. Maddalena le avvicinava ogni
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tanto il viso all'orecchio, ripetendole questa o quell'altra cosa: zia Annedda assentiva col capo e sorrideva. Ah, se Elias
avesse parlato sul serio! Ma era mai possibile? Un miracolo così grande! Ah, ma San Francesco poteva fare quello ed
altri miracoli. Elias era ancor giovine, poteva studiare, poteva riuscire. Ed era quella la sua via, la via del Signore,
perché se egli restava nel mondo era un giovine perduto. Zia Annedda pensava così, perché conosceva il suo figliuolo.
Un momento ch'ebbe tempo, ella entrò in chiesa per ringraziare il Santo dell'idea mandata ad Elias. Era notte; le
lampade oscillavano davanti all'altare, spandendo ombre e luci tremule nella chiesa deserta: il gran Santo, cupo, pareva
assopito tra i suoi fiori d'ogni mese. Zia Annedda s'inginocchiò, poi sedette in fondo alla chiesa, pregando. Il suo
pensiero era sempre rivolto ad Elias: le pareva già di vedere il figliuolo sacerdote, le sembrava già di ricevere i doni di
frumento, le anforette di vino turate con fiori, le torte e i gattòs6 che gli amici avrebbero regalato al prete novello.
Mentre così sognava e pregava, vide entrar Maddalena. La giovinetta veniva a cercarla, le si accostò e le sedette
accanto.
«Ah, siete qui!», disse. «Vi cercavamo, ma io ho pensato subito ch'eravate qui.»
«Verrò fra poco.»
«Resto qui anch'io un poco.»
Tacquero. Dal cortile arrivavano confusi rumori, canti e melodie melanconiche, vibranti nella notte pura. Una voce
armoniosa di tenore cantava in lontananza, tra il coro triste e cadenzato dell'accompagnamento vocale dei canti nuoresi.
E quei canti nostalgici e sonori che parevano impregnati della solenne tristezza della brughiera, della notte, della
solitudine, salivano, si spandevano, attraverso i rumori della folla riempiendo l'aria di fiori di sogni.
Maddalena ascoltava, presa da un senso profondo di tristezza. Or sì, or no, le pareva di riconoscere quella voce. Era
Pietro? Era Elias? Non sapeva, non sapeva, ma quella voce e quel canto corale, sfumati nella notte, le davano una
voluttà di tristezza quasi morbosa. E zia Annedda continuava nel suo sogno, nella sua preghiera, senza accorgersi che
Maddalena le fremeva e palpitava accanto come davvero una colomba in amore.
Ma ecco, improvvisamente, i pensieri delle due donne sospesero il loro corso; un uomo entrava e si avanzava con passo
incerto verso l'altare. Era la figura che occupava tutta l'anima loro: Elias. Elias s'inginocchiò sui gradini dell'altare, con
la berretta gettata sull'omero destro, e cominciò a picchiarsi il petto, la testa, e a gemere sordamente. La luce rossastra
oscillante della lampada lo illuminava dall'alto, dando un lucido riflesso sui suoi capelli; ma egli non pensava che
potessero vederlo e continuava nel suo fervore doloroso a gemere e picchiarsi il petto e la fronte.
Le due donne guardavano, trattenendo il respiro, e zia Annedda si sentiva quasi felice del dolore di suo figlio.
«Egli si pente d'essersi ubriacato», pensava, «egli fa buoni propositi: che voi siate benedetto, San Francesco mio,
piccolo San Francesco mio.»
«Vieni, usciamo, egli potrebbe vederci e vergognarsi», disse sommessamente a Maddalena, tirandola fuori della chiesa.
«Cosa ha Elias?», domandò Maddalena, turbata.
«Si pente dello stravizio fatto; egli è molto devoto, figliuola mia.»
«Ah!»
«Qualche volta è impetuoso, ma è un giovine di coscienza, figliuola mia. Ah, molto di coscienza.»
«Ah!»
«Sì, molto di coscienza, figliuola mia. Egli può essere indotto alla tentazione, perché tu sai che il diavolo è sempre
all'erta intorno a noi, ma Elias sa combatterlo e morrebbe prima di commettere un peccato mortale. A volte la tentazione
lo vince in piccole cose, come oggi; tu hai veduto come si è ubriacato e come ha parlato male; ma poi egli si pente
amaramente.»
«Ah!», disse Maddalena per la terza volta; e non sapeva perché, ma si sentiva gli occhi arsi dalle lagrime.
Attraversarono il cortile e rientrarono nella cumbissia, dove zio Portolu, Pietro e gli amici, seduti per terra attorno al
focolare, cantavano e giuocavano. Maddalena sedette nella penombra, accanto al finestrino, seria e composta più del
solito; Pietro le andò vicino e la guardò intensamente.
«Sei seria, Maddalena. Perché? Hai veduto Elias? Ti ha detto qualche cosa?»
«No, non l'ho veduto.»
«È di malumore, Elias. Lascialo dire, sai, non badargli; egli tratta tutti così.»
«Ma non m'importa!», ella esclamò con vivacità. «Eppoi egli non mi disse nulla di scortese.»
«Eppoi tu sei prudente! Non è vero che sei prudente?», disse Pietro tutto carezzevole, passandole una mano sulle spalle.
«Lasciami!», diss'ella di cattiva maniera. «Va e gioca.»
«No, io resto qui, Maddalena.»
«Va!»
«No!»
«Zio Portolu, dite a vostro figlio che ritorni a giuocare.»
«Pietro, figlio mio, lascia in pace la colomba. Vieni qui, subito! O vuoi che mi alzi col bastone e mi faccia obbedire?»
Pietro riprese il suo posto,
«Eh, eh, la vecchia volpe si fa obbedire!», disse qualcuno.
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Maddalena si volse tutta verso la finestra, e guardò di fuori, col pensiero ben lontano dalla scena rumorosa che le
si svolgeva alle spalle, i begli occhi smarriti in un triste sogno. Era una notte tiepida, velata; la luna navigava verso il
sud, in un lago di argentei vapori: i cespugli neri della brughiera, sfumati su sfondi cinerei, odoravano più del solito.
Maddalena pensava ad Elias; ed ecco, per la seconda volta, quasi evocata dalla inconscia suggestione di lei, la figura di
Elias le sorse davanti. Egli passò sotto la finestra; s'allontanò in quel chiarore vaporoso di luna. Dove andava? Dove
andava egli? Maddalena sentì un fiotto di lagrime salire agli occhi e un fremito percorrerle le viscere e gonfiarle la gola.
Avrebbe voluto gettarsi dalla finestra, correr dietro ad Elias, e avvolgerlo e soffocarlo con la sua passione. Ma egli
sparve, lontano, ed ella ingoiò segretamente le sue lagrime. Elias aveva fatto il suo voto, aveva detto mentalmente a suo
fratello:
«Dormi contento, Pietro, fratello mio; ella è tua, e se anche venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei».
Sfumati i vapori del vino, egli si sentiva forte, e dopo la crisi che lo aveva trascinato ai piedi del Santo, quasi allegro.
Tutti i disperati progetti che fermentati dai liquori e dagli sguardi di Maddalena, gli avevano turbinato quel giorno nel
cervello - l'idea di farsi prete, l'idea di chieder in isposa la figlia del priore - tutto era svaporato con l'ebbrezza. Ora si
sentiva calmo, non solo, ma anche un po' vergognoso di quanto aveva pensato e detto durante quella giornata torbida.
Andò a guardare i cavalli, che pascolavano tranquilli alla luna, li fece abbeverare, poi ritornò verso la chiesa.
«Domani si ritorna», pensava. «Posdomani via all'ovile. Resterò dei mesi interi fuori di città, con mio padre, con quel
semplice di Mattia, con gli amici pastori. Che bella vita! Quando sarò solo, laggiù, tutti questi giorni, tutte queste
sciocchezze mi parranno un sogno. Eh, le feste son belle e i Santi son buoni, ma il vino, la gente, lo spasso, accendono
il sangue, e se uno non è savio molto, ma molto, può commettere grandi errori ed essere indotto in tentazione. Ah, bene,
ora vado e mi corico e dormo, perché la notte scorsa non ho riposato per nulla; poi domani... via... e posdomani si va
lontano, lontano. Eh, Elias Portolu, avresti paura di te?... Ma che mai vedo, lì? un uomo che dorme sotto quel cespuglio;
no, non è un uomo; cosa è dunque? Sì, è un uomo... oh, prete Porcheddu!...»
Si chinò pieno di meraviglia, e scosse il dormiente.
«Ehi, ehi, prete Porcheddu! E cosa è questo? Perché è qui? non sa che quest'aria le potrebbe far male, e che ci sono delle
biscie e degli insetti fra l'erba?»
Dopo molte scosse vigorose prete Porcheddu si svegliò tutto sgomento, stentò a riconoscere Elias, spalancò più volte gli
occhi, ma finalmente si riebbe e si alzò.
«Eh, eh, sono uscito dopo cena, volevo passeggiare, ma pare mi sia addormentato.»
«Pare anche a me! Se non l'avessi veduta per caso, sarebbe rimasta chi sa fino a quando, e chi sa quanto spavento ne
avremmo provato, non vedendola tornare.»
«Non credere che abbia bevuto molto, caro mio, no. Sono uscito così, vedendo la luna, mi sono seduto qui. Eh, tu non
sai che io sono stato una volta poeta?»
«Oh! oh!»
«Vogliamo sederci un po' qui? Guarda che bella notte. Sì, sono stato poeta, ed ho stampato una poesia, ma siccome
questa poesia era d'amore, ebbene cosa mi fa monsignore? Mi manda a dire che la finisca, che queste non son cose da
farsi da un sacerdote.»
«E lei, prete Porcheddu?...»
«E io ho smesso. Figliuolo mio, io so che tu mi hai giudicato un matto...»
«Prete Porcheddu!»
«...un matto, ma sono un matto che non fa male a nessuno, e tanto meno a se stesso. Ho saputo sempre vivere, sono
stato allegro, ma prudente. Così, quella volta, ho smesso, ma mi è rimasta l'abitudine, talvolta, di fantasticare. Guarda
che bella notte, figliuolo mio. È una di quelle notti che invitano a pensare, a riandare nella propria vita, a pentirsi
del mal fatto, a far buoni propositi per l'avvenire. Tu sei intelligente, Elias Portolu, non sei un pastoraccio
qualunque, ed hai studiato e sofferto, e puoi capire queste cose.»
«È vero», disse Elias con voce profonda.
Prete Porcheddu, col viso rivolto al cielo, guardava la luna: anche Elias sollevò gli occhi, guardò lassù: si sentiva
stranamente intenerito.
«Ecco, figliuolo mio», continuò l'altro, «tu intendi tutte queste cose. Io ho capito che sei intelligente, e tu guardi la luna
non per indovinare le ore, come tutti i pastori, ma con un sentimento alto, solenne.» Elias, nonostante, non capì bene
queste ultime parole. «Anche tu, forse, sei un po' poeta, e potresti fare poesie d'amore...»
«Questo no, prete Porcheddu.»
Prete Porcheddu tacque un poco, pensoso, grave: poi mormorò una quartina in dialetto. Era una invocazione al mese di
maggio.
Maju, maju, bene eni,
Cun tottu sole e amore,
Cun sa parma e cun su fiore
E cun sa margaritina...7
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Ed Elias non cessava di guardare la luna domandandosi se sarebbe stato buono a comporre una poesia per... Maddalena.
Ah, ecco che egli si dimenticava, e che il demonio riprendeva il suo dominio! Ma la voce di prete Porcheddu risuonò,
un po' grave, un po' tremula, sommessa eppur vibrata in quel gran silenzio di luna velata, di brughiera deserta odorante.
«Tu guardi la luna, Elias Portolu, tu pensi di fare una poesia... Ecco che ho indovinato, io. Tu sei innamorato.»
«Prete Porcheddu!...», disse Elias spaventato, chinando la testa.
Sentì d'un colpo che quell'uomo che gli stava accanto possedeva il suo doloroso segreto: e arrossì di vergogna e di
collera. Avrebbe voluto gettarsi sopra prete Porcheddu e strozzarlo.
«Tu sei innamorato di Maddalena. Eh, non farti rosso, non adirarti, figliuolo mio. Io l'ho indovinato, ma non
spaventarti, non credere che tutti capiscano le cose come le capisce prete Porcheddu. Ebbene, che vergogna c'è? Essa
una donna, e tu sei un uomo, ed essendo un uomo sei soggetto alle passioni umane, alle tentazioni, direbbe zia Annedda
tua madre. La vergogna non sta in ciò, figlio mio; sta nel non sapersi vincere. Ma tu ti vincerai. Maddalena...»
«Parli piano...», disse Elias.
«Maddalena è per te una cosa sacra. Guardandola è come se tu guardassi una Santa: tu l'hai capito, non è vero?»
«Io... io l'ho capito...», mormorò Elias.
«Benissimo, tu l'hai capito: l'ho detto io che sei intelligente! Vedi, perché Dio ha creato il giorno e la notte? Il giorno
per dar agio al demonio di combattere contro di noi; la notte perché possiamo raccoglierci in noi stessi e vincer le
tentazioni. Le notti come questa son fatte per ciò, perché in queste notti così calme, nel silenzio dobbiamo specialmente
pensare che la vita nostra è breve, che la morte viene quando meno si pensa, e che di tutta la nostra vita non portiamo
davanti al Signore che le nostre buone opere, il dovere compiuto, le tentazioni vinte.»
