febbraio 2015 - Scienze e Ricerche

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febbraio 2015 - Scienze e Ricerche
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
SR
NUMERO 4 - FEBBRAIO 2015
4.
4. Sommario
COPERTINA
LAURA CASTELLUCCI
5
Perché il prezzo del petrolio preoccupa anche quando si riduce?
pag.
5
pag.
8
pag.
10
pag.
15
pag.
18
pag.
21
pag.
27
pag.
32
pag.
41
pag.
46
pag.
51
pag.
63
pag.
69
pag.
77
Il problema del trasporto ottimale di massa
pag.
85
IL COMITATO SCIENTIFICO
pag.
89
GIOVANNI PERILLO
I paradossi dell’ambiente. Perché non si può non essere “Smart”
PATRIZIA TORRICELLI
Comunicare nell’era della televisione. La cultura delle immagini
trasmesse
CONTRIBUTI E INTERVENTI
VINCENZO VILLANI
Una pagina di storia della scienza e di epistemologia: Robert Boyle,
il chimico scettico
LUCIA PIETRONI
Bio-Inspired Design. La Biomimesi come promettente prospettiva di
ricerca per un design sostenibile
18
VINCENZA ROSIELLO
La scienza dipinta dei PreRaffaelliti
ROBERTO SCIARRONE
Reportage e giornalismo italiano nel corso della Grande Guerra
51
GIOVANNA SPINELLI
Energie rinnovabili a vocazione turistica. Itinerari attivi di energy
tourism in Italia
MARIA D’AMBROSIO
Il sacro in Tintoretto. O della luce. Breve saggio sull’opera d’arte
come medium ed exemplum. Verso una pedagogia del sentire
PAOLA MARTINUZZI
Un teatro per tutti nel lavoro di Jean Vilar
LUIGI COLAIANNI
Il “bene comune”: una revisione dei costrutti del discorso delle
politiche pubbliche
ALESSANDRO GIORGI
L’impiego della terra cruda nelle costruzioni tra passato e futuro
RICERCHE
ANTONIO CAGGIA E GIOVANNI PAOLO CRESPI
Ammortamento Bullet
DANIELA GRIGNOLI
69
n. 4 febbraio 2015
L’apprendimento intergenerazionale nei sistemi lavorativi: un
possibile percorso di coesione
LUCA GRANIERI
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N. 4 - FEBBRAIO 2015
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
n. 4, febbraio 2015
Coordinamento
• Scienze matematiche, fisiche e naturali:
Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alessandra Celletti, Alberto
Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli,
Carmela Saturnino, Roberto Scandone, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi,
Pietro Ursino
• Scienze biologiche e della salute:
Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide
Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano
• Scienze dell’ingegneria e dell’architettura:
Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guazzaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia,
Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano
Vergura
• Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie:
Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso,
Sergio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ienna, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone,
Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Perrotta, Francesco
Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico
Russo, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti
• Scienze giuridiche, economiche e sociali:
Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Agostina Latino,
Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano
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SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA
Perché il prezzo del petrolio preoccupa
anche quando si riduce?
LAURA CASTELLUCCI
Dipartimento di Economia e Finanza, Università degli Studi di Roma Tor Vergata
L
a società del petrolio nella quale viviamo ha
dato fino a pochi anni fa molte soddisfazioni: il PIL (prodotto interno lordo) pro capite
globale è cresciuto costantemente dalla rivoluzione industriale, come attestano gli studi
di Maddison e della World Bank; la popolazione è cresciuta
a ritmi esponenziali passando dallo scarso miliardo del 1800
a un miliardo e mezzo nel ’900 fino ai 7 miliardi e 300 milioni attuali; e la povertà estrema, misurata dalla disponibilità
di 1,25 dollari al giorno, è passata proprio negli ultimi anni
(2008-2011) dal 19% al 14% (fonte Banca Mondiale). Tutto
ciò è avvenuto principalmente per due motivi: uno tecnico e
uno economico. Tecnicamente si è sostituita l’energia animale con quella prodotta dalla combustione dei fossili (= rivoluzione industriale) ed economicamente vi è stata disponibilità
di (carbone e) petrolio a bassi prezzi e per molti anni. La
distribuzione geografica del petrolio non coincide però con
i paesi maggiormente utilizzatori (consumatori) della risorsa
né con la popolazione ed anzi può, grosso modo, pensarsi ad
un mondo diviso in paesi esportatoti che ne hanno in abbondanza e ne consumano assai poco e paesi importatori che non
ne hanno (o quasi) ma ne fanno grande uso.
In una situazione di mercato di questo genere nella quale,
in aggiunta, erano “pochi” i paesi esportatori che controllavano una grande quota degli scambi, la costituzione di un “cartello” per manovrare il prezzo in favore dei paesi produttori,
appariva ideale. Così nel 1959 a Baghdad nacque il cartello
del petrolio, chiamato OPEC (Organization of Petroleum
Exporting Countries) e composto, allora, da 5 paesi (oggi
diventati dodici): Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Iraq e Venezuela. Ovviamente affinché un cartello funzioni occorre che
molte condizioni siano verificate ma occorre soprattutto che,
nel caso si voglia aumentare il prezzo, ci si metta d’accordo
sulla “riduzione” dell’offerta, il che comporta la rinuncia ad
una certa quantità di produzione. L’economia infatti ha le sue
leggi tra le quali quella “della domanda e dell’offerta” che dà
luogo al prezzo di mercato del bene o servizio. Dato un certo
livello di domanda, il prezzo può crescere solo se l’offerta
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COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
si riduce oppure, per una data offerta, il prezzo cresce solo
se la domanda aumenta. Ed ecco subito due precisazioni da
fare; la prima che trovare l’accordo sulla riduzione dell’offerta non è tanto facile e la seconda che il prezzo del petrolio
non è governato solo dalle leggi economiche della domanda
e dell’offerta ed anzi in certi momenti l’economia sembra
giocare un ruolo del tutto marginale.
L’energia è di gran lunga la questione più importante per
qualsiasi paese oggi esistente sulla Terra e dunque su di essa
si riversano le scelte politiche/di potere dei vari paesi, i cui
effetti immediati possono essere ben diversi da quelli di lungo periodo in termini di equilibri/squilibri di potere tra aree
geografiche. Così mentre il primo shock petrolifero del 1973
conseguente all’azione efficace del cartello colse di sorpresa
il mondo occidentale, ovvero i paesi importatori, produsse
anche delle conseguenze di lungo periodo sugli assetti del
mercato che ancora oggi rilevano. L’aumento del prezzo fu,
ovviamente non istantaneamente, assorbito tramite miglioramenti nell’efficienza energetica (= minore quantità di energia per produrre una unità di PIL); si costituì la International
Energy Agency con sede a Parigi e composta da 29 paesi
allo scopo di coordinare le risposte ai disequilibri sui mercati
dell’energia; la Francia potenziò i suoi progetti nucleari; negli USA furono emanate proprio nel ’74 leggi a favore della
ricerca nel solare; in Italia, e sempre nel ’74, furono emanati
i primi provvedimenti per il risparmio energetico e l’efficienza ai quali seguirono altri in risposta al secondo shock
petrolifero, quello dell’82; e altro ancora, ma l’effetto principale dello shock fu quello di mettere a nudo la vulnerabilità
dell’occidente di fronte all’approvvigionamento energetico:
Figura 1 Inflation Adjusted Oil Price Chart
6
il tema principale del dibattito diventò da allora quello della
“energy security” che, estremamente semplificando, porta
a cercare fonti alternative nella convinzione che una composizione multi sources dell’offerta energetica abbia un più
basso rischio rispetto ad una più concentrata. La riduzione
del rischio fu però anche interpretata come minore dipendenza dall’estero e questo portò all’obiettivo, non dichiarato,
di ridurre le importazioni. Si prese coscienza dunque che un
modello energetico del tipo 80% da fonti fossili, per lo più
concentrate in certe aree ad eccezione del carbone che è invece diffuso, e solo il 20% da tutte le altre fonti è un modello
poco affidabile e soprattutto molto migliorabile. Comincia
quindi a configurarsi come migliore un modello di produzione di energia “misto” ovvero composto da varie fonti proprio
per la sicurezza energetica ma, a distanza di 40 anni, la composizione del modello non è molto cambiata. Ciò potrebbe
sembrare strano se non si considerasse la forza delle lobby
del petrolio e il non dichiarato, ma vero obiettivo, di ridurne
le importazioni non il suo uso. La società del petrolio è tuttora florida.
Capire il “prezzo” del petrolio (al quale quello del gas è
collegato) è dunque molto importante ma è forse uno degli
obiettivi più ambiziosi che si possano avere anche se evidenziarne dei tratti caratteristici è possibile e getta un po’ di luce
sia sulle complesse relazioni tra gli stati che sulle contraddizioni tra le dichiarazioni e le scelte operate.
La storia del prezzo del petrolio può essere riassunta nei
seguenti due grafici: il primo racconta la storia dal secondo
dopoguerra alle soglie del 2014, l’anno anomalo, mentre il
secondo racconta in dettaglio, cioè mensilmente, l’andamen-
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA
to del prezzo del petrolio nell’anno appena trascorso. Come
si vede, per molti anni fino al primo shock petrolifero il prezzo è molto basso e stabile, poi sale, ha dei picchi, diventa
più variabile/volatile fino all’imprevisto picco di quasi 140
$ all’inizio del 2008 e l’eccezionale caduta che seguì alla
fine dello stesso anno intorno ai 40 $ (non entriamo nella
questione dell’interpretazione di questo anno assolutamente
anomalo, ma certo la maggiore volatilità è coincisa con l’espansione degli interventi speculativi/finanziari sul mercato
del petrolio come delle altre commodities). A parte il problema, non banale, per gli investimenti nel settore, della volatilità, in generale il prezzo mostrava un’inclinazione a crescere
e gli operatori si aspettavano che tale fosse l’andamento per
almeno due motivi economici: 1. il picco di Hubbert faceva prevedere l’aumento dei costi e dunque del prezzo; 2. Il
cambiamento climatico faceva prevedere che i paesi si sarebbero accordati per dare un prezzo alla CO2 che ugualmente
avrebbe generato un aumento dei costi. Ma da giugno del
2014 il prezzo, si veda il secondo grafico, è in discesa. Le
spiegazioni economiche ci dicono che il protrarsi della crisi
economica ha ridotto la domanda di energia (almeno rispetto
alle attese) mentre l’offerta di petrolio è più abbondante del
previsto perché la Libia, l’Iran e l’Iraq riestraggono petrolio
prima di quanto previsto. Il cartello del petrolio, uno dei più
longevi al mondo, è però ancora attivo e potrebbe intervenire
a far aumentare il prezzo tramite riduzioni dell’offerta. E’
stato fatto altre volte e in generale è stata l’Arabia a giocare il ruolo del paese in grado di assorbire senza danno una
riduzione nella propria produzione di petrolio. Ma a forza
di parlare di “energy security” l’Opec e nello specifico l’Arabia, si è convinta che prima o poi i paesi avrebbero via via
ridotto le loro importazioni. Quando la produzione di shale
gas degli Stati Uniti, e di tar sands in Canada, e di rinnovabili
in Europa e in altre zone, si sono fatti consistenti, soprattutto
gli shale gas americani, l’Arabia ha capito che qualora avesse
ridotto la sua produzione per far risalire il prezzo, avrebbe
solo perso quote di mercato in favore degli shale gas. Questi
sono di gran lunga più costosi/inefficienti del petrolio e di
gran lunga più inquinanti ovvero pericolosi per il clima. E
Figura 2
qui di nuovo l’economia si mischia alle decisioni politiche; il
costo di estrazione del petrolio dell’Arabia è sui 3 $ al barile
mentre affinché un investimento in shale gas sia profittevole
occorrerebbe che il prezzo non scendesse sotto i 100 $ visto
che i costi si aggirano sugli 80 $. Anche un prezzo di 50 $
può andare bene a chi ha un costo di 3 $ ma certo non può
andare per gli shale gas e le tar sands (e forse purtroppo neanche per le rinnovabili se non hanno qualche lieve supporto
pubblico). Può dunque ritenersi che almeno una componente
nella decisione di non ridurre l’offerta sia quella di mettere
fuori mercato queste fonti alternative. Letto in questo modo
si potrebbe essere contenti per il clima se, genuinamente, si
è convinti come siamo, che stiamo davvero scherzando con
il “fuoco”. Altro che prezzo della CO2 o rinnovabili pulite,
anch’esse più costose del petrolio arabo, ma dritti filati sulla
Energy security che, nel caso USA, coincide con drastiche
riduzioni nelle importazioni. Se l’interpretazione è sensata
è molto difficile prevedere quanto durerà questa decisione
di non ridurre l’offerta, ma è già durata abbastanza per aver
provocato una riduzione presente e in prospettiva degli investimenti in queste fonti non-convenzionali e seri rischi di
default per alcuni paesi. Quando infatti il prezzo scende costantemente e di molto, com’è avvenuto in questi sei mesi,
i paesi esportatori ci perdono mentre gli importatori ci guadagnano. L’area Europea e il Giappone dovrebbero essere i
maggiori beneficiari mentre la Russia, l’Iran e il Venezuela
sono tra quelli che perdono. Ciascuno di questi paesi ha steso il proprio bilancio su un’ipotesi del prezzo del petrolio
di almeno 100 $ al barile (esempio Russia) se non di 140
(Iran) e dunque rischia la bancarotta cosa che da un punto
di vista degli equilibri politici non è poi una bella notizia, né
per l’Europa né per gli USA o comunque è una notizia che
preoccupa perché non si conoscono gli esiti finali.
La domanda e l’offerta hanno “un” ruolo ma non sono tutto. Il perseguimento della rendita, soprattutto nel breve periodo, non spiega la politica e le decisioni del cartello: dopo
tanti anni di accordi e documenti verso la transizione ad un
modello di crescita “diverso” è forse giunto il momento della
sostituzione delle fonti di energia e il cartello, ma soprattutto l’Arabia, non sembra disposta a farsi spiazzare da fonti
più “inefficienti” , e noi aggiungiamo, più “inquinanti”. Il
nuovo modello non sarebbe certo a minore intensità di carbonio. In effetti emerge che, del gran parlare di cambiamento climatico e di necessità di intervenire per non superare
la soglia dell’aumento di 2 gradi della temperatura, non si
ha il minimo riscontro nei fatti. Il vero obiettivo degli USA
sembra l’energy security intesa come drastica riduzione delle
importazioni piuttosto che energy mix mentre l’Europa, con
lo scarso slancio a rafforzare l’unione, non sa buttarsi con
decisione sulle rinnovabili pulite. Basterebbe spingere sul
prezzo della CO2 per dar loro un impulso decisivo, tanto più
che i problemi di intermittenza si stanno riducendo con gli
sviluppi nella tecnologia per lo “storage” e la curva dei costi
punta dritto alla discesa. Dopo tutto si sa che l’unica forma
di energia sostenibile è il “sole”.
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COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
I paradossi dell’ambiente:
perché non si può non essere “Smart”
GIOVANNI PERILLO
Dipartimento per le Tecnologie, Università degli Studi di Napoli Parthenope
O
ttimizzare la produzione di energia attraverso un’efficiente riduzione dei “rifiuti”:
con l’information management è possibile
contribuire in modo più concreto all’affermazione di un sistema energetico vantaggioso, pulito e sostenibile.
Partiamo da un apparente paradosso: ogni anno vengono
prodotte nel mondo 20 miliardi di paia di scarpe; di queste
400 milioni non saranno mai utilizzate!!!
Questa contraddizione ci aiuta ad analizzare le modalità
dell’energia consumata nel mondo; essa può essere suddivisa
in tre parti, di cui un terzo consumata dalla produzione industriale (dal trasporto della materia prima al prodotti finale).
La produzione industriale stessa, basata sul paradigma della
produzione di massa, è efficiente per portare i beni di consumo al cliente, ma è altamente inefficiente dal punto di vista
energetico.
Per analizzare la sostenibilità della produzione di massa,
torniamo all’esempio delle scarpe: quante paia rimangono
invendute ogni anno? Nel settore delle calzature si stima una
percentuale di invenduto pari al 20 per cento. Pertanto, su
100 scarpe prodotte, 80 saranno vendute.
Chi si preoccupa del 20 per cento delle scarpe invendute?
Ciò significa che le fabbriche hanno consumato il 20 per
cento di energia e materiali per prodotti che nessuno vuole
e vorrà mai. Ne deriva che la produzione di massa può definitivamente non essere considerata sostenibile. Ma quanto
“pesa” questa insostenibilità?
Dovremmo prendere in considerazione l’energia consumata per il 20 per cento di scarpe invendute, tenendo presente
che circa l’80 per cento della produzione mondiale annuale,
pari a 20 miliardi di paia, è detenuta dalla Cina.
Un semplice calcolo basato sulla produzione dei materiali
e sulla manifattura di un paio di scarpe di pelle ci porta a valutare un’energia pari a 54 milioni di megawatt/ora.
Una centrale di produzione di energia da 1.000 megawatt
(a carbone, o petrolio, o atomica), lavorando 24 ore al gior8
no, in un anno genera quasi 9 milioni di megawatt ora. Ciò
significa che sono necessari 6 grandi impianti di energia per
la produzione di prodotti che nessuno comprerà mai.
Questo, dunque, è il paradosso: tutti noi badiamo alla fine
della vita utile dei nostri prodotti, ma non ci curiamo dell’inizio del loro ciclo di vita, producendo cose che nessuno com-
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA
prerà mai. Una proposizione che può apparire contraddittoria con l’esperienza comune o con i principi elementari della
logica, ma che all’esame critico risulta estremamente valida.
Rapportiamo questo ragionamento ai servizi multipli non
connessi delle nostre città: utilities (acqua, luce, gas), rifiuti,
traffico, parcheggi, ordine pubblico e security, trasporti pubblici e ambiente, che potrebbero essere gestiti in termini di
efficienza, management, energy generation, evitando inquinamento, congestione e perdite di ore di lavoro a favore della
sicurezza, della pulizia urbana e della salute pubblica.
Al 2040 si stima che il 65 per cento della popolazione mondiale vivrà nelle grosse aree urbane, con oltre 1,3 milioni di
persone che ogni settimana migrano in città. Di contro, solo
per affrontare i temi connessi al traffico e alla congestione
dei centri cittadini, in tutto il mondo è inferiore all’1 per cento la percentuale di semafori controllati, con una percentuale
di traffico maggiore del 50 per cento dovuta alla ricerca di
parcheggio, con un tempo medio per parcheggiare di 15-20
minuti. Risultato: in Europa il costo annuale della congestione da traffico e pari all’1 per cento del PIL.
Passiamo ad un altro paradosso: noi viviamo in città moderne e sempre più grandi, ma queste presentano ancora un
insieme di servizi “sconnessi”.
Anche qui ci troviamo di fronte ad un’apparente contraddizione con la nostra esperienza comune. Pur tuttavia parliamo
di vivibilità in termini di qualità della vita, urbanizzazione
sostenibile, incremento della sicurezza. Parliamo, inoltre, di
sostenibilità puntando a piattaforme unificate per supportare
investimenti condivisi per incrementare i benefici e di soluzioni “open” standard a protezione di investimenti e programmazione.
Questa visione di come dovrebbero essere le città ha un
risvolto sul piano economico, con un maggior dinamismo di
open data e soluzioni “aperte”, al fine di incrementare opportunità per cittadini e comunità.
Le città che condividono informazioni, nei settori della vivibilità, sostenibilità ed economia, possono incrementare la
loro efficienza del 30 per cento in servizi pubblici afferenti
all’illuminazione, la salute, i rifiuti, traffico, parcheggi e trasporti, tutela dell’ambiente, risorse energetiche e smart grid
(elettricità, acqua, gas).
Lo scenario della smart city sarà basato, dunque, sempre
più su interconnessioni di reti e servizi basate su comunicazioni bidirezionali, interfaccia con ogni tipo di sensore,
bassi consumi energetici, acquisizione di informazioni da
dati condivisi, flessibilità, modularità, interoperabilità, open
standard e “internet delle cose”.
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COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Comunicare nell’era della televisione.
La cultura delle immagini trasmesse
PATRIZIA TORRICELLI
Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Messina
L
a percezione umana si avvale, com’è noto,
dei sensi che trasmettono al cervello i propri impulsi selettivi. Recepiti da zone neurologiche apposite (Duffau 2010), deputate
alla loro scomposizione/ricomposizione, gli
impulsi ricevuti stimolano l’attività della corteccia cerebrale
che ne filtra i dati secondo i propri parametri cognitivi, trasformandoli in idee da cui dipendono le risposte comportamentali di ogni individuo. Su questo equilibrio di mente e
sensi – e di input vicendevoli nel rapporto con il mondo – si
regola la vita umana e le diverse forme di pensiero si consolidano fino a diventare il fenomeno collettivo noto come
cultura, che detta gli standard di ragionamento in una società
storica e ne condiziona i conseguenti comportamenti.
Nel quadro appena accennato – con un eccesso, forse, di
semplificazione, giustificato solo dal genere di discorso in
cui è inserito – si collocano tutti i fenomeni della comunicazione (Jakobson 1966). Appartengono a tale modello operativo, in particolare, le abilità linguistiche, tradizionalmente
divise in abilità ricettive – ascoltare e leggere – e abilità produttive – parlare e scrivere - che coinvolgono i sensi dell’udito e della vista accanto all’attività motoria dell’oralità e della
scrittura (Ciliberti 2012). Delle quattro abilità, due sono dette
primarie – ascoltare e parlare – e due secondarie – leggere e
scrivere – perché apprese dopo che si sono acquisite per vie
naturali le prime.
Il libro è il prodotto principale su cui entrambe le seconde
si esercitano. Dalle parole scritte, scansionate visivamente
in una tacita sequenza combinatoria di foni che l’assenza di
voce non rende meno percettibili mentalmente a chiunque
possieda la padronanza della lingua, il lettore ricava gli input
semiotici necessari ad attivare la sua capacità immaginativa
mentale. La stessa capacità che fa ricavare da un significante
senza alcun rapporto di causa/effetto con la realtà cui si riferisce (nero non ha con il suo colore, una somiglianza maggiore di quanta ne potrebbe avere bianco, se fosse stato scelto
al suo posto per designare il nero) un significato che di tale
10
realtà è l’immagine mentale perfettamente corrispondente, a
giudizio del parlante. Un’immagine, appunto - come Saussure (1921) definisce il significato quando diventa il quid mentale che forma le idee - suscitata nella mente del lettore dallo
stimolo linguistico ricevuto che va a selezionare, nella personale, soggettiva esperienza del mondo vissuta da ognuno
di noi, le immagini più prossime a quelle che lo scrittore ha
concepito scrivendo. Perciò la lettura è un confronto d’intelligenze che si instaura fra lo scrittore – e le parole da questi
scritte – e il lettore – e le parole lette – avendo il libro come
suo luogo di svolgimento per tutta la durata dell’esercizio
intellettuale cui dà adito. Il piacere del libro risiede appunto
in tale esperienza di scoperta di se stessi in un altro, passando
attraverso i rispettivi mondi interiori, fino a farli combaciare
perfettamente, in una fusione virtuale dislocata nel testo, ma
non meno intensa di qualsiasi altra intesa affettiva profonda
e altrettanto coinvolgente.
La società moderna ha affiancato ai tradizionali libri altri mezzi di comunicazione che utilizzano le stesse risorse
sensoriali seguendo canali simili, ma di più facile accesso, e
destinati perciò a raggiungere un numero maggiore di utenti.
La radio, dagli anni ’20 in poi, ha avuto un ruolo analogo aggirando l’ostacolo della lettura e della preliminare
formazione scolastica. L’ascolto dei programmi radiofonici ha ripristinato il canale comunicativo virtuale del libro,
eliminando semplicemente la decodifica d’una fonte visiva
per passare direttamente alla decodifica d’una fonte sonora.
L’input linguistico è acustico e esterno al soggetto, ma la
stimolazione immaginativa è dello stesso genere. Naturalmente è più rapida, perché i tempi dell’ascolto non sono,
evidentemente, gli stessi della lettura, e l’attenzione prestata
al sonoro trasmesso è maggiore di quella prestata alla sua risoluzione immaginativa mentale. La decodifica è più incerta
perché non ammette repliche del messaggio.
Il successo della radio, soprattutto negli anni ’40-50, dimostra l’efficacia di questo tipo di procedimento comunicativo
in grado di raggiungere un gran numero di persone in qualsi-
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA
asi area del paese. L’accesso ai programmi trasmessi avviene
a distanza ed è incanalato nel solo senso dell’udito. Ma è
sempre sottoposto al filtro critico dell’intelligenza linguistica
dell’ascoltatore, che sola ne permette infine la fruizione immaginativa. Lo stimolo ricevuto è guidato dall’emittente, ma
resta personale nell’elaborazione mentale che ogni destinatario ne fa.
L’avvento della televisione, alla fine degli anni ’50 (Freccero
2013), segna un mutamento di strategia comunicativa che incide
sull’atteggiamento degli utenti, introducendo un nuovo costume
sociale con inevitabili
ricadute d’ordine culturale.
Il canale dell’udito è
impegnato simultaneamente a quello della
vista; ma l’attenzione
maggiore è riservata a
questa seconda dimensione sensoriale, che è
la novità della televisione e la sua vera risorsa
rispetto agli altri mezzi
di comunicazione. Vedere acquista più importanza comunicativa che
non ascoltare e la vista,
che permette di accedere subito all’apparenza superficiale del mondo esperito, finisce per essere l’organo più partecipe durante le trasmissioni,
fino a fare dell’audio il proprio commento sonoro, ausiliario.
Gli spazi pubblicitari mostrano il prodotto pubblicizzato
prima di parlare di ciò che mostrano. Apparire in televisione dà notorietà politica, tanto da suscitare polemiche sulla
pari frequenza di comparizioni durante le campagne elettorali. La spettacolarizzazione della vita comune è uno dei
programmi preferiti dai palinsesti televisivi e fra i più seguiti
dal pubblico, soprattutto giovanile, educato al genere di
approccio comunicativo che fa dell’apparire - e del subirne
gli spunti mimetici - un procedimento divulgativo della conoscenza e dei comportamenti sociali accettati assolutamente plausibile. Tutti i programmi condotti in studio prestano
grande attenzione all’aspetto iconico del proprio formato,
che aggiunge un sottinteso allusivo accattivante al messaggio anche quando il genere di trasmissione non sembra pretenderlo. Le vallette di un tempo, le conduttrici di programmi
sportivi o d’intrattenimento di oggi, come altre trasmissioni di successo, fatte di palese esibizione visiva, ne sono un
esempio.
Il mutamento di costume introdotto comporta un’attitudine
intellettuale che inclina verso il maggior conformismo immaginativo, seppure di tipo impressionistico.
Nella prassi televisiva, infatti, le parole non sono la prima
fonte della comunicazione, ma fanno da sussidio a immagini predisposte dall’emittente e propagate come se fossero
l’esatta risoluzione immaginativa da dare ai significati delle
parole cui si accompagnano, occupando direttamente lo spazio mentale da esse riservato all’immaginazione linguistica.
Lo spettatore – a differenza del lettore e dell’ascoltatore – è
esentato, pur senza esserne direttamente informato, dal compiere sforzi immaginativi per concepire mentalmente la propria, ideale visione delle cose di cui i programmi parlano,
perché tale visione gli viene già fornita dalla trasmissione cui
assiste, mediante input sostitutivi immediati. La frequenza di
tali input, che non ammette pause di riflessione, costringe,
peraltro, all’apertura inavvertita di tutti i canali disponibili,
determinando un minor controllo sulla ricezione. Sia quando scorrono sullo schermo che quando fanno da sfondo a un
servizio in studio, le immagini trasmesse diventano la realtà
percepita e la realtà diventa le immagini trasmesse. Il ruolo
riservato allo spettatore consiste nel far transitare tali immagini dallo schermo alla propria mente, e organizzare le idee
sul loro tracciato, che dice già come vedere il mondo di cui
si sta parlando.
Cosicché il discorso televisivo esercita una sorta di persuasione differita che, senza coinvolgere preliminarmente la
sfera del giudizio razionale, pacato e selettivo, procede per
accumulo reiterato d’impressioni ricevute in sequenze veloci
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COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
e poco controllabili. La loro somma costituisce quella che si
chiama la percezione collettiva di un evento e rappresenta un
fenomeno socio-culturale cui si presta oggi grande attenzione, perché è in grado di orientare tendenze e comportamenti
sociali da cui dipendono le scelte politiche intorno ai temi
comuni.
Poiché i pensieri si concepiscono sulla scorta delle idee –
che sono, come insegna appunto la semiotica, le immagini
delle cose depositate nella mente attraverso l’esperienza personale del mondo, sia direttamente che mediante un processo
educativo – il genere di immagini su cui la mente si concentra nell’elaborazione d’un pensiero non è un dettaglio dappoco. Soprattutto in termini di autenticità rispetto alle cose di
cui tali idee sono la proiezione immaginativa mentale. Per la
loro natura astratta, infatti, tutte le idee esistono, com’è ovvio, solo nella mente di chi le concepisce. Esse sono semplicemente un riflesso - nello specchio dei circuiti neurologici
del cervello (Rizzolatti, Sinigaglia 2006) - di come il mondo
visto dagli occhi e percepito dagli altri sensi può apparire
all’intelligenza e diventare la vita da vivere così come viene
vissuta ogni giorno, nel corso dell’esistenza umana e della
storia d’ogni società.
Il potere delle idee, che nel nome stesso – idea viene dal
greco antico idein che significa “vedere” (Beekes 2010) portano l’impronta etimologica del loro antico essere figlie
di una visione, è nel potere delle immagini del mondo che
fanno da loro corollario concettuale, sedimentate in quel patrimonio di pensiero, conoscitivo ed emozionale, di cui nessuna società può privarsi senza disgregarsi e perire, che si
chiama cultura e che si esprime nella cosiddetta mentalità.
Una sorta di schema inconscio – quest’ultima – che fa da filo
conduttore sia alle scelte esistenziali che alle azioni sociali,
modellando entrambe sul genere di visione del mondo che la
cultura da cui dipende, nella sua continua evoluzione storica,
le fornisce.
Affidate alle parole – lette nelle pagine dei libri o ascoltate
dalla voce altrui – più lente e riflessive per le maggiori pretese di luogo e tempo del canale che le veicola, o alla mul-
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timedialità d’uno schermo televisivo che le propaga senza
troppi intermezzi percettivi né pause meditative, le immagini
elaborate dalla mente umana, e consegnate alla fruizione sociale dalla prassi semiotica, sono il perno della comunicazione e del pensiero, individuale e collettivo.
