“Bauli per Freebacoli” di Gennaro Di Fraia

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“Bauli per Freebacoli” di Gennaro Di Fraia
GENNARO DI FRAIA
BAULI
Storia e Monumenti
Freebacoli
Bacoli 2013
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Bauli
La regio Baiana includeva anche l’odierno litorale bacolese. Lungo la Marina Grande di Bacoli e la successiva Marina del Poggio, intervallata dal piccolo promontorio delle Cento Camerelle, si contavano diverse ville,
altrettanti episodi di superba magnificenza mai organicamente studiati nonostante appartenessero al tipo residenziale più fastoso per nobiltà d’impianto ed ampia
disponibilità di spazi, sia verdi che marini.
Queste ville, dotate di necropoli servili e servite a monte dalla via pubblica che collegava Baia a Miseno, componevano una borgata conosciuta col nome di Bauli. Il
sito, secondo la leggenda eternata in versi da Simmaco,
nel IV secolo d.C., trarrebbe il suo nome dal ricordo del
passaggio di Ercole al tempo della decima fatica, consistente nel ratto dei buoi di Gerione.
E’ noto che, durante il viaggio di ritorno dalla Spagna,
trovando la via sbarrata dall’insenatura del Lucrino,
l’eroe dovette farsi strada nei flutti, gettando quella diga
che gli antichi chiamarono in suo ricordo Via Herculanea. Il muggente bottino, lasciato a pascolare nei pressi
in un luogo che divenne una sorta di stalla (boaulia)
improvvisata, poté quindi riprendere il viaggio verso
l’opposto orizzonte ed infine disparve, lasciando un non
effimero ricordo della sosta, sia pure del tutto involontaria.
Un benemerito studioso del XX secolo, Raimondo Annecchino, propose invece una diversa etimologia. Non
da Boaulia deriverebbe il toponimo, bensì da Baiaulus
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(sinus), cioè “piccola insenatura baiana”. In seguito ad
un fenomeno di contrazione Baiaulus sarebbe divenuto
Baiulus, poi Baulus ed infine Bauli, assumendo la forma plurale comune anche ad altri nomi locali quali
Baiae, Cumae e Puteoli (R. Annecchino, Bauli-Bacoli.
Note storiche, rist. in La collezione flegrea di Raimondo
Annecchino (a cura di R. Giamminelli), Napoli 2004, p.
61).
Sia come sia, alla fama dell’età romana seguirono la
decadenza, l’abbandono e l’oblio. I ruderi, ricoperti dal
terreno o sprofondati in mare a seguito del bradisismo,
divennero un’indecifrabile congerie di crolli e di spezzoni disorganici. A partire dal XVII secolo, con la nascita dell’odierno abitato di Bacoli, case e masserie iniziarono a ricoprire i resti antichi, talvolta inglobandoli
nelle proprie murature, talaltra eliminandoli senza eccessivi scrupoli.
Ai tempi del Grand Tour l’attenzione degli eruditi e dei
viaggiatori si volgeva a tre edifici in particolare, vale a
dire le Cento Camerelle sul promontorio, un preteso
tempio di Ercole nelle acque della sottostante Marina e,
più oltre, sul lido, un curvo edificio che l’inventiva degli antiquari battezzò col nome di Tomba di Agrippina.
Il resto, quando c’era, non veniva tenuto in gran conto.
Il piccolo villaggio di Bacoli sorse lungo l’odierna via
S. Anna (e, poco oltre, lungo il primo tratto di via Ambrogio Greco), con poveri edifici allineati su un antico
percorso viario bordato da tombe, anzi, non poche abitazioni erano proprio tombe romane più o meno riattate.
La stessa chiesa di S. Anna, risalente al 1696, si impiantò su ruderi romani (“una grande piscina”, scrisse il
Beloch, trad. it. p. 231) e si ha notizia di un sepolcro
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adiacente, un colombario “tutto d’intorno ripieno di
vasi di terracotta fatti a guisa di pignatte” (N. Rossi,
Guida de’ forestieri per Pozzuoli, Baia, Cuma e Miseno, Napoli 1801 p. 110 sg.; cfr. Baiae-Misenum, n. 104
p. 109).
Non giovò al sito un vivace dibattito in merito
all’ubicazione dell’antica Bauli, divampato nel secolo
dei lumi. Come vedremo estesamente più oltre, il polverone sollevato dalla questione tolse interesse ad uno studio approfondito dei resti visibili. Se si trattava solo di
ruderi periferici appartenenti a Baia o a Miseno, tanto
valeva concentrarsi su questi luoghi per i quali, del resto, non si fece poi molto, almeno in termini di validità
scientifica.
Dobbiamo alla sistematicità ottocentesca del Beloch
l’abbozzo di una prima carta archeologica del sito, divenuta per forza di cose particolarmente preziosa. Il secolo successivo ha difatti aggiunto ben poco a quella carta, ma in compenso ha cancellato parecchio per ignoranza, insipienza e gretto calcolo personale. Il cemento ha
ricoperto le testimonianze del passato e non è stata intrapresa alcuna sistematica opera di scavo per colmare
le lacune documentarie.
Per quanto riguarda Bauli possiamo segnare all’attivo
del XX secolo solo pochi punti: dobbiamo al Maiuri lo
scavo e lo studio della cosiddetta Tomba di Agrippina,
la sistemazione dell’area archeologica delle Cento Camerelle ed un fondamentale contributo sulla corretta
ubicazione di Bauli. Nel 1979 la carta archeologica curata dalla Borriello e dal D’Ambrosio ha restituito un
quadro quasi completo di ciò che risultava ancora esistente ed infine, negli anni finali del secolo, sono stati
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condotti alcuni interventi di rilievo archeologico subacqueo sui ruderi sparsi tra la Marina Grande e la Marina
del Poggio.
Potrebbe sembrare un bilancio positivo ma, come si vedrà, non tutte le conclusioni sono pienamente convincenti. Nelle pagine che seguono, cercheremo di delineare lo stato della questione e, se non altro, avremo almeno impostato diversamente l’approccio conoscitivo visto che, soprattutto gli studi locali, risentono di una visione troppo parziale
Carta del Beloch, 1890
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La localizzazione di Bauli
La tradizione umanistica ha da sempre riconosciuto un
legame di continuità topografica tra Bauli e Bacoli, un
legame che nonostante una tesi contraria formulata nel
‘700, è stato pienamente confermato dalle recenti ricerche archeologiche.
