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Cascina Macondo
Centro Nazionale per la Promozione della Lettura Creativa ad Alta Voce e Poetica Haiku
Borgata Madonna della Rovere, 4 - 10020 Riva Presso Chieri - Torino - Italy
[email protected] - www.cascinamacondo.com
IL MISCUGLIO E L’OSSIMÒRO
racconto erotico
di Pietro Tartamella
Cascina Macondo, Scritturalia, domenica 6 novembre 2011
La parola “miscuglio” ha l’effetto di una catapulta. Mi scaglia lontano a un agosto degli anni
settanta quando seguivo Umbria Jazz col mio banchetto di libri.
Le radici sono una cosa importante, non soltanto come parte sotterranea degli alberi che, in questi
tempi autunnali di esondazioni di fiumi, torrenti, bombe d’acqua e rubinetti italici, sarebbe davvero
necessario averne sottoterra chilometri e chilometri per trattenere colline e argini che se ne vanno
alla deriva sulle case.
Le radici sono importanti anche nel senso di “cose antiche”, nel senso di “origine”. Accettare le
proprie radici è una virtù che molti non sanno più praticare.
Poi ci sono le “radici quadrate” che riguardano i numeri e la matematica, e anche quelle sono
importanti, perché gli uomini a volte sono uomini, a volte numeri.
La parola miscuglio contiene il prefisso latino “mis” che dà valore negativo o peggiorativo alla
parola alla quale è premesso. Per esempio “mis-fatto” (è un fatto brutto, un’azione cattiva…). Miscredente (è un credente che non crede, o fa finta di credere, un cattivo credente…).
Mis-cuglio? In verita “cuglio” non ha nessun significato e non esiste in italiano.
Forse allora “mi-scuglio”? Una sorta di duplicazione dell’allocuzione “mi scuso”. Ma nemmeno
“scuglio” esiste in italiano e non ha nessuna valenza semantica.
Miscuglio viene usato in italiano come sostantivo. Non esiste il verbo miscugliare.
Oltre al prefisso mis la parola ha il suffisso “uglio” che viene usato per formare sostantivi con
valore collettivo, e normalmente con sfumatura dispregiativa, come: guazzabuglio, subbuglio,
garbuglio, cespuglio, tafferuglio, intruglio, rimasuglio, farfuglio.
“Miscuglio” e “mescuglio” vengono dal verbo “mescolare” dal latino miscère o misculare che
significa appunto mescolare. Miscuglio dunque come “mescolanza confusa e non omogenea di cose
o sostanze diverse (anche in senso figurato).
“Farfuglio”, a dire il vero, non è un sostantivo con valore collettivo; è la prima persona singolare
del modo indicativo presente del verbo “farfugliare” che vuol dire parlare in modo disarticolato e
indistinto, balbettare, barbugliare. Però contiene un poco l’idea del “miscuglio” ovvero della
mescolanza confusa e non omogenea di cose o sostanze diverse, in questo caso sillabe e parole.
Mis-c-uglio contiene addirittura un prefisso e un suffisso a indicare una connotazione negativa della
parola. Ma togliendo il prefisso mis e il suffisso uglio, resta solo una consonante, la “c”, che non è
una parola! I misteri della lingua!
Basta abbinare un aggettivo di senso positivo alla parola che veicola una “negatività” che quella
parola acquista una connotazione positiva. Spesso infatti diciamo “è un bel miscuglio” per indicare
qualcosa che apprezziamo. Siamo di fronte a una specie di ossimòro avendo accostato due
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significati di senso opposto e contrario. Disgustoso piacere è un ossimòro. Ghiaccio bollente è un
ossimòro. Illustre sconosciuto è un ossimòro. Un bel miscuglio potrebbe essere un ossimòro. Ma la
stessa allocuzione “un bel miscuglio”, se la vestiamo di ironia, potrebbe continuare ad avere una
valenza negativa; saremmo in questo caso di fronte a un eufemismo, in quanto usiamo un aggettivo
(bel) al fine di attenuare il carico espressivo di ciò che si intende dire, perché ritenuto o troppo
banale, o troppo offensivo, osceno, o troppo crudo.