«E la poesia, allora?», chiese Elias, sorridendo a fior di labbro. E pareva lieto di coglier prete Porcheddu in
contraddizione, ma la sua voce era turbata.
«La poesia bella è la voce della coscienza quando ci dice che abbiamo fatto il nostro dovere. Eh, cosa ne dici, Elias
Portolu?»
«Io dico che è vero.»
«Benissimo. Allora possiamo andare. Comincia a far umido, eppoi tu mi hai detto che ci sono le biscie. Eh, eh, dammi
la mano, aiutami ad alzarmi... Eh, io non ho vent'anni per saltare come te. Bravo, grazie; ora lascia che mi afferri a te.
Cosa ne dici di prete Porcheddu?», chiese poi, prendendo il braccio di Elias. «Esso è un matto, può ritirarsi tardi, bere,
cantare, gettare il pane ai cani, ma non è cattivo. La coscienza, soprattutto la coscienza, Elias Portolu, ricordati della
coscienza! Ah, cosa vedo lì? Una cosa nera, guarda, sarà una biscia?»
«No, è uno sterpo.»
«Vedendoci ritornare così, crederanno che io sia ubriaco. Ma non m'importa nulla perché non lo sono. Credi tu ch'io lo
sia?»
«Oh no!», gridò Elias con impeto.
«Bene, allora ricorderai sempre quanto ti ho detto!»
«Lo ricorderò.»
«Io amo la tua famiglia», cominciò prete Porcheddu, ma tosto si pentì di queste parole, cambiò abilmente discorso e per
tutta l'ora che rimase con Elias non tocco più quell'intimo argomento.
Il nome di Maddalena non fu più pronunziato: ma oramai Elias si sentiva un altro, forte, calmo, quasi freddo, deciso a
lottare fieramente contro se stesso. L'indomani mattina partenza. Il priore vecchio aveva consegnato lo stendardo, la
nicchia e le chiavi al priore nuovo, sorteggiato il giorno prima; la prioressa aveva diviso il pane e le provviste avanzate
e l'ultima caldaia di filindeu8 tra le famiglie della grande cumbissia. Fin dall'alba cominciarono i preparativi per la
partenza: furono caricati i carri, sellati i cavalli, colmate le bisaccie. Si partì dopo la messa; e il nuovo priore richiuse il
portone. Le stanzette, la chiesa, le macchie ritornarono deserte, adagiate sullo sfondo azzurro delle solitarie montagne.
Addio. L'assiuolo riprende il suo grido prolungato, cadenzato, vibrato nel silenzio infinito delle macchie. Nelle notti
fragranti di lentischio, nei lunghi giorni luminosi, esso è il re della solitudine, esso solo impera, e il suo grido
melanconico pare la voce sognante del paesaggio. Addio. I cavalli trottano, galoppano, scendono e salgono per i verdi
avvallamenti della montagna; la buona e fiera tribù dei parenti e dei devoti di San Francesco torna alla sua piccola città,
lassù, dietro le fresche chine dell'Orthobene, torna al suo lavoro ai suoi ovili, alle sue messi, alla sua vita dura. La festa
è finita.
Zio Portolu recava zia Annedda in groppa al suo cavallo, e Pietro la sua fidanzata. Elias questa volta galoppava fra i
primi della carovana; anche lui spesso si slanciava alla corsa, con le narici frementi e gli occhi accesi come inebbriato
dal vento tiepido e profumato che agitava le macchie fiorite e gli passava sul viso con forti carezze. In fondo era serio
però: non cantava, non gridava, come gli altri, e non volgeva neppure lo sguardo a Paska, la figlia dell'ex priore, alla
quale spesso si trovava vicino. Paska non mancava di dargli qualche tenero benché timido sguardo, ma egli pensava:
«Perché devo ingannar qualcuno, e tanto più una fanciulla innocente? No, non devo ingannar nessuno, e tanto meno me
stesso».
Ricordava le parole di prete Porcheddu, e i buoni propositi fatti la notte prima: quindi non badava a Paska, s'allontanava
da Maddalena e, senza averne coscienza, cercava fuggire se stesso, inebbriandosi innocentemente nel galoppo e nelle
corse del suo agile cavallo.
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La cavalla seguita dal puledrino era montata da zio Portolu e da zia Annedda: Pietro e Maddalena avevano un cavallo
molto mansueto, magruccio e deboluccio. Venivano quindi gli ultimi, e zio Portolu non cessava di badare a loro. Verso
mezzogiorno si arrivò all'Isalle; secondo l'uso si smontò laggiù, per desinare, sotto un gruppo d'alberi, fra rocce coperte
di musco fiorito, in riva all'acqua corrente. L'accampamento fu presto fatto; sorsero i fuochi, giraron gli spiedi, furono
imbandite le mense. Il meriggio era dolce; grandi, alte macchie di oleandri sorgevano lungo l'acqua corrente, immobili
nell'aria calda; in fondo alla valle le messi splendevano al sole. La nicchia col piccolo San Francesco fu deposta per
terra, sopra un grande fazzoletto disteso; e dopo il pasto uomini e donne vi si affollarono intorno,
inginocchiandosi, baciandola e deponendovi dentro un'offerta. Pietro venne con Maddalena, e più per esser
veduto da lei che per devozione, mise una grossa offerta dentro la nicchia; poi venne zia Annedda, poi Elias, che si
trattenne alquanto, rivolgendo al piccolo Santo gli occhi pieni di preghiera. Ah, egli si sentiva di nuovo smarrire; il
caldo, il torpore di quel meriggio sereno, il vino, la presenza di Maddalena lo tormentavano aspramente. Ma il piccolo
Santo ascoltò la sua preghiera e gli diede il coraggio di allontanarsi e di coricarsi in riva all'acqua, sotto gli oleandri,
solo: solo e forte contro la tentazione.
Nell'accampamento le donne chiacchieravano, prendendo il caffè e rimettendosi in ordine per la partenza: gli uomini
cantavano o tiravano al bersaglio. Elias sentiva gli spari tuonare, percorrer la valle, ripetersi nelle verdi lontananze e
tornar rimbalzati dall'eco: sentiva voci lontane, sfumate nella quiete meridiana; il gorgheggio di qualche fringuello, il
mormorio dell'acqua corrente; e i suoi sensi si calmavano nella prima dolcezza del sonno, quando una visione gli
apparve. Era Maddalena scesa a lavarsi. Nel vederlo ella non si turbò, anzi gli si avvicinò, gli si chinò sopra... Ah,
troppo! troppo! I suoi occhi lo incantavano, ardenti, fatali. Egli ricordava il suo voto: «Pietro, fratello mio, anche se ella
venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei...». Ma provava un affanno, un delirio che lo soffocava e lo
accecava: avrebbe voluto fuggire e non poteva muoversi, ed ella gli stava vicina, e i suoi occhi socchiusi, ardenti sotto
le larghe palpebre, e le sue labbra e i suoi denti gli facevano perdere la coscienza.
«Maddalena, amore mio...», mormorò, ma tosto si pentì e si mise a gemere di passione e di dolore. «Pietro, fratello mio!
Pietro, fratello mio...»
Si svegliò tremando: era solo e l'acqua mormorava, e gli uccelli gorgheggiavano; ma non si udivano più né spari, né
voci. Si alzò: quanto tempo aveva dormito? Guardò il sole e il sole declinava. Tutti erano partiti, ma a guardia del
cavallo di Elias restavano due pastori ai quali la carovana, in cambio dei latticini ricevuti, aveva lasciato gli avanzi del
banchetto. Elias li ringraziò e partì. Il suo cavallo volava, e il moto e il pensiero di raggiungere presto i compagni,
dispersero l'impressione ardente e affannosa che il sogno gli aveva lasciato. Dopo quasi un'ora di corsa vide zio Portolu
e zia Annedda, Pietro e Maddalena, fermi sui loro cavalli, sull'alto di una china. Lo aspettavano forse? Gli altri eran già
lontani.
«Ebbene?», gridò dal basso.
«Che il diavolo ti percuota», gridò zio Portolu, «dove ti sei indugiato? Dà il cavallo a tuo fratello, perché il suo s'è
arenato.»
«No, non glielo do.»
«Elias, figlio mio, obbedisci a tuo padre», disse zia Annedda.
«No», rispose Elias indispettito. «Mi avete lasciato laggiù come un asino; non lo do.»
«Bene, prendi tu allora per un tratto Maddalena: così non si può andare», disse Pietro.
«Ah, Pietro, cosa tu dici», gridò fra sé Elias; e si pentì di aver negato il cavallo, ma non poté più rifiutare, e neppure
poté reprimere in fondo a sé un senso di gioia.
Ma quando sentì, nella discesa, il morbido busto di Maddalena abbandonato un po' troppo, come nel sogno, sulle sue
spalle, e il braccio di lei un po' troppo stretto alla sua cintura, egli, che credeva nei sogni, ricordò il suo, e stette all'erta.
Portati dal forte cavallo, a momenti, fra le giravolte e le alture e i sentieri incavati nella roccia e coperti di
cespugli fioriti, Elias e Maddalena si trovavano soli, silenziosi, stretti, avvolti nel loro triste amore. Vi fu un
momento nel quale Maddalena, natura appassionata e debole, non poté vincersi.
«Elias», disse con voce un po' tremante, «scusami se ti do noia!»
«Oh!», diss'egli scrollando il capo.
«L'anno venturo condurrai in groppa al tuo cavallo la tua sposa...»
«La mia sposa?»
«Sì, Paska. Allora sarai contento.»
«E tu non sarai contenta?»
«Oh, io sarò morta...»
«Morta!... Maddalena!...»
«Morta... alla vita... all'amore, voglio dire...»
Non solo la sua voce tremava, ma tremava anche la sua mano, posata sulla cintura di Elias, e tutta la sua persona
abbandonata sulle spalle di lui. Anche lui vibrò tutto come una corda spezzata, e un'ombra gli velò gli occhi: era la
stessa angoscia, la stessa ebbrezza del sogno.
«Maddalena...», mormorò, stringendole la mano; ma tosto s'irrigidì, e disse a voce alta: «mi pareva che tu cadessi; sta
dritta, sta in equilibrio».
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Nell'anima gli risuonavano forti, insistenti le parole di prete Porcheddu; e il suo voto non gli usciva di mente.
«Sta tranquillo, Pietro, fratello mio; anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei.»
Nuoro era vicina, lassù, dietro l'orlo della valle illuminato dal sole calante. La carovana ferma là in alto, sui cavalli
stanchi e sudati, lucenti sullo sfondo d'oro del cielo, aspettava che tutti giungessero, per rientrare uniti in paese e girar
tre volte a cavallo attorno alla chiesetta del Rosario, la cui campana squillava già, lontana, argentina, salutando il ritorno
del piccolo Santo (…) .
SISTEMA BIBLIOTECARIO DELLA SARDEGNA
Pier Paolo Saba
Il culto delle acque
Ipotesi sulle pratiche rituali legate al Culto dell'acqua nei magici rituali della Sardegna.
Brevi accenni sul Culto dell'acqua nel mondo, prima di immergerci nei magici rituali della Sardegna.
Dei quattro Elementi, l'Acqua, è quella sostanza che, in qualche modo li contiene tutti.
Quello che potrebbe sembrare un paradosso, riferito al fatto che l'acqua non può contenere il fuoco, è oggi un mito
oramai sfatato. dal momento che una recentissima scoperta scientifica ha dimostrato che l'acqua si incendia...
Si l'acqua è infiammabile! Lo afferma uno scienziato americano che dopo la scoperta è stato contattato dall'Alto
Comando Militare (USA) affinché collabori strettamente con loro (come sempre). La scoperta è avvenuta in seguito a
degli esperimenti in campo Bio-Genetico quando si tentava di bombardare alcune cellule cancerose con le onde radio a
bassissima frequenza. Improvvisamente il liquido che le conteneva investito dai raggi delle micro onde, si è
letteralmente incendiato bruciando sino a scomparire senza lasciare tracce.
Lo strano fenomeno ripetuto più volte. ha attestato che l'acqua, quindi, è infiammabile.
Questa inusitata sbalorditiva scoperta, ha sfatato quindi il luogo comune che vuole l'acqua, ignifuga, potendosi
trasformare, sì in vapore, ma solo con l'ebollizione. Dal momento che, contrariamente, si è dimostrato che si possa
incendiare. L'aspetto paradossale, si dissolve come la stessa acqua usata nell'esperimento, pertanto, come dicevo, questo
Elemento contiene in parti “indefinite” tutte le sostanze che lo rende simile, anzi uguale agli altri Tre Elementi.
Fin dalle origini, l'Acqua, è stato il veicolo principale che ha creato e permesso la vita.
Questo Elemento indispensabile alla sopravvivenza è quello che fin dai tempi più remoti, l'uomo, ha tenuto nella
massima considerazione come un dono divino, al quale lo ha accostato. Naturalmente questo dono prezioso ha
contribuito, associandolo ad una divinità, a creare dei riti che si sono poi tramandati alle leggende giungendo fino a
nostri tempi.