L’idea che Bauli si trovasse altrove, e precisamente
all’altro capo dell’insenatura baiana, nell’area compresa
tra Punta dell’Epitaffio e le sponde occidentali del lago
Lucrino, accomunò tre eruditi settecenteschi che, a distanza di tempo, scesero in campo con argomentazioni
differenti, ma tutte egualmente non condivisibili ad una
esegesi appena accurata. E’ ben vero che un insigne studioso dell’800, il Beloch, fece proprie le conclusioni dei
tre eruditi, aggiungendovi di suo il dato glottologico
secondo il quale non vi sarebbe filiazione diretta tra
Bauli e Bacoli, ma a sua volta non raggiunse che risultati fallaci: condividendo gli errori di partenza dei suoi
predecessori innalzò un bell’edificio ammirato per qualche decennio e poi miseramente crollato dopo studi più
puntuali, tra i quali merita particolare attenzione un
ponderato articolo che il Maiuri dedicò alla questione
nel 1941. Nonostante i saggi d’ingegno, Beloch e la sua
fonte principale, l’avvocato Scotti, si erano mossi nelle
tenebre più fitte e avevano frainteso o distorto il senso
delle fonti che citavano per avvalorare il proprio assunto. Abbandonata dalla dottrina ufficiale, la tesi è riuscita
a sopravvivere per qualche tempo a livello locale grazie
alle pagine di un tardivo epigono, il Race, che poco
comprese dell’intera vicenda, si accompagnò a fonti
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sospette e si tenne prudentemente lontano dall’arido vero del dato archeologico, con l’esito che si può immaginare.
La tesi miseramente naufragata era in realtà zoppicante
fin dall’inizio. Chi la mise in giro, il canonico Pratilli,
asseriva di basare il proprio convincimento su
un’epigrafe funeraria (CIL, X, 1746) tornata in luce sulle sponde del Lucrino. Il marmo ricordava, tra le altre
cose, un ordo Baulanorum dunque Bauli doveva collocarsi necessariamente tra Punta dell’Epitaffio e la sponda occidentale del lago. Peccato che il Pratilli, di cose
inventate di sana pianta, ne dicesse decisamente troppe,
fuorviando gli studiosi seri. Curando la stesura del Corpus delle Iscrizioni Latine, il Mommsen avvampò più
volte di sdegno nei confronti del mendace capuano e,
per quanto riportate in latino, le sue parole al riguardo
non hanno perso nulla degli iniziali vapori sulfurei (si
vedano, tra i molti esempi possibili, CIL IX, X, p. X e
XII). Nel volume del CIL il titolo X, 1746 viene riportato come proveniente da Miseno, benché il Pratilli avesse
detto diversamente: troppe volte inattendibile, non si
prestò fede alla sua testimonianaza perciò, chi proprio si
ostina a seguirlo, si accompagna male.
Il secondo paladino della causa eterodossa, il duca Vargas Macciucca, scese in campo nel 1764, fece sua la
proposta avanzata dal Pratilli e vi aggiunse qualcosa di
ameno: Bauli, affermò, sarebbe un toponimo d’origine
semitica, spiegabile col fatto che, in epoca antichissima,
i primi coloni di Napoli furono i Fenici.
Dopo il mendace e l’ignorante, nel 1775 giunse il causidico Scotti, un sacerdote che, essendo un atleta della
parola sacra e profana, seppe trovare argomenti convin8
centi, almeno in apparenza. Nella veste di avvocato, lo
Scotti si trovò impegnato in una causa di natura fiscale
e, volendo curare gli interessi del cliente di turno, che
era poi l’Amministrazione del suo paese, rimescolò ben
bene le carte e giocò una brillante partita, certo barando
un po’, ma solo per uno scusabile senso di attaccamento
civico. La sua trattazione riluceva d’ingegno – bisogna
riconoscerlo-, tanto che un secolo più tardi sedusse il
Beloch, sviandolo da un’analisi più attenta.
In sintesi, lo Scotti partì dalla fonte che più precisamente localizza Bauli, il noto passo degli Annali di Tacito
(XIV, 4) che la pone tra il lago di Baia ed il promontorio di Miseno. Non esistendo ai suoi giorni un lago
Baiano, lo Scotti lo riconobbe senza esitazione nel Lucrino; citò poi Dione Cassio (XLVIII, 50) e Plinio (N.
H., XIV, 5) il quale, parlando del canale neroniano diretto ad Ostia, lo faceva partire dal lago Baiano.
Un altro passo di Plinio (N. H., III, 61) gli offrì un ulteriore argomento poiché le località costiere venivano citate in un ordine che consentiva di collocare Bauli
all’altro estremo dell’insenatura baiana: “Misenum, portus Baiarum, Bauli, lacus Lucrinus”.
Dal momento che Tacito parlava di un’insenatura marina che lambiva la villa di Bauli, lo Scotti credette di poterla riconoscere in una spiaggetta appena ad Est di
Punta dell’Epitaffio, poi completò il quadro con le ultime pennellate. Agrippina, raccolta in mare dai pescatori
dopo l’affondamento della nave che la trasportava, era
stata portata a Lucrino e di là alla sua villa, quella di
Bauli, come si poteva desumere dal testo: quindi Bauli
era nelle vicinanze del Lucrino. Qualche secolo più tardi, Simmaco aveva scritto in una sua epistola “Baulos
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Lucrina sede mutavimus”; per il nostro avvocato ciò
rappresentava un’altra prova palese della contiguità tra
Bauli e Lucrino.
Ed infine, la freccia del Parto. Il folle ponte di navi voluto da Caligola andava, secondo Dione Cassio (LIX,
17), da Pozzuoli a Bauli, perciò terminava a Punta
dell’Epitaffio.
Un secolo più tardi questa tesi minoritaria venne riscoperta dal Beloch e rimpolpata con l’osservazione che,
glottologicamente, è erroneo sostenere la derivazione
del toponimo Bacoli da Bauli. Grazie al prestigio dello
studioso la nuova teoria ebbe fortuna benché non mancasse l’autorevole, isolato dissenso del Nissen. Per un
quarantennio la maggioranza lodò i vestiti nuovi
dell’imperatore ma, come nell’omonima fiaba, alla fine
qualcuno volle dar credito a ciò che balzava immediatamente all’occhio. Iniziò l’Annecchino nel 1930, proseguì il Maiuri nel 1941, demolendo pezzo a pezzo il colosso dai piedi d’argilla.
Iniziamo dal dato glottologico. Per aggirare l’ostacolo
innalzato dal Beloch appigliandosi alle leggi fonetiche,
il Maiuri ricorse ad una spiegazione diversa: se non uguali, i due toponimi di Bauli e Bacoli risultano assai
simili e ciò potrebbe dipendere da un conguaglio etimologico o da una formazione analogica. Ma è proprio una
scienza esatta la glottologia? Nonostante le sue pretese,
non sempre riesce a dar conto della realtà dei fatti che
vorrebbe spiegare.
Chi accetta supinamente i dettami dogmatici di tale disciplina, non vede (o finge di non vedere) quanto vi sia
in essa di caduco, artificioso e opinabile, buono tutt’al
più per alimentare vacui cicalecci salottieri. Se accettia10
mo che non esiste rapporto alcuno tra Bauli e Bacoli,
bisogna concludere, seguendo il Beloch, che si tratta di
due località distinte, poste a vari chilometri di distanza
l’una dall’altra. La più piccola diversità di suono, la più
trascurabile letterina escluderebbero quindi, in modo
assoluto, sia il rapporto d’identità che quello di contiguità col luogo indicato da due toponimi. Molto istruttivo e molto semplice.
