PRETURA DI TORINO - Corte d`Appello di Torino

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PRETURA DI TORINO - Corte d`Appello di Torino
SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
COMMISSIONE DISTRETTUALE
PER LA FORMAZIONE DELLA MAGISTRATURA ONORARIA
CORTE DI APPELLO DI TORINO
INCONTRO DI STUDIO DEL 15 MAGGIO 2014
IL PROCESSO CIVILE E LE SPESE DI LITE
Paolo Romagnoli
Got –Tribunale di Aosta
Avvocato del Foro di Torino
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Premessa; il rilievo delle spese di lite nell’ottica della finalità legislativa
di deflazionare il contenzioso civile
Il titolo assegnato a questo incontro potrebbe apparire ambizioso e
velleitario laddove si avesse la pretesa di trattare l’argomento in
ogni suo minimo particolare, con approfondimenti degni di una tesi
dottorale; in realtà l’obiettivo che mi sono prefissato è quello di
sottoporvi alcune riflessioni su quegli aspetti che esigono
chiarimenti ed indicazioni puntuali, resi ancor più opportuni dalle
novità legislative e regolamentari intervenute in materia, più o
meno recentemente.
L’interese per le problematiche relative alle spese di lite nasce dalla
constatatazione che le stesse, troppo spesso ed erroneamente, sono
trattate dal Giudice come una sorta di appendice della sentenza,
quasi fastidiosa ed importuna.
Molte volte si ha l’impressione che il Giudice, dopo avere dedicato
le sue migliori energie alla soluzione della causa, si ritrovi privo di
forze nel decidere la sorte delle spese, così statuendo in maniera
frettolosa e superficiale.
In realtà è pacifico che la decisione sulle spese rappresenta un capo
della sentenza, sulle quali l’organo giudiziario è tenuto a
pronunciarsi, indipendentemente da specifica domanda (Cass. S.U.
9859/97), con statuizione che – se non condivisa dalla parte
interessata – è di per sé idonea a giustificare gravame sul punto.
Ecco quindi che la correttezza della sentenza deve essere valutata
non solo avuto riguardo al merito della causa bensì anche per quel
che concerne la sorte e la quantificazione delle spese, con la
conseguenza che, in ultima analisi, l’esatta applicazione della
normativa in materia e l’adeguata motivazione si atteggiano come
elementi irrinunciabili per concretamente contribuire a realizzare il
fine legislativo di deflazionare il processo civile.
La giustizia civile rappresenta una problematica ancora irrisolta
sebbene siano sotto gli occhi di tutti noi, operatori del diritto, i vari
interventi legislativi succedutisi nel tempo, tutti orientati a snellire il
processo ed a garantirne la definizione in tempi ragionevoli.
In tale ottica, anche le modificazioni legislative intervenute in
punto spese di lite sono ispirate a detti obiettivi che – per essere
realizzati – non possono prescindere dalla consapevole funzione
dissuasiva propria dell’avvocatura.
Infatti, senza considerare le cause di valore inferiore ad € 1.100
laddove di competenza del Giudice di Pace, in tutti gli altri casi “le
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parti stanno in giudizio con il ministero e l’assistenza di un difensore” (art. 82
cod. proc. civ.), dal che discende che l’avvocato, professionista al
quale la parte si rivolge per sottoporre alla sua attenzione la
fattispecie, è il primo anello della “catena processuale”, così
identificandosi con il soggetto al quale spetta il compito –
estremamente delicato – di valutare la fondatezza delle ragioni del
cliente nonché l’ineluttabilità dell’iniziativa giudiziale, con
apprezzamento prognostico che non può prescindere dalla
prospettazione all’assistito del futuro rilievo, nell’economia
complessiva della causa, della disciplina delle spese.
Il dovere di informativa gravante sull’avvocato concerne anche tale
aspetto ed è inutile nasconderci che se lo stesso fosse
concretamente e correttamente sempre applicato, il numero delle
cause gravanti sul ruolo di ogni giudice, nei vari gradi del processo,
vedrebbe una drastica diminuzione, probabilmente seguita da
altrettanto rilevante sfoltimento dei candidati alla professione, a
tutto vantaggio di una rarefazione delle vertenze a quelle di effettiva
importanza ed irrisolvibilità per altra via.
La normativa fondamentale di riferimento: le linee guida
individuate dagli artt. 91 – 97 del codice di rito
A conferma di quanto fin qui esposto richiamo la vostra attenzione
sulle espressioni utilizzate dal legislatore per intitolare il capo IV in
commento “della responsabilità delle spese e per i danni processuali”,
sicuramente retaggio dell’originaria impostazione codicistica ma
comunque ancora oggi significative dell’approccio legislativo alla
fattispecie, reso evidente dall’impiego dei termini “responsabilità …
danni”.
Tralasciando gli articoli 93 e 94 (distrazione delle spese e condanna di
rappresentanti o curatori), privi di interesse in relazione al tema del
nostro incontro, occorre prendere le mosse dall’art. 91,
rappresentante il vero e proprio ago della bussola che deve
orientare il convincimento del giudice sul punto:
“Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la
parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida
l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”.
La norma in commento, secondo una opinione ampiamente
accolta, enuncia il fondamentale principio della soccombenza;
attraverso quest’ultimo il codice di rito avrebbe recepito l’idea,
compiutamente enunciata dal Chiovenda, secondo cui il costo del
ricorso alla giustizia civile non deve ripercuotersi in pregiudizio
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della parte che ha ragione, giacchè, se così fosse, la parte vincitrice
subirebbe una decurtazione patrimoniale non altrimenti
giustificabile.
Ne discende che, non potendo ragionevolmente immaginarsi che le
spese di lite possano essere rimborsate al vincitore dall’erario, se
non altro per gli intollerabili effetti di incremento della litigiosità
che siffatta soluzione comporterebbe, nessun altra strada è
percorribile se non quella di porre le spese a carico di chi perde.
Della soccombenza la norma non dà un’espressa definizione ma la
stessa si evince, indirettamente, dall’indicazione del provvedimento
– la sentenza conclusiva del processo – contenente la statuizione
sulle spese: la soccombenza, quindi, discende dall’esito finale del
processo, valutato globalmente e nella sua oggettività, risultando
irrilevante che la decisione sia di rito o di merito e non potendosi
correlare con il diniego, singolarmente considerato, di una o più
istanze od eccezioni avanzate dalle parti nel corso del giudizio
bensì, come detto, con il risultato finale della lite, valutato nella sua
oggettività.
E’ peraltro frequente leggere sentenze nelle quali, a conferma di
quanto detto in premessa, la compensazione delle spese (di cui più
ampiamente in seguito) trova giustificazione nella reiezione di
eccezioni, processuali o di merito, avanzate dalla parte risultata poi
vittoriosa.
Una decisione di tal genere, a mio avviso, risulterebbe errata,
proprio perché idonea a violare il principio della soccombenza così
come or ora delineato.