L'Acqua è servita ai lavacri rituali, oltre che all'uso dell'igiene personale, dalla quale ha attinto, per presentarsi dunque
puliti e “candidi” innanzi al Dio invocato.
A questo punto, è chiaro che si sia creato un culto vero e proprio, un culto che prevede degli obblighi da seguire come
rituale specifico. Questo fenomeno che ha catturato la fantasia dell'uomo sin da allora, si è manifestato nel mondo intero
sebbene nelle forme più disparate...
In ogni latitudine si è osservato che l'uso rituale dell'acqua è stato sempre usato ed un esempio classico moderno, è il
Gange, in India. Lo stesso rituale è manifesto nel battesimo Cattolico Cristiano, nel lavaggio dei piedi usato dai
Musulmani prima di entrare alla Mecca, ma questi esempi scivolano indietro nel tempo e ci riportano alle antiche
culture come la Sumera e Babilonese che, nell'area Medio Orientale, tra il Tigri e l'Eufrate ha coltivato per millenni usi
e costumi legati poi indissolubilmente all'acqua che i due grossi fiumi hanno alimentato la vita di quelle genti come la
stessa cultura Egizia che attraverso il Nilo, tuttavia non divinizzato, per gli effetti che produceva con il ciclico
straripamento delle acque, permetteva la continuità della vita elargita dal Dio – Hapy - ( Hapy; nome del Nilo dalla
traduzione geroglifica) che obbligava i suoi sacerdoti ad un rispetto ferreo dei rituali.
La casa - tempio del Faraone, era il luogo dove si celebravano i riti legati al Nilo: Nello stesso tempio, era situata una
immensa vasca dove il Faraone assistito di sacerdoti officiava ed implorava la divinità affinché soddisfacesse i desideri
e le preghiere dei fedeli.
Con un sofisticato sistema idraulico, l'acqua del Nilo era portata alla vasca dove periodicamente si eseguivano i riti così
officiati:
I sacerdoti che facevano corona intorno al Faraone, erano vestiti di una pelle di leopardo posta sopra la tunica bianca,
avevano la testa rasata, e quattro volte al giorno purificandosi con i bagni fungevano da intermediari tra i fedeli e la
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divinità MUT (dea della guerra e delle inondazioni) alla quale si incoccavano.
Oltre che in Egitto, lo stesso culto si diffuse poi, in tutto il mondo di allora, approdando a suo tempo a Roma la dove la
cultura egizia era stata importata. Roma, multietnica e culturalmente straordinariamente avanzata, era anch'essa legata
al culto delle acque come, d'altronde, tutte le città del mondo antico ci riporta in Sardegna, terra dove il culto era
piuttosto esteso e praticato sin dagli albori.
SARDEGNA MAGICA
IL CULTO DELLE ACQUE IN SARDEGNA
Oltre 12000 anni fa, alla fine delle glaciazioni, nel Wurmiano, genti provenienti dall'Africa, dalla Spagna e poi dalla
Liguria attraverso la Corsica che allora era ancora unita alla Sardegna in un unico “continente” chiamato Tirrenide o
Posidonia, così chiamato successivamente dai Greci, queste genti iniziarono a praticare dei riti legati al culto delle
acque.
Tale culto era collegato alla luna che rifletteva i suoi raggi sull'acqua, creando effetti fantasmagorici che impressionano
notevolmente officianti e fedeli, durante il plenilunio nelle notti tra Dicembre e Febbraio, a mezzanotte, quando la luce
della luna cade perpendicolare sullo specchio dell'acqua, il riflesso argenteo che risalendo le scale fuoriesce dal pozzo,...
lascia immaginare quale impressione potesse creare.
(Vedi studi di Edoardo Proverbio, Astronomo, e Carlo Maxia, Archeologo, due ricercatori dell'Università di Cagliari.)
Dai rilevamenti scientifici così rivelati, prendono finalmente corpo tante leggende legate a questo culto delle quali si
può estrarre un compendio su quanto succedeva, allora, durante i riti.
IL RITO
“Un ipotetico caso sullo svolgimento del rituale dell'acqua.”
L' imponente mastio di “Santu Antine” è illuminato a giorno, quella, la Regia Sacra dalla quale i Sacerdoti seguiti dal
Capotribù, dignitari, militari e popolo tutto in un corteo lunghissimo che si snoda fino al Pozzo Sacro, seguono il
Principe.
Sebbene il percorso sia brevissimo, il tempo sembra si sia cristallizzato, immobilizzato non passa più.. Il loro incedere è
lentissimo nonostante il clima, quella notte, non sia troppo clemente... Il freddo della notte, quello venuto da nordest è
molto pungente e graffiante, ma non incide più di tanto sui propositi che sono prefissi per quella notte e già da tempo
preannunciati.
Al seguito, musici ed officianti salmodianti, tutti con una torcia in mano, sfilando, creano un effetto surreale tale,
impressionante e fantastico.
Dentro e fuori, il Recinto Sacro antistante Il Pozzo, è gremito di gente che freme nell'attesa e fa da corona in due larghe
ali al corteo che si avvicina.
In piedi, un Sacerdote ed alcuni assistenti attendono il corteo con il Principe che assisterà al rito che si compirà tra
breve.
Un brusio generale si accende e si spegne all'istante alla presenza del capo che ha appena varcato la soglia dell'area
sacra....La fissità del suo sguardo volto al pozzo, all'ingresso, si volge improvvisamente al cielo dove la luna con la sua
luce splendente illumina gli astanti mentre si avvicina sempre più all'orifizio aperto sulla verticale del pozzo dove
lascerà cadere i suoi raggi.
A tre metri dal Sacerdote che lo aspetta, il Principe si ferma e si volta verso il suo popolo che intanto si è inginocchiato
reverente in segno di rispetto. Alzata la mano destra in segno di saluto e protezione, benedice tutti e voltatosi ancora si
pone innanzi all'altare che è stato allestito per l'occasione, altare sul quale, nel frattempo, era stato posto un animale da
sacrificare alla Dea Madre, la Luna, che, con i suoi raggi avrebbe rigenerato l'acqua, purificata poi, attraverso il
sacrificio che pochi stanti dopo si sarebbe compiuto in onore della divinità.
L'aureo colore del coltello di bronzo balenò per un istante alla luce lunare ed affondò profondamente nel collo della
vittima sacrificata, senza proferire un lamento, come fosse cosciente dell'importanza del suo ruolo in quella particolare
occasione...Mentre il sangue sgorgava a fiotti, il sacerdote ne raccolse una piccola parte in una ciotola e ne versò alcune
gocce nell'acqua del pozzo nell'istante che la luna immergeva i suoi raggi rigeneranti e purificatori sull'acqua tinta di
sangue che si dissolse in un istante mentre si compiva il Miracolo. La lama di luce argentea che si stagliò dal pozzo,
impressionò notevolmente la moltitudine che aspettava fremente il responso della divinità, la luce fantasmagorica che si
stagliò verso il cielo illuminando l'intera area e le genti che aspettavano, le fece esplodere in visibilio con un canto di
ringraziamento che preludeva allo sfarzoso banchetto organizzato in precedenza, già qualche giorno prima, nell'attesa
che si compisse il miracolo tanto bramato.
Alla conclusione del rito, il Principe, seguito dal corteo che lo aveva accompagnato, salutato il popolo tutto ed augurato
un felice e prospero futuro... si incamminò per tornare alla regia dove l'intera famiglia a dignitari vari lo aspettavano per
fare festa.
Intanto la stessa festa si consumava dentro e fuori il Sacro Recinto dove le genti si erano accalcate.
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Il vino ed altre bevande ricavate da cereali fermentati scorreva a fiumi quella notte, accompagnando le carni che erano
state arrostite e bollite poste in una marea di grossi bacili di pietra dove sul fondo, mirto ed altre erbe aromatiche
impreziosivano il gusto di quelle pietanze prelibate... Non mancavano formaggi di vario tipo, frutta fresca e secca,
abbondava insieme al latte freschissimo munto la stessa sera. Non mancavano neanche i pesci ed i frutti di mare di cui
erano golosi e per il fatto che il mare poi, non era troppo lontano dalla zona, naturalmente c'erano anche quelli pescati
nei fiumi e negli stagni dove abbondavano le anguille, anch'esse prelibatissime.
Una festa meravigliosa accompagnata da canti e suoni di tamburi e strumenti a fiato, flauti e Launeddas suonavano
ininterrottamente inebriando il pubblico che scioglieva i propri freni inibitori con abbondanti bevute, mentre la notte,
seppur freddissima, sembrava non esistesse intanto che scorreva lentissimamente ma, scaldata da enormi falò innalzati
per l'occasione e che continuavano ad ardere fin oltre il sorgere dell'alba, un alba nuova, un giorno nuovo carico di
buoni auspici portati dall'evento miracoloso verificatosi nell'istante del sacrificio, in quella notte appena trascorsa.
Appagati, finalmente, gradualmente tornarono tutti alle loro capanne.
Storie più o meno simili si sono alternate vicendevolmente nei tempi, così il culto dell'acqua è ancora presente
attraverso il battesimo nella Chiesa Cattolica. Il rito del battesimo ripete l'antico lavacro purificatore, infatti, esso ha
la funzione di lavare il peccato originale e di rendere “puro” il neonato, “Purificato” appunto.
Alla stessa maniera l'”Acqua Santa”con la quale ci si segna con la croce entrati in chiesa, ha la stessa funzione, cioè,
quella di presentarsi “puri” lavati simbolicamente, innanzi all'Altare.
Questo culto antichissimo, vediamo che è stato trasformato a suo tempo e riutilizzato dalla Chiesa Cattolica, come ha
sempre fatto, imponendo nomi cristiani a luoghi, città e paesi dove si praticassero antichi culti pagani con la scusante
della cristianizzazione.
Così facendo, con la trasformazione dei nomi molti dei luoghi, come detto, sono andati scomparendo almeno per
quanto i riti che anticamente si tenevano in determinate località.
E, ancora, Libri
Vedendo una manifestazione degenerare o una partita di calcio finire in rissa sugli spalti
quante volte ci si è chiesti da dove venga tutta quella violenza e perché sia uscita fuori? Quindi
FOLLA, FOLLIA, TUMULTI di Flavio D’Ambrosi e Francesco Barresi dà alcune risposte.
Certo non tutte, anche perché la folla è un continuo cambiamento, un costante mischiarsi di
situazioni, impressioni, pressioni psicologiche, fisiche. E gli autori, partendo da lontano, cioè dalla
Rivoluzione Francese, raccontano la folla e le Forze dell’Ordine in un viaggio letterario, filosofico,
psicologico ma anche quotidiano. Un viaggio di odori e sapori, di umori e attese, di delusioni e
piccole soddisfazioni, di paure e preoccupazioni. Ecco che FOLLA, FOLLIA, TUMULTI con
linguaggio piano e scorrevole prova a dare delle risposte non convenzionali e spesso inedite. Pur
essendo un saggio, sempre raccontato con partecipazione e voglia di mettersi in gioco, il libro è un
percorso a volte toccante a volte distaccato nel micidiale mix di folla e tutori dell’ordine. E la forza
del testo sta soprattutto nel fatto che gli autori, da operatori sul campo, conoscono bene l’argomento
di cui parlano senza sottrarsi. Insomma, in queste pagine non si è solo di fronte ad analisi
filosofiche o sociologiche ma a vita vera, vissuta. Dalla Rivoluzione Francese si passa per le
manifestazioni sindacali o per le gare sportive, soprattutto le partite di calcio, per giungere al G8 di
Genova. Il tutto proprio come un film del quale D’Ambrosi e Barresi sono interpreti, sceneggiatori
e registi.
Francesco Barresi, sociologo e criminologo. Docente del Master in Scienze Forensi all’Università La Sapienza di
Roma, dove svolge anche l’attività di ricerca da oltre sette anni. Esperto di aggregativi criminosi, sette sataniche e
terrorismo oltre che ideatore e organizzatore per i Sindacati di Polizia di corsi di criminologia presso la Questura.
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Libri pubblicati: Mafia ed Economia Criminale, Sette Religiose Criminali, Criminologia e Devianza.
Flavio D’Ambrosi, laureato in giurisprudenza e in scienze politiche. Commissario Capo della Polizia di Stato, ufficiale
addetto alla Difesa Nucleare-Biologico-Chimica, formatore alle Tecniche per i Servizi a Tutela dell’Ordine Pubblico e
docente di vari corsi d’addestramento per il personale. Attualmente è impegnato nel settore della Cooperazione
Internazionale di Polizia all’Ufficio Coordinamento e Pianificazione.
David Di Marco è un trentenne che
oltre a occuparsi degli altri, nel 1999 è stato in
Burkina Faso a costruire un dispensario. Scrive poesie, cosa abbastanza rara in questo mondo
impoetico tutto dedito all’immagine e poco alla parola, e Nervose Presenze è il suo primo libro che
già dal titolo espone la ricerca poetica di Di Marco incentrata sulla musicalità e sulla teatralità del
verbo. Un autore che non è andato, come sarebbe stato naturale, verso la poesia sonora ma ha creato
siparietti nella narratività poetica. Una poesia dunque piena di allitterazioni, accostamenti azzardati
e immagini forti che legano un passato mitologico a un presente sempre più ingombrante dove il
poeta deve stupire e conquistare se stesso prima del lettore, cosa che lo rende puro e vaticinante. Il
suo canto è un rap che, passando per il quotidiano, espone un magico passato che rende evidente la
difficoltà d’essere poeti nel terzo millennio.
