Introduzione

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Introduzione
JANE AUSTEN
Romanzi
Jane Austen
Romanzi
Su licenza di Garzanti Libri S.p.A., Milano
Per le traduzioni e gli apparati editoriali
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© 2005 Gruppo Editoriale L’Espresso per questa edizione
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L’espresso Grandi Opere
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In copertina: Jane Austen
© 2005 Foto Scala Firenze / HIP
Stampa: N.I.I.A.G. S.p.A., Bergamo, Ottobre 2005
Cofanetto: Scatolificio Ponselè, Pomezia (RM)
SOMMARIO
INTRODUZIONE
di Beatrice Battaglia
CRONOLOGIA DELLA VITA
ROMANZI
MANSFIELD PARK
ORGOGLIO E PREGIUDIZIO
EMMA
INTRODUZIONE
di Beatrice Battaglia
Jane Austen è stata fino a oggi una delle grandi anomalie della letteratura: troppo ampio il divario tra l’alto scanno
assegnatole nell’olimpo letterario e la limitatezza e banalità
dell’esperienza biografica che le è stata attribuita e che, lungi dal giustificare l’eccellenza della sua arte narrativa, l’ha
fatta apparire come una specie di miracolo, e comunque un
mistero, soprattutto agli occhi del lettore italiano, da accettarsi come un episodio di caratteristico nonsense inglese.
Come ha potuto – non si può fare a meno di chiedersi
– una “zitellina medioborghese di provincia, vivendo senza
ribellarsi la più comune delle esistenze e scrivendo romanzi
per passatempo, così come si ricama una borsetta”, arrivare
a diventare “l’artista più perfetta dell’Ottocento”, anzi “la
più grande artista mai esistita” (come scrissero critici diversi, quali G. H. Lewes e F. M. Ford)? Come ha potuto una
“goldonetta ingenua”, con i suoi libri per signorine, suscitare antipatie viscerali come la “repulsione animale” di Mark
Twain, e venerazioni bigotte come l’adorazione estatica di
E. M. Forster, l’autore di Passaggio in India?
La conflittualità della critica anglosassone, come la mancanza di convinzione che si respira nelle pagine di quella
italiana, ha origine nel fatto che proprio l’immagine della
scrittrice, costruita dopo la sua morte e che ancora domina
le storie letterarie, ha promosso una lettura superficiale dei
suoi romanzi, mentre ha lasciato nell’ombra la chiave per
capire la complessità della sua scrittura e quindi la grandezza della sua arte.
I romanzi di Jane Austen sono certo godibilissimi anche
alla più disimpegnata delle letture, limpidi e brillanti come
commedie, pieni di spirito e di humour, ma questi sono
solo alcuni degli “effetti della molta fatica” della scrittrice.
Sotto la luminosa semplicità della superficie, la scrittura au-
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steniana si rivela complessa e ambigua, doppia e dialogica,
e richiede quindi un lettore ideale “altrettanto ingegnoso”
e astuto. Certo, i suoi romanzi sono delle attraenti storie
d’amore, con corteggiamenti, flirt, accese passioni e distruttive delusioni; ma, al tempo stesso, sono degli specchi che
riflettono la società borghese del tempo tanto in profondità da arrivare a esporne i meccanismi vitali. Lungi dal
riflettere un piccolo mondo antico scomparso per sempre,
i romanzi della Austen, proprio riproducendo i settori più
vivaci della società inglese in un periodo di fondamentali
trasformazioni provocate da un’incipiente frenetica caccia
al profitto, ci offrono la fotografia di uno “ieri” di cui non
è difficile riconoscere la continuità con l’“oggi”. Bisogna tenere presente però che, proprio perché le molle vitali della
società borghese – profitto economico e prestigio sociale
– sono osservate dal punto di vista del sesso subalterno,
che è escluso dall’avventura dell’autoaffermazione e non
può nemmeno discuterne, si potrà cogliere il punto di vista
della Austen solo partendo dal linguaggio da lei elaborato
per esprimersi in questo ambito vietato. È quindi dal sottile
lavoro del suo “pennellino” che si deve partire per capire la
sua importanza come “inventrice del romanzo moderno”. È
lo stile che, nella sua adeguata rispondenza alla percezione
e alla psicologia postmoderna, rende ragione del persistente
successo dei sei romanzi, tra i pochi classici che si continuano a leggere innanzi tutto per il piacere della lettura.
Frutto del suo talento più genuino, ampiamente testimoniato dagli scritti giovanili, ma anche di una robusta
tradizione inglese che va dai Canterbury Tales a Erewhon,
il linguaggio espressivo che, in Mansfield Park ed Emma,
raggiunge vette di tanto sottile perfezione nel riprodurre
l’ambigua problematicità del reale, è quello dell’imitazione
parodica e della citazione ironica. Si tratta di un linguaggio
doppio e indiretto, che non s’impegna mai in una presa di
posizione precisa: il lettore non può dire con certezza da che
parte stia l’autrice, se da quella della voce narrante o di questo o quel personaggio, perché in realtà, come ogni buon regista, la Austen sta con tutti i suoi personaggi e con nessuno
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in particolare; e proprio questa “cinematografica” agilità e
sostanziale inafferrabilità costituiscono l’essenza del suo stile “camaleontico”. Mentre negli scritti giovanili rivolti alla
famiglia la parodia era aperta e caricaturale, e quindi facilmente comprensibile, nei romanzi della maturità, destinati
alla pubblicazione, l’imitazione parodica si fa sempre meno
visibile, più sottile e ambigua, fin quasi a confondersi con
una versione realistica del parodiato, se non fosse che per
qualche piccolo scarto o momentanea sottolineatura – allusioni così leggere che, se non si conosce l’oggetto della parodia, è facile, scambiandole per ridondanze o incongruenze
insignificanti, leggere i romanzi letteralmente come racconti
seri. Infatti, questo è quanto è frequentemente successo: dato
che il bersaglio della parodia della Austen era la letteratura
moralistica contemporanea – tutti quei conduct book, oggi
dimenticati, che si proponevano di educare le fanciulle alla
passività e alla serietà, secondo un ideale femminile che alla
scrittrice doveva apparire del tutto contro natura – le sottili
riscritture parodiche che ella ne fa nei suoi romanzi sono
state lette spesso come seri racconti didattici, senza tener in
alcun conto le sue dichiarazioni esplicite:
Non potrei mettermi a scrivere un romanzo serio se
non allo scopo di salvarmi la vita, e se fosse proprio indispensabile che continuassi, senza mai lasciarmi andare
a ridere di me o degli altri, allora sarei certo impiccata
prima di finire il primo capitolo.