Si pensi al caso della parte che, nel costituirsi in giudizio in una
causa avente ad oggetto il pagamento di una somma, eccepisca
l’incompentenza territoriale del giudice ovvero la prescrizione del
credito.
Laddove il giudice, pur disattendendo le eccezioni in commento,
respinga nel merito la domanda di parte attrice, non potrà fare altro
che considerare soccombente quest’ultima, senza possibilità di
procedere alla compensazione delle spese, anche solo parziale,
giustificando tale pronuncia con una pretesa soccombenza del
convenuto su determinate eccezioni che, come detto, non può
essere ricondotta alla nozione di soccombenza fatta propria dal
codice.
Ad analogo risultato, inoltre, si dovrà pervenire laddove la
domanda della parte non trovi integrale accoglimento come nel
caso in cui, a fronte di una quantificazione del danno in € 50.000, lo
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stesso sia poi concretamente determinato dal giudice in somma
inferiore.
In questi casi è spesso utilizzato il termine di “soccombenza parziale”,
a mio avviso improprio in quanto idoneo a creare confusione con
la ben differente fattispecie della “soccombenza reciproca”,
presupponente l’introduzione in giudizio di domande contrapposte.
In sintesi, se la domanda di una parte è accolta, scatta la
soccombenza con tutte le relative conseguenze in punto spese e
l’accoglimento della domanda in misura inferiore a quanto richiesto
avrà come unica ma doverosa conseguenza quella di imporre al
giudice di liquidare le spese non già in base al petitum bensì con
riferimento a quanto concretamente liquidato.
Il principio della soccombenza si applica anche alle spese
determinate da errori in procedendo o in iudicando commessi dal
giudice.
Colui che attivamente o passivamente si espone all’esito del
processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve infatti anche
sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle
spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della
soccombenza: e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente
consequenziali e strettamente dipendenti dall’attività della parte
rimasta soccombente, ma derivanti dagli errori di cui sopra in cui
può incorrere il giudice nei vari gradi e fasi del processo; pensiamo
a quelle spese che vengono sopportate da coloro che sono chiamati
a partecipare al processo per ordine del giudice sul presupposto,
poi rivelatosi erroneo, che la emananda sentenza possa o debba
incidere sulla loro sfera giuridica: solo in tal modo, infatti, può
essere efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa
delle parti che vengono ingiustamente chiamate in giudizio.
Quanto sopra giustifica immediato accenno alla sorte delle spese
relativamente al terzo chiamato, soprattutto considerando la
discrezionalità oggi assegnata alla parte nel coinvolgere nel
processo altri soggetti, indipendentemente dall’autorizzazione del
giudice in tal senso.
Sul punto l’art. 91 cod. proc. civ. nulla espressamente dice ma la
soluzione delle fattispecie concrete dovrà sempre trovare risposta
attraverso l’applicazione del principio della soccombenza, peraltro
temperato da quello della causalità.
In linea generale, possono verificarsi diverse eventualità secondo
che, in presenza di una pluralità di soggetti partecipanti al giudizio,
si versi o meno in ipotesi di pluralità di rapporti processuali.
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In quest’ultimo caso, qualora si sia quindi in presenza di un unico
rapporto processuale, le regole applicabili non divergono da quelle
consuete, dall’angolo visuale della parte vincitrice, se non,
eventualmente, nell’ipotesi che più vincitori siano rappresentati in
giudizio da distinti difensori, mentre, dall’opposto angolo visuale,
troveranno applicazione le previsioni contenute nell’art. 97, a
seconda che più soccombenti siano o meno avvinti da un comune
interesse; “se le parti soccombenti sono più, il giudice condanna ciascuna di
esse alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa. Può
anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune di esse, quando hanno
interesse comune. Se la sentenza non statuisce sulla ripartizione delle spese e dei
danni, questa si fa per quote uguali”.
Se, viceversa, si è in presenza di una pluralità di rapporti
processuali, essi vanno distintamente considerati, almeno in linea di
massima, attraverso l’individuazione, di volta in volta, della
relazione di soccombenza riscontrabile. In altri termini, nel giudizio
con pluralità di parti, quando si tratti di più cause autonome,
ancorchè connesse ovvero riunite in un solo processo, occorre, ai
fini delle spese, considerare distintamente la reciprocità delle
singole posizioni processuali e sostanziali, con la conseguenza che a
carico della parte che è soccombente nei confronti di una sola delle
altre, non possono essere poste anche le spese relative alle parti
che, ancorchè assistite dallo stesso difensore e da questo
congiuntamente difese, stiano in giudizio per una distinta ed
autonoma causa.
Tale impostazione, integrante diretta esplicazione del principio di
soccombenza, subisce tuttavia rilevanti deviazioni fondate sul
principio di causalità, qualora l’innesto sul rapporto processuale
principale di un rapporto processuale ulteriore sia in buona
sostanza addebitabile all’originario attore che sia risultato
soccombente.
Così, in caso di domanda principale e successiva chiamata in
garanzia da parte del convenuto, è ben possibile che l’attore
soccombente subisca condanna al rimborso delle spese di lite non
soltanto nei confronti del convenuto che sia risultato vittorioso, ma
anche nei confronti del garante – si pensi all’ipotesi ricorrente
dell’assicuratore per responsabilità civile – verso il quale l’attore
non abbia proposto domanda alcuna e, dunque, non possa a stretto
rigore essere considerato soccombente.
Ai fini del riparto delle spese, cioè, occorre guardare non tanto alla
parte che abbia effettuato la chiamata, ma a quella che ne abbia
provocato l’effettuazione.
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Il criterio della soccombenza, quando non viene escluso dalla
compensazione per gravi ed eccezionali ragioni, opera quindi anche
al fine di individuare chi debba sopportare le spese del chiamato in
garanzia, pure quando nei suoi confronti non sia stata proposta
alcuna domanda o emessa alcuna pronuncia di merito, con la
conseguenza che le spese processuali del chiamato che non sia
rimasto soccombente non possono gravare sul chiamante, quando
anche quest’ultimo non sia rimasto soccombente né nei confronti
del chiamato né nei confronti della controparte.
La questione in esame assume rilievo particolare avuto riguardo al
regolamento delle spese nei giudizi in cui è parte un assicuratore, di
particolare interesse per i giudici di pace.
La disciplina del carico delle spese giudiziali tra assicuratore ed
assicurato deve essere desunta dal combinato disposto degli artt.
