2005-06-15_Luca Bellocchio - Dipartimento di Scienze sociali e

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2005-06-15_Luca Bellocchio - Dipartimento di Scienze sociali e
Università degli studi di Milano
Dipartimento di studi sociali e politici
Working Papers
del Dipartimento di studi sociali e politici
15 / 06 / 2005
“Londington”?
Forma e forza della nuova
Pax Anglosferica
Luca Bellocchio
www.sociol.unimi.it
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
1. Vittoriosi in cerca di nemici. Ripolarizzazione dell’alleanza angloamericana e nuovo pan-anglismo
L’invenzione del nemico: è questa l’urgenza e l’angoscia, questo il successo
da inseguire, insomma, per ripoliticizzare, per mettere fine alla spoliticizzazione;
laddove il nemico principale, laddove l’avversario “strutturante” sembra introvabile,
laddove non si può più identificarlo, e dunque non è più affidabile, la stessa fobia
proietta una mobile molteplicità di potenziali nemici, sostituibili, metonimici e
segretamente alleati tra di loro.
(Jacques Derrida)
La vittoria statunitense nella terza guerra mondiale (quella fredda) contro il regime sovietico ebbe come primo
effetto quello di privare l’alleanza angloamericana di quel nemico contro il quale essa era sorta e dal quale per
quaranta anni aveva tratto la sua linfa vitale. La fine del bipolarismo ripropose così per l’asse angloamericano
quel paradosso delle conseguenze che investe ogni alleanza di fronte alla vittoria sul proprio nemico. I quesiti
che cominciarono a porsi a proposito della Nato, cominciarono a investire la stessa relazione angloamericana.
L’emersione di un nuovo inedito e complesso milieu internazionale - unipolare e di lì a poco di frammentazione
- pose seri problemi di adattamento all’alleanza. Il marchio genetico dell’intesa angloamericana portava i segni
inequivocabili di una struttura bipolare del sistema internazionale, il che tradotto in termini funzionali,
significava necessità per l’alleanza di adattarsi a un contesto sistemico diversissimo. Le conseguenze,
potenzialmente dirompenti: sul fronte dei rapporti interni all’alleanza, il venir meno del nemico contro il quale
l’alleanza era sorta avrebbe potuto comportare - almeno potenzialmente - la messa di discussione della
divisione interna dei lavori, della suddivisione delle spese e dell’unità del comando.
Il problema connesso al venir meno non solo del nemico ma della stessa minaccia sovietica, venne parzialmente
risolto da un tipo di evoluzione sistemica internazionale inaspettata: l’emersione di un sistema internazionale
non di tipo multipolare, ma un sistema internazionale unipolare, ovvero il massimo di concentrazione possibile
di potere nelle mani dell’egemone, divenuto padrone indiscusso della logica e grammatica del sistema
internazionale. Il che facilitò e complicò tutto al medesimo tempo.
La strategia a disposizione dell’alleanza angloamericana per assicurarsi la tenuta e la prosecuzione dell’intesa
sembrò essere, di fatto, duplice: per giustificare l’alleanza, si poteva o trovare un nuovo nemico contro il quale
giustificare il mancato venir meno dell’intesa; oppure continuare a insistere con la minacciosità della
superpotenza russa. Nel primo caso si trattava di procedere all’invenzione di un nuovo nemico contro il quale
far convergere le angosce delle rispettive opinioni pubbliche, senza che questo comportasse alcuno
stravolgimento dell’organizzazione dell’alleanza, dal momento che ciò che più contava era semplicemente il
rapporto esistenziale con un nemico qualsiasi. Nel secondo caso, al contrario, si sarebbe dovuto considerare la
minaccia sovietica ancora valida, guardandosi bene dal considerare quelle che erano semplici momentanee
difficoltà del “nemico di sempre”, un punto di svolta nella vita dell’alleanza, essendo quella in corso non una
vittoria, ma un armistizio, peraltro altamente instabile. In entrambi i casi, comunque, il nucleo forte dell’intesa
angloamericana sarebbe rimasto pressoché intatto dal momento che ciò che più contava era approntare un
nemico.
Nel complesso, alla fine della guerra fredda, le reazioni di Washington furono caratterizzate da un certo
disorientamento. La tentazione di fronteggiare le nuove emergenze con le vecchie lenti del confronto bipolare
divenne irresistibile. Si scatenò, come prevedibile un dibattito intensissimo tra i policy makers su quale
strategia approntare per organizzare un milieu internazionale privo di un nemico, che apriva peraltro
improvvisamente inediti spazi di manovra.
Ciò che fu da subito evidente era che la vittoria contro l’autocrazia sovietica rischiava di destabilizzare
fortemente la vita dell’alleanza, essendo la vittoria, per ogni alleanza, il momento più critico. L’uscita di scena
del nemico sovietico contro il quale per decenni la solidarietà angloamericana e di tutto l’Occidente aveva
trovato una straordinaria fonte di coerenza per la propria colleganza politica, sembrò da subito privare la
relazione angloamericana di un collante formidabile. Le forze centrifughe, sempre presenti per quanto sopite,
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cominciarono a riemergere. Ma a dispetto delle più funeste previsioni, successe alla relazione angloamericana
qualcosa di imprevedibilmente analogo a ciò che successe all’alleanza atlantica: scomparso il nemico contro il
quale era sorta l’alleanza, non scomparve l’alleanza che anzi seppe reinventarsi, consolidando una cooperazione
quarantennale.
Ora, le ragioni solitamente addotte dagli studiosi neorealisti, ad esempio, per spiegare la persistenza di
un’alleanza (o di un’organizzazione che svolge nei fatti i compiti di una alleanza) venute meno le ragioni più
importanti che ne giustificarono genesi e tenuta (cioè, fondamentalmente, l’ostilità esterna), possono ricondursi
o alla trasformazione dell’alleanza in mezzo per mantenere e prolungare la presa dell’egemone sulle politiche
estere dei paesi vassalli in un nuovo sistema internazionale che appare al momento poco comprensibile; oppure,
<<un’alleanza può durare nonostante forti cambiamenti esterni perché gli alleati continuano a trovare
preferibile stare al suo interno rispetto ad uscirne. Ma una alleanza può sopravvivere anche perché è diventata
qualcosa di inerte, o per ragioni di politica interna, o per giudizi sbagliati o semplice errore umano>>.1
Queste due ragioni riassumono in modo cristallino la strategia sia di Londra che di Washington: continuare a
tenere in vita una alleanza che per quaranta anni aveva dato ottima prova di sé, soprattutto visto l’incalzare del
nuovo inedito sistema internazionale, cercando di temperare i rischi connessi allo smembramento di una
istituzione certa in grado di garantire sacche di tranquillità nella transizione al nuovo milieu internazionale.
La colossale vittoria della superpotenza americana contro l’ex-Urss e la straordinaria veloce capacità
dell’alleanza angloamericana di reinventarsi un ruolo nel nuovo sistema internazionale unipolare, ebbero
l’effetto, tra le altre cose, di innescare un prepotente fiorire di una letteratura di tipo pan-anglista che, come
quella tardo ottocentesca, cominciò ad auspicare, da testate giornalistiche e riviste scientifiche, l’associazione
tra le potenze del sistema internazionale che si richiamavano alla tradizione anglosassone.
L’eccesso di vittoria prodotto dalla fine della guerra fredda e, in particolare, l’adozione da parte dello sconfitto
di tutte le istituzioni del vincitore2, costituivano - secondo i nuovi pananglisti - la dimostrazione della definitiva
superiorità anglosassone. Proprio da queste premesse, cioè dall’ennesima vittoria militare e dal trionfo del
modello liberaldemocratico di marca anglosassone su scala globale, originò il nuovo pananglismo che
proponeva una sua soluzione politico-istituzionale per garantire l’egemonia anglosassone e, da lì, pacificare il
mondo delle relazioni internazionali: l’Anglosfera. Quello che si presentava agli occhi dei teorici anglosferici
era la possibilità che la potenza uscita vincitrice dalla terza guerra mondiale potesse decidere di mettere la
propria preponderanza al servizio della costituzione di un Grande Spazio anglosferico. Fu così che il motto dei
teorici “anglosferici” divenne constructing a new civilisation: occorreva cominciare a lavorare a uno dei più
spettacolari processi di state and nation building mai realizzati: occorreva iniziare a (re)inventare “una nuova
tradizione”, quella pananglista di fine Ottocento. Quella che per i teorici anglosferici si paventava all’orizzonte
era dunque la possibilità che addirittura un intero blocco di potenze più o meno Wasp, attorno a un core gestito
dall’asse anglo-americano, potesse plasmare il globo a propria immagine e somiglianza nei modi possibili (due
fondamentalmente, con il mercato e/o con la guerra).
L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein il 2 agosto del 1990 fu l’occasione tanto aspettata dal
rinascente pan-anglismo per vedere l’inizio della realizzazione del proprio sogno3. La pronta disponibilità data
dall’asse angloamericano nel ripristinare lo status quo ante sotto la bandiera dell’Onu e la contemporanea
riluttanza di Francia e Germania nell’appoggiare l’eventuale uso della forza contro Saddam, vennero salutate
dai fautori del pan-anglismo con grande entusiasmo. Noncuranti del carattere in realtà difensivo dell’invasione
militare del Kuwait da parte irakena, stremata dopo otto anni di guerra con l’Iran e in difficoltà a causa della
politica petrolifera adottata dal governo kuwaitiano che impediva a Baghdad di riprendersi dai dissesti della
guerra; noncuranti del fatto che in realtà la pronta disponibilità di Washington a riportare l’ordine e la pace
internazionale turbate dall’invasione del piccolo stato kuwaitiano, era conseguenza della prima storica
opportunità di profittare dell’egemonia nel sistema internazionale guadagnata in seguito al collasso della
superpotenza sovietica, aumentandola con un’operazione in grande stile sotto l’egida dell’Onu; noncuranti del
fatto che probabilmente il contenimento di Saddam era possibile anche senza l’uso della forza militare: orbene,
noncuranti di tutto ciò, gli alfieri del pan-anglismo si lanciarono in un panegirico verso l’intrepida decisione
1
Stephen Walt, The origins of alliances, Ithaca, Cornell University Press, 1987, pp.156-157.
In questa accezione Fukuyama avrebbe dovuto intendere, probabilmente, la sua fine della storia.
3
Si legga a questo proposito il panegirico di uno degli esponenti del pananglismo contemporaneo, John O’Sullivan, a proposito della
velocità con cui le armate angloamericane avevano sanato la ferita inferta da Saddam al piccolo stato kuwaitiano. Citato in: William
Wallace, “Foreign policy and national identity”, International Affairs, January 1991, p.73.
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angloamericana di ripristinare lo status quo, a fronte della (presunta) ritrosia delle potenze europee continentali,
in realtà più timorose proprio degli eccessi di potenza della hyperpuissance statunitense impegnata ad allargare
la voragine di potere tra sé e gli altri pivotal states del sistema internazionale.
L’entusiasmo dei pananglisti raggiunse il culmine di fronte alla presenza della Thatcher a Washington proprio il
giorno dell’invasione irakena, fatto questo che diede al governo inglese l’opportunità di influenzare in qualche
modo la prima grande opportunità per gli Stati Uniti di sostituire il vecchio nomos della terra bipolare con tutto
il suo <<sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati>>4 con un nuovo nomos della terra, di marca
anglosassone. Partendo dal mare.
Le due democrazie anglosassoni cominciarono effettivamente a muoversi da subito in sintonia con le
prescrizioni anglosferiche, decidendo di affrontare l’incertezza del nuovo milieu internazionale mantenendo
alcuni paletti strategici, tra cui appunto l’alleanza angloamericana, straordinario caso di sopravvivenza di una
alleanza per oltre quaranta anni nonostante l’alternanza di leadership fortemente diseguali per colore politico
nei due paesi e nonostante frangenti sistemici non sempre favorevoli alla sua persistenza. Si presentò, però,
quasi subito, un dilemma per i policy-makers angloamericani: cosa correva fare, trasformare una alleanza di
successo in una societas belli a tutela di un sistema internazionale irresistibilmente preda di un ineliminabile
stato di guerra civile permanente5, viste tra l’altro le spinte alla frammentazione che andavano già replicando il
collasso della federazione iugoslava, cercando a ogni costo nuovi nemici sulla base dei quali giustificare la
alleanza; oppure cercare di trasformare l’alleanza in un defensor pacis, in un blocco incaricato di pilotare il
sistema internazionale verso la spiaggia della pacificazione universale, tornando dunque all’originaria
ispirazione idealista della speciale relazione angloamericana nell’accezione britannica? La scommessa pannazionalistica suggerita dai teorici pan-anglisti costituiva, da questo punto di vista, una risposta certo ardita ma
non priva di senso per due paesi che si considerano guidati da un destino manifesto. Nell’affresco pan-anglista,
la Santa Alleanza Angloamericana sarebbe dovuta diventare la portatrice della pace universale, ergendosi a
custode dell’ordine internazionale e a difensore del diritto internazionale. La ricezione da parte dei teorici
anglosferici dell’arsenale teorico giusglobalista era evidente così come evidente sembrò da subito, però, la
cecità nei confronti di una gestione della politica estera da parte dell’asse angloamericano al contrario
all’insegna di un certo cinismo e di un certo disincanto, seppur prodigo di proclami di stampo giusglobalisti.
L’egemonia angloamericana cominciò difatti a presentarsi abilmente come <<essenzialmente non bellicosa>>6
sfruttando un arsenale terminologico-concettuale che ricalcava quello dell’ideologia liberale così caro agli esteti
dell’Anglosfera. Ma il diritto internazionale così come inteso nella pratica delle due potenze anglosassoni, e
degli Stati uniti in particolare, cominciò a diventare sempre più qualcosa di creato dalla volontà delle potenze
dominanti (cioè, di una sola), con i iurisconsulti zittiti e trasformati in una casta di professionisti impegnati a
registrare gli orientamenti normativi che di volta in volta venivano seguiti dagli stati più forti. L’interpretazione
angloamericana del diritto (costituzionale) internazionale cominciò a riflettere una impostazione antinormativistica incentrata su norme primarie del diritto internazionale da intendersi sempre più come << norme
giuridiche internazionali che sono espressione immediata, diretta, della volontà del corpo sociale…fondato su
una determinazione delle forze prevalenti della Comunità internazionale>>7. Il versante dell’inimicizia rese poi
4
Carl Schmitt, Terra e mare, Milano, Adelphi, 2004, p.110.
Tra le descrizioni forse più eleganti della perenne natura anarchica della politica internazionale, quella di Wight:<<se, ammettiamo,
Tommaso Moro o Enrico IV tornassero in Inghilterra e in Francia nel 1960 è molto probabile che essi ammetterebbero che i rispettivi
paesi hanno intrapreso strade e perseguito obiettivi condivisibili. Ma se volgessero l’attenzione alla scena internazionale, sarebbe più
probabile il loro stupore verso le somiglianze con ciò che ricordavano>>. Martin Wight, “Why is there no international relations
theory”, in Herbert Butterfield and Martin Wight (eds.), Diplomatic investigations, ., pp.15-35, p.25. Si noti che per Wight, come per
molti realisti, <<ancor meglio, l’ordine è garantito dall’anarchia stessa>>, come scrive Auguste Cochin: cfr. Augustin Cochin, Lo
spirito del giacobinismo, Milano, Bompiani, 2001, p.178.
6
L’espressione è di Schumpeter ed è ripresa da: Carl Schmitt, “Il concetto di politico”, in Le categorie del politico, Bologna, Il
Mulino, 1972.
7
Cfr. Rolando Quadri, Diritto internazionale, Napoli, Liguori, 1968, pp.119ss. Quadri ricordava, quasi quaranta anni fa, l’eccessiva
importanza accordata all’esperienza delle organizzazioni internazionali e in particolare dell’Onu, per non parlare delle conferenze
internazionali che secondo lui altro non fornivano che semplici raccomandazioni, nei fatti sistematicamente aggirate dagli stati quando
in contrasto con propri vitali interessi nazionali. Come precisava con straordinario realismo per un giusinternazionalista, <<occorre
accordare molto maggiore valore alla pratica spontanea degli stati che è dettata da una valutazione concreta degli interessi e delle
forze in gioco ed è determinata dalla pressione dell’opinione pubblica>>: in ibidem, p.120-121. Questa impostazione di Quadri
solleva grandi perplessità di Conforti, preoccupato che in tal modo <<si arriva a legittimare ogni abuso…viene naturale chiedersi
5
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questa disinvoltura di potenza anche più smaccata: l’unipolarità del sistema internazionale, prontamente
consolidata attraverso una strategia mirata ad aumentare la preponderanza americana sul globo, fece del
concetto di nemico, con una tale sproporzione e disparità di forze materiali (preponderanza bellica assoluta) e
ideologiche (nessuna alternativa credibile alla liberaldemocrazia) in campo, qualcosa di impossibile:<<se le
armi sono in modo evidente impari, allora cade il concetto di guerra reciproca, le cui parti si situano sullo stesso
piano…l’avversario diventa solo oggetto di coazione>>. Agli stati che si fossero opposti all’ordine di marca
anglosassone non sarebbe rimasta che la possibilità di spostare <<la distinzione tra potere e diritto negli spazi
del bellum intestinum>>; ai due vincitori, invece, la superiorità indiscussa avrebbe consentito di vedere <<nella
propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa>>8 e ciò avrebbe portato alla
criminalizzazione di ogni avversario.
Il nuovo ordine mondiale dipinto dal presidente Bush archiviata la vittoria contro l’Iraq di Saddam, ma
soprattutto la straordinaria veloce conversione agli imperativi ideologici dell’Occidente9 degli ex-nemici del
blocco di Varsavia, per gli anglosferici rappresentarono motivi di entusiasmo per vedere il disegno anglosferico
realizzato prima o poi. Nel suo manifesto strategico, Bush fece abilmente suoi tre aspetti tipicissimi della
retorica giusglobalista (cara agli anglosferici): la difesa della stabilità internazionale a ogni costo, contro ogni
mira espansionistica di una qualche potenza revisionista (con annesso divieto della guerra d’aggressione); la
tutela la promozione del movimento universale per la democrazia e il consolidamento di un unico mercato
mondiale. Ma Bush tese anche a ribadire la necessità, cruciale per l’unica superpotenza rimasta, di continuare a
servirsi delle “colleganze fraterne” per dare forma all’informe sistema internazionale post-bipolare. Ciò che
occorreva, dunque, era poter continuare a puntare sulla più duratura e affidabile alleanza strategica che gli Stati
uniti avessero mai avuto nella loro storia: la speciale relazione con l’ex-madrepatria, il Regno unito.
2. La speciale collaborazione anglo-americana
L’uomo non lotta per la felicità:
questo lo fanno solo gli inglesi.
(F. Nietzsche, Crepuscoli degli idoli)
<<Ho sempre definito la relazione come un iceberg, in cui vi è una piccola parte di esso che spunta, ma sotto
l’acqua c’è un grande business quotidiano che continua tra i due governi secondo una modalità senza precedenti
nel mondo>>. Questa citazione dell’Ammiraglio William Crowe, ex ambasciatore americano a Londra sotto la
presidenza Clinton, spiega efficacemente l’eccezionalità di una delle più importanti e durature alleanze degli
ultimi secoli: la speciale relazione angloamericana.
Malgrado sia uno dei casi empirici di alleanza più incredibili per durata e tenuta, la speciale relazione
angloamericana ha tradizionalmente sofferto di scarsissima attenzione da parte dei politologi. La straordinaria
assenza di contributi teorici di rilievo da parte della politologia internazionalistica su un’intesa politico-militare
rimasta informale, che ha resistito malgrado il succedersi di sistemi internazionali diversissimi per polarità e
grado di eterogeneità (almeno tre dal 1945 ad oggi), e malgrado l’alternarsi di leadership politiche nei due paesi
molto diverse tra loro per colore ideologico, è qualcosa che stupisce soprattutto se si considera che il fenomeno
delle “alleanze” resta uno degli argomenti più trattati dalla disciplina delle relazioni internazionali. È così che lo
“strano caso” della speciale relazione angloamericana è divenuto, da semplice case-study per dimostrare la
persistenza di una alleanza, soprattutto una preziosa occasione per le relazioni internazionali di riflettere sui
profondi silenzi e abissali vuoti teorici di cui continua a essere costellata questa americanissima disciplina,
forgiata durante la parentesi bipolare della guerra fredda, tuttora fortemente condizionata dallo stile in politica
estera adottato dall’egemone statunitense ma soprattutto scarsamente interessata alla dimensione istituzionale
della convivenza internazionale di tipo informale.
come è possibile legittimarli da un punto di vista giuridico se…connaturato con l’idea di diritto c’è sempre un elemento di stabilità>>.
Cfr. Benedetto Conforti, Diritto internazionale, Napoli, ESI, 2002, p.50.
8
Carl Schmitt, Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991, pp.429-430.
9
Basta rileggere parte del discorso che tenne Eltsin il 1° giugno del 1991 per rendersi conto dell’inversione di marcia che avrebbe
preso la Russia post-sovietica:<<il nostro paese non è stato fortunato. Infatti fu deciso di condurre l’esperimento marxista su di noi - il
destino – più precisamente, ci spinse in questa direzione. Piuttosto che da qualche paese africano, l’esperimento cominciò da noi. E
noi abbiamo alla fine dimostrato che non v’è nessun luogo adatto a simile idea. Essa ci ha solo sospinti lontano dalla via che i paesi
civilizzati del mondo hanno imboccato…è un’umiliazione continua, un promemoria che ad ogni ora ti ricorda la tua condizione di
schiavo>>. Citato in: Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, BUR, 1992, p.109.
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Prevedibilmente, lo studio della speciale relazione è finito così col fungere da crocevia di quella serie
ininterrotta di dilemmi e cortocircuiti metodologici e teorici che assillano dalla sua genesi la disciplina relazioni
internazionali: la tendenza a dare per scontate istituzioni che poi così scontate non sono, considerandole date e
assiomatiche, naturali costanti del sistema delle relazioni internazionali e dunque prive di quella urgente
necessità di analisi che invece assilla molte altre issues di politica internazionale; l’indubbia preferenza certo
per i fenomeni aggregativi (rispetto a quelli disaggregativi), tra cui spiccano proprio le alleanze, difatti
ampiamente trattate da una letteratura poderosa, ma al contempo l’insolita assenza di attenzione per un’alleanza
tra due poliarchie che ha mostrato una longevità difficilmente riscontrabile, addirittura preludio, secondo un
numero crescente di analisti, di un’eventuale associazione Anglosferica; la preferenza della disciplina, che pure
vanta una predilezione per l’approccio olistico-strutturale, a concentrarsi, in questo specifico caso empirico,
sulla semplice affinità linguistico-istituzionale tra i due attori per spiegare l’eccezionale capacità di adattamento
dell’intesa, escludendo ogni variabile sistemica; e, in ultimo, la tendenza da parte di quella schiera sparuta di
studiosi che hanno affrontato il tema, a ignorare quasi completamente il tipo peculiare di
cooperazione/collaborazione tra Stati Uniti e Regno Unito che si è realizzata negli anni, preferendo sempre
arrestarsi o alla comune matrice identitaria tra le due democrazie quale fonte della genesi e della perseveranza
dell’intesa, o al contrario all’invadente presenza del comune nemico internazionale di turno, che avrebbe
semplificato la convergenza di interessi, oppure ancora insistendo sulla necessità per Londra di congelare il
proprio declino imperiale saltando sul carro statunitense (teorie del “bandwagoning” di marca realista).
Dimenticando così che la speciale relazione sorse certamente come risposta politico-militare alla minaccia
espansionistica sovietica nei primi anni della guerra fredda, che certamente fu il prodotto dell’astuta strategia
britannica di non controbilanciare (questa volta) l’egemone di turno ma di assecondarlo per calcoli di proprio
tornaconto di potenza (essere l’alleato fidato dell’egemone paga), consentendosi così di rimandare la cruciale
scelta di campo tra Oceania (alleato naturale?) ed Europa (comunità di destino o semplice alleanza?),
riproponendo per l’occasione la validità del mito dell’alleanza tra le potenze Wasp per meglio difendere i valori
(anglo)occidentali. Ma dimenticando, crucialmente, che la speciale relazione angloamericana, una volta sorta,
nei decenni successivi, si concretizzò in una intensissima cooperazione nei settori dell’intelligence10,
dell’assistenza in campo strategico e nucleare e in campo economico, che continua ancora oggi.
Collaborazione, peraltro, che ogni amministrazione americana e ogni governo britannico semplicemente
trovavano sistematicamente già in corso una volta iniziato il rispettivo mandato, e che semplicemente tesero a
perpetuare: per convenienza (come sostengono i realisti) e per inerzia (come sostengono gli studiosi di
burocrazie per cui organizations and institutions die hard).
Ciò che del resto e in fin dei conti stupisce maggiormente è che, a seconda dei frangenti storici, l’intesa
angloamericana si è talvolta dimostrata indifferente alla somiglianza politico-culturale tra le due democrazie e
molto condizionata dal contesto internazionale e dalla logica della power politics, in linea con le prescrizioni
teoriche del neo-realismo e confermando che le pressioni della competizione internazionale contano spesso
molto di più delle preferenze ideologiche o delle pressioni interne, come ricorda sinteticamente Waltz11; mentre
altre volte, invece, la variabile domestica interna - quella di affinità ideologica tra i policy-makers o la stretta e
intensa cooperazione in numerose issues areas tra Stati Uniti e Regno Unito -, ha giocato un ruolo in un certo
senso decisivo, a fronte di condizioni sistemiche avverse alla tenuta dell’intesa e al raggiungimento di un
accordo.
Ora, se si lancia uno sguardo d’insieme sull’evoluzione (potenziale) della politica internazionale attuale, la
capacità di adattamento della speciale relazione angloamericana potrebbe effettivamente riproporsi con nuovo
vigore. La crisi della categoria di Occidente12, e dunque dell’alleanza euratlantica13, sembra risolversi per un
verso nel definitivo sganciamento dell’Europa franco-tedesca (“l’asse carolingio”) dal proprio referente
atlantico, per approdare (forse) a quella polity sovranazionale europea (dai connotati più o meno statuali) così
10
Su questo tema si veda l’imponente lavoro di: Richard J. Aldrich, The hidden hand: Britain, America and Cold War secret
intelligence, London, John Murray, 2001.
11
Kenneth N. Waltz, Teoria della politica internazionale, Bologna, Il Mulino, 1987.
12
Quella che Spengler definiva “euro-occidentale e americana”. Cfr. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Milano,
Longanesi, 1981.
13
Non più “alleanza inevitabile” dunque. Esprime un punto di vista diverso: Vittorio Emanuele Parsi, L’alleanza inevitabile, Milano,
Egea, 2004.
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
agognata dai difensori del modello integrazionista14; per l’altro, la crisi dell’idea di Occidente si paleserebbe nel
definitivo consumarsi di quella comoda oscillazione politico-identitaria del Regno Unito tra Europa e Oceania,
che vuole Londra sospesa tra Bruxelles e Washington, fatto questo che permetterebbe (forse) di giungere al
vero momento critico dell’Occidente: la definitiva separazione dell’isola britannica dal Continente e suo riavvicinamento all’ex-colonia: il divorzio britannico dalla terraferma europea, lo sposalizio tra la perfida
Albione e l’Aquila statunitense. Se allo sciogliersi dell’intricatissimo nodo euro-atlantico si aggiunge la
navigazione del sistema delle relazioni internazionali in un arcipelago complesso di macro-aggregati
continentali assemblati e organizzati lungo linee di civilizzazioni, allora l’ipotesi della formazione di una
seconda versione di “polo geopolitico pananglista” - ora denominata dai suoi adepti “Anglosfera” comincerebbe ad avere una certa credibilità scientifica e plausibilità empirica. Del resto, come vedremo più
avanti, i recenti progetti anglosferici, ispirati ai nobili precedenti tardo-ottocenteschi, che auspicano una
ricongiunzione di tutte le potenze anglosassoni del globo attorno a un nucleo anglo-americano, stanno avendo
un discreto crescente successo. Quest’ultimo stadio della specialissima evoluzione dei rapporti angloamericani,
vale a dire l’ipotesi di associazione tra Washington e Londra, l’ipotesi di una “Londington”, da delirio
nostalgico di qualche sentimentale Wasp, potrebbe così realizzare il sogno della vecchia fratellanza
anglosassone, attualizzato alla logica e alla grammatica delle relazioni internazionali del XXI secolo.