Con un simile talento comico e condizionata da un ambiente che approvava la letteratura femminile solo quando
promuoveva gli ideali “nazionali”, alla Austen non restava
altra strada che vestire i panni di moraliste come Charlotte
Lennox o Jane West o Hannah More, e produrre, come
loro, un suo romanzo a contrasto (Sense and Sensibility),
evangelico (Mansfield Park) o donchisciottesco (Emma e
Northanger Abbey). Ma le sue versioni sono costruite in
modo da risultare ambigue e non convincenti, anzi sconcertanti. Creano nel lettore un contrasto tra le reazioni
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emotive e i giudizi morali: i personaggi presentati come
“cattivi” gli sono più simpatici di quelli “buoni”, e questo
innesca un processo di riflessione che richiede più di una
lettura (come nel noto caso di Emma), per concludersi poi
con la constatazione che ogni nostro giudizio non può che
essere parziale e condizionato da un qualche interesse personale e, comunque – essendo destinato come tutte le cose
a mutare nel corso del tempo – non vale la pena di darvi
eccessiva importanza. Questa la tecnica che Ford, il teorico
del romanzo impressionista, tanto ammirava in Mansfield
Park, rimanendo Orgoglio e pregiudizio il suo libro preferito: come rendere progressivamente inaffidabile la voce
narrante, costringendo così il lettore a impegnarsi in una
costruzione o “riscrittura” personale del racconto.
Nella storia della ricezione della Austen ci sono sempre
stati lettori che hanno avvertito l’ironica apertura del suo
linguaggio narrativo, a cominciare dal vittoriano Richard
Simpson, che in Mansfield Park rilevava una contraddizione evidente tra la narratrice onnisciente e la costruttrice
del romanzo. Ma l’immagine che si sarebbe imposta era,
invece, quella della scrittrice semplice e diretta, che proprio
in quegli anni si andava costruendo negli scritti biografici
dei famigliari: con il Memoir (1870) e le Letters (1884),
ad opera dei nipoti J. E. Austen-Leigh e Lord Brabourne,
si comincia a occultare quella che è la molla più autentica
della sua ispirazione, l’irrefrenabile e dissacrante istinto comico-parodico, per attribuirle invece la caratteristica opposta (più consona a una proper lady vittoriana), il candour,
ossia l’ingenuità e la sincerità; e per meglio “oscurare” la
parodia, si riduce al minimo la rilevanza del background
socio-culturale, creando il mito della vita isolata e priva
d’esperienze.
Gli studi storico-culturali e letterari degli ultimi decenni
ci consentono di giustificare storicamente la modernità del
suo linguaggio e di liberare la scrittrice dalla “maschera di
ferro” vittoriana che, appiattendola in un’autrice seria e
didattica, l’ha trasformata in un’icona della Englishness,
responsabile di aver divulgato l’ideologia dell’imperialismo
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britannico nel mondo. Tuttavia identificare, come fa Edward Said, l’autrice di Mansfield Park con la sua maschera
vittoriana, trascurando del tutto il linguaggio formale,
impedisce di accedere a quella dimensione critica e metanarrativa su cui poggia la rilevanza di Jane Austen come
romanziera e “nostra contemporanea”.
Come emerge chiaramente dalle numerose biografie apparse negli ultimi anni, la Austen non visse affatto solitaria
e ignara come “il tordo che canta sul ramo del giardino”.
Per una gentildonna della sua classe sociale – gli Austen
appartenevano alla pseudo-gentry, ossia alla piccola aristocrazia terriera, che non possedeva terra – si può dire che
Jane, a partire dall’età di sette anni, sia sempre in giro: dai
pensionati scolastici (Oxford, Southampton, Reading), alle
frequenti lunghe visite presso parenti e amici (Ashe, Deane,
Rowklings, Manydown, Godmersham, Stoneleigh Abbey),
alle gite estive (Lyme, Ramsgate), ai soggiorni a Bath (dove
vivrà con la famiglia per cinque anni) e a Londra (dove
trascorrerà, con evidente piacere, frequenti periodi presso
il fratello prediletto, Henry, e sarà anche ricevuta a Carlton
House dal bibliotecario del Principe reggente).
Non c’è, inoltre, alcuna prova che Jane non amasse la
città, e Bath in particolare, mentre è molto più probabile
che, come suggerisce David Nokes, la mancata produzione
letteraria negli anni trascorsi nella celebre stazione balneare sia da attribuirsi ai preponderanti e congeniali impegni
mondani. Sarà un caso, ma le lettere di quel periodo sono
scomparse praticamente tutte, mentre il fratello Henry si
dimenticherà addirittura di ricordare Bath nella sua Biographical Notice (1818): quali innominabili segreti dovevano contenere le sue lettere, e non solo di quel periodo,
visto che la maggior parte fu bruciata (dalla sorella e dalle
nipoti) e il resto censurato con numerosi tagli di forbice?