Peccato che questa bella alzata d’ingegno trascuri però i
fastidiosi casi di centri abitati moderni che, impiantati
su antichi insediamenti, ne perpetuano la vita anche se
recano ormai una denominazione completamente diversa, priva di qualsiasi assonanza con la precedente. Nel
caso di Bauli, il ricorso alla glottologia è approdato ad
un esito velleitario. Checché ne dicano le leggi fonetiche, le testimonianze archeologiche raccontano una storia diversa, e a questa intendiamo attenerci.
Rimosso l’unico, sterile apporto del Beloch, resta quanto affermò lo Scotti. Lo demoliremo andando a ritroso,
seguendo le argomentazioni del Maiuri, integrandole
dove necessario e infine vedremo quali apporti decisivi
abbiano recato le recenti ricerche archeologiche.
Soffermiamoci sul ponte galleggiante di Caligola. Dione Cassio lo fa giungere a Bauli, coprendo una distanza
di 26 stadi (LIX, 17), Svetonio ne pone il termine a Baia, dopo un tragitto di 3600 passi (Cal. XIX, 1).
Se proprio si insiste a collocare Bauli a Punta
dell’Epitaffio, i dati metrici non collimano. Il Maiuri
calcola in 18 stadi la distanza tra la Punta ed il molo
puteolano, troppo pochi davvero per corrispondere a
quanto detto dalle fonti, E’ ben vero che l’attuale Bacoli, a sua volta non risponde esattamente alla distanza
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registrata poiché si colloca, in linea d’aria a 23 stadi
(circa 4 km) da Pozzuoli (II ed., p. 167) , ma resta comunque la localizzazione più plausibile. Incidentalmente, è il caso di ricordare che le distanze fornite dalle fonti sono da prendere con un buon margine di approssimazione. Le opere storiche appartenevano infatti a un genere letterario dove si sfoggiava la retorica e gli altri
ornamenti del sapere umanistico, perciò la precisione
dei numeri lasciava a desiderare e le incongruenze nelle
distanze venivano tranquillamente accettate. Era un
mondo che spesso si accontentava del pressappoco e
della stima ad occhio, altrimenti come si potrebbe giustificare il fatto che Cicerone, nel Lucullus (Acad., Lucullus, II, 100) affermava che tra Puteoli e Bauli intercorrevano 30 stadi?
Ma Scotti e l’ultimo seguace locale affermavano che il
ponte di Caligola giunse comunque a Punta
dell’Epitaffio. Affermavano una chiara assurdità. Secondo il Maiuri (II ed., p. 167), il ponte non poteva limitarsi a costeggiare la via Herculanea, riducendosi ad
un inglorioso apprestamento a pochi metri dal lido. E’
ben vero che Scotti non conosceva la situazione archeologica del litorale sommerso (dato che solo nella seconda metà del XX secolo si sono rese disponibili le foto
aeree che mostrano gli apprestamenti marittimi
dell’immenso porto puteolano esteso fino al Lucrino),
però si guardò bene dal considerare le altre fonti
sull’impresa caligoliana.
Il ponte si allungò ben addentro nei flutti se Svetonio
afferma che traversò il centro del golfo in direzione di
Baia e nello stesso senso si deve accogliere l’iperbole di
Giuseppe Flavio (Ant. Jud., XIX) che, addirittura, lo
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faceva giungere a Miseno.
L’ultimo difensore di Scotti, cioè il Race, ha invocato
ragioni di sicurezza a favore del tracciato verso Punta
dell’Epitaffio, andando contro le altre fonti e contro la
realtà dei fatti. Se Caligola era pazzo, cosa gliene importava della propria incolumità? Se poi non era folle
del tutto, perché vanificare una costosa messinscena con
timori ridicoli, visto che, su quel ponte, se ne andò avanti e indietro profittando del bel tempo?
Caligola desiderava il potere assoluto, venato di sacralità, che era stato tipico dei dinasti ellenistici. Fin
dall’inizio volle dare di sé un’immagine sovrumana: si
disse che la cavalcata attraverso le onde del golfo di
Pozzuoli mirasse ad impressionare i popoli ai confini
dell’Impero. Tentò, a modo suo, il sublime, indossando
la corazza di Alessandro e l’epigono di Scotti gli ha dato la maglia di lana delle piccole preoccupazioni. E perché non un salvagente, già che c’era?
Da rigettare senz’altro è il richiamo a Simmaco, a proposito del passo “Baulos Lucrina sede mutavimus” (I, I,
11-2). La lettura del brano non consente di fare di
“Lucrina sede” un’apposizione di Bauli e, come se non
bastasse, viene la considerazione che Simmaco possedeva un’altra villa a Lucrino, sicuramente distinta da quella di Bauli (II ed., p 166 e nota 22). Simmaco voleva
spostarsi da Bauli all’altra proprietà sul Lucrino e non
perché la prima dimora gli fosse venuta a noia. La villa
di Bauli gli piaceva troppo, come scrisse esplicitamente,
aggiungendo che se fosse rimasto là non sarebbe più
andato altrove, restando vittima di una preferenza esclusiva. Preoccupazione inutile, se le due ville di Bauli e
Lucrino sorgevano sulle sponde del medesimo lago. E
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se, per assurdo si fossero collocate proprio in tal modo,
vi sarebbe stato un cambiamento di paesaggio e di abitudini di vita così rilevante da far pendere la bilancia
della preferenza verso una dimora piuttosto che l’altra?
Certamente no.
Per quanto riguarda Agrippina, le sue vicende terrene
terminano nei pressi del Lucrino. Tacito non lascia adito
a dubbi quando riporta testualmente “deinde occursu
lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur” (Ann., XIV, 5). Per lo Scotti la frase “poi, soccorsa da barcaioli e trasportata nel lago di Lucrino, si
recò nella sua villa” non potrebbe essere più chiara..Ma
cos’era quella sua villa, quella di Bauli o, come sostenne il Maiuri, un altro edificio sito a Lucrino? (II ed. p.
166).
La domanda potrebbe apparire superflua, ma non lo è.
Se si accetta la conclusione che Agrippina sia stata trucidata a Bauli e non in un’altra fantomatica villa, resta il
problema della localizzazione. Bauli non era sul lago.
Tacito disse che si affacciava sul mare, anzi, era “flexo
mari adluitur”, in altre parole la bagnava la curva insenatura del lido. Lo Scotti collocava quest’insenatura
appena ad Est di Punta dell’Epitaffio dove si scorge un
arenile così angusto da essere del tutto insignificante. Il
Maiuri si limitò a segnalare la scarsa rispondenza del
luogo con la bella e pittoresca notazione di Tacito (II
ed., p. 162), ma si può aggiungere dell’altro. Lo Scotti
fingeva di non sapere quali alterazioni avesse prodotto
il bradisismo sulla costa antica, eppure, tralasciando la
mappa del Cartaro del remoto 1584, le stampe del Capaccio (1607-1652) del Sandys (1627) e del Graevius,
(1723) che pure indicavano ruderi sommersi, cosa ave14
Testa marmorea di Agrippina, da Ostia
va dinanzi agli occhi quando le barchette portavano gli
stranieri a vedere la città sommersa proprio nella sua
epoca che, tra l’altro, corrispose al periodo aureo del
Grand Tour?