Esse esercitano un potere intellettuale forte, che è quello di
far vedere le cose come una cultura storica pensa che queste
siano quando ne fa esperienza, giudicandole secondo il proprio schema di ragionamento.
Il dominio delle immagini mentali, comunque conseguito,
rappresenta dunque il dominio del modo di pensare il mondo
e, sulla sua scorta, di regolare i comportamenti e le azioni
umane che ne sono la conseguenza vitale quotidiana.
Una circostanza non di poco conto, che conferisce a chiunque intraprenda un percorso comunicativo, e si appresti a utilizzare le risorse del canale che ha scelto per trasmettere il
proprio messaggio, un onere non indifferente – qualunque
sia il piano su cui lo si voglia considerare - della cui responsabilità occorre essere almeno consapevoli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Beekes R. (2010),Etymological Dictionary of Greek, Leiden-Boston:Brill.
Ciliberti A. (2012) Glottodidattica. Per una cultura
dell’insegnamento linguistico. Roma: Carocci.
Duffau H. (2011) Brain Mapping. ed. Hughes Duffau,
Wien: Springer-Verlag.
Freccero C. (2013) Televisione. Torino: Bollati Boringhieri.
Monteleone F. (2003) Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica. Nuova
edizione aggiornata. Venezia: Marsilio.
Jakobson R. (1966) Linguistica e poetica. Saggi di linguistica generale, trad.it. L.Heilmann, L. Grassi. Milano: Feltrinelli.
Rizzolatti G., Sinigaglia C. (2006) So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Raffaello
Cortina.
CONTRIBUTI&INTERVENTI
N. 4 - FEBBRAIO 2015
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | CHIMICA
Una pagina di storia della
scienza e di espistemologia:
Robert Boyle, il chimico scettico
VINCENZO VILLANI
Dipartimento di Scienze, Università degli Studi della Basilicata
T
he Sceptical Chymist (1661) è l’opera fondamentale di Robert Boyle (1627-1691), natural phylosopher irlandese che contribuì ad
elevare la chimica da arte pratica a scienza,
accettando i risultati sperimentali del tempo
ma, rifiutando le teorie metafisiche sovrapposte.
Nel ‘600 la struttura della materia era oggetto di profonde
controversie. Prevaleva una visione d’ispirazione aristotelica che considerava la ‘materia
formata’ che osserviamo intorno a noi, composta da quattro
‘elementi primitivi’: terra, aria,
fuoco e acqua. Questi elementi
sarebbero alla base dei ‘corpi misti’ risolvibili, in linea di
principio, nei primi. Gli elementi fondamentali erano portatori
di qualità (ovvero delle proprietà che hanno i corpi di originare
sensazioni, di modificare gli altri corpi e di essere a loro volta
modificati) che trasmettono ai
composti: umido, secco, freddo
e caldo. Un corpo risultava pesante o leggero in base alla proporzione di terra e aria che
conteneva e così via…
Sottostante la materia formata, veniva postulata la ‘materia prima’ informe e continua: i quattro elementi ne erano
costituiti e pertanto, in linea di principio, trasformabili l’uno
nell’altro.
Sulla natura delle qualità, la visione aristotelica si biforcava nella teoria degli elementi, secondo la quale le proprietà
dei composti derivano in modo diretto dalle qualità degli elementi primitivi, e nella teoria della forma, secondo la quale
i composti conservano degli elementi solo la materia prima
mentre, le proprietà o ‘forma sostanziale’ sarebbero un risultato peculiare, specifico per ogni tipo di corpo. Commentava
Boyle: Usando le forme sostanziali, gli aristotelici hanno
fatto credere non necessario e senza speranze impiegare
l’operosità umana nella ricerca delle particolari qualità e
dei loro effetti, essi rendono facile risolvere tutti i problemi
della natura in generale ma, fanno ritenere impossibile la
risoluzione di quasi tutti in particolare (The origin of forms
and quality, 1666). Al contrario, la teoria degli elementi stimolava la ricerca degli elementi costituenti per risalire alle
proprietà dei corpi composti.
In termini moderni, i due approcci potrebbero essere detti,
‘lineare’ ove la proprietà osservata è la risultante semplice e
prevedibile delle proprietà componenti: l’effetto è la somma
delle cause, in simboli, A + B
→ AB. ‘Non-lineare’, l’effetto
è la risultante complessa ed imprevedibile di cause concorrenti
dipendente dalle ‘condizioni al
contorno ’, A + B → [AB] → C
dà luogo ad un risultato nuovo
stabile attraverso uno ‘stato di
transizione’ instabile.
Tuttavia, la mole dei fatti sperimentali accumulata dai primi chimici resero obsoleta la teoria aristotelica dei quattro
elementi: erano necessari elementi più attivi…più ‘chimici’!
Quindi, nel periodo rinascimentale, si diffuse la teoria dei
‘tria prima’ (dei tre elementi primi) inaugurata dal medicochimico svizzero Paracelso (1493-1541) che fornì alla nascente chimica un nuovo strumento interpretativo.
Nella teoria dei tre elementi, le qualità di un corpo erano spiegate con la composizione degli elementi primi: sale,
mercurio e zolfo. Il sale rendeva conto della solidità, solubilità, cristallinità,…; il mercurio, della malleabilità, fusibilità,
non-infiammabilità,…; lo zolfo, dell’infiammabilità, dell’insolubilità, dell’untuosità,…
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CHIMICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Boyle, contrappose alla teoria degli aristotelici quella dei
chimici che definiva ‘teoria materialista’. I chimici sostenevano la loro teoria con argomenti sperimentali: dalla distillazione di materiali organici ed inorganici essi ottenevano
sostanze che definivano sale, zolfo o mercurio sulla base rispettivamente della loro solidità, oleosità o volatilità. Ovviamente, gli elementi primi erano pensati di una purezza ideale
non ottenibile alla fornace.
Per i chimici l’esperimento, ovvero la manipolazione in
laboratorio delle sostanze, diviene la chiave di volta per decriptare la Natura; al contrario, per gli aristotelici logica e
semplice osservazione erano condizioni necessarie e sufficienti.
Dal punto di vista epistemologico, i chimici adottavano il
metodo induttivo promosso dal ‘Lord Cancelliere’ Francis
Bacon (1561-1626), padre del metodo scientifico, privilegiando i fatti sperimentali sull’elaborazione di ipotesi interpretative: ‘hypoteses non fingo’, dirà Isaac Newton (16421727). Al contrario, gli aristotelici, restavano fedeli al metodo deduttivo, elaborando teorie generali (piuttosto fantasiose) a partire da pochi principi primi (accettati acriticamente).
Va sottolineato il ruolo, spesso sottovalutato, della sperimentazione chimica nell’affermazione del metodo scientifico, iniziato con la sintesi galileiana di ‘sensate esperienze e
certe dimostrazioni’ (Lettere copernicane, 1613) che possiamo leggere come sintesi dei metodi induttivo e deduttivo:
in pratica, i fatti da spiegare deduttivamente non sono più
le semplici osservazioni della natura ma i fatti sperimentali
osservati in condizioni controllate e riproducibili.
Gli aristotelici distinguevano i corpi in ‘naturali’ e ‘artificiali’: la chimica occupandosi di quest’ultimi era assimilata
ad ‘arte pratica’, utile alla medicina e alla metallurgia ma,
non alla filosofia. Boyle superò questa distinzione e promosse la nascente chimica a ramo importante della Natural Philosophy, sostenendo l’importanza degli esperimenti e rifiutando il ricorso a enti immateriali come le forme per spiegare
le qualità.
Nell’introduzione allo Sceptical Chymist, Boyle critica la
teoria dei tre principi primi, movendo ‘obiezioni a diverse
delle quali molto probabilmente non hanno mai pensato,
perché difficilmente un chimico le proporrebbe e solo un
chimico potrebbe farlo’.
Ed egli è chimico, nel senso che padroneggia gli stessi
esperimenti, le stesse pratiche, rifiutando tuttavia, l’ermetismo: ‘oscuro e quasi enigmatico modo di esprimere ciò che
pretendono d’insegnare’.
Egli ritiene importanti le conoscenze sperimentali accumulate ma, rifiuta la teoria sovrapposta. I primi quattro capitoli
dello Sceptical Chymist sono dedicati alle quattro principali
obiezioni mosse:
1. ‘Esistono motivi sufficienti per chiedersi fino a che punto, e in che senso, si possa ragionevolmente considerare il
fuoco lo strumento unico e universale per l’analisi dei corpi
misti’.
Egli osserva, si ottengono risultati diversi a seconda
dell’intensità del fuoco e della procedura; esistono sostan16
ze che il fuoco non scompone in alcun principio primo, ad
esempio l’oro; alcune sostanze indecomponibili col fuoco
possono essere decomposte in altro modo; le sostanze decomposte dal fuoco sono ancora sostanze composte; esistono modi di scomposizione più potenti del fuoco, come certi
solventi.
2. ‘Non è così certo, come tanto i chimici che gli aristotelici sono soliti pensare, che una sostanza apparentemente
omogenea, o distinta, che venga separata da un corpo con
l’aiuto del fuoco, fosse preesistente in quel corpo come suo
principio o elemento’.
Infatti, egli commenta, i principi chimici potrebbero essersi prodotti ex novo; l’azione del fuoco produce sostanze
nuove, come il vetro dal piombo e dalla cenere, che non sono
elementi. Oggi parliamo di reazioni chimiche.
3. ‘Non sembra che il numero vero ed esatto delle sostanze
distinte, o elementi, in cui i corpi sono scomposti dal fuoco
sia proprio tre’.
4. ‘Pur sembrando corpi omogenei, le sostanze distinte
non hanno né la purezza né la semplicità che devono avere
gli elementi’.
Infatti, i chimici chiamano sale, zolfo o mercurio sostanze
tra loro profondamente diverse.
Boyle approda all’atomismo riflettendo sulla natura delle qualità dei corpi. Ad esempio, l’ipotesi dei chimici, per
cui il sale è portatore della solidità, ‘non ci insegna come
l’acqua anche in vasi chiusi ermeticamente, raggeli, cioè si
trasformi da un corpo fluido in uno solido, senza l’aggiunta di ingredienti salini’. Possiamo osservare trasformazioni
qualitative senza che sia tolta o aggiunta materia ai corpi:
come è possibile ciò? Per Boyle, la spiegazione più plausibile di questi fenomeni è che le qualità dipendono dallo
stato di moto e dalla disposizione delle particelle costituenti
la struttura interna della materia.
Egli aderisce in modo originale alla teoria atomistica in
quegli anni sviluppata dai francesi padre Gassendi (15921655) e Cartesio (1596-1650). Per Gassendi gli atomi sono
indivisibili, compatti, in moto nel vuoto e conservano l’impeto che Dio ha loro comunicato. Danno origine alle qualità dei corpi composti in base alla loro forma, dimensione
e composizione. Per Cartesio, la materia è essenzialmente
estensione; immagina minuti vortici divisibili che riempiono
lo spazio e le qualità vengono associate al moto della materia sottile (l’etere) che riempie lo spazio lasciato vuoto dalla
materia ordinaria. A conservarsi non è il moto di ciascuna
particella ma, quella totale.
Gassendi e Cartesio avevano raggiunto un compromesso
tra scienza e religione, eliminando dal meccanicismo ogni
aperto contrasto con la fede. In Boyle, il meccanicismo diviene la filosofia della natura più adatta alla religione. Man
mano che la scienza progredisce mediante spiegazioni meccaniche dei fenomeni naturali, diventerebbe palese il mirabile ordine dell’universo frutto dell’opera intelligente del
suo creatore. Per Boyle l’uomo religioso deve studiare la
scienza, poiché la Natura è opera di Dio al pari dei testi della
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | CHIMICA
rivelazione. Lo stesso Galilei (1564-1642) aveva affermato:
‘Nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle
sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie perché,
procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la
natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa
come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio’
Quindi, Boyle sviluppa la sua teoria corpuscolare su due
livelli, nel primo leggiamo:
1. ‘Concordo con la generalità dei filosofi quanto ad ammettere una materia universale e generale comune a tutti i
corpi, con la quale intendo una sostanza estesa, divisibile e
impenetrabile’.
2. ‘Poiché la materia è una nella sua propria natura, le
diversità osservate devono necessariamente provenire da
altro’.
3. Questo quid è il moto infatti, senza movimento non è
possibile il cambiamento ( come aveva sostenuto già il presocratico Eraclito (535-475 a.C.)): ‘il moto locale sembra
essere la principale tra le seconde cause’, essendo la prima
Dio (Logos o Legge universale).
4. La materia viene ‘divisa in parti per effetto del moto;
queste parti sono necessariamente dotate di dimensione, forma e movimento o quiete’.
E’ questo un punto importante che differenzia Boyle da
Gassendi e Cartesio in modo profondo e oserei dire, moderno: i corpuscoli (e quindi le qualità della materia) sono originati dalle variazioni del moto della materia prima! In questa
visione, abbiamo una materia unica, universale e continua,
sede di oscillazioni che rappresentano le particelle stesse: il
moto genera le particelle, non viceversa. Non abbiamo atomi
preesistenti in moto o in quiete ma, materia continua in moto
o in quiete da cui emergono gli atomi. Una visione del genere è per certi versi analoga all’odierna teoria delle stringhe,
in cui le particelle fondamentali corrispondono a vibrazioni
dello spazio-tempo.
5. ‘In ogni distinta porzione di materia formata da un
certo numero di corpuscoli sorgono due nuovi accidenti o
possibilità: la posizione e l’ordine che insieme costituiscono
il tessuto di un corpo’. L’ordine indica la disposizione dei
corpuscoli riferiti l’uno all’altro; la posizione invece, indica
la disposizione di un corpuscolo rispetto a un punto di riferimento esterno.
6. Le qualità ‘non sono entità reali, distinte o diverse dalla
materia stessa con la sua determinata grandezza, figura ed
altre qualificazioni meccaniche’. Le qualità sono associate al
comportamento dinamico delle particelle in un quadro che
ricorda ante litteram la moderna termodinamica statistica
a partire da James Clerk Maxwell (1831-1879) e Ludwig
Boltzmann (1844-1906).
Nel secondo livello, Boyle analizza le caratteristiche dei
corpuscoli stessi: in tre passaggi è ipotizzata la struttura della
materia.
1. Abbiamo i ‘minima’ o ‘prima naturalia’ che ‘sebbene
siano divisibili, la natura non li divide quasi mai a causa del-
la loro piccolezza e solidità’. Sono particelle estremamente
stabili, particelle subatomiche ante litteram.
2. I ‘minima’ si uniscono in ‘cluster’ (grappoli, le molecole moderne) che sono divisibili ma ‘che molto raramente
accade che siano effettivamente dissolti o rotti’. Entità dotate
di forte stabilità, gli atomi moderni. Naturalmente, esse sfuggono ai nostri sensi.
3. I ‘cluster’ si uniscono per formare i corpuscoli di cui è
costituita la materia, le molecole moderne.
I ‘prima naturalia’ sono gli atomi di Leucippo (V secolo
a.C) e Democrito (460-370 circa a.C.) non più assolutamente indivisibili. Le proprietà essenziali, size and shape, corrispondono a moles e figura degli antichi atomisti. La terza proprietà essenziale, il moto, viene rivisitata. Sia per gli
antichi che per Gassendi, il moto è intrinseco all’atomo; al
contrario Boyle sviluppa la concezione cartesiana del moto
che anima l’etere all’origine di particelle e qualità e che si
conserva come quantità globale.
Questa, per grandi linee, l’ontologia Boyliana: in che senso la sua ipotesi fu un passo avanti rispetto alle visioni di aristotelici e chimici? E’ lo stesso Boyle a chiarirlo elencando i
requisiti metodologici alla base di una buona ipotesi:
1) ‘che sia intelligibile’
2) ‘che non contenga niente di impossibile o assurdo’
3) ‘che sia coerente con se stessa’
4) ‘che sia adatta e sufficiente a spiegare i fenomeni, in
particolar modo i principali’
5)‘che non contraddica nessun altro fenomeno naturale
noto’.
Intelligibilità, chiarezza e coerenza sono requisiti che le
teorie aristotelica e dei primi chimici non possiedono: gli
aristotelici spiegano le qualità con enti immateriali come le
forme e i chimici: ‘Dirci, per esempio, che tutta la solidità
deriva dal sale significa solo informarci in quale principio
quella qualità risiede, non come si produce’.
Il vero problema è mostrare ‘come’ le qualità si producono, non ‘chi’ le possiede. In questo modo l’ipotesi meccanicistica che associa le qualità al moto permette di fare a meno
di principi a priori oscuri e spiegare i fenomeni con due soli
principi semplici, moto e materia: hardware e software!
Il programma di Boyle fu quello di fornire una base sperimentale alla sua visione filosofica: in questo senso va interpretata la sua vasta produzione sperimentale.
‘L’ipotesi meccanicistica deve essere confrontata coi dati
sperimentali riguardanti particolari qualità e deve essere
confermata o smentita da essi’.
Sebbene quest’approccio filosofico è risultato perdente, il
contributo duraturo di Boyle è stato proprio nell’aver contribuito all’affermazione del meccanicismo e della chimica
mostrando la via dell’origine delle proprietà e la necessità
di andare oltre i tre principi primi, alla ricerca degli elementi
chimici.
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DESIGN | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Bio-Inspired Design. La Biomimesi
come promettente prospettiva di ricerca
per un design sostenibile
LUCIA PIETRONI
Scuola di Architettura e Design dell’Università degli Studi di Camerino
O
ggi siamo ormai consapevoli che “l’impatto ambientale dei prodotti, dei servizi
e delle infrastrutture che ci circondano si
determina, fino all’ottanta per cento, in
fase di progetto. Le scelte operate in questa fase modellano i processi che sono alla base dei prodotti
che usiamo, dei materiali e dell’energia necessari a realizzarli, delle diverse modalità del loro utilizzo quotidiano e di
ciò che accade loro nel momento in cui non ci servono più”,
come sostiene John Thackara nel libro “In The Bubble”.
Il design, quindi, può dare un contributo rilevante per orientare, con responsabilità, i processi di innovazione e sviluppo
e gli stili di vita in una direzione più sostenibile. I designer
possono fare molto, “possono contribuire a rallentare il degrado dell’ambiente più degli economisti, dei politici, delle
imprese e anche degli ambientalisti”, come afferma Alastair
Fuad-Luke, realizzando soluzioni progettuali innovative ma
sostenibili, ovvero “capaci di futuro”, che sappiano coniugare, con equilibrio e visione, la dimensione ambientale, socioculturale ed economica della sostenibilità.
Per sviluppare e promuovere una cultura del design e modelli di progettazione realmente sostenibili, che possano incidere efficacemente e moltiplicare i propri effetti positivi,
è necessario il supporto continuo della ricerca, della sperimentazione, dello scambio e della condivisione interdisciplinare delle conoscenze. Nell’attuale fase di maturità della
sfida ambientale, più che mai, c’è bisogno di valutare tutti gli
sviluppi della scienza e della ricerca applicata più significa-
tivi per il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità
ambientale sempre più impegnativi da ottenere.
In questa prospettiva, uno dei contributi della ricerca
scientifica, che recentemente sembra emergere come particolarmente promettente all’interno del dibattito sulla sostenibilità ambientale e sul design sostenibile, è l’apporto
della “Biomimesi” o “Biomimetica” (Bios, vita + Mimesis,
imitazione), ovvero di quella “scienza che studia i sistemi
biologici naturali emulandone forme, processi, meccanismi
d’azione, strategie, per risolvere le sfide di ogni giorno, per
trovare le soluzioni più sostenibili ai problemi progettuali e
tecnologici dell’uomo, per replicarne disegni e processi in
nuove soluzioni tecnologiche per l’industria e la ricerca”,
come la definisce la biologa statunitense Janine Benyus.
Si tratta di un ambito scientifico interdisciplinare relativamente recente (ha poco più di trent’anni di storia), ma che negli ultimi anni ha assunto un particolare rilievo. Già nel 1958
l’ingegnere aeronautico Jack Steele aveva coniato il termine
“Bionica” (Biologia + Tecnica) per intendere una “scienza
dei sistemi il cui funzionamento è basato su quello dei sistemi naturali”. Rispetto agli sviluppi della Bionica, molto
proficui soprattutto negli anni ’70 e ’80, la “Biomimesi” o
“Biomimetica” non si limita ad imitare le
forme e le strutture efficienti degli organismi viventi, ma trae spunto e ispirazione
dalle strategie, dai processi e dalle logiche
di funzionamento e di organizzazione che
sono alla base del successo evolutivo dei
sistemi biologici. Il termine “Biomimesi”
è stato utilizzato per la prima volta, nel
Julien Bergignat, Helmet B, Casco per ciclisti in polipropilene ispirato dall’armadillo, 2010.
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SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | DESIGN
1968, dal fisico Otto Schmitt, per definire “una disciplina
che simula le strutture biologiche per realizzare prodotti più
efficienti”. Nel 1974 “Biomimesi” compare nel dizionario di
lingua inglese “Merriam-Webster” così definita: “lo studio
della formazione, della struttura o della funzione di sostanze
e materiali biologicamente prodotti e di meccanismi e processi biologici soprattutto per lo scopo di sintesi di prodotti
simili, tramite meccanismi artificiali che simulano quelli naturali”. Negli anni ‘80 e ‘90 la Biomimesi inizia ad essere
insegnata nelle Università e nei centri di ricerca di diversi
paesi del mondo: in Inghilterra, dove il Prof. Julian Vincent
fonda il “Centre of Biomimetics” dell’Università di Reading
e dell’Università di Bath; in Germania, dove il Prof. Thomas
Speck istituisce corsi di Biomimesi all’Università di Friburgo; negli USA, dove nascono numerosi centri di ricerca, formazione e consulenza, come il “CBID-Centre for Biologically Inspired Design” al Georgia Institute of Technology o il
“Biomimicry Institute” fondato dalla biologa Janine Benyus
nel Montana; più recentemente sono sorti centri di ricerca
sulla Biomimesi anche in Cina.
Pertanto, attraverso gli sviluppi delle ricerche sulla Biomimesi, si è tornati a discutere e riflettere sulla natura come fonte primaria d’spirazione per la risoluzione dei problemi tecnologici e progettuali dell’uomo; come “modello, misura e
mentore” nello sviluppo di soluzioni progettuali innovative e
realmente sostenibili; come straordinaria banca-dati di espedienti biologici e di innovazioni utili a designer, ingegneri,
architetti, da trasferire nella progettazione e produzione dei
propri artefatti; come laboratorio di idee per uno sviluppo
innovativo e sostenibile. Come sostiene Janine Benyus, nel
suo libro “Biomimicry: Innovation Inspired by Nature”, “la
Biomimesi nasce proprio dalla consapevolezza che la Natura
è una banca dati di innovazioni progettuali sostenibili, un archivio di brevetti disponibili immediatamente, un laboratorio
di ricerca e sviluppo a nostra disposizione”.
Da sempre l’uomo ha imitato e si è ispirato alla natura per
trovare soluzioni efficaci ed efficienti, prima per la sua sopravvivenza sul pianeta, poi per l’accrescimento del comfort
e della qualità del proprio habitat e della propria vita. Nell’ideazione e progettazione dei propri artefatti ha imitato continuamente strutture, forme, proporzioni geometriche, colori,
ritmi, simmetrie, funzioni degli organismi biologici con differenti finalità. Ma allora quale è il motivo, oggi, di un rinnovato interesse per la natura? Quali nuovi fattori riaprono il
dibattito della cultura del progetto sulla necessità di tornare
ad apprendere gli insegnamenti di “madre natura come contributo per il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale”?
Dall’attuale scenario scientifico-culturale emergono due
principali fattori che consentono di considerare in modo nuovo l’approccio progettuale biomimetico o bio-ispirato.
- Il primo fattore è il recente sviluppo di nuove conoscenze
scientifiche e di nuovi strumenti tecnologici capaci di analizzare, descrivere, e persino riprodurre, aspetti, fenomeni,
processi della natura finora inediti ed inesplorati: in particolare gli importanti contributi delle nanoscienze e delle
nanotecnologie che consentono di comprendere la realtà e
di produrre artefatti alla scala nanometrica. Infatti, le nanoscienze studiano i fenomeni e la manipolazione di materiali
su scala atomica e molecolare, dove le proprietà differiscono
notevolmente da quelle osservate su scale maggiori, e la creazione di materiali, sistemi e dispositivi attraverso il controllo della materia su scala nanometrica è ciò che correntemente
si intende con il termine “nanotecnologie”. La dimensione
nanometrica del materiale manipolato dischiude orizzonti
applicativi impensabili in passato, perché le proprietà osservabili a tale dimensione si prestano ad essere utilizzate,
anche su scala diversa, per sviluppare processi e prodotti
caratterizzati da nuove prestazioni in un numero tenden-
Mike Thompson, Latro, Lampada alimentata da alghe, 2010.
Philips Design, Bio-light, Lampada alimentata da batteri
bioluminescenti, 2011.
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DESIGN | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
zialmente illimitato di settori. Pertanto oggi siamo in grado
di prendere ispirazione dalla natura non solo per gli aspetti
morfologico-strutturali, ma anche per i suoi modelli strategici, organizzativi e di processo, estremamente efficienti e
sostenibili (ad es. auto-assemblaggio, auto-riparazione, resilienza, ecc.).
- Il secondo fattore è l’attuale fase di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale caratterizzato da nuove
consapevolezze: la necessità, da un lato, di un cambiamento
radicale del modello di sviluppo e di una drastica riduzione
del consumo di risorse ambientali delle società industriali
mature e la constatazione, dall’altro, della lentezza e dell’inefficienza dei cambiamenti nella direzione della sostenibilità, nonostante le notevoli risorse finanziarie, tecnologiche
e umane, messe in campo. Infatti, tra i teorici e gli studiosi della transizione verso la sostenibilità ambientale emerge con forza la consapevolezza che per risolvere gli attuali
problemi economici, energetici e ambientali non è sufficiente lo sviluppo di efficienti tecnologie pulite e di processi e
prodotti più sostenibili o di strategie ambientali di business,
ma è necessario ed indispensabile un radicale cambiamento
dell’attuale sistema di produzione e consumo, del modello di
sviluppo economico e dei nostri stili di vita, perseguibile soprattutto attraverso innovazioni radicali e non incrementali. I
tempi e i modi con cui si stanno percorrendo le strade verso
la sostenibilità ambientale sono troppo lenti ed inefficienti.
Si ha la consapevolezza che dovremmo ridurre i nostri consumi di risorse naturali di circa il 90% rispetto agli attuali,
ma ogni anno stiamo consumando il 20% in più di risorse
rispetto a quelle che la natura è in grado di rigenerare.
Alla luce dei recenti sviluppi e delle enormi potenzialità
delle nanoscienze e delle nanotecnologie e nell’attuale fase
di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale l’approccio biomimetico o bio-ispirato al design appare molto
promettente e destinato in futuro ad offrire un contributo ancora più significativo e determinante.
Oggi, infatti, attraverso gli sviluppi della Biomimesi, architetti, ingegneri, designer hanno a disposizione gli “esperimenti” che l’evoluzione naturale ha perfezionato in milioni
Vibram, FiveFingers, Scarpetta da corsa con suola antiscivolo ispirata
alla zampa del geco.
20
di anni, basandosi sul principio del “minimo investimento
per il massimo rendimento”, ovvero gli organismi naturali
non sprecano, non producono rifiuti e utilizzano sempre la
quantità minima di energia possibile per le loro attività al
fine di garantire maggiori prestazioni per la perpetuazione della specie. Il numero di espedienti biologici utili per
il design sostenibile è potenzialmente illimitato ed è chiaro
come i progettisti possano ricavare dalla natura sempre più
proficui suggerimenti per la realizzazione dei propri artefatti,
mantenendo al contempo un vantaggioso rapporto tra costi
e benefici.
Per sviluppare ed amplificare il contributo della Biomimesi al design, gli scienziati e i biologi dovrebbero continuare
ad incrementare le banche dati di innovazioni bio-ispirate e
renderle il più possibile accessibili a chi può trasferirle e applicarle in soluzioni progettuali e tecnologiche ai problemi
dell’uomo, e i progettisti, invece, dovrebbero imparare ad
interrogare la banca dati della natura con metodo e sistematicità, chiedendosi sempre in primo luogo: Come ha risolto
questo problema la natura? Con quale espediente, con quale
processo, con quale strategia?
Per ottenere inoltre risultati veramente apprezzabili in
termini di sostenibilità ambientale dalla progettazione bioispirata sarebbe auspicabile: formare gruppi interdisciplinari
di progetto; guardare e interrogare la natura in modo nuovo
e con nuovi strumenti scientifici e culturali; e, soprattutto,
integrare efficacemente i principi e gli strumenti della Biomimesi con gli strumenti e le strategie più consolidate del
Design per la sostenibilità. In tal modo, la Biomimesi potrà
in futuro fornire alla cultura del design un contributo non
solo promettente, ma realmente strategico per lo sviluppo di
soluzioni progettuali sostenibili, innovative e capaci di futuro, o per dirla con Victor Papanek “ecologicamente responsabili e socialmente rispondenti, rivoluzionarie e radicali nel
senso più vero dei termini”.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
- J. Benyus, Biomimicry: Innovation Inspired by Nature,
Perennial, USA 2002 (prima edizione 1997)
- A. Fuad-Luke, Eco-design. Progetti per un futuro sostenibile, Logos, Modena 2003
- C. A. Montana Hoyos, BIO-ID4S: Biomimicry in Industrial Design for Sustainability. An Integrated Teaching-and-Learning Method, VDM Verlag, Germany 2010
- V. Papanek, Progettare per il mondo reale, Mondadori,
Milano 1973
- G. Pauli, Blu Economy: 10 anni, 100 innovazioni. 100
milioni di lavori, Edizione Ambiente, Milano 2010
- G. Salvia, V. Rognoli, M. Levi, Il Progetto della Natura.
Gli strumenti della biomimesi per il design, Franco Angeli,
Milano 2009
- J. Thackara, In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Umberto Allemandi & C., Torino 2008
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE
La scienza dipinta dei Preraffaelliti
VINCENZA ROSIELLO
Centro Europeo di Studi Rossettiani
Questo articolo illustra come i dipinti dei PreRaffaelliti
abbiano inquadrato la Scienza e propone un modello per costruire nuovi ponti tra Scienza ed Umanesimo.
INTRODUZIONE: COMUNICARE LA SCIENZA CON
I
L’ARTE
stente modernità della PRB (Pre-Raphaelite Brotherhood),
l’avanguardia culturale inglese fiorita nella seconda metà
dell’Ottocento, è stata ampiamente analizzata sia in ambito letterario ed artistico, che in quello politico e religioso,
mentre sono di solito trascurati i suoi legami con la Scienza.