Negli anni settanta a Umbria Jazz migliaia di giovani si accampavano nei prati con le tende e
seguivano i concerti serali all’aperto sotto la luna e a volte sotto nuvole minacciose. Sui manifesti
campeggiavano come luci d’Aladino i grandi nomi di Dizzy Gillespie, Sarah Vaughan, Art Blakey,
Freddie Hubbard, Count Basie, Stan Getz, Charles Mingus… E poiché a quel tempo l’ingresso ai
concerti era gratuito, non sarebbero bastate né nuvole minacciose, né lune piene, a fermare la
variegata moltitudine di giovani che seguivano fedelissimi di paese in paese i loro Dei del Jazz.
Ricordo il treno speciale che l’organizzazione aveva messo a disposizione per trasportare quelle
migliaia di appassionati di jazz che si spostavano, orda assetata di birra, di musica e di gioventù, da
un luogo all’altro dell’Umbria. Un treno che alla fine della manifestazione si era ridotto a decine di
carrozze con i sedili di legno divelti, le scritte di vernice sui finestrini, il linoleum scollato dai
corridoi, le maniglie e la carta igienica finite in qualche tasca o in qualche zaino.
Ricordo le latrine da campo, baracche di legno, sempre troppo poche rispetto alla grande quantità di
pubblico, montate nei campi sportivi dove il gruppo musicale si sarebbe esibito. Le latrine avevano
una porta fatta con tela di juta sollevata da terra una cinquantina di centimetri. Se ti calavi i
pantaloni, da fuori ti vedevano il culo e lo stronzo uscire e cadere nella fossa scavata nel terreno.
Non c’erano le latrine di plastica come quelle che usano oggi tutte chiuse.
Umbria Jazz durava una settimana.
La prima sera, al primo concerto, mentre Gil Evans, Gerry Mulligan, Sonny Stitt, Lionel Hampton,
Chet Baker accordavano gli strumenti sul palco, erano in molti, specialmente le ragazze, ad
arrossire al pensiero di entrare in quelle latrine con la lunghissima coda di uomini e giovanotti che
aspettavano il loro turno. Le ragazze resistevano contorcendosi con stoico coraggio le budella. Ma
già la seconda sera con le orecchie immerse negli accordi di prova di McCoy Tyner, di Lee Konitz,
di Cecil Taylor, di Archie Shepp, la necessità aveva zittito i freni inibitori e anche le donne e le
ragazze entravano nelle latrine fregandosene del culo all’aria e dello stronzo.
Ricordo che il primo giorno tutti i bar, i ristoranti, le pensioni e gli alberghi, le panetterie, i
fruttivendoli e le farmacie del paese in cui si svolgeva la manifestazione erano aperti e accoglienti,
fiutando un buon affare con tutto quel pubblico che sarebbe arrivato, anche con un treno speciale.
Ma non immaginavano che sarebbe stata davvero un’orda di migliaia di persone che chiedevano di
andare in bagno, e in breve i bagni di tutti i locali pubblici erano intasati, e la confusione, le
lamentele, il caos, i petti nudi, i tatuaggi, le bottiglie vuote di birra sui marciapiedi, avevano finito
con lo spaventare a morte i commercianti. La voce si era sparsa in un battibeccobaleno e l’orda
trovò negli appuntamenti successivi di Perugia, Corciano, Umbertide, Bastìa Umbria, Gualdo
Tadino, Castiglione del Lago, Acquasparta, tutte le serrande chiuse e le strade deserte, con le auto
che i commercianti avevano stipato nel garage, o nei garage dei vicini o in quelli dei colleghi, o
sotto il letto. Nessuno si sarebbe aspettato un successo così grande e un così grande afflusso di
pubblico a Umbria Jazz. I paesi dell’Umbria erano troppo piccoli per poter accogliere una simile
moltitudine, e la situazione era presto sfuggita di mano. E pensare che la manifestazione era nata
dalle chiacchiere intorno al tavolo di un caffè del centro storico di Perugia. Carlo Pagnotta,
commerciante perugino appassionato di jazz, sognava un festival nella sua terra. Ne parlò con due
esponenti della allora neonata Regione dell’Umbria che condivisero l’idea, e coinvolsero il loro
collega al turismo. Fu stilato un programma artistico di massima con l’intervento di Alberto Alberti,
allora il principale manager italiano dei musicisti di jazz. La proposta approdò in giunta e fu
approvata.