1917 cod. civ. e 91 cod. proc. civ. e deve essere così distinta:
a) Spese del giudizio per il risarcimento dei danni, dovute
dall’assicuratore soccombente al danneggiato: le stesse
costituiscono accessorio della somma liquidata per danni e
devono essere comprese nella somma assicurata (massimale
di polizza), quale conseguenza diretta dell’attuazione del
diritto che l’assicurato ha, a norma dell’art. 1917 1° c. cod.
civ., di essere tenuto indenne di quanto, in dipendenza del
fatto accaduto durante l’assicurazione, deve pagare al terzo;
b) Spese sostenute per resistere all’azione del danneggiato
contro l’assicurato: sono previste dall’art. 1917 3° c. doc.
civ. che le pone a carico dell’assicuratore nei limiti del quarto
della somma assicurata o, se la somma dovuta al danneggiato
superi la somma assicurata, impone una ripartizione tra
assicuratore ed assicurato in proporzione del rispettivo
interesse e cioè in proporzione delle somme che, in ordine al
risarcimento del terzo, gravano a carico di ciascuno;
c) Infine, spese giudiziali sostenute dal danneggiato
vittorioso contro l’assicuratore: le stesse non sono
disciplinate dall’art. 1917 cod. civ. perché derivano dal
principio della soccombenza processuale di cui all’art. 91
cod. proc. civ. e, pertanto, non devono essere comprese nel
massimale dovuto.
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L’inciso dell’art. 91 per l’ipotesi di proposta conciliativa
Il primo capoverso dell’art. 91 così recita: “il Giudice … se accoglie la
domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna
la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle
spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto
disposto dal secondo comma dell’art. 92”.
La previsione in commento è stata introdotta con la riforma del
2009 ed è in perfetta sintonia con l’intento deflattivo più volte
cennato, rafforzato dall’introduzione (o reintroduzione che dir si
voglia) dell’istituto della media conciliazione.
Il primo aspetto da considerare concerne l’esistenza negli atti di
causa di quella proposta conciliativa considerata dal Legislatore
come indispensabile per invertire il principio della soccombenza.
Occorrerà pertanto che sia acquisita al processo detta proposta,
desumibile non solo dagli esiti di una infruttuosa mediazione
ovvero da quelli conseguenti alla comparizione personale delle parti
che il giudice può sempre disporre ai fini della conciliazione bensì
anche dalla corrispondenza intercorsa fra i legali dei contendenti.
Sotto quest’ultimo aspetto l’argomento appare delicato poiché deve
essere conciliato con le norme deontologiche in materia, portanti
inibizione alla produzione in giudizio di quella corrispondenza
qualificata come “riservata e personale”, con la conseguenza che
delle ipotesi conciliative in commento, al postutto, non vi rinvenga
traccia negli atti di causa.
Il problema può essere risolto da noi avvocati, evitando di
attribuire alla corrispondenza in commento il carattere “riservato e
personale”, ben chiarendo al legale avversario che l’ipotesi è
formulata proprio per evitare l’instaurazione o la prosecuzione della
causa, già preannunciandogli l’intenzione di versare in giudizio
detta ipotesi.
Così facendo, al di là dei casi in cui l’ipotesi conciliativa non emerga
dalla procedura di mediazione ovvero dall’esito della comparizione
personale delle parti che il giudice può sempre disporre ai sensi
dell’art. 185, si consentirà a quest’ultimo di avere riscontro che
l’ipotesi prospettata o condivisa da una delle parti ha trovato poi
conferma nella decisione, così spianandogli la strada per la concreta
applicazione della norma.
Occorre peraltro precisare come l’imperativo “condanna ” utilizzato
dal Legislatore nell’inciso dell’art. 91 risulti poi, di fatto, temperato
dal riferimento all’assenza di giustificato motivo e, ancor di più, dal
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rimando all’art. 92 che consente la compensazione, in parte o per
l’intero, laddove concorrano altre gravi ed eccezionali ragioni.
Comunque sia, facendo corretta applicazione dell’inciso in
commento, potrà accadere che il principio della soccombenza
subisca notevolissima deroga, di fatto rappresentando una sanzione
per la parte che, rifiutando senza giustificato motivo quell’ipotesi
conciliativa poi condivisa dal giudice nella sentenza, abbia
provocato l’inutile prosecuzione del giudizio.
La norma, quindi, rappresenta indubbiamente un significativo
deterrente all’inutile accanimento di una delle parti che peraltro
potrebbe trovare maggiore applicazione se il giudice potesse
dedicarsi con la migliore attenzione ad ogni singola causa,
studiandola approfonditamente ed utilizzando al meglio quei poteri
officiosi che gli competono per arrivare ad un’ipotesi conciliativa
poi condivisa con la sentenza.
La compensazione delle spese
La fattispecie è regolata dall’art. 92 il quale, in primo luogo,
esordisce con “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo
precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice,
se le ritiene eccessive o superflue”, con successivo accenno alla violazione
del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88, sul quale sorvolo per
ovvie ragioni.
L’espressione utilizzata integra un’evidente attenuazione del
principio della soccombenza e può trovare applicazione – avuto
riguardo alle vere e proprie spese di causa - proprio in quei casi in
cui la domanda di una parte sia accolta ancorchè in misura inferiore
a quanto richiesto.
Si pensi all’ipotesi di una richiesta di risarcimento danni che,
quantificati in oltre 520.000 €, abbia comportato il versamento di
un contributo unificato di € 1.466,00; laddove il giudice, pur
accogliendo la domanda, riducesse la quantificazione ad € 250.000,
non solo gli onorari di lite dovranno essere liquidati applicando tale
scaglione ma troverei altresì perfettamente logico ed in coerenza
con l’art. 91 la liquidazione delle vere e proprie spese nella minor
somma di € 660, pari al contributo che avrebbe dovuto essere
versato se la quantificazione dei danni fosse stata operata nei
termini poi condivisi dal giudice.
Ciò posto, l’art. 92 così recita “se vi è soccombenza reciproca o concorrono
altri gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il
giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.
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Il primo problema da affrontare è quello della soccombenza
reciproca che, a ben vedere, non costituisce altro che esplicazione
del principio stesso di soccombenza in quanto, nell’ipotesi in
commento, le rispettive condanne alle spese, disposte in
applicazione della regola generale, finirebbero oggettivamente per
elidersi e risultare in definitiva superflue.
E’ questa la ragione per cui, in buona sostanza, in caso di
soccombenza reciproca, qualora sia disposta la compensazione,
ciascuna parte sopporta in via definitiva le proprie spese, non senza
rilevare che, anche in caso di soccombenza reciproca, il giudice può
porre le spese di lite per intero a carico dell’uno o dell’altro dei
contendenti, la cui soccombenza ritenga prevalente (Cass. 13/88;
12879/99).
E’ importante notare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale
rimasto fermo fino a qualche tempo fa, la nozione di soccombenza
reciproca può ricorrere in due ipotesi:
a) Quando vi sia la contrapposta formulazione di domande;
b) Quando l’attore abbia proposto nei confronti del convenuto
un cumulo di domande.
In dette situazioni, cioè, si ha soccombenza reciproca, totale o
parziale, se le contrapposte domande sono entrambe respinte in
tutto o in parte, ovvero se soltanto una o alcune delle domande
proposte dall’attore sia stata accolta, essendo così risultato vincitore
il convenuto sulle altre.