La poesia può fare qualcosa? Può fermare il mondo che sta precipitando materialmente e
spiritualmente nel degrado? Secondo il poeta David Di Marco si! Lui ci prova coi suoi versi,
diamogli un po’ di credito, giusto un pochino.
David Di Marco è nato a Viterbo nel 1975. Laureato in lettere all’università La Sapienza di Roma, seguita
tuttora ad approfondire gli studi sulla poesia italiana e internazionale. Nel 1999 ha partecipato a una missione
umanitaria in Africa Occidentale. In Burkina Faso ha infatti collaborato alla costruzione di un dispensario
d’assistenza ai malati. Attualmente è impegnato nell’ambito della logistica-intermodale.
IRIS4 EDIZIONI - picc. soc. coop. a r.l. - direzione e redazione: 00184 roma - via s. vitale, 18 - telefax 0648930628 - p. iva 06640851009
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Salvatore Maresca Serra
La terra dei sogni
Abbiamo lasciato indifferente la terra dei sogni
cucendo una meccanica agonia dei sensi,
una cara toppa all’abito della festa
da cui il nostro corpo ormai lacero un tempo mostrava nudo
la pelle atea, ma poi ogni ignudo è stato vestito,
e niente si è più consumato,
la vista si è spenta smarrendosi
e lasciando spazio al buio della vita.
Al dolore abbiamo preferito la coscienza
e alla gioia dell’idiota abbiamo mozzato la lingua
così che non dicesse mai più il nome della vita,
e siamo scivolati verso la fine
senza più temere di non farcela,
noi, ragni laboriosi, eroi vecchi e stanchi di una guerra vinta e perduta,
e tante volte dimenticata
quante sono le ore di un giorno utile al mondo.
Nella bella tela abbiamo catturato solo rimpianti,
il nostro corpo si è nutrito fino a scoppiare,
e cosa abbiamo concluso, se non un viaggio nel vuoto.
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Se il mondo è infame la medaglia che ci appuntammo sul petto
ne è l’esatta misura,
e a quelli di noi che coltivarono il campo a mezzodì
col fiume inesausto del sangue
resta indelebile il miasma della nostra guerra, attaccato addosso come marchio.
E’ così che fummo uomini
con la paura di amare:
con l’osso del vicino facemmo banchetto e clava,
con la sua prole affilammo il coltello,
con la sua donna sputammo il furore dell’odio.
E’ così che fummo uomini
col nostro dio degli eserciti
che verso l’infinito marcia coi calzari dei morti.
Salvatore Maresca Serra ( Napoli 1956) vive e opera a Roma, L.A., Parigi, New York.
Pittore e Architetto http://it.video.yahoo.com/watch/776389 e
Musicista http://video.google.com/videosearch?q=Salvatore+Maresca+Serr... , poeta e scrittore. Già dirigente della
produzione televisiva e multimediale del Consorzio Nettuno TV. Curatore e divulgatore dei beni artistici e storici della
Provincia di Napoli, Critico e storico d'arte e opinionista politico su Gazzetta del Mattino, Gazzetta di Caserta, etc.
Presidente del Movimento d'opinione Giustizia Cristiano-Radicale, Presidente di Openheart Humanitarian Foundation,
Presidente di Banca della Salute, Fondatore e Presidente di Ippokrates Project, Presidente di Sanità Libera. E' autore di
numerosi saggi sull'arte, sulla società dei consumi, sulla comunicazione nelle società occidentali e sui problemi della
globalizzazione nei paesi sottosviluppati. Collabora con organismi mondiali per la pace nel mondo, per l'infanzia
abbandonata, per la ricerca scientifica finalizzata alla medicina, per l'alfabetizzazione informatica dei paesi del terzo
mondo. E' autore del progetto architettonico di una chiesa ecumenica a Roma attualmente allo studio del Vaticano. E'
prossimo alla pubblicazione "La Profezia del Terzo Giorno" - saggio-romanzo sulla storia del cattolicesimo nel rapporto
col potere temporale e spirituale. Lo studio delle scienze e tecnologie della comunicazione, nonchè il rifiuto di uno
status quo vecchio, obsoleto filosoficamente e degradato burocraticamente, lo hanno condotto a fondare e coordinare
Ippokrates Project - Università Telematica della Medicina e Ricerca Scientifica - una fondazione universitaria che
utilizza metodologie didattiche e corsi di Master e Laurea del tutto innovativi, attualmente in fase di pre start-up e di
raccolta di adesioni internazionali d'ogni tipologia, alla quale stanno partecipando tutti coloro che credono nel futuro di
una Università libera, portatrice di un nuovo sapere, fuori dalle logiche delle baronie e della politica.
Salvatore Maresca Serra apps.new.facebook.com
Giuanne Chessa
Entuglios
Ruios ifforros
de iscussinu.
Luzzana,
grae i su dossu
sa proenda.
Crapitos ass’acamu.
Aes inghirinimolina
i s’area.
Entuglios
nieddos,
a sa vera.
Cristiano Sias
La goccia
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La pallina di vetro
rotola sul ghiaccio
e non vuole l'amore.
Lei vorrebbe che fosse il contrario
finché non arriva il sole.
Così morirebbe correndo
giovane goccia di gennaio
luccicando cristalli
carezzata dal vento
S’avaru non gosada mai dei benis susu
L’avaro non gode mai dei suoi beni
Unu
contu de
Giampàulu Pisu
bincidori de su segundu prèmiu in su cuncursu literàriu ‘Anselmo Spiga’ 2008 de Santu Sparau (CA).
Sa scumissa
Scumiteus? Deu nau ca no fait.
Scumiteus? Dd’ia torrau a nai cun faci de disàfiu a Antoni.
Scumiteus ca arrenèsciu a andai e torrai a Terranoa in d-una dí a autostop?
Centu éurus po chi bincit sa scumissa. Aici fut incarrerada un’atra scumissa po mei.
Cun Antoni, amigu corali, scumitiaus asuba de ónnia cosa e chistioni. Candu contànt is disàfius nostus, po
chini no si connosciat a incarreru no ddus crediat ma is amigus ge-i ddu scidiant ita arratza de scuscentziaus
fiaus. In scola fiaus connotus po cudda brulla chi nd’iat fueddau po finas su giornali. Ma no iap’ ai mai crétiu
de mi depi arrepentiri de cussu giogu furriau a arrori.
Candu atressiaus is passadítzius de scola, bidellus e professoris si furriànt po si indidai a-i scusi a is collegas
nous, nosu ge si nd’acatiaus a su própiu. In scola ddui fut unu bidellu chi narànt ca fut unu pagheddu
macocu, unu maníacu.
Fut sempri inguni parau candu passànt is piciocheddas, e bortas medas ddas poniat in fatu. Sa genti naràt ca
bessiat a su noti a cassai canis e pisitus po ddus bociri e imbrassamai e ca in domu sua ndi teniat unus cantu
totu arringheraus a unu muru.
Su chi iat postu in giru custa boxi avatu de unu pagheddu de tempus nant ca fut sparéssiu: no dd’iant prus
agatau e nisciunus nd’iat scípiu prus nudda... Ómini mannàciu, de contomaxu mannu, sempri unu pagheddu
sudau, cun d-unu fragu de umidadi chi arregordàt sa folla pudescendu asuta de is matas de una tupa in
s’atóngiu. A nasu mannu unu pagheddu acancarronau che su de unu stori, sa bisura puru dexiat a sa boxi
arrungiosa, aspa e schilitosa.
Portàt sempri ullieras nieddas chi ddu fadiant assimbillai a unu boss de sa malavida. No fut po de badas chi
ddus portàt: cuànt un’ogu de imbírdiu chi castiàt sempri ananti, firmu. Fut cuss’ogu chi dd’iat fatu
guadangiai su logu de traballu. Ma fut s’atru ogu su chi atrudiat e poniat timoria: una ballina niedda sena de
pipia, sena de luxi, si intzertàt unu maliori sena de fini, che su sperefundu de una funtana, niedda, a crontas
bàscias, pronta a nc’ingurti abramida vidas notzentis.
Fut própiu una scumissa po chi iat a essi stétiu bonu a ddi fai abortzai una studenti chi iat fatu binci a Antoni
centu éurus e perdi su traballu a su bidellu po atus oscenus e tentau sfloramentu. E fut po-i custu chi su
bidellu airau iat giurau de si vengai torrendusí sa fúrria fadendusí prangi làmbrigas de surrúngiu. Atra borta
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Antoni, sempri po scumissa fut arrenésciu a fai sciundi su predi in d-una dí de ierru, candu a missa
incarrerada iat scopiau una bomba fumiosa, agoa iat tzerriau: – Agitóriu, agitóriu est pighendu fogu sa crésia,
totus a foras!
Aici mancai proi proi totus fiant curtus a foras che puddas curruladas de margiani, sciundendusí cola cola,
cun su portali de crésia fúmia fúmia. Po fai biri di essi arrenésciu in sa balentia mi depia ingolli sa màchina
fotogràfica e tirai una fotografia, cun mei a giornali de sa dí in manus ananti de Municípiu. Po binci depia
partiri e torrai a ora de luxi.
Sa dí stabilida, a is otu de mengianu, cun d-una pariga de éurus sceti in busciaca e a màchina fotogràfica seu
a s’oru de sa 131 a didu parau. Una màchina arrúbia, una croma noba si fírmat pagu ora infatu. Incarrèrat aici
su biaxi chi mi nci pòrtat finas a Aristanis, est a inní chi su rapresentanti de profumus est andendu a traballai
po fai su girixeddu de is profumerias.
Unu fragu forti no definiu aciúpat sa vetura e acumpàgiat is pagu chistionis chi si faint cun genti chi no si
connoscit, tanti po nci passai s’ora. Est sa scoada de s’ierru, sa dí est bella luxosa mancai frida. Oru oru de sa
bia su biancori de sa cilixia cuncòrdat sa coreta e su campidanu si sterrit ananti nostu.
Passaus is cúcurus e coddus de marmidda chi arregòrdant is titas de una fémina, arribaus apustis a su sartu
serrau de is montis de Mragaxori a una parti e prus ainnantis ancora, de stanis e mari a s’atra. Is terras
traballadas cun is atzas de is surcus funt che línguas sididas arringheradas s’una avatu de s’atra pedendu àcua
chi su sciutori de s’annada po imoi at dennegau. Is coddus, cun calincunu nuraxi acuguciau, anca is araus no
funt ancora arrenéscius a poni is farrancas, s’intrevèrant a su logu paris de campidanu arregordendusí ca seus
in Sardínnia.
De Aristanis finas a Abbasanta una màchina manna mi ndi líat, innoi sa castiada múdat cun tallus de brebeis
e feurra meris de su sartu totu cungiau a muru a bullu. Su sartu incarrèrat a si movi e ndi calu ca seu acanta e
in cumpangia de su nuraxi Losa chi càstiat de unus cantu millannus su tressígiu de is óminis afateriaus. A
s’ingruxadura po Núgoro arribu faci a mesudí (…)
Daniele D’Agostino
Da “Esprit Libre”
Capitolo XII
“Kazzo che botta”
Ormai le vacanze stanno per volgere al termine, quelle intese come ferie del capo tribù. Tra non molto
riprenderà la vita da sedentario funzionario d’ufficio con tutte le sue illusionistiche responsabilità e cariche
confidategli.
La mere ritornerà a fare la casalinga nella metropoli del far south, alle prese con i sacchi della spesa ed i
vestiti da collezione del nostro pseudostilista studente da tenere sempre lindi. La soeur riprenderà gli studi
universitari e le rare uscite sgasate coi coglioni colleghi persi per la strada dei dopo ventidue anni, che di
essere maturi al punto gusto ancora ci vorrà qualche anno luce.
E il nostro Pellegrino ritroverà la sua amata Fabiola Famoso e magari riscattarsi dalle settimane di
astinenza totale causa il Tirreno intero in mezzo ai piedi. E poi riprenderà pure la scuola, anche se ancora ci
sarà un mesetto e qualcosa in più, visto che le prime settimane sono sempre caratterizzate dalle belle giornate
di sole e uscite anticipate e incontri macro seducenti dei nostri raga, che avranno il compito di avvistare tutti
i cambiamenti e rifare le classifiche delle varie mignotte, insomma esserci o non esserci alla fine risulterebbe
la stessa cosa se solo ….
Il ferragosto passa nell’appartamentino di Hugo prima e poi tutti nella minuscola spiaggetta privé, ancora
le stesse biondone che alla fine fanno uno streap tease da far accapponare l’intero sistema sanguigno e dopo
non si fa più niente che una di loro si é sentita pungere alla caviglia e creato tanto di quel fracasso che non
appena rientrati in casa ha preteso che qualcuno la accompagnasse in ospedale e Hugo il solo in grado di
poter condurre modestamente.