Semplicemente perché Jane non era affatto il modello di
proper lady, la Jane Bennet o la Fanny Price che i suoi parenti vittoriani avrebbero desiderato; era invece eccentrica e
orgogliosa, disincantata e irridente come Elizabeth Bennet
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o Mary Crawford. Questo non deve stupire: Jane era cresciuta in libertà, in un ambiente intellettualmente vivace
e stimolante, insieme ai numerosi fratelli e agli allievi del
padre. Il reverendo George aveva studiato a Oxford e sposato la nipote del preside, Cassandra Leigh, una donna dotata
di spirito comico e di buonsenso, che sapeva trattare con i
giovani e, ben diversamente dal Sir Thomas di Mansfield
Park, promuoveva le recite domestiche. La giovane Jane
poté così scrivere sul periodico fondato dai fratelli studenti
a Oxford, recitare nelle commedie che, durante le vacanze,
andavano in scena nella rimessa, e comporre tanti burlesques e nonsense, parodie e brevi commedie, per gli applausi dei famigliari; del padre, in particolare, che la incoraggiò
sempre, regalandole quaderni e scrittoio, e soprattutto contattando ripetutamente gli editori per la pubblicazione dei
suoi primi romanzi.
A Steventon Rectory e Chawton Cottage, sebbene immersi nella campagna inglese, non giungeva, com’è stato
ripetutamente scritto, soltanto l’eco dei grandi avvenimenti
che agitavano il mondo di allora; arrivavano invece testimonianze dirette e protagonisti, anche dai punti più caldi:
il figlio del governatore dell’India, Warren Hastings, e più
tardi la figlia, la cugina Eliza, che aveva sposato il Conte de
Feuillide, ghigliottinato durante la Rivoluzione Francese; i
fratelli Frank e Charles, in servizio in Marina durante la
guerra con la Francia; le lettere dal Grand Tour da parte
del fratello Edward, adottato dai Knight ed erede al titolo
di baronetto; dalle Indie occidentali, resoconti dalla proprietà in Antigua, di cui il Reverendo Austen era curatore,
o notizie tristi, come la morte del fidanzato della sorella, a
Santo Domingo, durante una spedizione contro i francesi
che sostenevano la ribellione degli schiavi.
Solo tenendo conto di questo quadro si può capire come
la Austen abbia potuto maturare un’ottica e una capacità
critica maschili, così da poter misurare perfettamente i limiti della condizione femminile, senza lasciarsi sviare dalla
retorica della domestic ideology e dello zelo nazionalistico.
Fin dai juvenilia si dimostra ben consapevole che i tanto
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esaltati ideali morali non sono che la copertura, pomposa
quanto inconsistente, sotto cui agiscono le onnipotenti forze
economiche che determinano il destino delle persone e di
fronte alle quali non esistono amore, amicizia, sentimenti.
La giovane Jane ne farà una bruciante esperienza, tanto
indimenticabile che si ritrova, con diverso rilievo, in tutti
i suoi romanzi. A venti anni s’innamora perdutamente di
Tom Lefroy, venuto a trovare la zia nella vicina parrocchia
di Ashe, e si aspetta “la dichiarazione” quando la famiglia di
lui, considerandola troppo povera, lo allontana precipitosamente per poi fargli sposare alcuni mesi più tardi una donna
con una ricca dote.
Jane Austen era molto graziosa, con grandi occhi scuri
e un bel portamento, come Elizabeth Bennet o Emma.
Nonostante fosse senza dote, ebbe molti corteggiatori, tra
cui una proposta importante come quella di Harris BiggWither, erede di Manydown Park. Jane accettò la sera, per
poi rifiutare la mattina. Al di là degli ipotetici rimpianti per
una decisione dovuta forse, secondo i maligni, ai consigli
non disinteressati della sorella, è certo che, se Jane Austen
fosse diventata la padrona di Manydown, noi non avremmo
i tre capolavori qui pubblicati. Se infatti, senza amare il
giovane Bigg-Wither, avesse ceduto a quella che, come ben
vedeva Auden, è la divinità nel mondo dei suoi romanzi, la
ricchezza, come avrebbe poi potuto scriverne le raffinate descrizioni parodiche in Mansfield Park e in Emma? Avrebbe
potuto mai Charlotte Lucas essere l’eroina di Orgoglio e
pregiudizio? Rimarginata con il tempo la ferita dell’abbandono di Tom Lefroy e abituatasi al prestigio sociale di una
Mrs Bigg-Wither, come avrebbe potuto coltivare una rabbia
“politica” che, invece, il passare degli anni, la crescente povertà e l’inevitabile perdita d’importanza in società hanno
mantenuto così viva? I suoi romanzi sono delle prese di posizione politiche sulla condizione civile ed economica della
donna, espresse, come nelle commedie femminili settecentesche, con garbo, spirito, humour, in modo da suscitare la
critica nel lettore, pur senza contestare apertamente le leggi
patriarcali.
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Orgoglio e pregiudizio è il romanzo più popolare della
Austen, tradotto e adattato per il cinema, il teatro, la televisione. “Il più grande miracolo della letteratura inglese” (secondo l’incontestata definizione di Farrer) deve il suo fascino
soprattutto al fatto che, rivisto per la pubblicazione sulla scia
del successo di Sense and Sensibility (1811), ha mantenuto
intatto il suo nucleo di energia e ottimismo giovanili. La
prima stesura, intitolata First Impressions, risale infatti al
1796-97 e Orgoglio e pregiudizio rimane in gran parte l’opera di una scrittrice di venti anni e, come i sogni dei ventenni,
non può che avere la forma del romance. Dei sei romanzi Orgoglio e pregiudizio è quello che più si avvicina al romanzo
“rosa”: le traversie della protagonista, immersa nel solito minaccioso mondo borghese, si concludono con la salvezza, anzi
con un trionfo, personale e sociale, la conquista dell’amore e
della ricchezza. Il romanzo è chiaro e luminoso, e l’intreccio
scorre senza che si avverta mai l’autrice “lavorare” contro la
narratrice: la scrittrice matura non vuole toccare l’ottimismo
della giovane Elizabeth e si limita a tratteggiare il chiaroscuro
del quadro per sottolineare l’eccezionalità del racconto e la
sua natura di favola: la realtà, di solito, è ben diversa e non
così facilmente superabile. Ritorna infatti lo stesso tema di
Sense and Sensibility: la condizione della donna in una società che la valuta solo in rapporto all’entità della sua dote.