Viceversa, non ricorre l’ipotesi della reciproca soccombenza
quando la sola domanda proposta, quella principale avanzata
dall’attore nei confronti del convenuto, risulti fondata soltanto in
parte, quand’anche minima (Cass. 2124/94; 8532/2000;
7638/2004); in tale ipotesi, come detto spesso è ricondotta alla
figura della soccombenza parziale, quindi, la pronuncia di
compensazione potrà eventualmente giustificarsi in forza dei
residuali motivi, se gravi ed eccezionali, previsti dallo stesso art. 92.
Occorre peraltro richiamare l’esistenza di pronuncia isolata (Cass.
22381/09) secondo cui di soccombenza reciproca potrebbe parlarsi
anche nell’ipotesi in cui la parzialità dell’accoglimento riguardi
l’aspetto quantitativo della domanda.
L’arresto citato, come detto del tutto isolato, non può essere
assolutamente condiviso, sol considerando che l’attore il quale
avesse chiesto 100 e si fosse visto riconoscere 49 potrebbe essere,
secondo questa impostazione, ritenuto prevalentemente
soccombente e pertanto condannato a rimborsare, anche per
intero, le spese alla controparte.
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Con ciò rimarrebbe seppellito il principio stesso, ribadito dalla
corte regolatrice in innumerevoli occasioni, secondo cui in materia
di spese ogni pronuncia è lecita, ecezion fatta per quella di
condanna del vincitore – sia pure in parte e finanche in minima
parte vincitore – al rimborso delle spese in favore dell’altra parte,
salvo il caso della violazione del dovere di lealtà e probità.
Le altre ragioni di compensazione
L’art. 92 cod. proc. civ., nella sua originaria formulazione,
consentiva la compensazione oltre che in caso di soccombenza
reciproca, nell’ipotesi di sussistenza di “altri giusti motivi”.
L’interpretazione giurisprudenziale della norma riconosceva in
proposito al giudice un amplissimo e insindacabile potere
discrezionale, con la conseguenza che l’argomento non era
sottoposto ad alcun obbligo di motivazione, rappresentando
l’espressione “sussistono giusti motivi per compensare le spese” la sintesi
reputata necessaria e sufficiente per la compensazione, totale o
parziale.
Le critiche mosse a tale interpretazione, nel frattempo attenuata da
giurisprudenza maggiormente critica, ha indotto il legislatore ad
introdurre, con decorrenza dal 1° marzo 2006, l’obbligo di
esplicitamente indicare in motivazione i giusti motivi, posti a
fondamento dell’operata compensazione, ulteriormente vincolando
il giudice con la riforma del 2009 che ha portato, per i giudizi
instaurati successivamente al 4 luglio 2009, a sostituire i “giusti
motivi” con “gravi ed eccezionali ragioni”;
pare superfluo sottolineare come l’irrigidimento della norma, pur
rientrando nella condivisibile politica deflazionistica del
contenzioso giudiziario, sia stato espresso in guisa talmente
rigorosa da comportare una sostanziale quasi – abrogazione
dell’istituto della compensazione.
Posto che l’uso della congiunzione sembra importare che le ragioni
di compensazione debbano essere al tempo stesso sia gravi che
eccezionali, non pare potersi dubitare che buona parte delle ipotesi
più ricorrenti di compensazione in precedenza individuabili non
abbiano più, nel quadro di applicazione della nuova disposizione,
alcuna cittadinanza.
Così, per accennare alle più comuni ipotesi passate, potrebbe non
esservi nulla di eccezionale nella particolare difficoltà interpretativa
posta da una nuova normativa, né l’esistenza di contrasti
giurisprudenziali su una determinata questione.
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Neppure potrebbe essere considerata eccezionale la dubbiezza e
l’obiettiva controvertibilità della lite ovvero che la questione
affrontata costituisca per la giurisprudenza problema nuovo.
Allo stesso modo non sarebbe eccezionale il mutamento di
giurisprudenza in quanto, anzi, la corte regolatrice ci ha insegnato,
soprattutto negli ultimi anni, che qualsiasi principio
giurisprudenziale può, ad un dato momento, essere capovolto.
Assolutamente bandita, poi, parrebbe ad oggi la compensazione
disposta in considerazione della peculiarità del caso ovvero della
particolarità della controversia (formule in passato diffusamente
utilizzate) dal momento che, evidentemente, ogni controversia è
peculiare.
A nulla potrà rilevare, ancora, la leale condotta anche
preprocessuale del vinto, che avrà fatto in tal modo,
comportandosi lealmente, nient’altro che il proprio dovere.
Sono in buona sostanza dell’avviso che la parabola della
compensazione, a partire dalla totale discrezionalità, sembra oggi
essere giunta a conclusione sebbene - stante la novità della norma –
ancora non esistano significative pronunce della cassazione su
sentenze di merito che, forse forzando il dato letterale ma in alcuni
casi con estremo buon senso, perseverano nel compensare le
spese….
La liquidazione concreta delle spese di lite – il DM 55/2014
E’ questo un aspetto fondamentale, sia per il giudice così come per
le parti che, proprio alla luce della quantificazione delle spese, sono
finalmente poste nella condizione di valutare, ancorchè a posteriori,
la concreta e complessiva fruttuosità del contenzioso che le ha viste
protagoniste.
Infatti, tutto quanto sin qui esposto, risulterebbe vano se il giudice,
dopo avere redatto una sentenza perfetta per quel che concerne il
merito della causa, dopo avere correttamente applicato in punto
spese i principi generali sopra esposti, scivolasse su una liquidazione
errata, laddove comunque irrispettosa dei principi e dei criteri
enunciati dal più recente decreto ministeriale in argomento.
La risalenza ad aprile del corrente anno dell’emanazione del
provvedimento regolamentare in commento è di stimolo alla sua
approfondita analisi, resa indispensabile dall’evidente novità dello
stesso.
Il DM 55/14 sostituisce il precedente DM 140/2012, che, giova
rammentarlo, era dedicato non solo, come l’attuale, alla
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“determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la
professione forense” bensì, più in generale, “alla liquidazione …. dei
compensi per le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della giustizia”.
La norma in commento, quindi, rappresenta l’esplicazione concreta
della particolare attenzione del guardasigilli per le competenze
dell’avvocato, intese in senso ampio, ed è strutturato in cinque capi,
così sintetizzabili:
Capo I – artt. 1-3: disposizioni generali
Capo II – artt. 4-11: disposizioni concernenti l’attività giudiziale
Capo III – artt. 12-17: disposizioni concernenti l’attività penale
Capo IV – artt. 18-27: disposizioni concernenti l’attività
stragiudiziale
Capo V – artt. 28–29: disciplina transitoria - entrata in vigore;
il testo è accompaganato da ben venticinque tabelle riportanti i c.d.
parametri forensi.
