Introduzione
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Introduzione
JANE AUSTEN Romanzi Jane Austen Romanzi Su licenza di Garzanti Libri S.p.A., Milano Per le traduzioni e gli apparati editoriali © 2005 Garzanti Libri S.p.A., Milano © 2005 Gruppo Editoriale L’Espresso per questa edizione Tutti i diritti di riproduzione sono riservati. L’espresso Grandi Opere Periodico settimanale Direttore responsabile: Daniela Hamaui Registrazione Tribunale di Milano n. 476 del 29/06/2004 Gruppo Editoriale l’Espresso S.p.A. Via Cristoforo Colombo, 149 – 00147 Roma www.espressonline.it Grafica e impaginazione: E-ducation.it S.p.A., Firenze In copertina: Jane Austen © 2005 Foto Scala Firenze / HIP Stampa: N.I.I.A.G. S.p.A., Bergamo, Ottobre 2005 Cofanetto: Scatolificio Ponselè, Pomezia (RM) SOMMARIO INTRODUZIONE di Beatrice Battaglia CRONOLOGIA DELLA VITA ROMANZI MANSFIELD PARK ORGOGLIO E PREGIUDIZIO EMMA INTRODUZIONE di Beatrice Battaglia Jane Austen è stata fino a oggi una delle grandi anomalie della letteratura: troppo ampio il divario tra l’alto scanno assegnatole nell’olimpo letterario e la limitatezza e banalità dell’esperienza biografica che le è stata attribuita e che, lungi dal giustificare l’eccellenza della sua arte narrativa, l’ha fatta apparire come una specie di miracolo, e comunque un mistero, soprattutto agli occhi del lettore italiano, da accettarsi come un episodio di caratteristico nonsense inglese. Come ha potuto – non si può fare a meno di chiedersi – una “zitellina medioborghese di provincia, vivendo senza ribellarsi la più comune delle esistenze e scrivendo romanzi per passatempo, così come si ricama una borsetta”, arrivare a diventare “l’artista più perfetta dell’Ottocento”, anzi “la più grande artista mai esistita” (come scrissero critici diversi, quali G. H. Lewes e F. M. Ford)? Come ha potuto una “goldonetta ingenua”, con i suoi libri per signorine, suscitare antipatie viscerali come la “repulsione animale” di Mark Twain, e venerazioni bigotte come l’adorazione estatica di E. M. Forster, l’autore di Passaggio in India? La conflittualità della critica anglosassone, come la mancanza di convinzione che si respira nelle pagine di quella italiana, ha origine nel fatto che proprio l’immagine della scrittrice, costruita dopo la sua morte e che ancora domina le storie letterarie, ha promosso una lettura superficiale dei suoi romanzi, mentre ha lasciato nell’ombra la chiave per capire la complessità della sua scrittura e quindi la grandezza della sua arte. I romanzi di Jane Austen sono certo godibilissimi anche alla più disimpegnata delle letture, limpidi e brillanti come commedie, pieni di spirito e di humour, ma questi sono solo alcuni degli “effetti della molta fatica” della scrittrice. Sotto la luminosa semplicità della superficie, la scrittura au- VIII Introduzione steniana si rivela complessa e ambigua, doppia e dialogica, e richiede quindi un lettore ideale “altrettanto ingegnoso” e astuto. Certo, i suoi romanzi sono delle attraenti storie d’amore, con corteggiamenti, flirt, accese passioni e distruttive delusioni; ma, al tempo stesso, sono degli specchi che riflettono la società borghese del tempo tanto in profondità da arrivare a esporne i meccanismi vitali. Lungi dal riflettere un piccolo mondo antico scomparso per sempre, i romanzi della Austen, proprio riproducendo i settori più vivaci della società inglese in un periodo di fondamentali trasformazioni provocate da un’incipiente frenetica caccia al profitto, ci offrono la fotografia di uno “ieri” di cui non è difficile riconoscere la continuità con l’“oggi”. Bisogna tenere presente però che, proprio perché le molle vitali della società borghese – profitto economico e prestigio sociale – sono osservate dal punto di vista del sesso subalterno, che è escluso dall’avventura dell’autoaffermazione e non può nemmeno discuterne, si potrà cogliere il punto di vista della Austen solo partendo dal linguaggio da lei elaborato per esprimersi in questo ambito vietato. È quindi dal sottile lavoro del suo “pennellino” che si deve partire per capire la sua importanza come “inventrice del romanzo moderno”. È lo stile che, nella sua adeguata rispondenza alla percezione e alla psicologia postmoderna, rende ragione del persistente successo dei sei romanzi, tra i pochi classici che si continuano a leggere innanzi tutto per il piacere della lettura. Frutto del suo talento più genuino, ampiamente testimoniato dagli scritti giovanili, ma anche di una robusta tradizione inglese che va dai Canterbury Tales a Erewhon, il linguaggio espressivo che, in Mansfield Park ed Emma, raggiunge vette di tanto sottile perfezione nel riprodurre l’ambigua problematicità del reale, è quello dell’imitazione parodica e della citazione ironica. Si tratta di un linguaggio doppio e indiretto, che non s’impegna mai in una presa di posizione precisa: il lettore non può dire con certezza da che parte stia l’autrice, se da quella della voce narrante o di questo o quel personaggio, perché in realtà, come ogni buon regista, la Austen sta con tutti i suoi personaggi e con nessuno Introduzione IX in particolare; e proprio questa “cinematografica” agilità e sostanziale inafferrabilità costituiscono l’essenza del suo stile “camaleontico”. Mentre negli scritti giovanili rivolti alla famiglia la parodia era aperta e caricaturale, e quindi facilmente comprensibile, nei romanzi della maturità, destinati alla pubblicazione, l’imitazione parodica si fa sempre meno visibile, più sottile e ambigua, fin quasi a confondersi con una versione realistica del parodiato, se non fosse che per qualche piccolo scarto o