Elizabeth e la sorella Jane, pur appartenendo allo stesso rango
di Darcy e Bingley, non hanno una dote e l’orgoglio dei Darcy
e dei Bingley per il proprio prestigio economico detta i loro
“pregiudizi” di superiorità. Dopo aver pubblicamente umiliato Elizabeth al ballo, Darcy s’innamorerà di lei e le chiederà
di diventare sua moglie, pur dichiarandosi consapevole che
quel matrimonio rappresenta per lui una degradazione sociale. Ma Elizabeth lo rifiuterà: anche lei ha il suo orgoglio e
suoi “pregiudizi”, legati alle proprie capacità intellettuali; lo
accetterà, alla fine, solo quando lui avrà imparato, o lei vorrà
credere che lui abbia imparato a valutarla per altre virtù che
non siamo la posizione economica della sua famiglia. Nel romanzo “rosa” della Austen sarà però Darcy a dover superare
le “prove” per dimostrarsi, alla fine, degno di Elizabeth.
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La contrapposizione, solo apparente, tra orgoglio e
pregiudizio offerta dal titolo si rivela in realtà un’ironia
diretta ai moralisti contemporanei e ai loro “lunghi capitoli
di saggezza o di speciose sciocchezze” impiegati per distinguere caratteristiche così ambigue, la cui valutazione come
pregi o difetti dipende più che altro dal punto di vista da cui
si guarda e, in ultima analisi, dall’esito degli avvenimenti.
Più che a considerazioni filosofiche, il lettore è invitato a
condividere con l’autrice il piacere di vivere questa commedia romantica identificandosi con Elizabeth: ecco perché il
ritmo della narrazione, le inquadrature, il dialogo hanno
una spontaneità assoluta. A trionfare sulla scena è infatti
una witty heroine, in barba a tutte le prediche contro lo
spirito femminile: che “un uomo di buon senso non sposerà
mai una femmina spiritosa” o che “lo spirito sia il talento
più dannoso che una donna possa avere”, foriero di sicura
rovina.
Elizabeth, “la creatura più deliziosa mai apparsa sulla
stampa”, discende direttamente dalle commedie di Susanna
Centlivre e di Hannah Cowley ed è spiritosa dal principio
alla fine, con alcune scene eccelse, come quella in cui Lady
Catherine vorrebbe obbligarla a promettere di rinunciare a
Darcy. Ma in Orgoglio e pregiudizio la battaglia in favore
del wit è di portata ben più ampia che nella commedia del Settecento. Wit e comicità non sono solo espedienti per trattare
di argomenti vietati, come le leggi patriarcali sulla proprietà
femminile: così avviene per esempio nel caso di Mrs Bennet,
che “deve” essere sciocca perché solo come fool può lamentarsi apertamente delle leggi che, vincolando la proprietà ai
maschi, alla morte del padre buttano le femmine letteralmente in mezzo alla strada, alla mercé della sadica arroganza dei
vari Mr Collins. La centralità strutturale del wit in Orgoglio
e pregiudizio sottintende un’analisi profonda che anticipa
Foucault nell’individuare i motivi per cui l’establishment lo
aborre: la “vivacità della mente” femminile è espressione di
vitalità nel senso più completo del termine, mentale e fisica, e
quindi sessuale, che è l’ambito più temibile perché incontrollabile nella sua irrazionalità. Il wit, scrivono i teorici settecen-
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teschi, è una prova d’agilità intellettuale, una dichiarazione
di forza, l’invito a una sfida che, tra i due sessi, non può non
assumere una dimensione erotica, dove le parti tradizionali
possono invertirsi e la donna, da preda, diventare cacciatore.
“Sono sempre un gatto, quando vedo un topo”, scrive con
consapevolezza la Austen, e, alla fine del romanzo, Elizabeth
spiegherà di aver “vinto” perché, lasciando da parte l’atteggiamento femminile convenzionale, ha attaccato Darcy da pari a
pari, con la sua stessa orgogliosa autostima, coinvolgendolo in
una sfida intellettuale in cui lei è stata vincitrice, anche se con
l’aiuto di un bel paio di occhi scuri. Orgoglio e pregiudizio
si chiude con la sorella di Darcy in apprensione alla vista del
temuto capo della famiglia che, di buon grado, si lascia prendere in giro dalla moglie: prima ancora che nella gratificante
conclusione “rosa”, la vitalità di questo capolavoro sta nella
forza che anima il racconto, e cioè l’eros che scaturisce dalla
vivacità dello spirito femminile, e insieme nel piacere catartico di questa sua eccezionale libera manifestazione.
In Mansfield Park, considerato ormai unanimemente,
quando non il capolavoro, certo il suo romanzo più significativo, l’atmosfera “leggera, luminosa e scintillante” di
Orgoglio e pregiudizio lascia il posto al senso di costrizione
che accompagna la condizione femminile nella realtà della
società patriarcale. Basta ascoltare la narratrice onnisciente,
in scena nel prologo e nell’epilogo di questa dark comedy, per capire subito, dai princìpi mercenari e misogini
che informano le sue parole, che ci troviamo di fronte a
un portavoce della morale ufficiale, una Hannah More o
qualche altro educatore evangelico, esperto nell’insegnare
alle fanciulle a stare al loro posto nella società patriarcale.
Infatti, per poter condurre il suo attacco ai nemici della
libertà femminile e colpire il sistema nei suoi simboli più
rappresentativi, la Austen ha dovuto, raffinando al massimo
la sua tecnica “camaleontica”, adottare il linguaggio di un
esponente della morale ufficiale.
Gli effetti della sua performance parodica si sono concretizzati nel tempo in una gran varietà d’interpretazioni
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critiche contraddittorie, testimonianza irrefutabile che il
romanzo non ha certamente la dimensione monologica di
un racconto didattico. Se i princìpi della narratrice fossero
anche quelli della Austen, ha scritto il romanziere Kingsley
Amis, Mansfield Park sarebbe davvero un libro immorale.