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Il campo dove quelle migliaia di giovani si accampavano con la tenda, o col sacco a pelo
all’addiaccio, era un miscuglio di odori, di colori, di fuochi, di pentole, di tamburi, di risse, di
amori.
La stragrande maggioranza del pubblico ascoltava i concerti seduto o sdraiato sull’erba, sopra una
coperta o un sacco a pelo, in una promiscuità e in un miscuglio di corpi tale che un’avventura
inedita sarebbe stata più che possibile.
Seguivano gli appassionati di jazz un centinaio di artigiani venditori ambulanti di collane, cappelli
di feltro, pipe in ceramica, incensi, bambù, burattini, cartomanti, poeti, musici, saltimbanchi. Tra
questi c’ero anch’io con il mio banchetto di libri e il mio basco in testa.
La congerie di banchettari accendeva la sera le lampade ad acetilene e formava un viale
soffusamente illuminato di una luce azzurrognola di struggente suggestione.
Gli Unni e gli altri, e la polizia, che saggiamente restò sempre un po’ in disparte, erano il popolo di
Umbria Jazz quell’anno.
Una sera, attratto dal miscuglio dei corpi sdraiati sull’erba, dai sacchi a pelo, dalla musica,
dalle stelle che già comparivano all’imbrunire, dai piccoli falò, non resistetti alla tentazione di
mescolarmi con loro. Chiusi così il banchetto dei libri. Riposi tavolo e lampade ad acetilene sul
furgone e, presa una coperta, mi avviai verso la mischia fitta sdraiata sull’erba, lasciando da parte il
pensiero di colpa perché disertavo il lavoro quella sera.
Sollevai le gambe più volte per sovrapassare i corpi, le teste, gli amplessi, i baci, il vino, la birra. Mi
fermai in uno spazietto di cinquanta centimetri da dove, almeno seduto, potevo ascoltare il concerto.
Ero finito in mezzo a un gruppo di ragazzi e ragazze che dovevano essere una comitiva emiliana.
Una ragazza mi sorrise e si fece più in là indicandomi col dito l’erba vicino a lei, a dirmi che c’era
posto per me in mezzo a loro.
Mi sedetti al suo fianco.
“Non sei quello con il banchetto dei libri…?” mi chiese, sorridendomi ancora.
Le luci del palco arrivavano sino a noi soffuse. Mi aveva dunque visto nel viale delle luci
azzurrognole accese dai venditori ambulanti. Le feci cenno di sì col capo.
Insieme guardavamo il palco dove a breve sarebbe iniziato il concerto. Chissà, forse era la volta di
Sam Rivers, o Anthony Braxton, o Carla Bley, o Keith Jarrett…
Era un ossimòro quella ragazza. Nel senso che aveva i capelli mori e delicate ossa coperte da una
bella pelle abbronzata che nel crepuscolo sembrava emanare un profumo ancora più intenso. Non
aveva le ascelle depilate, né gli occhi truccati. Una serata d’agosto calda e impregnata dell’odore
dell’erba schiacciata. Molti stavano a petto nudo. Lei aveva una camicetta leggera con a vista, sulle
spalle, i laccetti neri del reggiseno, e stava seduta sul suo sacco a pelo. Mi fece posto cedendomi
uno spicchio del suo sacco a pelo, sopra cui mi sedetti volentieri. Deposi la mia coperta ai nostri
piedi.
Con il gomito le toccavo senza volerlo il fianco.
La ragazza si arrotolò una sigaretta e gentilmente si offrì di arrotolarmene una. Le accendemmo
entrambe da un solo fiammifero che lei strofinò su una pietruzza pescata tra i fili d’erba. La
fiammella ci consentì di guardarci negli occhi. Aveva più o meno la mia età, 22-23 anni… Era
proprio un bell’ossimòro.