Probabilmente, gli interessi di quel gruppo eterogeneo di ar-
numerosi manuali sulla comunicazione della
scienza si limitano, di solito, ad analizzare il
ruolo delle immagini nell’elaborare efficacemente ogni progetto dedicato all’educazione
scientifica. Una lunga tradizione da Leonardo
da Vinci, sino agli eccessi di Dan Brown, suggerisce
che potrebbe risultare fecondo aggiungere una nuova
strategia progettuale per la divulgazione, utilizzando la
descrizione di quadri famosi per illustrare le tematiche
scientifiche.
Esempi di letteratura dipinta, di riletture di quadri alla
luce dei soggetti letterari a cui si ispirano, riempiono
intere antologie di “Visual poetry”, ed il “figuralism”
è divenuto una vera e propria categoria accademica. In
analogia, potrebbe risultare estremamente fecondo presentare anche i contenuti scientifici utilizzando la lente Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866
d’ingrandimento dell’arte. Inoltre, questo approccio potrebbe evitare che la Scienza continui ad essere percepita
come una disciplina arida e sterile, destinata ad occuparsi di tisti e letterati che animarono la Confraternita dei PreRaffauna conoscenza assiomaticamente limitata che «ha ucciso il elliti sono stati sinora pregiudizialmente ritenuti lontani dalle
Sole, rendendolo una palla di gas con delle macchie», come problematiche scientifiche. Un giudizio in parte giustificato
da cultura e tendenze personali dei protagonisti, ma indubsosteneva D. H. Lawrence.
Accostare contestualmente quadri ed argomenti scientifici biamente condizionato da impostazioni critiche fondate sulla
rinnova il dialogo tra Arte e Scienza, e nel contempo forni- tradizionale contraddizione filosofica fra creatività artistica
sce un metodo per individuare le segrete faglie di contatto e ricerca scientifica, ribadita da William Wordsworth nella
in cui massima è l’attività tellurica ed eruttiva tra due cultu- famosa “Preface” delle “Lyrical Ballads”.
re, che per troppo tempo hanno rinnegato sistematicamente
Alcuni recenti studi1 hanno tuttavia rivelato gli inattesi leogni possibile interazione. Le zone in grado di generare le
più feconde contaminazioni si nascondono spesso all’inter- 1 V. Rosiello, “I Rossetti e la Scienza”, contributo negli Atti del Convegno di esperienze culturali trascurate. Ad esempio, la persi- no internazionale di studi “I Rossetti e l’Italia”, a cura di G. Oliva e M.
21
SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
gami tra la scienza vittoriana e le attività dei PreRaffaelliti
nella letteratura, la pittura, la scultura, il design, la moda e
l’arredamento.
L’ulteriore progetto di ricerca “The Pre-Raphaelites and
Science”, coordinato da John Holmes (attuale Chair della
British Society for Literature and Science) ha evidenziato
i loro rapporti con le istituzioni scientifiche britanniche per
impreziosire sedi illustri, come l’Oxford University Museum
of Natural History ed il Natural History Museum, nel quartiere di South Kensington a Londra.
Del resto, occorre notare che agli inizi dell’Ottocento in
Inghilterra, il pensiero scientifico prevalente era ispirato alla
teologia naturale. Lo stesso approccio scientifico presente
nelle severe pagine dei “Principia” di Newton, le cui celebri
regulae philosophandi (le regole del metodo scientifico) appaiono in evidente analogia con le norme dell’esegesi delle
Sacre Scritture.
La degenerazione dei rapporti tra pensiero umanistico e
scientifico divenne una querelle ideologica solo in tarda epoca vittoriana, catalizzata dalle vivaci controversie tra coloro,
come Matthew Arnold, che denunciavano la pervasività della scienza e la progressiva disattenzione verso i valori spirituali ed estetici da parte dei più accesi sostenitori, come Thomas Henry Huxley, del modello evoluzionistico di Darwin e
delle teorie geologiche avverse alla tradizionale cronologia
della Genesi.
Tuttavia, al sorgere del movimento preraffaellita, era ancora prevalente un modo di ragionare indirizzato alla ricerca
di crescenti conferme dell’intelligenza del disegno divino,
per mezzo di sempre più accurate descrizioni dei più minuti
dettagli del mondo visibile. Questo metodo di investigazione
fornì agli artisti un principio per le loro aspirazioni di rappresentare gli aspetti trascendentali della realtà.
In questa identificazione di obiettivi tra scienziati ed artisti,
le ambizioni visionarie dei PreRaffaelliti si prefissero, programmaticamente in nome dell’Arte, di emulare le finalità
progettuali della scienza e della tecnica dell’età vittoriana, in
un comune tentativo di scoprire e comprendere l’essenza del
mondo che ci circonda attraverso la rivelazione e la riproduzione dei suoi più minuti particolari.
Determinante per la loro estetica furono le idee di John
Ruskin, che, nei primi due volumi del carismatico trattato
“Modern Painters”, suggerì la necessità della “Truth to Nature”, del valore della riproduzione del particolare. Altrettanto determinanti furono per i PreRaffaelliti, le idee molto
radicali di Thomas Carlyle a proposito della schiavitù della
civiltà delle macchine e sulle promesse tradite nel processo di industrializzazione dell’Inghilterra, a cui si attribuiva
l’origine delle aspre lotte sociali dell’epoca. Il richiamo insistito all’analisi dei dettagli più nascosti degli eventi storici e
biblici apparivano essenziali per confermare la natura provvidenziale della Storia ed auspicare un ritorno ad un mondo
ideale più giusto.
L’estetica della Confraternita dei PreRaffaelliti deriva da
Menna (Carabba editrice, 2010) pp. 477-491. ISBN 978-88-6344-129-1
22
questa
condiscendenza culturale. Analizzando
i quattro fascicoli della rivista
programmatica
“The Germ” e le
biografie dei fondatori del movimento: William
Holman Hunt e
Dante
Gabriel
Rossetti, le più
recenti revisioni
critiche
hanno
rivelato, sin dalle
origini, le numerose intersezioni
dei PreRaffaelliti
con la scienza e
la tecnologia del
tempo.
Il ritardo nel rivalutare i legami
tra i PreRaffaelliti e la Scienza, si
può comprendere
dal peso attribuito agli atteggiamenti di Dante
Gabriel Rossetti,
convinto, senza
grandi sensi di
colpa, che fosse
poco pratico, “of
Dante Gabriel Rossetti - Sancta Lilias - 1874
very little use in
life”, sapere se
fosse la Terra a girare intorno al Sole o viceversa. La conoscenza degli uomini e delle loro necessità gli aveva confermato che l’efficenza delle nozioni scientifiche non avevano
certo più valore delle spiegazioni mistico-allegoriche della
Natura tipiche della società medioevale.
Nonostante tali pregiudizi, i PreRaffaelliti non furono insensibili allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, in cui la scienza,
la tecnologia e la medicina permeavano la cultura inglese
del XIX secolo, influendo nella narrativa, nel teatro, comparendo nelle rassegne politiche e persino nelle caricature dei
giornali popolari.
In particolare, dai loro memoriali ed epistolari, è emersa
sin dalle origini la duplice anima del PreRaffaellitismo, con
il contrasto tra il realismo di Hunt e di John Everett Millais, e
la sensibilità idealistica di Dante Gabriel Rossetti, e successivamente di William Morris ed Edward Burne-Jones.
Questo dualismo del movimento si manifestò sin dai soggetti dei primi dipinti, raffiguranti la bottega di un falegname
del “Cristo nella casa dei genitori” di Millais, e nella più
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE
simbolica annunciazione “Ecce
Ancilla Domini”
di Dante Gabriel
Rossetti, in cui fu
sempre presente
l’influenza esercitata dagli studi
danteschi in chiave allegorica del
padre Gabriele,
talentuoso esule
politico, punto
di riferimento di
gran parte della
comunità di espatriati risorgimentali italiani.
DAL CULTO
ALL’UTOPIA
DELLA
BELLEZZA
Nella sua evoluzione, da cenacolo elitario a fenomeno di costume, la fratellanza
preraffaellita non
rinunciò mai ad
approfondire le
proprie aspirazioni per un radicale rinnovamento
morale della società – intento
comune tra i giovani di ogni tempo – non attraverso la religione, la tecnologia, la politica, ma attraverso l’Arte, facendo
della Bellezza il criterio ispiratore del proprio programma,
come recitava il verso guida della loro generazione: “A Thing
of Beauty Is a Joy Forever” di John Keats.
Occorre notare che il culto della Bellezza, tipico dell’Arte,
fu concepito dai PreRaffaelliti come un’utopia verso i suoi
valori più autentici e meno artefatti, in deliberata contrapposizione agli stereotipati canoni di perfezione che si erano
progressivamente imposti nella pittura, sino al culmine dei
dipinti di Raffaello. Tale caratteristica li indusse a riferirsi
ai valori estetici formali di purezza e semplicità dei pittori
italiani del Quattrocento, prima di Raffaello. Dal settembre
1848, questi geni ribelli cominciarono a distinguersi dalla
convenzionale ritrattistica e paesaggistica vittoriana, contrapponendo i temi del misticismo medioevale all’edonismo
paganeggiante del pieno Rinascimento e sviluppando un
programma che aveva molti punti in comune con altri movimenti del tempo come i puristi italiani ed i “nazareni” te-
deschi. Tuttavia, a differenza di questi, che innestarono la
loro estetica nell’idealismo filosofico, i PreRaffaelliti inglesi
approfondirono autonomamente una problematica di tipo
morale e sociale sul potere rinnovatore dell’Arte, in grado di
reagire da una parte alla concezione materialista della vita,
dall’altra alle brutture del rapace capitalismo industriale in
rapida ascesa.
Malgrado la loro dicotomia costituzionale, ispirandosi al
presunto modello delle corporazioni medioevali, la Confraternita cominciò ad approfondire in modo condiviso i propri
interessi. Gli esordi, come spesso accade, non furono privi di polemiche, per l’opposizione agli insegnamenti della
Royal Academy. I primi dipinti esposti nel 1849 sconvolsero
i critici vittoriani come Charles Dickens, grande estimatore dei canoni artistici interpretati da Raffaello, che espresse
il suo disappunto verso Millais in un polemico articolo del
1850 “Old Lamps for New Ones”. Solo con il favore di John
Ruskin, convinto sostenitore e mecenate dei giovani innovatori, la fortuna del gruppo si consolidò.
Nonostante il gruppo primitivo si sciogliesse assai presto
(1853), tuttavia le idealità iniziali si perpetuarono in una produzione che a lungo condizionò l’opera della generazione
successiva di artisti.
La bellezza fu utilizzata come chiave per interpretare il
mondo, senza limitarsi a rielaborare i precetti del romanticismo, impegnato ad identificare estetica ed etica, ma andando oltre, nella convinzione che “Bellezza è Verità, Verità è
Bellezza”, ossia estetica come conoscenza.
La ricerca della verità è una lotta infinita dell’uomo per
comprendere la complessità delle innumerevoli forme che la
Natura gli prospetta. Per raggiungere la conoscenza, l’umanità ha spesso fatto ricorso alla sensibilità intuitiva dell’arte, sebbene più spesso si sia rivolta alla religione. Solo con
l’Illuminismo, la Scienza ha conquistato quell’egemonia che
ha mantenuto con successo durante tutta l’epoca industriale.
In ogni caso, il progresso scientifico e quello umanistico
sono andati di pari passo, con una singolare interdipendenza
tra il miglioramento del benessere materiale ed il progresso
dello spirito.
IL “FIGURALISM” NATURALISTICO ED IL
“FIGURALISM” MISTICO-SIMBOLICO
L’adesione dei PreRaffaelliti verso i temi scientifici si
manifesta in una maggiore cura verso i dettagli. Dipingendo
con originalità visiva, spesso con l’uso di colori puri, presi
direttamente dalla natura, selezionarono composti di resine
naturali, e pigmenti fabbricati da George Field (il famoso
fornitore di colori per Turner), per riprodurre il più fedelmente possibile ogni dettaglio. Si avvalsero dell’uso del fondo imbiancato che cominciò a diffondersi con la traduzione
nel 1840 della Teoria dei Colori di Goethe ed approfondirono le tecniche dei pittori del primo Rinascimento, grazie
alla traduzione in inglese del “Libro dell’Arte”, il famoso
manuale trecentesco di pittura di Cennino Cennini.
Questi aspetti tecnici distintivi comuni dei capolavori del23
SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
la Confraternita (in gran parte nella collezione della Tate National Gallery of British Art
di Londra) ci rivelano lo stile, gli orizzonti e
le prospettive condivise del PreRaffaellitismo.
Tuttavia, l’unità artificiale della Confraternita
si disgregò rapidamente. Coloro che seguirono
Homan Hunt, come John Brett, William Davis,
John Inchbold e George Price Boyce, approfondirono i temi del “figuralism” naturalistico,
in ossequio al motto “Back to nature!”.
La qualità fotografica dei paesaggi preraffaelliti era una caratteristica molto apprezzata, in
un epoca in cui le tecnologie riproduttive non
avevano affatto la qualità contemporanea. La
cura di riprodurre i dettagli, come se li osservassero attraverso un microscopio, mostrava
quanto i PreRaffaeliti fossero affascinati dai
progressi delle scienze naturali e le loro composizioni divennero le illustrazioni predilette
dei manuali botanici e geologici, come si nota
dalle molte illustrazioni tardo preraffaellite
nella rivista positivista “Fortnightly Review”. I
soggetti dei paesaggi erano osservati con accuratezza scientifica e riprodotti con una tale precisione che le rocce, gli animali, i corsi d’acqua
sembrano catturare i segreti dell’ambiente, con
un dettaglio del tutto estraneo alla qualità foto- John Brett, Il ghiacciaio di Rosenlaui (1856) (Tate Britain, Londra)
grafica monocromatica dell’epoca.
Un esempio caratteristico del “figuralism”
botanico è rappresentato da uno dei primi paesaggi preraffa- la sventurata eroina skakespeariana.
Nella vasta produzione preraffaellita, il dipinto “Il ghiacelliti ad essere esposti alla Royal Academy nel 1852: “May,
in the Regent’s Park”, dipinto dalla finestra di casa da Char- ciaio di Rosenlaui” di John Brett è il paesaggio che meglio
les Allston Collins, uno degli amici intimi di Millais. L’a- illustra le caratteristiche del nuovo modo di dipingere. Il “fispetto botanico domina sull’aspetto artistico ed ogni singolo guralism” geologico del dipinto abiura la visione panoramidettaglio è rappresentato con tale scintillante precisione da ca di Turner a favore della cura di ogni singolo elemento,
far pensare di essere stato dipinto con l’ausilio di una len- con una composizione nitida e sinuosa, con dettagli stratite d’ingrandimento. Nulla è indistinto: anche gli alberi sullo grafici che farebbero la passione degli esperti di geologia,
sfondo appaiono con rami e foglie ben definite. Un’accura- dove tuttavia inattesi salti di scala e la mancanza di un unico
tezza che i più critici obiettavano eccessiva, giacché tali par- punto prospettico, manifestano un senso dissociato del punlicolari: «at the distance ... could by no means be seen with to di vista e rivelano l’influenza degli scritti di Ruskin sulla
such hortus siccus minuteness (in lontananza non c’è modo montagna e di quelli del naturalista svizzero Louis Agassiz
di osservarli con tale dettaglio da erbario)». Questo dipinto sulla glaciologia.
A ben guardare, questo paesaggio – se accuratamente anarispetta il criterio della “Truth to Nature”, elaborato nel trattato “Modern Painters” di John Ruskin, con l’adesione alla lizzato – rivelerebbe probabilmente un metodo di composiverità del particolare, in contrasto all’allusiva percezione del zione frattale. La morfologia del paesaggio sembra spontaneamente riprodotta con l’applicazione della teoria dei frattali:
globale dei paesaggisti vittoriani.
Certamente, il dipinto deve conservare l’unità ma, come un linguaggio matematico in grado di rappresentare rigoroRuskin annotava «not at the expense of the inexhaustible samente l’irregolarità di forme naturali che in ogni piccoperfection of nature’s details», esortando gli artisti a corre- lo dettaglio conservano il disegno globale, come un grande
dare con maggiore dovizia di particolari le loro opere. Ov- triangolo è composto di piccoli tasselli triangolari. Non è faviamente, Holman Hunt risultò il più sensibile alla lezione cile riconoscere, dai cristalli di ghiaccio sino alla forma del
di Ruskin. I quadri “The Hireling Sheperd (1851)” e “Our ghiacciaio, le regole di “autosomiglianza” dei frattali, in cui
English Coasts (1852)” ne sono evidenti manifestazioni. Lo una qualsiasi parte tende a riprodurre la figura intera. Merita
stesso quadro più famoso della Confraternita – l’Ophelia di di essere ricordato che i cristalli che compongono ogni fiocco
Millais – risulta un’esaltazione del dettaglio, sin nelle gem- di neve hanno nascosto per secoli le cause della propria belme della vegetazione che avvolge il gelido annegamento del- lezza. Le simmetrie esagonali dei cristalli di ghiaccio sono
24
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE
Edward Burne-Jones, The Golden Stairs (1880) (Tate Britain, Londra)
state riconosciute per la prima volta nel 1611, in un saggio
poco conosciuto di Keplero intitolato “Strena Seu De Nive
Sexangula”, per essere poi studiate nei primi anni del Novecento, attraverso l’ausilio dei raggi X. La teoria dei frattali
si applica efficacemente allo studio dei fiocchi di neve, fornendo alcuni classici esempi di riproduzioni frattali, tra cui
il merletto di Helge von Koch, una generalizzazione della
curva di Peano. E’ singolare notare che l’approccio frattale
manifesta prodigiose analogie con le aspirazioni formulate
da Ruskin.
Nel tempo, l’attenzione eccessiva per un resa fotografica, se non vivisezionistica, dei paesaggi, finì per soffocare
l’immaginazione e degenerò in una successiva produzione di
maniera sempre meno gradita.
Nonostante il loro preziosismo compositivo, le opere di
questi artisti persero di prestigio soprattutto a causa dello
sviluppo della fotografia e della consapevolezza che l’esattezza dei dettagli, non avrebbe mai potuto corrispondere ad
una completa comprensione della realtà. I progressi scientifici ci hanno confermato che l’essenziale risulta invisibile
all’osservazione, e come il volto non risulta in grado di rivelare l’anima, allo stesso modo indagando i dettagli superficiali, non è possibile dedurre il senso profondo della realtà.
Un successo diverso arrise all’esperienza opposta perseguita da Dante Gabriel Rossetti, il fondatore della Confraternita che, col tempo, assunse il ruolo di uno dei più puri
rappresentanti di quella classe a sé, che da sempre sono gli
eccentrici inglesi. Rossetti tentò di rivalutare il carattere trascendente della realtà gettando un ponte sull’abisso che separa il sentimento dall’esperienza. Estimatori delle idealità
esaltate nel manuale “The Stones of Venice” di Ruskin e nel
saggio storico “Past and Present” di Carlyle, i PreRaffaelliti
legati a Rossetti intercettarono, ed in parte anticiparono, le
insoddisfazioni profonde della società vittoriana nell’Inghilterra in piena Rivoluzione Industriale.
In questa impresa, Rossetti fu affiancato ben presto da
Edward Burne-Jones, e con meno convinzione dal più pragmatico William Morris, il cui senso degli affari spinse lo
stesso Dante Gabriel Rossetti a rendere feconda la propria
sensibilità figurativa associandosi con i nuovi confratelli
nella produzione industriale di arredi con stile e qualità della
finitura artigianale, irriducibili alla massificazione esaltata
nella formidabile mostra del primo EXPO, nel Crystal Palace di Londra nel 1851. In nome di questa filosofia, precursore
illustre del movimento Art & Craft, fu promossa la nascita
della manifattura Morris, Marshall, Faulkner & Co. dedita
ancora oggi, con il marchio Sanderson and Sons and Liberty, a creare ricercati motivi decorativi da utilizzare su vetro,
ceramiche, piastrelle, carte da parati, e tessuti.
Questo interesse per le arti decorative, dal 1859, indusse
Rossetti ad ispirarsi ai capolavori di Tiziano e Veronese, allontanandosi progressivamente dai soggetti religiosi e dalle
ricostruzioni del mondo medievale influenzati dall’ossessione dantesca e dal ciclo arturiano.
L’utopica bellezza ambita dai PreRaffaelliti si tradusse in
una progressiva sublimazione della figura femminile. Tuttavia, il “figuralism” simbolico a cui aspiravano teneva conto
simultaneamente della concretezza e del mistico del trascendente, come testimoniano i dettagli dei loro dipinti d’ispirazione storica, biblica e letteraria. I sorprendenti dettagli degli
abiti e degli arredi continuano ad essere fonte di ispirazione
anche per l’architettura. Ad esempio, le miniature del dipinto “Roman de la Rose” contribuirono a definire l’assetto del
giardino della Red House, il luogo dell’anima dei Morris a
Bexley Heath nel Kent.
Con meno superficialità ed esuberanza di Rossetti, il visionario Edward Burne-Jones rivelò l’aspirazione ad un mondo
migliore e la necessità di valori più profondi di quelli proposti dall’utilitarismo ed il materialismo che andava affermandosi nella tarda epoca vittoriana.
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SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Nell’epoca dell’esaltazione delle grandi cannoniere e dei
cavi transatlantici, la rappresentazione fiduciosa di figure angeliche non era semplicemente un conforto per estraniarsi da
una realtà ansiogena. Programmaticamente, rifletteva i desideri e le attese delle nuove classi agiate forgiatesi nella Rivoluzione Industriale, che pretendevano per i propri figli un
mondo migliore con più gentilezza ed armonia. Una speranza destinata ad essere travolta dalla crisi della Prima Grande
Guerra Mondiale.
Il dipinto di Edward Burne-Jones “The Golden Stairs” (1880) rende al meglio questo anelito per un mondo
ideale, ma non astratto. Il tema sembra ispirato ad uno dei
racconti più famosi della Bibbia: il sogno di Giacobbe con la
visione profetica della scalinata verso il Paradiso, che aveva
già suggestionato William Blake.
Nella Genesi (Genesis 28:10-15) si narra che Giacobbe
abbia avuto in sogno l’apparizione di una scalinata, affollata di presenze angeliche, che dalla Terra raggiungesse il
Paradiso.
L’esegesi della narrazione biblica (Giovanni 1:51) assegna
alla scalinata lo stesso ruolo di Cristo (come mezzo per accedere al Paradiso). Il sogno della scala a spirale verso il Cielo
è tradotta da Burne-Jones senza evidenti connotati religiosi
o sofisticate astrazioni. Nelle preziose figure angelicate, si
possono riconoscere le vestali, compagne e figlie, dell’universo preraffaellita. Tutte le immagini nascondono analogie
figurative indirizzate a suggerire un significato metaforico
della contiguità tra mondo reale e trascendenza, mortalità ed
eternità. Il carattere divino della visione profetica di Giacobbe è manifestato dalla presenza delle raffinate proporzioni
matematiche, legate alla sezione aurea: il rapporto tra una
grandezza maggiore e una minore, delle quali la maggiore
è media proporzionale tra la minore e la somma delle due
grandezze, ed in pratica è la soluzione positiva dell’equazione algebrica x2 - x - 1 = 0.
Questa divina proporzione corrisponde al valore numerico
л
5
1
2
_
Φ = 2 cos (__) = __ (1 + √5) ≡ 1,6180339...
ed è indicata con la lettera greca Φ, dalla lettera iniziale del nome greco dello scultore Fidia). Sin dall’antichità
è stata utilizzata quale unità di misura dell’armonia, affermandosi come canone estetico nel Rinascimento, con la
pubblicazione nel 1509 del famoso manuale del matematico
Luca Pacioli, illustrato con i disegni di Leonardo da Vinci.
Considerata quasi la chiave mistica dell’armonia nelle arti e
nelle scienze, la sezione aurea fu impiegata ampiamente nei
quadri di Piero della Francesca e Sandro Botticelli, autori rinascimentali precedenti a Raffaello. La sezione aurea appare
nelle dimensioni della scala e della tromba tra le mani della
quarta fanciulla dall’alto (identificata come la figlia Margaret
dell’autore), nelle lunghezze delle gonne, nelle dimensioni
della porta e del lucernario in cima alla scalinata.
26
QUANDO FINISCE UN’AVANGUARDIA?
Il valore di ogni movimento culturale non si misura dal suo
persistere, ma in base agli elementi anticipatori dei successivi paradigmi estetici. Per cui, non è semplice spiegare come
questa avanguardia artistica fiorita in epoca vittoriana sia rimasta in vitale sintonia con l’arte e la cultura successiva, se
non indagando quanto abbia anticipato i temi dei movimenti
impressionista e simbolico.
Certamente l’indizio che i PreRaffaelliti contengano ancora elementi di rigenerante modernità è certificata dal successo di critica e di pubblico del tour mondiale della più
recente esposizione itinerante “Pre-Raphaelites: Victorian
Avant-Garde”, inaugurata a Londra nel 2012, ammirata da
oltre un milione di visitatori alla National Gallery of Art di
Washington, al Pushkin Museum of Fine Arts di Mosca, alla
Mori Arts Center Gallery di Tokyo, ed infine, nel 2014, a
Palazzo Chiablese, la rinnovata sede espositiva del Palazzo
Reale di Torino.
L’utopia della Bellezza ha rappresentato la ragione ideale
che ha permesso a questo movimento di non scomparire mai
del tutto, proponendosi alle generazioni seguenti come fonte
a cui attingere, riadattare, reinventare e riproporre la propria
ispirazione.
Sebbene non si possa dire che ci abbiano lasciato in eredità
una nuova scuola di pittura, tuttavia i veri eredi del PreRaffaellitismo sono tutti quegli artisti che continuano fermamente
a lavorare sfidando le mode e i dettami imposti da certi movimenti artistici in auge. I veri eredi sono tutti coloro che sfidano l’indifferenza e l’autocompiacimento e come asseriva
Ruskin, vanno incontro alla Natura con un cuore singolare,
camminando in sua compagnia operosamente e con fiducia.
Il respiro del PreRaffaellitismo non si affievolirà fino a
quando gli artisti saranno in grado di leggere ed interpretare
le fertili pagine del libro chiamato Natura.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA
Reportage e giornalismo italiano nel
corso della Grande Guerra
ROBERTO SCIARRONE
Assegnista di ricerca, Dipartimento di Storia Culture Religioni dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza
D
opo William H. Russel, reporter irlandese del Times di Londra
e Ferdinando Petruccelli della
Gattina, anticipatore del reportage all’americana e corrispondente per La Presse - definito da Indro Montanelli il
«più brillante giornalista italiano dell’Ottocento» - il
XX secolo vede protagonisti Luigi Barzini e Arnaldo
Fraccaroli, entrambi inviati di guerra per il Corriere
della Sera. Proprio dei due corrispondenti si occupa
questo studio che cerca di tracciare il percorso professionale, lo stile e l’accuratezza descrittiva dei più importanti reporter italiani in quella terribile occasione.
Barzini, già testimone di alcuni conflitti dal 1899 per il
giornale di via Solferino - e che proseguirà a raccontare le
guerre sino al 1921 - è dotato di una grande capacità lavorativa che gli consente di scrivere di notte, dopo un’intera
giornata trascorsa al fronte, i suoi articoli. I reportage, ricchi di particolari e ammantati da un aurea descrittiva senza
paragoni, ne fanno un giornalista d’eccezione, il cui valore
viene confermato dalle principali potenze europee dell’epoca attraverso riconoscimenti e titoli onorifici.
Nel corso della guerra Barzini pubblica diversi saggi e
memoriali fra i quali Scene della grande guerra (1915), Al
Fronte (1915) e La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso
(1917).
L’intenzione di questo contributo è quella di fornire, attraverso i racconti di Barzini e Fraccaroli, l’intensità dell’impegno dei giornalisti italiani presenti, riconosciuto tra i più
puntuali e brillanti.
Luigi Barzini è considerato il più grande inviato di guerra
italiano, uno dei pochi la cui fama superò i confini nazionali,
“Nuovo articolo di Barzini!” era l’urlo con cui gli strilloni del
Corriere della Sera richiamavano l’attenzione nella Milano
dei primi anni del Novecento. La sua copertura della guerra
russo-giapponese (1904-1905) suscitò ammirazione in tutto
il mondo, fu il primo ad arrivare nelle terre dove si svolse
il conflitto e
l’unico a seguirlo fino
alla fine.1 Ad una prima lettura i suoi articoli potrebbero apparire simili a quelli di William Russel,
ma un esame più approfondito dimostra differenze profonde.
Il giornalismo era entrato in una nuova era, mentre il Times
di Russel apparteneva ancora all’orizzonte culturale del giornalismo ottocentesco, il Corriere della Sera di Barzini era
ormai proiettato nel nuovo secolo, nel pieno dispiegarsi della
rivoluzione industriale e il diffondersi di innovazioni tecnologiche cruciali nel settore editoriale. La più importante era
la rotativa, nuova macchina a stampa che aveva centuplicato
le tirature giornaliere dei quotidiani, l’uso di una carta più
economica e la composizione a caldo tramite la Linotype favorì la stampa di massa e giornali a basso prezzo rivolti a un
vasto pubblico appartenente non più all’élite, ma alle classi
1 A. BiAgini, La guerra russo-giapponese, Nuova Cultura, Roma, 2011,
pp. 7-27.