momentanea sottolineatura – allusioni così leggere che, se non si conosce l’oggetto della parodia, è facile, scambiandole per ridondanze o incongruenze insignificanti, leggere i romanzi letteralmente come racconti seri. Infatti, questo è quanto è frequentemente successo: dato che il bersaglio della parodia della Austen era la letteratura moralistica contemporanea – tutti quei conduct book, oggi dimenticati, che si proponevano di educare le fanciulle alla passività e alla serietà, secondo un ideale femminile che alla scrittrice doveva apparire del tutto contro natura – le sottili riscritture parodiche che ella ne fa nei suoi romanzi sono state lette spesso come seri racconti didattici, senza tener in alcun conto le sue dichiarazioni esplicite: Non potrei mettermi a scrivere un romanzo serio se non allo scopo di salvarmi la vita, e se fosse proprio indispensabile che continuassi, senza mai lasciarmi andare a ridere di me o degli altri, allora sarei certo impiccata prima di finire il primo capitolo. Con un simile talento comico e condizionata da un ambiente che approvava la letteratura femminile solo quando promuoveva gli ideali “nazionali”, alla Austen non restava altra strada che vestire i panni di moraliste come Charlotte Lennox o Jane West o Hannah More, e produrre, come loro, un suo romanzo a contrasto (Sense and Sensibility), evangelico (Mansfield Park) o donchisciottesco (Emma e Northanger Abbey). Ma le sue versioni sono costruite in modo da risultare ambigue e non convincenti, anzi sconcertanti. Creano nel lettore un contrasto tra le reazioni X Introduzione emotive e i giudizi morali: i personaggi presentati come “cattivi” gli sono più simpatici di quelli “buoni”, e questo innesca un processo di riflessione che richiede più di una lettura (come nel noto caso di Emma), per concludersi poi con la constatazione che ogni nostro giudizio non può che essere parziale e condizionato da un qualche interesse personale e, comunque – essendo destinato come tutte le cose a mutare nel corso del tempo – non vale la pena di darvi eccessiva importanza. Questa la tecnica che Ford, il teorico del romanzo impressionista, tanto ammirava in Mansfield Park, rimanendo Orgoglio e pregiudizio il suo libro preferito: come rendere progressivamente inaffidabile la voce narrante, costringendo così il lettore a impegnarsi in una costruzione o “riscrittura” personale del racconto. Nella storia della ricezione della Austen ci sono sempre stati lettori che hanno avvertito l’ironica apertura del suo linguaggio narrativo, a cominciare dal vittoriano Richard Simpson, che in Mansfield Park rilevava una contraddizione evidente tra la narratrice onnisciente e la costruttrice del romanzo. Ma l’immagine che si sarebbe imposta era, invece, quella della scrittrice semplice e diretta, che proprio in quegli anni si andava costruendo negli scritti biografici dei famigliari: con il Memoir (1870) e le Letters (1884), ad opera dei nipoti J. E. Austen-Leigh e Lord Brabourne, si comincia a occultare quella che è la molla più autentica della sua ispirazione, l’irrefrenabile e dissacrante istinto comico-parodico, per attribuirle invece la caratteristica opposta (più consona a una proper lady vittoriana), il candour, ossia l’ingenuità e la sincerità; e per meglio “oscurare” la parodia, si riduce al minimo la rilevanza del background socio-culturale, creando il mito della vita isolata e priva d’esperienze. Gli studi storico-culturali e letterari degli ultimi decenni ci consentono di giustificare storicamente la modernità del suo linguaggio e di liberare la scrittrice dalla “maschera di ferro” vittoriana che, appiattendola in un’autrice seria e didattica, l’ha trasformata in un’icona della Englishness, responsabile di aver divulgato l’ideologia dell’imperialismo Introduzione XI britannico nel mondo. Tuttavia identificare, come fa Edward Said, l’autrice di Mansfield Park con la sua maschera vittoriana, trascurando del tutto il linguaggio formale, impedisce di accedere a quella dimensione critica e metanarrativa su cui poggia la rilevanza di Jane Austen come romanziera e “nostra contemporanea”. Come emerge chiaramente dalle numerose biografie apparse negli ultimi anni, la Austen non visse affatto solitaria e ignara come “il tordo che canta sul ramo del giardino”. Per una gentildonna della sua classe sociale – gli Austen appartenevano alla pseudo-gentry, ossia alla piccola aristocrazia terriera, che non possedeva terra – si può dire che Jane, a partire dall’età di sette anni, sia sempre in giro: dai pensionati scolastici (Oxford, Southampton, Reading), alle frequenti lunghe visite presso parenti e amici (Ashe, Deane, Rowklings, Manydown, Godmersham, Stoneleigh Abbey), alle gite estive (Lyme, Ramsgate), ai soggiorni a Bath (dove vivrà con la famiglia per cinque anni) e a Londra (dove trascorrerà, con evidente piacere, frequenti periodi presso il fratello prediletto, Henry, e sarà anche ricevuta a Carlton House dal bibliotecario del Principe reggente). Non c’è, inoltre, alcuna prova che Jane non amasse la città, e Bath in particolare, mentre è molto più probabile che, come suggerisce David Nokes, la mancata produzione letteraria negli anni trascorsi nella celebre stazione balneare sia da attribuirsi ai preponderanti e congeniali impegni mondani. Sarà un caso, ma le lettere di quel periodo sono scomparse praticamente tutte, mentre il fratello Henry si dimenticherà addirittura di ricordare Bath nella sua Biographical Notice (1818): quali innominabili segreti dovevano contenere le sue lettere, e non solo di quel periodo, visto che la maggior parte fu bruciata (dalla sorella e