Il concerto iniziò. La musica avvolse il vasto campo d’erba, le migliaia di persone sedute, il viale
alberato e, più lontano, le camionette della polizia.
Poi si fece notte. Calò l’umidità. Sparirono i petti nudi, spuntarono le maglie e le coperte, e chi
aveva il sacco a pelo lo usò sino alle orecchie.
All’una di notte era decisamente fresco e s’era alzato il vento, e persino gli strumenti dei musicisti
avevano cambiato suono per la grande umidità.
Pur avvolto nella mia coperta e insaccato nel mio basco, non potevo fare a meno di sfregarmi le
mani per scaldarmi.
Lei si era infilata nel suo sacco a pelo.
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Generosamente mi invitò con un gesto a entrarci.
Slacciai le scarpe che abbandonai sull’erba, ben riposte sotto la mia coperta per nasconderle. Dopo
avrei potuto non ritrovarle più…
Entrai vestito nel suo sacco a pelo, con tutto il basco e la barba.
Nell’antro buio, l’inebriante profumo della sua pelle. Eravamo stretti stretti.
La musica blues era davvero una culla.
Ci facemmo sempre più stretti e vicini.
In breve i leggerissimi movimenti dei nostri corpi si fecero man mano più aperti e dichiarati. Entrò
con la sua mano nella patta dei pantaloni a frugullarmi. Io insinuai il mio palmo aperto facendolo
scivolare dall’ombelico fin dentro le sue mutandine ad abbracciare a conchiglia il caldo e morbido
monte e il suo lento cullarsi.
Ci masturbammo entrambi a lungo immersi nel silenzio del sacco a pelo.
Mi volle infine dentro di sé ponendosi sul fianco con le natiche rivolte al mio inguine e la
mutandina abbassata sino alle cosce. Anche i miei pantaloni e gli slip abbassati sino alla coscia.
Non ci spogliammo. Le tenevo una mano sul seno, sotto la camicetta, sotto il reggiseno, e lei teneva
la sua mano sulla mia mano che teneva il suo seno sotto il reggiseno in un miscuglio di suoni e jazz
e il sudore, il sudore naturale della sua ascella emanava un intenso e buon odore da capogiro.
I suoi amici vedevano chiaramente i movimenti dei nostri colpi sudati dentro il sacco a pelo.
Provavo un po’ di imbarazzo all’inizio, come nelle latrine dove ti vedevano il culo all’aria e lo
stronzo. Ma la necessità e il piacere di quella scopata inaspettata tolsero ogni inibizione.
Non scambiammo una parola.
Non sapevamo nemmeno i nostri nomi.
Il concertò finì. Esplosero gli applausi.
Il popolo sdraiato cominciò ad alzarsi.
In breve una fiumana di giovani cominciò ad avviarsi verso il viale alberato, verso la luce
azzurrognola degli artigiani che avevano ancora le lampade accese e le merci esposte, e la fiumana
si divideva in rivoli che prendevano mille direzioni.
Nella confusione e nella ressa persi di vista la ragazza.
No, non potevo perderla così! Per altri due giorni, prima che la manifestazione finisse, avrei potuto
godere ancora di lei. C’erano ancora da ascoltare Mal Waldron, i Weather Report, la Sun Ra
Orchestra…o forse altri, non ricordo bene, forse Thad Jones, o la Mel Lewis Big Band, o il
Quartetto Giorgio Gaslini, non ricordo bene…
Stando con lei non avrei lavorato per due giorni, è vero, ma non potevo rinunciare a quell’incontro
così eccitante. Era una bella ragazza e tutto era accaduto in modo così inusuale che sarebbe stato un
peccato imperdonabile perderla.
Mi guardai intorno smarrito come un bambino.
La riconobbi laggiù finalmente, a una decina di metri, avvolta dalla folla, era con i suoi amici. La
raggiunsi.
Camminammo per un po’ mano nella mano.
Nella mia mente c’era un subbuglio di parole silenziose, un miscuglio di pensieri, una mescolanza
confusa e non omogenea di cose o sostanze diverse anche in senso figurato.
Non sapevo che cosa fare, né cosa dire.
