febbraio 2015 - Scienze e Ricerche
Transcript
febbraio 2015 - Scienze e Ricerche
ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche SR NUMERO 4 - FEBBRAIO 2015 4. 4. Sommario COPERTINA LAURA CASTELLUCCI 5 Perché il prezzo del petrolio preoccupa anche quando si riduce? pag. 5 pag. 8 pag. 10 pag. 15 pag. 18 pag. 21 pag. 27 pag. 32 pag. 41 pag. 46 pag. 51 pag. 63 pag. 69 pag. 77 Il problema del trasporto ottimale di massa pag. 85 IL COMITATO SCIENTIFICO pag. 89 GIOVANNI PERILLO I paradossi dell’ambiente. Perché non si può non essere “Smart” PATRIZIA TORRICELLI Comunicare nell’era della televisione. La cultura delle immagini trasmesse CONTRIBUTI E INTERVENTI VINCENZO VILLANI Una pagina di storia della scienza e di epistemologia: Robert Boyle, il chimico scettico LUCIA PIETRONI Bio-Inspired Design. La Biomimesi come promettente prospettiva di ricerca per un design sostenibile 18 VINCENZA ROSIELLO La scienza dipinta dei PreRaffaelliti ROBERTO SCIARRONE Reportage e giornalismo italiano nel corso della Grande Guerra 51 GIOVANNA SPINELLI Energie rinnovabili a vocazione turistica. Itinerari attivi di energy tourism in Italia MARIA D’AMBROSIO Il sacro in Tintoretto. O della luce. Breve saggio sull’opera d’arte come medium ed exemplum. Verso una pedagogia del sentire PAOLA MARTINUZZI Un teatro per tutti nel lavoro di Jean Vilar LUIGI COLAIANNI Il “bene comune”: una revisione dei costrutti del discorso delle politiche pubbliche ALESSANDRO GIORGI L’impiego della terra cruda nelle costruzioni tra passato e futuro RICERCHE ANTONIO CAGGIA E GIOVANNI PAOLO CRESPI Ammortamento Bullet DANIELA GRIGNOLI 69 n. 4 febbraio 2015 L’apprendimento intergenerazionale nei sistemi lavorativi: un possibile percorso di coesione LUCA GRANIERI 3 N. 4 - FEBBRAIO 2015 ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche n. 4, febbraio 2015 Coordinamento • Scienze matematiche, fisiche e naturali: Vincenzo Brandolini, Claudio Cassardo, Alessandra Celletti, Alberto Facchini, Savino Longo, Paola Magnaghi Delfino, Giuseppe Morello, Annamaria Muoio, Andrea Natali, Marcello Pelillo, Marco Rigoli, Carmela Saturnino, Roberto Scandone, Franco Taggi, Benedetto Tirozzi, Pietro Ursino • Scienze biologiche e della salute: Riccardo N. Barbagallo, Cesario Bellantuono, Antonio Brunetti, Davide Festi, Maurizio Giuliani, Caterina La Porta, Alessandra Mazzeo, Antonio Miceli, Letizia Polito, Marco Zaffanello, Nicola Zambrano • Scienze dell’ingegneria e dell’architettura: Orazio Carpenzano, Federico Cheli, Massimo Guarnieri, Giuliana Guazzaroni, Giovanna La Fianza, Angela Giovanna Leuzzi, Luciano Mescia, Maria Ines Pascariello, Vincenzo Sapienza, Maria Grazia Turco, Silvano Vergura • Scienze dell’uomo, filosofiche, storiche e letterarie: Enrico Acquaro, Angelo Ariemma, Carlo Beltrame, Marta Bertolaso, Sergio Bonetti, Emanuele Ferrari, Antonio Lucio Giannone, Domenico Ienna, Rosa Lombardi, Gianna Marrone, Stefania Giulia Mazzone, Antonella Nuzzaci, Claudio Palumbo, Francesco Perrotta, Francesco Randazzo, Luca Refrigeri, Franco Riva, Mariagrazia Russo, Domenico Russo, Alessandro Teatini, Patrizia Torricelli, Agnese Visconti • Scienze giuridiche, economiche e sociali: Giovanni Borriello, Marco Cilento, Luigi Colaianni, Agostina Latino, Elisa Pintus, Erica Varese, Alberto Virgilio, Maria Rosaria Viviano Scienze e Ricerche CF 97826650588 sede legale c/o Associazione Italiana del Libro Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma Direttore responsabile: Giancarlo Dosi Un numero in formato elettronico: 6,00 euro Un numero in formato cartaceo: 9,00 euro (arretrati: 11,00 euro) Abbonamenti in formato elettronico: • annuale (12 numeri): 37,00 euro • semestrale (6 numeri): 19,00 euro Abbonamenti in formato cartaceo (comprensivo del formato elettronico): • annuale (12 numeri): 72,00 euro • semestrale (6 numeri): 39,00 euro L’acquisto di estratti in formato cartaceo (min. 10 copie) va concordato con la segreteria Il versamento può essere effettuato: • utilizzando il servizio PayPal accessibile dai siti www.associazioneitalianadellibro.it www.scienze-ricerche.it • versamento sul conto corrente postale n. 1012061907 intestato all’Associazione Italiana del Libro, Via Giuseppe Rosso 1/a, 00136 Roma (specificare la causale) • bonifico sullo stesso conto dell’Associazione Italiana del Libro, IBAN: IT39I0760103200001012061907 4 2 La pubblicazione di articoli su Scienze e Ricerche è aperta a tutti. Quasi tutti i contributi, a meno che l’autore non ritenga di inibire tale possibilità, vengono pubblicati anche online sul sito www.scienzericerche.it, in modalità open access, cioè a libera lettura. La rivista ospita essenzialmente due tipologie di contributi: • interventi, analisi e articoli di divulgazione scientifica (solitamente in italiano). • ricerche e articoli scientifici (in italiano, in inglese o in altre lingue). Gli articoli scientifici seguono le regole della peer review. La direzione editoriale non è obbligata a motivare l’eventuale rifiuto opposto alla pubblicazione di articoli, ricerche, contributi o interventi. Non è previsto l’invio di copie omaggio agli autori. Scienze e Ricerche è anche una pubblicazione peer reviewed. Le ricerche e gli articoli scientifici inviati per la pubblicazione sono sottoposti a una procedura di revisione paritaria che prevede il giudizio in forma anonima di almeno due “blind referees”. I referees non conoscono l’identità dell’autore e l’autore non conosce l’identità dei colleghi chiamati a giudicare il suo contributo. Gli articoli scientifici inviati per la pubblicazione vengono resi anonimi, protetti e linkati in un’apposita sezione del sito. Ciascuno dei referees chiamati a valutarli potrà accedervi esclusivamente mediante password, fornendo alla direzione il suo parere e suggerendo eventuali modifiche o integrazioni. Il raccordo con gli autori sarà garantito dalla redazione. Il parere dei referees non è vincolante per la direzione editoriale, cui spetta da ultimo - in raccordo con il coordinamento e il comitato scientifico - ogni decisione in caso di divergenza di opinioni tra i vari referees. L’elenco dei referees impegnati nella valutazione degli articoli scientifici viene pubblicato con cadenza annuale. Chiunque può richiedere di far parte del collegio dei referees di Scienze e Ricerche allegando alla richiesta il proprio curriculum, comprensivo della data di nascita, e l’indicazione del settore scientificodisciplinare di propria particolare competenza. www.scienze-ricerche.it [email protected] SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA Perché il prezzo del petrolio preoccupa anche quando si riduce? LAURA CASTELLUCCI Dipartimento di Economia e Finanza, Università degli Studi di Roma Tor Vergata L a società del petrolio nella quale viviamo ha dato fino a pochi anni fa molte soddisfazioni: il PIL (prodotto interno lordo) pro capite globale è cresciuto costantemente dalla rivoluzione industriale, come attestano gli studi di Maddison e della World Bank; la popolazione è cresciuta a ritmi esponenziali passando dallo scarso miliardo del 1800 a un miliardo e mezzo nel ’900 fino ai 7 miliardi e 300 milioni attuali; e la povertà estrema, misurata dalla disponibilità di 1,25 dollari al giorno, è passata proprio negli ultimi anni (2008-2011) dal 19% al 14% (fonte Banca Mondiale). Tutto ciò è avvenuto principalmente per due motivi: uno tecnico e uno economico. Tecnicamente si è sostituita l’energia animale con quella prodotta dalla combustione dei fossili (= rivoluzione industriale) ed economicamente vi è stata disponibilità di (carbone e) petrolio a bassi prezzi e per molti anni. La distribuzione geografica del petrolio non coincide però con i paesi maggiormente utilizzatori (consumatori) della risorsa né con la popolazione ed anzi può, grosso modo, pensarsi ad un mondo diviso in paesi esportatoti che ne hanno in abbondanza e ne consumano assai poco e paesi importatori che non ne hanno (o quasi) ma ne fanno grande uso. In una situazione di mercato di questo genere nella quale, in aggiunta, erano “pochi” i paesi esportatori che controllavano una grande quota degli scambi, la costituzione di un “cartello” per manovrare il prezzo in favore dei paesi produttori, appariva ideale. Così nel 1959 a Baghdad nacque il cartello del petrolio, chiamato OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) e composto, allora, da 5 paesi (oggi diventati dodici): Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Iraq e Venezuela. Ovviamente affinché un cartello funzioni occorre che molte condizioni siano verificate ma occorre soprattutto che, nel caso si voglia aumentare il prezzo, ci si metta d’accordo sulla “riduzione” dell’offerta, il che comporta la rinuncia ad una certa quantità di produzione. L’economia infatti ha le sue leggi tra le quali quella “della domanda e dell’offerta” che dà luogo al prezzo di mercato del bene o servizio. Dato un certo livello di domanda, il prezzo può crescere solo se l’offerta 5 COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 si riduce oppure, per una data offerta, il prezzo cresce solo se la domanda aumenta. Ed ecco subito due precisazioni da fare; la prima che trovare l’accordo sulla riduzione dell’offerta non è tanto facile e la seconda che il prezzo del petrolio non è governato solo dalle leggi economiche della domanda e dell’offerta ed anzi in certi momenti l’economia sembra giocare un ruolo del tutto marginale. L’energia è di gran lunga la questione più importante per qualsiasi paese oggi esistente sulla Terra e dunque su di essa si riversano le scelte politiche/di potere dei vari paesi, i cui effetti immediati possono essere ben diversi da quelli di lungo periodo in termini di equilibri/squilibri di potere tra aree geografiche. Così mentre il primo shock petrolifero del 1973 conseguente all’azione efficace del cartello colse di sorpresa il mondo occidentale, ovvero i paesi importatori, produsse anche delle conseguenze di lungo periodo sugli assetti del mercato che ancora oggi rilevano. L’aumento del prezzo fu, ovviamente non istantaneamente, assorbito tramite miglioramenti nell’efficienza energetica (= minore quantità di energia per produrre una unità di PIL); si costituì la International Energy Agency con sede a Parigi e composta da 29 paesi allo scopo di coordinare le risposte ai disequilibri sui mercati dell’energia; la Francia potenziò i suoi progetti nucleari; negli USA furono emanate proprio nel ’74 leggi a favore della ricerca nel solare; in Italia, e sempre nel ’74, furono emanati i primi provvedimenti per il risparmio energetico e l’efficienza ai quali seguirono altri in risposta al secondo shock petrolifero, quello dell’82; e altro ancora, ma l’effetto principale dello shock fu quello di mettere a nudo la vulnerabilità dell’occidente di fronte all’approvvigionamento energetico: Figura 1 Inflation Adjusted Oil Price Chart 6 il tema principale del dibattito diventò da allora quello della “energy security” che, estremamente semplificando, porta a cercare fonti alternative nella convinzione che una composizione multi sources dell’offerta energetica abbia un più basso rischio rispetto ad una più concentrata. La riduzione del rischio fu però anche interpretata come minore dipendenza dall’estero e questo portò all’obiettivo, non dichiarato, di ridurre le importazioni. Si prese coscienza dunque che un modello energetico del tipo 80% da fonti fossili, per lo più concentrate in certe aree ad eccezione del carbone che è invece diffuso, e solo il 20% da tutte le altre fonti è un modello poco affidabile e soprattutto molto migliorabile. Comincia quindi a configurarsi come migliore un modello di produzione di energia “misto” ovvero composto da varie fonti proprio per la sicurezza energetica ma, a distanza di 40 anni, la composizione del modello non è molto cambiata. Ciò potrebbe sembrare strano se non si considerasse la forza delle lobby del petrolio e il non dichiarato, ma vero obiettivo, di ridurne le importazioni non il suo uso. La società del petrolio è tuttora florida. Capire il “prezzo” del petrolio (al quale quello del gas è collegato) è dunque molto importante ma è forse uno degli obiettivi più ambiziosi che si possano avere anche se evidenziarne dei tratti caratteristici è possibile e getta un po’ di luce sia sulle complesse relazioni tra gli stati che sulle contraddizioni tra le dichiarazioni e le scelte operate. La storia del prezzo del petrolio può essere riassunta nei seguenti due grafici: il primo racconta la storia dal secondo dopoguerra alle soglie del 2014, l’anno anomalo, mentre il secondo racconta in dettaglio, cioè mensilmente, l’andamen- SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA to del prezzo del petrolio nell’anno appena trascorso. Come si vede, per molti anni fino al primo shock petrolifero il prezzo è molto basso e stabile, poi sale, ha dei picchi, diventa più variabile/volatile fino all’imprevisto picco di quasi 140 $ all’inizio del 2008 e l’eccezionale caduta che seguì alla fine dello stesso anno intorno ai 40 $ (non entriamo nella questione dell’interpretazione di questo anno assolutamente anomalo, ma certo la maggiore volatilità è coincisa con l’espansione degli interventi speculativi/finanziari sul mercato del petrolio come delle altre commodities). A parte il problema, non banale, per gli investimenti nel settore, della volatilità, in generale il prezzo mostrava un’inclinazione a crescere e gli operatori si aspettavano che tale fosse l’andamento per almeno due motivi economici: 1. il picco di Hubbert faceva prevedere l’aumento dei costi e dunque del prezzo; 2. Il cambiamento climatico faceva prevedere che i paesi si sarebbero accordati per dare un prezzo alla CO2 che ugualmente avrebbe generato un aumento dei costi. Ma da giugno del 2014 il prezzo, si veda il secondo grafico, è in discesa. Le spiegazioni economiche ci dicono che il protrarsi della crisi economica ha ridotto la domanda di energia (almeno rispetto alle attese) mentre l’offerta di petrolio è più abbondante del previsto perché la Libia, l’Iran e l’Iraq riestraggono petrolio prima di quanto previsto. Il cartello del petrolio, uno dei più longevi al mondo, è però ancora attivo e potrebbe intervenire a far aumentare il prezzo tramite riduzioni dell’offerta. E’ stato fatto altre volte e in generale è stata l’Arabia a giocare il ruolo del paese in grado di assorbire senza danno una riduzione nella propria produzione di petrolio. Ma a forza di parlare di “energy security” l’Opec e nello specifico l’Arabia, si è convinta che prima o poi i paesi avrebbero via via ridotto le loro importazioni. Quando la produzione di shale gas degli Stati Uniti, e di tar sands in Canada, e di rinnovabili in Europa e in altre zone, si sono fatti consistenti, soprattutto gli shale gas americani, l’Arabia ha capito che qualora avesse ridotto la sua produzione per far risalire il prezzo, avrebbe solo perso quote di mercato in favore degli shale gas. Questi sono di gran lunga più costosi/inefficienti del petrolio e di gran lunga più inquinanti ovvero pericolosi per il clima. E Figura 2 qui di nuovo l’economia si mischia alle decisioni politiche; il costo di estrazione del petrolio dell’Arabia è sui 3 $ al barile