dalle nipoti) e il resto censurato con numerosi tagli di forbice? Semplicemente perché Jane non era affatto il modello di proper lady, la Jane Bennet o la Fanny Price che i suoi parenti vittoriani avrebbero desiderato; era invece eccentrica e orgogliosa, disincantata e irridente come Elizabeth Bennet XII Introduzione o Mary Crawford. Questo non deve stupire: Jane era cresciuta in libertà, in un ambiente intellettualmente vivace e stimolante, insieme ai numerosi fratelli e agli allievi del padre. Il reverendo George aveva studiato a Oxford e sposato la nipote del preside, Cassandra Leigh, una donna dotata di spirito comico e di buonsenso, che sapeva trattare con i giovani e, ben diversamente dal Sir Thomas di Mansfield Park, promuoveva le recite domestiche. La giovane Jane poté così scrivere sul periodico fondato dai fratelli studenti a Oxford, recitare nelle commedie che, durante le vacanze, andavano in scena nella rimessa, e comporre tanti burlesques e nonsense, parodie e brevi commedie, per gli applausi dei famigliari; del padre, in particolare, che la incoraggiò sempre, regalandole quaderni e scrittoio, e soprattutto contattando ripetutamente gli editori per la pubblicazione dei suoi primi romanzi. A Steventon Rectory e Chawton Cottage, sebbene immersi nella campagna inglese, non giungeva, com’è stato ripetutamente scritto, soltanto l’eco dei grandi avvenimenti che agitavano il mondo di allora; arrivavano invece testimonianze dirette e protagonisti, anche dai punti più caldi: il figlio del governatore dell’India, Warren Hastings, e più tardi la figlia, la cugina Eliza, che aveva sposato il Conte de Feuillide, ghigliottinato durante la Rivoluzione Francese; i fratelli Frank e Charles, in servizio in Marina durante la guerra con la Francia; le lettere dal Grand Tour da parte del fratello Edward, adottato dai Knight ed erede al titolo di baronetto; dalle Indie occidentali, resoconti dalla proprietà in Antigua, di cui il Reverendo Austen era curatore, o notizie tristi, come la morte del fidanzato della sorella, a Santo Domingo, durante una spedizione contro i francesi che sostenevano la ribellione degli schiavi. Solo tenendo conto di questo quadro si può capire come la Austen abbia potuto maturare un’ottica e una capacità critica maschili, così da poter misurare perfettamente i limiti della condizione femminile, senza lasciarsi sviare dalla retorica della domestic ideology e dello zelo nazionalistico. Fin dai juvenilia si dimostra ben consapevole che i tanto Introduzione XIII esaltati ideali morali non sono che la copertura, pomposa quanto inconsistente, sotto cui agiscono le onnipotenti forze economiche che determinano il destino delle persone e di fronte alle quali non esistono amore, amicizia, sentimenti. La giovane Jane ne farà una bruciante esperienza, tanto indimenticabile che si ritrova, con diverso rilievo, in tutti i suoi romanzi. A venti anni s’innamora perdutamente di Tom Lefroy, venuto a trovare la zia nella vicina parrocchia di Ashe, e si aspetta “la dichiarazione” quando la famiglia di lui, considerandola troppo povera, lo allontana precipitosamente per poi fargli sposare alcuni mesi più tardi una donna con una ricca dote. Jane Austen era molto graziosa, con grandi occhi scuri e un bel portamento, come Elizabeth Bennet o Emma. Nonostante fosse senza dote, ebbe molti corteggiatori, tra cui una proposta importante come quella di Harris BiggWither, erede di Manydown Park. Jane accettò la sera, per poi rifiutare la mattina. Al di là degli ipotetici rimpianti per una decisione dovuta forse, secondo i maligni, ai consigli non disinteressati della sorella, è certo che, se Jane Austen fosse diventata la padrona di Manydown, noi non avremmo i tre capolavori qui pubblicati. Se infatti, senza amare il giovane Bigg-Wither, avesse ceduto a quella che, come ben vedeva Auden, è la divinità nel mondo dei suoi romanzi, la ricchezza, come avrebbe poi potuto scriverne le raffinate descrizioni parodiche in Mansfield Park e in Emma? Avrebbe potuto mai Charlotte Lucas essere l’eroina di Orgoglio e pregiudizio? Rimarginata con il tempo la ferita dell’abbandono di Tom Lefroy e abituatasi al prestigio sociale di una Mrs Bigg-Wither, come avrebbe potuto coltivare una rabbia “politica” che, invece, il passare degli anni, la crescente povertà e l’inevitabile perdita d’importanza in società hanno mantenuto così viva? I suoi romanzi sono delle prese di posizione politiche sulla condizione civile ed economica della donna, espresse, come nelle commedie femminili settecentesche, con garbo, spirito, humour, in modo da suscitare la critica nel lettore, pur senza contestare apertamente le leggi patriarcali. XIV Introduzione Orgoglio e pregiudizio è il romanzo più popolare della Austen, tradotto e adattato per il cinema, il teatro, la televisione. “Il più grande miracolo della letteratura inglese” (secondo l’incontestata definizione di Farrer) deve il suo fascino soprattutto al fatto che, rivisto per la pubblicazione sulla scia del successo di Sense and Sensibility (1811), ha mantenuto intatto il suo nucleo di energia e ottimismo giovanili. La prima stesura, intitolata First Impressions, risale infatti al 1796-97 e Orgoglio e pregiudizio rimane in gran parte l’opera di una scrittrice di venti anni e, come i sogni dei ventenni, non può che avere la forma del romance. Dei sei romanzi Orgoglio e pregiudizio è quello che più si avvicina al romanzo “rosa”: le traversie della protagonista, immersa nel solito minaccioso mondo borghese, si concludono con la salvezza, anzi con un trionfo, personale e sociale, la conquista dell’amore e della ricchezza. Il