27
STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
medie, medio-basse e anche popolari. Tale fenomeno si inseriva nella più ampia e graduale trasformazione delle strutture
sociali, economiche, culturali e politiche dei paesi occidentali, distinti dalla diffusione dell’istruzione elementare, dalla
crescita di istituzioni più democratiche e da nuove dinamiche politiche. Con l’inizio delle pubblicazioni del Daily Mail
(1896) in Gran Bretagna era comparsa una stampa apertamente “popular” che si differenziava dalla stampa “di qualità” rappresentata dal Times e dal Guardian. L’ascesa della
“popular press”, detta anche tabloid, caratterizzò soprattutto
la Gran Bretagna, ma in tutta Europa e negli Stati Uniti il periodo tra il 1870 e il 1914 vide la nascita della stampa di massa. A inizio Novecento il Daily Mail raggiungeva il milione
di copie, a Parigi i quattro quotidiani più venduti superavano
i quattro milioni di stampe giornaliere. Negli Stati Uniti si
ebbe l’ascesa della “yellow press”, guidata dai quotidiani
sensazionalistici di Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, in Italia nel 1913 il Corriere della Sera giunse a oltre
350mila copie. In questo periodo i giornali raggiunsero i
massimi livelli di diffusione e monopolizzarono la formazione dell’opinione pubblica, un ruolo importante, in questo
senso, fu interpretato dalle tecnologie della comunicazione
e dalle ripercussioni che le loro trasformazioni ebbero sulle
modalità di raccolta e distribuzione delle informazioni. La
diffusione delle ferrovie e della navigazione a vapore facilitò l’accesso ad aree prima difficili da raggiungere e ridusse
i tempi di viaggio. L’innovazione più importante fu quella
del telegrafo che introdusse la possibilità di trasmettere una
notizia in tempi brevi, ciò provocò l’esigenza di velocizzare
il lavoro del reporter. È in questo periodo che nacque la frenesia dello scoop, che assicurava un’immediata impennata
alle vendite del giornale, la nota regola delle “cinque W” –
le cinque domande a cui si deve rispondere già nel primo
paragrafo di ogni servizio: What, Where, When, Who, Why
– e l’affermazione delle agenzie di stampa. Nel 1848 cinque
quotidiani newyorchesi fondarono la Associated Press proprio per condividere le spese telegrafiche, successivamente
nacquero l’inglese Reuters, la tedesca Wolff e la francese
Havas. I nuovi giornali di massa erano imprese solide con
enormi giri d’affari e in tutte le metropoli occidentali, da
Fleet Street a Londra a Via Solferino a Milano, nuovi palazzi vennero costruiti per ospitarle. Si legittimò il principio
dell’obiettività, dell’imparzialità, della separazione tra fatti
e opinioni, in realtà la forte competizione per l’interesse del
pubblico stimolò anche il “sensazionalismo”, forzando sovente le notizie per attirare l’attenzione del lettore. Nell’età
dell’oro dei quotidiani il giornalismo di guerra ebbe una posizione di primo piano, la figura principe era quella dell’inviato speciale che rischiava la vita per testimoniare combattimenti e operazioni militari. Furono numerosi gli inviati di
guerra che affrontarono gravi pericoli e disagi per produrre
brillanti corrispondenze su conflitti sparsi nel mondo. Del resto in occasione dei conflitti le tirature aumentavano, in particolar modo se il giornale poteva offrire ai lettori resoconti
“esclusivi” dei propri corrispondenti. Il giornalismo di guerra
conobbe l’apice della sua importanza proprio nel trentennio
28
a cavallo del Novecento, momento
in cui la carriera di Luigi Barzini
vedeva la consacrazione internazionale. La guerra era ormai cambiata
rispetto all’epoca napoleonica, e
anche rispetto ai tempi della guerra
di Crimea, la rivoluzione industriale
aveva assorbito il mondo militare.
Ferrovie, navi a vapore e telegrafo rendevano possibile trasportare
truppe molto più numerose, su distanze molto più lunghe e in tempi
molto più brevi. Le armi divennero
distruttive e micidiali, attorno alla
metà del secolo, a partire dai modelli messi a punto dal francese Minié,
si diffuse il fucile a canna rigata a
retrocarica e con proiettile ogivale.
Un’arma di cui tutti gli eserciti occidentali si dotarono in pochi anni,
che poteva sparare con precisione e
uccidere a diverse centinaia di metri
di distanza.
Luigi Barzini nacque a Orvieto
nel 1874, poco più che ventenne
iniziò a collaborare con il giornale
satirico Fanfulla di Roma e qui lo
conobbe Luigi Albertini il direttore
che stava trasformando il Corriere
delle Sera in un quotidiano di levatura europea. Albertini rimase
esterrefatto dalle doti di quel giovane e, nonostante l’inesperienza, lo
assunse inviandolo prima a Londra
e poco dopo in Cina per seguire la
repressione dei “Boxer”. Barzini
si dimostrò subito un grandissimo
cronista, dotato di senso della notizia, energia, tenacia, uno stile di scrittura asciutto e incisivo,
lontano dalla retorica che dominava il giornalismo italiano.
Le corrispondenze da Pechino sull’intervento dei contingenti
internazionali che schiacciarono i Boxer ebbero grande successo. Il giovane inviato rivelò una eccezionale capacità di
racconto, unita a serietà e rigore nella raccolta e verifica delle
informazioni. Diventato una delle firme più conosciute del
Corriere della Sera, Barzini contribuì al sorpasso del quotidiano concorrente Il Secolo.
Ma l’impresa giornalistica che lo rese famoso a livello internazionale arrivò nel 1904 allorché, in maniera del tutto
fortuita, si trovò a seguire alcune manovre militari in Italia, a
cui partecipava come osservatore un alto ufficiale dell’esercito giapponese. Anche se questi non gli fornì alcuna informazione diretta, alcuni discorsi bellicosi nei confronti della
Russia persuasero Barzini che la crescente tensione tra Tokyo e Mosca stava per toccare l’apice. Il giornalista italiano
partì quindi per la remota regione all’estremo est del territo-
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA
Una pagina del Calendario Storico dei Carabinieri, 2013
rio russo (Manchuria, Yellow Sea, Korean Peninsula), dove
i due imperi si sarebbero potuti scontrare. Con un viaggio
lungo e avventuroso vi giunse prima di qualsiasi altro reporter, seguendo le operazioni militari dalla parte giapponese.
Le capacità del grande inviato possono quindi essere riassunte dall’esperienza di Barzini in quegli anni: resistenza fisica
per sopportare condizioni di vita e fatiche a volte durissime,
determinazione e lungimiranza per venire a conoscenza dei
luoghi in cui si svolgono gli eventi salienti e riuscire a raggiungerli, coraggio per esserne testimone fino in fondo. Il
più noto reporter italiano dell’epoca le possedeva tutte. Con
ostinata determinazione rimase per mesi nella zona dei combattimenti, muovendosi su tutto il fronte a piedi, a cavallo e
con mezzi di fortuna, resistendo a condizioni ambientali terribili (gelo, tormente, disagi, mancanza di cibo), intervistando soldati e ufficiali, esaminando ogni cosa in prima persona,
esponendosi durante gli scontri a fuoco, sfuggendo a ripetuti
tentativi di limitare la sua testimonianza giornalistica. Finì
con l’essere il reporter che di quel grande conflitto traman-
dò il resoconto più completo, organico e brillante. Le sue
corrispondenze, lette e ammirate in tutto il mondo, vennero
raccolte in un volume così ricco di informazioni, commenti,
cartine e fotografie, da lui disegnate e scattate, da diventare
testo di studio nelle accademie militari.
Barzini possedeva una caratteristica innata di comprendere il significato storico degli eventi di cui era testimone e il
loro spessore epocale, forte di questa esperienza affrontò il
conflitto più imponente e sanguinoso della storia: la Prima
guerra mondiale. “Questa non è guerra”, esclamò terrorizzato un generale inglese di fronte ai massacri della gigantesca battaglia di Verdun (France, 21 february – 20 december
1916). La prima guerra mondiale superò e stravolse qualsiasi
idea di guerra esistita fino a quel momento, Eric Hobsbawm
lo ha preso come punto di inizio del “The Short Twentieth
Century” del Novecento2 e dell’età contemporanea, per quat2 E. HoBsBAwm , The Age of Extremes: The Short Twentieth Century,
1914–1991, Michael Joseph, London, 1994, pp. 32-47.
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STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
tro anni (1914-1918) la guerra coinvolse tutti i paesi europei, dalla Francia all’Impero asburgico, dall’Italia alla Gran
Bretagna, dal Reich tedesco alla Russia e dal 1917 anche gli
Stati Uniti, su fronti di migliaia di chilometri e sulle trincee.
Complessivamente vi parteciparono circa 65 milioni di soldati, i morti furono 15 milioni e i feriti 21 milioni. La guerra
costrinse le nazioni partecipanti a mobilitare intere generazioni di cittadini per riempire i ranghi degli eserciti di massa
attraverso la coscrizione obbligatoria. Di fronte a questo terribile evento il giornalismo diede prova assolutamente deludente, gli storici infatti sono concordi nel condividere il duro
giudizio espresso nel 1928 da Arthur Ponsonby: “When war
is declared, Truth is the first casualty.”.3 Le cause di questa
débâcle furono diverse, ma una spicca su ogni altra: tutti i paesi, per la prima volta, crearono strutture capillari ed efficienti per controllare e manipolare i mezzi di informazione, cercando di “addomesticare” i resoconti giornalistici e produrre
una poderosa ondata di propaganda patriottico-bellicistica
che alimentasse la volontà di combattere delle popolazioni.
L’evoluzione degli stati nazionali e il loro sviluppo in senso
democratico (suffragio) si era tradotta in quello che Georg
Mosse ha definito la “nazionalizzazione delle masse”.4 Le
sorti dei governi dipendevano molto di più che in passato
dal voto dei cittadini e dal favore dell’opinione pubblica; la
coscrizione obbligatoria trascinava direttamente nell’esperienza bellica milioni di cittadini. In tutti i paesi vi era una
stampa a grande diffusione capace d’influenzare l’opinione
pubblica e un problema tipico delle società democratiche era
quello di giustificare la guerra, di spiegare ai cittadini il motivo per cui essi avrebbero dovuto sopportare sacrifici così
gravi. Emblematico è l’esempio dell’Italia, dove tra il 1914
e il 1915 si sviluppò un intenso dibattito sull’intervento del
conflitto già in corso, gli storici affermano che la popolazione del paese fosse in maggioranza favorevole alla neutralità, il governo, comunque, finì con l’allearsi con la Francia e
Gran Bretagna ed entrare nel più sanguinoso conflitto della
sua storia che costò circa 600mila morti. Questo orientamento fu dovuto, in parte, all’atteggiamento della stampa, il
Corriere della Sera ad esempio amplificò le manifestazioni
degli interventisti, contribuendo a creare la sensazione che
esse rappresentassero i sentimenti della maggior parte della
popolazione. Questa linea, a prescindere dalla straordinaria testimonianza di reporter alla Barzini, rispecchiava gli
interessi della borghesia industriale di cui la testata era l’espressione. Un caso ancora più evidente fu quello del Popolo
d’Italia, il nuovo giornale fondato da Benito Mussolini che
aveva diretto in precedenza il giornale del Partito Socialista
l’Avanti!. Il Popolo d’Italia nacque con l’intenzione di perorare l’intervento italiano nella guerra, a finanziarlo infatti
furono alcuni gruppi di industriali italiani che fiutarono affari
3 A. PonsonBy, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies
Circulated Throughout the Nations During the Great War, George Allen
& Unwin, London, 1928, p. 7.
4 g.L. mossE, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism
and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the
Third Reich, Howard Fertig, New York, 2001, p. 25.
30
economici ed esponenti del governo francese che da tempo
si adoperavano perché l’Italia scendesse in campo contro
Austria e Germania. Dopo lo scoppio delle ostilità i giornali
italiani stabilirono una linea “patriottica” e di sostegno allo
sforzo bellico, ma fu determinante la censura e la propaganda
prodotta dalle autorità civili e militari, già il 23 maggio 1915,
poche ore prima dell’entrata in guerra, un decreto vietò ai
giornali di diffondere notizie che andassero al di là dei comunicati ufficiali su materie quali l’andamento delle operazioni
militari, le nomine di comando, il numero di morti e feriti. Il
giorno dopo venne attivato un Ufficio Stampa del Comando
militare supremo, con sezioni distaccate in diverse città. Con
poche eccezioni l’accesso ai cronisti al fronte venne vietato e
in tutti i paesi si costituirono apparati di censura e propaganda. Uno dei più organizzati fu allestito dalla Gran Bretagna
che istituì presso il governo un Press Bureau, poi un War
Propaganda Bureau e quindi il Ministry of Information, cui
vennero chiamati a collaborare alcuni dei maggiori scrittori
dell’epoca come Rudyard Kipling, Herbert G. Wells e Arthur
Conan Doyle. I giornali si riempirono di racconti delle atrocities compiute dalle truppe del Reich che avevano invaso
il Belgio. Quasi tutte queste notizie erano in realtà forzate,
distorte e alle volte inventate, tra i casi più clamorosi ci fu
la storia – falsa - dei soldati tedeschi che mozzavano le mani
ai bambini belgi. In Francia i cronisti che si avventuravano
tra le linee venivano arrestati – accadde anche a Barzini – e
quando il quotidiano Homme Libre di Georges Clemenceau
osò denunciare l’inefficienza del servizio sanitario militare le
autorità di Parigi ne bloccarono subito le pubblicazioni. In un
primo momento anche i generali inglesi impedirono l’accesso ai giornalisti alle zone di combattimento, questa politica
fu poi modificata – in parte – perché i tedeschi offrivano ai
reporter stranieri un’ospitalità generosa. Un’eccezione parziale fu offerta solo dalla stampa statunitense anche se non
mancarono alcuni esempi di giornalismo brillante e a tratti
straordinario come le opere di Barzini lo testimoniano, pubblicazioni come Scene della grande guerra (1915), Al Fronte
(1915) e La guerra d’Italia, Dal Trentino al Carso (1917)
rimangono tra i racconti più fulgidi della Grande Guerra.
“Morale altissimo” – dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore,
laconico e pacato, non dedica che una parola all’anima dell’esercito.
Il Paese deve averne avuto un’impressione di baldanza. Ma nulla può
conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già
nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre
schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d’un colpo di
ala immane, invisibile, favolosa. […] E’ per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori
sui binari morti. La vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia.5
Barzini, nei suoi resoconti, descrive il continuo passaggio
dei treni e le truppe, ferme in stazione, che aspettavano l’ora
della partenza, durante lunghe soste al sole. Si combatteva
5 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC, Roma), L.
BArzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Fratelli Treves Editori, Milano,
1915, pp. 24-54.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA
per la conquista di picchi sassosi, sui quali non si potevano
scavare trincee. La parola Carso, per lui, significava roccia.
La montagna con le sue stratificazioni calcaree, con le sue
vallette verdi, con i suoi crepacci ricordava un po’ la montagna di Derna. La natura offriva alla difesa delle formidabili
posizioni naturali, complete e fortificate. Il nemico si nascondeva dietro queste formazioni naturali. Se l’opinione pubblica austriaca si mostrò sorpresa dall’entrata in guerra dell’Italia, sul campo di battaglia tutto fa pensare che in realtà essa
avesse già organizzato una strategia da tempo preparata.
Dalle parole di Lugi Barzini, tratte dai suoi resoconti pubblicati nel 1915, emergono lo stile unico e la cura dei dettagli
che il reporter italiano amava regalare ai propri lettori. Egli
non si soffermava solamente alla cronaca dei fatti ma, con
grande acutezza, interpretava le azioni dei contendenti alla
luce degli eventi di politica estera, come nel caso dell’Austria. Inoltre, la grande capacità descrittiva della natura e del
territorio, in cui si trovarono i soldati italiani, catapultavano
il lettore sul teatro di guerra, eccitando l’immaginazione di
milioni di lettori.
Ma al di là di questi articoli di grande pregio, nel complesso i resoconti giornalistici sulle operazioni militari della Prima guerra mondiale risultarono reticenti e fuorvianti, lo stile
spesso era fortemente retorico, gli articoli generici e poco
documentati. I contenuti finivano così col ridursi alle scarne
notizie fornite dai comunicati ufficiali, alternate a descrizioni
generiche o a racconti di episodi astratti.
La battaglia vastissima procede con titanica potenza. Non è una battaglia d’impeto, con pronti risultati brillanti e limitati: è una battaglia
colossale, di costanza, di saldezza, di ostinazione, di tenacia. […] Le
speranze più radiose illuminano gli occhi del gigante che la scrolla.6
Pur considerando importante l’opera di un altro protagonista del giornalismo di guerra italiano, Arnaldo Fraccaroli,
non si può non ravvisare l’influsso dell’estetica nazionalistafuturista nei suoi resoconti. La guerra, infatti, giungeva ad
essere rappresentata come una successione di eventi quasi
fantasmagorici, onirici, descritti con uno stile quasi espressionistico. E come spesso accade nel giornalismo spesso si
omettevano fatti importanti, come ad esempio la vita nelle
trincee, le carneficine, la sofferenza fisica dovuta al freddo,
alla fame, ai parassiti, alla pioggia e al fango. Non solo. Fu
passato sotto silenzio l’uso generalizzato dei gas, nuovo strumento di morte, poco fu detto degli errori degli ufficiali, della
logistica e della sanità militare, nulla sui favoritismi e le ingiustizie che si consumarono all’interno delle forze armate
in materia di rifornimenti, distribuzione dei compiti e licenze. La tragica disfatta di Caporetto (Kobarid – Slovenia) del
novembre 1917, sul fronte italiano, fu riportata dai giornali
della penisola in modo generico, frammentato e dilatato. I
giornali nascosero anche le manifestazioni di dissenso che
si moltiplicarono sia tra le truppe sia tra la popolazione civile, i numerosi casi di diserzione e insubordinazione, con
le conseguenti repressioni sanguinose; i non rari episodi di
fraternizzazione con il nemico – ad esempio tra i soldati in
trincea – e gli scioperi e le proteste che scoppiarono in molte
città contro le dure condizioni di vita imposte dalla guerra.
Specialmente tra le truppe al fronte si sviluppò la diffusione
di “false notizie” e, parallelamente, la comparsa dei “giornali
di trincea”, fogli pubblicati per iniziativa delle autorità militari che dovevano servire a tenere alto il morale delle truppe
come La Tradotta, La Ghirba, La Trincea e Il Piave. Questi
giornali furono un interessante esempio di “para-giornalismo
popolare”, scritto con linguaggio elementare, ricco di illustrazioni, cui collaborarono i migliori artisti italiani dell’epoca. La propaganda fu il fenomeno nuovo più evidente della Prima guerra mondiale, i mezzi di comunicazione erano
ormai rivolti a grandi masse di cittadini, chiamati in prima
persona a partecipare al conflitto, e divennero quindi una
nuova arma a disposizione degli Stati Maggiori. Non a caso
il giornalista Walter Lipmann scrisse dopo la fine del conflitto il suo celebre saggio Public Opinion (1922), prendendo
spunto dalle manipolazioni delle verità cui egli stesso aveva
assistito lavorando presso il Committee on public Information. Il suo testo offrì un analisi estesa del rapporto tra potere
politico, mass media e opinione pubblica. La conclusione di
Lippmann era pessimista poiché credeva che indeformabili
limiti di tempo, di energie psicologiche e di cultura portavano le persone comuni a ragionare per stereotipi semplificati,
e la massa non era quindi consapevole della verità.
BIBLIOGRAFIA
L. Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Milano,
1915;
L. Barzini, Scene della grande guerra, Milano, 1915;
L. Barzini, La guerra d’Italia. Sui monti, nel cielo e nel
mare, Milano, 1916;
L. Barzini, La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso, Milano, 1917;
A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During
the Great War, London, 1928;
E. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth
Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994;
D. Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Perugia,
1994;
G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political
Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, New York, 2001;
E. Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Firenze,
2008;
O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti
armati da Napoleone ad oggi, Bari-Roma, 2009;
A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Roma, 2011.
6 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR), Arnaldo Fraccaroli,
Corriere della Sera, 23 agosto 1917.
31
Energie rinnovabili a vocazione turistica.
Itinerari attivi di energy tourism in Italia
GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
32
GIOVANNA SPINELLI
Dipartimento di Scienze della Formazione,
Psicologia e Comunicazione, Università
degli Studi di Bari Aldo Moro
...bolliva e soffiava come se per entro
vi salisse l’imperto e il gorgoglio dei
dannati fitti nel limo,
come se nel fondo vi s’agitasse la mischia perpetua degli iracondi…
(G. D’Annunzio, Forse che si forse che
no, 1910).
Q
uesto
contributo
prende spunto dal
modulo
didattico
Rerisk
(Regions
at Risk of Energy
Poverty, Regioni a rischio di povertà
di energia), frequentato nel 2012 dalla scrivente attraverso la piattaforma
scientifica on line di ESPON (European Spatial Planning Observation Network, Rete di osservazione e pianificazione spaziale europea; responsabile
scientifico italiano: M. Prezioso).
Gli studiosi di ESPON, in linea con
gli obiettivi Europa 2020 (CEC, 2010),
atti a garantire una crescita armoniosa
e sostenibile di aree geografiche con
differenti caratteristiche e specificità, utilizzando l’approccio a tre sca-
le: scala europea (scala macro), scala
trans-nazionale (scala meso) e scala
di un singolo territorio (scala micro)
hanno approfondito diversi ambiti di
studio quali: l’economia (ricerca di
nuovi mercati emergenti e sviluppo
tecnologico); il trasporto (mobilità/accessibilità territoriale, completamento
dei corridoi europei, trasporto urbano);
la demografia (fertilità, invecchiamento e processo migratorio); la fornitura
energetica (aumento del prezzo dell’energia).
Per quanto riguarda quest’ultimo
ambito è emerso che per lo sviluppo
sostenibile del nostro territorio occorre, oggi, un corretto uso delle risorse
energetiche, che sul nostro pianeta non
sono più illimitate e infinite e registrano costi sempre più alti.
Il sostegno alle energie rinnovabili
è divenuto, quindi, un tema prioritario per i policy makers ai vari livelli
di governo per numerose ragioni: esso
rappresenta uno strumento per l’abbattimento dei gas serra e, più in generale,
contribuisce alla riduzione dell’inquinamento atmosferico. Questo sostegno
concorre, inoltre, ad aumentare la sicurezza nazionale in tema di approvvigionamenti energetici. In questo modo,
fonti rinnovabili e risparmio energetico
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA
diventano due settori in forte espansione tecnologica e di mercato e rappresentano un’occasione di sviluppo economico e occupazionale per le imprese
e i territori che sapranno cogliere le
sfide a esse associate.
RISORSE ENERGETICHE
RINNOVABILI PER LO SVILUPPO
SOSTENIBILE DEL TERRITORIO
Negli ultimi anni anche i geografi
hanno maturato un interesse crescente
per le tematiche ambientali collegate a
un uso corretto delle risorse energetiche
sottolineando dapprima «l’importanza
economica dell’energia, che rappresenta una risorsa fondamentale in quanto
permette la produzione di tutti gli altri
beni materiali. Perciò, l’opportunità di
fruire facilmente, abbondantemente e
a basso costo delle risorse energetiche
consente il decollo e lo sviluppo economico; non è un caso che la società
industrializzante del mondo occidentale siano sorte impiegando carbone
(abbondante e accessibile) a basso
prezzo e si siano sviluppate, in particolare dopo la seconda guerra mondiale,
grazie allo sfruttamento di immensi
giacimenti petroliferi. Ma, la crescita
enorme dei prezzi petroliferi ha causa-
to un rallentamento produttivo dell’economia internazionale e ha favorito,
nei Paesi industrializzati, l’adozione di
provvedimenti volti al risparmio energetico e alla diversificazione delle fonti
di energia» (De Vecchis, 2001, p. 132).
Anche altri autori hanno affrontato
l’argomento (Bagliani, Pietta, 2008;
Brandolini, 2008). In particolare, è stato affermato che: «La produzione, la
distribuzione, il consumo di energia,
le differenti tipologie di fonti energetiche, la loro ubicazione nello spazio, le
differenti strutture utilizzate per il loro
sfruttamento, gli strumenti di piano
politici ed economici finalizzati a promuovere l’utilizzo di una fonte piuttosto che un’altra sono temi importanti
per la disciplina geografica e sono in
grado di esprimere quella che può essere definita la vocazione energetica di
un territorio» (Puttilli, 2009, p. 601).
Altri studiosi hanno, quindi, puntato l’attenzione su «un sistema
energetico sostenibile promuovendo il ricorso a tecnologie che contrastino il global warming» (Pinna,
2004). Il cambiamento climatico,
infatti, «inciderà sulla disponibilità
e qualità delle risorse energetiche
idriche in particolare, e provocherà
una più intensa competizione nell’uso
dell’acqua). […] Fra le conseguenze
innescate dal cambiamento climatico
vanno annoverati anche i processi di
degrado del suolo e la desertificazione,
[…] nonché la progressiva perdita di
biodiversità» (Salvati, Perini, 2011, p.
537)1. Ne consegue «la necessità di un
miglioramento e adeguamento della
gestione e dell’uso delle fonti energetiche, al fine di ridurre al minimo l’impatto negativo sul territorio e migliorare la qualità della vita delle collettività
umane» (Nijhuis, 2014, p. 23).
1 Le sfide dell’attuale mutamento climatico ci
inducono anche a occuparci dei futuri propulsori che spingeranno i mezzi di trasporto, in particolare quelli su strada. A tal proposito, gli esperti dell’Istituto Motori del Cnr prevedono che
sul breve periodo, il carburante migliore sarà il
metano; mentre l’idrogeno sarà usato nelle celle
a combustibile dei motori ibridi. Ma, per rendere incisivo l’uso di questo vettore energetico
ci vuole un grande cambiamento: tutta la città
deve virare verso l’idrogeno; l’industria automobilistica, invece, concentra la propria ricerca
sulla sicurezza, il comfort e l’estetica (Itae-Cnr,
2012 Istituto tecnologie avanzate per l’energia).
Inoltre, le tecnologie ibride pongono non tanto
il problema della conversione dell’idrogeno in
energia, quanto l’estrazione, l’approvvigionamento e lo stoccaggio dell’idrogeno. Di fronte a
queste problematiche ambientali, occorre però
«mirare a un’analisi obiettiva dei fatti, senza
drammatizzazioni superflue né concessioni a un
facile ottimismo. È questo uno dei doveri della
geografia» (Pinna, 2004).
33
GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Queste riflessioni ben si addicono a un modo di vivere sostenibile, che non altera «gli equilibri naturali, mirando al
soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle
proprie» (Rognini, 2012, p. 89).
Attualmente, i fabbisogni energetici dell’umanità vengono
soddisfatti per circa l’80% dai combustibili fossili e per molti
decenni ancora saranno questi a garantire un apporto sostanziale, perché l’uso delle energie rinnovabili è condizionato
da fattori non solo tecnico-economici ma anche territoriali;
l’utilizzo del nucleare, inoltre, pur tecnicamente maturo e
competitivo, trova scarso consenso sociale.
A tal proposito, in Italia, sono state attuate politiche di promozione delle energie rinnovabili che si ispirano agli obiettivi del «Libro Bianco per la valorizzazione energetica delle
rinnovabili» (approvato con delibera Cipe n. 126 del 1998),
redatto in relazione agli impegni assunti e sottoscritti dal Governo Italiano nel Protocollo di Kyoto e ratificati con la legge
n. 120 del 20022.
Analizzando anche i dati diffusi dall’Unep3 e dall’Agenzia
internazionale dell’energia (AIE o IEA) emerge che, in Italia
nel 2010, le energie rinnovabili hanno contribuito alla copertura della Tpes (offerta totale di energia primaria) con una
quota pari all’8,2%, il che rappresentava un valore inferiore
del 9,4% rispetto alla media dei Paesi europei dell’area Ocse
ma superiore del 7,1% rispetto alla prestazione totale dei paesi membri dell’Aie.
La maggior parte delle fonti di energia rinnovabile in Italia
è rappresentata dall’energia idroelettrica e geotermica che,
insieme, ammontavano al 63,5% del totale delle energie
rinnovabili prodotte nel 2010, percentuale al di sopra della media dell’energia proveniente da queste fonti dei Paesi
dell’area Ocse, che è invece pari al 42,4%. La produzione
2 Nel 1972, a Stoccolma, fu organizzata la prima conferenza sull’ambiente e lo sviluppo, organizzata dall’ONU. Nel 1990 fu costituito un Comitato Negoziatore Intergovernativo che ebbe il compito di redigere una
convenzione-quadro sui cambiamenti climatici, sottoscritta a New York,
due anni dopo, da 154 Stati. Il protocollo di Kyoto, entrato in vigore il
16 febbraio 2005, si configura come lo strumento applicativo di tale convenzione e prevede l’obbligo da parte dei 35 Paesi, che hanno ratificato
l’accordo e responsabili del 55% di emissioni di gas serra, di ridurre entro il 2014 le emissioni di gas inquinanti (soprattutto anidride carbonica
e metano) del 5% circa rispetto a quelle del 1990. I governi mondiali
stanno, quindi, cercando le migliori politiche economiche e fiscali per incentivare l’utilizzo, da parte di imprenditori e privati, di tecnologie per la
produzione di energia da fonti rinnovabili. «Sono da considerarsi energie
rinnovabili quelle forme di energia generate da fonti che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi
umani. Sono dunque generalmente considerate fonti di energia rinnovabile il sole, il vento, il mare, il calore della Terra, ovvero quelle fonti il cui
utilizzo attuale non ne pregiudica la disponibilità nel futuro. Sebbene, le
risorse naturali di energia siano quasi illimitate (basti pensare all’energia
proveniente dal Sole o dalle rocce calde sotterranee), i problemi della sua
fruizione riguardano, quindi, le riserve, che sono limitate, perché si basano esclusivamente sulle attuali possibilità di sfruttamento» (De Vecchis,
2001, p. 132).
3 L’Unep è il programma ambientale delle Nazioni Unite, istituito nel
1972 come organismo destinato a conseguire il fine della tutela ambientale e dell’utilizzo sostenibile delle risorse naturali, realizza studi volti a
monitorare le condizioni ambientali per la tutela delle risorse naturali e
paesaggistiche; la sua sede generale è a Nairobi, in Kenya.
34
da fonti rinnovabili, in Italia, è aumentata rispetto al 2000,
quando rappresentava il 5,9% del Tpes, un livello leggermente superiore alla media dei Paesi dell’Aie che era pari,
un decennio fa al 5,6%.
In Italia, oltre a quella geotermica4, tra le principali fonti
rinnovabili di energia ricordiamo quella eolica5, la cui diffusione su larga scala trova limiti nei caratteri intermittenti
del vento. Anche il mare può essere fonte di energia6 e grandi aspettative sono rivolte all’energia solare soprattutto per
quanto riguarda la costruzione di impianti fotovoltaici7. Ma,
il settore più esigente è quello edile, responsabile da solo del
30% dei consumi energetici totali. L’attività edilizia, per il
suo enorme peso produttivo, è uno dei settori industriali a più
alto impatto ambientale; in questo settore occorre investire in
progetti di efficienza energetica8.
4 L’energia geotermica sfrutta il calore interno delle rocce del sottosuolo, le quali, venendo a contatto dell’acqua che filtra dalla superficie, la
riscaldano fino a trasformarla in vapore. Perforando il terreno si raggiunge il vapore intrappolato nel sottosuolo, che liberato, si può sfruttare
per generare energia elettrica; occorre però individuare le zone dove il
calore è concentrato in prossimità della superficie terrestre.