mentre affinché un investimento in shale gas sia profittevole occorrerebbe che il prezzo non scendesse sotto i 100 $ visto che i costi si aggirano sugli 80 $. Anche un prezzo di 50 $ può andare bene a chi ha un costo di 3 $ ma certo non può andare per gli shale gas e le tar sands (e forse purtroppo neanche per le rinnovabili se non hanno qualche lieve supporto pubblico). Può dunque ritenersi che almeno una componente nella decisione di non ridurre l’offerta sia quella di mettere fuori mercato queste fonti alternative. Letto in questo modo si potrebbe essere contenti per il clima se, genuinamente, si è convinti come siamo, che stiamo davvero scherzando con il “fuoco”. Altro che prezzo della CO2 o rinnovabili pulite, anch’esse più costose del petrolio arabo, ma dritti filati sulla Energy security che, nel caso USA, coincide con drastiche riduzioni nelle importazioni. Se l’interpretazione è sensata è molto difficile prevedere quanto durerà questa decisione di non ridurre l’offerta, ma è già durata abbastanza per aver provocato una riduzione presente e in prospettiva degli investimenti in queste fonti non-convenzionali e seri rischi di default per alcuni paesi. Quando infatti il prezzo scende costantemente e di molto, com’è avvenuto in questi sei mesi, i paesi esportatori ci perdono mentre gli importatori ci guadagnano. L’area Europea e il Giappone dovrebbero essere i maggiori beneficiari mentre la Russia, l’Iran e il Venezuela sono tra quelli che perdono. Ciascuno di questi paesi ha steso il proprio bilancio su un’ipotesi del prezzo del petrolio di almeno 100 $ al barile (esempio Russia) se non di 140 (Iran) e dunque rischia la bancarotta cosa che da un punto di vista degli equilibri politici non è poi una bella notizia, né per l’Europa né per gli USA o comunque è una notizia che preoccupa perché non si conoscono gli esiti finali. La domanda e l’offerta hanno “un” ruolo ma non sono tutto. Il perseguimento della rendita, soprattutto nel breve periodo, non spiega la politica e le decisioni del cartello: dopo tanti anni di accordi e documenti verso la transizione ad un modello di crescita “diverso” è forse giunto il momento della sostituzione delle fonti di energia e il cartello, ma soprattutto l’Arabia, non sembra disposta a farsi spiazzare da fonti più “inefficienti” , e noi aggiungiamo, più “inquinanti”. Il nuovo modello non sarebbe certo a minore intensità di carbonio. In effetti emerge che, del gran parlare di cambiamento climatico e di necessità di intervenire per non superare la soglia dell’aumento di 2 gradi della temperatura, non si ha il minimo riscontro nei fatti. Il vero obiettivo degli USA sembra l’energy security intesa come drastica riduzione delle importazioni piuttosto che energy mix mentre l’Europa, con lo scarso slancio a rafforzare l’unione, non sa buttarsi con decisione sulle rinnovabili pulite. Basterebbe spingere sul prezzo della CO2 per dar loro un impulso decisivo, tanto più che i problemi di intermittenza si stanno riducendo con gli sviluppi nella tecnologia per lo “storage” e la curva dei costi punta dritto alla discesa. Dopo tutto si sa che l’unica forma di energia sostenibile è il “sole”. 7 COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 I paradossi dell’ambiente: perché non si può non essere “Smart” GIOVANNI PERILLO Dipartimento per le Tecnologie, Università degli Studi di Napoli Parthenope O ttimizzare la produzione di energia attraverso un’efficiente riduzione dei “rifiuti”: con l’information management è possibile contribuire in modo più concreto all’affermazione di un sistema energetico vantaggioso, pulito e sostenibile. Partiamo da un apparente paradosso: ogni anno vengono prodotte nel mondo 20 miliardi di paia di scarpe; di queste 400 milioni non saranno mai utilizzate!!! Questa contraddizione ci aiuta ad analizzare le modalità dell’energia consumata nel mondo; essa può essere suddivisa in tre parti, di cui un terzo consumata dalla produzione industriale (dal trasporto della materia prima al prodotti finale). La produzione industriale stessa, basata sul paradigma della produzione di massa, è efficiente per portare i beni di consumo al cliente, ma è altamente inefficiente dal punto di vista energetico. Per analizzare la sostenibilità della produzione di massa, torniamo all’esempio delle scarpe: quante paia rimangono invendute ogni anno? Nel settore delle calzature si stima una percentuale di invenduto pari al 20 per cento. Pertanto, su 100 scarpe prodotte, 80 saranno vendute. Chi si preoccupa del 20 per cento delle scarpe invendute? Ciò significa che le fabbriche hanno consumato il 20 per cento di energia e materiali per prodotti che nessuno vuole e vorrà mai. Ne deriva che la produzione di massa può definitivamente non essere considerata sostenibile. Ma quanto “pesa” questa insostenibilità? Dovremmo prendere in considerazione l’energia consumata per il 20 per cento di scarpe invendute, tenendo presente che circa l’80 per cento della produzione mondiale annuale, pari a 20 miliardi di paia, è detenuta dalla Cina. Un semplice calcolo basato sulla produzione dei materiali e sulla manifattura di un paio di scarpe di pelle ci porta a valutare un’energia pari a 54 milioni di megawatt/ora. Una centrale di produzione di energia da 1.000 megawatt (a carbone, o petrolio, o atomica), lavorando 24 ore al gior8 no, in un anno genera quasi 9 milioni di megawatt ora. Ciò significa che sono necessari 6 grandi impianti di energia per la produzione di prodotti che nessuno comprerà mai. Questo, dunque, è il paradosso: tutti noi badiamo alla fine della vita utile dei nostri prodotti, ma non ci curiamo dell’inizio del loro ciclo di vita, producendo cose che nessuno com- SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA prerà mai. Una proposizione che può apparire contraddittoria con l’esperienza comune o con i principi elementari della logica, ma che all’esame critico risulta estremamente valida. Rapportiamo questo ragionamento ai servizi multipli non connessi delle nostre città: utilities (acqua, luce, gas), rifiuti, traffico, parcheggi, ordine pubblico e security, trasporti pubblici e ambiente, che potrebbero essere gestiti in termini di efficienza, management, energy generation, evitando inquinamento, congestione e perdite di ore di lavoro a favore della sicurezza, della pulizia urbana e della salute pubblica. Al 2040 si stima che il 65 per cento della popolazione mondiale vivrà nelle grosse aree urbane, con oltre 1,3 milioni di persone che ogni settimana migrano in città. Di contro, solo per affrontare i temi connessi al traffico e alla congestione dei centri cittadini, in tutto il mondo è inferiore all’1 per cento la percentuale di semafori controllati, con una percentuale di traffico maggiore del 50 per cento dovuta alla ricerca di parcheggio, con un tempo medio per parcheggiare di 15-20 minuti. Risultato: in Europa il costo annuale della congestione da traffico e pari all’1 per cento del PIL. Passiamo ad un altro paradosso: noi viviamo in città moderne e sempre più grandi, ma queste presentano ancora un insieme di servizi “sconnessi”. Anche qui ci troviamo di fronte ad un’apparente contraddizione con la nostra esperienza comune. Pur tuttavia parliamo di vivibilità in termini di qualità della vita, urbanizzazione sostenibile, incremento della sicurezza. Parliamo, inoltre, di sostenibilità puntando a piattaforme unificate per supportare investimenti condivisi per incrementare i benefici e di soluzioni “open” standard a protezione di investimenti e programmazione. Questa visione di come dovrebbero essere le città ha un risvolto sul piano economico, con un maggior dinamismo di open data e soluzioni “aperte”, al fine di incrementare opportunità per cittadini e comunità. Le città che condividono informazioni, nei settori della vivibilità, sostenibilità ed economia, possono incrementare la loro efficienza del 30 per cento in servizi pubblici afferenti all’illuminazione, la salute, i rifiuti, traffico, parcheggi e trasporti, tutela dell’ambiente, risorse energetiche e smart grid (elettricità, acqua, gas). Lo scenario della smart city sarà basato, dunque, sempre più su interconnessioni di reti e servizi basate su comunicazioni bidirezionali, interfaccia con ogni tipo di sensore, bassi consumi energetici, acquisizione di informazioni da dati condivisi, flessibilità, modularità, interoperabilità, open standard e “internet delle cose”. 9 COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Comunicare nell’era della televisione. La cultura delle immagini trasmesse PATRIZIA TORRICELLI Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Messina L a percezione umana si avvale, com’è noto, dei sensi che trasmettono al cervello i propri impulsi selettivi. Recepiti da zone neurologiche apposite (Duffau 2010), deputate alla loro scomposizione/ricomposizione, gli impulsi ricevuti stimolano l’attività della corteccia cerebrale che ne filtra i dati secondo i propri parametri cognitivi, trasformandoli in idee da cui dipendono le risposte comportamentali di ogni individuo. Su questo equilibrio di mente e sensi – e di input vicendevoli nel rapporto con il mondo – si regola la vita umana e le diverse forme di pensiero si consolidano fino a diventare il fenomeno collettivo noto come cultura, che detta gli standard di ragionamento in una società storica e ne condiziona i conseguenti comportamenti. Nel quadro appena accennato – con un eccesso, forse, di semplificazione, giustificato solo dal genere di discorso in cui è inserito – si collocano tutti i fenomeni della comunicazione (Jakobson 1966). Appartengono a tale modello operativo, in particolare, le abilità linguistiche, tradizionalmente divise in abilità ricettive – ascoltare e leggere – e abilità produttive – parlare e scrivere - che coinvolgono i sensi dell’udito e della vista accanto all’attività motoria dell’oralità e della scrittura (Ciliberti 2012). Delle quattro abilità, due sono dette primarie – ascoltare e parlare – e due secondarie – leggere e scrivere – perché apprese dopo che si sono acquisite per vie naturali le prime. Il libro è il prodotto principale su cui entrambe le seconde si esercitano. Dalle parole scritte, scansionate visivamente in una tacita sequenza combinatoria di foni che l’assenza di voce non rende meno percettibili mentalmente a chiunque possieda la padronanza della lingua, il lettore ricava gli input semiotici necessari ad attivare la sua capacità immaginativa mentale. La stessa capacità che fa ricavare da un significante senza alcun rapporto di causa/effetto con la realtà cui si riferisce (nero non ha con il suo colore, una somiglianza maggiore di quanta ne potrebbe avere bianco, se fosse stato scelto al suo posto per designare il nero) un significato che di tale 10 realtà è l’immagine mentale perfettamente corrispondente, a giudizio del parlante. Un’immagine, appunto - come Saussure (1921) definisce il significato quando diventa il quid mentale che forma le idee - suscitata nella mente del lettore dallo stimolo linguistico ricevuto che va a selezionare, nella personale, soggettiva esperienza del mondo vissuta da ognuno di noi, le immagini più prossime a quelle che lo scrittore ha concepito scrivendo. Perciò la lettura è un confronto d’intelligenze che si instaura fra lo scrittore – e le parole da questi scritte – e il lettore – e le parole lette – avendo il libro come suo luogo di svolgimento per tutta la durata dell’esercizio intellettuale cui dà adito. Il piacere del libro risiede appunto in tale esperienza di scoperta di se stessi in un altro, passando attraverso i rispettivi mondi interiori, fino a farli combaciare perfettamente, in una fusione virtuale dislocata nel testo, ma non meno intensa di qualsiasi altra intesa affettiva profonda e altrettanto coinvolgente. La società moderna ha affiancato ai tradizionali libri altri mezzi di comunicazione che utilizzano le stesse risorse sensoriali seguendo canali simili, ma di più facile accesso, e destinati perciò a raggiungere un numero maggiore di utenti. La radio, dagli anni ’20 in poi, ha avuto un ruolo analogo aggirando l’ostacolo della lettura e della preliminare formazione scolastica. L’ascolto dei programmi radiofonici ha ripristinato il canale comunicativo virtuale del libro, eliminando semplicemente la decodifica d’una fonte visiva per passare direttamente alla decodifica d’una fonte sonora. L’input linguistico è acustico e esterno al soggetto, ma la stimolazione immaginativa è dello stesso genere. Naturalmente è più rapida, perché i tempi dell’ascolto non sono, evidentemente, gli stessi della lettura, e l’attenzione prestata al sonoro trasmesso è maggiore di quella prestata alla sua risoluzione immaginativa mentale. La decodifica è più incerta perché non ammette repliche del messaggio. Il successo della radio, soprattutto negli anni ’40-50, dimostra l’efficacia di questo tipo di procedimento comunicativo in grado di raggiungere un gran numero di persone in qualsi- SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | COPERTINA asi area del paese. L’accesso ai programmi trasmessi avviene a distanza ed è incanalato nel solo senso dell’udito. Ma è sempre sottoposto al filtro critico dell’intelligenza linguistica dell’ascoltatore, che sola ne permette infine la fruizione immaginativa. Lo stimolo ricevuto è guidato dall’emittente, ma resta personale nell’elaborazione mentale che ogni destinatario ne fa. L’avvento della televisione, alla fine degli anni ’50 (Freccero 2013), segna un mutamento di strategia comunicativa che incide sull’atteggiamento degli utenti, introducendo un nuovo costume sociale con inevitabili ricadute d’ordine culturale. Il canale dell’udito è impegnato simultaneamente a quello della vista; ma l’attenzione maggiore è riservata a questa seconda dimensione sensoriale, che è la novità della televisione e la sua vera risorsa rispetto agli altri mezzi di comunicazione. Vedere acquista più importanza comunicativa che non ascoltare e la vista, che permette di accedere subito all’apparenza superficiale del mondo esperito, finisce per essere l’organo più partecipe durante le trasmissioni, fino a fare dell’audio il proprio commento sonoro, ausiliario. Gli spazi pubblicitari mostrano il prodotto pubblicizzato prima di parlare di ciò che mostrano. Apparire in televisione dà notorietà politica, tanto da suscitare polemiche sulla pari frequenza di comparizioni durante le campagne elettorali. La spettacolarizzazione della vita comune è uno dei programmi preferiti dai palinsesti televisivi e fra i più seguiti dal pubblico, soprattutto giovanile, educato al genere di approccio comunicativo che fa dell’apparire - e del subirne gli spunti mimetici - un procedimento divulgativo della conoscenza e dei comportamenti sociali accettati assolutamente plausibile. Tutti i programmi condotti in studio prestano grande attenzione all’aspetto iconico del proprio formato, che aggiunge un sottinteso allusivo accattivante al messaggio anche quando il genere di trasmissione non sembra pretenderlo. Le vallette di un tempo, le conduttrici di programmi sportivi o d’intrattenimento di oggi, come altre trasmissioni di successo, fatte di palese esibizione visiva, ne sono un esempio. Il mutamento