romanzo è chiaro e luminoso, e l’intreccio scorre senza che si avverta mai l’autrice “lavorare” contro la narratrice: la scrittrice matura non vuole toccare l’ottimismo della giovane Elizabeth e si limita a tratteggiare il chiaroscuro del quadro per sottolineare l’eccezionalità del racconto e la sua natura di favola: la realtà, di solito, è ben diversa e non così facilmente superabile. Ritorna infatti lo stesso tema di Sense and Sensibility: la condizione della donna in una società che la valuta solo in rapporto all’entità della sua dote. Elizabeth e la sorella Jane, pur appartenendo allo stesso rango di Darcy e Bingley, non hanno una dote e l’orgoglio dei Darcy e dei Bingley per il proprio prestigio economico detta i loro “pregiudizi” di superiorità. Dopo aver pubblicamente umiliato Elizabeth al ballo, Darcy s’innamorerà di lei e le chiederà di diventare sua moglie, pur dichiarandosi consapevole che quel matrimonio rappresenta per lui una degradazione sociale. Ma Elizabeth lo rifiuterà: anche lei ha il suo orgoglio e suoi “pregiudizi”, legati alle proprie capacità intellettuali; lo accetterà, alla fine, solo quando lui avrà imparato, o lei vorrà credere che lui abbia imparato a valutarla per altre virtù che non siamo la posizione economica della sua famiglia. Nel romanzo “rosa” della Austen sarà però Darcy a dover superare le “prove” per dimostrarsi, alla fine, degno di Elizabeth. Introduzione XV La contrapposizione, solo apparente, tra orgoglio e pregiudizio offerta dal titolo si rivela in realtà un’ironia diretta ai moralisti contemporanei e ai loro “lunghi capitoli di saggezza o di speciose sciocchezze” impiegati per distinguere caratteristiche così ambigue, la cui valutazione come pregi o difetti dipende più che altro dal punto di vista da cui si guarda e, in ultima analisi, dall’esito degli avvenimenti. Più che a considerazioni filosofiche, il lettore è invitato a condividere con l’autrice il piacere di vivere questa commedia romantica identificandosi con Elizabeth: ecco perché il ritmo della narrazione, le inquadrature, il dialogo hanno una spontaneità assoluta. A trionfare sulla scena è infatti una witty heroine, in barba a tutte le prediche contro lo spirito femminile: che “un uomo di buon senso non sposerà mai una femmina spiritosa” o che “lo spirito sia il talento più dannoso che una donna possa avere”, foriero di sicura rovina. Elizabeth, “la creatura più deliziosa mai apparsa sulla stampa”, discende direttamente dalle commedie di Susanna Centlivre e di Hannah Cowley ed è spiritosa dal principio alla fine, con alcune scene eccelse, come quella in cui Lady Catherine vorrebbe obbligarla a promettere di rinunciare a Darcy. Ma in Orgoglio e pregiudizio la battaglia in favore del wit è di portata ben più ampia che nella commedia del Settecento. Wit e comicità non sono solo espedienti per trattare di argomenti vietati, come le leggi patriarcali sulla proprietà femminile: così avviene per esempio nel caso di Mrs Bennet, che “deve” essere sciocca perché solo come fool può lamentarsi apertamente delle leggi che, vincolando la proprietà ai maschi, alla morte del padre buttano le femmine letteralmente in mezzo alla strada, alla mercé della sadica arroganza dei vari Mr Collins. La centralità strutturale del wit in Orgoglio e pregiudizio sottintende un’analisi profonda che anticipa Foucault nell’individuare i motivi per cui l’establishment lo aborre: la “vivacità della mente” femminile è espressione di vitalità nel senso più completo del termine, mentale e fisica, e quindi sessuale, che è l’ambito più temibile perché incontrollabile nella sua irrazionalità. Il wit, scrivono i teorici settecen- XVI Introduzione teschi, è una prova d’agilità intellettuale, una dichiarazione di forza, l’invito a una sfida che, tra i due sessi, non può non assumere una dimensione erotica, dove le parti tradizionali possono invertirsi e la donna, da preda, diventare cacciatore. “Sono sempre un gatto, quando vedo un topo”, scrive con consapevolezza la Austen, e, alla fine del romanzo, Elizabeth spiegherà di aver “vinto” perché, lasciando da parte l’atteggiamento femminile convenzionale, ha attaccato Darcy da pari a pari, con la sua stessa orgogliosa autostima, coinvolgendolo in una sfida intellettuale in cui lei è stata vincitrice, anche se con l’aiuto di un bel paio di occhi scuri. Orgoglio e pregiudizio si chiude con la sorella di Darcy in apprensione alla vista del temuto capo della famiglia che, di buon grado, si lascia prendere in giro dalla moglie: prima ancora che nella gratificante conclusione “rosa”, la vitalità di questo capolavoro sta nella forza che anima il racconto, e cioè l’eros che scaturisce dalla vivacità dello spirito femminile, e insieme nel piacere catartico di questa sua eccezionale libera manifestazione. In Mansfield Park, considerato ormai unanimemente, quando non il capolavoro, certo il suo romanzo più significativo, l’atmosfera “leggera, luminosa e scintillante” di Orgoglio e pregiudizio lascia il posto al senso di costrizione che accompagna la condizione femminile nella realtà della società patriarcale. Basta ascoltare la narratrice onnisciente, in scena nel prologo e nell’epilogo di questa dark comedy, per capire subito, dai princìpi mercenari e misogini che informano le sue parole, che ci troviamo di fronte a un portavoce della morale ufficiale, una Hannah More o qualche altro educatore evangelico, esperto nell’insegnare alle fanciulle a stare al loro posto nella società patriarcale. Infatti, per poter condurre il suo attacco ai nemici della libertà femminile e colpire il sistema nei suoi simboli più