Ma proprio questo era l’effetto che l’autrice intendeva provocare: far percepire al lettore l’immoralità di un mondo
come quello di Mansfield, dominato dal solo interesse economico, ipocritamente nascosto dietro una morale duttile e
malleabile. In un mondo simile per la donna non c’è riparo
dalla precarietà, anzi, più alta è la sua posizione sociale, più
esposta è al rischio di finire sacrificata al dio Denaro, come
Maria Bertram, o condannata come Mary Crawford per non
sapersi adeguare all’ipocrisia del rigido modello femminile
che, invece, la “cenerentola” Fanny Price saprà illustrare
così bene da essere riconosciuta alla fine come la vera erede
di Mansfield Park.
Fanny possiede, a dire della narratrice, le tre virtù cardinali prescritte nel popolare Coelebs in Search of a Wife
(1808) della More: è umile, generosa e self-denying, ossia
sempre pronta a sacrificarsi per gli altri. Per lei, povera,
l’unica “dote” consiste nella capacità di esemplificare l’ideale
femminile utile all’establishment, mostrando che l’unica
strada per l’affermazione personale è, paradossalmente,
quella della passività e della rinuncia. Allevata in casa dello
zio insieme alle sue figlie, Fanny dimostrerà di aver saputo
apprendere quei principi morali che le cugine non hanno appreso e, per questo, diventerà l’amata nuora di Sir Thomas.
Ma, come mai, ci chiede la retorica della narratrice moralista,
Fanny ha appreso i giusti princìpi e le cugine no? Ma perché
Fanny è stata educata rigidamente fin da piccola, secondo le
regole propugnate dalla More nelle sue Strictures: frustrata
e umiliata in continuazione, “abituata a esser contraddetta… a non aver fiducia in se stessa, a subire i torti senza
lamentarsi o difendersi e a sentirsi sempre dire di no”.
Una simile ricetta per tirar su donne perfette non poteva
certo esser condivisa dalla creatrice di Elizabeth Bennet, cui
“le immagini di perfezione facevano venire il voltastomaco
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e la rabbia” e che, anche qui, non rinuncia a dare adeguata
espressione alla sua parte più autentica: eccola scendere in
campo nei panni della witty heroine, Mary Crawford, questa volta opportunamente confinata nel ruolo di antieroina.
Infatti, proprio assolvendo la sua funzione di esemplificare
un’educazione sbagliata, la “cattiva” Mary è libera di esprimersi a tutto tondo, e d’attaccare addirittura il patriarca,
accusandolo di sacrificare consapevolmente la figlia Maria
alla stessa divinità mercenaria che ha presieduto l’“impresa”
coloniale ad Antigua con la quale Sir Thomas si è rifatto
del denaro sperperato dal figlio maggiore nei bagordi di
Brighton. Con un sarcasmo che sconfina nel pornografico,
Mary attacca anche l’ambiente alto della marina, dove è cresciuta, e, con disincantata ironia, fa emergere le motivazioni
economiche che stanno alla base della “vocazione” religiosa
di Edmund, evocando lo scandaloso mercato delle rendite
ecclesiastiche. Alla fine, Mary sarà debitamente punita:
per il suo wit irridente e per la trasgressiva generosità nel
proporre di riaccogliere a casa la disgraziata Maria che ha
abbandonato un marito sposato solo per la sua ricchezza.
Nel mondo di Mansfield l’umana generosità di Mary si
chiama “immoralità”.
Mary Crawford è apparsa a molti lettori come la vera
eroina di Mansfield Park e, in un certo senso, lo è: non della
storia raccontata dalla narratrice, ma di un’altra potenziale
versione che è costantemente suggerita dalla regia del racconto. Davanti agli occhi del lettore, infatti, vengono fatte
passare scene e descrizioni dell’interiorità dei personaggi
che mostrano una realtà diversa da quella riferita dalla voce
narrante. Per esempio, Fanny sarà anche umile, ma il suo
linguaggio mostra sempre il suo io in primo piano e comunque al centro della situazione. La narratrice la loda per il suo
“senso del dovere”, adducendo a prova due decantati rifiuti:
quello di partecipare alla recita e quello di sposare Henry
Crawford. Ma questa non è la verità: Fanny ha accettato di
recitare come gli altri, ed è solo l’arrivo di Sir Thomas che
impedirà la recita; quanto poi a Henry Crawford, Fanny sta
ormai per accettarlo, quando lui fugge con Maria.
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Tutto il romanzo è costruito con una tecnica raffinata
di suggerimenti calcolati per produrre il senso di una potenziale molteplicità di esiti. La Austen era molto soddisfatta
del fatto che il fratello Hernry, giunto ormai agli ultimi
capitoli, non riuscisse ancora a indovinare come sarebbe
andato a finire. Più che alla conclusione, l’autrice è interessata a suscitare nei suoi lettori il senso dell’“apertura” e
dell’imprevedibilità del reale da contrapporre ironicamente
alle dogmatiche certezze dei moralisti. Gli happy endings
dei romanzi sono stati spesso ritenuti insoddisfacenti rispetto alla complessità costruita nel corso del racconto: ma essi
sono “obbligati”, nel senso che sono quelli convenzionali
delle forme narrative parodiate. In Mansfield Park, dove
la “prudente” Fanny dagli occhi bassi è l’eroina della narratrice, e l’incauta Mary, piena di sospetta energia fisica e
mentale, quella dell’autrice, la conclusione non potrà che
vedere il trionfo di Fanny, e perché questo è il racconto della
narratrice onnisciente e perché nella realtà succede spesso
che vinca chi ha imparato ad adeguarsi ipocritamente alle
richieste del potere. Ma, significativamente, i lettori hanno
decretato che, sul piano della simpatia istintiva, la vincitrice
sia la witty heroine, con la sua “immorale” conclusione che
sarebbe stata più “umana” e soddisfacente per tutti.