La costa settecentesca non corrispondeva a quella d’età
romana. Era evidente anche allora. Eppure, con un tantino di malizia spacciata per ingenuo candore, lo Scotti
voleva riferire il dato di Tacito alla situazione che aveva
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sotto gli occhi. Cosa non si fa per il cliente!
Per sua fortuna, l’avvocato disponeva di due carte migliori, fornite da Plinio il Vecchio che, pur perso nei
libri, i Campi Flegrei dovette conoscerli per forza, visto
che si trovò a comandare la flotta di stanza a Miseno.
Nel passo III, 61 della Naturalis Historia egli riportò le
località della costa flegrea nel seguente ordine:
“Misenum, portus Baiarum, Bauli, lacus Lucrinus”; più
oltre, nel XIV libro (XIV, 6, 8), riferendosi al fallito
progetto neroniano di tracciare il canale fino ad Ostia,
scrisse. “Fossa Neronis quam a Baiano lacu Ostiam
usque navigabilem fecit”.
I due testi fornirono allo Scotti l’appiglio più sicuro. Il
primo posizionava Bauli tra Baia e il Lucrino, consentendo perciò di eliminare Bacoli, il secondo faceva partire il canale neroniano dal lago Baiano. Dal momento
che Tacito (Ann., XV, 42) e Svetonio (Ner., 31) indicarono nell’Averno l’inizio del canale, lo Scotti dedusse
che, essendo il Lucrino l’accesso all’Averno, si poteva
concludere che il lago Baiano fosse semplicemente un
sinonimo del lago Lucrino. D’altra parte Tacito (Ann.,
XIV, 4), volendo localizzare Bauli aveva assegnato un
ruolo importante al lago Baiano affermando: “Id villae
nomen est, quae promontorium Misenum inter et Baianum lacum, flexo mari adluitur”. Bauli, insomma, era il
nome di una villa sul mare, sorgeva in un’insenatura e si
trovava tra il Capo Miseno ed il lago di Baia.
Se il lago Baiano corrispondeva al Lucrino, come affermava l’avvocato sulla scorta di Plinio (N. H., XIV, 6, 8)
e di Dione Cassio (XLVIII, 50), Bauli, alla fin fine poteva trovarsi a Punta dell’Epitaffio o nelle adiacenze.
Il primo mattone che vien giù dall’edificio di Scotti è il
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riferimento a Dione Cassio: il testo non menziona esplicitamente il lago Baiano. Si riferisce però al Lucrino. Non è lo stesso?- ribatterebbe spazientito chi si sente di
avallare la tesi dello Scotti. Non lo è affatto.
-Ma il lago Baiano e il canale di Nerone…- replicherebbero senz’altro gli scettici a tutti i costi. E allora rileviamo l’imprecisione di Plinio, un’imprecisione relativa,
dato che il lago Baiano era attiguo al Lucrino, ma imprecisione resta. Il senso corretto è “dalle parti di Baia”.
Ed anche al passo N. H. III, 61, non bisogna dare un
peso eccessivo. Il Maiuri, facendo suo il convincimento
del Nissen (II ed., p. 168), ritenne che Plinio, dopo il
porto di Miseno, facesse seguire l’intero golfo di Baia e
poi Bauli poiché, essendo semplicemente una villa e
non una città, veniva subordinata alla menzione del
“portus Baiarum”.
Ma sono parole, si ribatterà, parole che vogliono ribaltare, semplicisticamente, le chiare notizie di Plinio e negare la corretta localizzazione del lago di Baia.
Passiamo ai fatti incontrovertibili, allora. Il lago di Baia
esiste, l’ho individuato nel 1985 e ne ho trattato nel
1988, nel 1993 e nel 2011. Questo lago occupava gran
parte dell’odierna insenatura baiana, perciò non si può
più sostenere che rappresentasse un sinonimo di Lucrino. Si trattò di un lago costiero che non può identificarsi
né con lo stagnum Neronis né con qualcuno degli stagna severiani ricordati dalle fonti.
Il lago di Baia è ben più antico e non nacque a seguito
dell’intervento umano. Gli uomini si limitarono a metterlo in comunicazione col mare per mezzo di un canale
ampio trentatré metri, scavato nella fascia sabbiosa e
delimitato da due gettate in opera cementizia lunghe
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oltre duecento metri. Per tecnica e materiali, il canale è
simile a quello augusteo del vicino Porto Giulio, sul Lucrino e, analogamente a quello, era un’infrastruttura di
carattere pubblico. Non mancano moli privati lungo
l’antica costa baiana, ma ora sappiamo che Plinio e Floro, quando menzionavano il portus Baiarum intendevano riferirsi al porto lagunare.
Rintracciato il lago Baiano, la tesi dello Scotti si accascia sotto i colpi dell’evidenza archeologica, la stessa
che liquida senza appello ogni ipotesi alternativa. Beloch, ad esempio, collocava la villa baulana di Ortensio
sulle alture dei poggi dello Scalandrone, presso il Lucrino. In tal modo le celebri peschiere della villa si sarebbero trovate nel lago, anziché nel mare. Ma lì non ci
sono peschiere.
L’ultimo seguace dello Scotti tentò di ricollocare Bauli
a Punta dell’Epitaffio nel 1983, su basi del tutto inconsistenti. A suo dire, la vasca del Ninfeo di Claudio sarebbe stata una peschiera, perciò là andava collocata la
villa di Ortensio. Ma il palazzo di Claudio, per
l’Andreae e molti altri, corrisponde al Praetorium Baiis
dell’editto degli Anauni, un editto promulgato a Baia,
non a Bauli. Qualche anno più tardi, la mia scoperta
della villa dei Pisoni, dinanzi a Punta dell’Epitaffio, ha
sottolineato che quel punto, come voleva Tacito (Ann.,
XV, 52, 1), non era a Bauli, ma “apud Baias”. Inutile
rimarcare, infine, che la vasca del ninfeo di Claudio non
fu una peschiera per murene: la tipologia è completamente differente.
Forse per questo l’ultimo scottiano, ristampando nel
1999 un testo del 1981, riprese la sua ipotesi precedente: Bauli doveva essere da qualche parte, tra le alture del
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Castello e dell’Epitaffio, anzi, seguendo il Vargas Macciucca (pessima compagnia davvero), l’etimo ebraico di
Bauli, traducibile come “locus princeps”, “locus excelsus”, avrebbe deposto a favore di un luogo d’altura.
Quindi Bauli era la parte alta di Baia!