rappresentativi, la Austen ha dovuto, raffinando al massimo la sua tecnica “camaleontica”, adottare il linguaggio di un esponente della morale ufficiale. Gli effetti della sua performance parodica si sono concretizzati nel tempo in una gran varietà d’interpretazioni Introduzione XVII critiche contraddittorie, testimonianza irrefutabile che il romanzo non ha certamente la dimensione monologica di un racconto didattico. Se i princìpi della narratrice fossero anche quelli della Austen, ha scritto il romanziere Kingsley Amis, Mansfield Park sarebbe davvero un libro immorale. Ma proprio questo era l’effetto che l’autrice intendeva provocare: far percepire al lettore l’immoralità di un mondo come quello di Mansfield, dominato dal solo interesse economico, ipocritamente nascosto dietro una morale duttile e malleabile. In un mondo simile per la donna non c’è riparo dalla precarietà, anzi, più alta è la sua posizione sociale, più esposta è al rischio di finire sacrificata al dio Denaro, come Maria Bertram, o condannata come Mary Crawford per non sapersi adeguare all’ipocrisia del rigido modello femminile che, invece, la “cenerentola” Fanny Price saprà illustrare così bene da essere riconosciuta alla fine come la vera erede di Mansfield Park. Fanny possiede, a dire della narratrice, le tre virtù cardinali prescritte nel popolare Coelebs in Search of a Wife (1808) della More: è umile, generosa e self-denying, ossia sempre pronta a sacrificarsi per gli altri. Per lei, povera, l’unica “dote” consiste nella capacità di esemplificare l’ideale femminile utile all’establishment, mostrando che l’unica strada per l’affermazione personale è, paradossalmente, quella della passività e della rinuncia. Allevata in casa dello zio insieme alle sue figlie, Fanny dimostrerà di aver saputo apprendere quei principi morali che le cugine non hanno appreso e, per questo, diventerà l’amata nuora di Sir Thomas. Ma, come mai, ci chiede la retorica della narratrice moralista, Fanny ha appreso i giusti princìpi e le cugine no? Ma perché Fanny è stata educata rigidamente fin da piccola, secondo le regole propugnate dalla More nelle sue Strictures: frustrata e umiliata in continuazione, “abituata a esser contraddetta… a non aver fiducia in se stessa, a subire i torti senza lamentarsi o difendersi e a sentirsi sempre dire di no”. Una simile ricetta per tirar su donne perfette non poteva certo esser condivisa dalla creatrice di Elizabeth Bennet, cui “le immagini di perfezione facevano venire il voltastomaco XVIII Introduzione e la rabbia” e che, anche qui, non rinuncia a dare adeguata espressione alla sua parte più autentica: eccola scendere in campo nei panni della witty heroine, Mary Crawford, questa volta opportunamente confinata nel ruolo di antieroina. Infatti, proprio assolvendo la sua funzione di esemplificare un’educazione sbagliata, la “cattiva” Mary è libera di esprimersi a tutto tondo, e d’attaccare addirittura il patriarca, accusandolo di sacrificare consapevolmente la figlia Maria alla stessa divinità mercenaria che ha presieduto l’“impresa” coloniale ad Antigua con la quale Sir Thomas si è rifatto del denaro sperperato dal figlio maggiore nei bagordi di Brighton. Con un sarcasmo che sconfina nel pornografico, Mary attacca anche l’ambiente alto della marina, dove è cresciuta, e, con disincantata ironia, fa emergere le motivazioni economiche che stanno alla base della “vocazione” religiosa di Edmund, evocando lo scandaloso mercato delle rendite ecclesiastiche. Alla fine, Mary sarà debitamente punita: per il suo wit irridente e per la trasgressiva generosità nel proporre di riaccogliere a casa la disgraziata Maria che ha abbandonato un marito sposato solo per la sua ricchezza. Nel mondo di Mansfield l’umana generosità di Mary si chiama “immoralità”. Mary Crawford è apparsa a molti lettori come la vera eroina di Mansfield Park e, in un certo senso, lo è: non della storia raccontata dalla narratrice, ma di un’altra potenziale versione che è costantemente suggerita dalla regia del racconto. Davanti agli occhi del lettore, infatti, vengono fatte passare scene e descrizioni dell’interiorità dei personaggi che mostrano una realtà diversa da quella riferita dalla voce narrante. Per esempio, Fanny sarà anche umile, ma il suo linguaggio mostra sempre il suo io in primo piano e comunque al centro della situazione. La narratrice la loda per il suo “senso del dovere”, adducendo a prova due decantati rifiuti: quello di partecipare alla recita e quello di sposare Henry Crawford. Ma questa non è la verità: Fanny ha accettato di recitare come gli altri, ed è solo l’arrivo di Sir Thomas che impedirà la recita; quanto poi a Henry Crawford, Fanny sta ormai per accettarlo, quando lui fugge con Maria. Introduzione XIX Tutto il romanzo è costruito con una tecnica raffinata di suggerimenti calcolati per produrre il senso di una potenziale molteplicità di esiti. La Austen era molto soddisfatta del fatto che il fratello Hernry, giunto ormai agli ultimi capitoli, non riuscisse ancora a indovinare come sarebbe andato a finire. Più che alla conclusione, l’autrice è interessata a suscitare nei suoi lettori il senso dell’“apertura” e dell’imprevedibilità del reale da contrapporre ironicamente alle dogmatiche certezze dei moralisti. Gli happy endings dei romanzi sono stati spesso ritenuti insoddisfacenti rispetto alla complessità costruita nel corso del racconto: ma essi sono “obbligati”, nel senso che sono quelli convenzionali delle forme narrative parodiate. In Mansfield Park, dove la “prudente” Fanny dagli occhi bassi è l’eroina della narratrice, e l’incauta Mary, piena di sospetta