È solo apparentemente curioso il fatto che Mary riscuota
l’ammirazione soprattutto del pubblico maschile, mentre
Fanny trovi i suoi più fervidi difensori in quello femminile:
è l’effetto dell’arte della Austen, la quale non permette che
Fanny sia solo il piatto exemplum della narratrice evangelica, ma aggiunge alla sua caratterizzazione tutto il pathos
e la sofferenza dell’innaturale processo educativo attraverso
cui la povera piccola Fanny diventa quel “mostro di ipocrisia
e di orgoglio”, in grado sopravvivere e prosperare nel mondo
di Mansfield.
Mary Crawford, l’eroina che rifiuta di “farsi comandare
dall’orologio”, è espressione della visione giacobima e libertaria di Lovers’ Vows, la popolare e “scandalosa” commedia
di Mrs Inchbald, che nel romanzo sta a suggerire una potenziale versione alternativa al racconto della narratrice. Se il
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Introduzione
teatro è condannato dalla voce narrante di Mansfield Park
come sinonimo di libertà e di disordine, proprio per gli stessi motivi appare invece esaltato dall’autrice nel confronto
con la vita sociale, dove si recita ugualmente, ma una parte
non scelta cui, il più delle volte, non ci si può sottrarre. Con
Mary Crawford la Austen mantiene vivo lo spirito della
commedia femminile settecentesca, in un periodo in cui
anche il palcoscenico si va chiudendo alle commediografe,
spingendole a comporre opere per la lettura. A Mansfield la
recita non si farà più e la sera o si ascolteranno i racconti di
Sir Thomas o si leggeranno i classici, attività che favoriscono la passività e la solitudine femminili.
Nell’ottica di questa tradizione femminile, appare marginale chiedersi se la Austen fosse tory o radicale. È vero
che sul piccolo palcoscenico di Mansfield Park vengono
fatti passare in prospettiva cinquant’anni di storia sociale
inglese; ma è altrettanto vero che il punto di osservazione rimane, senza oscillazioni, quello della condizione femminile.
Lo conferma anche il titolo del romanzo, ambiguo quanto lo
stile: a parte il significato letterale (“campo dell’uomo” può
stare per “società patriarcale”), Mansfield richiama il nome
di un noto giudice e uomo politico (1705-1793), fondatore
del codice mercantile e autore di celebri sentenze, tra cui
quella sull’impossibilità giuridica della schiavitù in Inghilterra – un’affermazione di grande effetto e di poca sostanza,
proprio come l’atteggiamento nei confronti delle donne,
dove la teoria è ben diversa dalla pratica. Che il tema della
schiavitù evocato dal titolo sia centrale nel romanzo è stato
messo in evidenza anche nella tanto discussa trasposizione
cinematografica di Patricia Rozema (USA, UK, 1999): non
c’è ragione di credere, osserva perfino Said, che Sir Thomas
non si comporti a Mansfield come ad Antigua, ossia da padrone di schiavi.
Il tema della schiavitù femminile sarà ripreso in Emma
con implicazioni più esplicite, eppure smorzate dall’apparente pacata serenità di questo secondo romanzo della
maturità, l’ultimo da lei pubblicato (1816). Anche dopo
Introduzione
XXI
il successo critico di Mansfield Park, Emma continua a
contendere a quel romanzo il titolo di capolavoro della
scrittrice per la sua importanza sul piano dell’innovazione
e della perfezione formale.
Emma è in fondo un Orgoglio e pregiudizio scritto
vent’anni dopo; questa volta, anziché lasciarsi assorbire
dalla gratificante vicenda della protagonista, l’autrice appare tutta concentrata sulla propria arte: usa l’eroina come
“occhio narrativo” principale, ma se ne dissocia, facendone
emergere i limiti e la parzialità. Non più necessaria, nemmeno come bersaglio, la narratrice onnisciente è praticamente scomparsa, ridotta alla funzione di coro, ad aprire o
chiudere un capitolo con qualche frase di comune saggezza.
Tutto quello che l’autrice ha da dire sarà detto attraverso la
pratica artistica, la techne. Il racconto passa tutto attraverso
la coscienza della protagonista, senza la quale quindi non
esisterebbe l’intreccio, e che è diventata ora il palcoscenico
su cui è stata trasferita la commedia. Ed è in questo ambito
della propria interiorità che Emma diventa spettatrice di se
stessa. Come si vede, l’introduzione di Lovers’ Vows in
Mansfield Park aveva implicazioni ben più ampie di una
semplice contrapposizione ideologica tra morale giacobina
e antigiacobina: nel passaggio dalla tecnica narrativa di
Mansfield Park a quella di Emma si riflette infatti l’evoluzione dalla commedia settecentesca al romanzo moderno.
È notorio, infatti, che Emma anticipa le tecniche cosiddette
del “punto di vista circoscritto” di Henry James, del “personaggio narratore” di F. M. Ford e di Joseph Conrad e le
conclusioni “aperte” di tanti romanzieri moderni.