Ma se si accantona una prospettiva internazionalistica e si sposta la lente sulla situazione domestica interna
delle due democrazie anglosassoni e sulla loro evoluzione, allora l’ottimismo sulla tenuta dell’alleanza (per non
parlare dell’ottimismo circa la sua eventuale evoluzione in senso anglosferico), tende ad apparire tutto sommato
valutazioni affrettate e scarsamente sensibili verso gli epocali sconvolgimenti che stanno scuotendo e
riconfigurando le società di Stati Uniti e Regno Unito.
Sul versante della società statunitense, i cambiamenti in atto hanno purtroppo ricevuto scarsa attenzione da
parte della politologia internazionalistica, persino da parte di quegli studiosi (oggi pochissimi) impegnati a
studiare il foreign policy making: il processo di inarrestabile etnicizzazione della società americana si sta
traducendo in una imponente irruzione nel foreign policy making di un numero sempre crescente di gruppi
etnici di più recente immigrazione che mantengono e reclamano (a differenza che in passato) fortissimi legami
con la madrepatria, che accettano con riluttanza l’idea di una sola patria statunitense, e che mettono in
discussione l’idea stessa di un monolitico concetto di interesse nazionale a vantaggio di un più coerente
interesse etnico-nazionale. Non solo. L’inedita ispanizzazione di ampie porzioni della società e degli stati della
federazione americana al confine del Messico (ma non solo), sembrano consumare per sempre, a differenza
delle precedenti ondate migratorie prima o poi integrate/assimilate, l’identità wasp della democrazia americana,
indubbiamente uno straordinario collante tra Londra e Washington per la tenuta della speciale relazione. Quello
che sembra prospettarsi all’orizzonte è l’annichilimento proprio della comune matrice etnico-culturale tra le due
democrazie, il distanziamento irreversibile tra i due paesi per ciò che concerne la comunanza di cultura e
(persino) di lingua (negli Usa si discute ormai non più nascostamente, ma pubblicamente, di bilinguismo, e solo
24 stati su 50 hanno l’inglese come lingua ufficiale ex-costituzione).
Ma anche sul versante britannico le novità non mancano di certo e tutte concorrono a complicare la tenuta della
speciale relazione. Nel Regno Unito, infatti, è vero che i processi di devoluzione a Galles e Scozia non
sembrano avere avuto un impatto significativo sul foreign policy making, dal momento che le rivendicazioni
scozzese e gallese restano rivendicazioni comunque (per ora) indifferenti ai temi di politica estera, mentre
l’unico impatto che sembrano produrre è un ulteriore cortocircuito di quel processo di ridefinizione dell’identità
nazionale Ukiana in atto. Ma ciò che più sembra preoccupare Londra è l’incalzare prepotente dell’ideologia del
multiculturalismo, ormai risoltasi per un verso in un inasprimento della presa di coscienza dei numerosi gruppi
etnici presenti in Inghilterra (intensificatosi dopo l’11 settembre), e che finora sono stati identitariamente
esclusi dalla rimappatura del British way; per un altro, angosce sempre crescenti sembrano provenire dal
tentativo da parte dei gruppi etnici più assertivi di intraprendere la via americana all’interferenza nel foreign
policy making (la lobbizzazione etnica della politica estera), tentativo bloccato - per ora - dall’iniziativa
congiunta Blair-Straw volta a neutralizzare queste richieste istituzionalizzandole, per evitare proprio forme di
pressione extra-istituzionali. Tutto questo sembra rendere assai incerto e scivoloso il futuro del Regno Unito,
futuro peraltro aggravato dalla situazione di enorme incertezza identitaria in cui versa il paese a causa del
14
Anche se la recente bocciatura del trattato costituzionale europeo da parte della Francia e dell’Olanda oltre alle perplessità
dell’opinione pubblica tedesca sulle virtù dell’euro (secondo la Bild Zeitung il 96% dei tedeschi collega crisi economica tedesca e
abbandono del marco), hanno assestato un colpo duro a questa linea.
7
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
tortuoso e interminabile processo di ridefinizione della Britishness, utilissima, come insegnano gli studiosi del
foreign policy making attenti ai condizionamenti dell’identità nazionale, a definire le priorità in politica estera e,
come ricorda Huntington nel suo ultimo lavoro, vitale per definire l’interesse nazionale Ukiano.
Quello che può comunque dirsi con relativa certezza è che la tenuta dell’alleanza continuerà a dipendere
innanzitutto dal grado di influenza che la Gran Bretagna riuscirà a mantenere sugli Stati Uniti, e ciò dipenderà
dalla capacità britannica di mantenere una certa posizione nella gerarchia del potere internazionale e in parte
dalla capacità dell’asse angloamericano di reinventare l’alleanza per contrastare nuovi nemici. La specialità,
invece, continuerà a dipendere più dalla capacità britannica di continuare quella cooperazione iniziata nel corso
della seconda guerra mondiale nei settori nucleare, dell’intelligence e della difesa (cui poi si sono aggiunti forti
scambi commerciali), cooperazione quasi “sotterranea”, meno pubblica ma probabilmente più efficace di molte
dichiarazioni ufficiali così spesso dense di retorica e certamente più importanti per la Gran Bretagna di una
speciale relazione semplice <<consolazione per la perdita di potere reale>> e certamente molto di più di una
<<relazione specialmente stretta…prodotto, o in ogni caso, residuo di abitudini alla cooperazione per più di
cinque decenni>>15. Questa intensa collaborazione sotterranea tra i due paesi nei settori suddetti ha reso e
continuerà a rendere questa alleanza Usa-Uk, “la speciale relazione angloamericana”.
Ma altri fattori potrebbero, come in passato, aiutare la tenuta dell’alleanza angloamericana, ad esempio la
stabilità e la solidità delle istituzioni politiche britanniche, il fatto cioè che le leadership che si sono
sistematicamente alternate al potere nel Regno unito mai misero in discussione la permanenza di basi militari
statunitensi sul suolo britannico. La solidità istituzionale della Gran Bretagna è stata una grande garanzia per gli
Stati Uniti, perché in essa Washington ha visto la possibilità di assicurarsi la tranquillità di una cooperazione
continuativa in campo militare, cosa non sempre così certa per ciò che concerne altri paesi. Gli esempi non
mancano. Molti dei partner militari degli Stati Uniti non consentono l’uso del territorio nazionale per scopi
militari agli americani. La Francia come noto espulse le forze americane dal proprio suolo con De Gaulle e si
ritirò dalle forze militari Nato. Paesi come la Norvegia e la Danimarca non consentono l’installazione di basi
militari americane sul proprio territorio nazionale. La Spagna alla fine degli anni ’80 aveva chiuso la base
Poseidon a Rota e parte degli F-16 vennero volontariamente accolti dalla Gran Bretagna. La Grecia, come noto,
si ritirò dalla Nato per sei anni negli anni ’70 e periodicamente minaccia di chiudere tutte le basi militari
americane. Il governo di Ankara spesso minaccia Washington di chiudere le sue basi nel paese. Non solo.
Mentre il mantenimento delle basi militari in questi paesi costa e parecchio al governo degli Stati Uniti, non è
previsto alcun “pedaggio” al governo britannico per le basi sul suo suolo. Se a questo si aggiunge il fatto che la
Gran Bretagna resta l’unico paese al mondo cui gli Stati Uniti forniscono missili nucleari, e Londra continua a
dipendere in modo decisivo dagli americani per il proprio arsenale nucleare; se si aggiunge il fatto che la Gran
Bretagna, grazie agli Stati Unti, resta il solo paese membro della Nato a contribuire a tutte e tre le strutture di
difesa dell’Alleanza Atlantica: armi strategiche, nucleari e convenzionali; se si aggiunge il fatto che, infine, il
legame tra gli ufficiali dei due paesi è talmente intenso e familiare da essere un legame day-to-day molto
peculiare fatto di contatti talmente peculiari che, come commentò a questo proposito un’ex ufficiale della
marina britannica,<<quando prendi il telefono per chiamare qualcuno dall’altro capo del telefono e quello è
stato a casa tua e tu alla sua, e tu lo chiami per nome e conosci il nome dei suoi figli e cose simili. Voglio dire, è
tutto un altro tipo di relazione>>16: orbene se si tiene in conto tutto ciò, la colleganza tra Usa e Uk è qualcosa di
effettivamente eccezionale nel mondo delle alleanze.
Non va poi dimenticato il campo dell’intelligence, rivelatosi in passato un settore cruciale per il successo della
speciale relazione angloamericana, e a maggior ragione oggi in tempi di Patriot Act. Infatti, dopo gli eventi
dell’11 settembre, la questione “intelligence” sembra essere una delle ragioni che spiegano la difficoltà
britannica di scegliere tra Stati uniti ed Europa. <<L’intelligence è condivisa: gli incontri del Joint Intelligence
Committee britannico sono frequentati da agenti della CIA>>17, mentre18 l’intenso scambio tra i servizi di
15
Sir Robin Renwick, Fighting with allies. America and Britain in peace and at war, New York, Times Book, 1996, p.395. Pur
essendo un libro raccontato con rara eleganza, al contempo è fortemente sbilanciato sul versante affinità tra leader al potere e poco
attento ai dilemmi strategici che tradizionalmente hanno assillato la Gran Bretagna rendendo la scelta tra Oceania ed Europa per molti
versi drammatica.
16
Citato in: Robert M. Hathaway, Great Britain and the United States. Special relations since World War II, Boston, Twayne
Publishers, 1990, p.134.
17
Gorge Kerevan, “Special relationship is alive and kicking”, The Scotsman, 17 May, 2004.
18
Charles Grant, “Intimate relations”. Can Britain play a leading role in European defense, and keep its special links to US
intelligence?”, Centre for European Reform Working Paper.
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
intelligence angloamericani sembra rendere altamente improbabile la condivisione di informazioni tra Londra e
i paesi europei19, soprattutto perché <<la cooperazione nell’intelligence comporta…la costruzione di
confidence, e l’arco di tempo necessario è inevitabilmente lungo>>20. Le conseguenze di questa
interconnessione sono ovvie: difficilmente Bruxelles e i paesi europei continuerebbero a vedere in questo
strettissimo legame tra i servizi di intelligence di Londra e Washington un asset per loro (la possibilità cioè di
venire in possesso di informazioni degli americani). Va concesso che anche il rischio per Londra è altissimo:
quello di alienarsi la fiducia di entrambe le sponde dell’Atlantico o essere guardata con sospetto ma sfruttata
ad-hoc dagli americani21.
Come si vede, il caso dell’alleanza tra Stati Uniti e Gran Bretagna è proprio una eccellente dimostrazione di
quell’incedere della istituzionalizzazione che comporta il venire meno di quel senso di possibilità non solo di
fronte ai propri funzionari ma nei confronti dell’umanità intera:<<come gli stati, sebbene mai nella stessa
misura, anche esse finiscono per essere viste come “come cose della vita”…prodotti di circostanze storiche
concrete, le alleanze finiscono per essere assimilate a dati di fatto ineludibili, a partire dai quali decidere che
cosa fare nel sistema internazionale>>22. Il fatto straordinario è che questa istituzionalizzazione, rispetto ad
altre, ha preso la forma di un consolidamento di pratiche cooperative in un numero effettivamente imponente di
settori, ma senza che sia stata necessaria una formale istituzionalizzazione, overossia la creazione di un’alleanza
con tutti i crismi di una burocrazia comune o di un patto scritto su carta. È così che sia la tradizionale
avversione dei due paesi per le alleanze vincolanti, la loro risaputa avversione per un eccesso di “normazione”
(al contrario passione duratura dei paesi dell’Europa continentale) e per burocrazie troppo invadenti soprattutto
per ciò che concerne la politica estera, hanno giocato un ruolo vitale nel determinare il mantenimento
dell’alleanza entro i confini della promessa.
Un ruolo chiave nel facilitare l’istituzionalizzazione dell’alleanza angloamericana l’ha indubbiamente avuto
“l’abitudine”, decisiva nel trasformare l’alleanza tra Stati Uniti e Regno Unito nella speciale relazione
angloamericana. Sebbene certamente non una forza determinante quando interessi vitali sono coinvolti, sarebbe
comunque un errore sottovalutare l’importanza dell’abitudine (habit) nel determinare la tenuta di una
alleanza23. I policy-makers e i decision-makers tendono ad abituarsi alla cooperazione con altri attori di altri
governi quando questa cooperazione si prolunga (e si consolida) nel tempo e tendono a considerare costoso (in
termini organizzativi) interrompere la cooperazione. Come scriveva Hume, <<quando, dunque, la mente passa
dall’idea o impressione d’un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non è determinata dalla ragione, ma da certi
principi che associano tra loro le idee di questi oggetti e le uniscono nell’immaginazione. [...] La credenza, che
accompagna l’impressione presente ed è prodotta da numerose impressioni e congiunzioni passate, sorge
immediatamente, senza nessuna nuova operazione né della ragione né dell’immaginazione. Di questo posso
esser certo, perché non ho nessuna coscienza di una tale operazione, né, d’altronde, saprei dove trovare un
fondamento di essa. Se, dunque, chiamo abitudine ciò che procede da un’antecedente ripetizione, senza nessun
nuovo ragionamento o inferenza, possiamo stabilire come verità certa che ogni credenza, la quale segua
un’impressione presente, ha in questa la sua unica origine. Quando siamo abituati a vedere due impressioni
congiunte insieme, l’apparire o l’idea dell’una immediatamente ci porta all’idea dell’altra>>24.
In breve, la collaborazione angloamericana resta qualcosa di praticamente inestricabile quando si fa riferimento
al settore dell’intelligence, quando si analizza la capacità di proiezione di potenza degli Stati Uniti su scala
globale grazie alla possibilità di Washington di utilizzare come punti di appoggio basi navali sparse ai quattro
angoli del globo (come vedremo), quando si parla di sistema di deterrenza nucleare statunitense e quando si
parla di fronte wasp nell’esportare la liberaldemocrazia e l’economia di mercato (con o senza guerra): in tutti
questi casi il contributo britannico è importante e capillare, per quanto silenzioso. Ma è proprio in questo
silenzio che risiede parte della potenza americana e gran parte della potenza britannica.
19
Si pensi solo al caso Echelon e alla denuncia francese di una Anglosaxon conspiracy.
Richard J. Aldrich, “Transatlantic intelligence and security cooperation”, International Affairs, Vol.80, No.4, p.738.
21
Per gli europei poi Londra diverrebbe un alibi per la loro straordinaria incapacità di dotarsi anche di un servizio di intelligence
comune e non policentrico, facente capo a ciascun stato-nazionale.
22
Alessandro Colombo, La lunga alleanza, Milano, FrancoAngeli, 2000, p.94.
23
James N. Rosenau, “Before cooperation: hegemons, regimes, and habit-driven actors in world politics”, International Organization,
Autumn 1986, pp.849-894.
24
David Hume, Trattato sulla natura umana, Roma, Bari, Laterza, 1978, pp.100-106 e 117.
20
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
3. L’abbraccio oceanico: una comune concezione insulare e marittima del globo
Per un sistema basato sulle usurpazioni locali, bastava la terra;
per un sistema basato sull’aggressione universale,
l’acqua diventava indispensabile.
(Marx)
Chi ha iniziato gli uomini alla grande navigazione?
Chi svelò il mare, indicandone le contrade e le vie?
Insomma, chi scoprì il globo? La balena e il baleniere.
Molto si deve alla balena: senza di lei i pescatori si sarebbero
tenuti sottocosta, dal momento che quasi tutti i pesci vivono
lungo le rive; fu lei a emancipare i pescatori e a condurli dappertutto.
Trascinati al largo, poco a poco si spinsero così lontano che,
seguendola sempre, si trovarono a passare a loro insaputa da un mondo all’altro.
(Jules Michelet, Il Mare)
Alleati, con il mare, contro la terra.
L’alleanza angloamericana nacque anche, e soprattutto, come passaggio di consegne non tra due grandi potenze
qualunque, ma tra due grandi potenze marittime; nacque dalla convergenza strategica tra l’ex regina degli
oceani e il nuovo Leviatano dei mari, uniti nello sforzo di fronteggiare il Behemot sovietico nel primo vero
confronto globale della storia delle relazioni internazionali. Quelle che si accordarono nelle ultime battute della
seconda guerra mondiale (in realtà dalla stesura della Carta Atlantica nell’agosto 1941) e poi più
compiutamente (e sul campo) nei primi anni della guerra fredda erano dunque due potenze marittime, che
condividevano una medesima concezione marittima delle relazioni internazionali essenzialmente frutto di una
comune assai peculiare collocazione geopolitica: di tipo insulare quella britannica, di tipo insular-continentale
quella americana. Questa comune dislocazione del proprio orizzonte geopolitico lungo un perimetro simile ebbe
indubbiamente il merito di facilitare questo avvicinamento perché predispose entrambi gli stati a una comune
concezione dell’ostilità, della durata delle alleanze e dell’utilità delle stesse ma soprattutto le predispose a una
simile Weltanschauung delle relazioni internazionali: ad esse comune era il modo di vedere dal mare.
Il destino riservato dalla storia a Gran Bretagna e Stati Uniti corse su binari per molti versi simili. La
collocazione geopolitica tracciò il campo delle possibilità e operò per entrambi i paesi come <<un incentivo e
un limite, favorevole od ostile agli sforzi delle società, indulgente o spietato verso le loro manchevolezze>>, e
le invitò <<a compiere certe azioni>>25. Il “senso dello spazio” (Raumsinn) che Gran Bretagna e Stati Uniti
maturarono operò inizialmente come una barriera naturale grazie alla quale difendersi dai nemici, poi quale
testa di ponte per la conquista degli oceani. E il motto divenne, per entrambi, a country destined by geography
to command the seas”.
La conversione all’elemento marittimo dell’Inghilterra fu qualcosa di veramente unico. La Gran Bretagna poté
sposare gli oceani solo dopo aver liquidato ogni potenziale ostilità terrestre vicina: conquistato il Galles nel
1576, la Scozia nel 1707 e l’Irlanda cattolica, storica spina nel fianco dell’isola britannica, nel 1801 con l’Act of
Union, poté darsi finalmente a un’esistenza marittima in grande scala (cioè su scala globale), dunque solo dopo
aver neutralizzato (potenziali) vicini terrestri nemici. Fino ad allora, alla Corona britannica, come ricorda Carl
Schmitt, non era restato che affidare questo immane compito ai “pirati” (Sir Walter Raleigh e soci), a coloro
cioè che osavano sfidare gli oceani e conquistare terre ostili e di nessuno (o di qualcuno ma che il mandato della
Regina autorizzava a conquistare). La Corona britannica non trovò niente di meglio che affidare a coloro che
minus delinquit quia in mari delinquit (secondo la frase celebre dell’umanista rinascimentale Alciato), a coloro
che “osavano”26 lanciarsi alla conquista di terre res nullius potendo contare sull’assenza, in mare aperto, di
confini o recinzioni, di luoghi consacrati né di forme di localizzazione. Grazie a loro, l’Inghilterra, elemento di
congiunzione tra due diversi ordinamenti planetari della terra e del mare, sospesa tra Oceania ed Europa, decise
di non “interrarsi”, come fecero invece la Spagna e poi la Francia, che pure avevano tradizioni marittime
sviluppate, ma decise di optare per il matrimonio con l’elemento marittimo, per la conversione all’elemento
acqua, riuscendo, aiutata dai propri pirati, nella cruciale impresa di affermare <<due concetti di libertà dallo
25
Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, Milano, Comunità, 1971, p.228-229.
Come ricorda Schmitt, “pirata” deriva dal verbo greco peiran, che significa provare, tentare, osare. Cfr.: Carl Schmitt, Il nomos
della terra, Milano, Adelphi, 1991, p.21 e 210ss.
26
10
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Stato…: la libertà dei mari e la libertà del commercio marittimo, dove le navi erano essenzialmente nonstatali….i pirati inglesi realizzarono nuove libertà….le linee d’amicizia e la grande conquista territoriale, e
quindi la nuova libertà dei mari, che divenne per loro un’unica grande conquista di mare. Essi aprirono la strada
alla nuova libertà dei mari, che era una libertà essenzialmente non-statale. Erano i partigiani del mare>>27.
L’esito è noto: l’istituzione del principio della libertà dei mari, naturale e prevedibile conseguenza
dell’impossibilità di conquistare il mare (nessuna territorialità per il mare), perché nel mare non poteva darsi
nomos, perché il mare non poteva diventare sede di un nomos28 concreto (nel mare non poteva darsi cioè
“appropriazione” dunque nemmeno divisione e distribuzione29). Ulteriore conseguenza di quella “svolta
elementare” dalla terraferma verso l’alto mare, una volta che la splendida Albione non ebbe più vicini terrestri
(nei primi del 1700), fu la grande rivoluzione spaziale planetaria e l’appropriazione se non degli oceani dei suoi
sparsi Schwerepunkt, per garantirsi (questo sì) il dominio dei mari perché <<chi domina il mare domina il
commercio del mondo e a chi domina il commercio del mondo appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo
stesso…tutto il commercio è commercio mondiale>>30.
Quanto preziosa sia stata l’insularità per gli inglesi, lo si vede anche da un punto di vista del diritto
costituzionale:<<la Manica attenuò di molto le possibilità di una invasione>>, consentì all’Inghilterra di evitare
la costruzione e il mantenimento di un esercito imponente, obbligandola almeno a dotarsi di una marina
all’altezza, <<strumento di guerra con peculiari caratteristiche per ciò che concerne lo sviluppo costituzionale.
Una marina non può essere utilizzata, certamente non come un esercito, per la repressione domestica>>31. Un
punto, questo, decisivo: il liberalismo britannico e l’adozione di istituzioni fortemente garantiste delle libertà
dell’individuo dipesero irresistibilmente dalla collocazione geopolitica (insulare) della Gran Bretagna. La
collocazione relativamente sicura dell’Inghilterra le consentì così lo sviluppo di un ordine politicocostituzionale liberale in base al quale, poi, guardare il mondo. Una conclusione, questa, cui era già giunto lo
stesso Montesquieu quando affermava che <<i popoli delle isole sono maggiormente portati alla libertà di quelli
del continente…le isole hanno generalmente un’estensione limitata; una parte del popolo non può facilmente
servire e opprimere l’altra. Il mare le separa dai grandi imperi, la tirannide non può accorrervi in aiuto>>32. Più
di recente Panebianco ha ricordato che <<si può…notare, sempre scrutando la storia, il divario che esiste,
all’interno dell’Occidente, tra certe società che maggiormente si sono avvicinate all’ideale della società libera
ed altre che ne sono state sempre più distanti. E se ne può concludere che le condizioni della società libera
hanno trovato maggiori possibilità di realizzazione, e le mantengono tuttora, nelle “talassocrazie”, nelle società
marinare e commerciali (Gran Bretagna e dominions, Stati Uniti) anglosassoni, nelle società che hanno
conosciuto il government ma non l’assolutismo e le continue guerre dinastiche e territoriali (e dunque nemmeno
lo stato, nell’accezione europeo-continentale)>>33.
L’Inghilterra dovette così la sua potenza difensiva e la possibilità di darsi istituzioni liberali primariamente alla
natura che le consentì di stare fuori dai conflitti europei, decidere l’esito dei conflitti semplicemente inviando
un corpo di spedizione, parteggiando di volta in volta per la parte più debole, potendo così riservare il grosso
delle proprie forze militari per costruire la propria supremazia navale in vista del vero obiettivo - l’espansione
imperiale34, secondo un copione che parve ripetersi con grande costanza per secoli, secondo una dottrina
immutabile35.
Quanto l’insularità e la decisione per il mare ebbero ripercussioni epocali per il popolo inglese e, poi, per
l’umanità, si evince anche prendendo in considerazione il fatto che la fondazione dell’impero britannico non fu
opera dello stato e del marchio statale perchè <<l’impero britannico fondato sul mare, invece che sulla terra,
27
Ibidem, p.210.
Cioè di un principio ordinatore.
29
Secondo l’originario significato del verbo “nemein”. Cfr.: Carl Schmitt, “Appropriazione, divisione, produzione”, in Le categorie
del politico, op. cit., pp.295-312.
30
Questo il famoso detto di Sir Walter Raleigh. Citato in: Carl Schmitt, Terra e mare, Milano, Giuffrè, 1986, p. 71.
31
Peter Gourevitch, “The second image reversed: the international sources of domestic politics”, International Organization, Autumn
1978, p.896.
32
Charles de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Torino, Utet, 1973, p.482-483.
33
Angelo Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bologna, Il Mulino, 2004, p.19.
34
Aron si premura di precisare che l’Inghilterra “approfittò” di questa insularità per sposare i mari (e Aron riporta a questo proposito
l’esempio del Giappone), perché <<la situazione insulare è una sfida e non una costrizione>>. Raymond Aron, Pace e guerra tra le
nazioni, Milano, Comunità, 1971, p.231-232.
35
Ibidem, p.341.
28
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
non è l’opera di un’organizzazione statale e non è organizzazione statale neanche nel suo insieme, non lo si può
definire né federazione di stati né stato federale>>36 dal momento che <<tutte le connessioni con i concetti
derivanti dalla terra e tutti i sistemi costruiti sul concetto di stato sono per esso senza significato>>37. Non lo
stato dunque ma privateers, compagnie commerciali, merchant-adventures, emigranti puritani fondarono
l’impero marittimo britannico38 facendo sì che <<l’espansione dell’Inghilterra nel secolo XVII era una
estensione delle forze sociali, della “society” e non dello stato. Le forze sociali si espansero per sfuggire
all’oppressione dello stato e quando lo stato….cercò di seguire la società nella sua espansione…allora sorse una
federazione di nuovi stati per impedire la realizzazione di un simile impero>>39. Senza peraltro mai costruire
una struttura per controllare direttamente l’impero, perché la forma di controllo privilegiata dagli inglesi fu
infatti l’indirect rule. L’Inghilterra poté quindi votarsi a una esistenza marittima senza passare per le “strettoie
statuali”40, senza organizzare forze armate statuali, polizia, né un sistema di giustizia e finanza come quello
continentale41. E questo passaggio dell’isola Inghilterra a una forma di potere imperiale e marittimo, e dunque
non statuale, fu tra l’altro cruciale per la nascita del sistema degli stati europeo perché la Seenahme inglese (il
dominio dei mari da parte della Corona) consentì la Landnahme degli stati europei (cioè la conquista europea
delle terre del Nuovo Mondo42).