di costume introdotto comporta un’attitudine intellettuale che inclina verso il maggior conformismo immaginativo, seppure di tipo impressionistico. Nella prassi televisiva, infatti, le parole non sono la prima fonte della comunicazione, ma fanno da sussidio a immagini predisposte dall’emittente e propagate come se fossero l’esatta risoluzione immaginativa da dare ai significati delle parole cui si accompagnano, occupando direttamente lo spazio mentale da esse riservato all’immaginazione linguistica. Lo spettatore – a differenza del lettore e dell’ascoltatore – è esentato, pur senza esserne direttamente informato, dal compiere sforzi immaginativi per concepire mentalmente la propria, ideale visione delle cose di cui i programmi parlano, perché tale visione gli viene già fornita dalla trasmissione cui assiste, mediante input sostitutivi immediati. La frequenza di tali input, che non ammette pause di riflessione, costringe, peraltro, all’apertura inavvertita di tutti i canali disponibili, determinando un minor controllo sulla ricezione. Sia quando scorrono sullo schermo che quando fanno da sfondo a un servizio in studio, le immagini trasmesse diventano la realtà percepita e la realtà diventa le immagini trasmesse. Il ruolo riservato allo spettatore consiste nel far transitare tali immagini dallo schermo alla propria mente, e organizzare le idee sul loro tracciato, che dice già come vedere il mondo di cui si sta parlando. Cosicché il discorso televisivo esercita una sorta di persuasione differita che, senza coinvolgere preliminarmente la sfera del giudizio razionale, pacato e selettivo, procede per accumulo reiterato d’impressioni ricevute in sequenze veloci 11 COPERTINA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 e poco controllabili. La loro somma costituisce quella che si chiama la percezione collettiva di un evento e rappresenta un fenomeno socio-culturale cui si presta oggi grande attenzione, perché è in grado di orientare tendenze e comportamenti sociali da cui dipendono le scelte politiche intorno ai temi comuni. Poiché i pensieri si concepiscono sulla scorta delle idee – che sono, come insegna appunto la semiotica, le immagini delle cose depositate nella mente attraverso l’esperienza personale del mondo, sia direttamente che mediante un processo educativo – il genere di immagini su cui la mente si concentra nell’elaborazione d’un pensiero non è un dettaglio dappoco. Soprattutto in termini di autenticità rispetto alle cose di cui tali idee sono la proiezione immaginativa mentale. Per la loro natura astratta, infatti, tutte le idee esistono, com’è ovvio, solo nella mente di chi le concepisce. Esse sono semplicemente un riflesso - nello specchio dei circuiti neurologici del cervello (Rizzolatti, Sinigaglia 2006) - di come il mondo visto dagli occhi e percepito dagli altri sensi può apparire all’intelligenza e diventare la vita da vivere così come viene vissuta ogni giorno, nel corso dell’esistenza umana e della storia d’ogni società. Il potere delle idee, che nel nome stesso – idea viene dal greco antico idein che significa “vedere” (Beekes 2010) portano l’impronta etimologica del loro antico essere figlie di una visione, è nel potere delle immagini del mondo che fanno da loro corollario concettuale, sedimentate in quel patrimonio di pensiero, conoscitivo ed emozionale, di cui nessuna società può privarsi senza disgregarsi e perire, che si chiama cultura e che si esprime nella cosiddetta mentalità. Una sorta di schema inconscio – quest’ultima – che fa da filo conduttore sia alle scelte esistenziali che alle azioni sociali, modellando entrambe sul genere di visione del mondo che la cultura da cui dipende, nella sua continua evoluzione storica, le fornisce. Affidate alle parole – lette nelle pagine dei libri o ascoltate dalla voce altrui – più lente e riflessive per le maggiori pretese di luogo e tempo del canale che le veicola, o alla mul- 12 timedialità d’uno schermo televisivo che le propaga senza troppi intermezzi percettivi né pause meditative, le immagini elaborate dalla mente umana, e consegnate alla fruizione sociale dalla prassi semiotica, sono il perno della comunicazione e del pensiero, individuale e collettivo. Esse esercitano un potere intellettuale forte, che è quello di far vedere le cose come una cultura storica pensa che queste siano quando ne fa esperienza, giudicandole secondo il proprio schema di ragionamento. Il dominio delle immagini mentali, comunque conseguito, rappresenta dunque il dominio del modo di pensare il mondo e, sulla sua scorta, di regolare i comportamenti e le azioni umane che ne sono la conseguenza vitale quotidiana. Una circostanza non di poco conto, che conferisce a chiunque intraprenda un percorso comunicativo, e si appresti a utilizzare le risorse del canale che ha scelto per trasmettere il proprio messaggio, un onere non indifferente – qualunque sia il piano su cui lo si voglia considerare - della cui responsabilità occorre essere almeno consapevoli. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Beekes R. (2010),Etymological Dictionary of Greek, Leiden-Boston:Brill. Ciliberti A. (2012) Glottodidattica. Per una cultura dell’insegnamento linguistico. Roma: Carocci. Duffau H. (2011) Brain Mapping. ed. Hughes Duffau, Wien: Springer-Verlag. Freccero C. (2013) Televisione. Torino: Bollati Boringhieri. Monteleone F. (2003) Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica. Nuova edizione aggiornata. Venezia: Marsilio. Jakobson R. (1966) Linguistica e poetica. Saggi di linguistica generale, trad.it. L.Heilmann, L. Grassi. Milano: Feltrinelli. Rizzolatti G., Sinigaglia C. (2006) So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Raffaello Cortina. CONTRIBUTI&INTERVENTI N. 4 - FEBBRAIO 2015 SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | CHIMICA Una pagina di storia della scienza e di espistemologia: Robert Boyle, il chimico scettico VINCENZO VILLANI Dipartimento di Scienze, Università degli Studi della Basilicata T he Sceptical Chymist (1661) è l’opera fondamentale di Robert Boyle (1627-1691), natural phylosopher irlandese che contribuì ad elevare la chimica da arte pratica a scienza, accettando i risultati sperimentali del tempo ma, rifiutando le teorie metafisiche sovrapposte. Nel ‘600 la struttura della materia era oggetto di profonde controversie. Prevaleva una visione d’ispirazione aristotelica che considerava la ‘materia formata’ che osserviamo intorno a noi, composta da quattro ‘elementi primitivi’: terra, aria, fuoco e acqua. Questi elementi sarebbero alla base dei ‘corpi misti’ risolvibili, in linea di principio, nei primi. Gli elementi fondamentali erano portatori di qualità (ovvero delle proprietà che hanno i corpi di originare sensazioni, di modificare gli altri corpi e di essere a loro volta modificati) che trasmettono ai composti: umido, secco, freddo e caldo. Un corpo risultava pesante o leggero in base alla proporzione di terra e aria che conteneva e così via… Sottostante la materia formata, veniva postulata la ‘materia prima’ informe e continua: i quattro elementi ne erano costituiti e pertanto, in linea di principio, trasformabili l’uno nell’altro. Sulla natura delle qualità, la visione aristotelica si biforcava nella teoria degli elementi, secondo la quale le proprietà dei composti derivano in modo diretto dalle qualità degli elementi primitivi, e nella teoria della forma, secondo la quale i composti conservano degli elementi solo la materia prima mentre, le proprietà o ‘forma sostanziale’ sarebbero un risultato peculiare, specifico per ogni tipo di corpo. Commentava Boyle: Usando le forme sostanziali, gli aristotelici hanno fatto credere non necessario e senza speranze impiegare l’operosità umana nella ricerca delle particolari qualità e dei loro effetti, essi rendono facile risolvere tutti i problemi della natura in generale ma, fanno ritenere impossibile la risoluzione di quasi tutti in particolare (The origin of forms and quality, 1666). Al contrario, la teoria degli elementi stimolava la ricerca degli elementi costituenti per risalire alle proprietà dei corpi composti. In termini moderni, i due approcci potrebbero essere detti, ‘lineare’ ove la proprietà osservata è la risultante semplice e prevedibile delle proprietà componenti: l’effetto è la somma delle cause, in simboli, A + B → AB. ‘Non-lineare’, l’effetto è la risultante complessa ed imprevedibile di cause concorrenti dipendente dalle ‘condizioni al contorno ’, A + B → [AB] → C dà luogo ad un risultato nuovo stabile attraverso uno ‘stato di transizione’ instabile. Tuttavia, la mole dei fatti sperimentali accumulata dai primi chimici resero obsoleta la teoria aristotelica dei quattro elementi: erano necessari elementi più attivi…più ‘chimici’! Quindi, nel periodo rinascimentale, si diffuse la teoria dei ‘tria prima’ (dei tre elementi primi) inaugurata dal medicochimico svizzero Paracelso (1493-1541) che fornì alla nascente chimica un nuovo strumento interpretativo. Nella teoria dei tre elementi, le qualità di un corpo erano spiegate con la composizione degli elementi primi: sale, mercurio e zolfo. Il sale rendeva conto della solidità, solubilità, cristallinità,…; il mercurio, della malleabilità, fusibilità, non-infiammabilità,…; lo zolfo, dell’infiammabilità, dell’insolubilità, dell’untuosità,… 15 CHIMICA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Boyle, contrappose alla teoria degli aristotelici quella dei chimici che definiva ‘teoria materialista’. I chimici sostenevano la loro teoria con argomenti sperimentali: dalla distillazione di materiali organici ed inorganici essi ottenevano sostanze che definivano sale, zolfo o mercurio sulla base rispettivamente della loro solidità, oleosità o volatilità. Ovviamente, gli elementi primi erano pensati di una purezza ideale non ottenibile alla fornace. Per i chimici l’esperimento, ovvero la manipolazione in laboratorio delle sostanze, diviene la chiave di volta per decriptare la Natura; al contrario, per gli aristotelici logica e semplice osservazione erano condizioni necessarie e sufficienti. Dal punto di vista epistemologico, i chimici adottavano il metodo induttivo promosso dal ‘Lord Cancelliere’ Francis Bacon (1561-1626), padre del metodo scientifico, privilegiando i fatti sperimentali sull’elaborazione di ipotesi interpretative: ‘hypoteses non fingo’, dirà Isaac Newton (16421727). Al contrario, gli aristotelici, restavano fedeli al metodo deduttivo, elaborando teorie generali (piuttosto fantasiose) a partire da pochi principi primi (accettati acriticamente). Va sottolineato il ruolo, spesso sottovalutato, della sperimentazione chimica nell’affermazione del metodo scientifico, iniziato con la sintesi galileiana di ‘sensate esperienze e certe dimostrazioni’ (Lettere copernicane, 1613) che possiamo leggere come sintesi dei metodi induttivo e deduttivo: in pratica, i fatti da spiegare deduttivamente non sono più le semplici osservazioni della natura ma i fatti sperimentali osservati in condizioni controllate e riproducibili. Gli aristotelici distinguevano i corpi in ‘naturali’ e ‘artificiali’: la chimica occupandosi di quest’ultimi era assimilata ad ‘arte pratica’, utile alla medicina e alla metallurgia ma, non alla filosofia. Boyle superò questa distinzione e promosse la nascente chimica a ramo importante della Natural Philosophy, sostenendo l’importanza degli esperimenti e rifiutando il ricorso a enti immateriali come le forme per spiegare le qualità. Nell’introduzione allo Sceptical Chymist, Boyle critica la teoria dei tre principi primi, movendo ‘obiezioni a diverse delle quali molto probabilmente non hanno mai pensato, perché difficilmente un chimico le proporrebbe e solo un chimico potrebbe farlo’. Ed egli è chimico, nel senso che padroneggia gli stessi esperimenti, le stesse pratiche, rifiutando tuttavia, l’ermetismo: ‘oscuro e quasi enigmatico modo di esprimere ciò che pretendono d’insegnare’. Egli ritiene importanti le conoscenze sperimentali accumulate ma, rifiuta la teoria sovrapposta. I primi quattro capitoli dello Sceptical Chymist sono dedicati alle quattro principali obiezioni mosse: 1. ‘Esistono motivi sufficienti per chiedersi fino a che punto, e in che senso, si possa ragionevolmente considerare il fuoco lo strumento unico e universale per l’analisi dei corpi misti’. Egli osserva, si ottengono risultati diversi a seconda dell’intensità del fuoco e della procedura; esistono sostan16 ze che il fuoco non scompone in alcun principio primo, ad esempio l’oro; alcune sostanze indecomponibili col fuoco possono essere decomposte in altro modo; le sostanze decomposte dal fuoco sono ancora sostanze composte; esistono modi di scomposizione più potenti del fuoco, come certi solventi. 2. ‘Non è così certo, come tanto i chimici che gli aristotelici sono soliti pensare, che una sostanza apparentemente omogenea, o distinta, che venga separata da un corpo con l’aiuto del fuoco, fosse preesistente in quel corpo come suo principio o elemento’. Infatti, egli commenta, i principi chimici potrebbero essersi prodotti ex novo; l’azione del fuoco produce sostanze nuove, come il vetro dal piombo e dalla cenere, che non sono elementi. Oggi parliamo di reazioni chimiche. 3. ‘Non sembra che il numero vero ed esatto delle sostanze distinte, o elementi, in cui i corpi sono scomposti dal fuoco sia proprio tre’. 4. ‘Pur sembrando corpi omogenei, le sostanze distinte non hanno né la purezza né la semplicità che devono avere gli elementi’. Infatti, i chimici chiamano sale, zolfo o mercurio sostanze tra loro profondamente diverse. Boyle approda all’atomismo riflettendo sulla natura delle qualità dei corpi. Ad esempio, l’ipotesi dei chimici, per cui il sale è portatore della solidità, ‘non ci insegna come l’acqua anche in vasi chiusi ermeticamente, raggeli, cioè si trasformi da un corpo fluido in uno solido, senza l’aggiunta di ingredienti salini’. Possiamo osservare trasformazioni qualitative senza che sia tolta o aggiunta materia ai corpi: come è possibile ciò? Per Boyle, la spiegazione più plausibile di questi fenomeni è che le qualità dipendono dallo stato di moto e dalla disposizione delle particelle costituenti la struttura interna della materia. Egli aderisce in modo originale alla teoria atomistica in quegli anni sviluppata dai francesi padre Gassendi (15921655) e Cartesio (1596-1650). Per Gassendi gli atomi sono indivisibili, compatti, in moto nel vuoto e conservano l’impeto che Dio ha loro comunicato. Danno origine alle qualità dei corpi composti in base alla loro forma, dimensione e composizione. Per Cartesio, la materia è essenzialmente estensione; immagina minuti vortici divisibili che riempiono lo spazio e le qualità vengono associate al moto della materia sottile (l’etere) che riempie lo spazio lasciato vuoto dalla materia ordinaria. A conservarsi non è il moto di ciascuna particella ma, quella totale. Gassendi e Cartesio avevano raggiunto un compromesso tra scienza e religione, eliminando dal meccanicismo ogni aperto contrasto con la fede. In Boyle, il meccanicismo diviene la filosofia della natura più adatta alla religione. Man mano che la scienza progredisce mediante spiegazioni meccaniche dei fenomeni naturali, diventerebbe palese il mirabile ordine dell’universo frutto dell’opera intelligente del suo creatore. Per Boyle l’uomo religioso deve studiare la scienza, poiché la Natura è opera di Dio al pari dei testi della SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | CHIMICA rivelazione. Lo stesso Galilei (1564-1642) aveva affermato: ‘Nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio’ Quindi, Boyle sviluppa la sua teoria corpuscolare su due livelli, nel primo leggiamo: 1. ‘Concordo con la generalità dei filosofi quanto ad ammettere una materia universale e generale comune a tutti i corpi, con la quale intendo una sostanza estesa, divisibile e impenetrabile’. 