“Il libro dei libri” non è però un miracolo: il suo stile camaleontico e “quasi cinematografico” è ben radicato nel linguaggio espressivo della sua epoca e il “lavoro” della Austen
può misurarsi solo sul background culturale e artistico della
Reggenza. L’idea generatrice di Emma è ancora quella di parodiare la letteratura moralistica: questa volta si tratta di una
forma già parodiata in precedenza in Northanger Abbey,
quella molto diffusa del “don Chisciotte femmina”, derivata
dall’omonimo romanzo di Charlotte Lennnox. Emma pare
XXII
Introduzione
rispettare perfettamente la formula: l’eroina ha un’alta opinione di se stessa, agisce di testa propria, ignorando i consigli
dell’ottimo amico Mr Knightley e perciò alla fine sarà punita;
le sue trame andranno deluse e lei dovrà ammettere di aver
avuto torto e riconoscere la superiore saggezza del suo “consigliere”. Ma anche in questo romanzo il monologismo proprio del racconto didattico viene dissolto dalla pluralità dei
potenziali sviluppi e interpretazioni che accompagna anche i
fatti apparentemente più trascurabili e insignificanti. Emma
consente, a ogni rilettura, interpretazioni sempre diverse, perché il romanzo ha, sosteneva Trilling, l’insondabilità propria
di una persona reale. Ebbene, questa tanto celebrata scrittura,
capace di riprodurre l’inafferrabile polivalenza della realtà e
della vita, è frutto della lezione dell’amato William Gilpin,
popolare divulgatore dei princìpi del pittoresco. La Austen
guarda alla società e alla vita in genere con l’occhio del “viaggiatore pittoresco”, consapevole che la “realtà” cambia con il
variare del punto di vista e che il punto di vista da cui ci si trova a guardare è di fondamentale importanza nel determinare
le nostre valutazioni. Anche condividendo lo stesso punto
d’osservazione, la vista varia a seconda e degli occhi che guardano e del momento in cui si guarda. Solo il trascorrere del
tempo dirà se le nostre valutazioni erano giuste o sbagliate.
Per esempio, Emma sbagliava nel voler far sposare Harriet e
Mr Elton, perché Mr Elton “sposa” un’altra, ma il racconto
lascia intravedere che quel matrimonio si sarebbe potuto
anche realizzare, se è vero che la possibilità di un’unione
ancor più “sbagliata”, quella tra Harriet e Mr Knightley, è
tanto reale da spaventare profondamente Emma. Entrambi i
protagonisti appaiono guidati, nelle loro valutazioni, da motivazioni personali, che essi chiamano “interesse affettuoso” o
“far del bene al prossimo”: in realtà si tratta sostanzialmente,
nel caso di Mr Knightley, dell’amore, ancora inconsapevole,
per Emma; e, nel caso di Emma, dell’impulso narcisistico a
primeggiare sempre e dovunque.
Mr Knightley appare come l’eroe dotato di tutte le virtù, perché è visto attraverso gli occhi di Emma, la quale,
essendo stata praticamente educata da lui, ne condivide il
Introduzione
XXIII
modo di vedere e non è quindi in grado di giudicarlo. Ma
se Sir Thomas incarnava l’interesse economico che si trasforma in principio morale, Mr Knigtley rappresenta quei
principi morali diventati valori sociali indiscussi e “naturali”. Per Emma si tratta di valori sociali che condizionano
senza scampo la sua realizzazione personale: primo fra tutti,
l’obbligo del matrimonio. Basta considerare le storie dei
personaggi femminili – da Miss Churchill e Miss Taylor,
a Harriet, a Jane Fairfax, a Miss Bates – per rendersi conto
che a Highbury le donne non sono più padrone del proprio
destino di quanto non lo fossero a Mansfield. Emma, pur
appartenendo alla famiglia più importante del luogo, “dovrà” sposarsi, se non vuole cedere il passo a una qualsiasi
Mrs Elton, o, addirittura, fare una fine peggiore di quella di
Miss Bates. Dovrà, infatti, rendersi conto che a una donna
non serve ormai nemmeno essere ricca per sfuggire alla
schiavitù del matrimonio: come zitella ricca, la sua situazione in società sarebbe addirittura peggiore di quella di una
zitella povera come Miss Bates, perché una donna ricca può
restare zitella solo per sua scelta, rivelandosi così una ribelle
meritevole di essere schernita senza pietà.
Che Emma si sposi – senza passione ma per mantenere
la sua posizione di first lady di Highbury – non inficia, secondo la Austen, le sue prospettive di futura felicità. L’importante è che lei sia convinta di essere innamorata: ognuno
ha il proprio concetto di amore. Questa è la lezione del libro
nella sua grande apertura: ed è lo stesso Mr Knightley che,
alla fine, ci svela che la storia del don Chisciotte femmina
è servita solo da trama a una commedia che potrebbe, più
giustamente, intitolarsi Tanto strepito per nulla. Infatti,
dopo che tutto il romanzo s’è sviluppato intorno al quesito
centrale su “chi dei due protagonisti avesse ragione” riguardo al matrimonio di Harriet e Robert Martin, Mr Knightely
conclude così: “Col tempo, puoi star certa, l’uno o l’altro
di noi cambierà opinione; e nel frattempo non è necessario
parlarne più di tanto”.
Ma il senso di normalità prodotto dalla conclusione
“aperta”, con le voci dei vicini che dicono ognuno la loro
XXIV
Introduzione
sulla nuova coppia, fa passare quasi inosservato il particolare rivoluzionario di questo matrimonio che, ancora una
volta, rovescia il lieto fine tradizionale: Emma non abbandona la propria casa per seguire il principe azzurro nel suo
castello, ma rimane nella sua famiglia, dov’è la padrona
amata e rispettata, mentre sarà Mr Knightley a lasciare la
sua Donwell Abbey per la meno prestigiosa Hartfield, e con
il compito di far la guardia al pollaio!
Emma è la prima eroina moderna perché è dotata
d’amor proprio, spiegava Trilling, e la Austen sapeva che,
per questo, non sarebbe stata un’eroina molto simpatica:
Emma rifiuta di sottomettersi ed è sempre alla ricerca
dell’autoaffermazione. Alla fine, sull’importanza di questo
capolavoro i conti tornano: una forma moderna per esprimere una personalità moderna. “Oh, io merito sempre di
essere trattata nel migliore dei modi, perché non accetto
altro!”: Emma appartiene alla stessa categoria di Elizabeth
e di Mary Crawford; e queste tre figure femminili sono più
che sufficienti per scrivere la vera biografia dell’“inventrice
del romanzo moderno”. La fiducia in se stesse e l’amor
proprio che esse indiscutibilmente incarnano, oggi non più
condannati apertamente come difetti da estirpare, sono tuttavia ben lungi dall’essere davvero efficacemente promossi:
l’attualità di queste giovani donne sta proprio nell’energia
con cui danno voce all’esigenza primaria di esprimersi criticamente e affermarsi all’interno della società.