Il regolamento è stato emanato ai sensi degli artt. 1 e 13 della legge
31 dicembre 2012 n. 247, portante la nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense che, opportunamente,
sono stati riportati nelle note al testo del decreto pubblicato in
Gazzetta, alle quali pertanto rimando per ogni migliore
approfondimento.
La prima impressione che si ricava dalla lettura del decreto è quella
di trovarsi di fronte ad una formulazione non del tutto
soddisfacente, soprattutto laddove si assiste alla sovrapposizione,
con conseguente possibile confusione, tra la liquidazione giudiziale
nei rapporti con la controparte (liquidazione processuale) e quella
propria dei rapporti con il cliente (liquidazione contrattuale),
quest’ultima del tutto estranea alla materia oggetto del nostro
incontro.
Secondo il coordinato disposto degli artt. 28 e 29 parrebbe pacifico
che il DM in commento debba essere applicato alle liquidazioni
effettuate a far tempo dal 3 aprile 2014;
la disciplina transitoria può apparire discutibile ma così stanno le
cose; l’alternativa, esclusa quella sicuramente farragginosa di una
applicazione contemporanea, distinta per fasi, dei due decreti,
sarebbe stata quella di applicare le norme ai processi instaurati
successivamente all’entrata in vigore del decreto; la scelta è stata
però diversa, improntata evidentemente a ragioni di natura
“politica” e ognuno potrà esprimere le sue considerazioni.
Ogni dubbio circa la doverosa applicazione del decreto avuto
riguardo alle liquidazioni effettuate dal 3 aprile 2014, invero, potrà
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essere superato leggendo la puntualissima relazione del dottor
Converso, Presidente di Sezione della Corte di Appello di Torino, il
quale nell’incontro del 19 novembre 2012 illustrò diffusamente le
ragioni che già allora militavano per la soluzione anche oggi
prospettata;
non posso pertanto fare altro che invitarvi a consultare la relazione
in commento, accedendo al sito della Corte di Appello di Torino
dedicato alla formazione, così verificando l’attualità e fondatezza
delle argomentazioni a suo tempo sviluppate.
Una prima e fondamentale novità è rappresentata dal rimborso
forfetario delle spese generali, in passato fissato nella misura del
12,5% dalle vecchie tariffe professionali, poi eliminato dal DM
140/12, oggi reintrodotto nella misura del 15% con un inciso “di
regola” che si sarebbe potuto tranquillamente evitare.
Non è infatti dato comprendere quale sia l’eventuale eccezione alla
regola, difettando il decreto di ogni ulteriore specificazione e
comunque prestandosi l’infelice formula adottata a ipotetiche
disapplicazioni del rimborso che, allo stato, intravedo infondate e
non giustificabili.
L’art. 2 pone l’affermazione di carattere generale secondo cui “il
compenso dell’avvocato è proporzionato all’importanza dell’opera”, poi
meglio dettagliata nel successivo art. 4, riportante i parametri
generali per la determinazione dei compensi in sede giudiziale, di
evidente interesse in questa sede.
Risulta infatti specificata una serie di elementi (le caratteristiche,
l’urgenza, il pregio, l’importanza, la natura, la difficoltà, il valore, le
condizioni soggettive del cliente …) che deve essere tenuta in conto ai
fini della liquidazione del compenso, precisando - con riferimento
all’elemento rappresentato dalla difficoltà dell’affare - che il
Giudice dovrà appuntare la sua attenzione sui contrasti
giurisprudenziali nonché (novità del DM 55) tenuto conto “della
quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario
intrattenere con il cliente e con altri soggetti”.
Quest’ultima precisazione desta immediatamente qualche
perplessità in quanto sarebbe conseguentemente onere
dell’avvocato produrre in causa anche quella, a volte copiosa,
corrispondenza intercorsa con il cliente (normalmente gelosamente
custodita nel proprio fascicolo) salvo poi lasciare al Giudice ogni
migliore valutazione circa la necessarietà di detta corrispondenza.
14
Passando alla concreta liquidazione, si osserva che tutti gli elementi
sovra cennati dovranno essere sinteticamente valutati dal Giudice
nel approcciare i valori medi riportati nelle tabelle allegate, così
aumentando gli stessi “di regola” (ecco nuovamente l’espressione
evidentemente cara al Ministero) fino all’80% ovvero diminuendoli
sino al 50%, con aumenti e diminuzioni, quantificati per la fase
istruttoria, rispettivamente, al 100 e 70%.
E’ poi riprodotta la suddivisione del giudizio in varie fasi, vale a
dire: di studio della controversia; introduttiva del giudizio; istruttoria;
decisionale.
La formulazione adottata è sostanzialmente speculare a quella già
utilizzata nel DM 140/12, ad eccezione di quanto disposto per il
procedimento esecutivo, laddove lo stesso è oggi articolato nella
fase di studio ed introduttiva, distinta da quella istruttoria e di
trattazione.
Le varie tabelle che riportano i parametri forensi sono distinte per
tipologia di giudizio e ciascuna delle stesse riporta somme
ragguagliate al valore della controversia;
il primo aspetto che il Giudice dovrà affrontare è quindi
rappresentato dalla determinazione del valore della stessa.
L’argomento è trattato dall’art. 5 del DM secondo cui “il valore della
causa – salvo quanto diversamente disposto dal presente comma – è determinato
a norma del codice di procedura civile”.
Si dovrà quindi fare riferimento al codice di rito, con alcune
eccezioni in questo caso specificamene indicate dal DM (per
esempio: nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di
danni, si ha riguardo di norma alla somma attribuita piuttosto che a
quella domandata – a conferma di quanto esposto
precedentemente).
Richiamo la vostra attenzione sull’ultimo inciso del numero 1
dell’art. 5 secondo cui “in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della
controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando
risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di
procedura civile o alla legislazione speciale”.
La norma parrebbe attribuire al Giudice il potere di fare riferimento
a quello che è definito come “valore effettivo della controversia” laddove
lo stesso gli appaia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle
parti, differente da quello che dovrebbe trovare applicazione.
L’espressione risulta però di difficile interpretazione ed
applicazione in quanto il percorso logico che il Giudice dovrebbe
seguire sarebbe il seguente:
15
secondo le norme del codice di rito dovrei attribuire alla causa un
determinato valore ma, considerati gli interessi perseguiti dalle
parti, posso fare riferimento al valore effettivo della controversia
laddove manifestamente diverso (in senso maggiore o minore)
rispetto a quello presunto.
Non si comprende francamente in base a quali criteri il Giudice
potrebbe individuare il valore “effettivo” della controversia se non
con un giudizio del tutto personale ed opinabile, di per sé
suscettibile di essere censurato in sede di eventuale gravame.
Ulteriore imprecisione del decreto deve essere ravvisata
nell’individuazione dello scaglione da applicare per le cause di
valore indeterminabile;
il numero 6 dell’art. 5, infatti, considera le stesse non inferiori ad €
26.000 e non superiori ad € 260.000, tenuto conto dell’oggetto e
della complessità della controversia.