E’ una conclusione che si confuta da sola, perciò possiamo accantonarla sorridendo. Non risulta che Ortensio
allevasse murene di specie collinare, d’altro canto Nerone offrì a sua madre un passaggio per nave, non in funicolare. Si spegne così, come una misera fiammella, una
discussione un tempo rovente. Le rovine di Bauli si trovano a Bacoli, con buona pace di chi ha creduto diversamente, sia pure nel piccolo ambito paesano.
La storia e i monumenti
Conosciamo ben poco della storia di Bauli. La località,
sorta come Baia in territorio cumano, non ebbe mai un
assetto urbanistico tale da giustificare aspirazioni
all’autonomia amministrativa. Se in epoca romana Bauli
si presentò come una successione di ville sontuose, in
precedenza dovette mostrarsi come un rado insediamento agricolo, nient’alto che un pugno di fattorie disperse
nei campi, ad una certa distanza l’una dall’altra.
Nulla è stato trovato di ascrivibile all’epoca dei Greci di
Cuma, anche perché non è stata ancora condotta alcuna
ricerca mirata; ben poco può dirsi dell’epoca successiva, ai tempi della conquista sannitica dei Campi Flegrei.
Una coppa da vino, vale a dire uno skyphos attualmente
conservato nel Museo Nazionale Danese, risulta proveniente da Bacoli. L’oggetto, rinvenuto certamente in
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una tomba nel corso di qualche sterro ottocentesco, risale alla seconda metà del IV secolo a.C. ed è stato attribuito al cosiddetto pittore di Caivano, attivo all’incirca
fra il 350 e il 330 a.C. Un’altra tomba, del tipo a camera, venne in luce a Bacoli nel 1852, restituendo un corredo funerario costituito da una brocca attica a vernice
nera (databile al 450-420 a.C.) e cinque vasi prodotti
nella città pugliese di Gnathia, un secolo più tardi (Cfr.
Baiae-Misenum, p. 21, nt. 149 con le precedenti indicazioni bibliografiche).
Due sole tombe ascrivibili al IV secolo a.C. non compongono una necropoli e non testimoniano l’esistenza di
un abitato di qualche consistenza. La sporadicità delle
due sepolture riflette quindi una realtà agreste e periferica quale poté essere quella delle fattorie che sfruttarono
il fertile suolo locale.
La storia bussa tardi. Bisogna infatti attendere il 51 a.C.
perché una fonte scritta menzioni il nome della nostra
località. Non si tratta di un avvenimento particolarmente importante, ma di un pettegolezzo di cronaca mondana raccolto dal brillante Marco Celio, in una lettera da
questi inviata a Cicerone. In quel di Bauli, si legge, il
loro comune rivale Quinto Pompeio Rufo, il nipote di
Silla, si trova in cattive acque. E’ talmente caduto in
basso da sbarcare il lunario facendo il barcaiolo (Cic.,
Fam., VIII, 1, 4: “Q. Pompeium Baulis embaeneticam
facere”). Pompeio Rufo sgobbava al servizio di qualche
facoltoso proprietario di ville, e non per diletto personale al largo di una villa propria, come pure ha affermato il D’Arms (R.B.N., p. 226, ripreso da BaiaeMisenum, p. 22).
In quegli anni, chi si crogiolava al sole di Bauli e ne
20
Quinto Ortensio Ortalo, ritratto marmoreo conservato a Roma,
Museo di Villa Albani
rappresentava il genius loci, nonché il padrone delle delizie e degli incanti, è un altro contemporaneo
dell’Arpinate, il suo caro amico-nemico Quinto Ortensio Ortalo, l’altro principe del Foro che lottava per il
primato nell’oratoria giudiziaria.
Fra i primi, Ortensio c’era sempre stato. Gran signore,
aristocratico per nascita, censo ed inclinazioni politiche,
fu non solo un avvocato di gran nome, ma un senatore
che giunse, di carica in carica, fino al consolato (nel 69
a.C.).
21
Era ricco, raffinato e al passo coi tempi, quanto ai dettami del lusso. Ebbe diverse ville, come si conveniva ad
un uomo del suo rango, ma la più bella, la più dispendiosa, fu certo quella di Bauli. Qui godeva dello spettacolo di verdi distese di campi, di vasti orizzonti e di
profondi silenzi. E poi c’erano le peschiere, un lusso
esclusivo introdotto da Sergio Orata: non semplici vasche per allevare i pesci, ma piccoli mari privati entro i
quali la signoria dell’uomo sulla natura era totale e appagante.
Il guizzare delle triglie, l’affascinante sinuosità delle
murene, colmavano di vita questo mare privato, conciliando la serenità del riposo. Ma Ortensio era abituato a
solcare un altro mare, sia pure metaforicamente: si muoveva nelle correnti del Senato come una creatura degli
abissi, ora sfuggente, ora predatrice. E non da solo. Soprattutto negli anni 60 si trovava al centro di un gruppo
molto influente, composto da Lucio Licinio Lucullo (il
vincitore di Mitridate) e da Lutazio Catulo. Ebbe i suoi
ideali, le sue ambizioni, seppe muoversi a proprio agio
in un contesto - quello della tarda Repubblica - avvelenato da contrapposti egoismi e padroneggiò tutte le astuzie della politica.
Ma non si vive di solo Stato, né di sola oratoria giudiziaria. Quando si trovava nella serena cornice delle sue
ville, Ortensio curava l’amministrazione delle proprie
ricchezze e rivedeva la situazione dei suoi beni immobiliari. Disponeva di ville più o meno produttive e, se a
Bauli possedeva una proprietà di pura ostentazione, sulla costa puteolana antistante, in compenso, era padrone
di un intero quartiere portuale, bruttino a vedersi, forse,
ma capace di riempire le casse con proventi notevoli.
22
La villa di Bauli consentiva a Ortensio di seguire più da
vicino i fitti, le transazioni e gli investimenti puteolani,
ma dirlo esplicitamente era poco raffinato.
E così nel Lucullus di Cicerone ci viene tramandata
l’immagine di Ortensio come quella di un uomo di talento, di alto prestigio morale ed intellettuale, assertore
dei valori tradizionali e scettico sull’utilità intrinseca
della filosofia. Non si parla di vile denaro, ed anche la
superba villa di Bauli, teatro di una seduta di questa discussione immaginaria, è parcamente suggerita da frettolosi accenni: “… dopo aver conversato un po’ nel
portico, ci sedemmo allora nel medesimo giardino” (Cic., Acad. Pr., II, 9). L’organismo architettonico
circostante è una realtà sfocata, volutamente indeterminata. Delineando una sola parte per il tutto, Cicerone ha
posto in ombra la magnificenza della costruzione, ma
l’entità del suo tenore si intuisce più oltre, quando
l’Arpinate descrive il luminoso panorama antistante:
“Da questo luogo vedo la villa cumana di Catulo, vedo
la regione della mia villa pompeiana, ma la villa non
scorgo, non perché vi sia di mezzo un impedimento, ma
perché lo sguardo, anche se acuto, non riesce ad andare così lontano. O veduta straordinaria! Vediamo Pozzuoli, ma non vediamo l’amico Caio Avianio, che forse
passeggia nel portico di Nettuno” (Acad. Pr., II, 80).