5 Per quanto riguarda l’energia pulita prodotta dal vento, possiamo affermare che esistono impianti in grado di soddisfare il fabbisogno di un
piccolo centro abitato. Questi generatori sono in grado di produrre fino
a 3 Megawatt con una velocità del vento di 3-4 metri al secondo. A tal
proposito, possiamo notare che ci sono significativi esempi di geografia
regionale (Landini, 2000; Prezioso, 2000) che discutono sul ruolo propulsore di sviluppo detenuto da impianti nei confronti del territorio circostante. Ma, ci sono anche casi di studio in cui vengono evidenziate alcune
criticità in termini di impatto paesaggistico provocato dalle torri eoliche
(Giorgio, 2007).
6 I francesi hanno primeggiato nello sfruttamento dell’energia delle maree. Nell’estuario del fiume Rauce, presso Saint Malo, esiste una centrale
che accumula acqua in un bacino artificiale quando il livello del mare sale
(alta marea) e la libera attraverso turbine quando il livello del mare scende
(bassa marea). Ma, oggi, anche in Italia, sono presenti casi esemplari di
sfruttamento energetico delle correnti marine. Se ne parlerà nel paragrafo
successivo.
7 Un impianto fotovoltaico è in grado di trasformare direttamente l’energia solare in energia elettrica. Composto da moduli o pannelli, che
rappresentano la parte attiva del sistema (perché convertono la radiazione solare in energia elettrica) e inverter, che trasformano la corrente
continua generata dai pannelli in corrente alternata, offre la possibilità
di produrre energia in totale sicurezza con assenza di qualsiasi tipo di
emissione inquinante. Esso è caratterizzato da un elevato costo iniziale
(dovuto essenzialmente all’elevato costo dei pannelli) e da una produzione discontinua a causa della variabilità della fonte energetica: il sole.
Considerando che la massima potenza erogata alle utenze domestiche è
di 3 kilowatt, una pala è in grado di soddisfare il fabbisogno di circa 1000
utenze domestiche, corrispondenti a 4000-4500 persone (considerando 4
abitanti medi per nucleo famigliare; si tratta delle dimensioni medie di un
comune italiano).
8 L’efficienza energetica inerisce interventi di riqualificazione edilizia
(favorita da recenti iniziative di incentivazione fiscale). Tali interventi
riguardano principalmente gli impianti di condizionamento, i sistemi
di illuminazione, i sistemi di monitoraggio dei consumi energetici e i
prodotti per l’edilizia con particolari caratteristiche termiche, strutturali,
estetiche e acustiche. Il concetto di passive house (di costruzioni a basso
consumo energetico) come volano per lo sviluppo delle economie locali,
sfrutta ciò che il territorio naturalmente mette a disposizione: il sole, il
vento, la terra.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA
PERCORSI INTERATTIVI ALLA SCOPERTA DI FONTI E
FORME NUOVE DI ENERGIA ALTERNATIVE
L’indagine attuata sinora ha avuto sorprendenti sviluppi anche sul piano turistico-ambientale. Fortunatamente da
qualche anno ci si è accorti che lo sviluppo turistico deve
tener conto, prima di tutto, dei valori e delle potenzialità
dei luoghi, evitando di compromettere il paesaggio nei suoi
aspetti naturalistici e antropici (Brusa, Papotti, 2012). A
tal fine, questo contributo cercherà di illustrare una forma
di turismo energetico (energy tourism), caratterizzata dalla
sostenibilità e basata sulla diversificazione delle risorse energetiche presenti sul territorio. In tale ottica, l’energy tourism sostiene quello che viene definito «il tourist gaze, cioè il
gusto per la geografia tesa alla valorizzazione delle identità
locali, come valida alternativa al tourist good ovvero il turismo come bene di consumo (Staniscia, 2006, p. 62) infatti le
risorse energetiche di un territorio conferiscono autenticità
a quel luogo e «in questo contesto non c’è spazio per le tre
f francesi (frime, fripe, frite: finzione, antico, fritto) (Brusa,
2013, p. 268)».
Perciò, in tempi recenti in Italia, sono sorti Parchi tecnologici che, ispirandosi alla natura e alle caratteristiche del
luogo, hanno creato itinerari attivi specifici di energy tourism all’insegna della sostenibilità. Partendo dal Sud Italia e
procedendo verso Nord si può delineare una guida sulle vie
dell’energia pulita e ai Poli scientifici e tecnologici italiani
del turismo energetico ambientale.
In Sicilia, a Messina c’è il Polo scientifico e tecnologico della Fondazione Horcynus Orca che con il patrocinio
dell’Unido/Onu, del Centro Internazionale sulle Scienze e
le Tecnologie Marine e Ambientali (ICSMT, orientato alla
documentazione, ricerca, trasferimento tecnologico e sviluppo di competenze specialistiche), del Cnr-Iamc e di Ponte
Archimede S.p.a ha recentemente attivato servizi complessi
e percorsi specifici per la crescita del turismo ambientale,
energetico, educativo e culturale. Tutto ciò è stato possibile
grazie al brevetto, progettato e poi realizzato, con il supporto dell’Unione Europea e della Regione Sicilia della turbina
ad asse verticale Kobold per lo sfruttamento energetico delle
correnti marine9. In virtù di questa realizzazione, è stato possibile ospitare numerosi turisti attratti anche dall’impatto che
la letteratura, la storia, la mitologia e le scienze naturalistiche esercitano sulle loro percezioni. In questo modo è stato
possibile coniugare turismo e proposte formative sulle nuove
frontiere della comunicazione e della produzione energetica
delle correnti di marea10, in particolare. Il Parco Horcynus
9 Ulteriori azioni di ricerca riguardano la creazione di un sistema wireless territoriale, che costituisce la piattaforma base di telecomunicazione
dei poli del Centro ICSMT e della Fondazione Horcynus Orca nello Stretto di Messina. La possibilità di produrre energie dalle correnti marine e
specifici progetti di trasferibilità si stanno implementando con i Paesi del
Sud-Est asiatico (Cina, Indonesia, Filippine).
10 Le proposte formative per i turisti prevedono, in generale, quattro
ambiti di approfondimento: letterario (il Parco deve il suo nome al capolavoro di Stefano D’Arrigo che incentra la sua storia nei luoghi dove esso
sorge; l’autore utilizza la lingua italiana e il dialetto calabrese e siciliano);
Orca è stato, quindi, progettato come un organismo vivente
sempre nuovo, un sistema di relazioni in continua osmosi fra
saperi ed esperienza.
Nel Subappennino Daunio in Puglia sono stati, invece,
proposti e attivati i sentieri dell’energia eolica. Nel comune
di Accadìa (FG), in località Murge del Cuculo e Monte Tre
Titoli, sono in funzione dal 1999 due campi eolici, composti
da 18 aerogeneratori11. La ventosità dei siti e le ore annue
di funzionamento registrate hanno evidenziato un tal elevato
standard di efficienza degli impianti da collocare il Subappennino Daunio tra i maggiori produttori di energia eolica a
livello europeo. In virtù di questi risultati, è stato progettato
un portale web per il turista del Parco eolico di Accadìa. Esso
concerne un sistema esperto per la generazione degli itinerari
e consente all’utente di ottenere la visualizzazione dell’ubicazione, la selezione e la scelta delle risorse da visitare e la
possibile creazione di un itinerario personalizzato tra le risorse selezionate (su una tematica a scelta: arte, cultura, sport,
energia, ambiente, devozione, terme). Il sistema consente
tale scelta considerando la variabile tempo e la variabile distanza geografica dalle risorse turistiche; il sistema consente
anche la visualizzazione dei percorsi più interessanti creati
da altri utenti e la possibilità di valutarli.
Anche il Parco delle energie rinnovabili (Per) umbro rappresenta un luogo concreto di incontro. Il Per si trova tra i
comuni di Todi (PG), Amelia (TR) e Guardea (TR), a un’altitudine di 575 m, in un’area rurale distante da industrie e
terreni adibiti all’agricoltura industriale. Trattasi di un’area
d’Interesse Comunitario con alto pregio faunistico e botanico con un bosco di 6.000 ettari. Sorto nel 2005, la storia
del Per nasce da un abbandono: l’agricoltura quantitativa e
seriale12 aveva spopolato questi campi (che erano riusciti a
naturalistico (il Parco prevede diversi percorsi di visita: la sala della terracqua fornisce attraverso la sequenza delle videoinstallazioni un viaggio
virtuale tra l’antico mestiere della pesca per immergere il turista nell’habitat dei marinai); storico-mitologico (i luoghi di confine sono luoghi di
transito: a Capo Peloro (ME) si sono insediate diverse popolazioni nel
corso dei secoli); etno-antropologico (la visita guidata al luntro, l’antica imbarcazione che ha accompagnato per secoli l’uomo nelle attività di
pesca e in particolare nella caccia al pescespada nelle acque dello Stretto).
Questi quattro ambiti permettono di cogliere l’identità di un luogo; tra
storia e mito si può navigare per riscoprire e comunicare il nostro senso
di appartenenza a un territorio e le fasi salienti della nostra storia. Il Parco
è, quindi, sede di spazi creativi, divulgazione scientifica, animazione alla
lettura e alle sperimentazioni visivo-teatrali, percorsi interattivi multidisciplinari, spazi per l’arte contemporanea, scuole di sub e vela, dirette audio/video subacquee, ambienti attrezzati per studiare le fonti energetiche
del mare e il suo habitat: i pesci abissali, i fossili e i reperti archeologici.
11 Il Parco n. 1 in località Murge del Cuculo ha 12 aerogeneratori
da 600 KW per una potenza installata pari a 7.2 MW; il Parco n. 2
in località Tre Titoli ha 6 aerogeneratori da 850 kW per una potenza
installata pari a 3.6 MW. L’intero impianto eolico di Accadìa (FG)
ha, quindi, una potenza installata totale pari a 10,8 MW e la capacità produttiva annua è di circa 30 milioni di kW/h. L’energia eolica
prodotta viene consegnata direttamente sulla Rete di Trasmissione
Nazionale (RTN) attraverso una sotto stazione di raccolta e trasformazione progettata e realizzata dalla Lucky Wind S.p.a.
12 L’agricoltura seriale si basa sull’uso delle serre e fertilizzanti chimici, retaggio novecentesco che non ha mantenuto la promessa di togliere
il mondo dalla fame, anzi ha contribuito ad aumentare le differenze tra
ricchi e poveri, provocando l’inurbamento di metà della popolazione
mondiale e impoverendo i terreni. Alcuni studiosi hanno sottolineato:
35
GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
sfamare la popolazione per millenni). Conseguentemente,
negli anni Sessanta il contadino, per vivere ha dovuto vendere il peso dei prodotti, non la loro qualità; ma non c’era
acqua sufficiente per gli ortaggi da coltivare con l’agricoltura
industriale. Così anche i contadini di queste terre sono dovuti andare in città a fare altri mestieri e comprare le verdure
coltivate da altri; i campi erano stati riconquistati dai rovi e
il casale era diventato un rudere. I fondatori del Per hanno,
invece, puntato sulla riruralizzazione e lo sviluppo turistico
di quest’area. L’agricoltura praticata è moderna, basata su
lotta integrata, compostaggio, associazione, rotazione, dissuasori fotovoltaici (per tener lontani i cinghiali), recupero
dell’acqua piovana13. Per i turisti sono presenti alloggi in
edifici ecologici: si tratta di educarsi a un’autonomia energetica condivisa che implica una forma di turismo alternativa
in cui si può apprendere come costruire una casa ecologica
e autonoma energeticamente con costi poco dissimili a un
edificio tradizionale14. In quest’area le più recenti tecnologie
energetiche vengono coniugate ai castelli, i borghi, le rocche,
i palazzi, le ville, i siti archeologici, le città d’arte, le iniziative teatrali, jazzistiche e culturali che costituiscono un forte
richiamo per i turisti. Al Per è, quindi, possibile appassionarsi alle varie soluzioni tecnologiche condividendo anche
altre attività inerenti le escursioni naturalistiche tra le colline
umbre, le masserie didattiche, il ciclo trekking, i concerti, il
degustare prodotti a chilometro zero e specialità gastronomiche del luogo. Perciò, presso il Per vengono organizzati
numerosi corsi, stages e seminari. Così come in natura viene
apprezzata la biodiversità anche tra i turisti è interessante cogliere le diverse motivazioni che conducono al Per.
Un’altra tappa interessante sulle vie dell’energia pulita si
trova nella Comunità Montana Alta Val di Cecina, nel Comune di Pomarance (PI); a circa 35 km dalla città di Volterra (PI) è presente l’area geotermica più estesa dell’intera Europa continentale, ancora oggi chiamata la «Valle del
Diavolo». Il viaggio attraverso questi territori (che un tempo
«L’espansione delle aree urbanizzate, con la trasformazione delle precedenti destinazioni d’uso (ad es. agro-pastorali, boschive, umide), è un
processo che, nel nostro Paese, sembra inarrestabile e che invade le aree
e i paesaggi rurali (Salvati L. e altri, 2011)». Occorre, perciò: «porre un
freno ad un’agricoltura fondata su sistemi di esasperato efficientismo produttivo, i quali provocano la rottura di fragili equilibri naturali e innescano
meccanismi di alterazioni ambientali irreversibili. Non si tratta di esaltare
l’agricoltura tradizionale, né di condannare alcune esperienze che rispondono a certi bisogni, bensì di fare delle constatazioni, segnalare danni o
rischi (Formica, 2004)»
13 Le acque piovane sono recuperate in grandi cisterne di pietra e poi,
dopo la fitodepurazione, vengono utilizzate per innaffiare il giardino e per
gli alloggi destinati ai turisti, che scoprono che l’acqua piovana è più amica
della pelle e per lavarsi basta metà del sapone abituale.
14 I collettori solari sul tetto e i moduli fotovoltaici a film sottile per la
produzione di energia elettrica si integrano con la struttura dell’ antico casale. I due generatori eolici sfruttano la brezza del luogo che ha un’ottima
resa energetica. Due grandi serbatoi per complessivi 4000 litri accumulano
il calore prodotto dai collettori solari e dalle caldaie a biomassa (alimentate
in gran parte dal cippato e scarti agricoli pellettizzati) e forniscono l’acqua
calda sia per i bagni sia per il riscaldamento. D’estate il calore prodotto in
eccesso viene inviato alla vasca da idromassaggio esterna. In alcuni ambienti più esposti a sud, l’aria fresca viene pescata da una presa posizionata
nel bosco esposto a Nord.
36
ha evocato spiriti e divinità) ci porta a conoscere i segreti
del calore che si sprigiona e sale dal sottosuolo e dal quale l’uomo oggi ha ricavato energia elettrica, ha fatto sorgere
stabilimenti termali e sviluppare industrie chimiche. Tra gli
impianti antichi e moderni per l’utilizzazione del vapore e gli
affioramenti geologici sono da segnalare: la Centrale geotermica e il Museo della geotermia di Larderello15; il pozzo dimostrativo e soffione16; le terme ellenistiche di Sasso Pisano
15 Presso questa centrale è possibile effettuare un percorso attrezzato che
illustra la storia della produzione energetica. La prima centrale geotermica
è entrata in esercizio nel 1913; oggi la geotermia produce il 25% del fabbisogno energetico della Regione Toscana. È, inoltre, incentivato il turismo
scolastico (vedi anche nota 20) con una didattica all’ interno del Museo
della geotermia. Agli studenti viene consegnata una medaglietta raffigurante uno dei quattro elementi caratteristici della geotermia: fuoco - acqua/
vapore - carica elettrica - luce. Il gruppo si muove nel Museo individuando
con la guida i vari elementi. In questo modo viene stimolata l’osservazione, la manualità, la creatività, la capacità di sintesi e lo spirito di gruppo.
Questo laboratorio didattico effettuato presso il Museo considera gli studenti come i protagonisti della visita. L’esperienza diretta costituisce la
modalità per effettuare una ricerca-azione.
16 Si tratta di un vecchio pozzo geotermico che viene aperto a scopo
dimostrativo; il pozzo dotato di moderne tecniche di museografia offre una
cronistoria tra l’uomo ed i fenomeni geotermici illustrando un percorso
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA
(PI) e Monterotondo Marittimo (GR)17; le Aziende agricole
appartenenti alla «Comunità del cibo delle energie alternative» di Slow Food18. Quest’area geotermica presenta, quindi,
un congruo insieme di elementi paesaggistici e naturalistici
che consentono di costruire innumerevoli itinerari di visita.
Tutto ciò dà adito a un laboratorio didattico di educazione
ambientale e paesaggistica nel segno della sostenibilità19.
che partendo dagli utilizzi della risorsa nel periodo etrusco e medievale
ci conduce verso lo sviluppo industriale e la sfida odierna delle energie
alternative; ha una portata di circa 20t/h di vapore a 220°C e ci trasmette
l’immensa potenza dell’energia della terra che oggi l’uomo cerca di catturare fino oltre i 3000 metri di profondità.
17 Si tratta di un luogo inserito dalla Regione Toscana tra i Siti di Interesse Regionale per la presenza di importanti habitat e specie vegetali. Una
terra ricchissima di minerali che nel Medioevo hanno determinato vere e
proprie guerre per il loro sfruttamento.
18 Trattasi di aziende agricole di produzione e trasformazione di prodotti
alimentari che utilizzano i fluidi geotermici per i loro processi di lavorazione. In particolare, la coltivazione del castagno, a partire dal periodo
etrusco ma soprattutto nel Medioevo ha condizionato fortemente la storia,
le tradizioni e la cultura di questi luoghi. I castagneti da frutto rappresentano inoltre straordinari habitat per importanti specie animali e vegetali.
19 Trattasi di laboratori artistico-sensoriali che si basano su brevi escursioni geografiche alla scoperta del cibo cotto sul vapore naturale, di terre
colorate e di sfumature delle rocce. Presso i siti geotermici di Sasso Pisano
Un altro esempio è il Parco delle energie rinnovabili Fenice, a Padova in Veneto. Ubicato in un’area peri-urbana al
confine fra il centro della città e le 1400 imprese insediate
nella Zona Industriale: l’Isola di Terranegra, il Parco è sorto nel 2001 e si sviluppa su un’area di 1800 mq. L’idea di
questo Parco è nata dalla volontà di valorizzare uno degli ultimi polmoni verdi della città di Padova. Anche Fondazione
Fenice organizza, così, corsi di alta formazione per aziende
e professionisti per favorire la conoscenza delle fonti di energia alternative e le loro possibili applicazioni in ambito civile
e industriale. Inoltre, affitta le strutture per meeting aziendali
sostenendo lo sviluppo dell’energy tourism. Gli obiettivi posti mirano a: costruire un modello di sviluppo ecocompatibile del territorio; predisporre piani energetici integrati per le
piccole e medie realtà industriali e artigianali del territorio;
attivare percorsi turistici sui temi dell’energia e dell’ambiente rivolti alle famiglie, ai giovani, alle scuole e agli imprenditori; coinvolgere le associazioni, la cittadinanza e il mondo imprenditoriale in progetti etico-ambientali; educare alla
corretta formazione ambientale dei giovani e dei cittadini
attraverso l’insediamento di una struttura ricettiva capace di
integrare attività turistiche, ludiche e didattiche; monitorare
la salute delle principali risorse ambientali; creare un luogo
dedicato alla promozione dello scautismo (che conta più di
7000 iscritti nel solo territorio provinciale).
Altro esempio di questo tipo è Enertour, il Parco tecnologico della Provincia Autonoma di Bolzano, progetto nato nel
2007 e sviluppato dal TIS innovation park insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano. È rivolto essenzialmente ai professionisti o agli addetti degli enti pubblici che
intendono conoscere meglio gli impianti energetici. L’intento è quello di unire ricerca di nuove tecnologie appropriate e
sviluppo turistico energetico in linea con le attuali esigenze
di tutela ambientale del paesaggio e sviluppo sostenibile del
territorio.
Questi esempi delineati si distinguono per aver pienamente
condiviso la strada di un turismo etico, responsabile e sostenibile. Essi sono espressione «della consapevolezza di sé e
delle proprie azioni, della realtà sociale, culturale, economica, ambientale delle destinazioni visitate, della possibilità di
una scelta diversa e, in taluni casi, alternativa alle pratiche
turistiche tradizionali. Il turista diventa un viaggiatore etico
e consapevole che, con rispetto e disponibilità, va incontro
alle mete di destinazione, alla gente, alla natura, facendosi
portatore di principi di equità, sostenibilità e tolleranza (Cerruti, 2007, p. 30)». Così operando «la meta turistica torna a
(PI) e del Lago Boracifero (GR), l’acqua viene utilizzata per far funzionare
le centrali elettriche e geotermiche e l’acqua è il tema intorno a cui ruotano
le escursioni geografiche. Si tratta di visite guidate che si svolgono nell’area geotermica e che permettono di conoscere i resti archeologici legati
alle acque termali, alla flora e alla fauna che vivono in acque dolci, nelle
acque ferme dei laghi, in quelle zampillanti dei ruscelli, nelle acque geotermiche calde e in quelle fredde delle sorgenti montane. Il laboratorio di
storia delle acque geotermiche è, quindi, un laboratorio didattico all’aperto
dove è possibile effettuare anche la misurazione della qualità dell’aria
attraverso l’Indice di Purezza Atmosferica (osservando i licheni presenti
sulle cortecce degli alberi) e/o della qualità delle acque attraverso l’Indice
Biotico Esteso (osservando gli invertebrati acquatici presenti nelle acque).
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GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
essere uno spazio vissuto e gli spazi non sono alienati e alienanti (Brusa, 2013, p. 268)». «L’idea di viaggio verso i valori della sostenibilità emerge anche dal rapporto Gli italiani,
il turismo sostenibile e l’ecoturismo, dal quale si evince un
sistema turistico integrato (SIT) in linea con le richieste di
uno slow tourism sensibile nei confronti delle soluzioni ecocompatibili, o più semplicemente eco-friendly (Albanese,
2012, p. 490).
I luoghi vengono raggiunti per conoscerli, viverli e apprenderli e questo nuovo modo di intendere il viaggio determina
la scelta di mete e itinerari diversi in grado di comprendere
anche quelle che sono le risorse naturali e le vocazioni energetiche di un territorio.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE E PROPOSTE
Alla luce di quanto sinora esposto si può affermare che
recentemente in Italia, ha preso avvio un’importante attività
di energy tourism. Questa forma di turismo energetico ha acquistato un significato strategico ai fini dell’acquisizione da
parte dei cittadini di un comportamento cosciente e propositivo verso il proprio habitat. Inoltre, si è sviluppato l’interesse anche didattico20 dei percorsi escursionistici proposti dall’
energy tourism in linea con i requisiti indicati nella «Carta
Europea del turismo sostenibile».
La crescita della sensibilità nei confronti di questo tipo di
turismo, emerge in modo evidente se si analizza il numero
dei visitatori. In particolare, nel 2012, il Museo della geotermia di Larderello a Pomarance (PI), è stato visitato da 20.590
persone, mentre il Parco delle Biancane di Monterotondo
Marittimo (GR) ha registrato 33.498 accessi. Alle 54.088
visite si aggiungono poi le tappe all’indotto agroalimentare
della geotermia, alle terme etrusco romane di Bagnone (MS)
e alle Centrali geotermiche alle pendici del Monte Amiata, in
Toscana; il parco Fenice (PD) fornendo un centro di formazione ambientale permanente riesce ogni anno a ospitare 450
scolaresche provenienti da varie regioni d’Italia.
Possiamo dedurre, dunque, che il turismo energetico per il
numero di persone che coinvolge nel panorama rappresenta
una forma di turismo destinata ad avere un trend di crescita
elevato nel prossimo futuro (De Pascali, 2008) e per favorire
il crescente interesse nei confronti di questo modo di intendere il rapporto fra energia e turismo potremmo trarre ispirazione anche dalla realizzazione dei nuovi percorsi creati
per il geoparco in Val Graveglia (GE) (Faccini, Marescotti e
Robbiano, 2000; Terranova, 2004).
Alcuni autori hanno sottolineato, in generale, che «il turismo contribuisce alla cura e alla guarigione di alcune malattie tramite soggiorni climatici al mare, ai monti o in località
20 Questo dato pone in rilievo che i temi e gli argomenti geografici sono
centrali in un processo formativo (De Vecchis, 2001) e «lo studio della
geografia fornisce un insieme di strumenti che possono diventare metodo,
un metodo aperto, articolato e flessibile che può trovare efficace applicazione nei percorsi di turismo scolastico responsabile (vedi anche nota 15).
Vengono così indossate le lenti della geografia per imparare a guardare il
mondo con altri occhi» (Cerruti, 2007, p. 30).
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termali, rinnovando il legame tra questa pratica e il miglioramento della qualità dell’esistenza (Cannizzaro, 2011, pp.
31-33)»; si pensi anche «alla necessità di evadere dal contesto stressante in cui si vive (Montanari, 2009)». Con questo
contributo si vuole evidenziare, in particolare, il ruolo che la
realizzazione di questa tipologia di offerta turistica svolge.
Esso mira a sensibilizzare e a coinvolgere la popolazione e
la comunità locale che, grazie alla prossimità spaziale, può
apprendere nuovi modelli comportamentali.
A questo punto, è opportuno effettuare un’analisi SWOT
dell’energy tourism i cui punti di forza sono rappresentati
dalle nuove opportunità per apprendere tecniche di tutela ambientale e dalle scelte di adottare modelli comportamentali differenti. Da questi punti di forza si rendono anche
evidenti i punti di debolezza del sistema: la mancanza di
divulgazione scientifica per la conoscenza di questo nuovo
tipo di turismo e la possibile assenza di programmazione. Le
opportunità sono derivate dall’effetto virtuoso del turismo,
che ha la capacità di valorizzare in maniera trasversale nuove risorse, come quelle energetiche. I vincoli sono costituiti
dalla scarsità di investimenti utili a organizzare e divulgare il
successo di tali iniziative.
Per fronteggiare le criticità, alcuni autori hanno valorizzato il ruolo delle associazioni, delle reti tra piccole e medie
imprese e dei sistemi di volontariato come incentivo nel miglioramento dell’immagine, dell’accessibilità e della fruibilità delle risorse energetiche per lo sviluppo di un turismo sostenibile (Alhroot, 2012). Altri autori hanno, invece, mirato
a «far emergere il ruolo dei social networks, blogs e siti web
(Albanese, 2012, p. 490)» che potrebbero incentivare nuove
attività in campo turistico-energetico.
I tour operators si sono, così, attivati nel proporre offerte
di visita su misura che presentano il viaggio come un’esperienza di vita. I programmi sono costruiti ad hoc e fanno leva
sugli aspetti emozionali dell’esperienza di viaggio che invita
a «godere di tutte le possibilità di appagamento estetico e
sensoriale che i luoghi offrono» (Brusati, Dessilani, 2007, p.
30). Esso si propone come una sorta di ipertesto reale dove il
turista può disegnare un proprio percorso di ricerca e di fruizione personalizzato (Andreotti, 2011). Si mira a una forma
di turismo esperienziale che scaturisce dalla conoscenza di
nuovi modelli di vita cui ispirarsi e aspirare.
L’interesse, nei confronti di questo argomento vuole però
esulare dal semplice calcolo del reddito che esso può apportare nell’ambito del Prodotto Nazionale Lordo e dall’occupazione che può assicurare alla popolazione attiva perché
fondamentale sembra il parametro della qualità della vita,
cui l’energy tourism è in grado di contribuire a promuovere.
La letteratura geografica, infatti, riconoscendo tra le cause
motivanti del turismo la condivisione e la conoscenza dell’altro (Ooi e Laing, 2010) permette di affermare che l’incontro
tra domanda e offerta turistica non è solo un evento economico, ma diventa anche un fattore culturale e ambientale che
si basa sul rispetto e la fiducia. A tal proposito, alcuni autori
hanno aggiunto: «Le motivazioni del turista internazionale
del XXI secolo rimangono orientate verso le vacanze (51%)
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA
ma i nuovi turisti provenienti dai Paesi emergenti sono assetati di cultura, di modelli di stili di vita, di esperienze efficaci» (Casari, Spinelli, 2014, p. 25).
In linea con tali aspettative, l’energy tourism costituisce,
dunque, un ponte innovativo fra ricerca scientifica, innovazione tecnologica, linguaggi creativi, incontri fra culture,
sperimentazione di economie solidali e divulgazione partecipata e diviene espressione di «quel contatto intimo e pregnante tra gli uomini e le realtà fisiche con le quali coabitano
nel territorio» (Saibene, 1974).
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SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA
Il sacro in Tintoretto. O della luce.
Breve saggio sull’opera d’arte come
medium ed exemplum. Verso una
pedagogia del sentire
MARIA D’AMBROSIO
Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
«La luce, la presenza: ciò che, in un altro linguaggio, possiamo
chiamare l’aperto. È all’aperto che non abbiamo accesso, perché
l’aperto è l’accesso a tutto ciò che è. La presenza non è una forma o
una consistenza dell’essere, è l’accesso. La luce non è un fenomeno,
ma la velocità limite del mondo, quella di ogni apparizione e di ogni
esposizione»
(Jean-Luc Nancy, 1994-2001, Le Muse, tr. it., Reggio Emilia, Diabasis, pp. 95-96)
«Il filosofo disdegna le apparenze in quanto le sa periture. Anche
il poeta lo sa ed è il motivo per cui vi si aggrappa, le piange prima
ancora che trascorrano, le possiede e già le piange, perché già nel
possesso vive la perdita»
(Maria Zambrano, 1996, Filosofia e poesia, tr. it., Bologna, Pendragon, 2002-2010, p. 58)
«Dichiarazione.
Siamo un’ombra profonda, e voi non tormentateci, o inetti:
un’opera tanto importante non si rivolge a voi, ma ai dotti.
(…)
Merlino all’artista.
C’è uno che dipinse galli gallinacei,
e costui, non essendo del tutto privo di prudenza,
per evitare che potessero essere troppo gravemente biasimati
i tratti incerti, tracciati da un artista inetto,
istruì servitorelli e buoni amici,
e vuole che questi caccino lontano i galli naturali.
Sapendo questo, sta’ attento
quando tu, il vero gallo, ti accosti ai galli dipinti, che riempono di
stupore gli asini orecchiuti,
a non doverti affliggere, cacciato via da un servo importuno»
(Giordano Bruno, 1582, Le ombre delle idee, p. 40)
C
i arrivo che fuori è gelo. E pure dentro. È
la Scuola Grande di San Rocco a Venezia:
la confraternita di cui è stato confratello
anche Jacopo Robusti detto il Tintoretto , a
cui si devono i dipinti della sala e della sa1
1 Cfr. Romanelli, Giandomenico, 1994, Tintoretto: la Scuola grande
di San Rocco, Milano, Electa; Gentili, Augusto, 2006, Tintoretto: i
temi religiosi, Firenze, Giunti; Pallucchini, Rodolfo-Rossi, Paola, 1982,
Tintoretto: le opere sacre e profane, Milano, Electa.