Il problema, però, è rappresentato dal fatto che nelle tabelle poi
allegate al decreto non ci si trova di fronte ad un solo scaglione, da
26.000 a 260.000 €, bensì a due, il primo da 26.000 a 52.000 € ed il
secondo da 52.001 a 260.000 €, con la conseguenza che potrebbe
sorgere dubbio su quale scaglione utilizzare e, conseguentemente,
su quali somme liquidare.
La soluzione concreta discenderà dall’ulteriore valutazione del
Giudice circa l’oggetto e la complessità della controversia che, al
cospetto di causa di valore indeterminabile, gli consentirà di
applicare l’uno o l’altro scaglione a seconda, appunto, dell’oggetto e
della complessità della vertenza.
Non senza soggiungere che ulteriore discrezionalità è attribuita al
Giudice, sempre per causa di valore indeterminabile, laddove la stessa
risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la
complessità delle questioni giuridiche trattate, nonché per la rilevanza degli
effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale: in tal caso
il valore della causa si considererà (di regola … !) entro lo scaglione
fino a € 520.000.
Appare pertanto evidente che la liquidazione delle spese sarà più
agevole nel caso in cui il valore della controversia sia determinato o
concretamente determinabile dal Giudice (si pensi alla solita ipotesi
della liquidazione dei danni) mentre maggiori variabili e più
significativa discrezionalità potrebbero intervenire nel caso di
controversie di valore indeterminabile.
E’ questa una scelta legislativa ben chiara ma della quale, in ultima
analisi, è difficile comprendere le reali motivazioni.
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Un esempio numerico potrà essere utile.
Giudizio ordinario di cognizione innanzi al Tribunale: somma
richiesta a titolo di risarcimento dei danni 270.000 €; somma
concretamente liquidata dal Giudice 150.000 €.
Si dovrà fare riferimento, per le ragioni più volte esposte circa la
prevalenza della somma liquidata rispetto a quella richiesta, allo
scaglione da € 52.001 ad € 260.000.
Le tabelle indicano peraltro i valori medi: potrebbe sorgere il
dubbio sulla possibilità di aumentare o diminuire i valori medi
tenendo conto della prossimità del valore liquidato al minimo
ovvero al massimo del valore dello scaglione, così da evitare che
identica liquidazione sia riservata a decisioni portanti condanna al
pagamento di € 53.000 rispetto a quelle di condanna ad € 250.000.
Tale soluzione, però, non appare condivisibile in quanto, al di là
della complicazione pratica che si verrebbe a creare, si finirebbe col
dimenticare che i valori medi sono in un certo qual modo imposti
dal decreto, con riferimento ai singoli scaglioni, senza ulteriori
distinzioni derivanti dalla somma concretamente liquidata
nell’ambito dello scaglione stesso.
Sembra quindi che sull’aumento o diminuzione dei valori medi
possano influire non tanto il valore concreto della somma liquidata
nell’ambito dello scaglione di riferimento bensì – esclusivamente –
quegli ulteriori elementi dettagliatamente indicati nell’incipit del
numero 1 dell’art. 4, sovra richiamati.
In buona sostanza, ritengo che laddove il Giudice intendesse
discostarsi dai valori medi, dovrà dettagliatamente indicare le
ragioni di tale scostamento, evitando peraltro di ripetere
pedissequamente le formule del decreto, bensì ripiegandosi
concretamente nell’esplicazione di quale urgenza, quale pregio, quale
difficoltà, quali condizioni soggettive del cliente, quale complessità delle questioni
giuridiche di fatto … ha tenuto in considerazione per aumentare o
diminuire i valori medi.
E’ un compito estremamente delicato e la complessità dello stesso,
ne sono convinto, indurrà il più delle volte il Giudice meno attento
a conformarsi ai valori medi, senza crearsi ulteriori problemi.
Riguardo alle ipotesi, francamente residuali e di scarsa importanza
per i Giudici onorari, di cause di valore veramente indeterminabile
(penso alle separazioni personali ed ai divorzi, materie inibite al
Got) non posso che ribadire la forse eccessiva discrezionalità
attribuita al Giudice, stante la riconosciuta possibilità di
ricomprenderle nei due scaglioni da 26.000 a 260.000 € con
17
l’ulteriore facoltà di ricondurle in quello successivo, sino ad €
520.000, in caso di vertenza di particolare importanza.
Ulteriori aspetti significativi del D.M. 55/14
Art. 6: “nell’ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione
della controversia, la liquidazione del compenso è di regola
aumentato (così nel testo – ndr) fino a un quarto rispetto a
quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale fermo
quanto maturato per l’attività precedentemente svolta”.
Si tratta di normativa che, evidentemente, è applicabile
esclusivamente in caso di liquidazione delle spese non già in quello
che ho definito come ambito “processuale” bensì in quello
“contrattuale”, afferente ai rapporti fra cliente ed avvocato.
Infatti, per l’ipotesi di conciliazione giudiziale, sarà la volontà delle
parti – e non certamente il giudice – a disciplinare, nell’ottica della
conciliazione, anche la sorte delle spese di lite; laddove, invece, la
causa sia definita transattivamente al di fuori del processo, le spese
legali, genericamente considerate, saranno anch’esse ricomprese
nell’accordo transattivo e sarà opportuno per le parti disertare le
successive udienze, così provocando l’estinzione del processo (con
applicazione teorica dell’art. 310 u.c. c.p.c. secondo cui le spese
restano a carico di chi le ha anticipate) salvo raggiungere lo stesso
risultato attraverso la rinuncia accettata dalla controparte, a spese
compensate.
Ne discende che il “premio” contemplato dall’articolo in commento
potrà essere erogato solamente laddove si discuta della liquidazione
delle spese nei rapporti fra cliente ed avvocato, sempre che ciò sia
possibile alla luce dell’art. 1 del D.M. secondo cui le norme dello
stesso si applicano “quando … il compenso non sia stato determinato in
forma scritta e in ogni caso di mancata determinazione consensuale …”.
Art. 8: “il compenso da liquidare giudizialmente a carico del
soccombente costituito può essere aumentato fino ad un terzo
rispetto a quello altrimenti liquidabile quando le difese della
parte vittoriosa sono risultate manifestamente fondate”.
Il fine della norma è nuovamente ispirato dall’intento di
deflazionare il contenzioso, con atteggiamento indirettamente
18
punitivo nei confronti del soccombente attraverso il premio
riconosciuto al vincitore.
Ciò che suscita perplessità, peraltro, è il riferimento alla manifesta
fondatezza delle difese (non già delle domande – si noti) della parte
vittoriosa che introduce un criterio sicuramente originale,
suscettibile di valutazione estremamente discrezionale e, come tale,
ardua da motivare.
Le singole tabelle: indubbio pregio del D.M. deve essere
individuato nella migliore e più esaustiva individuazione delle
somme da liquidare, realizzata attraverso l’incremento del numero
delle tabelle, distinte per materia e per tipologia di giudizio, anche
nei suoi vari gradi.