Il giardino porticato si interrompeva, evidentemente,
dinanzi alla veduta che incantò Cicerone. Quel panorama superbo può cogliersi solo da una terrazza alta sul
mare, posta su un rilievo che ebbe un unico proprietario.
Nonostante l’accenno un tantino dimesso, Cicerone ha
descritto qualcosa che sarebbe andato bene per un palazzo regale ellenistico.
23
Le peschiere, autentico motivo di vanto per la villa di
Bauli, vengono ricordate dall’erudito Marco Varrone
(R.R., III, 17), circa quindici anni dopo la scomparsa di
Ortensio. Erano vaste, edificate con grande spesa e dispendiosamente mantenute, essendo il parco marino di
un collezionista di creature acquatiche amate, vezzeggiate e viziate.
Il lusso aveva già inventato lo schiavo nomenclatore
che chiamava per nome ciascun esemplare ittico, e il
pesce chiamato correva (Plin., Nat. Hist., X, 193;
XXXII,16) al richiamo del suo nome, prendendo il cibo
dalla mano del padrone. Si può dire che Ortensio conoscesse ad una ad una ogni triglia ed ogni murena della
sua collezione. Una murena, anzi, fu tanto nelle sue grazie che giunse addirittura a piangerne la morte (Plin.,
Nat. Hist., IX, 55).
Ma anche gli altri pesci non se la passavano male. I
confratelli che finivano a tavola non provenivano dalle
peschiere, bensì dal mercato ittico puteolano. Nel chiuso dei vivai nessun pesce boccheggiava per la canicola,
poiché l’acqua fresca non mancava mai, e neanche il
cibo: una numerosa squadra di pescatori lo procurava
quotidianamente e, se non poteva prendere il largo perché c’era tempesta, si poteva contare comunque sul pesce salato, messo da parte proprio per questi casi.
Un panoramico giardino degno d’un sovrano, grandi
peschiere, un approdo, depositi e ricoveri per le barche
dei pescatori emergono, quindi, dalle fonti letterarie,
rendendo meno evanescente l’immagine della villa di
Bauli.
24
Cento Camerelle, cisterne sotterranee tardo-repubblicane
La villa in cui Agrippina trascorse i suoi ultimi giorni,
dove Antonia contemplava la murena prediletta e, precedentemente, Ortensio discuteva di questioni filosofiche con Cicerone, è quella che ha lasciato le sue rovine
sul panoramico poggio delle Cento Camerelle sul quale,
oltre ai ruderi coperti dalle attuali abitazioni, ancora
sussistono le grandi cisterne sotterranee di età repubblicana dalle quali deriva il toponimo odierno.
Si tratta di un reticolo di cunicoli ortogonali e interco25
municanti, esplorati parzialmente e, tuttavia, testimoni
eloquenti dell’enorme fabbisogno idrico della villa soprastante che ebbe giochi d’acqua, ninfei e peschiere.
Un’altra serie di cisterne di età imperiale, ascrivibile al I
secolo d.C., si colloca al livello superiore, indicando
che la villa venne ulteriormente ampliata allorquando
confluì nel demanio imperiale. Benché manchi uno studio complessivo, i ruderi superstiti depongono a favore
di un organismo architettonico che, diversamente dalle
compatte ville baiane, ebbe maggiori superfici disponibili, potendo espandersi anche su parte delle sottostanti
marine, quella del Poggio e quella di Bacoli. L’uso estensivo degli spazi, la possibilità di intervallare i nuclei
monumentali con ampi spazi verdi sistemati a boschetti
e giardini, la disponibilità - come vedremo - di un autonomo approdo nonché di lussuose peschiere e di appezzamenti rurali, fanno della villa bacolese uno degli esempi più rappresentativi del suo genere.
Da diversi anni, grazie alle fotografie aeree dello
Schmiedt, è noto che dinanzi alle Cento Camerelle, là
dove si allunga la scogliera moderna, giace un’estesa
banchina di età romana, sommersa a causa del bradisismo. Le esplorazioni condotte dalla Soprintendenza
hanno permesso di accertare, or non è molto, che là vi
era una peschiera. Più oltre, nella parte sud dell’attigua
insenatura del Poggio, si è individuato un portico, del
quale restano alcuni fusti di colonna.
Lo specchio d’acqua della marina di Bacoli, dove da
sempre sono noti alcuni ruderi affioranti, è stato
anch’esso oggetto di prospezioni condotte da A. Benini , sfociate nella redazione del rilievo di una serie di
pilae che si origina da un’ampia gettata sovrastata dai
26
Marina di Bacoli, resti murari di un vano termale
resti di un impianto termale databile, verosimilmente,
all’età neroniana.
Partendo dalla datazione neroniana ed esaminando sia la
mole dell’impianto marittimo sia il carattere riparato
che l’insenatura veniva ad assumere, la Benini ha creduto possibile localizzare in questo punto lo stagnum Neronis menzionato da due dei tre vasetti vitrei (fabbricati
a Puteoli, nel III-IV secolo d.C.) che, recando figurazioni stilizzate degli antichi edifici baiani, costituiscono un
prezioso ausilio per la ricostruzione della topografia e
dell’assetto monumentale dei luoghi.
Sembrava d’altronde giustificata, secondo una glossa di
Servio e secondo la dottrina del Forcellini, una traduzione del vocabolo stagnum non nel senso di vivaio, di pe27
schiera costruita dall’uomo, bensì nella dotta, sostenibilissima accezione di protetta e tranquilla insenatura marina, non bisognosa di accessorie opere umane.
I fatti tuttavia mostrano che la Benini è incorsa in un
grave errore di interpretazione. Lo stagnum Neronis non
si apriva alla marina di Bacoli. Lo attestano inequivocabilmente gli stessi ruderi rilevati dalla studiosa, assolutamente non confrontabili con ciò che secondo i vasetti
vitrei, era la pianta schematizzata del bacino neroniano.
Lo stagnum Neronis, era una peschiera e non
un’insenatura e, del resto, l’ho localizzato e rilevato in
un altro punto del litorale baiano, nelle acque dinanzi al
Castello Aragonese.
Dopo l’età neroniana scarseggiano le notizie su Bauli.
Agli inizi del II secolo l’odeon noto come “Tomba di
Agrippina” viene trasformato in ninfeo marittimo, poi
bisognerà attendere il IV secolo avanzato perché
l’epistolario di Simmaco torni a gettar luce sulla nostra
località. Non vi sono più gli imperatori, ma in compenso appaiono i massimi nomi del Senato. Il console del
340 d. C., Acyndinus, intraprende grandi lavori, erigendo una villa che la ricerca archeologica deve ancora individuare. Acquistata da Memmio Vitrasio Orfito Onorio, praefectus Urbi nel 357 e nel 359, la villa viene
concessa in dote a sua figlia Rusticiana ed accoglie il di
lei marito Simmaco nel 375. Egli se ne innamorerà, prediligendola tra le pur numerose proprietà che possedeva
di suo tra Napoli e la zona flegrea. Come scrisse in distici, Bauli, passata da un dio, Ercole, a uomini eminenti, non aveva mai sofferto di eroi oscuri.