energia fisica e mentale, quella dell’autrice, la conclusione non potrà che vedere il trionfo di Fanny, e perché questo è il racconto della narratrice onnisciente e perché nella realtà succede spesso che vinca chi ha imparato ad adeguarsi ipocritamente alle richieste del potere. Ma, significativamente, i lettori hanno decretato che, sul piano della simpatia istintiva, la vincitrice sia la witty heroine, con la sua “immorale” conclusione che sarebbe stata più “umana” e soddisfacente per tutti. È solo apparentemente curioso il fatto che Mary riscuota l’ammirazione soprattutto del pubblico maschile, mentre Fanny trovi i suoi più fervidi difensori in quello femminile: è l’effetto dell’arte della Austen, la quale non permette che Fanny sia solo il piatto exemplum della narratrice evangelica, ma aggiunge alla sua caratterizzazione tutto il pathos e la sofferenza dell’innaturale processo educativo attraverso cui la povera piccola Fanny diventa quel “mostro di ipocrisia e di orgoglio”, in grado sopravvivere e prosperare nel mondo di Mansfield. Mary Crawford, l’eroina che rifiuta di “farsi comandare dall’orologio”, è espressione della visione giacobima e libertaria di Lovers’ Vows, la popolare e “scandalosa” commedia di Mrs Inchbald, che nel romanzo sta a suggerire una potenziale versione alternativa al racconto della narratrice. Se il XX Introduzione teatro è condannato dalla voce narrante di Mansfield Park come sinonimo di libertà e di disordine, proprio per gli stessi motivi appare invece esaltato dall’autrice nel confronto con la vita sociale, dove si recita ugualmente, ma una parte non scelta cui, il più delle volte, non ci si può sottrarre. Con Mary Crawford la Austen mantiene vivo lo spirito della commedia femminile settecentesca, in un periodo in cui anche il palcoscenico si va chiudendo alle commediografe, spingendole a comporre opere per la lettura. A Mansfield la recita non si farà più e la sera o si ascolteranno i racconti di Sir Thomas o si leggeranno i classici, attività che favoriscono la passività e la solitudine femminili. Nell’ottica di questa tradizione femminile, appare marginale chiedersi se la Austen fosse tory o radicale. È vero che sul piccolo palcoscenico di Mansfield Park vengono fatti passare in prospettiva cinquant’anni di storia sociale inglese; ma è altrettanto vero che il punto di osservazione rimane, senza oscillazioni, quello della condizione femminile. Lo conferma anche il titolo del romanzo, ambiguo quanto lo stile: a parte il significato letterale (“campo dell’uomo” può stare per “società patriarcale”), Mansfield richiama il nome di un noto giudice e uomo politico (1705-1793), fondatore del codice mercantile e autore di celebri sentenze, tra cui quella sull’impossibilità giuridica della schiavitù in Inghilterra – un’affermazione di grande effetto e di poca sostanza, proprio come l’atteggiamento nei confronti delle donne, dove la teoria è ben diversa dalla pratica. Che il tema della schiavitù evocato dal titolo sia centrale nel romanzo è stato messo in evidenza anche nella tanto discussa trasposizione cinematografica di Patricia Rozema (USA, UK, 1999): non c’è ragione di credere, osserva perfino Said, che Sir Thomas non si comporti a Mansfield come ad Antigua, ossia da padrone di schiavi. Il tema della schiavitù femminile sarà ripreso in Emma con implicazioni più esplicite, eppure smorzate dall’apparente pacata serenità di questo secondo romanzo della maturità, l’ultimo da lei pubblicato (1816). Anche dopo Introduzione XXI il successo critico di Mansfield Park, Emma continua a contendere a quel romanzo il titolo di capolavoro della scrittrice per la sua importanza sul piano dell’innovazione e della perfezione formale. Emma è in fondo un Orgoglio e pregiudizio scritto vent’anni dopo; questa volta, anziché lasciarsi assorbire dalla gratificante vicenda della protagonista, l’autrice appare tutta concentrata sulla propria arte: usa l’eroina come “occhio narrativo” principale, ma se ne dissocia, facendone emergere i limiti e la parzialità. Non più necessaria, nemmeno come bersaglio, la narratrice onnisciente è praticamente scomparsa, ridotta alla funzione di coro, ad aprire o chiudere un capitolo con qualche frase di comune saggezza. Tutto quello che l’autrice ha da dire sarà detto attraverso la pratica artistica, la techne. Il racconto passa tutto attraverso la coscienza della protagonista, senza la quale quindi non esisterebbe l’intreccio, e che è diventata ora il palcoscenico su cui è stata trasferita la commedia. Ed è in questo ambito della propria interiorità che Emma diventa spettatrice di se stessa. Come si vede, l’introduzione di Lovers’ Vows in Mansfield Park aveva implicazioni ben più ampie di una semplice contrapposizione ideologica tra morale giacobina e antigiacobina: nel passaggio dalla tecnica narrativa di Mansfield Park a quella di Emma si riflette infatti l’evoluzione dalla commedia settecentesca al romanzo moderno. È notorio, infatti, che Emma anticipa le tecniche cosiddette del “punto di vista circoscritto” di Henry James, del “personaggio narratore” di F. M. Ford e di Joseph Conrad e le conclusioni “aperte” di tanti romanzieri moderni. “Il libro dei libri” non è però un miracolo: il suo stile camaleontico e “quasi cinematografico” è ben radicato nel linguaggio espressivo della sua epoca e il “lavoro” della Austen può misurarsi solo sul background culturale e artistico della Reggenza. L’idea generatrice di Emma è ancora quella di parodiare la letteratura moralistica: questa volta si tratta di una forma già parodiata in precedenza in Northanger Abbey, quella molto diffusa del “don