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Ormai ci siamo quasi e tra le note dei Maroon five Marcy ritorna nella natia metropolis siciliana che dal
traghetto appare dapprima come una visione paradisiaca come si fosse proiettati all’interno di un set da
cinema da pirati hollywoodiano e poco dopo ecco spuntare un certo squallore grigio che Marcy si rintana e
aspetta dentro l’abitacolo dell’auto di famiglia destinata ai viaggi.
Città semi deserta e Marcy che neanche messi i piedi al porto, dieci minuti più tardi é già in sella al suo
sh50, stanchissimo e triste per essere stato messo da parte parcheggiato nello squallido box, e adesso
riprende la sua corsa veloce verso casa dell’amigo Luca. Una sorpresa visto che ancora non si sono sentiti e
niente appuntamento.
Che bella ….
…. Che bella e incerta, direi quasi surreale l’aria che tira nella Panormus del dopo ferragosto, meglio
lasciarla rosolare ancora un po il caliente sole per caricarsi in vista dell’inverno.
Luca non c’é!
Risponde sua mamma che riferisce con una certa veemenza misto preoccupazione, che da ieri è a Trabia
da amici suoi e ancora non si è fatto sentire. Ovvio che è preoccupata le mere visto i molteplici complotti che
in passato hanno messo su per coprirsi da certe storielle circa i rientri a casa dopo delle feste particolarmente
accaldate. Semplice routine per i nostri squatters.
Sul fatto che Luca sia a Trabia da degli amici suoi conferisce a Marcy una strana forma di perplessità che
lo fa ingarbugliare all’interno della mente che come una macchina infernale pensa e ripensa a tutto cio’ che
l’amico puo’ escogitare e a una timida conclusione ci si arriva ritenendo sensato il fatto di ormeggiare una
tendopoli in spiaggia, solo per fare una specie di sorpresa al nostro Pellegrino ma l’aria che gira stamani è
alquanto strana nonché soffocante e pesante.
La si è avvertita nel momento in cui Marcy ha messo piede nell’isola e la si sta avvertendo ancora, come
un segno premonitivo di una spiacevole sorpresa che di complicare ancora le cose altro non farebbe, una
sorpresa che Marcy non ha voglia di scoprire e se dipendesse da lui solamente la lascerebbe riposare per il
resto della sua esistenza, invece non si puo’ assolutamente che non dipende solo da lui ma da una serie di
circostanze e avvertenze che adesso non c’é più niente da fare.
Ovvio …. Che si cerca di raggiungere l’amico nella fantomatica Trabi tramite l’iper nipponico che
riprende a ruggire nella familiare aria sudista.
Primo squillo, nada.
Secondo squillo, nada.
Comincia cosi a disegnarsi sul volto di Marcy un leggero sorriso che adesso va al di là della seria
perplessità, un misto tra curiosità e incredulità e un senso di sgomento nascosto dietro una smorfia qualsiasi.
Terzo e quarto squillo, nada e nada.
Chiudendo l’iper nipponico una curiosità macabre prende il sopravvento anche su l’ultima goccia di
perplessità benevola e si che si manda a quel paese Luca e forse é meglio non preoccuparsi tanto che forse
starà ancora dormendo in questa mattinata rovente. Meglio non lasciarsi sopraffare da dei sentimenti
altamente negativi e privi di fondamento che l’amigo ancora é in fase ko ma in quale contesto e con quali
strane creature ancora non si sa. Meglio aspettare un pochino e fare colazione ad un baretto del posto con
qualcosa di ghiacciato per far bloccare il flusso di mali sentimenti che irradiano la mente di Marcello
Sardina.
Bacardi al pompelmo, meglio tenersi leggeri e non scaldarsi troppo con la mattinata che adesso proviamo
a chiamare la raga. Una certa sensazione di mistico venata da una certa rabbia gli si avvinghia tutt’intorno
lasciandolo con un’espressione molto amara in viso e non é certo per la Bacardi, é solo un’espressione che
raramente si avvista nel viso del nostro malcapitato al momento sbagliato.
Meglio affrettarsi e chiamare la raga.
Primo squillo, nada.
Secondo squillo, nada.
Ricominciamo come pochissimi istanti fa quando invano si é cercati di raggiungere Luca sperduto a
Trabia.
Terzo squillo, nada.
Quarto squillo, nada e il sorrisetto in viso si allarga fino a trasformarsi in una risataccia da vecchio
furbastro e mezza faccia da pirla quando pure il quinto e il sesto squillo danno nada.
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Sospiro a mezz’aria. Calma e benevolenza affiorano come per magia nella sua natura pazzoide e
skizofrenica come la melodia di Citizen Erased dei Muse puo’ apportare. Meglio riprovare o forse no.
Lasciamo perdere. Meglio dimenticare tutto l’insieme di incomprensioni e azioni rispettose da cagasotto e
il nostro hero si lancia in centro con il suo sh e supera tutti gli stop, i semafori e i sensi vietati per
raggiungere il micro paradiso dei videogames, vuoto e privo di vera vita, a parte i pochi sfigué rimasti in
città, ragazzetti da arie masochiste e vissute, giovincelle troppo in situazione depression per pensare a
qualche bel kazzetto in bocca e il nostro hero come da spettatore esterno, con la sua camminata da divo
hollywoodiano e con la sua aria macabra che gli sta tutt’attorno, scruta tutti coloro che si scansano al suo
passaggio, per raggiungere il bancone a gettoni. Senza spiccicare una parola entra rapidamente in possesso di
una decina di gettoni che in breve tempo riempiranno le viscere del suo cervello di vari circuiti fantomatici.
E ci mette rabbia più che precisione nel manovrare l’ormai logoro manubrio della supercar a destra e
sinistra per scansare le auto meno veloci che si trovano in mezzo al percorso.
E di squillo di risposta da parte della raga, nada, tanto meno dell’amico Luca che sicuramente si trova
ancora in fase ram. Adesso Marcy pensa solamente a guidare il bolide Aston Martin nel migliore modo,
cercando di sbandare il meno possibile come si trattasse di una prova generale della corsa che dopo si
effettuerà nelle strade del capoluogo con un’auto vera a trecento all’ora magari.
La sua mente cerca d’inquadrare solo lo schermo che ha davanti, la musica di mtv tutt’intorno non lo
scuote neanche di un millimetro tanto meno il fracasso che creano i poveretti sfigué nel tentare di
rimorchiare le ragazze con dei patetici discorsi.
Poveri imbecilli!
Non appena la scorta di gettoni si esaurisce un brivido malsano gli attraversa tutto il corpo come se un
fulmine lo avesse colpito e improvvisamente lascia partire un destro violentissimo contro il volante del
videogioco distorcendolo di netto e facendo volare via nel pavimento qualche pezzo di plastica di quello che
una volta doveva essere il clacson.
Kazzo che botta!
Niente dolore ovviamente!
Se al posto del volante ci fosse stato un essere vivente, lo avrebbe ucciso sul colpo o inviato in un coma
profondo ma comunque sarebbe morto dopo. Invece si tratta solo di uno stupido e squallido manubrio tra
l’altro mezzo scassato e un giovanotto alto e robusto dai capelli impomatati, vestito interamente di nero da
farlo sembrare un bodyguard piuttosto che uno dei responsabili lo chiama per fargli pagare i danni.
Ma quali danni! Il danno vero e proprio lo hanno già fatto sicuramente e Marcy ha solo avuto la sfortuna
di non esserci al momento opportuno.
Ovvio che non cerca nemmeno di scusarsi per l’accaduto per il bestione calvo e meno male che il fottuto
man in black non cerca minimamente di forzare il nostro Tyson evitando il rischio di ritrovarsi comodamente
disteso su un lettino scialbo d’ospedale con tre, quattro flebo attaccati alle braccia e una vistosissima
fasciatura alla testa.
Quindi …. Lascia il micro paradiso del videogame con la sua camminata da leggenda, come un giustiziere
che ha appena risolto una controversia e che adesso lo attende qualcosa che va ben al di la del semplice
casino.
Un bel casino!
Già!
Di richiamare la sua raga nemmeno l’ombra dell’idea e percio’ a bordo dell’honda fila via verso un
obiettivo sensibile ….
…. Trabia!
Next stop Trabia, proprio come la vocina perfettamente sincronizzata dei treni locali. Con il sole già alto
sopra la testa e un caldo che dire asfissiante é ben poco, Marcy arriva a Trabia a bordo del suo sh un tantino
accaldato, zero problemi fino ad arrivare al villino di Fabi.
Tra amori e adolescenza un romanzo di formazione
di Patricia Rapposelli
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Pubblicato nell’Ottobre 2008, il romanzo “Esprit Libre” dipinge dettagliatamente la realtà di un gruppo di ragazzi
durante la complessa età dell'adolescenza, in cui l'esigenza di raggiungere un'emancipazione dal mondo degli adulti e
della società s'intreccia col bisogno di trovare affermazioni affettive tra i compagni.
L'opera globalmente rappresenta un inno all'amicizia che, con la sua costanza, riesce quasi sempre a mitigare le
amare ferite inflitte dalle delusioni d'amore. Il contesto nel quale si sviluppa la trama e quello di una Palermo
socialmente aristocratica, caratterizzata tuttavia dal contraddittorio stato di precarietà delle strutture e delle istituzioni,
che concorre all’accrescimento della percezione di disagio da parte dei giovani coinvolti nel racconto.
Le esperienze dei personaggi della storia vengono inoltre presentate attraverso il pittoresco uso del gergo giovanile,
di cui l’autore stesso realizza una vera parodia, che consente un'immersione più realistica nella dimensione dell'universo
degli adolescenti.
La narrazione risulta scorrevole e spigliata, attributi che fanno di questo romanzo un'opera preziosa. Marcy, voce
protagonista dalla quale si dispiega l’intero racconto, vive il tragico distacco dalla amata fidanzata, che ritorna in
Argentina, suo paese natale, per terminare gli studi. Al ragazzo non spetta altro che rifugiarsi nelle solite fidate amicizie
di sempre, che tenteranno in parte di lenire il suo dolore. Tuttavia la sua grande sofferenza sfocerà in una grande rabbia,
incapace di esprimersi e pertanto repressa: condizione che porterà Marcy a subire momenti di forte depressione, almeno
fino al momento del suo provvidenziale incontro con l’incantevole ed indecifrabile Fabiola.
La vicenda giocherà tutta intorno alla ricerca di equilibri emotivi, che sorprenderà il lettore nella sua risoluzione
finale.
Nato a Palermo il 26 Aprile del 1985, l’autore dell’opera, Daniele D'Agostino, emerge nel panorama della
letteratura di formazione giovanile con questa sua prima pubblicazione, dopo la stesura di altri due romanzi rimasti
ancora inediti.
Appassionato di letteratura quanto di viaggi, il giovane Daniele ha trascorso il periodo antecedente all’uscita del suo
libro in Francia, dove ha perfezionato la conoscenza della lingua francese, che ha aggiunto a quella inglese.
Con la sua determinazione e la sua fresca età, Daniele rappresenta una figura promettente nel campo letterario
siciliano e italiano.
Il libro ha già riscosso successo nelle fiere Pisabookfestival e alla Rassegna della Microeditoria di Chiari ed è
possibile comprarlo su internet tramite il sito www.edizionidelpoggio.it
La Principessa di Navarra
e Santa Maria Navarrese
La toponomastica dell'abitato di Santa Maria Navarrese trova radici in una antica leggenda che narra la storia
della bella principessa di Navarra, costretta a fuggire per poter vivere in pace un amore impossibile con un
proprio servo. Il sentimento tra i due era stato contrastato ferocemente dal padre di lei che arrivò a
rinchiuderla nella torre di un castello per punirla. Ma la forza dell'amore ebbe il sopravvento e una notte la
principessa, aiutata da alcuni fedeli amici, fu fatta uscire dalla torre mentre le guardie dormivano. Raggiunse
rapidamente la spiaggia ove l'attendeva l'amante con un barcone carico di provviste e insieme si misero in
mare, sperando di toccare presto una terra ove il padre non potesse raggiungerli. Al largo furono sorpresi da
una furibonda tempesta e il barcone, che non era troppo solido, rischiava il naufragio.
La fanciulla si mise a pregare. Invocò la Madonna e fece voto che, se si fosse salvata insieme al suo amante,
avrebbe edificato una chiesa sul luogo ove fosse sbarcata. Improvvisamente la tempesta si calmò e la nave
potè attraccare nella zona di Santa Maria Navarrese, dove effettivamente oggi sorge un'antica chiesa.
Di certo si sa che questa chiesa (datata 1502) esiste da molto prima che nascesse l'abitato di S.M.N. : ancora
negli anni '60, infatti, qui ci vivevano appena 4 famiglie per un totale di circa 50 persone e solo da pochi
decenni, grazie alla spinta turistica, che la zona è diventata un paesetto di circa 1500 abitanti.
-Leggenda ogliastrina
Gavino Puggioni
Trilogia dell’Essere
Tre grandi personaggi, principi dell'Universo, si incontrarono
in una stanza, che non era una stanza,
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in una camera grande che non era una camera grande,
in un grande salone che non era un grande salone.
Si incontrarono in un grande quadrato,
in un grande rettangolo,
in un grande trapezio
ma tutta questa geometria non aveva angoli,
non aveva colonne, non aveva lati e neppure misure.