La vicenda degli Stati Uniti è altrettanto peculiare, forse anche più peculiare per ciò che concerne il
condizionamento della situazione di insularizzazione. Le tredici colonie che si ribellarono alla Corona
britannica guadagnarono “l’insularità” in tappe successive e precisamente durante il XIX secolo, dal 1783
(Trattato di Parigi) al 1898, anno della fine della guerra ispano-americana43, dagli storici considerata la data
ufficiale per l’inizio di una politica estera degli Stati Uniti se non proprio di carattere globale, quanto meno non
circoscritta all’Emisfero occidentale. La conquista della frontiera fu la conseguenza della necessità di sottrarre
quante più terre possibili alle potenze europee (che le controllavano) comprandole, annettendole con la guerra o
con accordi strappati più o meno pacificamente. Il destino manifesto degli Stati Uniti era innanzitutto questo:
fare della Repubblica uno stato sovrano in tutto il Grossraum nordamericano e fare del grande spazio
nordamericano uno spazio di influenza esclusivamente statunitense, trasformando geopoliticamente gli Stati
Uniti in “un’isola continentale”, e poi tuffarsi negli oceani e diventare una grande potenza marittima. Nel caso
americano, dunque, la collocazione geopolitica venne, per così dire, creata artificialmente: gli Stati Uniti si
ritagliarono la collocazione geopolitica che ritenevano più utile e strategicamente vantaggiosa. Raramente uno
stato poté tanto. Persino Hegel nel 1831 (dunque già nel 1831), come riporta Aron, doveva convenire che la
collocazione geopolitica degli Stati Uniti era assolutamente invidiabile, certamente secondo canoni geopolitici
europei. <<Gli Stati liberi dell’America del Nord non hanno vicino nessuno stato di fronte al quale siano nella
situazione in cui si trovavano reciprocamente gli stati europei, uno stato che debbano considerare con sospetto e
contro cui occorra mantenere un esercito permanente. Il Canada e il Messico non incutono paura>>44. Il 1898
completò, come noto, il capolavoro. Sulla cruciale importanza assunta dalla fatidica data 1898, in realtà,
occorre fare delle precisazioni dal momento che c’è certamente del vero nel legame strettissimo tra
raggiungimento della frontiera (1895 circa) e inaugurazione di una politica estera pan-interventista, come
amano ripetere gli storici e una parte degli studiosi di relazioni internazionali (in gran parte curiosamente
36
Carl Schmitt, “Sovranità dello stato e libertà dei mari”, in L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Antonio Pellicani Editore, 2003,
p.159.
37
Ibidem, p.159.
38
<<L’Inghilterra, che per parte sua, non aveva sviluppato il dualismo tra diritto pubblico e diritto private proprio dello stato
continentale, poté così entrare direttamente in rapporto con la componente privata, svincolata dallo stato, che era presente in ogni stato
europeo>>: Carl Schmitt, Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991, p.266.
39
George Unwin, “Prefazione”, in Conrad Gill, National power and prosperity, London, 1916.
40
Carl Schmitt, Amleto o Ecuba, Bologna , Il Mulino, 1983, p.115.
41
E proprio qui risiede il senso della scelta di Hobbes nell’associare il mostro marino biblico del Leviatano, allo Stato.
42
Tassello decisivo per istituire quelle linee agonali d’amicizia e di inimicizia senza le quali mai sarebbe potuta essere possibile la
razionalizzazione della guerra a stati sovrani detentori dello jus ad bellum sul suolo europeo. In questa separazione risiede la fonte
della limitatezza dei conflitti interstatali nell’era dello Jus publicum Europaeum, conflitti combattuti <<in nome dell’ordinamento
esistente>> rendendo così possibile <<la diplomazia in senso classico, l’appianamento delle differenze attraverso il negoziato>>.
Così: Henry Kissinger, A world restored. Metternich, Castlereagh and the problems of peace 1812-1822, Boston, Houghton Mifflin,
1957, p.1-2.
43
La “splendida piccola guerra”, come ebbe a definirla il segretario di stato americano John Hay.
44
Raymond Aron, Memorie, Milano, Mondadori, 1986, p.656. Anche in: Raymond Aron, The imperial republic. The United States
and the world 1945-1973, Cambridge, Winthrop Publisher, 1974, p.XXV.
12
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
realisti: Lippmann, Kennan, Morgenthau). Ma ulteriori ricerche condotte sugli impegni in politica estera degli
Stati Uniti nel corso del XIX secolo e in particolar modo dopo la fine della guerra di secessione (1865), invitano
alla cautela nell’esagerare le novità introdotte dal 1898, dalla sconfitta dell’impero spagnolo ad opera di un
abile artifizio di Washington, che cercava ogni pretesto per attaccare Cuba, allora di dominio di Madrid. Perché,
in realtà, isolazionista la politica estera americana lo era stata certamente in passato (prima del 1898 e negli
anni ’20 e ’30 del XX secolo), ma solo se con tale espressione si intende il rifiuto di impegni permanenti per
garantirsi una libertà d’azione dai bellicosi europei e dalla perfida Albione; e senza però dimenticarsi che ciò
che così spesso si era definito isolazionismo era il semplice e saltuario disimpegno americano dallo scacchiere
europeo, conseguenza di uno spostamento dell’interesse nazionale verso altre aree del mondo, l’area del
Pacifico (e quest’accezione di isolazionismo si mostra, così, nei fatti, il frutto di una percezione tutta europea
della politica estera americana).
Ciò che qui comunque occorre sottolineare è che la necessità di patteggiare da una parte con una forte
propensione al ripiegamento nel proprio splendido isolamento, e, dall’altra, con una vocazione volta
all’espansione (destino manifesto), costrinse gli Stati Uniti a una sorta di schizofrenico comportamento in
politica estera. Schizofrenia ricordata da Aron in un celebre passaggio:<<avviano una colonizzazione di stile
europeo (Portorico, Filippine) e la rifiutano. Nel 1917-1918 buttano il loro peso sulla bilancia, determinano
l’esito della Grande Guerra e la vittoria anglofrancese, poi si ritirano. Durante gli anni ‘30, il Congresso vota
leggi destinate a prevenire l’ingresso della Repubblica in quella guerra che prevedeva. Anche in una simile
circostanza gli americani entravano nell’avvenire a ritroso>>45.
In ogni caso, ciò che qui più interessa dell’anno 1898 è che, come per l’Inghilterra il 1707, questa data coincise
con il raggiungimento ed esaurimento della frontiera che per il governo americano significava qualcosa di
molto simile a ciò per che per il governo inglese significò sbarazzarsi del problema scozzese: i confini potevano
dirsi davvero sicuri, nessuno stato ostile ai confini minacciava la serenità dei due paesi. Dunque, gli abitanti
degli Stati uniti e quelli della gran Bretagna <<avevano la sensazione di una condizione insulare protetta…una
fortezza circondata dal mare, come da una trincea>>46. Magnifici a questo proposito i versi di Shakespeare che
descrivono questa condizione di sicurezza su cui poteva contare il popolo inglese:
<<quest’isola scettrata, questa terra maestosa, questo seggio di Marte, questo secondo Eden, questo mezzo paradiso; questa fortezza che la
natura s’è costruita per difendersi dal contagio e dalla mano della guerra; questa felice razza d’uomini, questo piccolo mondo; questa gemma
incastonata nell’argenteo mare, il quale la protegge dall’invidia di nazioni meno felici come una muraglia o come il fossato d’un castello;
quest’angolo benedetto , questa terra, questo regno, quest’Inghilterra, questa nutrice, questo fecondo grembo di principi regali…l’Inghilterra,
cinta dai mari trionfanti, la cui costa rocciosa respinge l’invido assedio dell’acquoso Nettuno>>47.
Ora, questa affinità geopolitica, quest’isolamento fuori del comune e il votarsi a un’esistenza marittima da una
tale posizione privilegiata, furono la base del modo comune di intendere le relazioni internazionali e dunque
del modo di organizzarle da parte delle due potenze anglosassoni: questo comune modo di vedere dal mare
indubbiamente agevolò la fondazione di una alleanza tra le potenze marittime. Alleanza agevolata
probabilmente, sia detto per inciso, anche dalla comune matrice protestante e dal simile spirito migratorio
rispetto cioè alla diversità dei popoli cattolici dal momento che, come ricordava sottilmente Carl Schmitt
<<pare che i popoli cattolici abbiano, col suolo e con la terra, un rapporto diverso da quello dei protestanti;
forse perché quelli, all’opposto di questi, sono per lo più popoli contadini, che non conoscono la grande
industria….gli ugonotti e i puritani, a paragone di questi poveri esuli, hanno una forza e un orgoglio di
dimensioni spesso disumane: sono capaci di vivere su ogni suolo….possono ovunque costruire le loro industrie,
possono fare di ogni suolo il campo in cui esercitare la loro vocazione al lavoro e la loro “ascesi intramondana”;
in conclusione, possono ovunque avere una dimora confortevole, ma tutto ciò perché si fanno signori della
terra, soggiogandola. Il loro modello di dominio resta inaccessibile al concetto romano-cattolico di natura.
Sembra che i popoli cattolici amino il suolo, la Madre Terra, in modo ben diverso: hanno tutti il loro
terrisme>>48.
45
Raymond Aron, Memorie, op.cit., p.656.
Carl Schmitt, Terra e mare, Milano, Giuffrè, 1986, p.73
47
William Shakespeare, Riccardo II, Milano, Garzanti, 1988, p.22.
48
Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica. La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica, Milano, Giuffrè, 1986,
pp.38-39.
46
13
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
La più importante conseguenza di questa conversione elementare che si palesò nel fare del mare non più un
elemento ma uno spazio per il dominio dell’umanità49, fu che “i metri e le proporzioni della politica”50, per il
modo di vedere puramente marittimo delle due potenze anglosassoni, cambiarono profondamente: quella che
per gli altri popoli della Terra era la terraferma tese a ridursi a costa, a spiaggia dotata di un retroterra. Questo
modo di vedere a partire dal mare cominciò a pensare per punti di appoggio e linee di comunicazione,
trasformò concetti così pregni di significato per una Weltanschauung continentale come quelli di “terra e
patria” in semplice “retroterra” mentre “continentale” acquisì un significato secondario di arretrato mentre i
popoli della terraferma divennero “backward people”51. La svolta fu davvero epocale. Le due potenze
anglosassoni si impegnarono nel fare dell’elemento continentale un sinonimo di tirannide, mentre quello
marittimo venne inevitabilmente affiancato alla libertà dalle minacce vicine e soprattutto alla libertà dallo
spettro (sempre presente) del soccorso fornito da un tiranno. Prese piede la tesi del doux commerce secondo cui
il commercio ingentiliva i costumi e rendeva le nazioni meno bellicose52. Il salto logico-concettuale che si
produsse fu anche più lampante: l’ordine politico e la pace divennero situazioni politiche possibili solo dal
mare, per cui quel che divenne necessario fu un “avvicendamento tra elementi” che consentisse un
“avvicendamento tra facitori di ordine”: l’ordine marittimo-navale doveva andare a sostituirsi a quello
continentale. Quella che si attuò, con metafora biblica, fu la conversione elementare persino del mostro biblico
del Leviatano che da mostro marino distruttore passò a essere il vero nuovo portatore e creatore di ordine,
l’unico dispensatore di forma politica e di sovranità. Il suo rivale, il mostruoso Behemot, da signore della terra
si trasformò in caos politico: in guerra civile. Questa opposizione epocale tra terra ferma e mare libero, tra
potenze navali e potenze terrestri, fu alla base anche della distinzione cruciale tra due tipi di guerra, terrestre e
navale, che potevano d’ora in avanti contare non solo su tecnologie e strategie assai differenti, ma soprattutto su
concetti giuridici di nemico, ostilità e preda differenti53. Il Landrecht continentale da una parte e il Seerecht
marittimo dall’altra maturarono così propri orizzonti giuridici globali, inconciliabili54.
Questo comune modo di pensare le relazioni internazionali partendo dal mare da parte di Gran Bretagna e Stati
Uniti portò a una forte convergenza di filosofie politiche. Nel suo importante saggio sulla necessità di non
perdere il legame che la teoria delle relazioni internazionali intrattiene con la teoria politica, Arnold Wolfers55,
quasi cinquanta anni fa, richiamava questa somiglianza tra Stati uniti e Regno Unito lungo un comune, a suo
dire, tipo di teoria politica necessaria conseguenza dell’eccezionale collocazione geopolitica dei due paesi, che
si tradusse nella predilezione per un tipo di “filosofia di scelta” rispetto a quella elaborata e adottata dai paesi
europei continentali (Germania in primis) definibile invece come “filosofia di necessità”. La possibilità per le
due potenze anglosassoni di scegliere con relativa tranquillità quale forma più appropriata dare alla propria
politica estera, garantiva così tutta una serie di privilegi davvero straordinari e inconsueti per le potenze
continentali europee alle prese con i classici problemi legati a un’esistenza terragna: la possibilità di non tenere
in tempo di pace eserciti importanti56, di tenere bassa insomma la mobilitazione potendo così destinare parte
49
Carl Schmitt, “Sovranità dello stato e libertà dei mari”, in L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Antonio Pellicani Editore, 2003,
p.162.
50
Espressione utilizzata in: Carl Schmitt, Terra e mare, Milano, Giuffrè, 1986,p.75.
51
Ibidem ,p.75.
52
Ma poi ci pensò Hamilton a spiegare quanto il commercio potesse essere causa di un aumento della bellicosità del sistema
internazionale. <<la brama di ricchezza non rappresenta, forse, una posizione altrettanto tiranna e prepotente del desiderio di potenza
e di gloria? Non è forse vero che dacché il commercio è divenuto il fulcro delle nazioni, che le ragioni commerciali hanno dato l’esca
ad un numero di conflitti armati, pari a quello fornito dalla cupidigia di terra e di dominio?>>. Citato in: Angelo Panebianco, Il potere,
lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bologna, Il Mulino, 2004, p.248.
53
Pier Paolo Portinaro, La crisi dello Jus Publicum Europaeum. Saggio su Carl Schmitt, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, p.184.
54
A questa irrisolta inconciliabilità Schmitt fa risalire il fallimento della Lega di Ginevra (la SdN), che sorse totalmente incapace di
fondare un ordinamento spaziale non tanto a causa dell’assenza di due grandi potenze come Stati Uniti e Russia, ma per la pretesa di
essere al contempo ordinamento europeo e universale-globale: le due potenze europee della SdN, Francia e Inghilterra, intendevano in
un modo molto diverso <<lo status quo dell’Europa e della Terra. I loro concetti dello status quo non concordavano minimamente e
giungevano anzi a contraddirsi e ad annullarsi reciprocamente…lo status quo cui miravano gli interessi inglesi riguardava un impero
mondiale esteso su tutta la superficie terrestre, avente come presupposto il dominio sui mari>>: cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra,
Milano, Adelphi, 1991, p.313-34.
55
Arnold Wolfers, “Introduction”, in Arnold Wolfers and Laurence W. Martin (eds.), The Anglo-American tradition in foreign affairs,
New haven Yale University Press, 1956.
56
Questo del rapporto tra democrazia e politica internazionale, e in particolare tra contesto geopolitico di appartenenza e tipo di
apparato statale, e tra guerra-militarsimo-dispotismo, è un punto cruciale già a suo tempo sollevato da: Alexis De Tocqueville, La
democrazia in America, Milano, BUR, 1982.
14
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
delle ingenti risorse altrimenti destinate per mantenere questi eserciti ad altri campi, tra cui lo sviluppo di una
forte flotta navale per meglio proteggere i propri interessi commerciali; l’impossibilità di subire paci umilianti
come quella subita dalla Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 ad opera delle truppe prussiane di
Bismarck o dal secondo Reich tedesco nel 1919, essenzialmente a causa della mancanza di confini condivisi
con altre potenze europee e grazie alla possibilità di contare su territori sparsi per tutto il mondo da cui attingere
le risorse vitali per l’economia di una grande potenza; una concezione della guerra come male del mondo da cui
liberarsi al più presto57, come errore di calcolo di leader politici inesperti o come aberrazione prodotta da tiranni
impegnati a mantenere il potere o a estenderlo, e una concezione della stessa idea di conflitto come patologia
curabile sia a livello di relazioni sociali interne che a livello di relazioni internazionali58; una particolare
propensione a considerare deleterio ogni sforzo di cercare un senso nei ricorrenti meccanismi di balance-ofpower, e invece la passione per i meccanismi di sicurezza collettiva.
Ma le somiglianze e le convergenze geopolitiche non finiscono qui.
Paul Johnson59, ad esempio, ricorda quella che forse è la più importante caratteristica geopolitica che accomuna
le due democrazie, da sempre, vale a dire la forte propensione verso l’isolazionismo. La tendenza anche
britannica di minimizzare i contatti con il mondo persino nel momento della sua massima espansione, si
manifestò proprio in quel tradizionale anti-europeismo britannico che intendeva la Manica sorta di cordone
sanitario tra le sue splendide coste e il continente: molto prima che gli Usa erigessero nel 1823 con la dottrina
di Monroe quella linea dell’emisfero occidentale che serviva alla nascente grande potenza per proteggersi dalle
ingerenze europee, l’isola Inghilterra sposava gli oceani non prima di aver costruito uno sbarramento
geografico ma soprattutto culturale tra sé e l’Europa. L’Inghilterra fu sempre così of Europe and not in Europe.
Dunque quando gli Stati Uniti decisero di erigere con l’enunciazione del presidente Monroe il blocco
geopolitico difensivo del Western Emisphere, altro non fecero che trapiantare nel continente americano una
peculiarità tutta inglese. L’ostentazione di una separatezza culturale delle isole britanniche dal continente, il
costante ribadire per secoli la specificità britannica, irriducibile alla sola dimensione geopolitica europea, fu il
cordone sanitario eretto dal popolo britannico per difendersi dalla barbarie del continente.
Ma quanto un destino simile a quello della Gran Bretagna fosse riservato agli Stati Uniti era cosa nota (e
auspicata) dal contrammiraglio della marina statunitense Alfred Thayer Mahan (1840-1914), una delle figure
decisive della scuola geopolitica statunitense, che fece dello speciale legame marittimo tra Uk e Usa una
battaglia personale. Mahan infatti, nella sua opera più famosa60, se la prendeva contro l’ottusa riluttanza e i
timorosi tentennamenti delle leadership statunitensi a volgersi a un’esistenza marittima, sul modello di quella
britannica. Consapevole che la guerra di secessione americana era stata vinta dal Nord industriale anche grazie
al blocco delle coste del Sud attuate da una flotta già moderna, e consapevole che con l’era industriale le navi
non più a vela ma a carbone avrebbero necessitato continuo approvvigionamento di combustibile, Mahan
adduceva diverse ragioni per spiegare questa riluttanza che andava archiviata: la priorità alla conquista
dell’ovest, cui erano state destinate la gran parte delle risorse; il costo eccessivo delle comunicazioni via mare
tra la costa Pacifica e quella Atlantica degli Usa; la relativa autosufficienza per ciò che concerne le risorse e
ovviamente quello splendido isolamento che garantiva agli Usa di stare lontano dai teatri bellici di mezzo
mondo. Secondo Mahan, sei fattori risultavano determinanti perché una potenza potesse diventare in un tempo
ragionevole una grande potenza marittima. Primo, una collocazione geografica che consenta di essere
relativamente al sicuro dalle mire espansionistiche terrestri di qualche stato confinante (l’esempio è l’insularità
della Gran Bretagna che a differenza dell’Olanda ad esempio, le avrebbe concesso di evitare la costruzione di
un esercito di terra poderoso per difendere i confini concentrandosi dunque sulla sola potenza marittima, e della
Francia, continuamente distratta dal perseguimento di un primato continentalista61); secondo, la morfologia del
57
Questo soprattutto, ovviamente, sul versante statunitense.
Si ricordino, a titolo d’esempio, gli scritti del politologo Woodrow Wilson, prima di diventare presidente, tutti impregnati di spirito
evangelico per sgombrare dal mondo l’impurità della guerra. I trattati degli anni ’20 per l’abolizione della guerra, tra cui il famigerato
Briand-Kellog, originano proprio da questa componente massiccia di puritanesimo applicato alla convivenza internazionale.
59
Paul Johnson, “The myth of American isolationism”, Foreign Affairs, May/June 1995, p.160
60
Alfred Mahan, The influence of sea-power upon history 1660-1783, Boston, 1890.
61
In un certo senso inevitabile per Parigi, dal momento che la Gran Bretagna la obbligava, controllando lo stretto di Gibilterra, a
tenere due flotte distinte, una sul Mediterraneo e una sull’Atlantico, difficili da coordinare. Similmente, Mahan ricordava che i due
specchi d’acqua che circondano gli Usa, in un tempo in cui non c’era ancora il Canale di Panama, rendevano per gli Usa alquanto
costoso costruire una flotta da guerra degna di questo nome. Mahan avvertiva anche che, si fosse mai costruito questo Canale, esso
sarebbe dovuto finire assolutamente sotto controllo americano.
58
15
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
territorio che può risultare vantaggiosa per la costruzione di porti; terzo, la dimensione del territorio nazionale e
delle sue coste che per essere un punto di vantaggio e non di debolezza, devono poter contare (in quanto se
estese facilmente attaccabili) su un retroterra ampio in cui rifugiarsi in caso di attacco; quarto, ci deve essere
una popolazione sufficientemente ampia e soprattutto con una percentuale significativa di persone dedite ai
mestieri navali; quinto, una identità nazionale già volta al commercio che troverà dunque nel potere marittimo il
veicolo più adatto alla espansione dei commerci; sesto, il tipo di governo che deve convincersi in modo
energico della straordinaria opportunità fornita dalla conversione elementare al potere marittimo. Qui si
inserisce quella continuità tra Inghilterra e Stati Uniti62 identificata (o auspicata) dall’ammiraglio americano
Alfred Mahan che nel suo saggio del 1904 arrivava a ipotizzare persino una possibile riunificazione tra i due
paesi anglosassoni ma non sulla base di una comunanza di razza o di lingua o di cultura. Decisivo per Mahan
per determinare questa riunificazione era la necessità di assicurare il dominio anglosassone sui mari impossibile
per l’Inghilterra da sola (troppo piccola), mentre ciò diviene possibile per gli Usa, sostenuti dall’esperienza
inglese63, perché <<gli Stati Uniti sono la vera isola adeguata ai tempi….il loro carattere insulare deve servire a
far sì che il dominio sul mare possa essere mantenuto e proseguito su una base più ampia>>, e questo perché <<
l’America è l’isola più grande dalla quale l’appropriazione inglese del mare verrà eternizzata e, come dominio
marittimo anglo-americano sul mondo, proseguito in dimensioni ancora più grandi>>64. Dunque non la linea di
Disraeli che vedeva l’Inghilterra proiettare la sua potenza navale verso l’Asia, ma la linea dell’ammiraglio
Mahan che vedeva nel connubio angloamericano la prosecuzione della gloria marittima inglese con più mezzi e
su una scala globale senza precedenti. <<La vecchia isola, troppo piccola, e tutto il complesso di una potenza
mondiale e marittima su di essa costruita dovevano essere annessi alla nuova isola e da essa recuperati come da
una gigantesca nave da recupero>>65. Proprio queste premesse inducevano Mahan a vedere la dottrina di
Monroe66 come assolutamente inadeguata alla nuova strategia globale di costruzione di un grande impero
oceanico, perché troppo difensivista. Occorreva profittare dell’opportunità di darsi a un’esistenza
autenticamente marittima che avrebbe garantito preponderanza prima ed egemonia dopo perché <<guerra
terrestre consuma, guerra di mare nutre>>67.
Il matrimonio degli Usa con gli oceani, l’adozione di una politica estera pan-interventista su scala globale
doveva compiersi ad ogni costo perché <<a casa, la scomparsa della frontiera privò l’esercito della sua
tradizionale funzione. Sul mare, il bisogno di protezione del commercio era già sparito anche prima. Il balance
of power in Asia e in Europa era già cambiato. Gli Usa (così) si mossero verso la scena mondiale, sviluppando
interessi nel Pacifico, acquistando le Hawaii, Guam, Samoa e alla fine del secolo le Filippine>>68. L’ascesa
della Germania come potenza navale, la sconfitta della Russia nella guerra con il Giappone nella guerra del
1904-05 e la vittoria del Sol Levante contro la Cina furono cambiamenti sistemici epocali che, congiuntamente
alla rapida industrializzazione degli Usa, che aumentò enormemente il potenziale militare statunitense, ebbero
l’effetto di proiettare la nuova superpotenza fuori dai confini domestici. Imponendole la necessità di
modernizzare l’esercito (ancora un esercito per fronteggiare la minaccia degli indiani) e la marina che, grazie
alla guerra con la Spagna nel 1898 e ai consigli dell’ammiraglio Mahan, doveva essere rifondata, estesa e messa
al servizio di interessi sparsi in misura crescente in tutto il globo69.
L’insegnamento di Mahan (la dottrina Mahan) ebbe una grandissima influenza sulla politica militare della
marina statunitense70. L’ammiraglio nei suoi volumi e nei suoi interventi aveva attaccato la vecchia idea che la
marina dovesse servire per proteggere le coste del paese e tutelare gli interessi commerciali; la vera missione
62
Come scrive David Dallin, gli Stati Uniti, diventati l’erede della Gran Bretagna nel controllo dei mari, saranno necessariamente
<<obbligati a viaggiare più o meno lungo la stessa strada intrapresa dalla Gran Bretagna in passato>>. Citato in: Arnold Wolfers,
“The big three: The United States, Britain, Russia”, Political Science Quarterly, December 1945, p.586.
63
Elemento, questo, che si rivelerà cruciale nel vincere le riluttanze statunitensi ad avvicinarsi alla Gran Bretagna nei primi anni della
guerra fredda: poter contare sulla grande esperienza della Gran Bretagna.
64
Carl Schmitt, Terra e mare, op. cit., p.78-79.
65
Ibidem, p.79.
66
Lawrence Martin,, “The geography of the Monroe Doctrine and the limits of the Western Hemisphere”, Geographical Review, July
1940, pp.525-528.
67
Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia, Bologna, Il Mulino, 1988, p.71.
68
Samuel P. Huntington, “Equilibrium and disequilibrium in American military policy”, Political Science Quarterly, December 1961.
69
Nel 1886 la marina americana era la dodicesima per grandezza del mondo, nel 1906 divenne la terza, dopo il 1920, e cioè dopo
l’approvazione dell’Act to Increase the Navy praticamente la prima al mondo.
70
E non solo statunitense in realtà quanto più quasi di ogni marina del mondo. Cfr. Samuel P. Huntington, “Equilibrium and
disequilibrium in American military policy”, Political Science Quarterly, December 1961, pp.496ss.
16
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
della marina statunitense doveva diventare quella di acquisire il controllo degli oceani attraverso la distruzione
delle flotte avversarie, dimenticandosi l’umile ruolo di poliziotto delle coste del paese. Costruire una flotta da
guerra più forte di tutte, con più potere di fuoco, più larga in numero. Distrutta la flotta tedesca dopo il primo
conflitto mondiale, la flotta americana venne spostata nel Pacifico, dove emergente era la potenza navale
giapponese sbaragliata poi nel secondo conflitto mondiale. Con la guerra fredda la marina degli Stati Uniti era
diventata per la popolazione americana il simbolo della presenza e del predominio americano nel mondo, i
grandi gruppi industriali cominciarono a far convergere fondi e a spingere per lo stanziamento di fondi
governativi verso la marina. Con la guerra fredda gli Usa diventarono la potenza navale par excellence, ma
anche una potenza militare vincolata alle esigenze strategiche della deterrenza e dotata di un esercito di
professione poderoso (vista la minaccia di terra dell’Urss) e in gran parte stanziato all’estero.
Come si vede, dunque, gli interessi che erano stati della potenza imperiale britannica divennero ben presto
quelli del Leviatano americano.
Durante la Pax Britannica tre erano i beni pubblici che Londra doveva cercare di mantenere ad ogni costo:
equilibrio tra le grandi potenze, promozione di un mercato internazionale quanto più aperto, mantenimento
delle principali vie di comunicazione aperte, tra cui ovviamente la libertà dei mari. La Pax Britannica, che
determinò la struttura generale delle relazioni internazionali fino al collasso del sistema (prima guerra
mondiale) e che al suo apice, come ricorda Gilpin71 si basava su un’economia mondiale aperta basata sul libero
commercio, sulla non discriminazione e su un trattamento egalitario piuttosto che sul possesso e sul controllo
delle colonie. L’ordine politico identificato con la Pax Britannica era assicurato dalla potenza navale di Londra
che controllava “le cinque chiavi che chiudono il mondo”72, e il cui precipuo interesse stava nel libero
commercio universale e nella rimozione di tutte le barriere allo scambio delle merci, anche attraverso l’uso
della forza militare (oltre a garantire il rispetto dei principi enunciati dalla dottrina di Monroe nell’Emisfero
Occidentale con la Royal Navy). <<Anti-hegemonism without entanglement>>, questo era il motto. La Pax
Britannica ruotava pertanto attorno a quattro principi73:
•
•
•
•
potere marittimo vs potere continentale
alleanze a tempo vs alleanze permanenti
controbilanciamento vs conquista
interventismo senza intrappolamento
Sconfitta la Francia napoleonica, la Gran Bretagna nell’Ottocento poté diventare così il centro finanziario del
mondo, l’ago della bilancia di potenza in Europa e l’egemone incontrastato nel resto del mondo dove non si
formò alcun balance of power ostile e la Gran Bretagna poté così agire in un completo vuoto di potere, né
spinte nazionalistiche che potessero minare le fondamenta dell’impero (almeno fino all’inizio del XX secolo)74.