2. ‘Poiché la materia è una nella sua propria natura, le diversità osservate devono necessariamente provenire da altro’. 3. Questo quid è il moto infatti, senza movimento non è possibile il cambiamento ( come aveva sostenuto già il presocratico Eraclito (535-475 a.C.)): ‘il moto locale sembra essere la principale tra le seconde cause’, essendo la prima Dio (Logos o Legge universale). 4. La materia viene ‘divisa in parti per effetto del moto; queste parti sono necessariamente dotate di dimensione, forma e movimento o quiete’. E’ questo un punto importante che differenzia Boyle da Gassendi e Cartesio in modo profondo e oserei dire, moderno: i corpuscoli (e quindi le qualità della materia) sono originati dalle variazioni del moto della materia prima! In questa visione, abbiamo una materia unica, universale e continua, sede di oscillazioni che rappresentano le particelle stesse: il moto genera le particelle, non viceversa. Non abbiamo atomi preesistenti in moto o in quiete ma, materia continua in moto o in quiete da cui emergono gli atomi. Una visione del genere è per certi versi analoga all’odierna teoria delle stringhe, in cui le particelle fondamentali corrispondono a vibrazioni dello spazio-tempo. 5. ‘In ogni distinta porzione di materia formata da un certo numero di corpuscoli sorgono due nuovi accidenti o possibilità: la posizione e l’ordine che insieme costituiscono il tessuto di un corpo’. L’ordine indica la disposizione dei corpuscoli riferiti l’uno all’altro; la posizione invece, indica la disposizione di un corpuscolo rispetto a un punto di riferimento esterno. 6. Le qualità ‘non sono entità reali, distinte o diverse dalla materia stessa con la sua determinata grandezza, figura ed altre qualificazioni meccaniche’. Le qualità sono associate al comportamento dinamico delle particelle in un quadro che ricorda ante litteram la moderna termodinamica statistica a partire da James Clerk Maxwell (1831-1879) e Ludwig Boltzmann (1844-1906). Nel secondo livello, Boyle analizza le caratteristiche dei corpuscoli stessi: in tre passaggi è ipotizzata la struttura della materia. 1. Abbiamo i ‘minima’ o ‘prima naturalia’ che ‘sebbene siano divisibili, la natura non li divide quasi mai a causa del- la loro piccolezza e solidità’. Sono particelle estremamente stabili, particelle subatomiche ante litteram. 2. I ‘minima’ si uniscono in ‘cluster’ (grappoli, le molecole moderne) che sono divisibili ma ‘che molto raramente accade che siano effettivamente dissolti o rotti’. Entità dotate di forte stabilità, gli atomi moderni. Naturalmente, esse sfuggono ai nostri sensi. 3. I ‘cluster’ si uniscono per formare i corpuscoli di cui è costituita la materia, le molecole moderne. I ‘prima naturalia’ sono gli atomi di Leucippo (V secolo a.C) e Democrito (460-370 circa a.C.) non più assolutamente indivisibili. Le proprietà essenziali, size and shape, corrispondono a moles e figura degli antichi atomisti. La terza proprietà essenziale, il moto, viene rivisitata. Sia per gli antichi che per Gassendi, il moto è intrinseco all’atomo; al contrario Boyle sviluppa la concezione cartesiana del moto che anima l’etere all’origine di particelle e qualità e che si conserva come quantità globale. Questa, per grandi linee, l’ontologia Boyliana: in che senso la sua ipotesi fu un passo avanti rispetto alle visioni di aristotelici e chimici? E’ lo stesso Boyle a chiarirlo elencando i requisiti metodologici alla base di una buona ipotesi: 1) ‘che sia intelligibile’ 2) ‘che non contenga niente di impossibile o assurdo’ 3) ‘che sia coerente con se stessa’ 4) ‘che sia adatta e sufficiente a spiegare i fenomeni, in particolar modo i principali’ 5)‘che non contraddica nessun altro fenomeno naturale noto’. Intelligibilità, chiarezza e coerenza sono requisiti che le teorie aristotelica e dei primi chimici non possiedono: gli aristotelici spiegano le qualità con enti immateriali come le forme e i chimici: ‘Dirci, per esempio, che tutta la solidità deriva dal sale significa solo informarci in quale principio quella qualità risiede, non come si produce’. Il vero problema è mostrare ‘come’ le qualità si producono, non ‘chi’ le possiede. In questo modo l’ipotesi meccanicistica che associa le qualità al moto permette di fare a meno di principi a priori oscuri e spiegare i fenomeni con due soli principi semplici, moto e materia: hardware e software! Il programma di Boyle fu quello di fornire una base sperimentale alla sua visione filosofica: in questo senso va interpretata la sua vasta produzione sperimentale. ‘L’ipotesi meccanicistica deve essere confrontata coi dati sperimentali riguardanti particolari qualità e deve essere confermata o smentita da essi’. Sebbene quest’approccio filosofico è risultato perdente, il contributo duraturo di Boyle è stato proprio nell’aver contribuito all’affermazione del meccanicismo e della chimica mostrando la via dell’origine delle proprietà e la necessità di andare oltre i tre principi primi, alla ricerca degli elementi chimici. 17 DESIGN | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Bio-Inspired Design. La Biomimesi come promettente prospettiva di ricerca per un design sostenibile LUCIA PIETRONI Scuola di Architettura e Design dell’Università degli Studi di Camerino O ggi siamo ormai consapevoli che “l’impatto ambientale dei prodotti, dei servizi e delle infrastrutture che ci circondano si determina, fino all’ottanta per cento, in fase di progetto. Le scelte operate in questa fase modellano i processi che sono alla base dei prodotti che usiamo, dei materiali e dell’energia necessari a realizzarli, delle diverse modalità del loro utilizzo quotidiano e di ciò che accade loro nel momento in cui non ci servono più”, come sostiene John Thackara nel libro “In The Bubble”. Il design, quindi, può dare un contributo rilevante per orientare, con responsabilità, i processi di innovazione e sviluppo e gli stili di vita in una direzione più sostenibile. I designer possono fare molto, “possono contribuire a rallentare il degrado dell’ambiente più degli economisti, dei politici, delle imprese e anche degli ambientalisti”, come afferma Alastair Fuad-Luke, realizzando soluzioni progettuali innovative ma sostenibili, ovvero “capaci di futuro”, che sappiano coniugare, con equilibrio e visione, la dimensione ambientale, socioculturale ed economica della sostenibilità. Per sviluppare e promuovere una cultura del design e modelli di progettazione realmente sostenibili, che possano incidere efficacemente e moltiplicare i propri effetti positivi, è necessario il supporto continuo della ricerca, della sperimentazione, dello scambio e della condivisione interdisciplinare delle conoscenze. Nell’attuale fase di maturità della sfida ambientale, più che mai, c’è bisogno di valutare tutti gli sviluppi della scienza e della ricerca applicata più significa- tivi per il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale sempre più impegnativi da ottenere. In questa prospettiva, uno dei contributi della ricerca scientifica, che recentemente sembra emergere come particolarmente promettente all’interno del dibattito sulla sostenibilità ambientale e sul design sostenibile, è l’apporto della “Biomimesi” o “Biomimetica” (Bios, vita + Mimesis, imitazione), ovvero di quella “scienza che studia i sistemi biologici naturali emulandone forme, processi, meccanismi d’azione, strategie, per risolvere le sfide di ogni giorno, per trovare le soluzioni più sostenibili ai problemi progettuali e tecnologici dell’uomo, per replicarne disegni e processi in nuove soluzioni tecnologiche per l’industria e la ricerca”, come la definisce la biologa statunitense Janine Benyus. Si tratta di un ambito scientifico interdisciplinare relativamente recente (ha poco più di trent’anni di storia), ma che negli ultimi anni ha assunto un particolare rilievo. Già nel 1958 l’ingegnere aeronautico Jack Steele aveva coniato il termine “Bionica” (Biologia + Tecnica) per intendere una “scienza dei sistemi il cui funzionamento è basato su quello dei sistemi naturali”. Rispetto agli sviluppi della Bionica, molto proficui soprattutto negli anni ’70 e ’80, la “Biomimesi” o “Biomimetica” non si limita ad imitare le forme e le strutture efficienti degli organismi viventi, ma trae spunto e ispirazione dalle strategie, dai processi e dalle logiche di funzionamento e di organizzazione che sono alla base del successo evolutivo dei sistemi biologici. Il termine “Biomimesi” è stato utilizzato per la prima volta, nel Julien Bergignat, Helmet B, Casco per ciclisti in polipropilene ispirato dall’armadillo, 2010. 18 SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | DESIGN 1968, dal fisico Otto Schmitt, per definire “una disciplina che simula le strutture biologiche per realizzare prodotti più efficienti”. Nel 1974 “Biomimesi” compare nel dizionario di lingua inglese “Merriam-Webster” così definita: “lo studio della formazione, della struttura o della funzione di sostanze e materiali biologicamente prodotti e di meccanismi e processi biologici soprattutto per lo scopo di sintesi di prodotti simili, tramite meccanismi artificiali che simulano quelli naturali”. Negli anni ‘80 e ‘90 la Biomimesi inizia ad essere insegnata nelle Università e nei centri di ricerca di diversi paesi del mondo: in Inghilterra, dove il Prof. Julian Vincent fonda il “Centre of Biomimetics” dell’Università di Reading e dell’Università di Bath; in Germania, dove il Prof. Thomas Speck istituisce corsi di Biomimesi all’Università di Friburgo; negli USA, dove nascono numerosi centri di ricerca, formazione e consulenza, come il “CBID-Centre for Biologically Inspired Design” al Georgia Institute of Technology o il “Biomimicry Institute” fondato dalla biologa Janine Benyus nel Montana; più recentemente sono sorti centri di ricerca sulla Biomimesi anche in Cina. Pertanto, attraverso gli sviluppi delle ricerche sulla Biomimesi, si è tornati a discutere e riflettere sulla natura come fonte primaria d’spirazione per la risoluzione dei problemi tecnologici e progettuali dell’uomo; come “modello, misura e mentore” nello sviluppo di soluzioni progettuali innovative e realmente sostenibili; come straordinaria banca-dati di espedienti biologici e di innovazioni utili a designer, ingegneri, architetti, da trasferire nella progettazione e produzione dei propri artefatti; come laboratorio di idee per uno sviluppo innovativo e sostenibile. Come sostiene Janine Benyus, nel suo libro “Biomimicry: Innovation Inspired by Nature”, “la Biomimesi nasce proprio dalla consapevolezza che la Natura è una banca dati di innovazioni progettuali sostenibili, un archivio di brevetti disponibili immediatamente, un laboratorio di ricerca e sviluppo a nostra disposizione”. Da sempre l’uomo ha imitato e si è ispirato alla natura per trovare soluzioni efficaci ed efficienti, prima per la sua sopravvivenza sul pianeta, poi per l’accrescimento del comfort e della qualità del proprio habitat e della propria vita. Nell’ideazione e progettazione dei propri artefatti ha imitato continuamente strutture, forme, proporzioni geometriche, colori, ritmi, simmetrie, funzioni degli organismi biologici con differenti finalità. Ma allora quale è il motivo, oggi, di un rinnovato interesse per la natura? Quali nuovi fattori riaprono il dibattito della cultura del progetto sulla necessità di tornare ad apprendere gli insegnamenti di “madre natura come contributo per il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale”? Dall’attuale scenario scientifico-culturale emergono due principali fattori che consentono di considerare in modo nuovo l’approccio progettuale biomimetico o bio-ispirato. - Il primo fattore è il recente sviluppo di nuove conoscenze scientifiche e di nuovi strumenti tecnologici capaci di analizzare, descrivere, e persino riprodurre, aspetti, fenomeni, processi della natura finora inediti ed inesplorati: in particolare gli importanti contributi delle nanoscienze e delle nanotecnologie che consentono di comprendere la realtà e di produrre artefatti alla scala nanometrica. Infatti, le nanoscienze studiano i fenomeni e la manipolazione di materiali su scala atomica e molecolare, dove le proprietà differiscono notevolmente da quelle osservate su scale maggiori, e la creazione di materiali, sistemi e dispositivi attraverso il controllo della materia su scala nanometrica è ciò che correntemente si intende con il termine “nanotecnologie”. La dimensione nanometrica del materiale manipolato dischiude orizzonti applicativi impensabili in passato, perché le proprietà osservabili a tale dimensione si prestano ad essere utilizzate, anche su scala diversa, per sviluppare processi e prodotti caratterizzati da nuove prestazioni in un numero tenden- Mike Thompson, Latro, Lampada alimentata da alghe, 2010. Philips Design, Bio-light, Lampada alimentata da batteri bioluminescenti, 2011. 