Chisciotte femmina”, derivata dall’omonimo romanzo di Charlotte Lennnox. Emma pare XXII Introduzione rispettare perfettamente la formula: l’eroina ha un’alta opinione di se stessa, agisce di testa propria, ignorando i consigli dell’ottimo amico Mr Knightley e perciò alla fine sarà punita; le sue trame andranno deluse e lei dovrà ammettere di aver avuto torto e riconoscere la superiore saggezza del suo “consigliere”. Ma anche in questo romanzo il monologismo proprio del racconto didattico viene dissolto dalla pluralità dei potenziali sviluppi e interpretazioni che accompagna anche i fatti apparentemente più trascurabili e insignificanti. Emma consente, a ogni rilettura, interpretazioni sempre diverse, perché il romanzo ha, sosteneva Trilling, l’insondabilità propria di una persona reale. Ebbene, questa tanto celebrata scrittura, capace di riprodurre l’inafferrabile polivalenza della realtà e della vita, è frutto della lezione dell’amato William Gilpin, popolare divulgatore dei princìpi del pittoresco. La Austen guarda alla società e alla vita in genere con l’occhio del “viaggiatore pittoresco”, consapevole che la “realtà” cambia con il variare del punto di vista e che il punto di vista da cui ci si trova a guardare è di fondamentale importanza nel determinare le nostre valutazioni. Anche condividendo lo stesso punto d’osservazione, la vista varia a seconda e degli occhi che guardano e del momento in cui si guarda. Solo il trascorrere del tempo dirà se le nostre valutazioni erano giuste o sbagliate. Per esempio, Emma sbagliava nel voler far sposare Harriet e Mr Elton, perché Mr Elton “sposa” un’altra, ma il racconto lascia intravedere che quel matrimonio si sarebbe potuto anche realizzare, se è vero che la possibilità di un’unione ancor più “sbagliata”, quella tra Harriet e Mr Knightley, è tanto reale da spaventare profondamente Emma. Entrambi i protagonisti appaiono guidati, nelle loro valutazioni, da motivazioni personali, che essi chiamano “interesse affettuoso” o “far del bene al prossimo”: in realtà si tratta sostanzialmente, nel caso di Mr Knightley, dell’amore, ancora inconsapevole, per Emma; e, nel caso di Emma, dell’impulso narcisistico a primeggiare sempre e dovunque. Mr Knightley appare come l’eroe dotato di tutte le virtù, perché è visto attraverso gli occhi di Emma, la quale, essendo stata praticamente educata da lui, ne condivide il Introduzione XXIII modo di vedere e non è quindi in grado di giudicarlo. Ma se Sir Thomas incarnava l’interesse economico che si trasforma in principio morale, Mr Knigtley rappresenta quei principi morali diventati valori sociali indiscussi e “naturali”. Per Emma si tratta di valori sociali che condizionano senza scampo la sua realizzazione personale: primo fra tutti, l’obbligo del matrimonio. Basta considerare le storie dei personaggi femminili – da Miss Churchill e Miss Taylor, a Harriet, a Jane Fairfax, a Miss Bates – per rendersi conto che a Highbury le donne non sono più padrone del proprio destino di quanto non lo fossero a Mansfield. Emma, pur appartenendo alla famiglia più importante del luogo, “dovrà” sposarsi, se non vuole cedere il passo a una qualsiasi Mrs Elton, o, addirittura, fare una fine peggiore di quella di Miss Bates. Dovrà, infatti, rendersi conto che a una donna non serve ormai nemmeno essere ricca per sfuggire alla schiavitù del matrimonio: come zitella ricca, la sua situazione in società sarebbe addirittura peggiore di quella di una zitella povera come Miss Bates, perché una donna ricca può restare zitella solo per sua scelta, rivelandosi così una ribelle meritevole di essere schernita senza pietà. Che Emma si sposi – senza passione ma per mantenere la sua posizione di first lady di Highbury – non inficia, secondo la Austen, le sue prospettive di futura felicità. L’importante è che lei sia convinta di essere innamorata: ognuno ha il proprio concetto di amore. Questa è la lezione del libro nella sua grande apertura: ed è lo stesso Mr Knightley che, alla fine, ci svela che la storia del don Chisciotte femmina è servita solo da trama a una commedia che potrebbe, più giustamente, intitolarsi Tanto strepito per nulla. Infatti, dopo che tutto il romanzo s’è sviluppato intorno al quesito centrale su “chi dei due protagonisti avesse ragione” riguardo al matrimonio di Harriet e Robert Martin, Mr Knightely conclude così: “Col tempo, puoi star certa, l’uno o l’altro di noi cambierà opinione; e nel frattempo non è necessario parlarne più di tanto”. Ma il senso di normalità prodotto dalla conclusione “aperta”, con le voci dei vicini che dicono ognuno la loro XXIV Introduzione sulla nuova coppia, fa passare quasi inosservato il particolare rivoluzionario di questo matrimonio che, ancora una volta, rovescia il lieto fine tradizionale: Emma non abbandona la propria casa per seguire il principe azzurro nel suo castello, ma rimane nella sua famiglia, dov’è la padrona amata e rispettata, mentre sarà Mr Knightley a lasciare la sua Donwell Abbey per la meno prestigiosa Hartfield, e con il compito di far la guardia al pollaio! Emma è la prima eroina moderna perché è dotata d’amor proprio, spiegava Trilling, e la Austen sapeva che, per questo, non sarebbe stata un’eroina molto simpatica: Emma rifiuta di sottomettersi ed è sempre alla ricerca dell’autoaffermazione. Alla fine, sull’importanza di questo capolavoro i conti tornano: una forma moderna per esprimere una personalità moderna. “Oh, io merito sempre di essere trattata nel migliore dei modi, perché non accetto altro!”: Emma appartiene alla stessa categoria di Elizabeth e di Mary Crawford; e queste tre figure femminili