La fine della seconda guerra mondiale sancì il passaggio definitivo di consegne delle responsabilità della
mondializzazione, cioè delle responsabilità connesse a una strategia volta a favorire gli scambi internazionali,
l’apertura delle frontiere e un aumento dell’interdipendenza, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. Il testo che
sancisce questo passaggio è la Carta Atlantica, firmata da Churchill e Roosevelt il 14 agosto del 1941. Questa
data sancisce per un verso la fondazione del condominio anglosassone su ciò che ne sarebbe stato del sistema
internazionale post-secondo conflitto mondiale; per l’altro, il definitivo passaggio di consegne dell’egemonia
dei mari dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.
La continuità tra le due egemonie fu tutto sommato semplice e indolore. Gli Usa durante la guerra fredda (e
anche una volta archiviata la parentesi bipolare) altro non fecero che tradurre su scala ancora più globale e con
qualche ritocco l’impostazione della Pax Britannica: impedire a ogni costo l’emergere di una grande potenza
rivale in regioni di importanza chiave, promozione di un sistema economico mondiale aperto (da qui la
creazione di un sistema di organizzazioni internazionali come il FMI e la Banca Mondiale), cercando di
guardarsi il più possibile da tentazioni protezionistiche; mantenimento della libertà dei mari, cruciale affinché il
sistema economico mondiale restasse aperto, cui si aggiunse la libertà dello spazio e poi della rete informatica
di internet, dati i nuovi sviluppi tecnologici. In particolare, la strategia approntata dal Regno unito e poi, con
71
Robert Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, Il Mulino, 1987, p.196ss.
Secondo l’espressione dell’ammiraglio Lord Fischer.
73
Josef Joffe, ‘Bismarck or Britain?’, International Security, Spring 1995, p.103.
74
Fareed Zakaria, “Realism and domestic politics”, International Security, Summer 1992, pp.187.
72
17
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
grande continuità, dagli Stati Uniti per bloccare ogni spinta egemonica nei vari sistemi regionali (in testa quello
europeo) fu una strategia di off-shore balancing di chiara marca realista75.
Ora, le potenzialità di questo “abbraccio oceanico” erano già state messe in evidenza da Arnold Wolfers che, in
un articolo sulla cooperazione angloamericana nel secondo dopoguerra, invitava a ridimensionare il potenziale
di un asse angloamericano basato sul solo potere navale per garantire una pace duratura nel sistema
internazionale. <<Le navi da sole, come hanno dimostrato questa e la precedente guerra, non sono sufficienti a
portare alla vittoria…si argomenta che se il blocco angloamericano aggiungesse la superiorità aerea alla sua
supremazia navale, potrebbe effettivamente controllare l’Europa e garantire la pace>>76. Wolfers oltre a
prevedere il futuro confronto tra sovietici e l’asse angloamericano, a causa dell’insicurezza che inevitabilmente
la saldatura tra le due potenze anglosassoni avrebbe prodotto, concludeva il suo articolo ricordando che questa
convergenza di interessi tra le due potenze anglosassoni le avrebbe legate in modo importante. Proprio quello
che successe con lo scoppio della guerra fredda e l’istituzione della prima grande alleanza militare permanente
per gli Usa, la Nato. Fortemente voluta da Londra per tenere gli americani dentro, per convincerli ad occuparsi
del mondo (occidentale).
La conversione statunitense a una logica globalista (e dunque la ricezione degli insegnamenti di Mahan), gettò
le basi per quello stravolgimento epocale in senso pan-interventista della politica estera statunitense, che intese,
al fine di continuare a garantirsi il predominio dei mari e da lì del globo, adoperarsi per cambiare il mondo,
epurandolo dalla guerra, dalla logica del balance of power (a quella associato), e dalla competizione di potenza
di stampo europeo. All’evoluzione delle relazioni internazionali secondo una logica da Grandi Spazi, evidente
sin dall’inizio del XX secolo ma anche in parte nei primissimi anni della guerra fredda, gli Stati Uniti risposero
con un universalismo frutto di una generica e incauta strategia di un paese oscillante tra <<tradizione e
opportunismo del giorno, tra isolamento e interventismo, tra neutralità e guerra mondiale, tra riconoscimento e
non-riconoscimento di ogni nuova situazione>>77. La logica dei Grossraumen intrinseca nel concetto di
Emisfero occidentale venne sostituita da un interventismo senza limiti e senza misura, che si concretizzò
attraverso uno strumento formidabile per porre il marchio su qualunque alterazione dello status quo, il
riconoscimento internazionale sancito in modo così cristallino qualche anno prima, con la dottrina Stimson del
7 gennaio 1932. L’esito fu una guerra mondiale discriminatoria totale, una moralizzazione della politica
internazionale senza precedenti, in cui il governo americano avocando per sé il diritto/potere di sollevare i
popoli della terra contro i rispettivi governanti riuscì nell’impresa di trasformare ogni guerra interstatale in
guerra civile78.
Così fu. Sin dagli albori del XX secolo, di fronte all’irresistibile ascesa del colosso statunitense, Londra avrebbe
potuto decidere di allearsi con l’Europa continentale per impedire ciò, ma l’opzione non fu mai neanche presa
lontanamente in considerazione. Era come se per le classi dirigenti inglesi <<l’egemonia americana avesse
qualcosa dell’egemonia inglese …dalla pax britannica alla pax americana non si mutava universo e più che
l’anima era ferito l’amor proprio>>81. La pax anglosaxonica82 divenne l’idea ispiratrice dell’utopia romantica
di una cooperazione (per quanto asimmetrica) angloamericana per ordinare il mondo delle relazioni
75
In realtà la strategia di off-shore balancing verso l’Europa in particolare da parte delle due potenze anglosassoni fu differente dal
momento che, come ben spiega Mearsheimer in una nota assai importante, gli Stati Uniti hanno poco da temere dal formarsi di un
egemone militare in Europa vista la lontananza dal continente europeo, mentre hanno molto da temere dalla possibilità che una grande
potenza europea o asiatica costituisca una alleanza con uno stato dell’Emisfero occidentale. Il Regno unito, al contrario, ha la vitale
necessità strategica di impedire la formazione di un egemone europeo perché ciò attenterebbe alla sua integrità ultima, sia a causa del
rischio di una invasione del proprio suolo via Manica o sconfiggendo la marina britannica. Cfr.: John Mearsheimer, The tragedy of
great power politics, New York, Norton&C., pp.496-497.
76
Arnold Wolfers, “Anglo-American post-war cooperation and the interest of Europe”, American Political Science Review, August
1942, p.660.
77
Carl Schmitt, “La lotta per i grandi spazi e l’illusione americana”, in L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Antonio Pellicani
Editore, 2003, p.174.
78
Salvo poi ricredersi, come vedremo, nel corso degli anni ’60, decidendo di sacrificare sull’altare della RealPolitik, il
democraticissimo principio di autodeterminazione dei popoli, principio cardine della Weltanschauung wilsoniana.
79
Carl Schmitt, Terra e mare, cit., p.78-79.
80
Ibidem, p.79.
81
Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, op. cit., p.130.
82
Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia, op.cit., p.222.
18
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
internazionali post-1945. Il mito pan-anglista di fine XIX secolo fornì il retroterra ideologico83, lo scoppio della
guerra fredda l’occasione, l’ascesa degli Stati Uniti al vertice della gerarchia del potere globale completò il
passaggio di consegne, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, del monopolio del vedere dal mare.
Questa convergenza navalista tra Usa e Uk si concretizzò dopo il 1945 anche in un interessante scambio di
concreti favori strategici: terra in cambio di assistenza militare e fornitura di arsenale nucleare, basi navali
strategiche per gli Usa in cambio della garanzia di una continua assistenza alla Gran Bretagna sul fronte di una
indipendente capacità nucleare. Un primo esempio - classico peraltro - è quello di Diego Garcìa84, isola di 34
km di lunghezza nell’Oceano Indiano, scoperta dall’omonimo navigatore portoghese nel 1532, nell’emisfero
meridionale. Washington manifestò un interesse per questa isola per la prima volta nel 1964, due anni dopo la
crisi di Cuba, di fronte alla intensificazione del confronto con l’Urss, e con l’escalation della guerra del
Vietnam. La Gran Bretagna, avendo già perso una buona parte dei propri possedimenti coloniali, e di fronte alla
situazione di emergenza in Rhodesia (che aveva da poco dichiarato unilateralmente la propria indipendenza), si
persuase dell’affare. Diego Garcìa, faceva allora parte delle isole Mauritius. Quando le Mauritius ottennero
l’indipendenza, nel 1965, Londra ebbe in cambio l’opportunità di scegliere le isole dell’arcipelago che
sarebbero rimaste sotto la sua giurisdizione. Il governo britannico scelse le isole di Diego Garcia, Aldabra,
Desroches e Farquhar, che entrarono a far parte di una nuova unità amministrativa chiamata BIOT (British
Indian Ocean Territory). Fu a questo punto che il BIOT fu appaltato agli Usa per 50 anni85. Qui Washington
decise di costruirvi una base navale chiedendo al governo britannico il trasferimento forzato di tutta la
popolazione indigena altrove86, cioè alle Mauritius. Orbene, l’appalto agli Usa dell’isola di Diego Garcia era la
merce di scambio offerta in cambio della s-vendita al governo britannico del sistema missilistico nucleare
Polaris87. Questo scambio è passato alla storia anche come caso empirico per dimostrare la tesi del primato
della politica internazionale sulla politica interna nello spiegare una decisione in politica estera. Il laburista
Wilson, una volta insediatosi al potere nell’ottobre del 1964, cambiò radicalmente la posizione tenuta in
campagna elettorale e contraria a una Gran Bretagna dotata di una propria capacità nucleare indipendente, per
un’entusiastica accettazione dello status di potenza nucleare della Gran Bretagna e dunque consentendo
l’acquisto a basso prezzo dagli Usa della tecnologia Polaris. La decisione di Wilson era dovuta a diversi fattori,
tutti di natura strategica: l’umiliazione di Suez andava consegnata alla storia e la Gran Bretagna, per salvare
quel che restava dell’impero, doveva almeno garantirsi lo status di potenza nucleare; in secondo luogo, la
decisione francese di dotarsi di un proprio arsenale nucleare indipendente da quello americano operò come una
forza sistemica irresistibile per la sicurezza e il potere relativo britannici.
Ma la questione Diego Garcia/Polaris significò per molti versi anche, come del resto già accennato, l’inizio
della speciale dipendenza inglese dagli Usa, tecnologicamente e finanziariamente: in cambio gli Usa ottennero
l’appoggio alla guerra in Vietnam e una base militare che negli anni a venire, assunse una importanza strategica
decisiva. Base cruciale per meglio monitorare il rovesciamento con la rivoluzione khomeinista del regime dello
scià di Persia nel 1979, poi la guerra Iran-Iraq del 1981-88, poi per la guerra del Golfo del gennaio 1991
(quando la base di Diego Garcia servì quale base di rifornimento per i B-52), infine la guerra contro il regime
talebano dell’ottobre 2001.
Diego Garcìa non è l’unica isola appaltata dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. L’isola di Ascension è un altro
esempio88 straordinario di questo scambio terra-armi. Anche questa scoperta da un portoghese, Joao da Nova
83
Si è soffermato su questo aspetto, nelle pagine conclusive del suo capolavoro: E. H. Carr, The twenty years’ crisis 1919-1939,
London, Macmillan, 1939, pp.213-216. Ricordiamoci che Carr riponeva grande fiducia nella Pax Anglosaxonica, vista come l’unico
antidoto contro alternative che avrebbero consegnato il mondo alla tirannide .
84
Curioso ricordare che la popolazione degli Ilois, circa 2000 individui, originari dell’isola di Diego Garcìa e poi trasferiti con la
forza nell’isola Mauritius, hanno di recente adito (con successo) l’Alta Corte londinese per chiedere un risarcimento per il
trasferimento forzato subito. Su questo si veda: Daniel O’Flynn, “Diego Garcia islanders fight to go home”, World Socialist WebSite,
15 September 2003; Frank Pellegrini, “What in the world is Diego Garcia?”, Time, February 20, 1998.
85
Su questo si veda l’interessantissima documentazione allora mantenuta segreta dello US-UK BIOT Agreements 1966-1982:
http://homepage.ntlworld.com/jksonc/docs/bancoult-d16b1.html. La proposta avanzata dall’ambasciatore americano a Londra al
ministro degli esteri britannico prevedeva all’articolo 1 la permanenza dell’isola sotto la sovranità dello Uk, e negli articoli successivi
una dettagliata elencazione dei doveri delle forze americane sull’isola.
86
Molto indicative la giustificazione addotta dall’Onu: quelli dell’isola erano solo lavoratori e non autoctoni.
87
Accordo a suo tempo tenuto segreto al Parlamento britannico, al Congresso e all’Onu.
88
Gli esempi sono molteplici, tra questi ricordiamo quello dell’isola scozzese di Holy Loch, in cui tra il 1961 e il 1990 stazionarono
sottomarini nucleari Polaris e Poseidon di supporto al sistema della deterrenza della US Navy. Ci siamo soffermati sui casi di Diego
Garcìa e Ascension, in quanto i due più esemplari e indicativi.
19
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Castelia nel 1501, a nordovest dell’isola di Sant’Elena, tra Africa e America meridionale, dal 1823
possedimento britannico. Da qui tra il 1943 e il 1945 oltre 25 mila aerei da combattimento americani
transitarono per dirigersi nel Nordafrica, in Medioriente e in Europa. Nel 1956 una parte dell’isola venne
prestata agli Usa che la utilizzarono quale base aerea e per le telecomunicazioni e perfino quale osservatorio
Nasa (la stazione DSS 72). Nel 1982 l’isola di Ascension ritornò in mani britanniche come supporto alla guerra
delle Falkland89.
Come si vede, punti di appoggio strategici in cambio di assistenza militare e un esito preciso: una capacità di
proiettare potere marittimo e terrestre su scala globale senza eguali al mondo grazie alle concessioni del Regno
unito, per salvaguardare <<la superba coscienza del proprio significato mondiale come nazione>> e
fronteggiare i <<negatori contemporanei…(e) la straordinaria instabilità delle convinzioni attuali>>90, secondo
la logica dell’America as a model for the world. Ma dimenticando, così facendo, quello che uno dei massimi
geopolitici italiani, Carlo Maria Santoro, ricordava qualche anno fa, e cioè che <<nessun impero marittimo è
infatti penetrato davvero a fondo nel tessuto sociale, etnico, religioso e quindi culturale del mondo
dell’interscambio in cui si è avventurato di là del mare…è proprio l’assenza di territorializzazione, cioè di
Ortung, che impedisce, o quantomeno vincola seriamente, l’azione di Oceania, cioè del “controllore” marittimo
che non è mai in rado di assegnare e forme e stabilire le regole dell’ordinamento spaziale e terrestre, cioè
dell’Ordnung…le potenze marittime non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e
l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali>>91.
4. Una comune avversione per le alleanze vincolanti
Gli inglesi, opportunamente, hanno preferito chiamare la Società delle Nazioni,
“lega”, ciò evita l’equivoco…e pone il raggruppamento di stati fuori del diritto,
consegnandolo francamente alla politica
(José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse)
L’informalità della speciale relazione angloamericana, il suo non essersi mai basata su alcun testo scritto, è
dipeso certamente da una concezione marittima del globo ma anche da una propensione a pensare fluidamente il
mondo delle colleganze internazionali. Da questi due fattori è discesa quella tradizionale avversione delle
potenze anglosassoni per l’impegno vincolante, per il patto politico eterno, per l’obbligo giuridico perpetuo.
Orbene, è un fatto che sia Stati Uniti che Gran Bretagna hanno tradizionalmente considerato le alleanze un utile
strumento di politica internazionale per aumentare il proprio potere relativo o per fronteggiare un nemico o una
minaccia, ma al contempo ne hanno fatto un uso assai circostanziato, limitato nel tempo e negli scopi
considerando la promessa di assistenza militare o qualunque patto che li vincolasse ad uno stato come qualcosa
di semplicemente funzionale al raggiungimento di uno scopo. Cautela verso l’obbligazione internazionale che
può considerarsi ancora più diffusa e consolidata negli Stati Uniti che in Gran Bretagna.
<<Noi non abbiamo alleati eterni, noi non abbiamo nemici perpetui. Solo i nostri interessi sono eterni>>. Il
famoso epitaffio di Lord Palmerstone congela in modo raramente così efficace la posizione britannica per ciò
che concerne le alleanze vincolanti e la necessità di mantenere sempre un piede fuori da qualunque intesa. Con
una precisazione: questa avversione per le alleanze (e quelle vincolanti in particolare), raro lusso per qualunque
grande potenza del sistema internazionale, da ritenersi conseguenza sia della posizione di relativo isolamento
geopolitico goduto dalla Gran Bretagna92, ma anche avversione direttamente proporzionale alla propria
posizione nella gerarchia del potere nel sistema internazionale: la posizione se non proprio egemonica ma
quanto meno di supremazia a livello marittimo goduta dal Regno Unito durante la Pax Britannica, e quella
indubbiamente egemonica goduta dagli Usa nel blocco occidentale durante la guerra fredda e nel decennio
successivo al collasso del confronto bipolare su tutto il sistema internazionale, orbene questa preponderanza
era intuitivamente una grande garanzia per la propria integrità. Curiosamente, del discorso di Palmerstone,
viene sempre omessa la prima parte, forse anche più importante dell’altra più citata:<<ritengo che, per ciò che
concerne le alleanze, l’Inghilterra sia una potenza sufficientemente forte, da decidere il proprio percorso senza
89
Sul passaggio in perfetto stile coloniale dell’isola tra Usa e Uk, si veda: S. A. Royle, “The island has been handed over to me:
Ascension island as a company colony”, Singapore Journal of Tropical Geography, March 2004.
90
Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, Milano, Feltrinelli, 1994.
91
Carlo Maria Santoro, Studi di geopolitica, Milano Giappichelli, 1997, pp.67-68.
92
Come scrive Mearsheimer, con una felice espressione, the stopping power of water. Cfr.: John J. Mearsheimer, The tragedy of great
power politics, op. cit.
20
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
dover legare se stessa come una appendice inutile alla politica di un altro stato….quando incontriamo altri paesi
che marciano nella stessa direzione, e che perseguono i nostri stessi obiettivi, noi ci consideriamo loro
amici>>93. Come si vede la forte dipendenza di questa avversione dalla posizione occupata nel sistema
internazionale ha indubbiamente la sua importanza. Ma anche, come anticipato, a causa di una riluttanza per le
obbligazioni eterne, specie quelle stipulate nell’arena internazionale dove in gioco è la sopravvivenza dello
stato.
Ma è la posizione degli Stati Uniti a essere per certi versi anche più curiosa. <<Gli americani non riescono a
pensare con naturalezza in termini di politica delle alleanze>>94. Il primo riflesso di questa avversione è la
scarsa confidenza con quel concetto tutto europeo che è il balance of power che non ha mai avuto un gran
successo e una grande considerazione negli Usa: gli americani preferiscono pensare di essere soli in un mondo
di <<angeli caduti e che i loro piani sono genuinamente adatti per chiunque. Si irritano quando gli altri sono in
disaccordo>>95. Questa riluttanza si manifesta nell’incapacità di condividere con altri attori compiti e
responsabilità, se non per problemi di burden-sharing, di condivisione di quegli oneri che ogni impresa
comporta. Questa riluttanza a pensare in termini di balance of power, grande rimprovero del realismo taftiano o
classico (quello di Morgenthau e Graebner, ma anche di Kenneth Waltz e Stephen Walt96) al tradizionale modo
di fare politica estera americana, è la conseguenza non solo dello splendido isolamento goduto dagli Stati
Uniti97, ma anche di tre guerre mondiali vinte nel XX secolo e di quell’inarrestabile ascesa di potenza dalla fine
della guerra civile in poi che inevitabilmente tendono a complicare l’ipotesi di una global power sharing tra gli
Usa e le altre potenze, e di conseguenza ogni ipotesi di alleanza vincolante in cui comunque non sia loro
assicurato il comando.
Se analizziamo più da vicino i due paesi, la tradizionale avversione per le alleanze vincolanti (“the entangling
alliances”), è stata una costante della politica estera statunitense, certamente fino al 1949, anno di fondazione
del Patto Atlantico, e la si può considerare, come anticipato, la conseguenza diretta della straordinaria
fortunata98 collocazione geopolitica del paese. Separati da un oceano dai riottosi europei, gli Stati Uniti
arrivarono persino ad erigere un cordone sanitario - l’Emisfero occidentale - per tutelarsi dalle probabili
interferenze delle potenze europee, intenzionate a spartirsi porzioni del continente americano. È in quest’ottica
difensivista che venne elaborata la dottrina geopolitica dell’Emisfero occidentale, inaugurata il 2 dicembre del
1823 dal presidente James Monroe, e che riuscì, salvo rare eccezioni a salvaguardare “l’isola continentale”
dalle astuzie della diplomazia aggressiva degli europei99. Nello stesso anno, John Quincy Adams, in occasione
della festa dell’indipendenza, aveva fornito un’altra ragione di questa riluttanza:<<l’America non va all’estero
in cerca di mostri da distruggere. Essa si augura la libertà e l’indipendenza di tutti. Essa è il campione e il
sostegno solo delle proprie. Essa raccomanderà la causa generale con l’incoraggiamento della sua voce e la
benevola partecipazione del suo esempio. Essa sa bene che arruolandosi sotto stendardi diversi dal proprio,
fossero essi anche gli stendardi dell’indipendenza straniera, si comprometterebbe, otre ogni possibilità di trarsi
d’impaccio, in tutte le guerre di interesse e di intrigo, di avarizia individuale, invidia e ambizione, che
assumono le bandiere e usurpano gli stendardi della libertà…essa potrebbe diventare il dittatore del mondo.
Non sarebbe più padrona della sua anima>> 100. Qui viene appunto fuori anche l’altra accezione: la riluttanza
verso le alleanze e i meccanismi di balance of power, era dovuta alla necessità di mantenere quella purezza,
quella verginità delle origini che l’immischiarsi con la politica di potenza degli scaltri attori europei avrebbe per
sempre compromesso101. Ora, come ricorda Menon102 in un articolo sulla fine delle alleanze, la tradizionale
93
Martin Wight, Power politics, Leicester, Leicester university Press, 1978, p.125.
Robert Skidelsky, “Imbalance of power”, Foreign Policy, March/April 2002, p50.
95
Ibidem, p.50.
96
Il gruppo dei realisti taftiani oggi raccolto in un nuovo think tank, la Coalition for a Realistic Foreign Policy. Si veda:
http://www.realisticforeignpolicy.org/
97
Insularità condivisa, come abbiamo visto, anche dall’Inghilterra che al contrario vide nel balance of power un tipo di strategia e di
politica utilissima per tutelare il proprio interesse nazionale, diventandone una sorta di esteta.
98
<<Born lucky>>, chiosa con ironia Robert Keohane. Cfr: Robert Keohane, “Associative American development, 1776-1880”, in
John Gerard Ruggie (ed.), The antinomies of interdependence, New York, Columbia University Press, 1983, p.90.
99
Ma grazie soprattutto alla difesa garantita dalla Royal Navy Britannica, che aveva tutto l’interesse a tenere le potenze europee dallo
scacchiere americano, ma anche a non vedere aperto un altro fronte di potenziale ostilità oltre a quello europeo (dove l’ascesa della
Germania stava dalla metà del XIX secolo diventando la preoccupazione numero uno di Londra).
100
Tratto da George Kennan, “On American principles”, Foreign Affairs, March/April 1995, p.118.
101
Zakaria ritiene invece che questa riluttanza, questo pudore nel farsi grande potenza e adottare uno stile in politica estera del tipo di
quella degli europei, dipendeva dal mancato consolidamento statuale e nazionale, dall’esistenza di confini incerti (la frontiera ancora
94
21
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
diffidenza statunitense verso le alleanze vincolanti fu una costante dello stile in politica estera sin dalla
fondazione della repubblica. La repubblica americana sin dal principio aveva maturato una fortissima diffidenza
nei confronti delle alleanze vedendovi il solito gioco perverso delle vecchie potenze europee (il discorso di
addio di Gorge Washington ma anche quello meno noto di Jefferson contro le “alleanze ingabbianti”), tentativo
diabolico di legare a sé e contaminare la purezza della giovane repubblica. Occorreva stare lontani dall’Europa
e non fare affari con gli europei. La distanza fisica degli Stati Uniti da ogni altra grande potenza del sistema
internazionale (due oceani), la pressoché assenza di nemici terrestri vicini ostili dalla metà del XIX secolo, la
protezione della Royal Navy da ogni interferenza straniera, furono tutti fattori che consentirono a Washington
di poter fare a meno delle alleanze. Le cose cominciarono a cambiare con la Rivoluzione industriale e l’avvento
di mezzi di comunicazione che avrebbero permesso a uno stato di trasportare armi letali a enormi distanze e
dunque di colpire chiunque. Gli Usa non potevano più dirsi al sicuro e così dovettero riconsiderare le alleanze.
Lo scoppio della guerra fredda e i timori che un disimpegno dall’Europa potesse solleticare l’espansionismo
sovietico consentendo la realizzazione dell’incubo geopolitico numero uno per Washington (la saldatura
dell’Eurasia), indussero gli Usa a stanziare truppe ingenti sul suolo europeo prima, e a dare vita a una alleanza
permanente poi - la Nato - la cui funzione primaria divenne, nella parole del suo primo segretario Lord Ismay,
<<tenere i russi fuori, i tedeschi sotto, e gli americani dentro>>, oltre a istituire una rete fittissima di accordi di
mutua assistenza (SEATO103, Anzus104, trattati bilaterali con il Giappone e la Corea del Sud). La stessa dottrina
del containment divenne la giustificazione ideologico-strategica per il mantenimento di tutta una rete fittissima
di alleanze militari in funzione antisovietica: abbandonata la diffidenza di un tempo verso le alleanze, quella
che si scatenò fu una vera pattomania105. Ma anche in questo caso la posizione di supremazia all’interno di ogni
alleanza o rapporto bilaterale (conseguenza della struttura bipolare della guerra fredda) e in ogni caso la
tendenza americana a far parte di alleanze asimmetriche tenendosi alla larga da quelle simmetriche, mai
vennero messe in discussione.
Il caso della Gran Bretagna è da questo punto di vista molto simile. Il caso dell’Inghilterra, “scheggia europea”
staccatasi dal continente europeo, è quello di uno stato che almeno a partire dal XVII secolo ha fatto della
strategia di off-shore balancing una costante della propria strategia in politica estera: adesione ai vari sistemi di
alleanze ma a distanza. Il fatto di aver accordato una indubbia priorità ai propri interessi globali, sparsi in ogni
angolo del globo, ma anche la tradizionale sospensione dell’isola tra Oceania ed Europa, ha fatto sì che ogni
tipo di impegno/alleanza avesse uno scopo e un raggio di azione limitato106 a quel particolare contesto.