19 DESIGN | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 zialmente illimitato di settori. Pertanto oggi siamo in grado di prendere ispirazione dalla natura non solo per gli aspetti morfologico-strutturali, ma anche per i suoi modelli strategici, organizzativi e di processo, estremamente efficienti e sostenibili (ad es. auto-assemblaggio, auto-riparazione, resilienza, ecc.). - Il secondo fattore è l’attuale fase di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale caratterizzato da nuove consapevolezze: la necessità, da un lato, di un cambiamento radicale del modello di sviluppo e di una drastica riduzione del consumo di risorse ambientali delle società industriali mature e la constatazione, dall’altro, della lentezza e dell’inefficienza dei cambiamenti nella direzione della sostenibilità, nonostante le notevoli risorse finanziarie, tecnologiche e umane, messe in campo. Infatti, tra i teorici e gli studiosi della transizione verso la sostenibilità ambientale emerge con forza la consapevolezza che per risolvere gli attuali problemi economici, energetici e ambientali non è sufficiente lo sviluppo di efficienti tecnologie pulite e di processi e prodotti più sostenibili o di strategie ambientali di business, ma è necessario ed indispensabile un radicale cambiamento dell’attuale sistema di produzione e consumo, del modello di sviluppo economico e dei nostri stili di vita, perseguibile soprattutto attraverso innovazioni radicali e non incrementali. I tempi e i modi con cui si stanno percorrendo le strade verso la sostenibilità ambientale sono troppo lenti ed inefficienti. Si ha la consapevolezza che dovremmo ridurre i nostri consumi di risorse naturali di circa il 90% rispetto agli attuali, ma ogni anno stiamo consumando il 20% in più di risorse rispetto a quelle che la natura è in grado di rigenerare. Alla luce dei recenti sviluppi e delle enormi potenzialità delle nanoscienze e delle nanotecnologie e nell’attuale fase di maturità del dibattito sulla sostenibilità ambientale l’approccio biomimetico o bio-ispirato al design appare molto promettente e destinato in futuro ad offrire un contributo ancora più significativo e determinante. Oggi, infatti, attraverso gli sviluppi della Biomimesi, architetti, ingegneri, designer hanno a disposizione gli “esperimenti” che l’evoluzione naturale ha perfezionato in milioni Vibram, FiveFingers, Scarpetta da corsa con suola antiscivolo ispirata alla zampa del geco. 20 di anni, basandosi sul principio del “minimo investimento per il massimo rendimento”, ovvero gli organismi naturali non sprecano, non producono rifiuti e utilizzano sempre la quantità minima di energia possibile per le loro attività al fine di garantire maggiori prestazioni per la perpetuazione della specie. Il numero di espedienti biologici utili per il design sostenibile è potenzialmente illimitato ed è chiaro come i progettisti possano ricavare dalla natura sempre più proficui suggerimenti per la realizzazione dei propri artefatti, mantenendo al contempo un vantaggioso rapporto tra costi e benefici. Per sviluppare ed amplificare il contributo della Biomimesi al design, gli scienziati e i biologi dovrebbero continuare ad incrementare le banche dati di innovazioni bio-ispirate e renderle il più possibile accessibili a chi può trasferirle e applicarle in soluzioni progettuali e tecnologiche ai problemi dell’uomo, e i progettisti, invece, dovrebbero imparare ad interrogare la banca dati della natura con metodo e sistematicità, chiedendosi sempre in primo luogo: Come ha risolto questo problema la natura? Con quale espediente, con quale processo, con quale strategia? Per ottenere inoltre risultati veramente apprezzabili in termini di sostenibilità ambientale dalla progettazione bioispirata sarebbe auspicabile: formare gruppi interdisciplinari di progetto; guardare e interrogare la natura in modo nuovo e con nuovi strumenti scientifici e culturali; e, soprattutto, integrare efficacemente i principi e gli strumenti della Biomimesi con gli strumenti e le strategie più consolidate del Design per la sostenibilità. In tal modo, la Biomimesi potrà in futuro fornire alla cultura del design un contributo non solo promettente, ma realmente strategico per lo sviluppo di soluzioni progettuali sostenibili, innovative e capaci di futuro, o per dirla con Victor Papanek “ecologicamente responsabili e socialmente rispondenti, rivoluzionarie e radicali nel senso più vero dei termini”. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO - J. Benyus, Biomimicry: Innovation Inspired by Nature, Perennial, USA 2002 (prima edizione 1997) - A. Fuad-Luke, Eco-design. Progetti per un futuro sostenibile, Logos, Modena 2003 - C. A. Montana Hoyos, BIO-ID4S: Biomimicry in Industrial Design for Sustainability. An Integrated Teaching-and-Learning Method, VDM Verlag, Germany 2010 - V. Papanek, Progettare per il mondo reale, Mondadori, Milano 1973 - G. Pauli, Blu Economy: 10 anni, 100 innovazioni. 100 milioni di lavori, Edizione Ambiente, Milano 2010 - G. Salvia, V. Rognoli, M. Levi, Il Progetto della Natura. Gli strumenti della biomimesi per il design, Franco Angeli, Milano 2009 - J. Thackara, In the bubble. Design per un futuro sostenibile, Umberto Allemandi & C., Torino 2008 SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE La scienza dipinta dei Preraffaelliti VINCENZA ROSIELLO Centro Europeo di Studi Rossettiani Questo articolo illustra come i dipinti dei PreRaffaelliti abbiano inquadrato la Scienza e propone un modello per costruire nuovi ponti tra Scienza ed Umanesimo. INTRODUZIONE: COMUNICARE LA SCIENZA CON I L’ARTE stente modernità della PRB (Pre-Raphaelite Brotherhood), l’avanguardia culturale inglese fiorita nella seconda metà dell’Ottocento, è stata ampiamente analizzata sia in ambito letterario ed artistico, che in quello politico e religioso, mentre sono di solito trascurati i suoi legami con la Scienza. Probabilmente, gli interessi di quel gruppo eterogeneo di ar- numerosi manuali sulla comunicazione della scienza si limitano, di solito, ad analizzare il ruolo delle immagini nell’elaborare efficacemente ogni progetto dedicato all’educazione scientifica. Una lunga tradizione da Leonardo da Vinci, sino agli eccessi di Dan Brown, suggerisce che potrebbe risultare fecondo aggiungere una nuova strategia progettuale per la divulgazione, utilizzando la descrizione di quadri famosi per illustrare le tematiche scientifiche. Esempi di letteratura dipinta, di riletture di quadri alla luce dei soggetti letterari a cui si ispirano, riempiono intere antologie di “Visual poetry”, ed il “figuralism” è divenuto una vera e propria categoria accademica. In analogia, potrebbe risultare estremamente fecondo presentare anche i contenuti scientifici utilizzando la lente Dante Gabriel Rossetti, Monna Vanna, 1866 d’ingrandimento dell’arte. Inoltre, questo approccio potrebbe evitare che la Scienza continui ad essere percepita come una disciplina arida e sterile, destinata ad occuparsi di tisti e letterati che animarono la Confraternita dei PreRaffauna conoscenza assiomaticamente limitata che «ha ucciso il elliti sono stati sinora pregiudizialmente ritenuti lontani dalle Sole, rendendolo una palla di gas con delle macchie», come problematiche scientifiche. Un giudizio in parte giustificato da cultura e tendenze personali dei protagonisti, ma indubsosteneva D. H. Lawrence. Accostare contestualmente quadri ed argomenti scientifici biamente condizionato da impostazioni critiche fondate sulla rinnova il dialogo tra Arte e Scienza, e nel contempo forni- tradizionale contraddizione filosofica fra creatività artistica sce un metodo per individuare le segrete faglie di contatto e ricerca scientifica, ribadita da William Wordsworth nella in cui massima è l’attività tellurica ed eruttiva tra due cultu- famosa “Preface” delle “Lyrical Ballads”. re, che per troppo tempo hanno rinnegato sistematicamente Alcuni recenti studi1 hanno tuttavia rivelato gli inattesi leogni possibile interazione. Le zone in grado di generare le più feconde contaminazioni si nascondono spesso all’inter- 1 V. Rosiello, “I Rossetti e la Scienza”, contributo negli Atti del Convegno di esperienze culturali trascurate. Ad esempio, la persi- no internazionale di studi “I Rossetti e l’Italia”, a cura di G. Oliva e M. 21 SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 gami tra la scienza vittoriana e le attività dei PreRaffaelliti nella letteratura, la pittura, la scultura, il design, la moda e l’arredamento. L’ulteriore progetto di ricerca “The Pre-Raphaelites and Science”, coordinato da John Holmes (attuale Chair della British Society for Literature and Science) ha evidenziato i loro rapporti con le istituzioni scientifiche britanniche per impreziosire sedi illustri, come l’Oxford University Museum of Natural History ed il Natural History Museum, nel quartiere di South Kensington a Londra. Del resto, occorre notare che agli inizi dell’Ottocento in Inghilterra, il pensiero scientifico prevalente era ispirato alla teologia naturale. Lo stesso approccio scientifico presente nelle severe pagine dei “Principia” di Newton, le cui celebri regulae philosophandi (le regole del metodo scientifico) appaiono in evidente analogia con le norme dell’esegesi delle Sacre Scritture. La degenerazione dei rapporti tra pensiero umanistico e scientifico divenne una querelle ideologica solo in tarda epoca vittoriana, catalizzata dalle vivaci controversie tra coloro, come Matthew Arnold, che denunciavano la pervasività della scienza e la progressiva disattenzione verso i valori spirituali ed estetici da parte dei più accesi sostenitori, come Thomas Henry Huxley, del modello evoluzionistico di Darwin e delle teorie geologiche avverse alla tradizionale cronologia della Genesi. Tuttavia, al sorgere del movimento preraffaellita, era ancora prevalente un modo di ragionare indirizzato alla ricerca di crescenti conferme dell’intelligenza del disegno divino, per mezzo di sempre più accurate descrizioni dei più minuti dettagli del mondo visibile. Questo metodo di investigazione fornì agli artisti un principio per le loro aspirazioni di rappresentare gli aspetti trascendentali della realtà. In questa identificazione di obiettivi tra scienziati ed artisti, le ambizioni visionarie dei PreRaffaelliti si prefissero, programmaticamente in nome dell’Arte, di emulare le finalità progettuali della scienza e della tecnica dell’età vittoriana, in un comune tentativo di scoprire e comprendere l’essenza del mondo che ci circonda attraverso la rivelazione e la riproduzione dei suoi più minuti particolari. Determinante per la loro estetica furono le idee di John Ruskin, che, nei primi due volumi del carismatico trattato “Modern Painters”, suggerì la necessità della “Truth to Nature”, del valore della riproduzione del particolare. Altrettanto determinanti furono per i PreRaffaelliti, le idee molto radicali di Thomas Carlyle a proposito della schiavitù della civiltà delle macchine e sulle promesse tradite nel processo di industrializzazione dell’Inghilterra, a cui si attribuiva l’origine delle aspre lotte sociali dell’epoca. Il richiamo insistito all’analisi dei dettagli più nascosti degli eventi storici e biblici apparivano essenziali per confermare la natura provvidenziale della Storia ed auspicare un ritorno ad un mondo ideale più giusto. L’estetica della Confraternita dei PreRaffaelliti deriva da Menna (Carabba editrice, 2010) pp. 477-491. ISBN 978-88-6344-129-1 22 questa condiscendenza culturale. Analizzando i quattro fascicoli della rivista programmatica “The Germ” e le biografie dei fondatori del movimento: William Holman Hunt e Dante Gabriel Rossetti, le più recenti revisioni critiche hanno rivelato, sin dalle origini, le numerose intersezioni dei PreRaffaelliti con la scienza e la tecnologia del tempo. Il ritardo nel rivalutare i legami tra i PreRaffaelliti e la Scienza, si può comprendere dal peso attribuito agli atteggiamenti di Dante Gabriel Rossetti, convinto, senza grandi sensi di colpa, che fosse poco pratico, “of Dante Gabriel Rossetti - Sancta Lilias - 1874 very little use in life”, sapere se fosse la Terra a girare intorno al Sole o viceversa. La conoscenza degli uomini e delle loro necessità gli aveva confermato che l’efficenza delle nozioni scientifiche non avevano certo più valore delle spiegazioni mistico-allegoriche della Natura tipiche della società medioevale. Nonostante tali pregiudizi, i PreRaffaelliti non furono insensibili allo Zeitgeist, lo spirito del tempo, in cui la scienza, la tecnologia e la medicina permeavano la cultura inglese del XIX secolo, influendo nella narrativa, nel teatro, comparendo nelle rassegne politiche e persino nelle caricature dei giornali popolari. In particolare, dai loro memoriali ed epistolari, è emersa sin dalle origini la duplice anima del PreRaffaellitismo, con il contrasto tra il realismo di Hunt e di John Everett Millais, e la sensibilità idealistica di Dante Gabriel Rossetti, e successivamente di William Morris ed Edward Burne-Jones. Questo dualismo del movimento si manifestò sin dai soggetti dei primi dipinti, raffiguranti la bottega di un falegname del “Cristo nella casa dei genitori” di Millais, e nella più SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE simbolica annunciazione “Ecce Ancilla Domini” di Dante Gabriel Rossetti, in cui fu sempre presente l’influenza esercitata dagli studi danteschi in chiave allegorica del padre Gabriele, talentuoso esule politico, punto di riferimento di gran parte della comunità di espatriati risorgimentali italiani. DAL CULTO ALL’UTOPIA DELLA BELLEZZA Nella sua evoluzione, da cenacolo elitario a fenomeno di costume, la fratellanza preraffaellita non rinunciò mai ad approfondire le proprie aspirazioni per un radicale rinnovamento morale della società – intento comune tra i giovani di ogni tempo – non attraverso la religione, la tecnologia, la politica, ma attraverso l’Arte, facendo della Bellezza il criterio ispiratore del proprio programma, come recitava il verso guida della loro generazione: “A Thing of Beauty Is a Joy Forever” di John Keats. Occorre notare che il culto della Bellezza, tipico dell’Arte, fu concepito dai PreRaffaelliti come un’utopia verso i suoi valori più autentici e meno artefatti, in deliberata contrapposizione agli stereotipati canoni di perfezione che si erano progressivamente imposti nella pittura, sino al culmine dei dipinti di Raffaello. Tale caratteristica li indusse a riferirsi ai valori estetici formali di purezza e semplicità dei pittori italiani del Quattrocento, prima di Raffaello. Dal settembre 1848, questi geni ribelli cominciarono a distinguersi dalla convenzionale ritrattistica e paesaggistica vittoriana, contrapponendo i temi del misticismo medioevale all’edonismo paganeggiante del pieno Rinascimento e sviluppando un programma che aveva molti punti in comune con altri movimenti del tempo come i puristi italiani ed i “nazareni” te- deschi. Tuttavia, a differenza di questi, che innestarono la loro estetica nell’idealismo filosofico, i PreRaffaelliti inglesi approfondirono autonomamente una problematica di tipo morale e sociale sul potere rinnovatore dell’Arte, in grado di reagire da una parte alla concezione materialista della vita, dall’altra alle brutture del rapace capitalismo industriale in rapida ascesa. Malgrado la loro dicotomia costituzionale, ispirandosi al presunto modello delle corporazioni medioevali, la Confraternita cominciò ad approfondire in modo condiviso i propri interessi. Gli esordi, come spesso accade, non furono privi di polemiche, per l’opposizione agli insegnamenti della Royal Academy. I primi dipinti esposti nel 1849 sconvolsero i critici vittoriani come Charles Dickens, grande estimatore dei canoni artistici interpretati da Raffaello, che espresse il suo disappunto verso Millais in un polemico articolo del 1850 “Old Lamps for New Ones”. Solo con il favore di John Ruskin, convinto sostenitore e mecenate dei giovani innovatori, la fortuna del gruppo si consolidò. Nonostante il gruppo primitivo si sciogliesse assai presto (1853), tuttavia le idealità iniziali si perpetuarono in una produzione che a lungo condizionò l’opera della generazione successiva di artisti. La bellezza fu utilizzata come chiave per interpretare il mondo, senza limitarsi a rielaborare i precetti del romanticismo, impegnato ad identificare estetica ed etica, ma andando oltre, nella convinzione che “Bellezza è Verità, Verità è Bellezza”, ossia estetica come conoscenza. La ricerca della verità è una lotta infinita dell’uomo per comprendere la complessità delle innumerevoli forme che la Natura gli prospetta. Per raggiungere la conoscenza, l’umanità ha spesso fatto ricorso alla sensibilità intuitiva dell’arte, sebbene più spesso si sia rivolta alla religione. Solo con l’Illuminismo, la Scienza ha conquistato quell’egemonia che ha mantenuto con successo durante tutta l’epoca industriale. In ogni caso, il progresso scientifico e quello umanistico sono andati di pari passo, con una singolare interdipendenza tra il miglioramento del benessere materiale ed il progresso dello spirito. IL “FIGURALISM” NATURALISTICO ED IL “FIGURALISM” MISTICO-SIMBOLICO L’adesione dei PreRaffaelliti verso i temi scientifici si manifesta in una maggiore cura verso i dettagli. Dipingendo con originalità visiva, spesso con l’uso di colori puri, presi direttamente dalla natura, selezionarono composti di resine naturali, e pigmenti fabbricati da George Field (il famoso fornitore di colori per Turner), per riprodurre il più fedelmente possibile ogni dettaglio. Si avvalsero dell’uso del fondo imbiancato che cominciò a diffondersi con la traduzione nel 1840 della Teoria dei Colori di Goethe ed approfondirono le tecniche dei pittori del primo Rinascimento, grazie alla traduzione in inglese del “Libro dell’Arte”, il famoso manuale trecentesco di pittura di Cennino Cennini. Questi aspetti tecnici distintivi comuni dei capolavori del23 SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 la Confraternita (in gran parte nella collezione della Tate National Gallery of British Art di Londra) ci rivelano lo stile, gli orizzonti e le prospettive condivise del PreRaffaellitismo. Tuttavia, l’unità artificiale della Confraternita si disgregò rapidamente. Coloro che seguirono Homan Hunt, come John Brett, William Davis, John Inchbold e George Price Boyce, approfondirono i temi del “figuralism” naturalistico, in ossequio al motto “Back to nature!”