Aveva l'aria dell'aldilà o, se preferite, l'aria dell'aldiqua.
Il punto d'incontro era l'aria, quella che si respira,
quella che fa dilatare i polmoni oppure
quella che ti fa starnutire.
C'era l'aria, dentro questo enorme campo di calcio
dove non c'era né erba né giocatori
né bandierine né spettatori a bocca aperta.
Non c'era nulla, nemmeno polvere e voli incrociati
di gabbiani, quantunque il mare fosse vicino.
C'era soltanto l'assenza e, se vogliamo, anche l'essenza
di qualcosa che che mi accingo a chiamare “della vita”.
Si sentì che qualcuno bussava, ma come? E dove bussava?
E sì che qualcuno bussava, proprio nella parete del silenzio
e la faceva anche traballare.
Voleva entrare! Ma dove? E perché?
Era già entrato.
Sembrava volesse accomodarsi,
ma poltrone, sedie o scranni
non ce ne erano.
Si presentò.
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Sono il Pensiero, il signore del Pensiero. Ma che bello! E come mai é venuto a trovarmi,
proprio ora che stavo riposando? Giusto per farti pensare, per allertare la tua mente, per aiutarla,
per tenerle compagnia, per allenarla, per scuoterla,
per spingerla, per illuminarla! Ma non ti voglio confondere! Meno male – dissi io – che già stavo andando in confusione.
Il signor Pensiero, nella sua presentazione, pareva avesse fretta,
una fretta di comunicare che io non capivo, pur sapendo
che il pensiero é veloce, é velocissimo, che si sposta da una parte all'altra
del cervello calpestando altri pensieri, che non si lamentano e s'ammucchiano
nel loro angolino, in attesa di essere sbattuti fuori, magari con eleganza.
Mi guardò, il signor Pensiero, e pareva avesse voglia anche
di intrufolarsi nei miei pensieri, ma io non glielo permisi.
Glielo dissi quasi con prepotenza, ma lui mi fece capire che era
già dentro di me, che sapeva quello che gli volevo dire ma che non dicevo;
che, addirittura, voleva e poteva accarezzare i miei pensieri,
poiché molti di questi gli erano sembrati belli, positivi e propositivi.
Cominciai davvero a non capirlo e, visto che lui insisteva e mi faceva dei segni,
lo ascoltai.
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Io sono nato assieme alla vita. Siamo coetanei, ma non siamo
né fratelli, né parenti. Attraverso la vista, mi sono arricchito
ed ho fatto mio tutto ciò che mi circondava. Ho goduto e sto godendo
di questa mia attività conoscitiva e non sono mai stanco.
Penso sempre e penetro educatamente nei pensieri altrui, a volte
divertendomi, altre adombrandomi, perché quando vedo ombre o
lati oscuri, in certi individui, mi preoccupo e non so come cancellarli.
Ci vorrebbe subito una bella dose di empatia, per colpirli ma il più
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delle volte questi individui sono troppo lontani ed io mi rattristo.
Gioisco, invece, quando sono coi bambini, con la loro innocenza,
con la loro allegria e spensieratezza. In quei momenti ci abbracciamo
e ci rincorriamo come in un gioco fantastico tra mille e
una meraviglia e tutto ciò illumina le menti adulte
e le pulisce di ogni malvagità.
Malvagità che hanno aggredito e stanno aggredendo, invece,
l'umanità intera senza l'azione del Pensiero, ormai sopraffatto
da ingiustizie, da guerre, da super-religioni che hanno trasformato
e tralasciato tutte le loro antichissime e civili regole di convivenza
per seguirne altre, lastricate di morte e di inutili morti.
Mentre lui così pensava, io, quasi sognante, lo seguivo e in lui mi immedesimavo.
Il mio pensiero era il suo, il suo era il mio, si sfioravano, si mischiavano e
continuavano, ora, a comprendersi, senza cedere ad altre visioni, che pure potevano affacciarsi. In quel campo così
grande, così solo, le finestre rimanevano chiuse e
nessun vento sarebbe riuscito a spalancarle.
−
−
Ma cosa stai pensando? - si rivolse a me il signor Pensiero – Ricordati che qui c'è
solo aria e finestre non ce ne sono. Siamo in assoluta libertà!
Rimasi allibito mentre lui continuava.
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Bisogna pensare, é necessario pensare prima di affrontare un qualsiasi evento,
positivo o negativo. Il mio essere, anche se astratto, trascende da qualsivoglia
volontà umana e può diventare tutto.
Primo, il pensiero dell'amore, poi il pensiero del rispetto e dell'uomo e della donna,
ma soprattutto dei bambini, che sono quelli che lo tramandano, crescendo,
di generazione in generazione. Il pensiero, così, diventa adulto, carico
di esperienze e di ricordi che non saranno facili da cancellare.
Pensare profondamente e agire di conseguenza può e deve essere
l'azione migliore per far emergere la nostra personalità, arricchendola
di beni immateriali che pochi posseggono.
Come dicevo poco fa, il pensiero non si stanca mai, é sempre attivo,
pronto a percorrere eventuali diverse strade
o ad aprirne di nuove, se necessario.
Improvviso si sentì un boato, il cui effetto, però,non durò a lungo, come se si fosse fermato dolcemente, appoggiato ad
una parete di enormi cuscini, afflosciandosi.
-Chi é? - urlai.
− Sono la Parola, la signora della Parola! Mi voltai e vidi davvero una bella signora, dalle sembianza leggiadre e gentili, come
− il suo abito che nulla nascondeva del suo corpo. Era bellissima!
−
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−
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−
Quella é mia figlia – intervenne il signor Pensiero – guarda com'é bella ed attraente! Vedo, vedo! - feci io – ancora preso da cotanta bellezza.
E' bella e attraente – continuò Pensiero – ma a volte, anche troppe volte, questa mia
figlia da in escandescenze e si fa prendere da momenti di panico che la trasformano
in una parolaia, una che dice cose insensate, a vanvera, sporche e irripetibili.
Ed io mi rabbuio e mi pento di avergliele trasmesse! Naturale conseguenza di quello che vedi o che senti – intervenne la Parola Come fai a non proferir verbo, diceva qualcuno che ora non ricordo, quando tutto l'umano che ti circonda ti
aggredisce e ti strapazza nel corpo e nella mente e tu non hai altre armi per difenderti se non la parola?
− Questo suono magnifico che si sprigiona dal nostro movimento labiale é dentro di noi, attira attenzioni, consensi o
dissensi, attiva conoscenza e intelligenza, oppure e purtroppo, anche tutto il contrario.
− Normalmente la Parola é sublime, esprime dolcezze ed affetti, ti sa trasportare, decantandoli, in paesi o luoghi mai
visti e conosciuti; ti aiuta, pregando, a sopportare tanti dolori. Alla fine si può trasformare in poesia, come facevano gli
antichi aedi greci.
− La Parola ti porta anche amarezze, oblio, odio e disordine mentale, ma ciò avviene quando si fa prendere dalla
malattia della maldicenza, che fa nascere semi avvelenati e li cosparge
− per tutto il mondo.
− Ma di me, della Parola, hanno bisogno tutti, perché io trasmetto voci, suoni che ognuno,
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−
−
dopo, dovrà interpretare per proprio conto.
Errori ne commetto anch'io, ma a quelli c'è sempre un rimedio, basta volerlo! -
Avevo assistito già a due monologhi, brevemente interrotti, e già mi stavo abituando allo
ascolto pacato e sereno di queste entità che mi stavano avvolgendo in una nube leggera e trasparente, dentro la quale io
vedevo sempre quel campo, che non era più un campo; era diventato entità anche quello, pieno di nulla, ma si poteva
scorgere, a tratti, anche l'infinito
dove c'è il tutto.
Era bello, perché quei due signori mi ci avevano trasportato senza che io me ne fossi accorto e mi sentivo leggero e
accarezzato da sensazioni musicali giammai avvertite.
Sulla terra, sul pavimento o, se volete, sulle pietre di quell'enorme campo, che non era più un campo, vidi avanzare e
strisciare una lunga corda, simile ad un serpente, fatta di incroci insoliti e sovrapposizioni, tanto da confondermi ancora
di più.
Girai lo sguardo verso i miei interlocutori di prima e m'avvidi che loro sapevano già.
−
−
Vedi? - disse il signor Pensiero – sta arrivando l'ultimo componente della nostra famiglia,
in tempo per mettere un sigillo importante a tutto ciò che andiamo pensando e di cui andiamo parlando. Quella é la
signora Scrittura. E' molto vecchia, anzi é vecchissima,
− antichissima com'è. Ne porta i segni dappertutto, dalla cima dei capelli fino all'ultimo
− pezzo di pelle del piede. Si vedono pure cicatrici profonde che sono il segno del passaggio,
− dell'abbandono e del trapasso da un modo di scrivere ad un altro. − Hai ragione Pensiero, mio degno antenato. Ho resistito a tutte le trasformazioni che interi
popoli mi hanno voluto imporre, ma io non ne ho sofferto, perché sapevo che, col mio sacrificio, avrei educato altre e
tantissime generazioni di menti umane, fino ai giorni nostri.
− Nessuno mai mi ha ripudiata! Cancellata sì, ma per sovrappormi altri segni e modi di scrivere, dall'ideogramma
cinese al geroglifico egiziano, fino alla scrittura greca e latina.
− Non sono mai morta, nemmeno sopravvissuta.
− Oggi io appartengo a tutti e tutti mi comprendono, in qualsiasi modo venga usata.
− Pensate che addirittura mi abbreviano, troncando consonanti o vocali e la gente, soprattutto giovani, capisce,
dialoga e va avanti. Certo non é il massimo per me, Scrittura,
− che invece vuole approfondire , vedendo segni compiuti e grafie uniformi, dalle quali può venir fuori anche
personalità e predisposizione.
− Ma non dispero. So che molti ancora scrivono e alla scrittura si dedicano, dai giornalisti
− agli scrittori, dai poeti agli autori di grandi enciclopedie che raccolgono l'intellighenzia umana e la distribuiscono
per l'universo.
− Al contrario del Pensiero, io posso stancarmi, sia manualmente che meccanicamente.
− Ma posso riposarmi e riprendere quando lo stesso Pensiero e la Parola mi sollecitano per
− documentare, per evidenziare col segno ciò che é astratto. Mentre quei tre signori quasi si divertivano a descrivere le proprie entità, dentro le quali
−
mi ero adagiato, come in un grande sofà, io pensavo, isolato, nell'aria e privo della stessa aria, in un incantesimo
che aveva tutti i requisiti per non esserlo.
Dissi a voce alta: grazie, vi ringrazio per avermi invitato a questo vostro incontro. Sono
lusingato e correrò subito a documentarlo, modestamente, come di solito faccio.
−
Mi voltai a destra, poi a sinistra, guardai ai bordi di quel campo. Ero solo, tremendamente solo e non percepivo alcuna
presenza, alcun movimento. Con gli occhi scrutavo, inutilmente, perché il lontano era uguale al vicino, senza colori,
senza aria, senza segni.
− Vedevo trasparenze e mi sembrava di sentire, lontana, una musica.
− Era l'infinito che si ricreava e mi abbracciava. Solo.
Nino Fois
Giamidu de amore
… E m'est amigu su bentu:
a manu isterrida sos fiores
sèmenat in tottue
pintende in sa campagna sos colores.
E-i su mare m'est amigu:
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a sos frades de aterùe
sa gianna abberit de sa Terra mia,
s'aèra, su sole, sas marinas
a gosare in paghe e pasu.
E-i sas benas ierritzas:
dae su monte a s'adde
sa cantone murmutant manantiale.
E dae s'avreschida sa die
m'est amiga fin'a s’occasu
cando dae sas rundas attesu che càbulat,
indeoradas.
E amiga m'est sa lughe
e-i sos isteddos
chi lentore pioent a sas piaes
de custa Isula mia marturiada.
E-i sas pedras assentadas o derruttas
de sos runaghes antigòrios
chi su misteriu mi contant in mudesa
de su tempus barigadu
ue ant tentu
sas raighinas nostras devucas,
mi sunt amigas.
E tottu su mundu cant'est mannu…
…E amigu mi ses tue
frade de Cristos,
frade meu,
fizu de Babbu Nostru Soberanu,
biancu chi sies o nieddu,
riccu o poberu,
accurtzu o attesu,
in su gosu o in sas peleas
sutt'a s'arcada ìnnida
in bratzos a s'infinidu de s'univressu.
Consigliamo vivamente ai lettori www.agugliastra.it
Rito contro l'aquila
Fa parte dell'antica cultura pastorale la pratica usata per impedire all'aquila di predare gli agnelli del gregge.
Era una magia che per avere effetto, doveva essere compiuta solo da anziani dotati di particolari
qualità e secondo un preciso rituale:
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con i piedi immersi nell'acqua corrente di un ruscello, ci si poneva di fronte al sole nascente, si legavano
stretti, assieme con strisce di cuoio, diversi arboscelli e si pronunciava una formula misteriosa conosciuta
solo da pochi. Questa la formula, raccolta ad Arzana alcuni anni fa da Paolo Pillonca, che la ebbe da uno zio
di secondo grado, cugino della madre: Piero Muceli:
Abbìla, abbìla,
a pes tira-tira,
a pes ti pongio a modde.