L’orizzonte globale della politica estera britannica ha predisposto Londra a mantenere un equilibrio tra gli attori
di ogni sistema regionale, obiettivo questo conseguibile solo fronteggiando ogni tentativo egemonico con
repentini cambi di alleanza in favore del blocco più debole. La predilezione britannica per i meccanismi di
balance of power spiega più di ogni altra cosa la riluttanza britannica per le alleanze vincolanti ma anche la
propensione britannica a vedere alleanze laddove invece gli attori di un contesto regionale parlano di sintesi
politica in fieri (come nel caso europeo). La guerra fredda non fece eccezione: la minaccia dell’espansionismo
sovietico venne fronteggiata con una novità certo - l’appartenenza a una alleanza vincolante e asimmetrica
come la Nato -, conseguenza inevitabile dell’eccezionalità del sistema internazionale bipolare; ma la politica di
balance of power venne tutt’altro che abbandonata dall’Inghilterra nel milieu bipolare: essa venne
semplicemente re-indirizzata, questa volta proprio nei confronti del nascente superstato europeo. Il campo in
cui la strategia del balance of power da parte della Gran Bretagna venne più compiutamente utilizzata fu
proprio l’Europa. Il processo di integrazione europea costituì dal suo inizio nel 1957 per Londra il
concretizzarsi di un incubo: la formazione di un super-stato europeo in grado di annichilire la capacità
britannica di esercitare la sua tradizionale abilità nel “dividere gli stati europei per meglio comandarli”. Fu così
che la priorità per Whitehall divenne ben presto quella di impedire che Bruxelles diventasse qualcosa di più una
alleanza. La strategia prescelta fu un iniziale temporeggiamento verso il laboratorio europeo, poi di fronte al
da esaurire) e da un livello di potenza economica non ancora sufficiente da essere trasformata in potenza militare. Cfr. Fareed
Zakaria, From wealth to power, Princeton, Princeton University Press, 1999.
102
Rjan Menon, “The end of alliances”, World Policy Journal, Summer 2003, pp.1-20.
103
L’organizzazione del Sud-Est asiatico.
104
Partnership con altri due paesi dell’Anglosfera: Nuova Zelanda e Australia.
105
Rjan Menon, “The end of alliances”, op.cit., p.2
106
Michael Howard, The continental commitment: the dilemma of British defence policy in the era of two world wars, London,
Temple Smith, 1972.
22
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
boom economico di Germania e Francia, l’eventualità di un forte attore alle porte di casa venne fronteggiata
chiedendo di entrare a farne parte (per evitare l’isolamento e influenzandola divenendo membro della
Comunità), poi una volta entrata spingendo per l’allargamento (più paesi equivale a maggiori difficoltà di
integrazione), il tutto senza mai far venire meno il mantenimento del rapporto privilegiato con gli Usa. Ciò che
dunque si può affermare con relativa certezza è che, come ricorda John Mearsheimer107, <<sembra chiaro che
negli ultimi due secoli la Gran Bretagna ha perseguito una strategia di counter-hegemony verso il continente
europeo. La Gran Bretagna non ha certamente perseguito l’isolazionismo, né si è manifestata disponibile a
spedire truppe nel continente per mantenere o restaurare la pace…la Gran Bretagna non cercò mai di dominare
l’Europa, nonostante tra i 1840 e il 1860 controllasse quasi il 60% della potenza industriale europea. La Gran
Bretagna, come gli Stati Uniti, non poté essere un egemone europeo a causa dell’enorme difficoltà di proiettare
il proprio potere attraverso una massa di acqua grande come la Manica>>108. Dice bene Kissinger quando
ricorda che per quanto concerne la Gran Bretagna, <<la gloria della politica estera era identificata con l’impero
e il Commonwealth, i suoi problemi e pericoli con il continente europeo…in Gran Bretagna la riluttanza a
entrare in Europa è sempre stata bipartisan, e in un certo modo mistica. Eden una volta disse che la Gran
Bretagna sapeva “nelle ossa” che non poteva unirsi all’Europa>>109. E come ha concluso di recente
l’Economist, <<la Gran Bretagna ha mantenuto lo stesso obiettivo in politica estera per 500 anni: creare
un’Europa disunita>>110.
Questa riluttanza consapevole nello scegliere tra Europa e Oceania risulta smaccatamente palese nel discorso
che Blair tenne il 13 novembre del 2000 alla Mansion House111. Ripercorriamolo per grandi linee. <<Il mondo
di oggi è modellato dalle alleanze… per massimizzare il nostro interesse nazionale la Gran Bretagna deve stare
al centro del sistema di alleanze e della struttura di potere della comunità internazionale…è nel nostro interesse
nazionale essere un giocatore chiave di ogni maggiore sistema di alleanze del globo….questo è ciò che io
chiamo “patriottismo illuminato”… scopo di una nazione dovrebbe essere il potere, la forza e l’influenza per
perseguire i propri interessi…persino dieci anni dopo la fine della guerra fredda non sono poi così sicuro che sia
stato capito quanto il mondo sia differente…oggi non c’è un’unica battaglia onnicomprensiva da cui è
impossibile scappare…Sebbene non una superpotenza, la Gran Bretagna è un attore perno delle relazioni
internazionali. Noi siamo la quarta potenza economica del mondo, abbiamo forze armate seconde a nessuno in
termini di qualità, una rete commerciale e finanziaria su scala globale, un seggio nel Consiglio di Sicurezza, una
lingua parlata in tutto il mondo, e un network di alleanze su scala europea e su scala mondiale senza eguali….in
ogni singolo club internazionale al quale apparteniamo, facciamo la nostra parte vigorosamente…. l’Europa è
essenziale per l’industria e l’occupazione britanniche…stare fuori dalla maggiore alleanza strategica alle porte
di casa sarebbe un atto di suprema follia…è l’interesse britannico a pretendere che noi si aiuti a plasmare le
politiche europee piuttosto che subirne l’azione…In un mondo di alleanze, dobbiamo avere alleanze…..
cerchiamo di essere al centro degli eventi, e non semplice spettatore>>. Dunque compito del Regno Unito è
quello di intensificare la rete di alleanze su scala globale, e quella con l’Unione Europea è solo una di queste
alleanze112, niente di più, solo strategicamente più cruciale perché alle porte di casa e perché a Londra conviene
continuare a essere il ponte di collegamento tra Usa e Continente. La strategia del Regno unito è stata
abbastanza chiara sin dall’inizio della guerra fredda: evitare l’isolamento e la marginalizzazione, intensificando
il proprio ruolo di cerniera/ponte tra le due sponde dell’Atlantico legandole inestricabilmente, e continuando a
vedere nell’Europa una <<fonte ulteriore di potere per mantenere il proprio posto al sole>>.
Nelle parole di Blair, <<abbiamo posto una fine al nostro passato imperiale e ai sintomi di ritiro. Noi non
vogliamo più continuare a essere presi sul serio per la nostra storia, ma per ciò che siamo e ciò che saremo.
107
John J. Mearsheimer, “The future of America’s continental commitment”, in Geir Lundestad (ed.), The United States and Europe
since 1945, Oxford, Oxford University Press, 2003, pp.233-235.
108
Ibidem, p.235.
109
Henry Kissinger, “Reflections on a partnership: British and American attitudes to post-war foreign policy”, International Affairs,
1982, pp.578.
110
“The triumph of the perfidious Albion”, The Economist, June 4th 2005, p.34.
111
Si veda a questo proposito il resoconto dettagliato del discorso tenuto dal premier: Tony Blair, “Britain's Choice: Engagement, Not
Isolation”, www.number-10.gov.uk//news.asp?NewsId=1506&SectionId=32.
112
Philippe Schmitter utilizza la fattispecie giuridica del “Condominio” per designare l’Unione Europea, cosa che stupisce dal
momento che non solo sfugge l’evidente ascendenza marcatamente coloniale di questa soluzione istituzionale, ma soprattutto perché
un condominio internazionale consiste nell’esercizio congiunto della sovranità (e in alcuni casi della semplice autorità: Ulster dopo
l’accordo dell’aprile 1998) su un territorio in cui risiede una popolazione altra da quella degli stati esercenti codesta sovranità.
23
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Abbiamo un nuovo ruolo…utilizzare la forza della nostra storia per costruirci un futuro non di superpotenza ma
di potenza perno (pivot), una potenza che sta al centro delle alleanze e della politica internazionale che
modellerà il mondo e il futuro>>113.
Per rendersi conto quanto in realtà l’europeismo britannico rientri più in un calcolo di interesse nazionale che in
una reale conversione alla causa “ideale” europea basta leggere il documento Why is Britain in the EU114
pubblicato sul sito del F&C Office, in cui 5 sono le ragioni portate per giustificare la fiducia riposta da Londra
nel progetto europeo, nessuno delle quali rimanda a una causa ideale o identitaria. Il documento recita
testualmente:<<l’appartenenza alla Ue è cosa buona per la Gran Bretagna. Per gli affari, per l’ambiente, per la
nostra gente e per il paese>>. E sono cinque le ragioni nel dettaglio che giustificano questa appartenenza, tutte
di natura commerciale e qualcuna di queste in un certo qual modo curiosa:
1. più del 50% dei beni e servizi prodotti in UK vanno nella UE; 8 su 10 tra i nostri più grandi partner
commerciali sono europei
2. oltre 3 milioni di posti di lavoro dipendono da legami commerciali con paesi europei
3. la Ue è il più grande mercato del mondo: 372 milioni di consumatori e 38% del commercio mondiale
4. 100 mila britannici lavorano in paesi europei, 350 ci vivono
5. la competizione del mercato unico ha dimezzato il costo delle tariffe aree verso l’Europa e tagliato il
costo delle telefonate internazionali fino all’80%
Lo stesso famoso discorso di Blair alla Borsa di Varsavia il 6 ottobre del 2000 in cui il premier britannico
ribadiva che un triplice ordine di ragioni obbligavano la Gran Bretagna a partecipare al processo di integrazione
europeo (storiche, geografiche e democratiche), intendeva in realtà, come il premier ebbe poi a precisare,
mettere in evidenza che la non-scelta di Londra dipendeva in ultima analisi da questa necessità di fungere da
ponte tra le due sponde dell’Atlantico, tra Europa e Usa per soddisfare le proprie inclinazioni europeiste e
atlantiste ma senza dover scegliere tra le due, svolgendo così una funzione di cerniera che nessun altro stato può
svolgere. Ma niente di più. <<La Ue rimarrà una combinazione unica di intergovernamentalismo e
sovranazionalismo. Una tale Europa potrà essere, con la sua potenza economica e politica, una superpotenza;
una superpotenza, ma non un superstato>>115. I primi due cerchi di Churchill, l’Europa e l’Atlantico, oggi nei
fatti tendono a sovrapporsi. Il terzo cerchio, il Commonwealth e il sistema delle relazioni internazionali extraeuropee ed extra-atlantiche, si è ridotto invece al saltuario intervento per Londra in occasione di crisi
internazionali o per implementare rapporti bilaterali con le ex-colonie.
Come si vede dunque, per la Gran Bretagna le alleanze, come per gli Usa, continuano a restare quello che sono:
“colleganze a tempo” tra stati nazionali in vista del raggiungimento di uno scopo raggiunto il quale l’alleanza
dovrebbe sciogliersi, ed entro la quale, la propria sovranità non può mai venir meno.
La sintonia tra Stati Uniti e Gran Bretagna nel non trasformare la speciale relazione in una alleanza di tipo
continentale, scritta e particolarmente vincolante, non dovrebbe, dunque, stupire.
Le conseguenze di questa diffidenza anglo-americana verso le alleanze vincolanti sono state storicamente
diverse e importanti: una forte propensione statunitense a gestire in perfetta autonomia ogni ipotesi di crisi o
emergenza, dunque predilezione per un approccio unilateralista, più efficiente (garantita l’unità del
comando118), meno costoso (finché l’operazione dura poco tempo), e riluttanza a porre il valore dell’integrità e
della sicurezza della nazione sotto l’ombrello protettivo di un paese straniero; una sostanziale avversione per la
messa su carta di trattati e accordi, segnale inequivocabile di un impegno più vincolante, o la tendenza a
uscirne unilateralmente appena la situazione internazionale lo consente; preferenza dunque per una natura dei
patti politico-militari più di natura contrattuale, in cui è fissata la scadenza del contratto (raggiungimento dello
scopo), a fronte di una predilezione degli europei continentali per una concezione politicissima del patto (e
della sua durata, possibilmente eterna, con annesso trauma per l’eventuale rottura); predilezione per un concetto
di sovranità (parlamentare quello britannico, costituzionale quello americano) concepito proprio per resistere a
ogni tentativo esterno di limitarne le prerogative, per semplice ottemperanza al diritto internazionale o a
113
Citato in: Robin Harris, “Blair’s ethical policy”, The National Interest, Spring 2001, pp.26.
www.fco.gov.uk
115
Tony Blair, “Europe’s political future”, 6 October 2000, www.dgap.org/english/tip/tip4/blair061000.html
114
24
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
qualche accordo internazionale: così come la costituzione americana non riconosce alcuna norma giuridica
internazionale a sé sovraordinata, la sovranità britannica è fortemente ancorata nel Parlamento e non può
conoscere né divisioni, né trasferimenti ma solo limitazioni in ogni caso revocabili in qualunque momento (il
motto: whether devolved or not, the Parliament will remain sovereign). Ma soprattutto predilezione per il
mantenimento di interessi nazionali su scala globale da parte di entrambe le democrazie anglosassoni: la Gran
Bretagna, che durante la Pax Britannica gestiva su scala mondiale un impero di oltre quattrocento milioni di
individui, che aveva interessi in ogni angolo del mondo, oggi, seppur priva di un impero su scala globale,
mantiene comunque forti legami con le ex-colonie e in ogni caso non si rassegna a una esistenza marittima e a
una concezione globalista delle relazioni internazionali; gli Stati Uniti che, a partire dal 1898, hanno tradotto il
proprio surplus di potere economico in un pan-interventismo su scala globale ulteriormente consolidato oggi
dalla posizione di indiscussa supremazia sul sistema internazionale. Questo spostamento del perimetro del
proprio interesse nazionale a livello globale, ha inevitabilmente comportato la necessità di contrarre una
costellazione di alleanze con attori di ogni sistema regionale del globo e, di conseguenza a guardare a ogni
alleanza come a qualcosa di relativo.
In breve, la speciale relazione angloamericana mantiene una sua specialità anche grazie alla sua capacità di
rispondere magnificamente alla preferenza dei due paesi per i meccanismi informali di alleanza, per alleanze a
tempo. Per le due democrazie anglosassoni l’imperativo numero uno sembra essere ancora, tutto sommato, la
possibilità di sganciarsi, in qualunque momento, dalle costrizioni di una “colleganza” per poter continuare a
essere libere di scegliere l’ottima politica estera.
Predilezione per le alleanze a tempo per un verso ripresa ma anche ripensata dall’impostazione del nuovo pananglismo i cui sostenitori - sempre più numerosi e influenti - invitano Londra e Washington a far tesoro di
questa straordinaria collaborazione più che cinquantennale e di questa peculiare affinità geopolitica e culturale,
e a realizzare l’idea di una nuova sintesi politica sovranazionale che leghi i popoli anglosassoni: l’Anglosfera.
Dei limiti e delle potenzialità di questo nuovo orizzonte strategico, che affonda le radici nel pan-anglismo tardo
ottocentesco, parleremo nelle pagine che seguono, perché da lì potrebbe passare il futuro della speciale
relazione angloamericana.
5. Il vecchio pan-anglismo: regionalismo o alleanza?
Il retroterra mitico dell’Anglosfera risale alla fine dell’Ottocento e alla pamphlettistica sul pan-anglismo.
“Unione di tutti popoli anglosassoni della terra” divenne allora la parola d’ordine per riuscire a indurre le due
potenze protestanti ad associarsi e meglio difendere e diffondere il verbo liberaldemocratico di marca
anglosassone (attraverso l’imperialismo illuminato degli ideologi dell’impero à la John Watson), ma anche una
strategia della Gran Bretagna per controllare la nascente superpotenza statunitense.
La prima grande manifestazione della potenza ideologica dell’Anglosaxonism si ebbe durante la guerra ispanoamericana del 1898119. Ma l’Anglosaxonism come movimento pan-nazionalista120 sorse in concomitanza
all’ascesa della Gran Bretagna quale potenza imperiale121: il mito di un legame etnico-razziale comune ai
popoli di derivazione anglosassone servì al governo britannico per meglio legittimare la propria espansione su
scala globale. L’Anglosaxonism fu l’ideologia al servizio di un impero in via di rapidissima espansione e
consolidamento, un impero che necessitava dell’appoggio di tutte le risorse (logistiche e ideologiche)
disponibili. Fu così che gli ideologi dell’impero costruirono ad arte il mito di una presunta comunanza di
119
Paul McCartney, “Anglo-Saxonism and Us foreign policy during the Spanish-American war”, in Thomas Ambrosio (ed.), Ethnic
identity groups and US foreign policy, Westport, Praeger, 2002, pp.21-45. Uno dei massimi storici della speciale relazione, H. C.
Allen, ricorda nella guerra ispano-americana la Gran Bretagna, in “benevolente neutralità”, parteggiò per gli Usa, e il suo potere
navale fece l’intervento di qualunque potenza europea ostile virtualmente impossibile. In cambio, durante la guerra anglo-boera, Hay,
il segretario di stato, ex ambasciatore a Londra dal 1897 fino alla nomina, ripagò il favore assicurando la neutralità statunitense,
tenendo sotto controllo gli allora numerosi sentimenti pro-boeri presenti negli Usa. H. C. Allen, The Anglo-American special
relationship since 1783, London, Adam&Charles Black, 1959, p.223.
120
Sui movimenti pan-nazionalisti un testo ancora oggi eccellente è quello di: Louis L. Snyder, Macro-nationalisms. A history of the
pan-movements, Westport, Greenwood Press, 1984.
121
Louis L. Snyder, “Anglo-saxonism to pan-scandinavianism”, in Macro-nationalisms. A history of the pan-movements, Westport,
Greenwood Press, 1984, pp.93-113. Le analisi dell’Anglosaxonism qui di seguito si rifanno in gran parte a questo brillante ed
esauriente capitolo di Louis.
25
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
interessi dei popoli anglosassoni che, nella vulgata in un certo qual modo razzistica122 di fine ‘800, sarebbero
appartenuti alla stessa famiglia etnico-culturale. Charles Wentworth nel suo famigerato Greater Britain vedeva
il popolo anglosassone destinato a conquistare il mondo proprio a causa di una superiorità di civiltà resa ancora
più evidente dall’ascesa al potere degli Usa:<<attraverso l’America, l’Inghilterra sta parlando al mondo>>123:
occorreva secondo Dilke porre fine alla separazione artificiale tra le due democrazie anglosassoni124. Gli fece
eco uno dei più grandi storici britannici dell’Ottocento, John Robert Seeley125 che nel suo famosissimo The
expansion of England, lodò la costruzione dell’impero da parte della Gran Bretagna, straordinario successo,
questo, conseguenza inevitabile della superiorità morale della razza anglosassone126. Ma Seeley, famoso anche
per aver coniato la famosa espressione Greater Britain, non fu l’ultimo. Come lui Halford Mackinder, deputato
alla Camera dei Comuni dal 1910 al 1922, favorevole a una “Greater Synthesis” tra tutti i popoli wasp del globo
in un grande progetto confederativo, possibile con l’incredibile sviluppo industriale in campo di comunicazione
e trasporti127, ma a patto che la Gran Bretagna si desse da fare per incrementare il proprio “man-power”128, il
proprio potenziale demografico, troppo ridotto per uno stato dalle grandi aspirazioni di potenza, e procedesse a
una maggiore democratizzazione e costruzione di un welfare-state ma per ragioni strategiche non per ragioni
umanitarie129. Altro grande sostenitore dell’associazione tra Usa e Uk, lo scrittore H. G. Wells che, incerto se il
futuro della Gran Bretagna dovesse essere quello di diventare un normalissimo stato-nazionale, un impero o
parte di una grande unione wasp130, sosteneva l’unione tra Stati Uniti e Gran Bretagna perché la tendenza
storica delle relazioni internazionali andava verso la formazione di macroaggregati continentali131 e dunque le
due democrazie dovevano adeguarvisi confederandosi (con i territori britannici d’oltremare e possibilmente
anche con la Scandinavia). Rudyard Kipling, grande esteta del darwinismo, fece della superiorità della razza
britannica una questione di responsabilità storica: agli anglosassoni il compito di migliorare l’umanità,
facendosi carico del fardello dell’uomo bianco, e portando il verbo anglosassone ai quattro angoli del mondo.
Quella che in altre parole si era prodotta, ben prima delle certamente più violente e inaudite elaborazioni
razzistiche hitleriane degli anni Trenta, era una compiuta identificazione tra razza e nazione: la nazione
britannica era la manifestazione della potenza della razza anglosassone132.
Dall’altre parte dell’oceano, l’entusiasmo per il mito della superiorità della razza anglosassone non tardò
certamente a farsi sentire. Negli Usa, la mistica anglosassone si tradusse in un nativismo di fine XIX secolo che
esprimeva una superiorità della razza anglosassone, delle sue istituzioni politiche e che neanche troppo
velatamente denunciava l’inferiorità dei popoli latini, slavi, indiani e neri133. Nel 1885, Josiah Strong pubblicò
122
Non gli antichi israeliti, ma gli inglesi protestanti erano la manifestazione della potenza divina in terra, ad essi era in dono il meglio
delle istituzioni politiche e delle virtù per una nobile convivenza tra cittadini. Gli ideologi dell’Anglosaxonism erano solerti anche
nello stabilire una presunta comunanza etnica con gli antichi teutoni. Sulle origini dell’Anglosaxonism in Gran Bretagna prima della
volta degli anni ’50 dell’Ottocento, quando l’esaltazione delle virtù delle istituzioni anglosassoni si trasformò in superiorità della
razza anglosassone, si veda: Reginald Horsman, “Origins of racial Anglo-saxonism in Great Britain before 1850”, Journal of the
History of Ideas, July/September 1976, pp.387-410.
123
Citato in: Louis L. Snyder, Macro-nationalisms. A history of the pan-movements, op. cit., p.97.
124
Daniel Deudney, “Greater Britain or greater synthesis?”, Review of International Studies, 2001, p.203.
125
Unanimemente considerato il fondatore degli studi sull’impero britannico.
126
Va ricordato che Seeley ricomprendeva nella categoria di Greater Britain, la confederazione canadese, le Indie Occidentali, il
Sudafrica, l’Australia e la Nuova Zelanda ma escludeva, tutte accomunate da una ethnological unity e formanti tutte assieme a
community by common ties of race. L’India veniva esclusa da questa comunità perché conquistata con la forza e non frutto di un
insediamento di coloni inglesi: il criterio prescelto da Seeley restava l’omogeneità etnica di questi territori (è bene notare che né
l’Australia né le Indie occidentali rispondevano a questo criterio di totale omogeneità). Una discussione sull’attualità della categoria
di Greater Britain è quella di: David Armitage, “Greater Britain: a useful category of historical analysis?”, The American Historical
Review, April 1999, pp.447-445.
127
La famosa <<abolizione tecnologica della distanza>> offriva una più facile unione tra la Gran Bretagna e gli altri territori di razza
anglosassone.
128
Halford J. Mackinder, Money-power and man-power, London, Simken-Marshall, 1906.
129
Solo perchè <<le democrazie non pensano in termini strategici>>. Citato in: Daniel Deudney, “Greater Britain or greater
synthesis?”, Review of International Studies, 2001, pp.199.
130
Su questo si veda: Daniel Deudney, “Greater Britain or greater synthesis?”, Review of International Studies, 2001, pp.187-208.
131
I Grossraumen schmittiani. Cfr.: Peter Stirk, “Carl Schmitt’s Volkerrechliche Grossraumordnung”, History of Political Thought,
Summer 1999, pp.357-374.
132
Si pensi all’uso che ne faceva Churchill, nella sua History of the English-speaking people ma anche nel postumo The island race.
133
Ricordiamo le affermazioni del senatore Cabot Lodge secondo il quale occorreva proteggere la razza anglosassone degli Usa dalle
interferenze delle “razze inferiori” considerate non-assimilabili. Lodge invitava a stabilire per legge un “esame di lettura” per limitare
i flussi migratori illegittimi. Citato in: Denis Lacorne, La crisi dell’identità nazionale americana, Roma, Editori Riuniti, 1999, cap.IV.
26
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
un libro134 nel quale la razza anglosassone veniva indicata come la più florida e potente sulla terra, destinata a
dominare le altre proprio a causa della sua superiorità morale. Nel XX secolo gli ideologi dell’Anglosaxonism
non mancarono. Tra questi il già segnalato John Watson, autore di un libro di successo, The state in peace and
war135, in cui invocava l’avvento di un “imperialismo illuminato”, che si facesse carico della modernizzazione
delle zone arretrate del globo: alle potenze anglosassoni il grande compito di civilizzare, all’umanità restante il
buon senso di accettarlo per il proprio bene.
Straordinarie forzature teoriche e goffaggini storiche a parte circa l’uso del termine/concetto “razza” come
sinonimo di nazione e/o cultura, ciò che più interessa del mito dell’Anglosaxonism è che come ideologia pannazionalistica non ebbe mai un impatto significativo a livello popolare: il suo grande appeal ideologico riguardò
sempre e soltanto una cerchia ristrettissima di intellettuali wasp, peraltro neanche troppo numerosa; le masse
non furono mai raggiunte da questa ideologia né si formò mai un movimento minimamente organizzato. A
differenza ad esempio del pan-slavismo e del pan-germanesimo che conobbero una certa istituzionalizzazione e
che ebbero effettivamente anche un successo di popolo e furono persino due dei progenitori dell’idea di una
Pan-Europa, l’Anglosaxonism non trovò mai necessario né auspicò la formazione di una Pan-regione angloamericana, ma solo il rafforzamento del legame tra i popoli anglosassoni.
Ma è soprattutto nei primi due decenni del XX secolo che il pan-anglismo cominciò a elaborare progetti sempre
più concreti e meno utopici da un punto di vista istituzionale. In particolare, come prevedibile, prima e durante
la prima guerra mondiale cioè nel momento di massima difficoltà della potenza britannica impegnata a
fronteggiare la minaccia dell’espansionismo germanico. Nel 1903, John R. Dos Passos pubblicava The AngloSaxon Century and the the Unification of the English-speaking people136: qui l’autore poneva l’urgenza della
unificazione dei popoli di lingua inglese in un’unica grande federazione, unica istituzione autenticamente
anglosassone utile per raggiungere lo scopo, i cui cittadini avrebbero goduto automaticamente di una sorta di
cittadinanza valida per ogni territorio della federazione. L’urgenza della federazione dei popoli anglosassoni era
ovviamente la necessità di bloccare la corsa del mondo verso la catastrofe, la competizione per accaparrarsi
risorse scarse da parte delle cinque potenze che gestivano allora l’ordine mondiale: Impero Britannico, Stati
Uniti, Russia, Germania e Francia. Questa pentarchia, sottolineava Dos Passos, era circondata da stati-satelliti,
alcuni dei quali in ascesa di potenza (Giappone, Cina), e tutti nel complesso erano in procinto di scatenare una
delle più terribili dimostrazioni di potenza bellica mai vista. Occorreva dunque che l’unione pananglista si
opponesse fermamente a questa catastrofe, unendosi, intensificando così i già imponenti scambi commerciali e
imponendo la pace e la sicurezza al mondo137. Sul versante somiglianza interna tra i due paesi, Dos Passos non
faceva che ripetere ciò che già altri pananglisti andavano cantando: stessa nazionalità, stessa lingua, stessa
letteratura, stesse istituzioni politiche, stesse leggi, costumi legali e procedure giudiziarie. Dos Passos poi non
nutriva alcun dubbio sulla capacità assimilazionista del laboratorio americano: il sistema delle naturalization
laws era uno straordinario strumento per impedire la rivendicazione di altre lealtà da parte delle etnie non-wasp
giunte negli Usa: la lealtà dei nuovi immigranti alle istituzioni repubblicane era fervida e indiscutibile, anzi una
volta guadagnata la cittadinanza americana costoro diventavano i più ferventi sostenitori della federazione.