La liquidazione da parte del Giudice di Pace
L’unica particolarità degna di nota riguarda le cause di valore sino
ad € 1.100 per le quali l’art. 91 stabilisce che “le spese, competenze ed
onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda”.
I parametri ed i criteri del D.M. parrebbero coerenti con la norma
citata che, peraltro, oltre a dubbi di costituzionalità, appare
comunque destinata a privare i cittadini, ed in particolare i
consumatori, della possibilità di affrontare cause legittime ma di
valore economico modesto (ad es. relative ad utenze telefoniche ed
energetiche) per le quali, considerato l’estremo tecnicismo della
materia, è praticamente irrinunciabile l’assistenza di avvocato;
le spese di patrocinio, non potendo trovare soddisfazione nella
liquidazione del giudice, rimarrebbero quindi in larga misura a
carico dell’attore, per il quale la vertenza risulterebbe di fatto
antieconomica.
Ulteriori aspetti di rilievo
● La statuizione delle spese è provvisoriamente esecutiva ai sensi
dell’art. 232 c.p.c. sia che il giudice accolga, sia che rigetti la
domanda.
Sul punto, il primo indirizzo secondo cui la pronuncia sulle spese
poteva considerarsi esecutiva solo in quanto collegata ad una
pronunzia di condanna appare oggi superato da quello
successivamente formatosi, oggi consolidato, in base al quale la
pronuncia sulla spese è invece sempre esecutiva.
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● La condanna alle spese si estende all’Iva, da calcolare non solo
sugli onorari liquidati ma anche sugli accessori, quali il rimborso
forfetario ed il contributo di previdenza.
La giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’Iva sia dovuta
comunque, indipendentemente dalle domande e pur in assenza di
specifica pronunzia, fatta salva – in sede di opposizione
all’esecuzione – la facoltà di contrastare l’imputazione dell’imposta
laddove ritenuta detraibile dalla controparte.
● La nota spese
Secondo l’art. 75 delle disposizioni di attuazione del codice di rito
“il difensore al momento del passaggio in decisione della causa
deve unire al fascicolo di parte la nota delle spese indicando
in modo distinto e specifico gli onorari e le spese, con
riferimento all’articolo della tariffa dal quale si desume
ciascuna partita”.
La formulazione legislativa è stata conservata nella sua versione
originaria sebbene implicitamente risulti oggi abrogata la possibilità
di fare riferimento alle tariffe, non più esistenti.
Nondimeno il deposito della nota spese appare ancora oggi se non
doveroso, quantomeno sicuramente opportuno.
Sotto un profilo squisitamente utilitaristico, infatti, il deposito della
nota porrà il Giudice nella condizione di confrontarsi con la stessa,
desumendone elementi di valutazione circa la liquidazione delle
spese.
E’ peraltro evidente che dovrà essere totalmente riveduta la
tradizionale articolazione della nota spese che vedeva distinti e
dettagliati i diritti di procuratore rispetto agli onorari di avvocato,
risultando oggi doveroso espungere dal decreto ministeriale gli
elementi ritenuti significativi per la richiesta liquidazione.
In primo luogo, quindi, dovrà essere specificato il valore della
causa, poi dettagliatamente indicando le ragioni in virtù delle quali
si ritiene che i valori medi dei singoli scaglioni debbano essere
aumentati ovvero, perché no, diminuiti.
L’esaustività della nota, in ultima analisi, rappresenterà il punto di
riferimento per l’eventuale gravame in punto spese, portante
specifica censura alle – il più delle volte stringate – ragioni adottate
dal giudice per liquidare importi inferiori a quelli richiesti.
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La responsabilità aggravata prevista dall’art. 96 u.c. cod.
proc. civ.
“… in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì
condannare la parte soccombente al pagamento a favore della
controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Il comma è stato aggiunto dalla riforma del 2009 e, come in
appresso si avrà modo di meglio precisare, risponde anch’esso
all’esigenza di deflazionare il giudizio civile, peraltro con
caratteristiche e modalità differenti dalle ipotesi di responsabilità
aggravata già esistenti, contemplate nei primi due commi dell’art.
96, sui quali non intendo soffermarmi.
In primo luogo è interessante rilevare come la norma trovi un
immediato antecedente nell'ultimo comma dell'art. 385 c.p.c. sul
giudizio davanti alla Corte di Cassazione, introdotto dalla novella
del 2006 (più precisamente dal D.L.vo 2.02.2006, n. 40) e,
coerentemente, abrogato dall'ultima riforma, in coincidenza con
l'introduzione della disposizione in commento; la norma abrogata,
però, faceva espresso riferimento, quale presupposto per la
condanna, alla colpa grave del soccombente, riferimento invece
eliminato testualmente dalla nuova disposizione. Ed è da qui che
nasce il primo e principale profilo problematico, ovvero quello
dell'individuazione dei presupposti che legittimano l'emissione della
condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. e, più in particolare, se la
stessa richieda o meno la sussistenza di un elemento soggettivo,
così come le altre due ipotesi previste dal primo e secondo comma
dello stesso articolo. Una risposta negativa (cioè nel senso di non
ritenere necessario un elemento soggettivo) potrebbe, come
cennato, fondarsi sul mero dato testuale della norma, la quale
stabilisce che il giudice possa emettere condanna "in ogni caso",
così facendo pensare ad una condanna del tutto svincolata dai
requisiti di cui al primo ed al secondo comma del medesimo
articolo. Tale interpretazione non è però condivisibile, dovendosi
ritenere che il presupposto per l'emissione di questa condanna sia
comunque la mala fede o colpa grave nell'agire o resistere in
giudizio, e ciò sia per motivi sistematici che teleologici, oltre che
per adeguare la norma ai parametri costituzionali.