Tintoretto, Giuda e Tamar (c. 1555 - 1559)
letta al pianterreno e poi di quella al primo piano, carica direi,
questa più che quella, delle opere del maestro, fino al soffitto.
Una produzione di opere di gran pregio che testimonia della
devozione e della determinazione che mossero l’artista a realizzare quella che si definisce una grande impresa pittorica,
durata dal 1564 – anno della donazione della ‘Gloria di San
Rocco’ – fino al 1587. Per questo la Scuola di San Rocco può
divenire meta di una visita al Tintoretto e ai suoi temi sacri
e suonare come vera e propria iniziazione alle sue opere: in
pieno inverno e nel colmo del festare carnascialesco. Così mi
sono trovata al suo cospetto, inondata da così copiose e generose opere, e, così, tra il freddo e la cupa ignoranza, le tele
hanno cominciato a rivelare i segni di una scrittura non fatta
41
PEDAGOGIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
di figure né di corpi né di colori, quanto di soli colpi di luce
a tagliare quelle figure, quei corpi e quei colori della materia,
e dunque a segnare un sentiero possibile, un’apertura, una
tensione all’oltrepassamento, desiderabile. A rivelare, cioè,
di quella materia, altra consistenza: lo splendere e lo svelarsi
di realtà inafferrabili eppure esistenti.
Gli interrogativi che s’aprono - al cospetto di cotanta bellezza, che è piacere dei sensi, movimento estatico, anticipazione ed enfasi barocca del sentire sul conoscere - riguardano proprio i piani di realtà: il tentativo dell’artista di rappresentarne la varietà, la molteplicità, la densità e, di fatto,
anche la loro unità2: quella tra cielo e terra, a manifestare una
sacralità delle umane gesta che sempre è spinta e testimonianza di una divina, magica, presenza.
Ricordo, allora, tra una tela e l’altra, che quella di San Rocco è Scuola grande, una delle poche ancora attive a Venezia.
E grande perché dedita alla devozione di un Santo, ma soprattutto alle penitenze. Una confraternita, dunque, raccolta
attorno al culto del Santo (taumaturgo e curatore degli appestati), e che in nome di questi ha esercitato ed esercita una significativa funzione sociale e politica, facendo del fasto della
sua sede lo specchio di un prestigio acquisito e poi ‘esigibile’ fin nella vita ultraterrena. Un sodalizio tutto terreno con
‘giurisdizione’ sull’ultraterreno: si sa, è tipico delle confraternite di tutti i tempi e sostanzia sacrifici, penitenze, donazioni, opere caritatevoli e ogni altra attività sodale. In questo
solco dunque, che collega terreno e ultraterreno, ha operato
il Tintoretto, dandosi ad una produzione che si è configurata
perlopiù come donazione e che opera tuttora a testimonianza
di una ‘lettura’ rivolta alle sacre scritture e al vangelo che
contiene tutto il suo intento divulgativo, ma, io dico, che non
si esaurisce in esso: l’esperienza cui danno accesso le tele del
Tintoretto incarna la tensione che è attribuibile a tutta l’arte
e agli artisti sacri e che riguarda la questione e la dimensione
etica, morale e spirituale del vivere umano.
Se l’arte si è andata configurando nel corso del tempo
come territorio di esplorazione del tema del sacro, ha assunto
il compito di dar forma a quel sacro, conferendogli fattezze
riconoscibili e capaci di forgiare e orientare un sentire comune. Non a caso lo studio e l’analisi delle forme estetiche e
delle forme d’arte non è di sola ed esclusiva competenza ar2 A proposito di unità, qui il discorso ‘corre’ e incontra quella unione
dei sensi che fa del Tintoretto il pittore del ‘parlar disgiunto’ che Torquato
Tasso aveva attribuito al suo stesso poetare. A partire dall’Ut pictura
poësis di Orazio e della sua Ars Poetica, Torquato Tasso elabora la propria
teoria estetica che riconosce una profonda corrispondenza tra poesia e
pittura e nel 1575, in occasione della pubblicazione della Gerusalemme
liberata, in una lettera indirizzata a Scipione Gonzaga, scrive: «troppo
spesso uso il parlar disgiunto; cioè quello che si lega piuttosto per
l’unione dipendenza de’ sensi, che per copula o per altra congiunzione
di parole». Giulio Carlo Argan (1957) riprenderà il parlar disgiunto di
Tasso per farne la cifra comune al Tintoretto che fa dei due artisti degli
antifigurativi e antinaturalisti e delle loro opere il ‘luogo’ dove ritrovare,
‘frammischiati’, tutti i sensi insieme. In particolare, cfr. Buzzoni, Andrea,
1985, Del parlar disgiunto fra poesia e pittura, in: Buzzoni, Andrea, 1985,
a cura di, Torquato Tasso tra letteratura musica teatro e arti figurative,
Bologna, Nuova Alfa Editoriale; e Argan, Giulio Carlo, 1957, Il Tasso e le
arti figurative, in: Comitato per le celebrazioni di Torquato Tasso. Ferrara
1954, Torquato Tasso, Milano, Carlo Marzorati Editore, 1957.
42
tistica, quanto invece campo d’indagine di pertinenza molto
più ampia che ha l’uomo come orizzonte di senso, insieme
al sacro e al divino, e che rintraccia nelle opere d’arte quella
documentalità, per dirla con Maurizio Ferraris (2009)3 che
connette coscienza e storia, azione e intenzione, visibile con
invisibile4. La questione della verità nelle cose rappresentate
dagli artisti, non si pone (o almeno non è oggetto di questo
breve scritto), come non si pone la questione della loro funzione teologica. Semmai potrebbe essere posta quella teofanica. Ma l’aspetto da cui intendo partire riguarda la ‘esemplarità’ delle opere d’arte, il loro significativo valore pedagogico cioè, la loro vocazione etica sostenuta dall’impianto
estetico5. In questo senso l’opera è exemplum: vero e proprio
‘saggio’ del vivere bene, secondo regola morale, essa ha cioè
funzioni da manuale ontologico ed epistemologico. Ciascuna
opera racchiude in sé ed esprime questa intenzione che la sottende e la supera e che si realizza nell’incontro tra spettatore
e concetto-idea-valore-storia che l’opera rappresenta e che,
attraverso di essa, si rende accessibile ed esperibile. D’accordo con Ferraris (2009) e con la sua logica della esemplarità,
rifletto sul fatto che «non si catalogano né la virtù in sé, né
il musico in sé, né il rosso in sé o il suono in sé – ma solo
esempi e fattispecie di virtù, di musici, di colori e di suoni. In
breve (…) si classificano degli esemplari, cioè per l’appunto
degli esempi, dei singoli generalizzabili»6. L’opera d’arte, e
in questo caso le sessantuno tele del Tintoretto prodotte per
la Scuola di San Rocco e la sua prestigiosa sede ai Frari, fa
da ‘esempio’ la cui esemplarità sta nel rendere partecipabile
e imitabile la ‘realtà’ rappresentata che a sua volta è mimesis
di ‘altro’. Ferraris parla de «lo splendore della reificazione»
e quindi de «il fatto che l’oggetto parli, e che taluni oggetti
parlino meglio di altri. Così, - dice - gli oggetti danno evidenza visiva ai concetti»7. Nello specifico, poi, della decorazione del Tintoretto della Sala dell’Albergo nella Scuola
Grande di San Rocco, Adriano Mariuz (2010) sottolinea
quanto il genio visionario abbia «conferito alla sala (…) il
3 Cfr. Ferraris, Maurizio, 2009, Documentalità. Perché è necessario
lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza.
4 Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, 1964, Il visibile e l’invisibile, tr. it.,
Milano, Bompiani; Merleau-Ponty, Maurice, 1960, Segni, tr. it, Milano, Il
Saggiatore, 1967 e in particolare a p. 44: «Nessuna cosa, nessun lato della
cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone
l’esistenza nell’atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di
quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e
la profondità del visibile, e il visibile non comporta positività pura più
dell’invisibile»; cfr. inoltre, proprio sulla pittura, Merleau-Ponty, Maurice,
1961, L’occhio e lo spirito, in: Merleau-Ponty, Il corpo vissuto, tr. it.,
Milano, Il Saggiatore, 1979.
5 In un certo senso si fa riferimento al ‘progetto’ che, più propriamente,
María Zambrano (1991) colloca verso un sapere dell’anima e che
individua nell’arte e nella poesia forme originarie di linguaggio sacro e
vero e proprio “spazio vitale” dove è possibile far incontrare chiarezza
e oscurità, in «una luce che accoglie in sé le ombre lasciando loro la
possibilità del senso, prima che la luce smisurata e spietata del sole, astro
unico, compaia mettendole in fuga nel buio indistinto della notte» (Prezzo,
Rosella, 1996, Introduzione all’edizione italiana. Il cominciamento,
in: Zambrano, María, 1991, Verso un sapere dell’anima, tr. it., Milano,
Raffaello Cortina, 1996, p. XIII).
6 Ferraris, Maurizio, 2009, op. cit., pp. 7-8.
7 Ferraris, Maurizio, 2009, op. cit., p. 11.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA
significato, come è stato scritto (De Tolnay) di un “oscuro
atrio di miracolose rivelazioni, di soggettive illuminazioni
religiose che, quasi attraverso aperture di finestre (portae coeli) divengono improvvisamente visibili nel soffitto e sulle
pareti […]. La Sala diviene una scuola della ‘conoscenza di
Dio’ in senso religioso-estatico”»8. Pertanto, di fronte a una
raccolta così significativa di exempla, la visita alla Scuola
di San Rocco si fa momento topico per una riflessione più
ampia che riguarda la necessità, tutta umana e sempre più da
rilegittimare direi, dell’arte e dell’esperienza artistica. Parto
dall’opera come artefatto9 e quindi come ‘documento’ artistico che, grazie al dispositivo linguistico su cui è ‘forgiato’,
contiene una significativa progettualità che suona axiologica
e quindi che esalta e legittima le questioni formali come cariche di valore e di pathos. Il fatto che fino alla riproducibilità
dell’opera d’arte10 essa abbia conservato nell’immaginario
collettivo la sua aura e dunque la sua sacralità, fa dell’opera
d’arte anche un possibile oggetto di culto. Intendo recuperare
dunque la tesi di Benjamin (1936) e in particolare il nesso tra
arte e religione per tornare all’aura dell’opera, e quindi alla
sua sacralità, come ad una condizione che l’uomo di tutti i
tempi cerca e di cui investe il suo rapporto con le cose scelte
come exemplum e utilizzate come strumento di accesso alla
dimensione sacra, appunto. Questa funzione ‘strumentale’
dell’opera è da connettere alla sua ‘oggettualità’ estetica che
coinvolge la sfera del sentire dello spettatore e dunque agisce
su di un piano fisico e, attraverso di esso, consente di accedere ad un piano meta-fisico11. Exemplum e medium, l’o8 Mariuz, Adriano, 2010, L’adorazione dei pastori di Jacopo Tintoretto.
‘Una stravagante invenzione’, Verona, Scriptaedizioni, 2011, p. 5.
9 Per la nozione di artefatto e quindi di artefatto cognitivo, cfr. Mantovani,
Giuseppe, 1995, Comunicazione e identità, Bologna, Il Mulino. Sul
tema specifico dell’artificio nell’estetica del Tintoretto, interessante è
la ‘lezione’ che ci offre Giulio Carlo Argan (1957) - nel suo già citato
saggio ‘Il Tasso e le arti figurative’ nel volume Torquato Tasso pubblicato
a Milano dall’editore Carlo Marzorati in occasione delle celebrazioni
che la città di Ferrara ha organizzato per Torquato Tasso - in cui ricorda
«la congiuntura Tasso-Tintoretto» per sottolineare il loro comune ed
esemplare passaggio dal Rinascimento al Barocco. In particolare Argan
scrive «il Tasso è maestro di quel supremo artificio, che consiste nel dare
all’espressione un’apparenza di spontaneità tanto maggiore quanto, in
realtà, è maggiore lo studio, più sapiente ed elaborata la costruzione interna
dell’immagine. È questa, s’intende, la condizione prima ed essenziale
di un’arte che voglia anzitutto persuasione, rapporto di simpatia che si
stabilisce tra l’artista e il suo pubblico. “Nasconder l’arte” è il precetto
aristotelico che è alla base della teoria estetica barocca; e “l’arte che tutto
fa, nulla si scopre” è il principio estetico fondamentale della poesia del
Tasso» (p. 224). Riferendosi al Tasso e al Tintoretto, Argan parla de «lo
stesso ‘luminismo’»: «un modo nuovo di vedere gli oggetti come cose in
sé (…). Ciò che importa non è la cosa, né l’immagine nella sua concretezza
plastica o coloristica, ma il giudizio sulla qualità che l’immagine esprime.
È su quella valutazione che si vuole trovare e stabilire un accordo; e
perciò l’immagine non deve imporsi, deve rimanere vaga e generica (…)
è appunto per questa via che si passa dall’arte del Rinascimento all’arte
barocca: che è un’arte in nessun modo interessata all’indagine oggettiva
del reale, ma tutta rivolta ad appurare il valore dell’arte come mezzo di
espressione e comunicazione dei sentimenti umani» (p. 218 e p. 223).
10 Cfr. Benjamin, Walter, 1936, L’opera d’arte nell’era della sua
riproducibilità tecnica, tr. it., Torino, Einaudi, 1966-2000.
11 Il riferimento è all’ontologia merleau-pontiana, ovvero a quella che
lo stesso Merleau-Ponty (1960) definisce «una riabilitazione ontologica
del sensibile» che consente di guardare alla pittura come al prolungarsi
della carne del sensibile in carne del linguaggio. Come sottolinea Mauro
pera d’arte si sostanzia in un oggetto che viene trasceso ma
da cui non si può prescindere. Per questo l’opera può essere
intesa come parte di una ritualità che non è mera adesione
alla morale contenuta nell’esempio, non è espressione di un
potere esercitato attraverso la forza della sua materialità estetica che genera con-formazione, ma è quella forma ‘scritta’ e
tangibile – e per questo la documentalità dell’opera e la sua
oggettualità sottolineata dall’analisi e dalla proposta teorica
di Ferraris (2009) – che nel provare a sottrarsi alla caducità
del fenomeno ne afferma anche la necessità ontologica da
cui si producono mondi e dunque ‘realtà’ epistemologiche
esteticamente fondate. L’umano quando incontra l’arte afferma l’afferrabilità del suo spirito, così come del divino. La
produzione artistica di tutti i tempi può essere intesa proprio
come la ‘traccia’ di un sistema di credenze che investono
l’ultraterreno, che ha la funzione di ‘soglia’ che offre a chi vi
giunge la possibilità ‘tangibile’, quasi tattile direi, «di sentire
l’insensibile ed esserne presi»12.
Questa l’esperienza che affiora dal gelo delle sale della
Scuola di San Rocco e dalla visione delle tele del Tintoretto:
dai Cristi e dalle Madonne, dai Santi e dagli angeli, dalla luce
e dalle ombre. Esperienza che sembra fare eco alla straordinaria lezione che Nancy (2003) offre nel ritornare al tema
evangelico del Noli me tangere13. Se ritorno con Nancy a
quell’episodio è per coglierne con lui tutto il valore metaforico del me mou háptou (Noli me tangere – Non mi toccare)
di una sottrazione (quella che Gesù impone alla Maddalena)
che corrisponde alla capacità della Maddalena di vedere apparire il Cristo nel sepolcro. «Maria Maddalena è la sola ad
aver visto gli angeli nel sepolcro. I discepoli che l’avevano
preceduta avevano occhi che non vedevano in questa oscurità. Al contrario lei vede. Non dissipa la notte dal sepolcro:
vede la presenza di chi custodisce l’assenza»14. Il corpo del
Carbone nella presentazione a Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty
(1964), si tratta di un metodo indiretto: «Se infatti la metafisica ambisce alla
coincidenza ma in tal modo finisce per operare soltanto “una sublimazione
dell’Essente”, l’Essere non può che venire indagato svelando indirettamente
e inesauribilmente, attraverso gli enti, la “differenza ontologica” fra questi
e quello. (…) è emerso come l’ontologia che Merleau-Ponty intende
elaborare, pur delineando una nuova impostazione della relazione fra il
visibile e l’invisibile, conservi tuttavia al vedere la posizione privilegiata
tradizionalmente accordatagli dalla cultura occidentale. Il mantenimento
di tale privilegio, (…) conferma come la riflessione merleau-pontiana non
si muova con l’intento di rinnegare velleitariamente quella tradizione,
quanto piuttosto di operarne un radicale ripensamento» pp. 13-14.
12 Nancy, Jean-Luc, 2003, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo,
tr. it., Torino, Bollati Boringheri, 2005, p. 61.
13 Cfr. Matteo 12, 34-35; Marco 4, 33-34. L’episodio narrato è questo:
«Maria si reca al sepolcro. Lo trova vuoto, e due angeli sono lì accanto.
Ed essi le chiedono: “Donna, perché piangi?” Risponde loro: “Perché
hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano messo”. Detto
questo si voltò indietro e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui.
Gesù le domanda: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” E lei pensando
fosse l’ortolano, gli dice: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi almeno
dove l’hai messo e io lo prenderò!” Gesù allora la chiama “Maria!” Essa,
voltandosi, esclama in ebraico: “Rabbuni!” che significa: Maestro! Gesù
le dice: “Non toccarmi, perché non sono ancora disceso al Padre, ma ora
va’ dai miei discepoli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio
mio e Dio vostro”. Maria Maddalena corse ad annunziare ai discepoli: “Ho
veduto il Signore”, e che le aveva detto tali cose» (Giovanni 20, 13-18).
14 Nancy, Jean-Luc, 2003, op. cit., p. 61.
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PEDAGOGIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Dio, che in quanto tale è inafferrabile, appare agli occhi di
colei che tiene in sé la sensualità e pure la levità di un corpo15 e insieme ‘disegnano’ una figura carica di tensione al
visibile e al tangibile, che allo stesso tempo eccede il senso
stesso della figura rappresentabile (due corpi colti nel loro
incontro che è già foriero di allontanamento, di un levarsi
del corpo, appunto) e apre un varco verso l’invisibile. Tornare a quell’episodio del Cristo e della Maddalena ha qui
il valore di ritornare all’uso della rappresentazione e quindi
dell’opera d’arte come figurazione di una sfera propriamente inafferrabile – come la verità che appunto «non si lascia
toccare né trattenere»16 - la cui sostanza può essere colta solo
attraverso l’assenza e l’abbandono. L’incontro si realizza nel
punto dell’abbandono: la Maddalena – che in senso metaforico cogliamo come l’essere umano che non rinuncia a sentire e a vedere (anche nell’oscurità) - «si abbandona a una
presenza che è una partenza, a una gloria che è nient’altro
che tenebra, a un sentore che è nient’altro che gelo»17. E, tornando alla Scuola di San Rocco e alla visione procurata dalle
tele del Tintoretto, il gelo non era solo metaforico quanto
una condizione fisica che ha giocato come ulteriore elemento
significante la sottrazione, l’assenza, e dunque la mancanza, che è già evocazione e produzione di una presenza18. Se
il sacro, il divino, il metafisico, sono quello spazio e quella
dimensione che s’apre a partire dall’esperienza dell’opera
d’arte, appare forse chiaro quanto il solo essere exemplum
dell’opera non basti a dire di un potere che è abbandonico,
potremmo dire, che l’opera può esercitare sulla sfera del
sensibile. Tale potere non si esaurisce dunque nell’uso delle
opere come parabole o come lezioni spirituali. Sarebbe come
limitare l’educazione estetica19 a una pratica educativa di particolare ‘presa’ ed efficacia. Il ‘pedagogico’ che la sottende
non è di cifra esplicativa e rivelatrice, tantomeno didascalica,
ma richiede quella che Nancy chiama una ‘disposizione a
ricevere’, a comprendere, che implica partecipazione e penetrazione, una vera e propria disposizione all’ascolto: in tal
senso l’opera d’arte non mostra il divino dandogli un corpo
di cui l’altro può fare esperienza, patendolo, sentendolo, trattenendolo a sé, ma ha il pregio di offrire come praticabile un
aldilà del senso stesso che sconfina rispetto al ‘voler dire della rappresentazione’20 e afferma la possibilità di rintracciare
il sacro, più che il divino, nella forma sensibile e di collocare
nel sentire l’atto del dare e del prender forma (che avvicina al
divino e che è il principio dell’arte stessa). L’oggetto artistico non si risolve dunque in un ‘modello’ cui conformarsi per
vivere bene a questo mondo, tantomeno può ridursi a fare da
15 La levità è riferita in particolare a quella delle parole con cui la
Maddalena annuncia ciò di cui è stata testimone.
16 Nancy, Jean-Luc, ibidem.
17 Nancy, Jean-Luc, op. cit., p. 62.
18 Cfr. le teorie di Wilfred Bion, Donald Winnicott, Melanie Klein.
19 Cfr. Gennari, Mario, 1994, L’educazione estetica, Milano, Bompiani;
Schiller, Friedrich, 1795, L’educazione estetica, tr. it., Palermo, Aesthetica,
2005.
20 A questo proposito cfr. Derrida, Jacques, 1967, La voce e il fenomeno.
Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, tr. it.,
Milano, Jaca Book, 1968-2010.
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‘guida pratica’ per conquistarsi il regno dei cieli. Forse il suo
valore riconosciuto socialmente è questo, ma qui voglio più
propriamente farne territorio privilegiato di un sensorio che
fonda l’esperienza del sacro.
La visita alle sessantuno tele del Tintoretto nella Scuola
di San Rocco mi fanno sentire l’urgenza di riaffermare e
rafforzare l’orizzonte sacro dell’arte, orizzonte che appunto
l’incontro con le opere del Tintoretto m’ha reso presente e
che ho provato a collegare con questioni che risuonano come
estetiche della formazione21 e arrivano a toccare il tema, tanto caro a Maria Zambrano, della libertà nelle cose22: la narrazione contenuta in ogni tela, la plasticità e la drammaticità
dei corpi, la composizione geometrica della scena rappresentata e l’irrompere in essa di altri piani di disequilibrio e di
tensione narrativa, sono ‘elementi’ di un’estetica che, dentro
il Rinascimento, anticipa stilisticamente e culturalmente la
Modernità e tutto il suo portato epistemologico, ponendosi
già dentro la crisi del tempo di cui è interprete. La monumentalità del luogo fornisce certo un’aura sacra al già imponente
apparato pittorico che viene riconosciuto come tale da tanti
studiosi che ne rintracciano il valore sia sul piano teologico
che su quello storico-artistico. La produzione artistica del
Tintoretto è esemplare, ricca, formidabile. Ed è nella Scuola
grande di San Rocco che si avverte, vibrante, il suo geniale furore. Ma l’intento qui non è quello di offrire un’analisi
critico-artistica delle tele quanto quello di animare una riflessione che, va detto, non può prescindere dalla ‘consistenza’
delle tele stesse23. Nel loro insieme e distintamente prese.
Una dissertazione sull’arte (del conoscere) e sul mistero che
reca in sé e che pone il Tintoretto in un ideale dialogo con
Giordano Bruno, in cui a fare da protagonista sono il sole e il
suo contrario: luci ed ombre, dunque, la materia di cui si sostanzia l’arte e il suo prender forma in questa o quell’opera.
Dissertazione e ‘prova’, dicevo, di una drammatica modernità del Tintoretto nell’offrire l’arte come ‘traccia’ o memoria
di un sole che produce luce ed ombre. L’arte e le opere del
Tintoretto ‘incarnano’ dunque il tragico paradosso dell’umano, ‘segnandone’ la consustanzialità di corpo e spirito, attraverso l’ostensione dei corpi di cui solo una parte risplende,
come attraversata da un principio aurorale ed emersa come
‘scarto’ dall’opprimente buio che la ammanta.
L’accesso al sacro è esercizio e pratica che nel corporeo
individua e riconosce la soglia presso la quale recarsi e restare, per abbandonarsi all’Altro. Forse questa la possibilità di
21 Cfr. D’Ambrosio, Maria, 2006, Media Corpi Saperi. Per un’estetica
della formazione, Milano, Franco Angeli; D’Ambrosio, Maria, 2010, Las
meninas: metafore della conoscenza per una teoria della formatività,
in: Gily, Clementina-Persico, Maria Rosaria, a cura di, 2010, Arte
e Formazione. Collingwood, Gentile, Croce ed altri studi, Napoli,
Scriptaweb.
22 Cfr. Zambrano, Maria, 1996, Filosofia e poesia, tr. it., Bologna,
Pendagron, 2002-2010.
23 Cfr. Nancy, Jean-Luc, 1994, Le Muse, tr. it., Reggio Emilia, Diabasis,
2006, e in particolare nel testo: Sulla soglia che è il discorso pronunciato
al Museo del Louvre, davanti alla Morte della Vergine di Caravaggio, il
22 giugno 1992, e Pittura nella grotta che fu pubblicato in una prima
versione nel 1994 in forma di manoscritto con disegni originali del pittore
François Martin.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA
libertà di cui dicevo. Forse questo lo spazio dove la materia
ritrova la sua stretta parentela con lo spirito. Forse questo,
dell’arte, della poesia, il principio che rende unificabile l’essere con l’apparire: quello spazio non finito e non concluso
dove è possibile l’affermazione della bellezza, del sentire e
di tutto quello che contengono oltre, e che rendono esperibile
di ulteriore. Legittimare l’arte, più che la filosofia, sul terreno della pratica della conoscenza, vuol dire riconoscere che,
senza rinunciare alle apparenze, si può trascendere la realtà e
afferrarne la sua pur mutevole e tremante consistenza, riconoscendosi in essa e quindi in quella parte che è già il tutto
e che coincide con il sacro. Lo specifico dell’opera d’arte è
appunto quella di presidiare e celebrare l’infinito stratiforme
e mobile territorio estetico che, a sua volta, apre alla possibilità di riunire ciò che sin dalla tradizione classica e dal mito
della caverna si è separato o come strappato: e quindi la ragione dal sentire, l’umano dal divino, l’ombra dalla luce. «In
principio era il logos. Sì, ma… il logos si fece carne e abitò
tra noi, pieno di grazie e verità»24 dice Maria Zambrano, facendo della poesia la categoria che rende pensabile il farsi
carne del logos perché «la poesia (…) assisa fin dalle origini
sull’ineffabile, tesa a dire l’indicibile, non vede minacciata la
propria esistenza. Fin dal primo istante, si è sentita trascinata
a esprimere l’ineffabile in due direzioni: ineffabile in quanto
vicino, carnale; ineffabile anche in quanto inaccessibile, in
quanto senso al di là del senso, ragione ultima al di sopra di
ogni ragione»25. In tal senso, l’opera d’arte è consacrata e
mossa da questa dimensione poetica e celebra l’Assente: proprio nel senso del citato me mou háptou e proprio nel senso
vissuto al cospetto delle tele del Tintoretto nella Scuola grande di San Rocco, e grazie alla loro ‘essenza’. Un’essenza che
ritrova nel tema della cristianità e quindi propriamente del
Cristo il valore simbolico e l’exemplum del divino incarnato
nell’umano. Natura umana e natura divina cercano nella tela
forme che si muovono tra presenza e assenza: l’erompere dei
corpi, degli oggetti, delle stoffe, delle architetture, dei decori e dei volti, distinti l’uno dall’altro e tratteggiati dall’abile
mano del Tintoretto che offre allo sguardo la possibilità di
tenere insieme queste distinte forme grazie a un segno che
le sussume ed è chiara traccia di effimera ed incontenibile
luce. Luce che per il Tintoretto affiora come origine di ogni
cosa e dunque è luce che accomuna e sostanzia ogni materia,
ogni presenza di cui c’è traccia nella tela. In questo senso mi
è sembrato di vedere animato un dialogo tra queste tele e il
pensiero e le opere, contemporanee o di poco successive, di
Giordano Bruno. Bruno (1582) nel dialogo preliminare del
suo Ombre delle idee, fa dire ad Ermes: «È il libro Ombre
delle idee, contratte per apprendere la scrittura interiore; a
proposito di esso sono in dubbio, e non so se debba essere
pubblicato, oppure rimanere perennemente avvolto in quelle
tenebre in cui era celato»26. E, rispetto a tale dubbio, Filotimo – che pare interpretare il senso del dramma delle tele del
24 Zambrano, Maria, 1996, op. cit., p. 47.
25 Zambrano, Maria, 1996, op. cit., p. 129.
26 Bruno, Giordano, 1582, op. cit. p. 45.
Tintoretto - gli tiene dietro dicendo: «Non cessa la provvidenza degli dèi (dissero i sacerdoti egiziani) di mandare agli
uomini, in certi tempi stabiliti, dei Mercuri; e questo anche
se già conoscono che essi non saranno accolti affatto, o lo
saranno male. Né cessa l’intelletto, come pure questo sole
sensibile, di dar sempre luce, per il motivo che non sempre,
né tutti quanti la avvertiamo»27. Le sessantuno tele del Tintoretto nella Scuola grande di San Rocco credo abbiano a
che fare con questo sole sensibile e con la provvidenza degli
dèi, senza escluder anche tutto il resto che pure è raccontato
e celebrato. La questione della luce e delle ombre costituisce come l’impalcatura, il principio ultimo, di un discorso
sulla possibilità umana di porsi in rapporto con la ‘realtà’:
possibilità di conoscere e di conoscersi nella e attraverso la
rappresentazione, la mimesis dell’arte appunto. Rappresentato e rappresentabile nel quale irrompe sempre l’indicibile, indefinito e indefinibile. L’arte è dunque anche lo spazio
della speranza e dell’utopia, è la possibilità dello sconfinare
e sconfinamento stesso: questa la dimensione e la ‘materia’
che prende corpo con l’arte e questo l’orizzonte che muove
l’arte stessa e le conferisce un ruolo eminentemente formativo, capace di fare dell’esperienza estetica la condizione di
ogni conoscenza possibile. E questo anche un breve itinerario, luminoso e tenebroso a un tempo, indagine dai tratti
barocchi, che individua nel Tintoretto un interlocutore privilegiato per un parlar disgiunto che recupera, lasciandola
affiorare qui e lì come fa con la luce, la centralità del sentire
che di fatto irrompe e riconfigura un quadro epistemologico e
ontologico che riconnette essere e apparire e individua nelle
arti un rinnovato valore e una significativa ‘progettualità pedagogica’ che investe Sein e Da-sein, aprendo l’esperienza,
se non al sacro o al divino, all’altro e all’altrove.