In piena prima guerra mondiale uscì poi un volume dal tono molto più allarmato di quello di Passos, quello di
Sinclair Kennedy138. In questo libro, già la prefazione annunciava con tono drammatico la necessità di una
confederazione tra i sette popoli di lingua inglese (in più il Sudafrica e Newfoundland) in un momento in cui la
supremazia britannica dei mari era messa in serio pericolo. Perdita della supremazia, sottolineava Kennedy, cui
134
Stralci significativi sono contenuti in un testo divenuto un classico, Our country: its possibile future and its present crisis,
pubblicato anni fa dall’Einaudi: Piero Bairati, I profeti dell’impero americano, Torino, Einaudi, 1975.
135
Citato in uno dei migliori articoli sulla voglia di impero dell’amministrazione Bush II: Ivan Eland, “The empire strikes out. The
“new imperialism” and its fatal flaws”, Policy Analysis, November 26, 2002, p.3.
136
John R. Dos Passos, The Anglo-Saxon Century and the Unification of the English-speaking people, New York, The Knickerbocker
Press, 1903. Il terzo capitolo di questo libro si apre in un modo molto significativo, che la dice lunga sullo spirito messianico di cui si
sentivano investiti gli intellettuali wasp di fine Ottocento:<<siamo la razza scelta di Israele? Siamo i popoli della terra eletti per
guidare il carro della civilizzazione e della pace?>>; mentre l’ultimo capitolo è una autentica implorazione di federazione
angloamericana che si conclude con i magnifici versi del Paradiso perduto di Milton, Terzo libro.
137
Gli anglosassoni, diceva Tournee, dovevano diventare i peacemakers del XX secolo. Cfr.: A. W. Tournee, “The 20th century
peacemakers”, Contemporary Review, June 1899. Occorreva capire che <<l’interesse del mondo richiede un’alleanza
anglosassone>>: David Mills, “Which shall dominate? Saxon or slav?”, North American Review, June 1898.
138
Sinclair Kennedy, The pan-angles. A consideration of the federation of the seven English-speaking nations, London, Longmans,
1915.
27
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
sarebbe seguita la perdita della sicurezza e della libertà dell’isola, in un momento in cui ai rivali dell’oggi
(Germania e Giappone) si sarebbero aggiunti quelli di domani (Russia e Cina). La tensione in questo volume
era tutta rivolta alla necessità di evitare l’accerchiamento dell’Impero britannico proponendo la saldatura del
blocco protestante che avrebbe assicurato il mantenimento della supremazia dei mari (le potenze anglosassoni
vantavano una collocazione navalisticamente cruciale).
Durante la seconda guerra mondiale, nella primavera del 1940, un gruppo di anglofili cominciò ad abbracciare
le idee di un giornalista del New York Times, Clarence Streit, che aveva da poco scritto un saggio, Union
now139, in cui auspicava la federazione di Stati Uniti e Regno Unito e di altre 15 democrazie, in chiave antinazifascista. La comunanza culturale e istituzionale tra le potenze anglosassoni avrebbe facilitato questo
ambizioso e per certi versi inaudito progetto geopolitico. Quella proposta da Streit era una versione altamente
programmatica dell’utopia pananglista, aveva il vantaggio rispetto ai disegni utopici degli altri alfieri
pananglisti di poter contare sulla potente organizzazione Atlantic Union Committee, e poteva annoverare quasi
da subito prestigiosi esponenti del mondo degli affari britannico e statunitense.
Ciò che, riassumendo, sembra chiaro a proposito delle posizioni panangliste di fine ‘800 e prima metà del ‘900
è che esse implicitamente cercavano, ribadendo i forti legami culturali e nazionali tra i popoli di lingua
anglosassone, di impedire l’implosione dell’impero britannico, e di bloccare movimenti indipendentisti a catena
che avrebbero comportato l’esaurimento del glorioso passato imperiale britannico e la compromissione del
futuro americano. Il primo pananglismo servì da kat’echon ideologico per arrestare quello che a Seeley e
Mackinder pareva l’inevitabile declino140 della potenza imperiale britannica, sfidata dall’ascesa di altre grandi
potenze, tra cui gli stessi Stati Uniti. Occorreva, ai loro occhi, ricordare a Washington la relazione di sangue e
di destino che legava le due democrazie per evitare che la Gran Bretagna diventasse una potenza di secondo
rango: occorreva servirsi dei nuovi Titani in ascesa per continuare a essere un dio dell’Olimpo delle grandi
potenze.
Una spettacolare riproposizione dell’ideale pan-anglista è riscontrabile anche in alcune bellissime pagine di
quel capolavoro della letteratura internazionalistica apparso nell’immediato secondo dopoguerra, il dimenticato
Power Politics di Georg Schwarzenberger141, in cui spicca il disperato tentativo dell’autore di suggerire ai
foreign policy makers britannici l’unico modo per evitare la bipolarità del sistema internazionale ormai in fase
di consolidamento e il tramonto del Regno Unito e del Commonwealth britannico quale terza superpotenza:
l’associazione con gli Stati Uniti, la costituzione di una “Unione Atlantica”. Questo progetto di associazione, in
realtà, nelle intenzioni di Schwarzenberger, andava esteso anche all’Europa Occidentale, perché l’emergenza
strategica del momento bipolare era garantire un blocco occidentale davvero in grado di contrastare la minaccia
sovietica. Nel disegno di Schwarzenberger quella che doveva costituirsi non era solo un’associazione tra le due
democrazie anglosassoni, ma la formazione di un blocco euro-britannico-americano più potente di una triarchia
composta da Stati Uniti, Commonwealth britannico e un’eventuale nuova sintesi politica - gli Stati Uniti
d’Europa. La NATO e la OEEC erano, secondo Schwarzenberger, insufficienti e pertanto dovevano
considerarsi forme embrionali di una più grande nuova sintesi politica142. Nessuna adesione del Commonwealth
britannico e degli Stati Uniti d’Europa agli Stati Uniti, o di questi e degli Stati Uniti d’Europa al
Commonwealth britannico. Quello cui pensava Schwarzenberger era una sintesi politica totalmente nuova, in
cui tutti e tre i blocchi accettavano di autolimitarsi in una cornice istituzionale, di trasformarsi in primi inter
pares. I vantaggi di una tale soluzione, decisamente irrealistica per le dinamiche di potenza del tempo, per la
struttura bipolare della politica internazionale e soprattutto per la straordinaria imbalance of power tra Stati
Uniti, Regno Unito e stati euroccidentali, secondo Schwarzenberger erano invece indubbi, soprattutto per
Washington e Londra. La formazione di una Unione Atlantica avrebbe poi permesso, attraverso l’eventuale
139
Clarence Streit, Union now. A proposal for a federal union of the democracies of North Atlantic, New York, Harper&Brothers,
1939.
140
Declino già iniziato nei primi anni del XX secolo e che la prima e la seconda guerra mondiale semplicemente accelerarono (la
prima) e sancirono (la seconda). Le ragioni di questo declino possono farsi risalire a una ragione su tutte, che impedì al Regno Unito
di arginare il deterioramento della propria base industriale, ragione così efficacemente espressa da W. Arthur Lewis:<<la Gran
Bretagna fu presa in una specie di trappole ideologiche (e) tutte le strategie a sua disposizione (per rinnovare l’economia) le erano in
un modo o nell’altro precluse>>. Cfr.: W. Arthur Lewis, Growth and fluctuations 1870-1913, London, Allen&Unwin, 1978, p.133.
141
Georg Schwarzenberger, Power politics. A study of international society, London, Stevens and Sons Limited, 1951, pp.806-816.
142
Istituzione della Nato che, per Schwarzenberger, rappresentava l’esplicita ammissione da parte del club degli egemoni
dell’incapacità dell’Onu di perseguire i roboanti obiettivi statuiti nella Carta (mantenimento dell’ordine e della pace internazionali).
Georg Schwarzenberger, “The North Atlantic Pact“, The Western Political Quarterly, September 1949, p.309.
28
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
ricorso a meccanismi di cooperazioni rafforzate, di intensificare uno dei legami, in primis quello tra Usa e
Regno unito, vista l’affinità politico-istituzionale e culturale143. L’alternativa a questo progetto sarebbe stato un
maggiore avvicinamento della Gran Bretagna al progetto europeo, la ripresa della tradizionale rivalità anglotedesca e il probabile allontanamento dal suo referente atlantico con l’avverarsi dell’unica conseguenza davvero
sciagurata per Londra, da evitare a ogni costo: la condanna della Gran Bretagna all’irrilevanza strategica causa
ripiegamento sulle provinciali vicende europee, e il passaggio, sul versante atlantista, da un ruolo di co-gestore
dell’ordine mondiale a quello di ancella dell’unica superpotenza rimasta del blocco occidentale: gli Stati Uniti.
Quella pensata e auspicata da Schwarzenberger era dunque una soluzione “kat echon” all’impellente
bipolarizzazione del sistema internazionale e alla perdita dello status di super-potenza: l’associazione
geopolitica con gli Usa, e poi dei popoli anglosassoni, sulla base di un’implicita riproposizione dell’ideologia
dell’Anglosaxon supremacy. L’analisi di Schwarzenberger dei vantaggi per Gran Bretagna e Stati Uniti di
un’eventuale associazione negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale144 era
dettagliata. Da un punto di vista americano, secondo Schwarzenberger, la prospettiva di una “Unione
Atlantica”, presentava due vantaggi. In primo luogo, <<l’unione trasformerebbe un’egemonia non voluta in una
leadership istituzionalizzata tra eguali>>; in secondo luogo, l’Unione rimuoverebbe qualsiasi timore da parte
americana circa un’eventuale illusione britannica o euro-occidentale di diventare una terza forza tra i due
giganti.
Il primo pananglismo soffriva di diversi evidenti grandi limiti. Commentatori come Michael Lind centrano il
bersaglio quando sostengono che l’impatto dei progetti pananglisti durante la guerra fredda fu alquanto ridotto
dal momento che gli Usa erano al centro di un sistema occidentale nel quale gli anglosassoni come attore di
riferimento avevano un ruolo <<più nell’immaginazione di qualche inglese americanofilo e in qualche gollista
americanofobo che nella realtà>>145.
Una delle critiche più incisive e realiste al primo pananglismo fu quella elaborata da un australiano di stanza a
Oxford, Hedley Bull, che in uno splendido articolo sul significato per la Gran Bretagna del Commonwealth146,
commentò anche il significato dei progetti pananglisti di confederazione di tutti i popoli anglosassoni del
mondo. Bull ricordava preziosamente in questo agile saggio che il paese al mondo verso il quale la peculiarità e
unicità del Commonwealth erano state sistematicamente più sbandierate da ogni governo britannico erano gli
Stati Uniti dal momento che la paura che i paesi membri del Commonwealth potessero finire sotto l’orbita della
nuova superpotenza anglosassone veniva vissuta con autentico terrore da Londra. Le utopie panangliste
servivano solo a impedire, secondo Bull, la scalata statunitense al Commonwealth; di conseguenza, il tanto
decantato legame speciale tra le due patrie anglosassoni nascondeva in realtà una rivalità tra potenze, la
debolezza della Gran Bretagna e la fame espansiva degli Usa. La vera sostanza ideologica del progetto
pananglista così come elaborata da Londra, era ben altra cosa, secondo Bull, da un sincero desiderio di
associazione per diffondere il credo wasp: essa serviva solo a controllare gli Usa.
6. Il nuovo pan-anglismo: illusione geopolitica, sogno necessario
Il nuovo pananglismo, la riproposizione dell’idea di un’associazione delle potenze anglosassoni, e, in
particolare, l’ipotesi di unione anglo-americana, è un’idea che sembra conoscere un’inaspettata prepotente
rinascita a causa della divisione del sistema delle relazioni internazionali lungo faglie di civilizzazioni o di
regioni-stato147, a causa del ritorno in grande stile della variabile geo-culturale nel determinare la logica degli
schieramenti nella politica internazionale, a causa dell’impasse subita dal processo di integrazione dell’Unione
europea, causa eccesso di tentazioni super-statualiste, che sembra riproiettare il Regno unito verso il suo
referente atlantico, soprattutto nel momento in cui si paventa all’orizzonte un riavvicinamento della Russia
143
“Razziale” dice Schwarzenberger secondo il linguaggio del tempo.
Il libro di Schwarzenberger uscì nel 1951, in piena guerra di Corea, in una fase dunque in cui lo scontro est-ovest ebbe la sua prima
drammatica diretta manifestazione bellica.
145
Michael Lind, “Pax Atlantica. The case for Euramerica”, World Policy Journal, Spring 1996, p.1.
146
Hedley Bull, “What is the Commonwealth?”, World Politics, July 1959, p.577-587.
147
<<Ormai le linee di divisione più importanti sulla carta dell’economia mondiale sono quelle che definiscono le cosiddette “regionistato”. Le frontiere della regione-stato non sono imposte dalla decisione politica>>. Cfr. Kenichi Ohmae, “The rise of the regionstate”, Foreign Affairs, Spring 1993, pp.78-79. Per una replica di Ohmae alle tesi di Huntington, si veda il primo capitolo del suo:
Kenichi Ohmae, La fine dello stato-nazione, Milano, Baldini&Castoldi, 1996, pp.27-37.
144
29
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
all’Europa, e come visto, infine, a causa dell’eccesso di vittoria dell’asse angloamericano nel confronto con
l’ex-Urss e annessa conversione degli ex-nemici al verbo liberaldemocratico.
Il nuovo progetto pan-anglista presenta numerosi elementi di novità rispetto al vecchio. In primo luogo è molto
più articolato del precedente; secondo, gli entusiastici adepti del progetto pananglista contemporaneo si
distribuiscono in modo assai simile tra Stati Uniti e Gran Bretagna, anzi sembrano in aumento i sostenitori
statunitensi; terzo, il tipo di sistema internazionale attuale, meno invadente del precedente, in cui Stati Uniti e
Gran Bretagna si trovano ad agire, presenta una fluidità e una connotazione multicivilizational inedita che
spinge effettivamente all’avvicinamento stati che condividono un background culturale simile; quarto, la
posizione di egemonia148 in cui si trovano gli Stati Uniti li obbliga, per legittimarsi, a tessere e consolidare
alleanze con cui controllare rivali e con cui dividere spese e responsabilità.
Una delle più articolate e puntuali argomentazioni a favore del progetto pananglista è quella fatta da un alfiere
dell’Anglosfera, Robert Conquest, uno dei massimi storici a livello mondiale di Urss e Russia, strenuo
sostenitore di una associazione geopolitica tra Usa e Uk149. Conquest ritiene innanzitutto, che se si analizzano il
tipo di identità nazionale di Stati Uniti e Gran Bretagna, essi presentano un tipo nazionalismo simile basato su
istituzioni politiche piuttosto che mitologie di un’ascendenza comune. Le istituzioni politiche dei due paesi
anglosassoni furono concepite sulle basi del razionalismo settecentesco che ne rappresenta ancora oggi la
legittimità ultima. L’origine palesemente illuministica di queste istituzioni fa sì che i sistemi politici di questi
paesi siano il frutto di una razionalità assoluta e i valori politici di cui sono portatori, universali. Di
conseguenza, le rispettive politiche estere tendono ad essere ad un tempo intessute di un senso di missione e
fortemente improntate di formalismo giuridico. Al destino manifesto degli Usa - dotati secondo questa retorica
nazionale del miglior sistema politico del globo - incaricati di portare la pace nel mondo ponendo termine alla
barbarie della guerra causata dall’imperialismo europeo, fa da contraltare quello britannico con la sua missione
di espandere in tutto il globo il verbo del razionalismo. Verso la fine del XIX secolo e nel XX in particolare il
trionfalismo tutto anglosassone di rappresentare la culla della civiltà raggiunse vette impensabili. L’espansione
politica e commerciale in tutto il globo veniva giustificata proprio sulla base di questa missione civilizzatrice:
era la Provvidenza a volere il dominio anglosassone. Questo tipo di retorica s’accompagnò spesso con una
buona dose di cinismo, ipocrisia nel condurre la politica estera; ciononostante una politica estera che
privilegiasse il rispetto dei diritti umani, il diritto internazionale e la diffusione della democrazia e del libero
commercio, fu una realtà e non semplice retorica. Ciò che più stava inizialmente a cuore agli americani e agli
inglesi non era comunque la diffusione dell’ideologia anglosassone quanto più di istituzioni che al modello
anglosassone si ispirassero. Come sottolinea R. Cobden, <<per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il libero
commercio e le istituzioni democratiche, rispetto al mero possesso di territorio, sono la vera principale garanzia
di pace e prosperità>>150. Ma Conquest si spinge oltre. È il processo di unificazione europeo, così come è
concepito, a essere contestato dalla sua analisi, dal momento che lo ritiene un modo sbagliato, prematuro e
obsoleto a un tempo di dare vita a una polity sovranazionale: sbagliato, perché la prossimità geografica oggi
non può considerarsi il criterio cruciale per decidere le sorti di una polity di nuova recente formazione151;
prematuro, dal momento che gli stati-nazionali europei non sono pronti a sciogliere la propria sovranità in una
nuova sede ultra-statuale a Bruxelles; obsoleto, perché a differenza della retorica europeista il modello di
riferimento è ancora quello Leviatanico, quello dello stato-moderno. Di conseguenza il fascino subito dal
progetto europeo da alcuni leader laburisti britannici sarebbe, per Conquest, assurdo. Da queste premesse,
Conquest deduce la sua preferenza per una associazione tra paesi che presentano affinità interne spiccate tra cui
la stessa tradizione linguistica, istituzionale e culturale: Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda,
Australia, l’Irlanda e le genti dei Carabi e dei territori del Pacifico. <<A dispetto di tutte le critiche che le sono
state indirizzate, a dispetto di tutti i proclami sulla sua fine, la “relazione speciale” tra Inghilterra e Stati Uniti
esiste ancora….se guardiamo più in profondità, scopriamo che in Inghilterra la parola “straniero” non viene mai
148
Elegante la definizione di “egemonia” data da Watson:<<la condizione materiale di superiorità tecnologica, economica e strategica
che consente a una singola grande potenza o a un gruppo di potenze, o a un concerto di grandi potenze che agiscono collettivamente,
di produrre una tale pressione da indurre la maggior parte degli altri stati a perdere parte della loro indipendenza interna ed esterna de
facto, sebbene non de jure>>. Cfr.: Adam Watson, “International relations and the practice of hegemony”, University of Westminster
Lecture, 5 June 2002.
149
Robert Conquest, “Toward an English-speaking Union”, The National Interest, Fall 1999, pp.64-70.
150
R. Cobden, England, Ireland and America, Philadelphia, 1980.
151
E qui Conquest riprende la nota espressione <<la fine della tirannia della distanza>>.
30
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
usata per indicare un americano…del resto gli inglesi preferiscono emigrare in California piuttosto che in
Calabria, a Vancouver piuttosto che a Valencia>>152; di conseguenza, come ha osservato John R. Alden, <<non
è affatto certo che la separazione politica realizzatasi nel XVIII secolo tra Inghilterra e America sia destinata a
permanere>>153. Conquest vede, in altre parole, più naturale, malgrado la distanza geografica, dare vita non a
un superstato anglosassone che riunisca tutti i popoli di lingua inglese della terra, ma a qualcosa di diverso, più
leggero istituzionalmente. Conquest non nega le grandi differenze etniche tra questi paesi, plurali etnicamente
persino al loro interno, ma insiste sul temperamento comune e sulla comune tradizione civica improntata a un
forte e interiorizzato liberalismo di stampo individualistico che distingue i paesi anglosassoni da tutti gli altri.
Quanto il legame tra i popoli anglosassoni sia forte, insiste Conquest, lo si può anche evincere dal fatto che in
tutte le quattro grandi guerre del Novecento, solo la Gran Bretagna, l’Australia e la Nuova Zelanda hanno
combattuto al fianco degli Stati Uniti154. Di conseguenza, il perno di questa nuova associazione sarebbero
ovviamente gli Usa, potenza egemonica del sistema internazionale. Conquest nega ogni ipotesi di
soggiogamento delle potenze anglosassoni agli Usa, e in particolare della Gran Bretagna che anzi invita
esplicitamente a entrare nel Nafta155, area di libero mercato più consona e affine alla tradizione britannica.
Dunque <<un’unione comprendente Stati Unti, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda è una
“iperpotenza” a portata di mano e se nella prima fase non si riuscisse a fare di più, sarebbe comunque un punto
di partenza…orientamenti americani in tal senso sono riaffiorati nel 1998, quando a Washington diverse voci
hanno ipotizzato l’ingresso dell’Inghilterra nel Nafta>>156.
A fare compagnia a Conquest, uno dei più fervidi sostenitori e finanziatori del progetto dell’Anglosfera, questa
volta proveniente dal mondo degli affari, Conrad Black157, al contrario possibilista verso un progetto di
integrazione europea ma tra paesi dalle tradizioni politico-istituzionali e dalla cultura simili, che dunque non
includa la Gran Bretagna. Per svariate ragioni: paesi come la Germania e la Francia vedono nella rinuncia alla
propria sovranità e nel suo trasferimento a Bruxelles qualcosa di relativamente importante ma solo a causa della
giovinezza delle loro istituzioni158, mentre per un paese dalle istituzioni politiche così consolidate rinunciare
alla propria sovranità è cosa molto meno semplice (non è così altrettanto chiaro perché allora Londra non
dovrebbe mostrarsi riluttante a rinunciare alla propria sovranità nel caso di una adesione al Nafta, se il problema
è quello della difficoltà di rinunciare a istituzioni politiche consolidate).
Altro alfiere dell’Anglosfera, forse il più ortodosso e certamente il più influente, James Bennett159 che, dal sito
web di un nuovo think tank, l’Anglosphere Institute160, e nel libro recentemente pubblicato sull’Anglosfera (e
presentato allo Hudson Institute lo scorso 25 febbraio), ricorda in primo luogo che per guadagnare la
membership dell’Anglosfera occorre aderire ai valori e alle usanze tipiche della civiltà anglosassone:
individualismo, stato di diritto, lealtà verso il rispetto dei contratti e i patti, elevazione della libertà al primo dei
valori politici. In secondo luogo, Bennett precisa la natura istituzionale dell’Anglosfera: non una realtà
superstatuale ma un network di civiltà priva di una corrispondente forma politica dai confini politici poco
precisi: membri del cuore dell’Anglosfera sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Australia,
l’Irlanda e Sudafrica, mentre le genti dei Carabi e dei territori del Pacifico rappresenterebbero la frontiera:
capitale alle Bermuda, esecutivo nelle mani statunitensi, capo di stato a Londra, nessuna costituzione scritta,
152
Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, Milano, Mondadori, 2001, p.308.
Citato in: Ibidem, p.308.
154
In un infuocato scambio epistolare con Michael Ignatieff, Conquest ricorda che un opinion poll condotto nel 200 mostrava come il
60% degli inglesi considerasse gli Usa un alleato più affidabile in caso di crisi rispetto a un esiguo 16% che invece ritiene l’Europa
più affidabile. Robert Conquest, “The Anglosphere”, The New York Review of Books, May 11, 2000.
155
Robert Conquest, “Toward and English-speaking Union”, op. cit., p.69.
156
Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, op. cit., p.323.
157
Si veda la lunga e densa conferenza tenuta da Black al Nixon Center. Cfr.: Conrad Black, “The European Union, Britain and the
United States: which way to go?”, The Nixon Center, April 11, 2000. Black è il proprietario – canadese - del quotidiano britannico
conservatore Daily Telegraph.
158
Quelle della Germania datano 1949, quelle della Francia 1958 e quelle della Spagna, per citarne alcune, datano 1975.
159
James Bennett, The Anglosphere challenge, New York 2004; James Bennett, “The emerging Anglosphere”, Orbis, January 1,
2002; James Bennett, “An Anglosphere primer”, Foreign Policy Research Institute, 2002; James Bennett, “Anglosphere: rising from
the ruins ”, United Press International, 4 June, 2003.
160
http://www.anglosphereinstitute.org/ . La Thatcher è il patrono dell’Istituto, con Robert Conquest, Henry Kissinger uno degli
adviser.
153
31
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
obbligazione politica di natura contrattuale molto vicina alle impostazioni neo-federali161 che rifiutano, come
noto, le categorie politiche della statualità. In terzo luogo, alla base del progetto dell’Anglosfera non v’è alcuna
concezione haushoferiana, cioè geopolitica, dal momento quello che si dovrebbe formare sarebbe niente di più
di un “Network Commonwealth”, coacervo di istituzioni aperte e non esclusive tra i paesi anglosassoni, che
andrebbero a formare coalition of the willing per rispondere a situazioni d’emergenza e meglio tutelare il
patrimonio anglosassone.
Nel suo denso volume, Bennett si premura di ricordare le grandi differenze tra il vecchio pananglismo e il
nuovo pananglosferismo. Il vecchio pananglismo si basava su una premessa razzial-culturale, puntava a riunire
in un unico club le potenze anglosassoni (e persino la Germania), e in special modo Stati Uniti e Gran Bretagna,
ma più per evitare conflitti potenziali che per reale interesse strategico. L’anglosferismo attuale invece parte dal
riconoscimento di una comunanza di tradizione, valori e principi tra le potenze anglosassoni e, con lo scopo per
un verso di meglio preservarne il patrimonio, per l’altro di promuoverne a livello globale la validità
(nell’interesse, presunto, generale), ricorda che l’Anglosfera è un concetto non genetico ma memetico, si
baserebbe cioè su una struttura non gerarchica ma networked, sorta di condominio congiunto angloamericano
simile al Comando Unificato durante la seconda guerra mondiale. Bennett propone anche alcune varianti di
nome: CEES (Comunità degli Stati di Lingua Inglese); LCL (League of the Common Law). Da ultimo,
ricordiamo che Bennett vede nell’Anglosfera anche un antidoto contro il prossimo inevitabile pensionamento
della Nato, a causa della fine della guerra fredda che avrebbe privato della sua ragion d’essere l’alleanza, a
causa dell’impossibilità sempre più cronica di ricomporre la frattura euratlantica, e a causa della necessità, in
seguito all’11 settembre di approntare alleanze di fedelissimi pronti a intervenire in qualunque scenario di crisi
del globo162.
Le idee di Bennett e soci stanno viaggiando163. Ramesh Ponnuru, scrivendo sul massimo quotidiano australiano,
sottolineava, all’alba dell’invasione dell’Iraq di Saddam da parte delle armate dall’asse anglosassone, che
l’impossibilità di un Occidente unito e anzi il suo collasso proprio di fronte alla necessità di fronteggiare il
pericolo Saddam, avesse reso palese come con la fine della guerra fredda la comunità atlantica non potesse più
darsi per fatto acquisito, sollevando anche l’interesse verso <<un’altra possibile alleanza: una più stretta
collaborazione tra i paesi di lingua inglese….sarebbe la più plausibile alternativa alla alleanza atlantica. Il
teorico-capo di questa alleanza è un imprenditore di internet americano, James Bennett che chiama questa idea
“Anglosfera”>> 164. Ma pubblicità a parte, le osservazioni che Ponnuru fa a proposito del progetto
dell’Anglosfera sono interessanti, soprattutto quelle critiche. Gli anglosferisti, secondo Ponnuru,
sottovaluterebbero due cose: la diversità tra gli eventuali paesi membri (si pensi a quelle tra Usa e Uk,
soprattutto con il processo di etnicizzazione delle società in corso), e la riluttanza delle ex-colonie britanniche a
ripensare a una riconfederazione con l’ex-madrepatria.