E ti facas de fodde,
de fodde `e orciada.
Bai in ora mala
Aquila, aquila
strascicando i piedi
te li metto a mollo.
Possa tu diventare un fardello,
un fardello d'ortica.
Vai in malora
L'aquila rimaneva, così, prigioniera della magia e non poteva più minacciare le greggi.
Antica Leggenda Ogliastrina - tratto da GAL Ogliastra - Antiche Memorie
Ricordo di Tonino Puddu
– da ASSOCIAZIONE CULTURALE GRUPPO FOLK “ORTOBENE”
Ciao Tonino,
quanta strada, quante soddisfazioni e quanti traguardi raggiunti in tua compagnia. Sei sempre stato un maestro di vita ed un punto
di riferimento per tutti noi.
Oggi che piangiamo tutti con grande dolore la tua prematura scomparsa, troviamo però grande consolazione ed orgoglio per quello
che sei stato ma, soprattutto, per la grande eredità umana ed artistica che ci hai lasciato.
Sarai sempre con noi, nei nostri pensieri e nei nostri Cuori.
Grazie.
Il Tuo Volo ( a Tonino Puddu)
Rosalba Satta Ceriale
Il cielo
questa notte
ha l´ eco intenso
di antiche melodie
e il pianto - sommesso - delle stelle
racconta meraviglie.
Sa di sogno il tuo volo...
La luna
rapita dal tuo canto
osserva e tace.
Sa di incanto il tuo volo...
Ma il tuo sorriso buono
ed il tuo sguardo fiero
son qui...
con le speranze - intatte e i tuoi affreschi di note.
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Son qui
appiccicati all´anima.
Sa d´azzurro il tuo volo...
Sei oltre e sei dovunque.
Sei... nel cuore.
DI GIOIA, DI RABBIA, DI NOIA, L’ ULTIMO LIBRO DI ANTONIO AVERSA
"DI GIOIA
DI RABBIA
DI NOIA"
è la storia di due ragazzi in quella che era la Roma tesa e surriscaldata del 1977, nell'Italia delle
mille occupazioni delle università e delle scuole superiori contro i tagli e i sacrifici decretati dal governo di
allora.
Le loro storie corrono parallele, ma le loro scelte sono e diventano via via più distanti.
Il primo, Giorgio, cede alla tentazione della lotta armata, il secondo, Francesco, è un militante di Lotta
Continua.
Questo romanzo fornisce uno spaccato del disagio sociale e politico di una intera generazione di militanti che
era arrivata a mettere in discussione la propria vita, i propri amori e le proprie scelte.
Disagio, impegno, bisogni, terrorismo, lotte e violenza politica erano il vivere dei due personaggi del libro
che solo scambiando alcuni fattori della loro vita come un amicizia, un episodio o un'ingiustizia subita si
sarebbero potuti trovare benissimo a parti invertite.
I due protagonisti si muovono dentro vicende storiche realmente accadute, e che hanno segnato fortemente la
memoria degli anni Settanta.
Prima fra tutte la cacciata del segretario della CGIL Luciano Lama dall'Università La Sapienza di Roma, e
poi ancora la morte del militante di Lotta Continua Pierfrancesco Lorusso a Bologna e di Giorgiana Masi a
Roma durante dei cortei, nell'Italia turbolenta del terzo governo Andreotti - sui due fronti di uno scontro
duro, armato di una crescente esasperazione.
Da un lato il governo - ma più in generale il mondo dei partiti, di maggioranza e
opposizione, diffusamente sordo alle istanze dei giovani - dall'altro il movimento degli
studenti.
Su tutto, la pressione sanguinosa e violenta del terrorismo.
Un libro che pone all'oggi un paio di domande dirette. Siamo sicuri che questo non sarebbe
un paese migliore, se alle domande di quella generazione si fosse dato - oltre che ascolto un altro tipo di risposte?
Saremo tutti capaci di evitare - mentre i giovani oggi ripropongono con forza il loro punto di vista e le loro
domande - tutti gli errori di un passato che non è poi così lontano?
Iole Chessa Olivares
L’ ala distesa
Sazi di melodia
in altalena
saliamo e scendiamo
in cuore,
orfico il respiro
pulsa, chiama in sintonia.
Così raccolti,
quasi angelicati,
da noi stessi
esumiamo effimero
il volo degli aironi,
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in silenzio,
perché l' ala distesa
non fa rumore.
Giuseppe Dessì, dal pensiero per i Lettori di Mariella Masoni
“Sul grande tavolo, oltre le mandorle c’erano mandarini e arance vaniglia
appena colte dal frutteto,bottiglie di vecchia malvasia di Bosa e di spumante vermentino di Tempio….
In tutte le case si faceva lo stesso gioco e c’era la stessa aria di festa,con l’odore acuto dei mandarini
sbucciati e dell’acquavite:nelle case modeste e in quelle dei “ricchi”…”
Giuseppe Dessì
Mariella Masoni (Sassari ,1957) Laurea in Scienze Naturali. Scrittrice e Poetessa.
Docente di ruolo dal 1988 negli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore, attualmente in servizio nell’
Istituto “M. di Castelvì” di Sassari.
Ideatrice e Coordinatrice dal 1997 al 2002 di iniziative riguardanti la prevenzione dell'AIDS : manifestazioni
di Musica, teatro, danza e poesia, mostre fotografiche, concorsi di creatività inseriti in occasioni di rilevanza
sociale che hanno coinvolto la quasi totalità dell’utenza giovanile scolastica di Sassari e della provincia.
In tali occasioni scrittrice di testi di poesia distribuiti attraverso brochure per sensibilizzare e coinvolgere
emotivamente nel problema la comunità .
Referente da giugno 2006 di una Rete di otto scuole di Sassari e provincia, in condivisione d’intenti
progettuali atti a valorizzare la cultura sarda, con il Comune di Sassari ed il centro di Cultura sarda di
Berlino.
Coordinatrice di progetto : “Raccontando un’isola di fantasmi ballerini” con la Rete Scuole e Berlino
organizzato come spettacolo di drammatizzazione originale di fiabe sarde, musiche , strumenti della
tradizione sarda ed essenze di macchia mediterranea diffuse nel corso delle rappresentazioni tenutesi ad
aprile 2007 a Sassari e a Berlino Charlottenburg.
Autrice per passione di testi poetici, alcuni dei quali hanno partecipato a concorsi.
Presente nell’Antologia “Altre parole d’amore” per il “Salotto letterario” di Torino con la poesia “Momenti”
Correre Cielo
Lembi di pelle sottile
offrono grafici di rilievi
come scoperta di solco in cui perdersi,
mentre cerco il tuo essere acqua…
Labbra di sentieri sfiorano, premono,
evaporano condense di gocce
da cui vita e origine
ti danno la mia forma.
Il vento, fattosi respiro,
segue la corsa di elastici tesi
in risposta al tuo stringere spazi di frutto…
dove il tuo essere seme
raggiunge distanze di coscienza incredula,
stordita dal tuo non essere materia
e dal mio correre cielo…
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Ferite di gomma
Il vomere apre la terra in solco di fertile dolore
e mano spinge profonda la forza del germoglio.
Alla bocca il seme piange…
Sorge vita di sole tra grandine che brucia cicatrici.
Terra rimargina.
Nuovamente chiude il sonno l’orma di radici e silenzio.
Al risveglio gomma fa petali di muro,
come rimbalzi d’attese che urlano senza voce
Non ha canto il disegno assente,
fantasticato,
che trova vuoto e ferite di gomme
nel non esistere…
E Amore vive… nonostante…
Lampare di stelle
Sogni di stagno
tuffano lune
appese su fili di giunco.
Premono grani di sabbia
su ferite umide della notte.
Spingono occhi d’attesa
oltre specchi di lago
e lanciano ami
lampare di stelle
come stupore
di prime volte.
Antonella Masia
Emozione dopo emozione
la mia vita scorre,
ogni giorno ho imparato più di una lezione,
è stata questa vita la mia maestra.
Perché ti sto dicendo tutta la verità,
forse non hai capito,
ti sto dicendo che tu puoi ottenere di più e farlo in modo pulito.
Se stai cercando amore cercalo dove c’è,
ovunque lo puoi trovare se poi sincero
non è lo riconosci da te.
Lo s e n t i d e n t r o , n o n t i p u o i s b a g l i a r e ,
passo dopo passo capirai;
emozione dopo emozione
e se c’era d’aiutar qualcuno
non mi sono mai tirata indietro
lo sai l’amicizia resta un grande dono
questo io non l’ho scordato mai.
Io q u e l l o c h e e r o a n c o r a s o n o ,
forse un po’ più matura
ed anche sicura davanti al mondo,
davanti a te se stai cercando
amore cercalo insieme a me.
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Negli occhi della gente da sola non sarai mai,
se lealmente ti dai sarai comunque vincente.
S u c a m in u c ru z z u imb e c c ia t su b u r rin c u
I l c a mm i n o c o r t o f a i n v e c c h i a r e l ' a s i n o
Proverbio popolare sardo
Sa forada 'e is dexiotto
Una leggenda piuttosto verosimile, narra la delimitazione dei territori tra Arzana e Desulo. Gli arzanesi e i
desulesi si accordarono che il punto di confine fosse stabilito dove le due compagnie di uomini si fossero
incontrate, partendo dai loro rispettivi paesi al canto del gallo. A testimonianza di buona fede al gruppo di
Arzana si unirono anche desulesi e viceversa. Il mattino seguente le due comitive si incontrarono nel
Gennargentu ma a poca distanza del paese di Desulo, i desulesi rimasero di stucco, non riuscivano a spiegarsi
un simile accadimento, e si rimproverarono tra loro, chi per la pigrizia nel camminare e chi per la leggerezza
nel controllo. Ma il motivo non era da ricercarsi nella negligenza dei desulesi ma nella furbizia degli
arzanesi. Durante la notte il parroco arzanese, che sapeva bene come stimolare il canto del gallo, schizzò un
po’ d’acqua sopra il pennuto, quest’ultimo incominciò subito a cantare permettendo alla comitiva di partire
molto prima dei desulesi. Successivamente alcuni abitanti di Desulo, non contenti della spartizione del
territorio considerata esageratamente onerosa, decisero di andare a cercare un miglior accordo parlando con
gli arzanesi; arrivati in una valle del Gennargentu orientale trovarono diversi uomini di Arzana a guardia del
confine. Entrambe le compagnie erano armate, i desulesi intimarono di abbassare le armi perchè avevano
solo l'intenzione di discutere pacificamente, ma al momento di abbassare le armi solo i desulesi le posarono
mentre gli arzanesi aprirono il fuoco. In quella valle morirono tutti i 18 desulesi facendo rinominare così la
valle in "Forada 'e is dexiotto" (valle dei diciotto).
Leggenda sarda
Ignazio Lecca
Pruini e nudda
Unu contu Premiu "OZIERI" de narrativa sarda 1995
Nd’hapu connottu de genti in su mundu, aundi sa vida est totu un’abbrubuddai de vittorias e derrottas: genti
chi no s’acatat di hai biviu, ominis chi connoscint i’ doloris.
In dd’una cittadi de mari, aundi sa vida tenit sabori salìu, hapu connottu unu scriidori torrau de sa Bosnia,
aundi unu giornali dd’hiat mandau po relatài de sa gherra. Ma no est arrennesciu a ndi scriri: «Non fia mai
siguru de su scrìa; cureggìa, curreggìa e fiat sempiri un’articulu diversu e mai finìu; mi toccàt a ddu
sighir’a currèggiri donnia dì.»
Affliggìu e chena consòlu, non circat nimancu de cuai sa cara scalixìda e ingroghìa, is ogus sbuidus. «No est
sa gherra tua», hapu circau de ndi ddu storrai de s’amalezzu. «Est struppìu puru nostru», m’hat respustu
fridu fridu; «onnia gherra est de totus!»
Non si ndi podit scabulliri de cuss’idea e intamen de scriri is contus chi dd’hiant cumandau, grìsat pinna e
paperi. «Sa genti sa gherra dda castiat donnia dì in televisioni mentras cenat; ma cussas immaginis no ndi
scidant nemus cun dd’unu pinnigosu a su stogumu, passant chena lassau arrastu. Totu est spettaculu. Ma
deu seu contras a custu cumpraximentu.»
Arròliat a dì intera in dd’una prazzitta aundi giogat una cedda de pipius scundius e burdellosus: currint totus
impari avatt’’e una boccia; issu avattu insoru. Ma no ddis ’onat cumandus, imparant a solus sa gerarchia di
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arèi e de vida. Su scriidori ndi sighit su giogu cun ogus assumbraus, e vetti donnia tanti ddus precettat:
«Toccai immoi, ca crasi hat essiri giai tradu. Seis bosaterus is testimongius de custu tempus.» Ita ci hat
agatai.
No s’arregordat cun siguresa candu dd’est benìu s’imbizzu po sa boccia. Si seus amigaus castiendu su giogu
e, una dì, dd’est pigau una gana infruscada de fueddai, fueddai. «Est stetia una piccinnìa trista sa mia.
Disigiamu de curriri cun is aterus pipius, e mi dd’hiant sempiri proibìu. Tui non depis! Aici non hemu mai
toccau una boccia.»