Forse per lei era stato bello così, una notte e nulla più. Io sentivo che la desideravo ancora. L’aver
fatto l’amore dentro il sacco a pelo davanti agli occhi di tutti, ecco, quella era una cosa a cui non ero
abituato. Provavo pudore. Avrei preferito un rapporto io e lei soli, con più tempo a disposizione,
tutta una notte… Le chiesi allora (un po’ titubante, lo confesso) se potevamo vederci… il giorno
dopo… che ne dici?
Lei rispose chi lo sa, se ci incontriamo di nuovo… potrebbe essere…
Sentivo che tutto era legato a un filo, a un filo sottile come l’erba. Le proposi: perché la sera
successiva non andiamo… sì… se vuoi.. in un albergo… che ne dici? Feci un rapido calcolo. Mi
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sarebbe costato almeno cinque giorni di lavoro… al diavolo il danaro… e aggiunsi: “non
preoccuparti pago io l’albergo…”.
Saremmo stati insieme…
Ma lei cambiò d’umore e disse seriamente: “ammettendo che io accetti, per prima cosa l’albergo lo
paghiamo a metà - e aggiunse - perché andare in un albergo? perché dovevamo lasciare i suoi
amici?”. E con voce pacata avvolta dai suoi capelli mori e da quelle ossa ricoperte di deliziosa pelle
abbronzata, aggiunse ancora: “Mi dispiace! Sei un po’ maschilista!”.
Mentre diceva “un po’ maschilista” capii che aveva usato non so bene chessò forse un
ossimofemismo o un eufemossimoro perché in realtà mi sembrò che volesse dire “un po’ tanto”.
Ma non capivo perché. Il miscuglio di pensieri nella mia testa era una ridda.
“Mi stai chiedendo – continuò – di “privatizzare” il nostro rapporto, vuoi “appropriarti” in qualche
modo di me portandomi in un albergo, vuoi togliermi dal resto del mondo dove tutto sommato
siamo stati bene liberamente. Anche tu sei stato bene sotto il sacco a pelo, vero?”.
“Certo – risposi - davvero bene, per questo…
“Se siamo stati bene, perché allora andare in un albergo? – interruppe - il sacco a pelo va
benissimo”.
La sua voce era calda, gentile, emozionata, pur se assertiva e sicura. L’avevo vista solo sempre
seduta o sdraiata. Ora che la guardavo in piedi, mentre camminavamo in salita tra i vicoli nella fioca
luce lunare mi rendevo conto di quanto fosse minuta, dolce, e di quanto fosse deliziosa e onesta la
sua voce.
“Ti rendi conto - continuò dopo un respiro - che stai cercando di mettermi addosso un’etichetta di
esclusività, come se io fossi tua proprietà e ti appartenessi. Mi dispiace, sei un maschilista”.
E lasciò lentamente la mia mano.
Lentamente scomparve, come se la fiumana di gente se la portasse via per sempre.
Negli anni successivi i concerti a Umbria Jazz non furono più gratuiti, ma a pagamento. Dopo
alterne vicende, interruzioni, polemiche, aggiustamenti, la manifestazione si diede un’altra
organizzazione per sostenere l’assalto delle migliaia di persone, e oggi, pur se resta una bellissima
manifestazione, non ha i miscugli di odori e colori degli anni settanta ormai lontani.
Io ero rimasto in mezzo alla gran folla che defluiva, un po’ come annegato, un po’ come intontito,
con quell’ultima sua parola nella testa: “maschilista”.
Avevo ragionato con i miei schemi mentali, le mie paure, le mie incertezze, e l’avevo perduta. Ho
ripensato spesso a quella lontana estate, a quell’incontro. Una giovane ragazza ossimòro mi aveva
aiutato a capire un po’ le radici del mio maschilismo. Aveva perfettamente ragione. Grazie
ossimòro, illustre sconosciuta, per aver sciolto un poco il miscuglio antico dei miei pensieri.
umbria jazz anni ‘70
http://www.umbriajazz.com/Mediacenter/FE/CategoriaMedia.aspx?idc=27&explicit=SI
Cascina Macondo
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