Critiche al nuovo pan-anglismo come quelle di Ponnuru non mancano di certo. Tra queste, una delle più
brillanti e devastanti analisi del nuovo progetto dell’Anglosfera è quella di uno dei grandi alfieri del realismo,
161
Sulla debolezza della Weltanschauung anarco-libertaria quando alle prese con i dilemmi dell’obbligazione politica e i cortocircuiti
innescati dal dilemma della sicurezza soprattutto nell’arena internazionale, si veda quanto scriveva Gellner:<<il vantaggio economico
è divisibile, calcolabile e negoziabile. La coercizione no. Essa opera in un contesto di assoluti rigidamente incommensurabili e
contrapposti, di sì e di no. Quella dello scambio economico è la sfera dell’aggiustamento fine. La sanzione o l’incentivo che vi opera è
il vantaggio. E i vantaggi sono suscettibili di venir finemente soppesati…la coercizione è completamente diversa. La sanzione estrema
della coercizione…è l’inflizione della morte. E la morte è incommensurabile con tutte le altre cose…come ebbe a dire De Maistre, il
boia è il fondamento dell’ordine sociale. La differenza tra ordine economico e ordine politico è il riflesso della differenza tra la
sanzione suprema possibile rispettivamente nell’uno e nell’altro. Nel primo è in gioco un minor guadagno o una perdita; nel secondo,
tutto>>. Cfr. Ernest Gellner, L’aratro, la spada, il libro. La struttura della storia umana, Milano, Feltrinelli, 1994, pp.171-173. Ha
scritto pagine acute sull’impossibilità di neutralizzare la “trappola della politica” e accantonare l’obbligazione politica di tipo statuale
(dunque male necessario), e di conseguenza sull’impossibilità di realizzare lo stato minimo vagheggiato dai liberali classici: Angelo
Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà, Bologna, Il Mulino, 2004. Si aggiunga a queste osservazioni quanto insegnava Gianfranco
Miglio nell’ultima stagione della guerra fredda, e cioè che le fasi bipolari sono quelle in cui predomina l’obbligazione politica sul
contratto scambio. Il lusso di ragionare in termini contrattuali da parte degli anglosferici sarebbe, nell’ottica migliana, la conseguenza
di una condizione sistemica: il venir meno della bipolarità del sistema internazionale in cui predominerebbe l’obbligazione politica.
Cfr.: Gianfranco Miglio, Le regolarità della politica, Milano, Giuffré, 1988, 2voll.
162
James Bennett, “Anglosphere: the old Nato show”, United Press International, May 25, 2002.
163
Negli Usa è sorto perfino un sito web intitolato: Thank You Tony. Cfr.: www.thankyoutony.com
164
Ramesh Ponnuru, “Anglosphere of influence”, The Australian, 17 March, 2003.
32
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Owen Harries, editore di The National Interest. Harries, in un articolo assai acuto165, insiste sulla matrice quasi
squisitamente britannica sia dell’Anglosaxonism tardo ottocentesco che del mito anglosferico, entrambi
strumenti, sottolinea Harries di una potenza imperiale declinante alla fine dell’800 e oggi di una media potenza
che cerca di restare agganciata al carro egemonico statunitense per mero calcolo di potenza (il bandwagoning166
con l’egemone paga). L’esempio di Suez secondo Harries è molto indicativo a questo proposito: il mancato
soccorso statunitense, peraltro in un momento di forte solidarietà angloamericana, in cui la politica estera era
davvero ancora interamente prerogativa di una leadership wasp, dimostra che <<persino in quelle eccezionali
circostanze, l’affinità culturale e tradizioni condivise non furono sufficienti per garantire comuni obiettivi di
politica estera, per superare crudi calcoli di interesse nazionale>>167. Ora, prosegue Harries, se questa poteva
essere vero nel 1956, proviamo a chiederci oggi che speranze può avere un progetto di associazione geopolitica
tra le due democrazie, oggi. Qui Harries dimostra di saltare un po’ troppo disinvoltamente tra i due piani
analitici nello spiegare la scarsa tenuta della speciale relazione, ma coglie il segno nello spostare l’attenzione
dal livello sistemico a quello riduzionistico per lanciare una previsione sulla evoluzione della speciale
relazione: durante quella fase della guerra fredda inevitabilmente le scelte americane dipendevano più dalla
struttura del sistema internazionale piuttosto che dalle caratteristiche interne degli attori; oggi, con un sistema
internazionale fluido e meno invadente, in via di multipolarizzazione, le caratteristiche interne degli attori
tornano a contare ma visti i profondi cambiamenti in atto (etnicizzazione irreversibile che altera la componente
wasp di entrambe le società), diventa inevitabile lanciare seri dubbi sulla tenuta di questa specialità, ma per
ragioni interne e non sistemiche. La conclusione di Harries è di tipo marcatamente realista: qualunque
associazione tra le nazioni anglosassoni dovrà dipendere non da affinità culturali interne (che stanno
scomparendo) ma su calcoli di interesse nazionale, cioè facendo riferimento alla convenienza sistemica di una
tale scelta. Harries qui cerca di mettere in guardia dall’esagerare i meriti dell’affinità ideologica quale collante
delle alleanze/associazioni. Come ricorda Kissinger con la solita efficacia, <<se l’ideologia determinasse
necessariamente la politica estera, Hitler e Stalin non si sarebbero tenuti per mano, come del resto Richelieu e il
sultano della Turchia tre secoli prima, ma il comune interesse geopolitico è un legame molto forte>>. Ma
Harries fa anche un’altra osservazione che merita di essere ricordata: se una logica nella scelta da parte di
Londra di una strategia di bandwagoning con una delle due superpotenze dopo la crisi di Suez c’era
effettivamente (saltare sul carro Usa per interesse proprio per controbilanciare l’Urss168), questa strategia in un
sistema internazionale unipolare quale in parte è ancora quello attuale, appare il semplice rovesciamento di una
tradizione plurisecolare di balancing contro il più forte. Questa apparentemente incomprensibile scelta di
Londra dipende da fattori che lo stesso Harries riporta e che in realtà rovesciano le conclusioni realiste tratte
all’inizio: consolidamento di un’abitudine di stare al fianco degli Stati Uniti; il fattore complicante della
comunanza di lingua e cultura che rendono meno ovvio e semplice scegliere semplicemente sulla base della
realpolitik; l’oscillazione isterica tra Oceania ed Europa di Londra che rende la speciale relazione necessaria
proprio per non decidersi; ultimo fattore, pescato direttamente dal cuore della tradizione di ricerca della pace
democratica, non occorre controbilanciare le democrazie perché democracies do not fight each other. Harries
contesta questa scelta britannica ma fino a un certo punto, laddove auspica proprio il mantenimento di un saldo
165
Owen Harries, “The Anglosphere illusion”, The National Interest, Spring 2001, pp.130-136.
In questo lavoro intendiamo la strategia di bandwagoning secondo l’interpretazione data da Schweller per cui essa implica <<un
opportunistico saltare sul carro della potenza in ascesa>>, e meno nel senso di Walt per cui il bandwagoning implica <<acquiescenza
verso una potenza in ascesa da parte di uno stato minacciato da esso>>. Cfr.: Stephen Walt, The origins of alliances, Princeton,
Princeton University Press, 1987; Randall L. Schweller, “Bandwagoning for profit: binding the revisionist state back in”, International
Security, Summer 1994, pp.72-107. L’esistenza di una speciale relazione che legava Londra a Washington fu una trovata escogitata
da Churchill per tentare di agganciare la superpotenza americana in un momento di grave declino imperiale, così come era stata frutto
della fantasia politica di Churchill l’immagine della cortina di ferro calata sull’Europa. In realtà, secondo Hillgruber, Churchill non
aveva inventato quest’ultima immagine ma l’aveva ripresa addirittura da un articolo scritto da Goebbels sul settimanale Das Reich il
25 febbraio 1945 sulla “svendita all’Urss con Yalta delle posizioni occidentali”. Cfr.: Andreas Hillgruber, La distruzione dell’Europa,
Bologna, Il Mulino, 1991, p.429.
167
Ibidem, p.132.
168
Suo contrario logico, si noti, è la strategia di buckpassing, che si verifica quando uno stato decide di non controbilanciare uno stato
revisionista, per evitare i costi legati alla partecipazione alla guerra (strategia dello scaricabarile). Esempio classico il periodo
antecedente allo scoppio della seconda guerra mondiale quando la Francia, il Regno Unito e la Russia temporeggiavano sperando che
qualcun altro contenesse la minaccia hitleriana, cioè che qualcun altro si occupasse della tutela del bene pubblico numero uno,
l’ordine e la pace internazionale. La Russia di Stalin, con la firma del Patto Ribbentrop-Molotov pensò di consolidare questa opzione
attendista, lasciando che fossero gli europei occidentali a disarmare Hitler.
166
33
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
asse angloamericano sia per evitare che contro gli Usa si formi un blocco ostile di grandi potenze ma anche
affinché Londra riesca a svolgere il ruolo di elemento moderatore nei confronti dell’esuberanza di potenza
americana (riproponendo la favola dei greci e dei romani).
Critici a parte, il nuovo progetto dell’Anglosfera conosce un inaspettato successo tra businesspersons e analisti
e storici della più svariata provenienza accademica e ideologica negli Stati uniti. Svariate le ragioni. Da una
parte, il nuovo progetto anglosferico sembra incarnare l’ennesimo antidoto ideologico contro la nuova
inarrestabile ondata di declinismo tipo anni ottanta169, a causa dei rischi presunti di sovrestensione egemonica
del colosso americano, dato per impegnato170 nella costruzione di una egemonia globale (che alcuni definiscono
con leggerezza teorica, impero globale171); dall’altra, a spingere gli anglosferici sembra esserci anche il
tentativo di fronteggiare l’incalzante sentimento antiamericano172; infine, questo successo dell’affresco
anglosferico risiede a causa della rinnovata e ritrovata passione per i processi di integrazione regionale che
hanno ricevuto, come prevedibile, una intensificazione e accelerazione nell’era globalizzazione. Processi di
integrazione regionale che altrettanto prevedibilmente hanno tratto ulteriore linfa vitale dalla solita esagerata
credenza nell’esaurimento del ciclo storico della polity di riferimento da almeno tre secoli a questa parte: lo
stato-nazionale. La possibilità di un avvicinamento tra Stati Uniti e Gran Bretagna in una nuova associazione di
tipo politico, magari preludio a processi di federazione tra le due polities delle sponde dell’Atlantico, trae
continuo alimento da uno dei miti più duri a morire degli ultimi cinquanta anni173: il superamento dello statonazione, il balzo definitivo verso l’era della post-statualità. Alla base di questo mito una credenza dura a
morire174, e cioè che una maggiore integrazione tra gli stati comporti una diminuzione della conflittualità del
sistema internazionale (diminuisce il numero delle variabili e interdipendenza significa reciproca
vulnerabilità175) e porti, prima o poi, alla stabilizzazione della politica internazionale.
169
In realtà già il realismo taftiano dei primi anni cinquanta e lo stesso senatore Fulbright nel suo capolavoro del 1966, L’arroganza
del potere, avevano dato grande enfasi ai rischi legati a una politica estera di tipo imperiale: rischio di trasformare la federazione in un
garrison state liberticida (per riprendere l’espressione di Lasswell), rischio di fronteggiare minacce ideologiche e non geopolitiche,
rendendo impossibile la “delimitazione dell’inimicizia”.
170
Waltz a questo proposito ricorda che il comportamento americano in america centrale fornisce una scarsa evidenza empirica di una
autolimitazione di una potenza egemonica in assenza di una potenza controbilanciante. Cfr. Kenneth N. Waltz, Teoria della politica
internazionale, Bologna, Il Mulino, 1979.
171
Su questo rimando alle osservazioni dense di buon senso di: Lucio Caracciolo, “Editoriale”, Limes, 2004(2), pp.7-23.
172
Che, come ricorda un campione del realismo, Robert Gilpin, consiste nell’odiare gli Usa innanzitutto per ciò che sono e poi per ciò
che fanno. Cfr.: Robert Gilpin, “War is too important to be left to ideological amateurs”, International Relations, 2005, pp.5-18
173
Si pensi ad esempio a quanto scrive uno dei massimi studiosi sul fenomeno/istituzione “guerra”, Van Creveld, per cui lo stato
sarebbe ormai prossimo all’estinzione a causa di sia della formazione di nuove unioni sovranazionali, che diluirebbero quelli preesistenti, sia a causa del collasso o mal funzionamento di un buon numero di segmented states, di stati afflitti da conflittualità intraetnica. a Creveld sembra sfuggire sia lo sforzo di molte di queste cosiddette unioni sovranazionali nel darsi connotati statuali, sia la
necessità di patteggiare con un ambiente internazionale ancora marcatamente statuale, sia il fatto che al collasso di uno segmented
state segue spesso la formazione di una costellazione di nuovi stati, sia la relativa tuttora assenza di una alternativa alla sintesi politica
statuale sia proprio quella dimensione strategico-militare dei rapporti internazionali che impediscono, più di ogni altro fattore,
l’estinzione dell’istituzione che meglio di ogni altra difende i cittadini dallo spettro della guerra civile e di quella inter-statale. Si veda:
Martin Van Creveld, “The fate of the state”, Parameters, Spring 1996, pp.4-18
174
Su questo punto si veda l’ottimo: Angelo Panebianco, “Studi sull’integrazione regionale “, Rivista Italiana di Scienza Politica, Vol.
II, No.2, pp.383-402.
175
Quanto fallace sia questo schema di ragionamento si evince anche solo ripensando al periodo precedente lo scoppio della prima
guerra mondiale quando esisteva tra i paesi europei una forte interdipendenza commerciale per ciò che concerne materiali cruciali per
la produzione bellica (acetone, binocoli, legname), e il fatto che quasi tutti i capi di stato europei erano imparentati tra loro (il Kaiser e
lo Zar si scrivevano regolarmente in inglese chiamandosi affettuosamente “Nicky” e “Willie”). Su questo rimando a: Martin Gilbert,
La grande storia della prima guerra mondiale, Milano, Mondatori, 1998, pp.26ss.
34
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
6.1 Forma e forza del nuovo pan-anglismo anglosferico
L’uomo ha bisogno di un diritto dinamico, di un diritto plastico
E in movimento , capace di accompagnare la storia nelle sue
metamorfosi…l’aspirazione a un diritto semimovente…
la cosa più fertile sarebbe analizzare a fondo e tentare di definire
il fenomeno giuridico più avanzato che si sia prodotto oggi nel
pianeta: la British Commonwealth of Nations…(basato) sul
principio del margine e dell’elasticità…si guardino le relazioni tra
le differenti sezioni dell’Impero Britannico; l’unità dell’Impero Britannico
non è costruita su una costituzione logica. Non è neppure basata
su una Costituzione. Perché vogliamo conservare ad ogni costo un
margine e una elasticità.
(José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse)
La strategia prescelta dai sostenitori dell’Anglosfera è qualcosa di noto: lo spill-over di funzionalista
memoria176, l’intensificazione dell’integrazione economica177 seguita da un sempre più intenso trasferimento di
funzioni e competenze a un centro sovranazionale e da lì l’approdo, una volta intensificata l’interdipendenza tra
gli attori, alla inevitabile fusione politica delle identità statuali.
Ora, la classica definizione di integrazione (politica) di Haas torna a questo proposito ancora tutto sommato
utile:<<il processo mediante il quale gli attori politici che operano entro distinti contesti nazionali sono persuasi
a cambiare le loro lealtà, aspettative e attività politiche verso un nuovo centro, le cui istituzioni hanno o
chiedono giurisdizione sugli stati preesistenti>>178. Tradotto con linguaggio eastoniano, il nuovo centro sarà un
centro sovrano quando sarà cioè in grado di distribuire in modo imperativo i valori e, con terminologia
schmittiana, sarà sovrano solo quando sarà in grado di decidere sulla pace e sulla guerra nello stato d’eccezione
(e di decidere sullo stato d’eccezione). E qui arriviamo appunto al nodo cruciale per ridimensionare la fattibilità
da un punto di vista funzionalista dell’ipotesi Anglosfera.
I sostenitori e i teorici dell’ipotesi-utopia Anglosfera basano dunque il loro apparato teorico su di un sostrato
teorico e su assunti evidentemente funzionalisti. E del funzionalismo mantengono e ripropongono gli stessi
difetti: sottovalutazione della tenuta dello stato-nazionale e delle sue logiche, su tutte la riluttanza nel diluire la
propria sovranità a favore di polities sovranazionali e anzi la tendenza a servirsi di queste per meglio adattarsi al
milieu internazionale; la predilezione dello stato nazionale a vedere nei processi di integrazione niente meno
che alleanze l’intensità del cui patto costitutivo è direttamente proporzionale al grado della minaccia (cioè del
nemico) contro cui esso è stipulato; tendenza a ignorare la differenza tra questioni di low politics e di high
politics; tendenza a trascurare la variabile sistemica nello spiegare la formazione di questi processi (decisiva
importanza del sistema internazionale in cui si innescano queste integrazioni); tendenza a sterilizzare
l’elemento politico del processo per concentrarsi sull’aspetto tecnocratico; totale sottovalutazione dei rapporti
di potere, della distribuzione internazionale del potere, e di quali sono gli attori più potenti del processo di
integrazione (gli attori non contano tutti allo stesso modo); e, ultimo, il fatto che la decisione di optare per
l’integrazione è una decisione di politica estera e come tale sottoposta a tutti vincoli cui ogni decisione di
politica estera è sottoposta179. Come sottolineava Puchala180 più di venti anni fa in un saggio sull’argomento
integrazione, <<quando discussioni e movimenti verso l’integrazione regionale in diverse parti del mondo
attrassero l’attenzione degli analisti, una buona fetta di studiosi assunse che il movimento verso l’integrazione
internazionale dovesse essere un progresso verso l’assimilazione sociale e culturale delle nazionalità, vale a dire
verso un nazionalismo a livello regionale>>. Non hanno poi così torto quegli analisti181 che nel processo di
176
I due testi classici del neo-funzionalismo: Ernst B. Haas, The uniting of Europe: political, social and economic forces, London,
Stevens, 1958; Leon N. Lindberg, The political dynamics of European economic integration, Stanford, Stanford University Press,
1963.
177
Gli stadi di integrazione economica potrebbero essere, come suggerisce Balassa, cinque: area di libero scambio; unione doganale;
mercato comune; unione economica; totale integrazione economica. Citato in: Ibidem, p.385.
178
Ernst B. Haas, The uniting of Europe: political, social, and economic forces, 1950-1957, Stanford, Stanford University Press,
1958, p.16
179
Si veda il classico: Crane Brinton, From many one, Cambridge, Harvard University Press, 1948.
180
Donald Puchala, “Of blind men, elephants and international integration“, Journal of Common Market Studies, 1972, Vol. 10,
p.275.
181
In gran parte realisti, tra cui si veda ad esempio: Hans J. Morgenthau, Politics among nations, Chicago, Chicago University Press,
1954, pp.511-516. Ma tra questi anche un realista eterodosso come: Raymond Aron, Pace e guerra tra le nazioni, op.cit., pp.743-766.
35
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
integrazione vedono un processo di sfruttamento reciproco in cui i governi cercano di mobilizzare e accumulare
le risorse dei paesi vicini con lo scopo di aumentare il loro stesso potere: quelli cui assistiamo sono spessissimo
matrimoni di convenienza, di conseguenza <<l’integrazione internazionale non porta mai al federalismo o al
nazionalismo o al funzionalismo, ma solo alla disintegrazione. Non va mai oltre lo stato-nazionale>>182.
I sostenitori dell’Anglosfera fanno implicitamente riferimento non solo agli assunti e agli schemi teorici del
funzionalismo, ma anche a quelli del liberalistituzionalismo, secondo cui l’istituzione di regimi regionali non
rientrerebbe in una logica di balance-of-power o di logica delle alleanze ma, al contrario, sarebbe la
testimonianza della necessità degli stati nazionali di attivare norme, regole e istituzioni per gestire problemi di
coordinazione, comunicazione e trasparenza riducendo così proprio il cavallo di battaglia del modello
neorealista, il dilemma della sicurezza183. In questo caso lo statualismo tipico del liberalistituzionalismo, cioè il
mantenere lo stato quale attore cardine degli affari internazionali, aiuta e complica l’analisi del successo
dell’ipotesi Anglosfera: aiuta perché mantiene al centro della decisione sul futuro dell’alleanza angloamericana
lo stato dunque attenuando le interferenze della società a favore strategiche di quelle del sistema internazionale;
complica l’analisi della fattibilità, dal momento che esagerata è proprio la dimensione comunicativa che
addirittura dovrebbe indurre gli stati a “sciogliere” la propria sovranità per comunicare in modo più affidabile
dunque limitando il dilemma della sicurezza.
Le teorie forse più utili a guardare con un certo disincanto all’ipotesi di una associazione delle due democrazie
anglosassoni nel progetto comune dell’Anglosfera, sono quelle neo-realiste dal momento che, come ricordano
in uno dei migliori testi sul regionalismo, Fawcett e Hurrell184, la politica del regionalismo (sia il regionalismo
come policy che come progetto185) ha molto in comune con la politica delle alleanze186. In tal senso,
l’integrazione internazionale in una ottica realista può anche essere vista come un processo di sfruttamento da
parte dello stato più forte di quelli più deboli per accumulare e raccogliere le risorse degli stati limitrofi. Quelli
in atto sarebbero dunque marriages of convenience187, destinati a durare o sino a quando entrambe le parti
ritengono ciò conveniente, o fino a quando dura la stretta dello stato più forte su quello debole, terminate le
quali situazioni non resta che la disintegrazione del matrimonio. I processi di integrazione non preludono
necessariamente al federalismo, ma spesso a processi di diffusione di potenza spettacolari.
Ora, posto che nessun processo d’integrazione di tipo regionalistico è non solo all’opera ma nemmeno in
discussione tra i governi americano e inglese, quella che qui prendiamo in esame è semplicemente un’idea che
va prendendo sempre più piede non più solo, e questa è la novità, tra gli inglesi, ma anche tra gli americani.
Il regionalismo, secondo il neorealismo, sarebbe niente meno che la risposta a circostanze geopolitiche molto
particolari: ad esempio la risposta alla presenza di una forte minaccia esterna (quella sovietica nel processo di
integrazione europea), risposta possibile soprattutto grazie all’interferenza decisiva dell’egemone del blocco di
appartenenza (gli Stati Uniti). Oppure la risposta al declino economico o militare di uno stato: il Nafta in questo
senso sarebbe meno la conseguenza della presunta affinità tra Canada, Messico e Stati Uniti e molto di più uno
dei tentativi di Washington di fronteggiare la crescente rivalità del Giappone (e oggi della Cina) e della UE, e
dunque la perdita di potere relativo. In quest’ottica, gli accordi regionali istituiti dalle due superpotenze durante
la guerra fredda altro non sarebbero che una strategia per meglio controllare gli alleati, condividere le spese,
sottrarre al blocco rivale potenziali alleati e risorse (strategiche ma non solo).
Ma il neorealismo ha utilmente indagato anche il rapporto tra egemonia e impulso all’interazione regionale. Ci
sono almeno quattro modi attraverso i quali l’egemone può fungere da stimolo al processo di integrazione188:
182
Donald Puchala, “Of blind men, elephants and international integration“, op. cit., p.276.
Su quanto l’insicurezza sia la premessa cruciale del (neo)realismo e, dunque, <<caratteristica permanente e universale dell’ordine
internazionale, dovuta al carattere costantemente anarchico di quest’ultimo>>, si veda: Francis Fukuyama, La fine della storia e
l’ultimo uomo, Milano, BUR, 1992, p.261ss.
184
Andrew Hurrell, “Regionalism in theoretical perspective”, in Louise Fawcett and Andrew Hurrell (ed.), Regionalism in world
politics. Regional organization and international order, Oxford, Oxford University Press, 1995, pp.46ss.
185
Aggiorna il dibattito ma senza grandi novità: Louise Fawcett, “Exploring regional domains: a comparative history of regionalism”,
International Affairs, Vol.80, No.3, pp.429-446. Utile la distinzione tra regionalismo e regionalizzazione laddove mentre con
regionalismo si dovrebbe intendere o una policy o un progetto, la regionalizzazione sarebbe un progetto e un processo insieme
(regionalizzazione della sicurezza sarebbe la risposta regionale a conflitti già su scala regionale).
186
Il neorealismo ha però pochissimo da dire una volta che il processo di integrazione ha preso il via, si rivela di scarsissima utilità
per ciò che concerne il tipo di cooperazione che si instaura tra gli attori. Inevitabile del resto visto il carattere solistico-sistemico
dell’approccio adottato dai teorici neorealisti.
187
Donald Puchala, “Of blind men, elephants and international integration“, op.cit., 275-276.
188
Ibidem, p.50ss.
183
36
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
spesso un processo di integrazione regionale è una risposta proprio alla presenza di un egemone, è una delle
forme che il balance-of-power può assumere (il Mercosur in chiave antistatunitense, l’ASEAN contro il
Vietnam, il SADC contro il Sudafrica); altre volte, la cornice istituzionale creata dal processo di integrazione è
un modo per bloccare spinte egemoniche di un attore che così viene ingabbiato nell’istituzione (la Germania
nella CEE); una egemonia in declino può cercare di dare vita a processi di integrazione regionale proprio per
cercare di fronteggiare il proprio declino, e così condividere spese e responsabilità che da solo l’egemone non è
più in grado di coprire (il caso degli Usa che acconsentissero al progetto dell’Anglosfera); ultimo, e questo
potrebbe essere il caso della Gran Bretagna con gli Stati Uniti nel progetto dell’Anglosfera, spesso il
regionalismo è una delle manifestazioni che può assumere la strategia di bandwagoning da parte di uno stato
debole che cerca di stare con il più forte per goderne gli evidenti vantaggi (se poi il più forte è l’egemone del
sistema internazionale la cosa diventa anche più evidente). Ma c’è di più. Tra globalizzazione e regionalismo
c’è molta meno affinità di quanto spesso non si sostenga, e questo perché la globalizzazione può essere sia una
molla che un freno ai processi di integrazione, sostengono i neorealisti. Pur essendo retoricamente affiancata ai
processi di integrazione e anzi spesso essendo questi ultimi una delle manifestazioni possibili tanto conclamate
dai sostenitori del villaggio globale, tappa intermedia che si caratterizza per la liquefazione degli stati nazionali
in una nuova polity sovranazionale, la globalizzazione non può essere così automaticamente associata ai
processi di regionalismo, che anzi spesso ne sono una antitesi. Svariate le ragioni. In primo luogo, la logica
collettiva globale che sta dietro alla globalizzazione, l’identificazione di issues globali gestibili solo da network
su scala globale si scontra palesemente con la logica comunque irresistibilmente particularistica degli aggregati
regionali; in secondo luogo, gli scritti sui processi di integrazione regionale soffrono da sempre di una certa
enfasi sulla dimensione economica del processo, mentre completamente trascurato è spesso l’impatto culturale
di queste integrazioni. Orbene, l’aggregazione regional-continentale in atto sposta semplicemente a un livello
sovra-statuale la gestione di issue particolari, ma senza far venire meno la logica statuale, anzi cercando di
riproporla semplicemente a un livello più ottimale per gli stati che si coordinano in tal senso. Il regionalismo è
spesso il nome con cui gli stati-nazionali semplicemente destinano parte delle proprie prerogative189 ad altre
sedi istituzionali, che restano sotto il loro controllo e per nulla facenti parte di un nuovo ordine istituzionale
globale in via di formazione con definitivo esautoramento della statualità. In terzo luogo, il successo del
regionalismo è la conseguenza palese proprio dell’insuccesso delle ricette globali vale a dire del tentativo di
gestire le emergenze globali attraverso il ricorso a sedi di “governanza” globale che in qualche modo aggirino il
decision-making statuale.