Schiringiat un’arrisu tristu, donendumì cunfianza: «Fueddu tanti po musciai, ma m’hem’ a podiri cittiri.
Custu est su destinu de is fueddus: infrorì in i’ murrus de sa genti o s’affriscillonai in i’ moris de su
pensamentu.»
Is pipius sighendu sa boccia si zerriant a pari, si spingint. Issu arriit a scracaliu, giai torrau nozzenti.
«S’imbizzant a sa vida», narat pàsidu; «pigant sa mesura de i’ regulas. Deu hapu sunfriu is cumandus de is
feminas de domu: mammai, aiaia, una gamada de zias bagadias; genti de costumànzias strintas, castiànt
asegus, a su serrau di aposentus fridus chi allogànt attufus antigus, umbra e picciacciu. Una cupa de
craboni si callentàt in s’ierru, e i’ lantias sempiri allutas in facci a is retrattus de is aiaius mannus
appiccaus in artu, a costau de su rei Umbertu e de Margherita de Savoia. Chi Deus ddus tengat in gloria,
pispisàt aiaia. Fiat issa chi donnia merì mi fadiat arresai, mancai a crancius, su rosariu: in nomini de su
Babbu, de su Fillu e de su Spiritu Santu. Deu m’intendìa asuba is oghiadas de cussus retrattus mudus:
m’hanti fattu timorìa onnia dì. Oi puru tìrriu retrattus, reis e reinas. In cussus annus hapu nau AveMarias
po tres vidas intamen di una.»
Tòrrat a castiai is piccioccheddus: «Hant a pregai?»
«Pregai? Dis praxit su giogu» nàu deu.
«Su miu fiat unu mundu de bonas maneras, vetti chi alluppàda, ndi sciuàt donnia fantasia. Toccàt a
risparmiai finas i’ bisus; si fueddàt su prus po pregai. Aici seu cresciu schirriòlu, chen’’e hai mai tentu
un’amigu. In domu mia s’arremonànt vetti nemigus. Fiant tempus langius e in sa mesa cumparrìat solu su
chi crescìat in dd’un’ortixeddu de babbai: cibudda, arreiga, patatas, faixedda, lattia. E lòris, lòris onnia dì:
mi seu cresciu totu a cixiri e gentilla e, in su tempus, cerexia. Babbai hiat innestau prus de centu matas
siguru, po donnia innestu, de salvai un’anima de su purgatoriu. Sa festa teniat sabor’’e missa cantada e de
brod’’e pubba. Unu mundu inserrau e fridu di affettus!»
Ddu castiu e ddi biu is ogus furriaus a cussu tempus di umbras e no de luxi.
«Crescendu mi seu furriau contras is parentis. Sa morti, traghendusiddus avattu mi sciollìat de
cuss’imprassu ferosu. Interrau s’urtimu, hapu bendiu mobilia e retrattus antigus; mi fiant abarraus vetti
Umbertu e Margherita, nemus ddus ’olìat. Insandus ddus hemu portaus a cresia: pongatiddus asub’’e
un’altari, nau a su predi, funti is santus di ’omu mia. Una cosa no mancat in cresia, i’ santus, m’arrespundit
su predi, torranceddus a domu tua. Ddus hemu depius lassai in dd’unu furrungon’’e s’arruga; nimancu mi
femu stesiau chi unu cani piogosu s’est accostau a pisciai. Aici est sa vida, nemus ndi stòrrat. No, no m’est
abarrau nudda de insaras. Tabula rasa: pulvis et nihil.»
«Deu hapu giogau meda a boccia, ma femu negau. Giogamu po curriri, po no abarrai firmu a or’’e prazza.»
Aici dd’hapu nau, cunfianzosu, ca mi parìat bregungia abarrai mudu. Issu hat arrisiu lebiu. Aterus arregordus
ddi torrant a pillu de sa borea de sa memoria e prenint totu su spaziu de sa raxoni, casi a ddi domandai contu
de s’esistenzia insoru. Pènzat ancora a is pipius de Sarajevo privaus de sa piccinnìa.
«Hapu liggiu troppu de pipiu, intamen de giogai», m’hat scoviau bregungiosu. «Hapu imparau onnia
schema de scrittura, cumenti andant contadas is istorias, cumenti acconciai sa trama de is contus. E,
praxendumì, hapu scrittu meda contus. Ma a boccia non hemu mai giogau prima.»
«E duncas?» ddi pregontu, spantau de cusa bessida. Issu mi castiat cun ogus limpius e prenus, c’est totu su
xelu aintru.
«Duncas?» Abarrat cittiu e pensamentosu, a conca incrubada. A s’acabu mi narat cun boxi sarragada: «Ddus
hapu bius, pipius simbilis in totu a custus, laniaus e spedazzaus in is arrugas e prazzas de Mostar e de
Sarajevo. M’aberrìat su coru de su disisperu. Giogànt a boccia, innì puru, prim’’e morriri, prima chi
un’omini cument’’e mimi ddis ghettessit una bomba. Vetti sa boccia fiat abarrada senzera, in mes’’e sa
prazza beneditta de su sanguni insoru. Cali fueddus podemu agatai? Cali cumpassioni mi toccàt a circai po
contai cussu macellu? Poita no est gherra, est macellu de bestias chena raxoni e chenz’anima. E
contendindi, mi parìat di aggiudai cussu scorriamentu de vidas nozzentis.»
Cìttidi, si stesiat e duncas tòrrat agoa: « Ma no fiat giustu nimancu abarrai cittiu.»
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«Ita timìat?» ddi pregontu sfaccìu.
«Non fiat timorìa sa mia, fiat disisperu!»
Mi castiat a ogus firmus: «Deu seu unu scriidori chi connoscit sa duda. Ma òi nemus prus dudat. Cantus
interrògant a Deus?» Si stesiat ancora, tremit che foll’’e sinniga, mi zerriat. «Innì mi buddìat su sanguni, no
arrennescìa a contai su "spettaculu de sa gherra", mi fadìat spreu. Sa fidi mia fiat portada a sa duda. Poita?
Poita ddu permittis? domandamu a Deus, e issu mudu. Mi intendìa accappiau aintr’’e una rezza de dudas,
in dd’unu tempus chi parit gosai de certitudinis e siguresa. Mi cumprendis?», mi narat piedosu.
«Non bisongiat a connosciri troppu s’argumentu de su cali si scriit. Hanti fattu aici in su tempus passau. Ma
òi? Sa genti no ascurtat prus is poetas, ascurtat is tecnicus, issus funti specialistas, is unicus chi ti podint
contai istorias cun totus i’ numerus: s’autenticidadi. Ma po mei fiat cumenti a nci torrai a calai in s’inferru,
aundi femu giai stetiu de pipiu, asutt’’e su bombardament’’e Casteddu de su corantatres.
Innì in Bosnia hia torrau a biviri, cun ogus e menti de pipiu, cussus momentus. Non fiat prus a circai su
sensu de sa natura urtima de is cosas, totus is umanus sentidus - amicizia, amori, imbidia, onestadi,
caridadi, tirria - si fiant spomporaus e fiat torrada a pillu sa sensazioni de una paxi prus intima, ma
spentumada in s’inferru de is cosas, chi vetti chini ddu provat ddu podit comprendiri.
Pàrit sa mellus cosa i est sa peus, poita ca no est una forza, est s’urtima debilesa pàsida, sa morti aintru
sendu ancora biu. No, mi seu rebellau a contai custa morti de s’anima.»
«Deu no hapu fattu ateru che camminai, in sa vida», ddi respundu, fatau. «M’intendìa is passus impressius e
no mi seu firmau mai troppu in su propriu logu; est aici chi mi cundullit s’umbra mia, dda scit prus longa de
mei, no connoscit impedimentu. Aundi c’est mundu issa camminat, e deu avattu.»
Insandus issu m’hat nau: «Sa parti prus nobili de s’omini est propriu sa parti de s’umbra e no fait a si stimai
is unus cun is aterus chi no nci torraus s’anima aintr’’e su corpus, chi no si ndi scappiaus de sa bestia chi si
nci pappat is sentidus sanus. Aici non seus umanidadi, seus una cedda de procus arestis.»
Seus abarraus in silenziu, donniunu circhendu de ndi scabulliri, in s’accordonada de pensamentus
trumbullaus, unu bisu de fueddus berus chi, pesendusì de su silenziu de su mundu, fazzant trinnìri de disigiu
a chini ddus narat.
«Hapu peccau di accidia, hemu giai perdiu su cunfrontu intra fueddu e silenziu. S’agonìa est parti bia,
attiva, de sa morti, non est ancora morti. Ma po mimi scriri fiat sa religioni de una lingua scedazzada e
arta, solenni cantu una missa cantada, scritta apposta po cumpraximentu e spassiu de s’intellettu.
Interrogamu Deus e no intendìa resposta. Ma sa resposta fiat: "su nomini miu est omini." Issu mi spingìat a
circai intra is ominis; ma deu bolemu abarrai zurpu e mudu.»
«Seus totus in dd’un’arremadroxu», ddi nau deu; «ma donnia tanti bessit a pillu sa poesia.»
Insaras issu m’accinnat su giogu de is pipius in sa prazzitta. E si ghettat a curriri avatt’’e sa boccia.
Fiat unu scriidori, no reulàt po nudda in sa prazza de cussa cittadi de mari. Connoscìat su sabor’’e su sali e de
is fueddus. E scìat contai contus. M’hiat mostrau sa ventana di aundi, pipiu, scoccàt is aterus pipius chi
giogànt a boccia in sa prazzitta.
Ddu tengu ancora anant’’i ogus su scriidori chi grisàt pinna e paperi, mentras mi cunfessat chi po issu
«inventai una storia est comenti a si ndi bogai un’ossu de su costau.» Poita is bideas funti aintr’’e s’omini,
bivint cun s’omini. Aici s’infàdu, su stentu de scriri dd’hat postu a parti, ddi praxit vetti su giogu de sa
boccia.
E is istorias? Is contus suus ddus narat a is piccioccheddus chi giògant in sa prazzitta: «sighèi bosaterus sa
storia», ddis recumandat. Is piccioccheddus scriint a sensu insoru e, candu hant acabau, portant is contus a su
scriidori. Liggint impari e issu, insaras, segat e cosit, acciungit anima, fogu e sali a donnia storia. Amori e
dolori!
«Totu custu est s’impastu de sa vida, su chi si perdit donnia dì a or’’e is arrugas de su mundu», narat a is
piccioccheddus; «ma bosaterus non s’heis a perdiri mai. Seis scriidoris de is tempus nous.»
Custu contu de Ignazio Lecca est stetiu giai pubbricau in www.isolasarda.com
“Opinioni di un clown” di Heinrich Böll
Recensione di Valentina Piroddi
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Probabilmente mai nessuno si pone il problema. Probabilmente nessuno, quando assiste a uno spettacolo
comico inscenato da un clown, si chiede qualcosa su di lui. Probabilmente nessuno pensa alla persona che inscena la
pantomima o lo scherzo.
Hans Schnier è per l’appunto un clown, un bravo clown, il quale, dopo un periodo di successi e d’intenso
lavoro, si ritrova a mendicare alla stazione di Bonn per un ginocchio rotto e l’impossibilità di risalire in scena. La sua
tanto amata compagna Maria ha sposato un altro e la sua ricca famiglia non sente di doverlo aiutare con particolare
urgenza e generosità. Hans ha troppa dignità per poter scendere a compromessi avvilenti. Il suo spiccato senso critico
gli impedisce di piegarsi ai dettami di una società ipocrita e falsamente riconciliatasi con il passato recente, o di esso
troppo repentinamente dimentica. Così il clown, unica maschera manifesta, diventa l’unica cellula di autenticità.
E’ un “racconto” dalla spiccata prospettiva interna e soggettiva. Gli avvenimenti narrati vanno avanti e indietro
nel corso degli anni, ma all’interno dello stesso monologo interiore. Quanto può esser durato effettivamente? Alcune
ore? Il tempo della storia ritorna presente solo alla fine, dopo esserlo stato nell’incipit. Testo “personale” quindi, ma
molto lucido, come la sofferenza del protagonista. Da leggere.
Caterina Massaiu
Le tue trecce
prendevi tra le mani uno spago
lungo più del vecchio manto
facevi un nodo ,primo avvio
memoria del gesto,
poi iniziva veloce il guizzo
diviso per tre
come un triangolo amoroso
che segue un percorso
di onde uno sull'altro
fino all'estremo ,concluso il lavoro
ritornavi bambina vezzosa
nello sguardo ,
poi arrotolavi su se stessa
la prima treccia sopra una tempia
poi lo stesso lavoro sull'altra poi l'incrocio del cordoncino
da una all'altra e per conclusione un fazzolletino nero
a coprirle,
che buffa pensavo
mi sembra una capretta
e tu con me nonna,
rito,
antico
sos cuccos.
Barbagia
sei stampo di nettare
di pietra e di polvere
il posto del cuore
di braccia aperte,
d'inverno il sole.
non tace la voce
fa eco al silenzio,
il mio canto d'amore.
Caterina Massaiu ( Oliena,1957 ) poetessa, vive e opera a Portogruaro (VE)
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http://www.regione.sardegna.it
Nos bidimus!!!!!
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