Soffrirà, invece, l’oscurità dell’oblio nei turbinosi anni
a venire, una volta finito l’impero.
28
La cosiddetta Tomba di Agrippina
TOMBA DI AGRIPPINA
Presentato ai viaggiatori del Grand Tour come il sepolcro della madre di Nerone, questo monumento del I
secolo d. C. visibile sulla Marina di Bacoli è, in realtà,
l’unica parte superstite di una villa marittima che digradava dal retrostante costone e si estendeva sui lati, ora
occupati da costruzioni private.
Nella sua fase iniziale (variamente datata tra l’età augustea e quella giulio-claudia), l’edificio fu un odeion,
vale a dire un piccolo teatro destinato a sottolineare il
ricco tenore della villa di cui fece parte. Un secolo più
tardi ( intorno agli inizi del II secolo d. C.) si decise di
trasformare la struttura in un ninfeo ad esedra, eliminando gran parte delle gradinate e modificando, in basso, la
superficie dell’orchestra attualmente insabbiata di oltre
un metro.
Il monumento, dal diametro originario di metri 31,50, è
29
Pianta della . “Tomba di Agrippina”
mutilo dell’estremità destra, dove si addossa una costruzione moderna. Nella sua prima fase, il teatro ebbe la
cavea divisa in tre parti. Secondo il Maiuri,
l’archeologo che ne curò lo scavo, l’ima cavea ebbe
quattro file di gradinate, altrettante ne contò la media
cavea e solo tre la summa, posta nella parte più alta ed
ombreggiata da un portico, ora scomparso, impostato su
colonne dal diametro di 30 centimetri.
Il prospetto verso monte dava su un corridoio, ed era
scandito da una successione di eleganti colonne in stucco (concluse da capitelli corinzieggianti realizzati col
30
medesimo materiale) che reggevano un epistilio e lo
scomparso loggiato superiore..
Strutturalmente, la “Tomba di Agrippina” presenta tre
corridoi semi-circolari, due superiori, posti alla stessa
quota, ed uno inferiore. Quest’ultimo (al quale si accede
sulla sinistra) è coperto da una volta decorata con riquadri in stucco. Le pareti, vivacizzate da finestre e da nicchie curvilinee, ebbero anch’esse decorazioni analoghe.
Questo percorso inferiore immetteva in un altro corridoio diretto verso le vicine strutture della villa, purtroppo
irrimediabilmente scomparse. .
All’esterno si nota, nell’ambiente irregolare sulla sinistra, una scala che conduce all’emiciclo superiore, costituito da una vera e propria galleria (crypta) accessibile
anche dalla più tarda scalinata centrale. Coperta da una
volta rampante e caratterizzata dalla facciata di seconda
fase ritmata da porte ad arco intervallate da finestre, la
galleria presentò al suo interno due scale (una sola superstite, con una fontana di seconda fase nel sottoscala)
che conducevano alle gradinate in opera reticolata della
summa cavea, le sole tuttora visibili.
Si è ricordato il terzo emiciclo, a proposito del corridoio
sul quale si affacciava la parte posteriore del teatro.
Quando si trasformò la struttura in ninfeo, questo corridoio esterno fu sbarrato con setti murari che suddivisero
lo spazio in vari piccoli ambienti con funzioni di deposito e fu realizzata anche una piccola cisterna. Ascrivibili alla fase di II secolo sono, infine, il terrazzo esterno
della galleria superiore e le finestre aperte lungo
l’emiciclo inferiore.
31
COLOMBARIO DI VIA SCAMARDELLA
In via Scamardella, inglobati in costruzioni moderne,
sono alcuni colombari romani, di cui il meglio conservato è quello ipogeo, accessibile dal cortile del numero
civico 17Collocato 8 metri più in basso del piano di campagna, vi
si accede per mezzo di una scala in parte moderna. A
metà di questa, sulla destra, un passaggio ad arco immette su una rampa oggi interrotta da un muro.
Intorno alla sala centrale si notano, disposte su quattro
livelli, le nicchie per le urne cinerarie. In alcune di esse
è possibile osservare il foro in cui venivano inserite le
urne.
Il colombario di via Scamardella
32
Sulla parete di fondo e su quelle laterali si aprono tre
arcosoli. Quello di fronte alla scala presenta una zoccolatura, forse destinata a sostenere il sedile dove i parenti
potevano consumare il pasto in onore del defunto.
Sulla parete a destra dell’ingresso, due arcate danno accesso a due piccoli vani voltati ed intonacati. Nel più
grande restano tracce di una zoccolatura rossa alta 35
centimetri.
Due aperture a bocca di lupo (cm 70 x 70) erano collocate nelle reni della volta dell’ambiente principale, sul
lato Sud-Ovest e davano aria e luce all’interno.
CENTO CAMERELLE
Le monumentali cisterne note col nome di Cento Camerelle costituiscono il nucleo superstite di una villa superba, che alle consuete comodità aggiunse un autonomo approdo e giochi d’acqua, ninfei e peschiere. Fu in
questo luogo che Cicerone discusse di filosofia con
Quinto Ortensio Ortalo, uno dei primi proprietari, principe del Foro e console nel 69 a. C.. Un secolo più tardi,
nelle sottostanti peschiere nuotò la murena prediletta da
Antonia Minore, madre di Claudio, riconoscibile grazie
agli orecchini aurei che le erano stati messi. Agrippina
fu qui ospitata da suo figlio Nerone e, nei secoli seguenti, altri personaggi illustri si avvicendarono gli uni agli
altri, in un luogo dal fasto ineguagliabile, distrutto poi
33
Pianta delle Cento Camerelle
dagli uomini e dalla stessa natura.
Benché manchi uno studio complessivo, i ruderi rimasti
depongono a favore di un organismo architettonico che,
diversamente dalle compatte ville baiane, ebbe maggiori
superfici disponibili, potendo espandersi, oltre che
sull’altura, anche su parte delle sottostanti marine, quella del Poggio e quella di Bacoli. L’uso estensivo degli
spazi, la possibilità di intervallare i nuclei monumentali
34
con ampi spazi verdi sistemati a boschetti e giardini, la
disponibilità - come si è detto - di un autonomo approdo
nonché di lussuose peschiere e di appezzamenti rurali,
fanno della villa bacolese uno degli esempi più rappresentativi del suo genere.