. La qualità fotografica dei paesaggi preraffaelliti era una caratteristica molto apprezzata, in un epoca in cui le tecnologie riproduttive non avevano affatto la qualità contemporanea. La cura di riprodurre i dettagli, come se li osservassero attraverso un microscopio, mostrava quanto i PreRaffaeliti fossero affascinati dai progressi delle scienze naturali e le loro composizioni divennero le illustrazioni predilette dei manuali botanici e geologici, come si nota dalle molte illustrazioni tardo preraffaellite nella rivista positivista “Fortnightly Review”. I soggetti dei paesaggi erano osservati con accuratezza scientifica e riprodotti con una tale precisione che le rocce, gli animali, i corsi d’acqua sembrano catturare i segreti dell’ambiente, con un dettaglio del tutto estraneo alla qualità foto- John Brett, Il ghiacciaio di Rosenlaui (1856) (Tate Britain, Londra) grafica monocromatica dell’epoca. Un esempio caratteristico del “figuralism” botanico è rappresentato da uno dei primi paesaggi preraffa- la sventurata eroina skakespeariana. Nella vasta produzione preraffaellita, il dipinto “Il ghiacelliti ad essere esposti alla Royal Academy nel 1852: “May, in the Regent’s Park”, dipinto dalla finestra di casa da Char- ciaio di Rosenlaui” di John Brett è il paesaggio che meglio les Allston Collins, uno degli amici intimi di Millais. L’a- illustra le caratteristiche del nuovo modo di dipingere. Il “fispetto botanico domina sull’aspetto artistico ed ogni singolo guralism” geologico del dipinto abiura la visione panoramidettaglio è rappresentato con tale scintillante precisione da ca di Turner a favore della cura di ogni singolo elemento, far pensare di essere stato dipinto con l’ausilio di una len- con una composizione nitida e sinuosa, con dettagli stratite d’ingrandimento. Nulla è indistinto: anche gli alberi sullo grafici che farebbero la passione degli esperti di geologia, sfondo appaiono con rami e foglie ben definite. Un’accura- dove tuttavia inattesi salti di scala e la mancanza di un unico tezza che i più critici obiettavano eccessiva, giacché tali par- punto prospettico, manifestano un senso dissociato del punlicolari: «at the distance ... could by no means be seen with to di vista e rivelano l’influenza degli scritti di Ruskin sulla such hortus siccus minuteness (in lontananza non c’è modo montagna e di quelli del naturalista svizzero Louis Agassiz di osservarli con tale dettaglio da erbario)». Questo dipinto sulla glaciologia. A ben guardare, questo paesaggio – se accuratamente anarispetta il criterio della “Truth to Nature”, elaborato nel trattato “Modern Painters” di John Ruskin, con l’adesione alla lizzato – rivelerebbe probabilmente un metodo di composiverità del particolare, in contrasto all’allusiva percezione del zione frattale. La morfologia del paesaggio sembra spontaneamente riprodotta con l’applicazione della teoria dei frattali: globale dei paesaggisti vittoriani. Certamente, il dipinto deve conservare l’unità ma, come un linguaggio matematico in grado di rappresentare rigoroRuskin annotava «not at the expense of the inexhaustible samente l’irregolarità di forme naturali che in ogni piccoperfection of nature’s details», esortando gli artisti a corre- lo dettaglio conservano il disegno globale, come un grande dare con maggiore dovizia di particolari le loro opere. Ov- triangolo è composto di piccoli tasselli triangolari. Non è faviamente, Holman Hunt risultò il più sensibile alla lezione cile riconoscere, dai cristalli di ghiaccio sino alla forma del di Ruskin. I quadri “The Hireling Sheperd (1851)” e “Our ghiacciaio, le regole di “autosomiglianza” dei frattali, in cui English Coasts (1852)” ne sono evidenti manifestazioni. Lo una qualsiasi parte tende a riprodurre la figura intera. Merita stesso quadro più famoso della Confraternita – l’Ophelia di di essere ricordato che i cristalli che compongono ogni fiocco Millais – risulta un’esaltazione del dettaglio, sin nelle gem- di neve hanno nascosto per secoli le cause della propria belme della vegetazione che avvolge il gelido annegamento del- lezza. Le simmetrie esagonali dei cristalli di ghiaccio sono 24 SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE Edward Burne-Jones, The Golden Stairs (1880) (Tate Britain, Londra) state riconosciute per la prima volta nel 1611, in un saggio poco conosciuto di Keplero intitolato “Strena Seu De Nive Sexangula”, per essere poi studiate nei primi anni del Novecento, attraverso l’ausilio dei raggi X. La teoria dei frattali si applica efficacemente allo studio dei fiocchi di neve, fornendo alcuni classici esempi di riproduzioni frattali, tra cui il merletto di Helge von Koch, una generalizzazione della curva di Peano. E’ singolare notare che l’approccio frattale manifesta prodigiose analogie con le aspirazioni formulate da Ruskin. Nel tempo, l’attenzione eccessiva per un resa fotografica, se non vivisezionistica, dei paesaggi, finì per soffocare l’immaginazione e degenerò in una successiva produzione di maniera sempre meno gradita. Nonostante il loro preziosismo compositivo, le opere di questi artisti persero di prestigio soprattutto a causa dello sviluppo della fotografia e della consapevolezza che l’esattezza dei dettagli, non avrebbe mai potuto corrispondere ad una completa comprensione della realtà. I progressi scientifici ci hanno confermato che l’essenziale risulta invisibile all’osservazione, e come il volto non risulta in grado di rivelare l’anima, allo stesso modo indagando i dettagli superficiali, non è possibile dedurre il senso profondo della realtà. Un successo diverso arrise all’esperienza opposta perseguita da Dante Gabriel Rossetti, il fondatore della Confraternita che, col tempo, assunse il ruolo di uno dei più puri rappresentanti di quella classe a sé, che da sempre sono gli eccentrici inglesi. Rossetti tentò di rivalutare il carattere trascendente della realtà gettando un ponte sull’abisso che separa il sentimento dall’esperienza. Estimatori delle idealità esaltate nel manuale “The Stones of Venice” di Ruskin e nel saggio storico “Past and Present” di Carlyle, i PreRaffaelliti legati a Rossetti intercettarono, ed in parte anticiparono, le insoddisfazioni profonde della società vittoriana nell’Inghilterra in piena Rivoluzione Industriale. In questa impresa, Rossetti fu affiancato ben presto da Edward Burne-Jones, e con meno convinzione dal più pragmatico William Morris, il cui senso degli affari spinse lo stesso Dante Gabriel Rossetti a rendere feconda la propria sensibilità figurativa associandosi con i nuovi confratelli nella produzione industriale di arredi con stile e qualità della finitura artigianale, irriducibili alla massificazione esaltata nella formidabile mostra del primo EXPO, nel Crystal Palace di Londra nel 1851. In nome di questa filosofia, precursore illustre del movimento Art & Craft, fu promossa la nascita della manifattura Morris, Marshall, Faulkner & Co. dedita ancora oggi, con il marchio Sanderson and Sons and Liberty, a creare ricercati motivi decorativi da utilizzare su vetro, ceramiche, piastrelle, carte da parati, e tessuti. Questo interesse per le arti decorative, dal 1859, indusse Rossetti ad ispirarsi ai capolavori di Tiziano e Veronese, allontanandosi progressivamente dai soggetti religiosi e dalle ricostruzioni del mondo medievale influenzati dall’ossessione dantesca e dal ciclo arturiano. L’utopica bellezza ambita dai PreRaffaelliti si tradusse in una progressiva sublimazione della figura femminile. Tuttavia, il “figuralism” simbolico a cui aspiravano teneva conto simultaneamente della concretezza e del mistico del trascendente, come testimoniano i dettagli dei loro dipinti d’ispirazione storica, biblica e letteraria. I sorprendenti dettagli degli abiti e degli arredi continuano ad essere fonte di ispirazione anche per l’architettura. Ad esempio, le miniature del dipinto “Roman de la Rose” contribuirono a definire l’assetto del giardino della Red House, il luogo dell’anima dei Morris a Bexley Heath nel Kent. Con meno superficialità ed esuberanza di Rossetti, il visionario Edward Burne-Jones rivelò l’aspirazione ad un mondo migliore e la necessità di valori più profondi di quelli proposti dall’utilitarismo ed il materialismo che andava affermandosi nella tarda epoca vittoriana. 25 SCIENZE ARTISTICHE E LETTERARIE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Nell’epoca dell’esaltazione delle grandi cannoniere e dei cavi transatlantici, la rappresentazione fiduciosa di figure angeliche non era semplicemente un conforto per estraniarsi da una realtà ansiogena. Programmaticamente, rifletteva i desideri e le attese delle nuove classi agiate forgiatesi nella Rivoluzione Industriale, che pretendevano per i propri figli un mondo migliore con più gentilezza ed armonia. Una speranza destinata ad essere travolta dalla crisi della Prima Grande Guerra Mondiale. Il dipinto di Edward Burne-Jones “The Golden Stairs” (1880) rende al meglio questo anelito per un mondo ideale, ma non astratto. Il tema sembra ispirato ad uno dei racconti più famosi della Bibbia: il sogno di Giacobbe con la visione profetica della scalinata verso il Paradiso, che aveva già suggestionato William Blake. Nella Genesi (Genesis 28:10-15) si narra che Giacobbe abbia avuto in sogno l’apparizione di una scalinata, affollata di presenze angeliche, che dalla Terra raggiungesse il Paradiso. L’esegesi della narrazione biblica (Giovanni 1:51) assegna alla scalinata lo stesso ruolo di Cristo (come mezzo per accedere al Paradiso). Il sogno della scala a spirale verso il Cielo è tradotta da Burne-Jones senza evidenti connotati religiosi o sofisticate astrazioni. Nelle preziose figure angelicate, si possono riconoscere le vestali, compagne e figlie, dell’universo preraffaellita. Tutte le immagini nascondono analogie figurative indirizzate a suggerire un significato metaforico della contiguità tra mondo reale e trascendenza, mortalità ed eternità. Il carattere divino della visione profetica di Giacobbe è manifestato dalla presenza delle raffinate proporzioni matematiche, legate alla sezione aurea: il rapporto tra una grandezza maggiore e una minore, delle quali la maggiore è media proporzionale tra la minore e la somma delle due grandezze, ed in pratica è la soluzione positiva dell’equazione algebrica x2 - x - 1 = 0. Questa divina proporzione corrisponde al valore numerico л 5 1 2 _ Φ = 2 cos (__) = __ (1 + √5) ≡ 1,6180339... ed è indicata con la lettera greca Φ, dalla lettera iniziale del nome greco dello scultore Fidia). Sin dall’antichità è stata utilizzata quale unità di misura dell’armonia, affermandosi come canone estetico nel Rinascimento, con la pubblicazione nel 1509 del famoso manuale del matematico Luca Pacioli, illustrato con i disegni di Leonardo da Vinci. Considerata quasi la chiave mistica dell’armonia nelle arti e nelle scienze, la sezione aurea fu impiegata ampiamente nei quadri di Piero della Francesca e Sandro Botticelli, autori rinascimentali precedenti a Raffaello. La sezione aurea appare nelle dimensioni della scala e della tromba tra le mani della quarta fanciulla dall’alto (identificata come la figlia Margaret dell’autore), nelle lunghezze delle gonne, nelle dimensioni della porta e del lucernario in cima alla scalinata. 26 QUANDO FINISCE UN’AVANGUARDIA? Il valore di ogni movimento culturale non si misura dal suo persistere, ma in base agli elementi anticipatori dei successivi paradigmi estetici. Per cui, non è semplice spiegare come questa avanguardia artistica fiorita in epoca vittoriana sia rimasta in vitale sintonia con l’arte e la cultura successiva, se non indagando quanto abbia anticipato i temi dei movimenti impressionista e simbolico. Certamente l’indizio che i PreRaffaelliti contengano ancora elementi di rigenerante modernità è certificata dal successo di critica e di pubblico del tour mondiale della più recente esposizione itinerante “Pre-Raphaelites: Victorian Avant-Garde”, inaugurata a Londra nel 2012, ammirata da oltre un milione di visitatori alla National Gallery of Art di Washington, al Pushkin Museum of Fine Arts di Mosca, alla Mori Arts Center Gallery di Tokyo, ed infine, nel 2014, a Palazzo Chiablese, la rinnovata sede espositiva del Palazzo Reale di Torino. L’utopia della Bellezza ha rappresentato la ragione ideale che ha permesso a questo movimento di non scomparire mai del tutto, proponendosi alle generazioni seguenti come fonte a cui attingere, riadattare, reinventare e riproporre la propria ispirazione. Sebbene non si possa dire che ci abbiano lasciato in eredità una nuova scuola di pittura, tuttavia i veri eredi del PreRaffaellitismo sono tutti quegli artisti che continuano fermamente a lavorare sfidando le mode e i dettami imposti da certi movimenti artistici in auge. I veri eredi sono tutti coloro che sfidano l’indifferenza e l’autocompiacimento e come asseriva Ruskin, vanno incontro alla Natura con un cuore singolare, camminando in sua compagnia operosamente e con fiducia. Il respiro del PreRaffaellitismo non si affievolirà fino a quando gli artisti saranno in grado di leggere ed interpretare le fertili pagine del libro chiamato Natura. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA Reportage e giornalismo italiano nel corso della Grande Guerra ROBERTO SCIARRONE Assegnista di ricerca, Dipartimento di Storia Culture Religioni dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza D opo William H. Russel, reporter irlandese del Times di Londra e Ferdinando Petruccelli della Gattina, anticipatore del reportage all’americana e corrispondente per La Presse - definito da Indro Montanelli il «più brillante giornalista italiano dell’Ottocento» - il XX secolo vede protagonisti Luigi Barzini e Arnaldo Fraccaroli, entrambi inviati di guerra per il Corriere della Sera. Proprio dei due corrispondenti si occupa questo studio che cerca di tracciare il percorso professionale, lo stile e l’accuratezza descrittiva dei più importanti reporter italiani in quella terribile occasione. Barzini, già testimone di alcuni conflitti dal 1899 per il giornale di via Solferino - e che proseguirà a raccontare le guerre sino al 1921 - è dotato di una grande capacità lavorativa che gli consente di scrivere di notte, dopo un’intera giornata trascorsa al fronte, i suoi articoli. I reportage, ricchi di particolari e ammantati da un aurea descrittiva senza paragoni, ne fanno un giornalista d’eccezione, il cui valore viene confermato dalle principali potenze europee dell’epoca attraverso riconoscimenti e titoli onorifici. Nel corso della guerra Barzini pubblica diversi saggi e memoriali fra i quali Scene della grande guerra (1915), Al Fronte (1915) e La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso (1917). L’intenzione di questo contributo è quella di fornire, attraverso i racconti di Barzini e Fraccaroli, l’intensità dell’impegno dei giornalisti italiani presenti, riconosciuto tra i più puntuali e brillanti. Luigi Barzini è considerato il più grande inviato di guerra italiano, uno dei pochi la cui fama superò i confini nazionali, “Nuovo articolo di Barzini!” era l’urlo con cui gli strilloni del Corriere della Sera richiamavano l’attenzione nella Milano dei primi anni del Novecento. La sua copertura della guerra russo-giapponese (1904-1905) suscitò ammirazione in tutto il mondo, fu il primo ad arrivare nelle terre dove si svolse il conflitto e l’unico a seguirlo fino alla fine.1 Ad una prima lettura i suoi articoli potrebbero apparire simili a quelli di William Russel, ma un esame più approfondito dimostra differenze profonde. Il giornalismo era entrato in una nuova era, mentre il Times di Russel apparteneva ancora all’orizzonte culturale del giornalismo ottocentesco, il Corriere della Sera di Barzini era ormai proiettato nel nuovo secolo, nel pieno dispiegarsi della rivoluzione industriale e il diffondersi di innovazioni tecnologiche cruciali nel settore editoriale. La più importante era la rotativa, nuova macchina a stampa che aveva centuplicato le tirature giornaliere dei quotidiani, l’uso di una carta più economica e la composizione a caldo tramite la Linotype favorì la stampa di massa e giornali a basso prezzo rivolti a un vasto pubblico appartenente non più all’élite, ma alle classi 1 A. BiAgini, La guerra russo-giapponese, Nuova Cultura, Roma, 2011, pp. 7-27. 27 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 medie, medio-basse e anche popolari. Tale fenomeno si inseriva nella più ampia e graduale trasformazione delle strutture sociali, economiche, culturali e politiche dei paesi occidentali, distinti dalla diffusione dell’istruzione elementare, dalla crescita di istituzioni più democratiche e da nuove dinamiche politiche. Con l’inizio delle pubblicazioni del Daily Mail (1896) in Gran Bretagna era comparsa una stampa apertamente “popular” che si differenziava dalla stampa “di qualità” rappresentata dal Times e dal Guardian. L’ascesa della “popular press”, detta anche tabloid, caratterizzò soprattutto la Gran Bretagna, ma in tutta Europa e negli Stati Uniti il periodo tra il 1870 e il 1914 vide la nascita della stampa di massa. A inizio Novecento il Daily Mail raggiungeva il milione di copie, a Parigi i quattro quotidiani più venduti superavano i quattro milioni di stampe giornaliere. Negli Stati Uniti si ebbe l’ascesa della “yellow press”, guidata dai quotidiani sensazionalistici di Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, in Italia nel 1913 il Corriere della Sera giunse a oltre 350mila copie. In questo periodo i giornali raggiunsero i massimi livelli di diffusione e monopolizzarono la formazione dell’opinione pubblica, un ruolo importante, in questo senso, fu interpretato dalle tecnologie della comunicazione e dalle ripercussioni che le loro trasformazioni ebbero sulle modalità di raccolta e distribuzione delle informazioni. La diffusione delle ferrovie e della navigazione a vapore facilitò l’accesso ad aree prima difficili da raggiungere e ridusse i tempi di viaggio. L’innovazione più importante fu quella del telegrafo che introdusse la possibilità di trasmettere una notizia in tempi brevi, ciò provocò l’esigenza di velocizzare il lavoro del reporter. È in questo periodo che nacque la frenesia dello scoop, che assicurava un’immediata impennata alle vendite del giornale, la nota regola delle “cinque W” – le cinque domande a cui si deve rispondere già nel primo paragrafo di ogni servizio: What, Where, When, Who, Why – e l’affermazione delle agenzie di stampa. Nel 1848 cinque quotidiani newyorchesi fondarono la Associated Press proprio per condividere le spese telegrafiche, successivamente nacquero l’inglese Reuters, la tedesca Wolff e la francese Havas. I nuovi giornali di massa erano imprese solide con enormi giri d’affari e in tutte le metropoli occidentali, da Fleet Street a Londra a Via Solferino a Milano, nuovi palazzi vennero costruiti per ospitarle. Si legittimò il principio dell’obiettività, dell’imparzialità, della separazione tra fatti e opinioni, in realtà la forte competizione per l’interesse del pubblico stimolò anche il “sensazionalismo”, forzando sovente le notizie per attirare l’attenzione del lettore. Nell’età dell’oro dei quotidiani il giornalismo di guerra ebbe una posizione di primo piano, la figura principe era quella dell’inviato speciale che rischiava la vita per testimoniare combattimenti e operazioni militari. Furono numerosi gli inviati di guerra che affrontarono gravi pericoli e disagi per produrre brillanti corrispondenze su conflitti sparsi nel mondo. Del resto in occasione dei conflitti le tirature aumentavano, in particolar modo se il giornale poteva offrire ai lettori resoconti “esclusivi” dei propri corrispondenti. Il giornalismo di guerra conobbe l’apice della sua importanza proprio nel trentennio 28 a cavallo del Novecento, momento in cui la carriera di Luigi Barzini vedeva la consacrazione internazionale. La guerra era ormai cambiata rispetto all’epoca napoleonica, e anche rispetto ai tempi della guerra di Crimea, la rivoluzione industriale aveva assorbito il mondo militare. Ferrovie, navi a vapore e telegrafo rendevano possibile trasportare truppe molto più numerose, su distanze molto più lunghe e in tempi molto più brevi. Le armi divennero distruttive e micidiali, attorno alla metà del secolo, a partire dai modelli messi a punto dal francese Minié, si diffuse il fucile a canna rigata a retrocarica e con proiettile ogivale. Un’arma di cui tutti gli eserciti occidentali si dotarono in pochi anni, che poteva sparare con precisione e uccidere a diverse centinaia di metri di distanza. Luigi Barzini nacque a Orvieto nel 1874, poco più che ventenne iniziò a collaborare con il giornale satirico Fanfulla di Roma e qui lo conobbe Luigi Albertini il direttore che stava trasformando il Corriere delle Sera in un quotidiano di levatura europea. Albertini rimase esterrefatto dalle doti di quel giovane e, nonostante l’inesperienza, lo assunse inviandolo prima a Londra e poco dopo in Cina per seguire la repressione dei “Boxer”. Barzini si dimostrò subito un grandissimo cronista, dotato di senso della notizia, energia, tenacia, uno stile di scrittura asciutto e incisivo, lontano dalla retorica che dominava il giornalismo italiano. Le corrispondenze da Pechino sull’intervento dei contingenti internazionali che schiacciarono i Boxer ebbero grande successo. Il giovane inviato rivelò una eccezionale capacità di racconto, unita a serietà e rigore nella raccolta e verifica delle informazioni. Diventato una delle firme più conosciute del Corriere della Sera, Barzini contribuì al sorpasso del quotidiano concorrente Il Secolo. Ma l’impresa giornalistica che lo rese famoso a livello internazionale arrivò nel 1904 allorché, in maniera del tutto fortuita, si trovò a seguire alcune manovre militari in Italia, a cui partecipava come osservatore un alto ufficiale dell’esercito giapponese. Anche se questi non gli fornì alcuna informazione diretta, alcuni discorsi bellicosi nei confronti della Russia persuasero Barzini che la crescente tensione tra Tokyo e Mosca stava per toccare l’apice. Il giornalista italiano partì quindi per la remota regione all’estremo est del territo- SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA Una pagina del Calendario Storico dei Carabinieri, 2013 rio russo (Manchuria, Yellow Sea, Korean Peninsula), dove i due imperi si sarebbero potuti scontrare. Con un viaggio lungo e avventuroso vi giunse prima di qualsiasi altro reporter, seguendo le operazioni militari dalla parte giapponese. Le capacità del grande inviato possono quindi essere riassunte dall’esperienza di Barzini in quegli anni: resistenza fisica per sopportare condizioni di vita e fatiche a volte durissime, determinazione e lungimiranza per venire a conoscenza dei luoghi in cui si svolgono gli eventi salienti e riuscire a raggiungerli, coraggio per esserne testimone fino in fondo. Il più noto reporter italiano dell’epoca le possedeva tutte. Con ostinata determinazione rimase per mesi nella zona dei combattimenti, muovendosi su tutto il fronte a piedi, a cavallo e con mezzi di fortuna, resistendo a condizioni ambientali terribili (gelo, tormente, disagi, mancanza di cibo), intervistando soldati e ufficiali, esaminando ogni cosa in prima persona, esponendosi durante gli scontri a fuoco, sfuggendo a ripetuti tentativi di limitare la sua testimonianza giornalistica. Finì con l’essere il reporter che di quel grande conflitto traman- dò il resoconto più completo, organico e brillante. Le sue corrispondenze, lette e ammirate in tutto il mondo, vennero raccolte in un volume così ricco di informazioni, commenti, cartine e fotografie, da lui disegnate e scattate, da diventare testo di studio nelle accademie militari. Barzini possedeva una caratteristica innata di comprendere il significato storico degli eventi di cui era testimone e il loro spessore epocale, forte di questa esperienza affrontò il conflitto più imponente e sanguinoso della storia: la Prima guerra mondiale. “Questa non è guerra”, esclamò terrorizzato un generale inglese di fronte ai massacri della gigantesca battaglia di Verdun (France, 21 february – 20 december 1916). La prima guerra mondiale superò e stravolse qualsiasi idea di guerra esistita fino a quel momento, Eric Hobsbawm lo ha preso come punto di inizio del “The Short Twentieth Century” del Novecento2 e dell’età contemporanea, per quat2 E. HoBsBAwm , The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994, pp. 32-47. 29 STORIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 tro anni (1914-1918) la guerra coinvolse tutti i paesi europei, dalla Francia all’Impero asburgico, dall’Italia alla Gran Bretagna, dal Reich tedesco alla Russia e dal 1917 anche gli Stati Uniti, su fronti di migliaia di chilometri e sulle trincee. Complessivamente vi parteciparono circa 65 milioni di soldati, i morti furono 15 milioni e i feriti 21 milioni. La guerra costrinse le nazioni partecipanti a mobilitare intere generazioni di cittadini per riempire i ranghi degli eserciti di massa attraverso la coscrizione obbligatoria. Di fronte a questo terribile evento il giornalismo diede prova assolutamente deludente, gli storici infatti sono concordi nel condividere il duro giudizio espresso nel 1928 da Arthur Ponsonby: “When war is declared, Truth is the first casualty.”.3 Le cause di questa débâcle furono diverse, ma una spicca su ogni altra: tutti i paesi, per la prima volta, crearono strutture capillari ed efficienti per controllare e manipolare i mezzi di informazione, cercando di “addomesticare” i resoconti giornalistici e produrre una poderosa ondata di propaganda patriottico-bellicistica che alimentasse la volontà di combattere delle popolazioni. L’evoluzione degli stati nazionali e il loro sviluppo in senso democratico (suffragio) si era tradotta in quello che Georg Mosse ha definito la “nazionalizzazione delle masse”.4 Le sorti dei governi dipendevano molto di più che in passato dal voto dei cittadini e dal favore dell’opinione pubblica; la coscrizione obbligatoria trascinava direttamente nell’esperienza bellica milioni di cittadini. In tutti i paesi vi era una stampa a grande diffusione capace d’influenzare l’opinione pubblica e un problema tipico delle società democratiche era quello di giustificare la guerra, di spiegare ai cittadini il motivo per cui essi avrebbero dovuto sopportare sacrifici così gravi. Emblematico è l’esempio dell’Italia, dove tra il 1914 e il 1915 si sviluppò un intenso dibattito sull’intervento del conflitto già in corso, gli storici affermano che la popolazione del paese fosse in maggioranza favorevole alla neutralità, il governo, comunque, finì con l’allearsi con la Francia e Gran Bretagna ed entrare nel più sanguinoso conflitto della sua storia che costò circa 600mila morti. Questo orientamento fu dovuto, in parte, all’atteggiamento della stampa, il Corriere della Sera ad esempio amplificò le manifestazioni degli interventisti, contribuendo a creare la sensazione che esse rappresentassero i sentimenti della maggior parte della popolazione. Questa linea, a prescindere dalla straordinaria testimonianza di reporter alla Barzini, rispecchiava gli interessi della borghesia industriale di cui la testata era l’espressione. Un caso ancora più evidente fu quello del Popolo d’Italia, il nuovo giornale fondato da Benito Mussolini che aveva diretto in precedenza il giornale del Partito Socialista l’Avanti!. Il Popolo d’Italia nacque con l’intenzione di perorare l’intervento italiano nella guerra, a finanziarlo infatti furono alcuni gruppi di industriali italiani che fiutarono affari 3 A. PonsonBy, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During the Great War, George Allen & Unwin, London, 1928, p. 7. 4 g.L. mossE, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, Howard Fertig, New York, 2001, p. 25. 