In primo luogo la collocazione dell'istituto all'interno dell'art. 96
c.p.c., rubricato "responsabilità aggravata", anziché all'interno
21
dell'art. 91 c.p.c., fa intendere che non può trattarsi di un mero
aggravio della normale condanna alle spese, svincolato da qualsiasi
profilo soggettivo e legato al solo elemento obbiettivo della
soccombenza. Un ulteriore elemento testuale (sia pur indiretto) a
favore dell'interpretazione qui accolta è il richiamo che la norma fa
al solo art. 91 c.p.c., escludendo quindi l'art. 92, ovvero le ipotesi di
compensazione delle spese, poiché ove ricorrano ragioni di
compensazione non saranno sicuramente configurabili i
presupposti della colpa grave. In secondo luogo, sotto l'aspetto
teleologico, occorre sottolineare la natura sanzionatoria di tale
condanna; la norma è stata introdotta nell'ambito di una novella
legislativa che persegue nel suo complesso la finalità di ridurre i
tempi del giudizio civile e di deflazionare il carico del relativo
contenzioso e tale scopo, nel caso di specie, viene perseguito
mediante uno strumento di "coazione indiretta" (verrebbe da dire,
usando una terminologia tipica del diritto penale, che l'istituto ha
una funzione generalpreventiva), poiché la probabilità di subire una
condanna ulteriore (rispetto a quella nel merito ed al rimborso delle
spese di lite avversarie), dovrebbe scoraggiare iniziative giudiziarie
"avventate", pretestuose o meramente dilatorie, rendendo non più
economicamente convenienti tali atteggiamenti. E’ indubbio però
che l'istituto partecipi nel contempo della natura risarcitoria tipica
della condanna di cui al primo comma dell'art. 96 c.p.c.,
perseguendo anche finalità di ristoro per la parte che è stata
indebitamente costretta ad agire o resistere in giudizio; solo in
quest'ottica si giustifica il fatto che la condanna sia posta comunque
a favore di una parte del giudizio e non dello Stato (come sarebbe
stato più coerente ove si fosse voluta introdurre una vera e propria
pena). In pratica, il legislatore della novella del 2009 ha voluto, in
primo luogo, superare la inapplicabilità di fatto dell'istituto del
risarcimento dei danni per lite temeraria, alla luce della consolidata
giurisprudenza della Cassazione formatasi sui primi due commi
dell’art. 96, che richiede la prova rigorosa di aver subito un danno
ulteriore rispetto a quello costituito dall'esborso delle spese di lite, e
ciò ha fatto introducendo un'ipotesi di condanna che prescinde da
qualsiasi accertamento di un effettivo danno; ma, così facendo, il
legislatore ha ritenuto anche di perseguire indirettamente interessi
pubblici, quali il buon funzionamento e l'efficienza della giustizia
civile e, più in particolare, la ragionevole durata dei processi (che
dovrebbe essere garantita dalla diminuzione del contenzioso,
mediante l'eliminazione delle cause pretestuose o strumentali). Da
tali plurime finalità nasce la natura ambigua o ibrida dell'istituto in
22
esame, che può perciò essere accostato all'istituto (tipico dei sistemi
giuridici di common law, in particolare inglese e statunitense) dei
punitive (o exemplary) damages (danni punitivi o esemplari), in
virtù del quale, in caso di responsabilità extracontrattuale, al
danneggiato viene liquidata una somma maggiore rispetto a quella
necessaria per ristorare il danno subito, ove si accerti che il
danneggiante abbia agito con malice (nozione avvicinabile a quella
di dolo) o gross negligence (cioè colpa grave); tale istituto, infatti, al
pari di quello in esame ha sia una funzione indennitaria, tipica del
risarcimento da illecito civile, sia una funzione punitiva, tipica della
sanzione penale (o amministrativa). Ma se cosi’ è, risulta evidente
come - sia in base alla natura latamente sanzionatoria, sia in base a
quella risarcitoria - la condanna ex art. 96 terzo comma c.p.c. esiga
comunque la sussistenza di un elemento soggettivo in capo al
condannato, poiché altrimenti si violerebbe il principio della
responsabilità personale e della imputabilità, per lo meno a titolo di
colpa, del fatto dannoso, senza contare che, laddove la condanna
possa essere pronunciata anche in ipotesi di lite non temeraria, si
rischierebbe di inibire eccessivamente il ricorso alla tutela
giurisdizionale e di colpire in maniera eccessivamente gravosa la
parte soccombente, che però abbia agito o resistito in giudizio
legittimamente e correttamente, in tal modo ponendosi in contrasto
con il diritto di cui all'art. 24 Cost.. Infine, la necessità di fondare la
condanna ex art. 96 terzo comma c.p.c. sulla ricorrenza di un
elemento soggettivo, nasce anche dall'esigenza di non concedere al
giudice un potere praticamente arbitrario, soprattutto alla luce
dell'assenza di un elemento oggettivo (quale il danno) e della
mancata indicazione, nella legge, di criteri obbiettivi ai quali
ragguagliare la quantificazione della somma. E’ questo, infatti, il
secondo aspetto problematico nell'applicazione della norma in
commento, attesa l'assoluta lacunosità sul punto della legge, che si
limita a richiamare il criterio equitativo (si noti che una delle
formulazioni iniziali della norma, poi eliminata durante i lavori
parlamentari, prevedeva un massimo ed un minimo edittale, da
1.000,00 euro a 20.000,00). Ad avviso di chi scrive, il problema va
risolto tenendo conto della sopra delineata natura dell'istituto e
valorizzando - per quanto riguarda la quantificazione - la funzione
comunque risarcitoria della condanna; in altre parole, il rilevato
contrasto tra le due funzioni dell'istituto in oggetto deve essere così
composto: la funzione sanzionatoria è assicurata dalla (possibile)
officiosità della condanna e dal fatto che può essere pronunciata in
assenza di qualsiasi prova di un danno effettivo;
23
la funzione risarcitoria sarà invece perseguita, in sede di
liquidazione della somma, proprio agganciando la quantificazione ai
criteri utilizzati per indennizzare il pregiudizio (sia pure presunto)
subito dalla parte vittoriosa per aver dovuto agire o resistere in
giudizio; una simile modalità di quantificazione, mantenendo come
criterio guida quello indennitario, dovrebbe anche consentire di
evitare che la condanna si trasformi in un indebito arricchimento
della parte vittoriosa. I criteri sulla base dei quali commisurare la
somma saranno, quindi, oltre al grado di gravità della colpa della
parte soccombente, anche il valore della causa e la durata del
processo e, in alcuni casi, la natura e l'oggetto della causa
(valorizzando, ad esempio, i casi in cui il giudizio abbia coinvolto
interessi di carattere personale, oltre che meramente economico);
per quanto riguarda, in particolare, il criterio della durata del
procedimento, potranno sicuramente essere presi in considerazione
i parametri quantitativi fissati dalla Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo, per l'indennizzo da irragionevole durata del processo,
nelle sentenze del 10.11.2004, caso Zullo c. Italia n. 64897/2001 e
caso Pizzati c. Italia n.62361/2000 ("la Corte reputa che una
somma variante da 1.000 a 1.500 euro per anno di durata della
procedura ... è una base di partenza per il calcolo da effettuare").
Sul punto sono stati riportati ampi stralci dalla sentenza del
Tribunale di Piacenza 7 dicembre 2010, Giudice Coderoni,
estremamente significativa per l’ampiezza delle argomentazioni
sviluppate quando ancora non si era creata giurisprudenza in
argomento.
A livello di operatività pratica è possibile che la somma venga
individuata mediante un aumento percentuale rispetto a quanto
liquidato a titolo di spese (analogo, del resto, era il criterio adottato
nell'abrogato ultimo comma dell'art. 385 c.p.c., che stabiliva come
limite superiore, quello del doppio dei massimi tariffari).
Ritengo quindi che siano molteplici gli elementi che il giudice potrà
indicare per concretamente quantificare la voce di danno in
commento, con apprezzamento sicuramente discrezionale ma non
certo arbitrario.
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