sono più che sufficienti per scrivere la vera biografia dell’“inventrice del romanzo moderno”. La fiducia in se stesse e l’amor proprio che esse indiscutibilmente incarnano, oggi non più condannati apertamente come difetti da estirpare, sono tuttavia ben lungi dall’essere davvero efficacemente promossi: l’attualità di queste giovani donne sta proprio nell’energia con cui danno voce all’esigenza primaria di esprimersi criticamente e affermarsi all’interno della società. CRONOLOGIA DELLA VITA 1775-1787 Jane Austen nasce il 16 dicembre 1775 a Steventon. Suo padre, il reverendo George, ha studiato al St. John’s College di Oxford, ha sposato la figlia del rettore del college, Cassandra Leigh, donna spiritosa e vivace, che ama improvvisare versi e racconti. È rettore della parrocchia anglicana di Steventon, nella contea dello Hampshire. Jane è la seconda figlia di otto fratelli, sei maschi e due femmine; per tutta la vita resterà legata in modo particolare alla sorella maggior Cassandra, che come lei non si sposerà. È soprattutto il padre a occuparsi dell’istruzione delle due sorelle, incoraggiandole allo studio; nel 1782 Cassandra e Jane verranno mandate a Oxford presso Mrs Crawley e tra il 1783 e il 1787 studiano alla Abbey School di Reading. Tra i maggiori divertimenti di Steventon c’è il teatro: durante l’estate e in occasione delle festività natalizie gli Austen e i loro vicini mettono in scena un ampio repertorio. 1788-1794 Le sue prime prove letterarie, risalenti al periodo 1787-1795, vengono conservate in tre grandi quaderni manoscritti: si tratta di testi teatrali, poesie, racconti brevi e parodie dei generi letterari allora più in voga, in particolare i romanzi sentimentali. Nel 1793-94 si impegna in un’opera più ambiziosa, il breve romanzo epistolare Lady Susan. 1795-1800 Nel 1795 inizia a lavorare a Sense and Sensibility, che ha il titolo provvisorio di Elinor and Marianne e assume inizialmente la forma del romanzo epistolare. Nel 1796 conosce Tom Lefroy, un giovane e affascinante irlandese, che è XXVI Cronologia della vita nipote del rettore della parrocchia di un villaggio non lontano da Steventon: il matrimonio andrà a monte per l’opposizione della famiglia di lui. Tra l’ottobre del 1796 e l’agosto del 1797 stende la prima versione di Orgoglio e pregiudizio, con il titolo provvisorio di Prime impressioni. Nel 1798 o 1799 rifiuta, pare, la proposta di matrimonio di Samuel Blackhall, uno studente di Cambridge che all’epoca soggiornava dai Lefroy. Nello stesso periodo scrive l’ultimo dei suoi capolavori giovanili, Northanger Abbey. Le due sorelle Cassandra e Jane soggiornano spesso presso parenti e amici, soprattutto a Godmersham, dal fratello Edward, adottato da una famiglia di ricchi cugini, e a Londra, dall’altro fratello Henry. 1801-1802 Nel 1801 il padre, raggiunta l’età di settant’anni, lascia la parrocchia al figlio primogenito, James, e si trasferisce a Bath con la moglie e le figlie. Nel novembre del 1802 Jane Austen riceve un’altra proposta di matrimonio, quella del ventunenne Harris Bigg-Wither, discendente di una ricca famiglia dello Hampshire: in un primo momento l’accetta, ma la mattina dopo la rifiuta. Ci sono vaghe e contraddittorie testimonianze su altri episodi analoghi, sui quali però la protagonista resta sempre ironicamente reticente; peraltro dopo la morte della scrittrice la sorella, preoccupata della privacy e della rispettabilità della famiglia, distrusse molti documenti, in particolare buona parte del loro fitto epistolario. 1803-1809 Sono sempre numerosi i soggiorni della Austen presso amici e parenti, tra Bath, Londra, Clifton e il Warwickshire. Nel 1803 vende per dieci sterline i diritti di pubblicazione di Lady Susan all’editore Richard Crosby, che ne annuncia l’uscita ma non lo pubblica. Nel 1804 muore la sua amica più cara, Mrs Lefroy. Nel gennaio del 1805 muore anche suo padre, a Bath. La famiglia si trasferisce a Southampton, presso il fratello Francis, dove risiede Cronologia della vita XXVII fino al 1809: Jane Austen sarà l’amorevole zia dei suoi figli, così come di quelli dell’altro fratello Edward, rimasti senza madre. 1809-1817 Il fratello Edward installa la madre e le sorelle in un cottage di Chatown, all’interno delle sue proprietà dello Hampshire. Jane Austen riprende a lavorare ai suoi romanzi. Nel 1811 Thomas Egerton pubblica, anonimo, Sense and Sensibility, accolto favorevolmente dalle autorevoli riviste “Critical Review” e “Quarterly Review”. Tra il 1811 e il 1813 lavora alla stesura di Mansfield Park, che pubblica l’anno successivo, quando escono anche la nuova edizione di Sense and Sensibility e Orgoglio e pregiudizio. Tra il 1814 e il 1815 scrive Emma, che esce nel dicembre 1815: Walter Scott scrive sulla “Quarterly Review” che l’anonimo autore è un magistrale esponente del romanzo moderno, ma è uno dei rarissimi elogi della sua arte che la Austen potrà leggere nel corso della sua vita. L’anno successivo esce una seconda edizione di Mansfield Park, presso John Murray, lo stesso editore di Lord Byron. Nello stesso periodo scrive Persuasion, che verrà pubblicato postumo nel 1817, come Northanger Abbey. Nel gennaio del 1817 inizia a lavorare all’ultima opera, Sanditon (che prende il titolo dal nome della famiglia dei protagonisti), completandone la stesura e la revisione in meno di otto settimane. La sua salute aveva iniziato a peggiorare già da qualche mese: in aprile stende il suo testamento, a maggio viene condotta a Winchester per passare sotto le cure di un celebre chirurgo. Muore il 18 luglio del 1817; sei giorni dopo viene sepolta nella cattedrale di Winchester.