I resti meglio conservati si trovano sul promontorio, in
mezzo alle case moderne. Si tratta di un complesso di
cisterne impiantate su almeno due livelli che risalgono
ad un differente ambito cronologico. La cisterna superiore, più recente (I secolo d. C.), è anche diversamente
orientata. Fu scavata parzialmente nel tufo (per l’altezza
di 2 metri), ed è rivestita di opera reticolata ricoperta da
uno spesso strato di cocciopesto. Si articola in quattro
navate divise da tre file di pilastri che reggono le coperture voltate, ognuna con un pozzetto d’aerazione quadrangolare (metri 0,42 x 0,42) posto in corrispondenza
del centro.
La cisterna più antica (nota nei secoli scorsi anche col
nome di “Prigioni di Nerone”, forse per l’intricato reticolo della sua pianta) si trova sei metri più in basso e
e consta di una serie di cunicoli ortogonali solo parzialmente esplorati, alti circa quattro metri, foderati con
opera cementizia ed impermeabilizzati con uno strato
di signino (opus signinum o coccio pesto che dir si voglia), in qualche punto ricoperto dalle scritte lasciate a
carboncino dai visitatori dei scoli scorsi. Ben conservato è il cordolo inferiore in cocciopesto, tipico di ogni
cisterna di età romana e destinato ad evitare infiltrazioni
negli angoli. Vari indizi attestano l’esistenza di un altro,
35
sottostante livello di cunicoli con la medesima funzione
di serbatoio idrico. Stando a documenti depositati presso l’Archivio della Soprintendenza archeologica, il
complesso dei serbatoi sarebbe stato ancor più vasto,
includendo altri cunicoli a quota ancor più bassa, in corrispondenza della spiaggia odierna.
NINFEI
Estesi ruderi in cementizio si trovano dietro la cortina di
case moderne che borda la spiaggia sovrastata dal rilievo delle Cento Camerelle. Un viottolo moderno
s’insinua tra le case e risale la china. Più o meno a mezza costa giace un ninfeo tardo-repubblicano a pianta
rettangolare (misura circa 12 x 10 metri), concluso da
un’abside sul lato di fondo ed ormai quasi completamente interrato. Restano tracce dell’attacco della volta
e, nell’abside, sono riscontrabili i resti di un rivestimento in finta roccia (pomici).
Sulla spiaggia, seminascosto da un muro moderno che
vi si appoggia, è il lato di fondo di un altro ninfeo
(circa 12x8,5 metri) eretto sul litorale, al piede delle
Cento Camerelle. Fortemente insabbiato e di difficile
lettura, negli scorsi decenni era conservato per
un’altezza di 5 metri. Parzialmente scavato nel tufo,
questo lato aveva, al centro, una scaletta d’acqua servita da due retrostanti cunicoli alti 70 centimetri. Il ninfeo
fu realizzato in opera reticolata con ammorsature in tu
36
felli, ed ebbe una pianta rettangolare col lato di fondo
absidato. I lati lunghi erano articolati da nicchie rettangolari destinate ad ospitare statue (erano larghe 96 centimetri e profonde 40): Pareti ed abside erano rivestite
in marmo nella parte inferiore (restavano, fino a pochi
anni fa, i fori dei perni che mantennero le lastre), per il
resto c’era uno strato d’intonaco con tracce di finta roccia (incrostazioni di pomici).
37
I RUDERI SOMMERSI DELLA MARINA DI BACOLI
Nelle acque della Marina grande di Bacoli, tra il molo e
l’altura delle Cento Camerelle, si riconosce un’estesa
gettata cementizia sovrastata, un tempo, da un fastoso
complesso termale e munita di una banchina.
Il rilievo dell’area edificata è stato solo parziale, visto
che il nucleo settentrionale, in opera laterizia, è fortemente degradato. Meglio conservata è l’area centrale,
occupata dagli ambienti di un impianto termale estremamente lussuoso, come attesta un vano circolare del diametro di otto metri, un tempo coperto a cupola: la sua
superficie di circa 50 m2 è, infatti, più che doppia rispetto a strutture analoghe visibili nelle Terme del Foro o
nelle Terme Suburbane di Pompei.
Il vicino ambiente rettangolare con le pareti articolate in
nicchie, misura metri 18 x 10, è dotato di un’ampia vasca e mostra evidenti tracce dell’impianto di riscaldamento, sia pavimentale che parietale. Non si conosce
con esattezza la funzione degli altri ambienti più ad ovest, ma essendo provvisti di pavimenti con
l’intercapedine per far circolare l’aria calda
(suspensurae), è molto probabile che facessero parte del
nucleo termale.
Un ponte ad arcate collegava il settore termale col piede
del promontorio delle Cento Camerelle. Il disegno prospettico di questo elemento di collegamento gioca su
una ritmica alternanza delle masse struttive, alternando
38
archi ampi sette metri e mezzo
ad analoghe strutture
39
larghe solo due metri e mezzo. Ipotizzando uno sprofondamento bradisismico di circa quattro metri, è probabile che la struttura si trovasse sulla spiaggia piuttosto
che in acqua.
Sotto la scogliera moderna che chiude a sud-est
l’insenatura, iniziano, a ridosso della linea di costa antica, le rovine sommerse di un’estesa banchina con vari
punti d’attracco. Nella fascia compresa tra la banchina
ed il promontorio si collocano diverse peschiere e muri
in opera reticolata, databili in epoca tardo-repubblicana.
La presenza delle peschiere conferma l’ipotesi che la
villa delle Cento Camerelle sia proprio quella appartenuta al celebre Quinto Ortensio Ortalo, successivamente
confluita nel demanio imperiale ed infine posseduta,
negli ultimi decenni del IV secolo d. C., da Quinto Aurelio Simmaco Eusebio, noto scrittore e uomo politico
(fu console nel 391 d. C.), nonché campione del paganesimo morente e cugino di Sant’Ambrogio.
Ruderi sommersi a Marina del Poggio
Sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, alcune
prospezioni condotte dalla dott.ssa Benini per conto della Soprintendenza archeologica, hanno restituito
l’immagine di un contesto fittamente edificato
Le strutture affioranti dal fondo sabbioso includono un
molo in opera cementizia che chiude la baia ai venti di
levante, ed un retrostante insieme di ambienti insabbiati
40
che sembrano essere peschiere, come mostrano alcune
pietre con le caratteristiche scanalature per l’alloggio di
paratie.
Ulteriori strutture antiche, tra le quali un molo sommerso, giacciono lungo il lato meridionale dell’insenatura
. Qui si sono scoperte cinque colonne (dal diametro di
circa 40 centimetri) a fusto liscio (quattro in granito ed
una in marmo cipollino dall’isola greca dell’Eubea) ed
un frammento di trabeazione marmorea giacenti su un
piano di calpestio in tufo, quindi ancora nell’originaria
posizione di caduta.
In ambiente aereo, incombenti sulla spiaggetta, si scorgono in quota i resti sezionati di ambienti e canalizzazioni pertinenti alla villa eretta in questo punto del litorale. Degne di nota sono le varie corrosioni ed incrostazioni marine che mostrano come, in età medioevale,
anche questo nucleo monumentale sia stato sommerso
dalle acque marine.
41
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