Quello che infatti va ridimensionato non è tanto il progetto dell’Anglosfera in sé, quanto più l’entusiasmo
legato ai processi di integrazione tout court e al presunto superamento della logica statual-nazionale e relativo
approdo all’era post-leviatanica. Tra le condizioni necessarie affinché un processo di integrazione in un sistema
regionale decolli ci sono190: una congiuntura favorevole nel milieu internazionale e la nascita e l’imporsi di
schieramenti all’interno delle unità politiche tra cui sta decollando il processo di integrazione che spingono per
la integrazione191. Ora, nel caso dell’Anglosfera, anche concesso che la schiera di questi sostenitori divenga
significativa, è proprio la dimensione internazionale a remare contro questo salto di qualità dell’integrazione
tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Ora, l’irruzione sul palcoscenico internazionale della minaccia islamica a
seguito degli attentati dell’11 settembre ha ulteriormente avvicinato i governi di Washington e Londra come si è
visto a più riprese: la convergenza di interessi è stata notevole, ma più per un atteggiamento strategico di
Londra - affiancare gli Usa per goderne le ricompense - che per la concreta pericolosità che Al-Qaeda poneva
all’interesse nazionale britannico. La Santa Alleanza dell’asse Bush-Blair contro il terrore ha certamente dato
nuovo vigore alla quarantennale “comunità di sicurezza” angloamericana. La lotta fianco fianco contro le
189
Persino il cosiddetto trattato costituzionale dell’Unione europea ribadisce al primo articolo che gli stati membri conferiscono
competenze per conseguire scopi comuni e che a tal fine l’Unione coordinerà le politiche attraverso cui gli stati membri intendono
conseguire questi obiettivi. Competenze, dunque, e non sovranità. La sovranità non può essere né divisa né trasferita perché ciò
comporterebbe l’estinzione dello stato. Non solo. Ragionare percentualmente a proposito della sovranità di uno stato, parlare di
sovranità economica, militare o climatica non coglie il significato concettuale della sovranità. Quando trasferita o divisa, la sovranità
di uno stato fa di questo uno stato non più sovrano dunque non più stato. Il trasferimento di sovranità a un ente, ad esempio,
sovranazionale, si verifica se e solo se definitivo e non circostanziale e in toto: a quell’ente sovranazionale spetterà decidere l’ordine
interno e le relazioni internazionali, battere moneta e riscuotere le tasse ma in modo sovrano cioè non per un certo tempo o perché
sotto incarico. Devolvere funzioni o competenze non equivale né a trasferimenti di quote di sovranità né a erosione della sovranità.
190
Angelo Panebianco, “Studi sull’integrazione regionale”, op. cit., p.387ss.
191
Amitai Etzioni, Unificazione politica, Milano, Etas Kompass, 1969, p.61.
37
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
armate di Saddam ha certamente consolidato il senso di comunità tra le due sponde dell’Atlantico e la
cooperazione tra i settori dell’intelligence e dell’esercito dei due paesi sì da confermare, come riferiscono i
sondaggi fatti tra le rispettive popolazioni, la solidità del rapporto angloamericano. Ma paradossalmente tra le
conseguenze più rilevanti dell’11 settembre sta proprio un ritorno di sovranità senza precedenti, in particolare
sul versante americano, il ritorno in grande stile di politiche estere votate al perseguimento del proprio interesse
particulare e preoccupate di ottenere il sostegno eventuale delle organizzazioni internazionali, regionali e non,
e delle unioni regionali ma più per condividere le spese e gli oneri della nuova “premura di sicurezza”, che per
aggregazione causa esistenza di un nemico o causa affinità di civilizzazione.
L’esempio più semplice da portare per smentire facili entusiasmi sull’eventuale decollo dell’ipotesi Anglosfera,
in accordo alle prescrizioni funzionaliste e regionaliste, proviene in realtà proprio dal Nord America, dove la
comunità di sicurezza tra Canada e Stati Uniti, consolidatasi certamente con l’entrata in vigore del Nafta, non
sembra preludere certamente a nessun tipo di integrazione politica eventuale tra i due paesi192. Non solo.
L’entusiasmo dei sostenitori dell’Anglosfera sottovaluta non solo la tenuta della lealtà dei cittadini allo stato e
la capacità dello stato di adeguarsi all’era della globalizzazione, ma anche la lealtà dei cittadini all’identità
nazionale di appartenenza: being Americans, being British do matter.
Quanto i processi crescenti di interdipendenza non preludessero a ipotesi di integrazione economico-politica del
tipo di quelli identificati normativamente dai sostenitori dell’Anglosfera, ma fossero soprattutto tentativi da
parte dello stato egemone di meglio controllare le economie degli stati limitrofi per aumentare la propria
posizione relativa nel sistema regionale e in quello internazionale, era già molto chiaro a uno dei più lucidi
lettori dei rapporti di potere internazionale, David A. Baldwin. In un saggio sulle relazioni tra Stati Uniti e
Canada del 1968 ma che mantiene la sua dirompente utilità e attualità ancora oggi, Baldwin soffermandosi sul
concetto di interdipendenza, notava che il concetto di interdipendenza <<è altamente fuorviante in questo
contesto dal momento che confonde più che chiarire le cose. Il concetto implica una reciprocità di dipendenza
che semplicemente non esiste….questa tendenza a esagerare la natura reciproca della relazione non sembra
riguardare il solo caso di Stati Uniti e Canada. È egualmente semplice trovare argomentazioni del tipo “il
Messico e gli Stati Uniti sono costantemente consapevoli della rispettiva presenza….occorre guardarsi dal
sovrastimare il grado di questa dipendenza>>193. Baldwin insisteva ricordando che l’interdipendenza da un
punto di vista economico tra due paesi era significativa certo ma che una interruzione dell’importante flusso di
scambi commerciali tra i due paesi difficilmente avrebbe messo in difficoltà gli Usa; nel campo culturale le
cose non sono poi così diverse: i canadesi guardano la Tv americana, ma gli americani non guardano la tv
canadese, e così per i giornali, con il cittadino medio americano ignaro del nome anche di un solo giornale
canadese. Questo nel 1968, ma il 2004 non è poi così diverso: l’accentuazione delle diversità in campo
identitario consolidatesi dopo l’11 settembre, tra un Canada amante della pace e una Washington preda di un
“puerile entusiasmo guerresco” (come titolano buon parte dei giornali canadesi), tra un Canada rispettoso dei
diritti umani e gli Stati Uniti in cui vige ancora (e viene applicata con solerzia) la pena di morte; la rabbia
statunitense seguita al blackout del 2003 (come nel 1965) che si è semplicemente tradotto in una impennata
della veemenza anticanadese da parte degli Usa che hanno accusato Ottawa di inefficienza nel gestire una
obsoleta rete elettrica194; l’enorme diversità tra i due pur simili sistemi politici, ricordata persino in spot
pubblicitario di una famosa birra canadese dal nome molto indicativo (I am Canadian). Ma, del resto,
basterebbe confrontare la posizione dei due paesi nel sistema internazionale per ridimensionare qualsiasi ipotesi
di reale reciproca interdipendenza tra i due paesi195. In breve: la famosa descrizione di J. B. Brebner del
rapporto tra Usa e Canada come “i gemelli siamesi del Nordamerica”, era, per Baldwin, e dovrebbe essere per
noi, davvero poco calzante. Come sottolineava con sarcasmo il politologo americano, <<difficile immaginare
192
Medesimo discorso vale per il Consiglio Nordico dei Norden e per l’esagerazione della possibilità di un’emersione di una identità
scandinava base per l’unificazione politica dei popoli cosiddetti scandinavi.
193
David A. Baldwin, “Canadian-American relations: myth and reality”, International Studies Quarterly, June 1968, pp.127-128.
194
E dopo gli attentati dell’11 settembre, di inefficienza nel pattugliare il confine tra Usa e Canada (da lì passò il comando di
Mohamed Atta).
195
Baldwin fa un elenco piuttosto chiarificatore: egemone del sistema internazionale vs potenza regionale di secondo rango; quasi
300 milioni di abitanti vs poco più di 30 milioni; apparato militare neanche lontanamente confrontabile; azione politico-diplomatica
statunitense su scala globale vs politica regionale con qualche ambizione nel Pacifico a causa della presenza della forte minoranza
cinese. Baldwin aggiunge piuttosto ironicamente che solo gli Stati Uniti sono in grado di proteggere militarmente il Nordamerica, e
implicitamente il Canada medesimo la cui integrità politico-territoriale, prima ancora che dal separatismo quebeçoise, dipende dalla
superpotenza statunitense. In questo senso più che di inter-dipendenza si dovrebbe parlare di dipendenza canadese dagli Usa.
38
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
un gigante e un nano come gemelli siamesi>>196. Persino l’argomentazione geografica, che insiste
sull’inevitabile, prima o poi, avvicinamento tra le due democrazie confinanti data la vicinanza geografica che
renderebbe naturale un’associazione tra i due paesi, così tipica di quelle spiegazioni deterministiche tipiche di
certa geopolitica, esagera, a scapito delle argomentazioni demografiche, economiche, politiche, l’importanza
della vicinanza di confine che, anzi, spesso innesca diatribe sulle risorse naturali, sul flusso migratorio197, sui
casi di doppia cittadinanza, tutti fattori che concorrono a rendere il paese più debole dei due anche più
vulnerabile.
Lo schema funzionalista dei teorici anglosferici ruota di solito attorno all’ipotesi di un eventuale allargamento
del Nafta alla Gran Bretagna198. Le ragioni sono solitamente di natura prettamente contabile. Il punto di
partenza sono indicatori economici che indicano la grande intensità dello scambio tra le due economie199 e
persino una certa convergenza tra le due democrazie nella way to business200:
• La Gran Bretagna è il più grande investitore straniero negli Usa e viceversa
• Gli investimenti britannici negli Usa hanno creato 1 milione di posti di lavoro
• La GB ha ricevuto oltre il 40% di tutti gli investimenti americani in Europa
• La GB è il quarto mercato per le merci americane dopo quello del Canada, Giappone e del
Messico
• Londra e New York sono due tra i centri finanziari più importanti del mondo
Le tesi funzionaliste di tipo contabile dei sostenitori dell’Anglosfera hanno diversi critici. Michael Lind, ad
esempio, si dimostra addirittura scettico verso l’ipotesi Nafta per come già è, senza bisogno di ulteriori
allargamenti, per una ragione semplicissima: il Nafta sarebbe già di per sé un vagheggiamento: la popolazione
americana è tutto fuorché entusiasta sia di un eventuale trasferimento di sovranità a un’entità tipo Nafta, sia
della trasformazione del patto in qualcosa che cominci ad assomigliare a una polity statuale o anche solo a una
confederazione economica che intensifichi i rapporti economico-commerciali tra i tre paesi del Nord-America.
L’intelligentsja americana resta essenzialmente atlantista, guarda all’Europa e non a un presunto disegno di
pan-nordamericanismo. L’unico legame che unisce queste tre nazioni è la prossimità geografica e non una
comune civilizzazione:<<il Rio Grande è molto più largo dell’Atlantico>>. Paul Krugman, per parte sua, taglia
corto al proposito del Nafta201: niente di più di una questione di politica estera, che per i paesi aderenti avrà un
impatto economico pressoché irrilevante. La questione è semplice: il Messico ha bisogno del Nafta202 e gli Usa
hanno un grande interesse nell’aiutare il Messico: un Messico con una economia in buono stato di salute è un
Messico che frena le ondate emigratorie verso gli Usa e che consente agli investitori (in gran parte americani) di
continuare a guadagnare stando tranquilli, un Messico in altre parole che non rappresenta un problema ai
confini di casa per Washington. Il Nafta serve per neutralizzare la potenziale pericolosità del Messico, legando
il vicino paese alle sorti economiche degli Usa.
196
David A. Baldwin, “Canadian-American relations: myth and reality”, International Studies Quarterly, June 1968, p.129.
E annessi problemi sanitari come quando nell’estate del 2003 l’epidemia di Sars che colpì grandi città come Toronto, venne
salutata da Washington non con solidarietà, ma con una esasperazione dei controlli al confine tra i due paesi e un’accusa di
Washington al governo canadese di non fare abbastanza contro l’immigrazione cinese clandestina.
198
Gideon Rachman, “Is the Anglo-American special relationship still special?”, The Washington Quarterly, Spring 2001, p.16ss.
Rachman segnala che nell’aprile del 2000, il senatore repubblicano del Texas, Phil Gramm, convinse la ITC, la Commissione
americana per il Commercio Internazionale, a prendere in considerazione l’idea di un ingresso dello Uk nel Nafta.
199
Alasdair Blair, “Bridging the gap: the Uk between the Us and the EU”, European Political Science, Autumn 2002, p.12-13.
200
John Redwood enfatizza la grande somiglianza in campo economico tra Usa E Uk, aggiungendo quale elemento ulteriormente
facilitante per businessmen del Regno Unito che si recano negli Usa rispetto al Continente, la lingua inglese, che rende molto facile
per gli inglesi concludere affari negli Usa a fronte di grandi difficoltà sistematicamente incontrate nel continente europeo, di natura
prettamente giuridiche (eccesso di legislazione) ma non solo (diversa modalità culturale nel condurre e chiudere trattative
commerciali). Cfr.: John Redwood, Stars and strife. The coming conflicts between the Usa and the European Union, New York,
Palgrave, 2001, pp.102-114. Redwood, descrive quattro scenari alternativi nel rapporto triangolare UK-USA-UE per ciò che concerne
il versante britannico: Uk nella UE e accantonamento ipotesi Nafta (posizione di gran parte del Labour, preoccupato di eccessivo
potere degli Usa); adesione sia dello Uk che della Ue al Nafta (posizione di molti conservatori); Uk prima nel Nafta e poi
rinegoziazione del patto con la Ue; Uk nel Nafta (posizione dei pan-anglisti).
201
Paul Krugman, “The uncomfortable truth about Nafta. It’s foreign policy stupid!”, Foreign Affairs, November/December 1993,
pp.13-19.
202
E a questo riguardo basta pensare all’invito del governo americano ai messicani-americani affinché si adoperassero presso il
Congresso per fare approvare il Nafta. Su questo cfr.: Yossi Shain, “Multicultural foreign policy”, Foreign Policy, Fall 1995, pp.71.
197
39
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
Anche Mario Telò203, che ritiene il Nafta la più leggera tra le organizzazioni regionali oggi esistenti, un modello
da seguire, fornisce una spiegazione politicissima dell’accordo del libero scambio del Nordamerica. La
decisione americana di sviluppare ulteriormente il Trattato di libero scambio concluso con il Canada nel 1989, e
di allargarlo poi cinque anni dopo al Messico, si inserirebbe nella strategia di Washington volta a contrastare
l’intensificazione del progetto regionalista europeo. Il progetto di George Bush e Clinton di trasformare il Nafta
in Ftaa, cioè il progetto di estendere l’area di libero scambio a tutto il continente americano, era semplicemente
volto a conseguire questo scopo: sottrarre definitivamente all’interferenza europea, sempre più incalzante, il
continente sudamericano: niente più che una delle molteplici applicazioni economiche della dottrina di Monroe.
Quanto questo sia in parte vero si evince dalle posizioni smaccatamente antieuropee prese da George W. Bush
in occasione del meeting FTAA di Québec dell’aprile 2001. Occasione in cui fu anche chiaro quanto
strumentale per gli Usa fosse la politica regionalista, tutta volta a costruire relazioni asimmetriche tra i
partecipanti e a escludere potenziali rivali dal ghiotto mercato americano: la strategia di Washington di
controllare i paesi dell’Emisfero occidentale proprio attraverso istituzioni come il Ftaa, è un fatto costantemente
denunciato dal pivotal state del continente sudamericano, il Brasile, che non perde occasione di ricordare la
passione americana per “l’interdipendenza asimmetrica” e soprattutto la strategia americana di puntare sulla
FTAA per bloccare il processo di integrazione del MERCOSUR. Il tratto marcatamente anti-americano che il
regionalismo sudamericano sta prendendo sta, del resto, allarmando Washington, decisa a bloccare, come nel
caso europeo, ma qui con l’aggravante che a essere interessato è il cortile di casa, la possibilità di un aggregato
continentale in grado di sfidare la supremazia americana. Perché dietro ai progetti regionalisti sponsorizzati
dagli Usa c’è sempre la strategia di Washington di preservare la propria posizione di predominio nell’Emisfero
occidentale e nel sistema internazionale nel suo complesso. Del resto, lo stesso movimento pan-americanista204,
a differenza di altri movimenti pan-nazionalisti di successo, continentali e non emisferici, non può contare su
una lingua distinta e comune a tutti i popoli (a differenza del pan-slavismo e del pan-germanesimo); non può
contare su una comunanza religiosa tra i suoi popoli (a differenza ad esempio del pan-islamismo e pansionismo); non può contare su una eredità storica comune (anglosassone nel nordamerica, latina nel Centro-Sud
America); si è connotato più come movimento pan-economico che pan-nazionalistico, puntando tutto
sull’importanza di un’eventuale associazione tra le economie; ha avuto tradizionalmente un carattere difensivo,
via dottrina di Monroe205, dalle ingerenze delle potenze europee nelle faccende americane ed è stato sempre
ben lungi dal promuovere una solidarietà emisferica, certamente non quando di mezzo c’era la Gran Bretagna
(la giunta argentina sbagliò i suoi calcoli quando, invase le isole Falkland pensando di poter contare
sull’appoggio degli altri stati dell’Emisfero)206.
Per concludere. Pur essendo una zona di libero scambio che facilita il commercio tra i suoi membri, il Nafta
non stabilisce <<un comportamento comune verso l’esterno>>207: esso si esaurisce nello scambio medesimo,
quasi fosse solo una componente (certo essenziale vista la competizione internazionale) del processo di crescita
economica. Appunto: niente di più.
203
Mario Telò, Europa potenza civile, Bari, Laterza, 2004, p.110-111.
Louis L. Snyder, Macro-nationalisms. A history of the pan-movements, Westport, Greenwood Press, 1984, pp.225-246.
205
Dottrina di Monroe che ruotava attorno a un quadruplice punto: chiusura del continente americano ai tentativi di colonizzazione
europea; diversità del sistema politico americano da quello europeo; necessità di evitare ad ogni costo l’importazione del sistema
politico europeo nell’Emisfero, perché pericoloso per l’interesse nazionale americano; gli Usa rispetteranno i possedimenti europei
nelle Americhe, e gli Usa si asterranno dall’interferire nelle faccende europee. Cfr: Ibidem, p.227.
206
Senza dimenticare che la dottrina di Monroe venne enunciata senza che alcuno degli stati latini dell’Emisfero occidentale venisse
in alcun modo consultato. Ben presto la dottrina Monroe divenne una semplice giustificazione ideologica, agli occhi dei sudamericani,
dell’imperialismo yankee nell’Emisfero.
207
Philippe Moreau Defarges, Introduzione alla geopolitica, Bologna Il Mulino, 1996, p.161.
204
40
“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
6.2 Londington?
Prognosi è una parola ardita per le conseguenze che ci restano ancora da trarre.
Lo sguardo non arriva tre passi davanti da noi. La prospettiva è involta nella nebbia.
La sola cosa che resti da fare, è valutare alcune possibilità, supporre alcune eventualità.
(Johan Huizinga, La crisi della civiltà)
Se ci si interroga sul potenziale aggregante di un tale scenario nel breve periodo, dunque sconvolgimenti
demografici interni alle due società e spostamento dell’interesse strategico americano verso il Pacifico208 a
parte, l’interesse britannico verso il progetto anglosferico si spiegherebbe facilmente con il fatto che
intensificare la speciale relazione con l’egemone del sistema internazionale con cui peraltro è legata da una
specialissima collaborazione più che cinquantennale, pagherebbe, eccome. Più delicate da spiegare le ragioni di
un eventuale interessamento della superpotenza americana per l’affresco anglosferico, riconducibili in gran
parte all’ipotesi di un declino americano: in caso di forte calo di potenza, cioè solo se l’egemonia statunitense
venisse definitivamente sfidata da altre rising powers; oppure, nel caso si verificasse l’erosione della propria
egemonia a causa di un proprio declino conseguenza, per esempio, del più classico degli imperial overstretch,
l’alterazione del famoso Lippmann gap, il delicato equilibrio tra impegni all’estero e risorse. Questo sì, molto
probabilmente, predisporrebbe Washington a intensificare alleanze con fidatissimi partner per evitare una
accelerazione del proprio declino e contrastare l’ascesa di altre potenze.
Ora, l’eventualità di un declino americano comporterebbe l’aumento dell’importanza strategica della Gran
Bretagna per gli Stati Uniti, sorta di rovesciamento epocale nel rapporto della speciale relazione: per
Washington il mantenimento di un rapporto speciale con Londra diventerebbe decisivo, rendendo finalmente
bilaterale la specialità della relazione angloamericana. Il discorso del 19 novembre 2003 del presidente Bush II
sui tre pilastri dell’ordine mondiale, sembra voler tutelare il futuro statunitense, spostandosi in questa
direzione:<<più che una alleanza di sicurezza e commerciale, i popoli britannico e americano hanno una
alleanza di valori. E oggi, questa vecchia e testata alleanza è molto forte. Le più profonde credenze delle nostre
nazioni informano gli obiettivi delle nostre politiche estere. Gli Usa e la Gran Bretagna condividono una
missione nel mondo che si spinge oltre il balance-of-power o il semplice perseguimento dell’interesse
nazionale…i britannici sono quella sorta di partner che uno vuole quando c’è da fare del lavoro serio…e
l’America è fortunata nel potere chiamare questo paese il nostro più caro amico al mondo>>209.
I think tanks americani non hanno tardato a far sentire la propria voce in merito. L’Heritage Foundation, ad
esempio, ha affidato a due suoi esponenti di punta il compito di affermare che <<dall’11 settembre la Gran
Bretagna è senza alcun dubbio emersa come la seconda più potente nazione del globo. Il sostegno spalla a
spalla del premier Blair a Bush nella guerra contro il terrorismo ha prodotto grandi dividendi in termini di
prestigio e influenza della Gran Bretagna sulla scena internazionale…la Gran Bretagna è la stella ascendente
rispetto alle altre potenze europee…è nel vitale interesse nazionale britannico restare l’alleato chiave degli Usa
nel XXI secolo….Washington vede nella Gran Bretagna senza dubbio il suo più importante alleato,
politicamente, strategicamente e militarmente>>210. Conrad Black, alfiere dell’ipotesi Anglosfera, in un
consiglio alla Gran Bretagna lanciato dalle colonne di The National Interest211, ha invitato Blair a insistere con
la strategia di bandwagoning212 per fare del paese che negli anni novanta sembrava destinato a scomparire per
irrilevanza strategica, il partner per eccellenza dell’unica superpotenza rimasta.
La risposta britannica a questa situazione di incertezza, nel breve periodo, non ha tardato ad arrivare: prestito a
costo pressoché zero e in modo continuativo a prescindere dal partito al potere, di basi e stazioni radar sul
proprio territorio nazionale per il National Missile Defense System; isole (si pensi a Diego Garcìa e Ascension
Island) in concessione per meglio consentire a Washington di esercitare il proprio potere navale globale213,
208
La cosiddetta “pacifizzazione” della politica estera americana, così come descritta da William Cohen, segretario alla difesa di
Clinton, conseguenza dell’inedita ascesa di potenza simultanea di diverse potenze asiatiche che si è tradotta in una corsa al riarmo,
sino-nipponica ad esempio, senza precedenti.
209
www.whitehouse.gov/news/releases/2003/11/print/20031119-1.html
210
Nile Gardiner and John Hulsman, “The President’s visit to Britain: advancing the Anglo-US special relationship”, Backgrounder,
November 14, 2003, p.5.
211
Conrad Black, “Counsel to Britain: Us power, the special relationship and the global order”, The National Interest, Fall 2003.
Black più di recente ha invitato Blair a lasciare l’Ue e ad entrare nel Nafta.
212
Vale a dire, l’opportunistico saltare e stare sul carro del vincitore.
213
Anatol Leven, “The hinge to Europe: don’t make Britain choose between the Us and the EU”, Policy Brief Carnegie Endowment,
25 August, 2003.
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“Londington”? Forma e forza della nuova Pax Anglosferica
senza dimenticare la risaputa affidabilità delle forze armate britanniche per operazioni congiunte214 e il sostegno
totale alla guerra a Saddam. Mentre la strategia britannica di lungo periodo approntata per incontrare questa
posizione statunitense è consistita in una duplice linea di azione, ognuna delle quali volta a rinsaldare l’asse con
Washington. In primo luogo, Londra ha cercato di impedire ad ogni costo che contro gli Usa si formasse in
qualche modo una coalizione ostile, e per fare questo ha intensificato la propria strategia di bandwagoning.
Questa strategia, che rappresenta il rovesciamento epocale di quattro secoli di tradizionale politica estera
britannica di preferenza per la logica di balancing, risale, come visto, al periodo post-Suez. Nelle parole di
Churchill a proposito dell’adozione di una strategia di balancing contro l’egemonismo della Germania
hitleriana, <<per quattrocento anni la politica estera dell’Inghilterra è consistita nell’opporsi alla più forte, alla
più aggressiva e potente nazione del Continente…sarebbe stato semplice e allettante unirsi al più forte
dividendosi poi i frutti delle sue conquiste. Al contrario, noi abbiamo sempre preferito scegliere la via più
difficile, unendoci con le potenze più deboli….sconfiggendo e frustrando il tiranno militare del Continente di
turno chiunque egli fosse>>215. Ma occorre precisare. Mentre la scelta di una strategia di bandwagoning dopo
Suez serviva ad agganciare la superpotenza americana per ritardare il proprio declino imperiale, la scelta di una
tale strategia di assecondamento del più forte dopo l’11 settembre rispose invece alla necessità certo di
continuare a godere dei favori del più forte, ma anche a impedire che contro il più forte (il proprio alleato più
importante) si formasse una coalizione ostile. Secondo il governo Blair, questa strategia sarebbe anche l’unica
che consentirebbe la preservazione della categoria di Occidente, minacciata proprio dal tentativo (evidente in
molte affermazioni del presidente della commissione europea Prodi e dei leader di Francia e Germania) di
controbilanciare gli Stati Uniti formando blocchi politico-militari in grado di competere al vertice del potere
mondiale con Washington. In secondo luogo, la strategia di Londra ha cercato di rendere sempre più chiaro che
la collaborazione con gli Stati Uniti appartiene al regno della vicinanza simbolica, della fratellanza mentre il
rapporto con gli europei appartiene al regno della cooperazione costretta, saltuaria, contingente e su questioni
concrete, mai (o molto raramente ma comunque sempre via Usa) su principi: il pragmatismo, per Londra,
continua a essere per l’Europa: per l’Europa solo “fatti”, mentre il simbolismo, quello sì, viene riservato agli
Usa (sicché quelli verso gli Stati Uniti continuano a essere symbolic gestures sistematicamente volti a
consolidare lo speciale connubio tra le due democrazie anglosassoni). Questo spiega il perchè le visite dei
premier e dei presidenti europei a Londra si siano tradizionalmente svolte e continuino a svolgersi con relativa
sobrietà e per discutere di questioni concrete, mentre le visite dei presidenti americani (si pensi a quelle di
Reagan ma anche a quella di Bush II nel novembre 2003) siano sempre state - soprattutto da parte britannica – e
continuano a essere l’occasione per celebrare un’amicizia, per rendere manifesta appunto una “speciale
relazione”.
Come si vede, la presunta difficoltà britannica nello scegliere tra il cerchio216 europeo e il cerchio americano,
appare sempre più il frutto di una percezione tutta euro-continentale: per Londra, l’alleanza decisiva resta quella
con gli Usa, non solo per i soliti invocati legami linguistico-culturali, quanto più per la forte consolidata
cooperazione nel settore dell’intelligence217, la cooperazione in campo strategico-militare e la forte affinità
geopolitica, senza naturalmente dimenticare un altro fattore decisivo: la diffidenza più che sistematica
manifestata da Londra verso il continente europeo e ogni suo disegno egemonico, per oltre quattro secoli.
Va concesso: la scommessa degli anglosferici non è poi così ardita.
214
James K. Wither, “British bulldog or Bush’s poodle? Anglo-American relations and the Iraq war”, Parameters, Winter 2003, p.80.
Winston S. Churchill, The Second World War, London, Cassell, 1948, Vol.1, p.162.
216
Per riprendere la nota immagine di Churchill.
217
Che ha fatto gridare il Parlamento europeo addirittura alla Anglosaxon conspiracy, una volta resi noti alcuni dei “compiti” del
sistema Echelon.
215
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