«Manca il parlar; di vivo altro non chiedi
Né manca questo ancor, se agli occhi credi»
(Torquato Tasso, 1575, La Gerusalemme liberata, canto
XVI)
27 Bruno, Giordano, 1582, op. cit. p. 46.
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LINGUE E LETTERATURE MODERNE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
Un teatro per tutti nel lavoro
di Jean Vilar
PAOLA MARTINUZZI
Dipartimento di Studi linguistici e comparati, Università Ca’ Foscari Venezia
O
ggi, in Francia, vengono tributati importanti riconoscimenti a Jean Vilar1.
Possiamo citare un numero monografico
della Revue d’Histoire du Théâtre2, un
convegno internazionale promosso dal
Ministero della Cultura francese3, insieme a varie pubblicazioni che spiegano la sua opera, uscite negli ultimi anni.
Ci sembra giusto ricordare questo artista proponendo
una intervista, inserita nel suo libro De la tradition théâtrale, apparso sessant’anni fa e non ancora tradotto in Italia.
Nell’intervista sono toccati vari temi che coincidono con la
nostra realtà attuale, anche se è mutato il panorama storico.
Negli anni in cui fu direttore del Théâtre National Populaire al Palais de Chaillot (fra il 1951 e il 1963), Jean Vilar
cercò di dare corpo a un teatro per tutti e controcorrente,
dove la classicità e la qualità non fossero un privilegio per
una élite. Democratizzare la cultura significava pensare al
1 Jean Vilar nasce a Sète, vicino a Montpellier, nel 1912; studia a Parigi,
dove si entusiasma conoscendo l’opera degli illuministi. Studia recitazione
con Charles Dullin, fa parte della compagnia ambulante La Roulotte per
la quale scrive testi comici e nel 1943 fonda la Compagnia dei Sette con la
quale mette in scena drammi moderni come Assassinio nella Cattedrale di
T.S. Eliot (teatro del Vieux-Colombier), La danza dei morti e Temporale
di Strindberg. Dall’incontro con il poeta René Char e con i critici d’arte
Christian e Yvonne Zervos, nel 1947, nasce la Settimana dell’arte, prima
edizione del Festival di Avignone, che sarà diretto da Vilar fino all’anno
della sua morte (1971). La prima opera che il regista propone è il Riccardo
II di Shakespeare. Sperimenta nella splendida architettura della Cour du
Palais des Papes il valore di una scenografia essenziale, ridotta al minimo.
Nel 1951 l’attore Gérard Philipe inizia la sua collaborazione con il
Festival e nel 1967 il programma si apre anche alla danza e al cinema. Nel
corso della direzione del Théâtre National Populaire (1951-1963), Vilar
organizza numerose tournées nelle periferie, in varie regioni francesi e
all’estero (New York, Mosca, Berlino, Venezia).
2 « Revue d’Histoire du théâtre », Jean Vilar, genèse et postérité, n. 4,
2012.
3 L’œuvre de Jean Vilar, Jean Vilar à l’œuvre, Biblioteca Nazionale,
rue Vivienne, Parigi, 29 ottobre 2012, organizzato dalle Università di
Avignone, Paris-Sorbonne, la Maison Jean Vilar, con la collaborazione
della Comédie-Française, della Bibliothèque nationale de France, del
Théâtre National de Chaillot.
46
teatro come a un servizio pubblico. Sgomberata la scena da
inutili accessori, viene ripensato il lavoro di attori e regista
considerando l’insegnamento di chi era stato precursore in
questo cammino: Jacques Copeau, (che al Vieux-Colombier
riconduceva il teatro all’interpretazione attoriale spoglia di
affettazioni), Firmin Gémier che si richiama al Rousseau
della Lettre à d’Alembert4, e ancor prima Maurice Pottecher
con il suo «teatro del popolo» a Bussang, nei Vosgi, e naturalmente Romain Rolland (che aveva inseguito un progetto
utopico destinato a formare non solo nel gusto, ma nella
coscienza un largo pubblico)5.
Dalle idee di Jean Vilar nacque la rivista Théâtre populaire (1953-1964) che fece conoscere Brecht ai francesi e
dalle cui pagine si espressero critici come Roland Barthes,
Bernard Dort; il periodico vide anche lo scontro fra posizioni differenti (celebri, gli interventi di Sartre). Il Théâtre
National Populaire continuò dopo il 1963 la sua attività col
nuovo direttore Georges Wilson e diffuse il suo programma
al di fuori della città di Parigi, grazie alle nascenti compagnie di giovani professionisti e soprattutto nel processo
di decentralizzazione e democratizzazione della cultura,
concretizzatosi nei centres dramatiques nationaux et régionaux, istituiti grazie a Jeanne Laurent, André Malraux, Jacques Duhamel6. Dal 1972, il T.N.P. trasferì la sua sede a
4 Firmin Gémier fondò il Théâtre National Populaire nel 1920 al Palais du
Trocadéro a Parigi e lo diresse fino al 1933; prima di questa realizzazione,
il suo sogno di raggiungere le persone che non potevano frequentare il
teatro, lo aveva portato a inventare un «teatro nazionale ambulante».
5 Romain Rolland affidò il suo pensiero teorico soprattutto alle pagine
di Le Théâtre du Peuple, essai d’esthétique d’un nouveau théâtre (Paris,
Cahiers de la Quinzaine, 1903).
6 Nello statuto dei Centri Drammatici Nazionali si legge che essi hanno per
missione di «allargare l’accesso alla creazione teatrale a tutte le tipologie
di pubblico», compreso quello giovanile. La loro attività consiste nel
«garantire una presenza artistica continua sul territorio»; i Centri sono «case
di artisti» che devono produrre due opere per stagione, assicurando almeno
dieci repliche nella città in cui la compagnia ha lavorato, e una tournée
nazionale o internazionale. Il repertorio deve contemplare sia i classici
della tradizione che le pièces di autori viventi, che vanno adeguatamente
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | LINGUE E LETTERATURE MODERNA
Villeurbanne, nella periferia di Lione, dove prese la direzioNel 1946, un anno prima di fondare il Festival di Avine Roger Planchon insieme a Patrice Chéreau, Robert Gil- gnone e cinque anni prima di inaugurare la seconda fase
bert, Georges Lavaudant; dal 2002, il direttore è Christian del Théâtre National Populaire, il regista esprime in questa
Schiaretti, e l’attività prosegue sempre con la proposta di intervista10 che proponiamo in lingua italiana, varie sue condrammaturghi contemporanei insieme ai grandi autori del vinzioni, nate dal lavoro diretto sulla scena e dal confronto
passato, letti dai moderni. (Per la stagione in corso 2014- con la realtà. Ne traduco i punti salienti.
15, accanto a L’école des femmes
Fu chiesto a Jean Vilar:
di Molière, a Marivaux messo in
«Sente di avere punti di contatto
scena da Michel Raskine, ex-attore
con altri animatori, suoi predecesdi Planchon, troviamo Kleist nella
sori o suoi contemporanei, e se sì,
regia di Giorgio Barberio Corsetti,
con quali?
un coreodramma di James ThierSento di essere debitore dell’orée, Jean Genet visto da Robert
pera di alcuni predecessori, soWilson).
prattutto per alcune loro riflessioni
Per non disperdere la memoria
scritte. Quando Jouvet scrive: «In
del lavoro di tanti anni, alla morte
realtà, un’opera teatrale offre già in
dell’artista viene fondata ad Avisé la sua messa in scena, basta fare
gnone la Maison Jean Vilar e dal
attenzione e non essere troppo per1982 escono i Cahiers Jean Vilar
sonali per vederla animarsi, e avere
che propongono documenti inediun effetto sugli attori. Agendo su
ti e materiale d’archivio, insieme
di loro, misteriosamente, li mette
alle riflessioni di artisti viventi sul
alla prova, li ingrandisce o li rimteatro contemporaneo.
piccolisce, li sposa o li rifiuta»11;
Nelle pagine del volume De la
quando Pitoeff, secondo le
tradition théâtrale, Jean Vilar ci
affermazioni di Lenormand12,
lascia una testimonianza viva sul
impedisce a se stesso di absignificato del lavoro teatrale, sul
bassare un capolavoro al livelruolo del teatro e dei suoi artisti
lo di comprensione beata del
per la Pace, trasposizione di Jean Vilar da
nel mondo contemporaneo. Il tema Manifesto
pubblico perché quest’ultimo
Aristofane, 14 dicembre 1961, Palais de Chaillot, costumi
del grande pubblico, affrontato di Jacques Le Marquet, musica di Michel Jarre.
possa riempire la sala almeno
con coscienza civile da Vilar, pocento volte, allora sento, come
trebbe sembrare superato, perché festival e rassegne teatrali lei dice, di avere dei punti di contatto con loro.
accolgono oggi nei vari paesi europei presenze numerose e
Ma bisognerebbe citare gli scritti di Stanislavski, di
variegate, ma in realtà il problema non è solo quantitativo. Baty, di Dullin e di Copeau, di Talma, della Clairon,
Anche oggi vi è «l’impossibilità di condividere nell’agorà e così via13. Ciò che conosco, invece, dell’opera reun vero dibattito sui temi civili», cosa che fa del teatro un
«surrogato di una democrazia» carente; per questo, un certo (sous la direction de), Le théâtre en France, vol. 2, Paris, Armand Colin,
1989, p. 464.
spettacolo diventa «predicatore» e si delinea come «prodot- 10 Non è specificato dall’autore chi fosse l’intervistatore. Jean
to di massa» che semplifica e dimentica la tradizione te- Vilar, Interview, in Id., De la tradition théâtrale, Paris, L’Arche, 1955
atrale creando un «falso poetico»7. Se Vilar abbandonò il (Gallimard, « Idées », 1966), pp. 37-67.
Louis Jouvet (1887-1951) costituì nel 1927, insieme a Gaston Baty,
Théâtre National Populaire, nonostante i cinque milioni di 11
Charles Dullin, Georges Pitoeff il Cartel des Quatre, una associazione
8
spettatori e gli ottantacinque spettacoli allestiti , è perché di artisti solidali, accomunati da un’idea morale del loro lavoro, contro
non vide realizzarsi il concetto di “popolare”: una società l’invadenza del teatro commerciale. Il Cartel non aveva come unico scopo
ancora discriminatoria non poteva produrre una cultura ve- la creazione, ma l’allargamento della conoscenza del teatro; invitarono
artisti internazionali, da Ermete Zacconi con la sua compagnia, al Teatro
ramente popolare, cioè per tutti9.
d’Arte di Stanislavski, ai Ballets Suédois di Rolf de Maré, a Isadora
valorizzati grazie alla collaborazione di comitati di lettura e alla presenza
di un drammaturgo interno alla compagnia. (Cahier des missions et des
charges des Centres Dramatiques Nationaux, Ministère de la Culture et de
la Communication, http://www.culturecommunication.gouv.fr/ content/
download/63512/486300/file/Centres%20dramatiques%20nationaux.
pdf).
7 Antonio Attisani, Logiche della performance, Torino, Accademia,
2012, p. 19.
8 Il repertorio comprendeva i classici e i moderni: Aristofane, Shakespeare,
Corneille, Molière, Racine, Calderon, Marivaux, Beaumarchais, Büchner,
Musset, Strindberg, Gide, Vauthier, Obaldia, Gatti, Pillaudin-Jarre,
Pichette.
9 Bernard Dort, L’âge de la représentation, in Jacqueline de Jomaron
Duncan. Molti punti espressi da Vilar nella sua riflessione, riflettono senza
dubbio l’influenza esercitata da Jouvet; si leggano a proposito, le pagine
scritte fra il 1939 e il 1950, raccolte nei volumi Témoignages sur le théâtre
(Paris, Flammarion, 1952) e Le comédien désincarné (Paris, Flammarion,
1954). La citazione di Vilar rimanda a un discorso di Jouvet pubblicato in
«Conferencia. Journal de l’Université des annales», v. 30, n. 1, 1935-1936,
p. 79-94.
12 Cf. Henri-René Lenormand, Confessions d’un auteur dramatique, vol.
II, Paris, A. Michel, 1952.
13 Nel 1921 Jacques Copeau pubblica L’école du Vieux-Colombier
nei «Cahiers du Vieux-Colombier» ; Gaston Baty scrive Le Masque et
l’encensoir nel 1926 e Rideau baissé, nel 1949 ; Konstantin Stanislavski
pubblica nel 1937 Il lavoro dell’attore (apparso in Francia nel 1958 con
introduzione dello stesso Vilar); i Souvenirs et notes de travail sur l’acteur
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strada. Il contrario!
Certi nostri antenati che erano poveri si stupirebbero se
venisse loro detto che le loro realizzazioni appartenevano a
un’arte raffinata dello spettacolo. In realtà, essi presero spesso dalle arti maggiori o minori (architettura, scultura, decorazione, cinematografia, musica, alta moda...) il complemento
più sottile del loro operare. È a questa concezione del teatro
che bisogna volgere le spalle in modo deciso. Mi pare, d’altronde, che un popolo al quale la guerra ha fatto ritrovare
non solo i bisogni primari dell’esistenza, ma forse anche una
coscienza più chiara dell’esistenza, esigerà da noi qualcosa
di diverso da un’apparenza ricca, raffinata dello spettacolo.
Qui, per esempio, gli attori improvvisati reduci dagli stalag
avranno da dire la loro.
Bisogna anche sapere se avremo abbastanza lucidità e tenacia per imporre al pubblico ciò che desidera senza esprimerlo. Questa sarà la nostra lotta. Essa supera il compito del
regista propriamente detto.
alizzata in scena da Antoine o da Gémier, mi lascia
indifferente. O per meglio dire, ostile. [...]
Non vi è nulla di sorprendente nel prendere coscienza
del mio debito attraverso gli scritti e non dalla pratica scenica (regia, scenografie, costumi, recitazione). Perché un
identico e obbligatorio atteggiamento intellettuale nei confronti dell’opera (perlomeno: chiaroveggenza e sincerità),
non deve necessariamente produrre le medesime reazioni
sensibili. [...]
In quali punti si oppone, invece, a determinate scelte registiche passate o presenti?
Mi ritengo contrario ad ogni messa in scena che tenda, secondo un orribile termine recente, a “riteatralizzare” il teatro. Contrario a tutto ciò che è “spettacolo per lo spettacolo”.
Contrario alla mania per le scenografie, quindi. Contrario
all’arte dell’illuminotecnica, alla patafisica14 parigina del
costume. Contrario al simbolismo nella recitazione dell’attore.
Tra il realismo di Antoine e le «convenzioni teatrali» di
coloro che lo hanno seguito e combattuto, vi è posto
per un teatro dagli effetti semplici, senza intenzioni, a
tutti familiare. Ciò non significa che la scenografia sarà di-
sprezzata, che non si studierà accuratamente il costume, non
significa che il gesto dell’attore sarà quello dell’uomo della
di Charles Dullin escono nel 1946. Talma e la Clairon, grandi attori del
Settecento, hanno aperto alla sensibilità moderna la recitazione, fuori dei
clichés accademici e, interessati alla verità storica e psicologica, hanno
lasciato delle memorie scritte.
14 Il termine, utilizzato qui con intento scherzoso, fu coniato da Alfred
Jarry nella sua opera Gestes et opinions du Docteur Faustroll, pataphysicien
(1911), per indicare una «scienza delle soluzioni immaginarie».
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Quale spazio hanno i classici nel suo repertorio? Vorrebbe cambiarlo, e se sì, per quali ragioni?
A domande come questa non si può rispondere senza una
premessa, altrimenti può sembrare che facciamo quello che
vogliamo. In effetti, non è così, purtroppo. Se fossimo aiutati
dallo Stato, o da imprese private o pubbliche, come accade
agli artisti della scena in Russia, potremmo definire un piano
di lavoro regolare in cui inserire il teatro classico. Dico un
piano di lavoro regolare, perché non bisogna dimenticare che
il teatro esige da parte degli attori un esercizio quotidiano.
Se non li frequentate assiduamente, i personaggi si fanno
beffe di voi come degli aristocratici, per la semplice ragione
che essi ci obbligano a una conoscenza intima e diligente
dei mezzi espressivi vocali e plastici. Si può giungere a un
compromesso con un personaggio di Becque, di Musset, di
Claudel15. Ma ciò è impossibile con personaggi come
Argante, Alceste, Nerone, Ermione, Andromaca, il
Cid, Poliuto16. Essi reclamano qualcosa di diverso dal
temperamento generoso di un attore comico o tragico;
è necessario avere assimilato, aver fatto propria quella sintassi e quel ritmo molteplici e rigorosi. Bisogna
rendere verosimile ciò che non è vero. In questo ambito, una buona parte della superiorità degli attori della
Comédie Française sui loro colleghi viene da questa
frequentazione permanente delle opere classiche che
15 Vilar cita autori che non appartengono al Seicento, l’âge classique
francese, ma alla modernità, e i cui personaggi, né leggendari, né
mitici, non hanno la pienezza dei classici. Vilar non giustifica questa
asserzione. Possiamo ipotizzare alcune ragioni, considerando che per i
drammaturghi nominati a titolo di esempio la preoccupazione principale
non è la creazione di personaggi da affidare agli attori. Alfred de Musset,
nel cuore del romanticismo, fa ricorso a colpi di scena; Henri Becque,
contemporaneo di Zola ma non adepto del naturalismo, si focalizza su
argomenti morali ma tratteggia “caratteri” e ritratti non universali; Paul
Claudel, dal complesso pensiero religioso, si interessa molto all’insieme
scenico, fino all’inclusione dei cori.
16 Il riferimento è naturalmente ai protagonisti del Malato immaginario e
dell’Avaro di Molière, del Britannico, di Fedra e di Andromaca di Racine,
del Cid e del Poliuto di Corneille.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | LINGUE E LETTERATURE MODERNA
il Conservatorio e la Casa di Molière17 pongono loro
come punti obbligati. Questa frequentazione obbligatoria,
questo piacevole “matrimonio forzato” mi pare, d’altronde,
il volto familiare della tradizione. [...]
Forse l’importanza di Jacques Copeau in Francia e in altri
paesi è dovuta in primo luogo alla sua costante preoccupazione di ridare piena luce e la capacità di scuotere le coscienze, al repertorio dei suoi antenati.
Quando crea un’opera teatrale, lei si sforza di piegare gli
elementi necessari all’idea d’insieme che si è fatto, o modifica la sua concezione in base agli elementi di cui dispone?
La realizzazione scenica di un’opera è sempre il risultato
di un compromesso. Compromesso, se non altro, fra quanto
il regista immagina sul piano visivo e uditivo e la realtà viva
e anarchica degli attori. Per quanto mi riguarda, nulla di definitivo, nulla di preciso viene fissato prima delle prove. Né
carte, né appunti, né schemi scritti. Nulla fra le mani, nulla in
tasca, perché tutto è affidato al corpo e all’anima dell’altro.
Di fronte a me, c’è l’attore.
Certo, obbligare la voce o il corpo di un interprete ad integrarsi in un’armonia o in un gioco plastico fissati in anticipo,
è come fare un addestramento. L’attore non si può confondere con un animale ammaestrato o con un robot. Con pazienza,
lentamente, fra lui e me credo si crei una sorta di familiarità
fisica che mi permette di comprenderlo e di essere compreso
senza che ci sia bisogno di molte parole. Bisogna che io lo
conosca bene e, anche se non è amabile, amarlo. Non mi è
possibile realizzare in modo efficace un’opera il cui destino
dipende dall’unione di molte volontà, di “guidare” bene una
pièce, collaborando con gente che non posso amare. Amare
il teatro non vuol dire nulla; amare coloro che lo praticano
è forse un’operazione meno “da artisti” ma consente di raggiungere risultati più concreti. Tuttavia, benché non mi sforzi
di piegare gli elementi necessari a un’idea d’insieme, come
lei dice, è vero comunque che dopo un certo numero di prove, ci si vede obbligati a condurre gli interpreti, talora senza
che sia utile che ne siano consapevoli, verso un’idea d’insieme, verso un diapason che non è necessariamente scelto
dal regista, ma che nasce dalla fusione delle voci, dei corpi,
dell’anima degli altri interpreti e dal testo. Una volta giunti a
questo punto, non bisogna discostarsene. […]
Occorre ritornare di nuovo all’autore. Ascoltarlo. Seguirlo.
Stare alla larga, quindi, dai difetti da piccolo dittatore ai quali
un regista ha sempre la tendenza a cedere. Ma bisogna anche
pregare l’autore di non tapparsi le orecchie di fronte alle lamentele e ai suggerimenti spesso mal espressi da uno o più
interpreti. Il parere di un attore che prova la parte è fondamentale. Apelle ascoltava il calzolaio mentre criticava il suo
disegno di una scarpa. Per quanto grande sia, uno scrittore
dev’essere cacciato dal teatro se disprezza deliberatamente
17 “Maison de Molière” è il nome che è stato dato alla Comédie Française
dove confluirono gli attori di Molière dopo la sua morte. Fino al 1946, il
Conservatoire National d’Art Dramatique aveva un corso riservato agli
attori della Comédie Française.
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LINGUE E LETTERATURE MODERNA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
l’attore. […]
Crede che il teatro venga danneggiato dallo sviluppo del
cinema e, per questo, sia destinato a subire una profonda
trasformazione per potere continuare a esistere; o deve rassegnarsi ad essere riservato ad una minoranza?
Per rispondere efficacemente alla sua domanda, bisognerebbe ricorrere alle informazioni in possesso della Pubblica
Amministrazione: fra il 1920 e il 1939, gli incassi del teatro
commerciale sono stati danneggiati dallo sviluppo dell’industria cinematografica? Perché il primo nemico del teatro
d’arte non è il cinematografo, ma lo spettacolo commerciale,
quello dove tutto converge verso la preoccupazione dell’incasso, e del massimo incasso. Come sa, questo genere di
spettacolo appartiene tanto al palcoscenico che alle sale di
proiezione. Debbo aggiungere che un film di qualità appartiene alla nostra cultura, così come un bel romanzo o il quadro di un maestro contemporaneo. Non può certo minacciare
l’arte del teatro. Al contrario, nella misura in cui è stimolante
e originale, ci aiuta a mantenere attivi la curiosità e il fervore
del pubblico.
Non sono i film di Charlie Chaplin o Il gabinetto del dottor
Caligari che hanno condannato Jacques Copeau alla chiusura definitiva del Vieux-Colombier. Non sono nemmeno i film
di René Clair, non è Tempeste sull’Asia, né La Corazzata
Potemkin, né i film di Murnau ad avere provocato il deficit
nel budget dei Pitoeff o di Jouvet.
Non credo quindi che lo sviluppo specifico dell’industria
cinematografica abbia provocato o rischi di provocare profondi cambiamenti nell’arte del teatro. Nei momenti in cui vi
sono stati dei cambiamenti, le ragioni furono diverse, quasi
sempre di ordine interno.
Quanto a sapere se il teatro può appartenere solo ad una
minoranza è un problema senza soluzione ai nostri giorni. Fu
possibile, in una certa misura, nel corso del Seicento francese. E reputo che un ruolo non secondario lo ebbe la borsa dei
Grandi. A tale riguardo, mi sono sempre chiesto come avesse
potuto costituire un repertorio tanto vario Antoine, rappresentando ogni spettacolo solo due o tre volte... Resta il fatto
che ad oggi, non possiamo costruire una casa, un garage, un
laboratorio nostri, dove potremmo almeno attirare una minoranza fedele: sì, la crisi attuale ci mette nell’impossibilità di
trovare sia pure un garage in disuso, soffriamo della penuria
di legno, di oggetti di fabbrica, sedie, poltrone, attrezzature
elettriche, serrature, indispensabili ai nostri spettacoli.
Rispondo in modo meno personale; faccio presente che le
modifiche profonde dell’arte teatrale nel corso degli ultimi
cinquant’anni almeno, sono state sempre provocate da una
minoranza: alcuni attori o alcuni artisti per quanto riguarda
gli esperti, un numero ridotto ma fedele di amanti del teatro
per quanto riguarda il pubblico: in Francia (Antoine, Copeau, il Cartel); negli Stati Uniti (Little Theatre, Provincetown
Players); in Russia, Stanislavski e le prime compagnie amatoriali, per finire con gli studi del Teatro d’Arte di Mosca.
Non è quindi lo sviluppo del cinema che ci può costringere
a una minoranza. Sarebbe più giusto dire che se una compa50
gnia introduce un cambiamento profondo nell’arte teatrale,
essa è destinata, per tutto il tempo della creazione originale,
ad appartenere a una minoranza. In una società più equilibrata, organizzata in modo più giusto, sono persuaso che il
grande pubblico farebbe sue le forme d’arte nuove. Ma nei
nostri teatri, il grande pubblico presente non appartiene alla
parte sensibile del paese (i prezzi dei biglietti sono troppo
alti) [...]. Per quanto mi riguarda, preferisco recitare davanti
alle poltrone vuote e per piacere mio, piuttosto che avere a
che fare con un pubblico la cui unica virtù è poter pagare un
posto 90 o 155 franchi (prezzi sindacali del 1944)».
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI:
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«Cahiers Jean Vilar», periodico a cura della Maison Jean
Vilar, Avignon. 1983-2014.
Bernard Dort, Un âge d’or ou: sur la mise en scène des
classiques en France entre 1945 et 1960, «Revue d’Histoire
Littéraire de la France», v. 77, n. 6, 1977, pp. 1002-1018.
Catherine Faivre-Zellner, Firmin Gémier, héraut du
théâtre populaire, Rennes, Presses Universitaires de Rennes,
2006.
Laurent Fleury, Le T.N.P. de Vilar. Une expérience de démocratisation de la culture, Rennes, Presses Universitaires
de Rennes, 2006.
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Jacqueline de Jomaron (sous la direction de), Le théâtre en
France, vol. 2, Paris, Armand Colin, 1989.
Guy Leclerc, Le T.N.P. de Jean Vilar, Paris, Union Générale d’Édition, 1981.
Emmanuelle Loyer, Le Théâtre citoyen de Jean Vilar, une
utopie d’après-guerre, Paris, P.U.F., 1997.
Id., Le Théâtre National Populaire au temps de Jean Vilar
(1951-1963), «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», n. 57,
1998, pp. 89-103.
Gian Renzo Morteo, Il teatro popolare in Francia : da
Gémier a Jean Vilar, Bologna, Cappelli, 1960.
Didier Plassard, Réjouir l’homme est une tâche douloureuse ; le T.N.P. de Jean Vilar et la presse, «Revue d’Histoire du Théâtre», n. 2, 1998, pp. 101-128.
«Revue d’Histoire du Théâtre», n. 4, 2012 (numero monografico: Jean Vilar, genèse et postérité).
Jean Vilar, De la tradition théâtrale, Paris, L’arche, 1955
(Gallimard, 1966).
Id., Le Théâtre, service public et autres textes, Paris, Gallimard, «Pratique du théâtre», 1975.
Id. e Émile Copfermann, De Chaillot à Chaillot, Paris, Hachette, 1981.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Il “bene comune”:
una revisione dei costrutti del discorso
delle politiche pubbliche
LUIGI COLAIANNI
Dipartimento di Neuroscienze e Salute mentale, Fondazione Policlinico di Milano
Laboratorio di Metodologia di Analisi dei Dati Informatizzati Testuali (MADIT), Università degli Studi di Padova
«
Il contenuto di realtà di un oggetto dipende
dal metodo impiegato per conoscerlo.
J. Dewey1
Milano ha bisogno di buoni cittadini che sappiano vincere la paura». A parlare è l’arcivescovo Angelo Scola, nel Duomo, per la messa
di Ognissanti. E lo ripeterà nel pomeriggio,
pregando per i defunti al cimitero Monumentale: «La paura è comprensibile ma questo sentimento lo si
sconfigge solo ascoltandoci reciprocamente e non contrapponendoci». Non cita direttamente la Lega né la manifestazione
contro l’immigrazione di due settimane fa, ma a messa finita
spiega: «Tutti, a partire da chi ha responsabilità politiche,
dobbiamo lavorare al cambiamento. Il nemico dell’amicizia
civica è l’ideologia. Dobbiamo vivere insieme anche con gli
immigrati che arrivano». E ammette: «C’è un problema reale
di riuscire ad assorbire in pochi anni tanti immigrati, ma se lo
strumentalizziamo, allora cadiamo nell’ideologia e non costruiamo». A Greco qualcuno ha imbrattato di vernice verde
il citofono della parrocchia che ospiterà una nuova mensa per
i poveri della Caritas. E i parroci in prima linea nei quartieri
difficili sono preoccupati: «Chi ha perso il lavoro vede l’immigrato come un concorrente. Inoltre quest’anno con l’avanzata dell’Is, c’è la paura degli islamici e l’annuncio di nuove
moschee non fa certo piacere»2.
Il testo dell’articolo riportato, tratto da un quotidiano nazionale, permette di evidenziare la necessità che la messa a
tema delle interazioni sociali con il loro portato e declinazione di “concetti” cui – apparentemente con medesima attribuzione di senso – tutti i parlanti fanno riferimento – dal ruolo
del singolo cittadino, al rappresentante di interessi già costituiti e riconosciuti, al decisore, fino alle figure che operano
nei contesti dei dispositivi disciplinari (Foucault 1994) nei
1 John Dewey, 1948, Esperienza e natura, Torino: Paravia.
2 Cit. da la Repubblica ed. di Milano del 2 novembre 2014.
vari ambiti: dalla sanità all’assistenza, dall’esecuzione penale ai diversi servizi alla persona, agli operatori dell’ordine
pubblico – possa trovare una collocazione che la sottragga al
mero senso comune. Ciò che viene attestato nella citazione,
in assenza di riferimenti “terzi”, è la conseguente e inevitabile definizione della “situazione”3 in termini di controver-
sia – si condivide un frame comune, non si condividono le
specifiche opzioni – e il più delle volte di conflitto – ciascun
parlante configura una definizione della situazione in termini esclusivi e quindi non condivisibili. Cosa possa essere un
“buon cittadino”, quali i criteri per rilevarne la “bontà”, cosa
si intenda per “amicizia civica” e come questa possa esse3 Il Teorema di Thomas enuncia: «If men define situations as real, they
are real in their consequences», W.I. Thomas e D. Thomas 1929, The
Child in America, New York: Alfred Knopf, p. 572.