CRONOLOGIA DELLA VITA
1775-1787
Jane Austen nasce il 16 dicembre 1775 a Steventon. Suo
padre, il reverendo George, ha studiato al St. John’s
College di Oxford, ha sposato la figlia del rettore del college, Cassandra Leigh, donna spiritosa e vivace, che ama
improvvisare versi e racconti. È rettore della parrocchia
anglicana di Steventon, nella contea dello Hampshire.
Jane è la seconda figlia di otto fratelli, sei maschi e due
femmine; per tutta la vita resterà legata in modo particolare alla sorella maggior Cassandra, che come lei non si
sposerà. È soprattutto il padre a occuparsi dell’istruzione
delle due sorelle, incoraggiandole allo studio; nel 1782
Cassandra e Jane verranno mandate a Oxford presso Mrs
Crawley e tra il 1783 e il 1787 studiano alla Abbey School
di Reading. Tra i maggiori divertimenti di Steventon c’è il
teatro: durante l’estate e in occasione delle festività natalizie gli Austen e i loro vicini mettono in scena un ampio
repertorio.
1788-1794
Le sue prime prove letterarie, risalenti al periodo 1787-1795,
vengono conservate in tre grandi quaderni manoscritti: si
tratta di testi teatrali, poesie, racconti brevi e parodie dei
generi letterari allora più in voga, in particolare i romanzi
sentimentali. Nel 1793-94 si impegna in un’opera più ambiziosa, il breve romanzo epistolare Lady Susan.
1795-1800
Nel 1795 inizia a lavorare a Sense and Sensibility, che ha il
titolo provvisorio di Elinor and Marianne e assume inizialmente la forma del romanzo epistolare. Nel 1796 conosce
Tom Lefroy, un giovane e affascinante irlandese, che è
XXVI
Cronologia della vita
nipote del rettore della parrocchia di un villaggio non
lontano da Steventon: il matrimonio andrà a monte per
l’opposizione della famiglia di lui. Tra l’ottobre del 1796
e l’agosto del 1797 stende la prima versione di Orgoglio e
pregiudizio, con il titolo provvisorio di Prime impressioni.
Nel 1798 o 1799 rifiuta, pare, la proposta di matrimonio
di Samuel Blackhall, uno studente di Cambridge che
all’epoca soggiornava dai Lefroy. Nello stesso periodo
scrive l’ultimo dei suoi capolavori giovanili, Northanger
Abbey. Le due sorelle Cassandra e Jane soggiornano spesso presso parenti e amici, soprattutto a Godmersham, dal
fratello Edward, adottato da una famiglia di ricchi cugini,
e a Londra, dall’altro fratello Henry.
1801-1802
Nel 1801 il padre, raggiunta l’età di settant’anni, lascia la
parrocchia al figlio primogenito, James, e si trasferisce a
Bath con la moglie e le figlie. Nel novembre del 1802 Jane
Austen riceve un’altra proposta di matrimonio, quella del
ventunenne Harris Bigg-Wither, discendente di una ricca
famiglia dello Hampshire: in un primo momento l’accetta,
ma la mattina dopo la rifiuta. Ci sono vaghe e contraddittorie testimonianze su altri episodi analoghi, sui quali
però la protagonista resta sempre ironicamente reticente;
peraltro dopo la morte della scrittrice la sorella, preoccupata della privacy e della rispettabilità della famiglia,
distrusse molti documenti, in particolare buona parte del
loro fitto epistolario.
1803-1809
Sono sempre numerosi i soggiorni della Austen presso
amici e parenti, tra Bath, Londra, Clifton e il Warwickshire. Nel 1803 vende per dieci sterline i diritti di pubblicazione di Lady Susan all’editore Richard Crosby, che ne
annuncia l’uscita ma non lo pubblica. Nel 1804 muore
la sua amica più cara, Mrs Lefroy. Nel gennaio del 1805
muore anche suo padre, a Bath. La famiglia si trasferisce
a Southampton, presso il fratello Francis, dove risiede
Cronologia della vita
XXVII
fino al 1809: Jane Austen sarà l’amorevole zia dei suoi
figli, così come di quelli dell’altro fratello Edward, rimasti
senza madre.
1809-1817
Il fratello Edward installa la madre e le sorelle in un cottage
di Chatown, all’interno delle sue proprietà dello Hampshire. Jane Austen riprende a lavorare ai suoi romanzi.
Nel 1811 Thomas Egerton pubblica, anonimo, Sense and
Sensibility, accolto favorevolmente dalle autorevoli riviste
“Critical Review” e “Quarterly Review”. Tra il 1811 e il
1813 lavora alla stesura di Mansfield Park, che pubblica
l’anno successivo, quando escono anche la nuova edizione
di Sense and Sensibility e Orgoglio e pregiudizio. Tra il 1814
e il 1815 scrive Emma, che esce nel dicembre 1815: Walter
Scott scrive sulla “Quarterly Review” che l’anonimo autore
è un magistrale esponente del romanzo moderno, ma è
uno dei rarissimi elogi della sua arte che la Austen potrà
leggere nel corso della sua vita. L’anno successivo esce una
seconda edizione di Mansfield Park, presso John Murray,
lo stesso editore di Lord Byron. Nello stesso periodo scrive
Persuasion, che verrà pubblicato postumo nel 1817, come
Northanger Abbey. Nel gennaio del 1817 inizia a lavorare
all’ultima opera, Sanditon (che prende il titolo dal nome
della famiglia dei protagonisti), completandone la stesura e
la revisione in meno di otto settimane. La sua salute aveva
iniziato a peggiorare già da qualche mese: in aprile stende il
suo testamento, a maggio viene condotta a Winchester per
passare sotto le cure di un celebre chirurgo. Muore il 18 luglio del 1817; sei giorni dopo viene sepolta nella cattedrale
di Winchester.