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SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
re descritta e implementata trovano risposta – nel testo – in
repertori prescrittivi, dove il verbo “dovere” declina ogni
possibilità di risposta, chiudendole in una prospettiva o di
adesione a tale dovere, o di non adesione: quanto offerto da
chi parla non permette una condivisione di criteri, di considerazioni, di obiettivi e di strategie, lasciando le criticità, nel
caso migliore, a una prospettiva di mera “tolleranza”. Come
è possibile, differentemente, promuovere un “dialogo”4 come
generazione di una configurazione terza di realtà5 (giochi a
somma diversa da zero), e non una mera dialettica6 (giochi
a somma zero) tra chi, per esempio, propone di assegnare
un’area del territorio alla costruzione di un tempio di preghiera (che si chiami sinagoga, moschea, ashram o cattedrale
apparentemente non rileva) e chi in virtù di teorie personali
implicite è contrario a tale scelta? È sufficiente “ascoltare”7 i
singoli cittadini? E cosa si può anticipare che questi possano
offrire rispetto a ciò su cui vengono consultati? E se gli interlocutori fossero individuati non tra i “portatori di interessi”
(stakeholder) riconosciuti – come generalmente avviene – e
quindi già con voice? Si sarebbe di qualche grado più vicini all’obiettivo? E, dunque, come è definibile l’obiettivo in
4 Alla dialogica si richiama Richard Sennett, il sociologo autore di
Insieme (2012), il suo saggio più recente che tratta di una vasta ricerca sul
mutamento delle relazioni sociali. Nel complesso il testo di Sennett suona
come un appassionato grido d’allarme in tempi di individualizzazione e di
perdita di solidarietà sociale. Il testo, ripercorrendo la strada dello sviluppo
sociale dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento – anni che
hanno visto l’affermazione delle scienze sociali e il porsi di una “questione
sociale” – sottolinea il principio della collaborazione fra gli uomini come
unica condizione della continuità della vita.
5 Scrive Bachtin: «La comunicazione dialogica afferma la fede dell’Uomo nella propria esperienza. Per una comprensione creativa [...] è essenziale che la persona si collochi all’esterno dell’oggetto che vuole comprendere» (Bachtin 1886, 7).
6 Kant definisce la dialettica come la logica dell’apparenza, che ha lo
scopo di mettere in luce il carattere illusorio dei giudizi trascendenti, mettendoci in guardia contro l’inganno della ragione, che è l’inganno della
totalità, l’illusione con la quale l’uomo tende a superare sul piano della
conoscenza il mondo dei fenomeni. Ma l’apparenza della dialettica, in
quanto trascendentale è connaturata alla ragione umana e quindi continua
a dare l’illusione di essere vera anche quando se ne dimostri la falsità. La
dialettica è perciò una logica dell’apparenza, in quanto la conclusione, pur
derivando logicamente dalle premesse, non è necessaria, perché non sono
necessarie le premesse in sé da cui prende le mosse; il suo obiettivo è quello di far prevalere una particolare attestazione di realtà e quindi mira alla
persuasione dell’interlocutore: il potere di affermare e contraddire; è noto
il detto dei gesuiti per cui “concede parum, nega saepe, distingue semper”.
7 Il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia chiudeva una intervista affermando, dopo aver enunciato che se chiedesse a cento persone il loro
orientamento circa una determinata questione su cui decidere, queste non
sarebbero d’accordo tra loro: «Ascolto tutti, poi decido io». Ciò evidenzia
una cruciale criticità rispetto a quanto promosso/promesso durante la campagna elettorale: «Comitati di quartiere, associazioni, singole personalità,
università, grandi vecchi e giovani creativi: tutti quelli che per mesi hanno
contribuito a costruire il sogno arancione, che hanno affollato piazze e
teatri, che hanno assaporato in quei giorni il frutto della condivisione di
un progetto, ora chiedono di passare — metaforicamente — all’incasso,
trasformando le proposte in atti, le idee in decisioni. Non vogliono più solo
dire la loro, ma si aspettano che la loro diventi realtà» (la Repubblica ed.
di Milano del 5/1/2012). Si traccia qui un ruolo della partecipazione declinata come mera consultazione, che si pone ai gradi più bassi della scala
delle strategie per generare processi partecipativi e che risulta inadeguata
a gestire le criticità che il testo del Sindaco anticipava, ovvero la polverizzazione degli interessi e delle opinioni che li attestano.
52
quanto tale condivisibile? Per dirla con la sceneggiatura di
un noto film in cui Totò e Peppino De Filippo sono protagonisti8, è utile ai fini della nostra riflessione porsi la domanda:
«per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare»? Non sarà necessario prima definire “dove vogliamo
andare”, e in virtù di ciò generare strategie utili, adeguate ed
efficaci?
«PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE, PER DOVE
DOBBIAMO ANDARE?»
Per gestire le criticità (definibili come snodi che a seconda della strategia impiegata possono evolvere una determinata situazione in un senso o in un altro) che la modernità
radicale (Giddens 1994), o liquida (Bauman 2002) o come
definita da Beck (2000), la seconda modernità riflessiva e i
cambiamenti epocali che il pianeta attraversa pongono nella
quotidianità è necessario compiere uno scarto dalla modalità
conoscitiva adottata, caratteristica del senso comune, con un
franco slittamento da un paradigma di realismo ontologico
sostanzialista, ancorato a modalità ingenue e fondato sulla
“realtà del percetto”9: tutto è sotto il sole (έν πυρóς), a un
realismo concettuale che generi teorie fertili in grado di produrre l’osservato (in virtù della scelta teorica libera e argomentata dell’osservatore) e quindi che liberino dal “panico
epistemologico” (Bateson & Bateson, 1989) che si produce
quando l’osservatore teme di perdere la referenza “materiale” e ontologica dell’oggetto conoscitivo, referenza sostenuta
dall’impiego denotativo e connotativo del linguaggio comune, come se il mondo fosse l’insieme delle cose e il linguaggio ancillare alla loro denominazione. Si dà atto conoscitivo
solo quando si è in presenza del dubbio (Wittgenstein 1999),
del non–so metodologico (Colaianni 2007) e, come evidenzia tutta la storia della scienza fino a oggi, tali processi sono
contro intuitivi e pongono come propri oggetti osservativi
elementi che sono per lo più fuori della portata dei meri apparati percettivi umani e quindi della comune esperienza (si
pensi alle onde elettromagnetiche, oppure alla non percepibilità della dimensione del tempo nella relatività generale).
Nella ricostruzione che Malcolm (1949, 200–20) dà delle
condizioni perché vi sia atto conoscitivo, la grammatica di
«so che p» richiede:
- che vi possa essere un dubbio;
- che si possano fornire ragioni per il proprio sapere che p;
- che sia possibile un’indagine che determini se si dà il
caso che p.
Pertanto il medesimo processo conoscitivo non sarebbe
concepibile se non fondato sulla grammatica e quindi sul lin8 Totò, Peppino e la malafemmina, 1956, regia di C. Mastrocinque.
9 Ovvero sulla configurazione di realtà che l’ancoraggio al percetto genera; come diceva George Edward Moore (1942) a Wittgenstein: «so che
qui c’è una mano, che questa è la mia mano, indubitabilmente questa è la
mia mano», evidenziando la forza retorica del sancire l’Ente (ciò che si
dà in virtù della sua essenza, sostanza, ciò che sta sotto), come modalità
conoscitiva. Ma, come si riporterà più avanti, non si dà atto conoscitivo se
non vi sia possibilità del dubbio.
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
guaggio, tanto che Bachtin può asserire che «Dove non c’è
un testo, non c’è neppure l’oggetto di studio e di pensiero»
(Bachtin 1929, 291).
Collocarsi nel processo di generazione delle configurazioni di realtà, discorsivamente intesa, come alveo adeguato
e appropriato al tema che trattiamo – e quindi individuare
come oggetto osservativo il linguaggio – fa sì che si possa prescindere dagli aspetti di contenuto che i discorsi presentano e permette di distogliersi dalla cosalità obbligata
dell’ontologia, senza perciò perdere in realismo; permette di
occuparsi di come tale realtà venga a configurarsi in virtù dei
discorsi prodotti nella comunità dei parlanti e di anticipare le
possibili ricadute pragmatiche. Sintonicamente con quanto
Wittgenstein asserisce, definendola come
tutto ciò che accade (p.1). Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose
(p. 1.1) (Wittgenstein 1964),
singolo individuo, ma lo ricomprende per definizione, ovvero come cosa data a cui si appartenga12e che di per sé includa
(si legge spesso, in testi di progetti, di delibere comunali o di
leggi, di “inclusione sociale” e di “integrazione”, poste come
obiettivo di per sé evidente), come un perimetro che distingua tra insiders e outsiders, per cui il confine (limes) è tracciato tra chi è dentro e chi è fuori; ciò in virtù, per esempio,
di una “cultura” giudicata comune, di quel qualcosa che si
pre–suppone condiviso in quanto al fondo, alla base (culus)
di quanto si “coltiva” (coleo)13 che permette l’attribuzione
di un “noi” antinomico a un “tutti gli altri”. In virtù di tale
configurazione si producono, per esempio, i discorsi sull’identità come fondata sull’appartenenza territoriale con tutte
le nefaste conseguenze che è possibile rilevare come ricadute
di tale configurazione; ma anche in virtù di ciò che ciascun
individuo reputa essere “comune” e sancisce come tale.
L’etimo del termine permette di porre il costrutto su un
piano differente, più fertile e utile a generare il cambiamento
nel senso auspicato dal testo dell’articolo riportato in apertura: cum munus, deriva da munus, –ĕris: dono, regalo, dovere, funzione, impegno, tributo, spettacolo, compito, carica,
tassa, favore, funerale; munus dare: offrire uno spettacolo;
munere vacare: essere esentato dal servizio militare; templis
munera ferre: recare offerte agli dei; lungi dall’indicare ciò
che è contenuto entro un perimetro – fisico e/o attributivo – e
da esso è definito, il termine esprime invece un compito, un
impegno, un vuoto che ci interroga: la comunità non si dà,
non è data; la comunità si configura facendola nell’interazione, nella polifonia delle “voci narranti” (Bachtin 1968). Essa
la “realtà” si configura in virtù delle azioni comunicative
che il linguaggio – i giochi linguistici come forma di vita
– porta all’esistenza (da ex sistere: essere in atto)10. Il contributo che tale ricollocazione è in grado di offrire va proprio
nel senso di sottrarre al mero senso comune costrutti diffusi
nei discorsi che si producono nella comunità dei parlanti e
quindi alla definizione che ciascun parlante ne dà in virtù di
teorie personali e in un determinato tempo – come osservato
nel testo in apertura del capitolo – quali “bisogno”, “problema”, “esigenza”, “comunità”, “cultura”. Riprendendo quanto
asserito da Dewey (riportato in esergo), se cambia la modalità conoscitiva, “cambia anche il contenuto di realtà di un
oggetto”; tali forme lessicali, quindi, meritano una considerazione in virtù del loro pervadere lo spazio discorsivo e
della loro riconfigurazione nel senso scientifico in virtù della
scienza dialogica: pertanto, se è condivisibile che prima di
definire il “per dove si debba andare” sia necessario definire
il “dove andare”, e quindi l’obiettivo di “generare comunità”, è innanzitutto necessario poter dare di tale costrutto (e
poi degli altri citati che verranno considerati più avanti) una
definizione dialogica e ”terza”. La referenza di tale forma
lessicale nel senso comune è per lo più indicata in “qualcosa
che è” (impiego del verbo essere sostantivo e non copulare–
attributivo)11 là fuori; questo “qualcosa” non coincide con il
Se si dà possibilità di incontro tra perfettamente “altri” –
stranieri a se stessi, scriverebbe Fernando Pessoa – e quindi anche con colui che sopraggiunge, tra individui che non
ancora condividono in quanto perfettamente sconosciuti, ma
che possono generare tale processo di condivisione in quanto
abitano il linguaggio, è possibile parlare di un processo che
non appartiene a nessuno in particolare e in modo esclusivo e
10 Un rappresentante della corrente filosofica del “nuovo neo realismo”
come Markus Gabriel, e quindi un tenace costruttore di discorsi di referenza ontologica afferma: «Che cos’è il mondo? È un’entità di cui può
essere detto che esiste in ogni caso – molti dei pensieri di Moore sembrano prendere questa direzione – o è un dominio? [...] L’esistenza non
può essere una proprietà propria, a livello degli oggetti. […] Che cos’è,
allora, l’esistenza? Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione–
in–un–mondo. Essa non è la relazione di ”rientrare sotto un concetto” o di
”soddisfare una funzione”, ma il fatto che qualcosa appaia all’interno di un
campo di senso, che sia all’interno di un mondo» (Gabriel 2012, 40–46).
Pertanto “il mondo” è definibile come un atto conoscitivo generato da un
soggetto conoscente entro una “provincia finita di senso” (Schütz 1979):
«in principio era il verbo».
11 “essere”, tanto come verbo che come concetto, costituisce uno dei
più significativi punti di incontro tra riflessione linguistica e filosofica;
un punto di incontro che costringe a ripercorrere la storia non conclusa di
quella che è considerata da alcuni filosofi del linguaggio, come Bertrand
Russell «una disgrazia per l’umanità». Come spiega bene Moro, sul fatto
che il verbo essere esprima temporalità ci sono pochi dubbi, ma è solo
dopo lunghe riflessioni che si è emancipato dal ruolo di coprotagonista
per diventare, attraverso una sineddoche linguistica, il «campione stesso
dell’affermazione» (Moro 2010, 54).
12 A proposito della potenza retorica che il sancire qualcosa esprime, si
ricorda come enuncia la Costituzione italiana al Titolo II, art. 29 la definizione di famiglia: “società naturale”; si attesta un chiaro ossimoro (la natura non richiede normazione) per cui si attribuisce a un istituto giuridico,
che è tra quelli più regolati nelle differenti società, lo statuto di “naturale”.
Tale attestazione non richiede giustificazione argomentativa e diventa senso comune. Salvo poi, nel tempo, richiedere una revisione alla luce del
senso scientifico e della varianza delle possibilità umane.
13 La sceneggiatura del film “Mio cognato” di Alessandro Piva evidenzia
come la non conformità con comportamenti attesi in un determinato contesto sociale metta in discussione l’identità come appartenenza alla cultura
“comune”: “la vuoi la birra? – No, grazie – Allora non sei di Bari!?”
https://www.youtube.com/watch?v=y9E85Av6Ouc
non è una proprietà, un pieno, un territorio da difendere e separare
rispetto a coloro che ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono
(i significati di munus) nei confronti degli altri, che ci richiama nello
stesso tempo alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi (Esposito 1998, presentazione).
53
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
non di uno stato, non di una condizione disposizionale di un
aggregato di individui. Fare comunità è un processo continuo
che, generando “coesione sociale”, sia in grado di produrre responsabilità condivisa tra tutti i cittadini, non solo tra
i portatori di interessi riconosciuti (stakeholder); anzi, che
collochi ciascuno a partire dal proprio ruolo sociale nel ruolo di community holder14; ma, più coerentemente con quanto
scritto, l’espressione più adeguata potrebbe essere community makers. In altri termini, tutte le politiche pubbliche, che
dichiarano di mirare al massimo di “inclusione sociale” attraverso processi di assimilazione degli individui giudicati
anormali/devianti/emarginati/stranieri a ciò che è enunciato15
e assunto essere lo statuto della comunità, si rivelano fallimentari rispetto all’obiettivo dichiarato e in più autoritarie
e disabilitanti delle competenze delle persone (Illich 2008),
generatrici di stigma e di maggiore esclusione. La pervasione
linguistica dello spazio comunitario da parte dei dispositivi
politici e disciplinari attraverso l’identificazione di/e l’interlocuzione con portatori di interessi espropria il singolo cittadino della propria vocazione e della possibilità di agency
(Colaianni 2004), della voice, e preclude ogni possibilità che
si generi comunità, per cui nel caso migliore, ubi ius ibi societas, e quindi si dispone solo di quanto il sistema normativo–giuridico è in grado di offrire per gestire controversie e
conflitti: i confini (limes) rimangono tali e non si trasformano
in soglie (limen) (Alexander Langer); non è possibile portarsi
ultra ius verso la communitas.
In particolare, l’inadeguatezza teorica del riferimento al
costrutto di stakeholder nella definizione operativa di “comunità” si evidenzia – oltre che nella rilevazione sul campo
circa la difficoltà di gestire la molteplicità e polverizzazione
di interessi spesso conflittuali tra loro e nella considerazione
che tali interessi siano solo quelli che hanno già “voce” e
quindi di per sé non rappresentativi se non di quella parte
che vi si riconosca – proprio nella sua origine: il suo impiego deriva come metafora tratta dal ruolo di colui che teneva
le scommesse di singoli giocatori/investitori, per cui viene
speso in un ambito quale quello di “comunità” – come responsabilità condivisa – in cui ha poco gioco nel generare
tale condivisione, operando in senso divergente: vengono
rappresentati solo gli interessi di tutti coloro che a vario titolo
sono implicati nella “scommessa” e i cui interessi sono ben
definiti ed espressi (Stakeholder theory: Freeman, 1983)16.
14 Cfr. Turchi, Gherardini 2014, Politiche pubbliche e governo delle
interazioni della comunità. Il contributo della metodologia “Respons.
In.City”, Milano: Franco Angeli.
15 Cosa “comunità” significhi in tal caso risente dei processi di gerarchizzazione sociale; la conformità dell’individuo è sancita in virtù dei sistemi
disciplinari e politico–istituzionali: «Quando uso una parola», Humpty
Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno». «La domanda è», rispose Alice, «se
si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi». «La
domanda è» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qui»
(Carroll 1993, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio
magico. Ediz. integrale, Roma: Newton Compton).
16 «A person, group or organization that has interest or concern in an
organization. Stakeholders can affect or be affected by the organization’s
actions, objectives and policies. Some examples of key stakeholders are
54
Pertanto tale costrutto non permette di approssimarsi a una
prospettiva di superamento delle differenti opinioni individuali (una testa, un voto) e in quanto tali esclusive per definizione, per generare una realtà terza generata dal processo di
condivisione, che ancora non è data; non a caso “condividere” contiene il riferimento innanzitutto a un atto conoscitivo:
dividere: prov. devire; rad. VID che viene identificato con
VID–ÈRE vedere, chi è il senso originario di sapere, apprendere, giudicare, o anche quello di cercare, trovare, in quanto
la divisione, l’analisi è fonte di cognizioni. L’attestarsi sul
sancire un interesse particolare non permette di per sé di “vedere” altro se non tale interesse.
Le considerazioni offerte intorno a come definire “comunità” in termini tali che aprano una prospettiva operativa e non
meramente speculativa meritano una specifica trattazione
che non impegna il presente testo; in questa sede è necessario proseguire con l’esaminare alla luce di tale anticipazione
l’uso che il senso comune fa dei costrutti sopra cennati di
“bisogno” e di “esigenza”, per rispondere all’obiettivo posto;
infine si offrirà una considerazione sulla valenza attribuita
anche in ambito scientifico all’immedesimazione empatica,
ritenuta nella comunità dei parlanti modalità utile – scriverei
“regina” – nel processo di generazione di coesione sociale.
Nei discorsi che vengono prodotti intorno a tali arcipelaghi di significato, essi – coerentemente con la caratteristica sostanzialistica che il senso comune attribuisce loro con
l’impiego ostensivo del linguaggio (quanto detto viene sancito nella sua realtà per il solo essere detto17) e, parimenti,
i discorsi generati a riguardo dalle scienze -logos come la
sociologia e la psicologia – vengono impiegati come sinonimi, attribuendo loro lo statuto di “enti” e, in quanto tali,
sono posti come oggetto di rilevazione, misurazione e di
calcolo. Il “bisogno” viene denominato e attribuito ad altri
come “mancanza di qualcosa” da chi ne ha facoltà e potere,
fino a essere posto come pivot delle politiche pubbliche; il
decisore ascolta, rileva, quantifica e prevede; quindi dispone
per “rispondere” al “bisogno” (generalmente in modo autoreferenziale), considerato come rilevante e generalizzato, secondo una logica di razionalità sinottica lineale. Se si legge
quanto enunciato nella letteratura corrente, per esempio, di
sociologia e di servizio sociale, la “rilevazione del bisogno”
compare nella filiera conoscitiva definita come fase appropriata alla “metodologia” dell’intervento sociale, attestando
retoricamente una referenza ontologica del termine lessicale,
laddove si tratterebbe solo di rilevare ciò che è “là fuori”,
costituito in virtù di relazioni di causa–effetto; per esempio,
creditors, directors, employees, government (and its agencies), owners
(shareholders), suppliers, unions, and the community from which the
business draws its resources. Not all stakeholders are equal. A company’s
customers are entitled to fair trading practices but they are not entitled to
the same consideration as the company’s employees. The stakeholders in a
corporation are the individuals and constituencies that contribute, either
voluntarily or involuntarily, to its wealth–creating capacity and activities, and that are therefore its potential beneficiaries and/or risk bearers»
(Post, Preston and Sachs 2002).
17 «Questo ve l’ho detto tre volte, e perciò è vero» (da Carroll L. 1876,
The Hunting of the Snark, Macmillan).
SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Anna Maria Campanini scrive che l’intervento
[…] non è concepito come una semplice omologazione del soggetto
al suo contesto, ma si cerchi di sottolineare la specificità di ciascun
soggetto, la partecipazione attiva a questo processo, la necessità di
operare sul contesto in modo che questo si apra e si modifichi per
meglio rispondere ai bisogni (corsivo del r.) delle persone (Campanini
1999, 22).
Il testo indica l’inizio di uno slittamento circa quanto rappresentato in merito al costrutto verso una dimensione di
azione definita «partecipazione attiva» dell’individuo, che si
valuta essere in grado di “aprire e modificare” – non viene
definito cosa – «per meglio rispondere al bisogno», posto
come elemento attrattore e non meglio definito (tutti sanno
cosa sia un “bisogno”); ciò tuttavia non ne muta la configurazione che rimanda a un realismo ontologico referenziale.
Folgheraiter spinge più avanti le sue considerazioni:
Quando la contingenza pratica è rilevante, è più facile che [... si] cada
in preda di una subdola tentazione, un’apparente scorciatoia metodologica, in realtà più spesso una trappola. Potrebbe lasciarsi andare al
seguente (sensato) ragionamento: dal momento che la situazione che
crea il problema c’è (corsivo del r.), e quindi può essere eliminata,
perché non farlo direttamente? Perché, si dovrebbe rispondere, è limitativo pensare la soluzione del problema solo come attacco, da parte
dell’operatore, alla contingenza oggettiva che lo crea (corsivo del r.).
Quella idea è teoricamente insufficiente. E non solo: fatte salve trascurabili eccezioni, essa è insufficiente anche empiricamente, dato che in
genere non funziona. […] La semplicistica idea del ruolo del servizio
sociale solo come attività di erogazione di risorse pubbliche standardizzate, in risposta a veri o presunti problemi oggettivati (corsivo del
r.), nasce precisamente da questo nodo. […] Ciò vuol dire, in termini
intuitivi, che se qualcuno sta ricercando una soluzione per una persona
diversa da se stesso, questa non può reggere se non è tale anche agli
occhi di quest’ultima (Folgheraiter 1998, 158).
Il testo introduce riferimenti a una “situazione che crea il
problema”, a una “contingenza oggettiva” che creerebbe il
“problema”; una strategia che miri ad “attaccare” tale contingenza è ritenuta fallace, in virtù di una modalità conoscitiva
definita “intuitiva”, e quindi “pratica”18 che si rileva essere
“teoricamente insufficiente”. Infatti manca una teoria che
permetta di collocare il costrutto “bisogno” (lessicalmente
posto come “problema”, [dal gr. πρόβλημα _ατος «sporgenza, promontorio, ostacolo, questione proposta», der. di
προβάλλω «mettere avanti, proporre»]) in una prospettiva
evolutiva a ogni livello, da quello dell’intervento sociale nei
vari ambiti, a quello degli interventi di attivazione di processi partecipativi e quindi delle interazioni comunitarie. Che
il costrutto appartenga a un dominio meramente discorsivo
(legami retorici) piuttosto che empirico–causale è rilevabile
anche nella letteratura che ne tratta, laddove ciascun autore
– come avviene nel senso comune – ne traccia una propria
definizione referenziale; tra i molti, Bradshaw (1972) mette
in relazione bisogni e modalità di risposta (erogazione dei
relativi servizi che mirano a soddisfarli) e definisce quattro
categorie:
– bisogno normativo: è quello definito da un esperto pro18 La pratica si fonda sull’esperienza (capacità, non trasferibili, né trasmissibili) e quindi su teorie personali di senso comune; la prassi si fonda
sulle competenze (trasmissibili nella formazione e trasferibili tra differenti
contesti) e quindi sul senso scientifico.
fessionale;
– bisogno avvertito: è quello contemplato nelle aspettative
dell’utente;
– bisogno espresso:
è l’espressione di quello avvertito in un comportamento, ovvero coincide con il concetto di
“domanda”;
– bisogno comparativo: è definito dal confronto tra persone che siano in stato di necessità e altre che per quello stato
già usufruiscano di interventi.
È evidente come le descritte specificazioni del costrutto si
fondino su meri atti discorsivi (speech act, Austin 987), generati dal soggetto (io ho bisogno di...) in virtù di una richiesta o da un secondo che li denomini (tu/voi/loro hai/avete/
hanno bisogno di...); comunque si è al cospetto di almeno
quattro arcipelaghi semantici differenti. Anche l’etimo del
termine rimarca lo slittamento da una originaria dimensione
interattiva (cura, sollecitudine, attenzione) a una dimensione
oggettuale connotata da una attestazione soggettiva/individuale di una mancanza, e quindi non “terza”, di quanto venga
attribuito (o auto attribuito):
bisogno: dal fr. Besoin, lat. med. BISÒNIUM, BÈ SOMNIUM =
SUNNIA, SONIA (nella Legge Salica), cura, sollecitudine, attenzione; divenne con valore generico mancanza di qualche cosa, necessità
e impedimento, per il legame che esiste tra cura e necessità, cioè cosa
che preme, molesta, e cosa che trattiene, che ostruisce (Treccani).
Il riferimento a “bisogno” come descritto nelle varie specificazioni, comunque venga definito, non è utile per la calibrazione dell’intervento in ambito sociale in senso evolutivo
e trasformativo, né sul piano teorico – come enunciato da
Folgheraiter –, né sul piano empirico; a tale proposito, Clayton (1983, 215) critica «questa classificazione su un terreno
pratico, ma non solo [...], pur portando a una migliore comprensione dei bisogni, non aiuta in alcun modo a decidere
se fornire effettivamente un determinato servizio o meno».
Gilbert Smith (1980), in uno studio sul funzionamento di
un distretto sociale, ha mostrato che il bisogno è costituito
amministrativamente dalle decisioni degli assistenti sociali
man mano che essi procedono nel loro lavoro quotidiano.
Kemshall (1986) ha studiato un’équipe di servizio sociale di
distretto, e ha mostrato che le decisioni sui bisogni risultavano dalle reazioni quotidiane degli operatori ai problemi con
cui si confrontavano; «reazioni che, in seguito allo stabilirsi
di un consenso dinamico all’interno dell’équipe, reinterpretavano continuamente le definizioni ufficiali dei bisogni fornite dalla normativa» (in Payne 1998, 37).
Il riferimento al costrutto di “bisogno”, impiegato come se
si fosse in presenza di un concetto semanticamente univoco
(caratteristica propria del concetto) e che invece presenta una
definizione incerta e sfumata, lo priva di fondamento scientifico e lo espone a etero attribuzioni come quelle esaminate,
legate a specifici contesti discorsivi politici, istituzionali e
organizzativi che condizionano quanto si intende mettere in
atto attraverso le risorse effettivamente rese disponibili da
scelte pre–determinate in virtù della definizione attuale che
la comunità dei parlanti attribuisce. Così, ciò che si riteneva
di poter risolvere con la centratura sul bisogno (need–led),
55
SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015
ovvero di rendere l’intervento del decisore e del tecnico adeguato alla singola persona e alla singola situazione in virtù
della risalita in generalità che considera l’insieme dei bisogni coincidente con il “bene comune”, si configura come un
processo top down che risulta rispetto al “portatore del bisogno” – appunto – “calato dall’alto”, standardizzato, inefficace (una volta soddisfatto, si genera un nuovo bisogno e ciò
che vi è di “comune” è solo tale modalità di reiterazione) e
spesso anche con perdita di efficienza: il “bisogno”, si potrebbe asserire, è il modo con cui l’individuo, che si collochi
nel ruolo di cittadino, di utente di un servizio, o di politico,
o di tecnico, “dice” in virtù di teorie personali non condivise e non esplicitate, cosa manchi per realizzare un obiettivo
altrettanto non condiviso; ovvero è il “prodotto” linguistico
di una modalità conoscitiva propria del senso comune (ciascuno, nel “dire”, pone il “detto” come dato di fatto che è
sancito per tale modalità che come appartenente a tutti): ciò è
attestato da quanto il Sindaco di Milano in apertura del capitolo esprimeva: «Ascolto tutti, poi decido io», che evidenzia
la criticità che quanto raccolto dai cittadini non è di per sé
condiviso/condivisibile dalla comunità dei parlanti (cittadini,
decisori, apparti tecnici, opinione pubblica), così come per
quanto si è fin qui scritto è possibile facilmente anticipare.
Se tale modalità fosse in grado di rispondere sia alla questione cognitiva, sia alla copertura dell’obiettivo (generare
“comunità”), non ci si troverebbe in presenza della continua “produzione” di bisogni tutti differenti e non facilmente
comparabili, che rende il costrutto non fertile ai nostri fini.
Come sopra enunciato, il senso comune impiega in modo si56
nonimico anche il termine “esigenza”; fallacia evidenziabile
dal considerare la sua etimologia che permette di sviluppare
alcune considerazioni circa il suo impiego in ambito scientifico; esigenza: (gr. έξ·άγω), esìgere v. tr. [dal lat. exigĕre,
comp. di ex– «fuori» e agĕre «spingere»], spingere fuori,
portare, pretendere cosa dovuta; il costrutto permette di porsi
immediatamente in una modalità dialogica, sottintendendo
un movimento dal proprio luogo, un venire fuori in un luogo terzo, non proprietà esclusiva di ciascun parlante, in virtù
di un criterio condivisibile: indurre, spingere, portare via,
emettere, far uscire, costruire, cacciare, inseguire, incalzare,
perseguitare, vivere, esistere, agire, fare, eseguire, operare,
esercitare, compiere, occuparsi di, attendere a, trattare, discutere, proporre, parlare, sollecitare; sono verbi collocabili
in un processo, piuttosto che in una dimensione ontologica:
dall’essere all’esistere, dal “detto” al “dire”, in virtù di un
processo conoscitivo fondato sulle modalità di impiego del
linguaggio comune. Il costrutto apre a una posizione terza, a
un luogo in cui convenire che non sia esclusivo di alcuno e
che viene generato nell’interazione.
Nell’orizzonte aperto dalla scienza dialogica e dal modello
dialogico–interattivo, il costrutto “bisogno