30 economici ed esponenti del governo francese che da tempo si adoperavano perché l’Italia scendesse in campo contro Austria e Germania. Dopo lo scoppio delle ostilità i giornali italiani stabilirono una linea “patriottica” e di sostegno allo sforzo bellico, ma fu determinante la censura e la propaganda prodotta dalle autorità civili e militari, già il 23 maggio 1915, poche ore prima dell’entrata in guerra, un decreto vietò ai giornali di diffondere notizie che andassero al di là dei comunicati ufficiali su materie quali l’andamento delle operazioni militari, le nomine di comando, il numero di morti e feriti. Il giorno dopo venne attivato un Ufficio Stampa del Comando militare supremo, con sezioni distaccate in diverse città. Con poche eccezioni l’accesso ai cronisti al fronte venne vietato e in tutti i paesi si costituirono apparati di censura e propaganda. Uno dei più organizzati fu allestito dalla Gran Bretagna che istituì presso il governo un Press Bureau, poi un War Propaganda Bureau e quindi il Ministry of Information, cui vennero chiamati a collaborare alcuni dei maggiori scrittori dell’epoca come Rudyard Kipling, Herbert G. Wells e Arthur Conan Doyle. I giornali si riempirono di racconti delle atrocities compiute dalle truppe del Reich che avevano invaso il Belgio. Quasi tutte queste notizie erano in realtà forzate, distorte e alle volte inventate, tra i casi più clamorosi ci fu la storia – falsa - dei soldati tedeschi che mozzavano le mani ai bambini belgi. In Francia i cronisti che si avventuravano tra le linee venivano arrestati – accadde anche a Barzini – e quando il quotidiano Homme Libre di Georges Clemenceau osò denunciare l’inefficienza del servizio sanitario militare le autorità di Parigi ne bloccarono subito le pubblicazioni. In un primo momento anche i generali inglesi impedirono l’accesso ai giornalisti alle zone di combattimento, questa politica fu poi modificata – in parte – perché i tedeschi offrivano ai reporter stranieri un’ospitalità generosa. Un’eccezione parziale fu offerta solo dalla stampa statunitense anche se non mancarono alcuni esempi di giornalismo brillante e a tratti straordinario come le opere di Barzini lo testimoniano, pubblicazioni come Scene della grande guerra (1915), Al Fronte (1915) e La guerra d’Italia, Dal Trentino al Carso (1917) rimangono tra i racconti più fulgidi della Grande Guerra. “Morale altissimo” – dicono i bollettini ufficiali. Lo Stato Maggiore, laconico e pacato, non dedica che una parola all’anima dell’esercito. Il Paese deve averne avuto un’impressione di baldanza. Ma nulla può conferire il senso della realtà quale si è rivelata a noi, subitamente, già nel primo giorno della guerra nel quale sentimmo passare sulle nostre schiere un magico soffio di esultanza, la folata di vento d’un colpo di ala immane, invisibile, favolosa. […] E’ per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori sui binari morti. La vera, la grande arteria della guerra è la ferrovia.5 Barzini, nei suoi resoconti, descrive il continuo passaggio dei treni e le truppe, ferme in stazione, che aspettavano l’ora della partenza, durante lunghe soste al sole. Si combatteva 5 Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea (BSMC, Roma), L. BArzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Fratelli Treves Editori, Milano, 1915, pp. 24-54. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | STORIA per la conquista di picchi sassosi, sui quali non si potevano scavare trincee. La parola Carso, per lui, significava roccia. La montagna con le sue stratificazioni calcaree, con le sue vallette verdi, con i suoi crepacci ricordava un po’ la montagna di Derna. La natura offriva alla difesa delle formidabili posizioni naturali, complete e fortificate. Il nemico si nascondeva dietro queste formazioni naturali. Se l’opinione pubblica austriaca si mostrò sorpresa dall’entrata in guerra dell’Italia, sul campo di battaglia tutto fa pensare che in realtà essa avesse già organizzato una strategia da tempo preparata. Dalle parole di Lugi Barzini, tratte dai suoi resoconti pubblicati nel 1915, emergono lo stile unico e la cura dei dettagli che il reporter italiano amava regalare ai propri lettori. Egli non si soffermava solamente alla cronaca dei fatti ma, con grande acutezza, interpretava le azioni dei contendenti alla luce degli eventi di politica estera, come nel caso dell’Austria. Inoltre, la grande capacità descrittiva della natura e del territorio, in cui si trovarono i soldati italiani, catapultavano il lettore sul teatro di guerra, eccitando l’immaginazione di milioni di lettori. Ma al di là di questi articoli di grande pregio, nel complesso i resoconti giornalistici sulle operazioni militari della Prima guerra mondiale risultarono reticenti e fuorvianti, lo stile spesso era fortemente retorico, gli articoli generici e poco documentati. I contenuti finivano così col ridursi alle scarne notizie fornite dai comunicati ufficiali, alternate a descrizioni generiche o a racconti di episodi astratti. La battaglia vastissima procede con titanica potenza. Non è una battaglia d’impeto, con pronti risultati brillanti e limitati: è una battaglia colossale, di costanza, di saldezza, di ostinazione, di tenacia. […] Le speranze più radiose illuminano gli occhi del gigante che la scrolla.6 Pur considerando importante l’opera di un altro protagonista del giornalismo di guerra italiano, Arnaldo Fraccaroli, non si può non ravvisare l’influsso dell’estetica nazionalistafuturista nei suoi resoconti. La guerra, infatti, giungeva ad essere rappresentata come una successione di eventi quasi fantasmagorici, onirici, descritti con uno stile quasi espressionistico. E come spesso accade nel giornalismo spesso si omettevano fatti importanti, come ad esempio la vita nelle trincee, le carneficine, la sofferenza fisica dovuta al freddo, alla fame, ai parassiti, alla pioggia e al fango. Non solo. Fu passato sotto silenzio l’uso generalizzato dei gas, nuovo strumento di morte, poco fu detto degli errori degli ufficiali, della logistica e della sanità militare, nulla sui favoritismi e le ingiustizie che si consumarono all’interno delle forze armate in materia di rifornimenti, distribuzione dei compiti e licenze. La tragica disfatta di Caporetto (Kobarid – Slovenia) del novembre 1917, sul fronte italiano, fu riportata dai giornali della penisola in modo generico, frammentato e dilatato. I giornali nascosero anche le manifestazioni di dissenso che si moltiplicarono sia tra le truppe sia tra la popolazione civile, i numerosi casi di diserzione e insubordinazione, con le conseguenti repressioni sanguinose; i non rari episodi di fraternizzazione con il nemico – ad esempio tra i soldati in trincea – e gli scioperi e le proteste che scoppiarono in molte città contro le dure condizioni di vita imposte dalla guerra. Specialmente tra le truppe al fronte si sviluppò la diffusione di “false notizie” e, parallelamente, la comparsa dei “giornali di trincea”, fogli pubblicati per iniziativa delle autorità militari che dovevano servire a tenere alto il morale delle truppe come La Tradotta, La Ghirba, La Trincea e Il Piave. Questi giornali furono un interessante esempio di “para-giornalismo popolare”, scritto con linguaggio elementare, ricco di illustrazioni, cui collaborarono i migliori artisti italiani dell’epoca. La propaganda fu il fenomeno nuovo più evidente della Prima guerra mondiale, i mezzi di comunicazione erano ormai rivolti a grandi masse di cittadini, chiamati in prima persona a partecipare al conflitto, e divennero quindi una nuova arma a disposizione degli Stati Maggiori. Non a caso il giornalista Walter Lipmann scrisse dopo la fine del conflitto il suo celebre saggio Public Opinion (1922), prendendo spunto dalle manipolazioni delle verità cui egli stesso aveva assistito lavorando presso il Committee on public Information. Il suo testo offrì un analisi estesa del rapporto tra potere politico, mass media e opinione pubblica. La conclusione di Lippmann era pessimista poiché credeva che indeformabili limiti di tempo, di energie psicologiche e di cultura portavano le persone comuni a ragionare per stereotipi semplificati, e la massa non era quindi consapevole della verità. BIBLIOGRAFIA L. Barzini, Al Fronte (maggio-ottobre 1915), Milano, 1915; L. Barzini, Scene della grande guerra, Milano, 1915; L. Barzini, La guerra d’Italia. Sui monti, nel cielo e nel mare, Milano, 1916; L. Barzini, La guerra d’Italia. Dal Trentino al Carso, Milano, 1917; A. Ponsonby, Falsehood in Wartime: Containing an Assortment of Lies Circulated Throughout the Nations During the Great War, London, 1928; E. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991, Michael Joseph, London, 1994; D. Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Perugia, 1994; G.L. Mosse, The Nationalization of the Masses: Political Symbolism and Mass Movements in Germany from the Napoleonic Wars through the Third Reich, New York, 2001; E. Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Firenze, 2008; O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone ad oggi, Bari-Roma, 2009; A. Biagini, La guerra russo-giapponese, Roma, 2011. 6 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR), Arnaldo Fraccaroli, Corriere della Sera, 23 agosto 1917. 31 Energie rinnovabili a vocazione turistica. Itinerari attivi di energy tourism in Italia GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 32 GIOVANNA SPINELLI Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione, Università degli Studi di Bari Aldo Moro ...bolliva e soffiava come se per entro vi salisse l’imperto e il gorgoglio dei dannati fitti nel limo, come se nel fondo vi s’agitasse la mischia perpetua degli iracondi… (G. D’Annunzio, Forse che si forse che no, 1910). Q uesto contributo prende spunto dal modulo didattico Rerisk (Regions at Risk of Energy Poverty, Regioni a rischio di povertà di energia), frequentato nel 2012 dalla scrivente attraverso la piattaforma scientifica on line di ESPON (European Spatial Planning Observation Network, Rete di osservazione e pianificazione spaziale europea; responsabile scientifico italiano: M. Prezioso). Gli studiosi di ESPON, in linea con gli obiettivi Europa 2020 (CEC, 2010), atti a garantire una crescita armoniosa e sostenibile di aree geografiche con differenti caratteristiche e specificità, utilizzando l’approccio a tre sca- le: scala europea (scala macro), scala trans-nazionale (scala meso) e scala di un singolo territorio (scala micro) hanno approfondito diversi ambiti di studio quali: l’economia (ricerca di nuovi mercati emergenti e sviluppo tecnologico); il trasporto (mobilità/accessibilità territoriale, completamento dei corridoi europei, trasporto urbano); la demografia (fertilità, invecchiamento e processo migratorio); la fornitura energetica (aumento del prezzo dell’energia). Per quanto riguarda quest’ultimo ambito è emerso che per lo sviluppo sostenibile del nostro territorio occorre, oggi, un corretto uso delle risorse energetiche, che sul nostro pianeta non sono più illimitate e infinite e registrano costi sempre più alti. Il sostegno alle energie rinnovabili è divenuto, quindi, un tema prioritario per i policy makers ai vari livelli di governo per numerose ragioni: esso rappresenta uno strumento per l’abbattimento dei gas serra e, più in generale, contribuisce alla riduzione dell’inquinamento atmosferico. Questo sostegno concorre, inoltre, ad aumentare la sicurezza nazionale in tema di approvvigionamenti energetici. In questo modo, fonti rinnovabili e risparmio energetico SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA diventano due settori in forte espansione tecnologica e di mercato e rappresentano un’occasione di sviluppo economico e occupazionale per le imprese e i territori che sapranno cogliere le sfide a esse associate. RISORSE ENERGETICHE RINNOVABILI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE DEL TERRITORIO Negli ultimi anni anche i geografi hanno maturato un interesse crescente per le tematiche ambientali collegate a un uso corretto delle risorse energetiche sottolineando dapprima «l’importanza economica dell’energia, che rappresenta una risorsa fondamentale in quanto permette la produzione di tutti gli altri beni materiali. Perciò, l’opportunità di fruire facilmente, abbondantemente e a basso costo delle risorse energetiche consente il decollo e lo sviluppo economico; non è un caso che la società industrializzante del mondo occidentale siano sorte impiegando carbone (abbondante e accessibile) a basso prezzo e si siano sviluppate, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, grazie allo sfruttamento di immensi giacimenti petroliferi. Ma, la crescita enorme dei prezzi petroliferi ha causa- to un rallentamento produttivo dell’economia internazionale e ha favorito, nei Paesi industrializzati, l’adozione di provvedimenti volti al risparmio energetico e alla diversificazione delle fonti di energia» (De Vecchis, 2001, p. 132). Anche altri autori hanno affrontato l’argomento (Bagliani, Pietta, 2008; Brandolini, 2008). In particolare, è stato affermato che: «La produzione, la distribuzione, il consumo di energia, le differenti tipologie di fonti energetiche, la loro ubicazione nello spazio, le differenti strutture utilizzate per il loro sfruttamento, gli strumenti di piano politici ed economici finalizzati a promuovere l’utilizzo di una fonte piuttosto che un’altra sono temi importanti per la disciplina geografica e sono in grado di esprimere quella che può essere definita la vocazione energetica di un territorio» (Puttilli, 2009, p. 601). Altri studiosi hanno, quindi, puntato l’attenzione su «un sistema energetico sostenibile promuovendo il ricorso a tecnologie che contrastino il global warming» (Pinna, 2004). Il cambiamento climatico, infatti, «inciderà sulla disponibilità e qualità delle risorse energetiche idriche in particolare, e provocherà una più intensa competizione nell’uso dell’acqua). […] Fra le conseguenze innescate dal cambiamento climatico vanno annoverati anche i processi di degrado del suolo e la desertificazione, […] nonché la progressiva perdita di biodiversità» (Salvati, Perini, 2011, p. 537)1. Ne consegue «la necessità di un miglioramento e adeguamento della gestione e dell’uso delle fonti energetiche, al fine di ridurre al minimo l’impatto negativo sul territorio e migliorare la qualità della vita delle collettività umane» (Nijhuis, 2014, p. 23). 1 Le sfide dell’attuale mutamento climatico ci inducono anche a occuparci dei futuri propulsori che spingeranno i mezzi di trasporto, in particolare quelli su strada. A tal proposito, gli esperti dell’Istituto Motori del Cnr prevedono che sul breve periodo, il carburante migliore sarà il metano; mentre l’idrogeno sarà usato nelle celle a combustibile dei motori ibridi. Ma, per rendere incisivo l’uso di questo vettore energetico ci vuole un grande cambiamento: tutta la città deve virare verso l’idrogeno; l’industria automobilistica, invece, concentra la propria ricerca sulla sicurezza, il comfort e l’estetica (Itae-Cnr, 2012 Istituto tecnologie avanzate per l’energia). Inoltre, le tecnologie ibride pongono non tanto il problema della conversione dell’idrogeno in energia, quanto l’estrazione, l’approvvigionamento e lo stoccaggio dell’idrogeno. Di fronte a queste problematiche ambientali, occorre però «mirare a un’analisi obiettiva dei fatti, senza drammatizzazioni superflue né concessioni a un facile ottimismo. È questo uno dei doveri della geografia» (Pinna, 2004). 33 GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Queste riflessioni ben si addicono a un modo di vivere sostenibile, che non altera «gli equilibri naturali, mirando al soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie» (Rognini, 2012, p. 89). Attualmente, i fabbisogni energetici dell’umanità vengono soddisfatti per circa l’80% dai combustibili fossili e per molti decenni ancora saranno questi a garantire un apporto sostanziale, perché l’uso delle energie rinnovabili è condizionato da fattori non solo tecnico-economici ma anche territoriali; l’utilizzo del nucleare, inoltre, pur tecnicamente maturo e competitivo, trova scarso consenso sociale. A tal proposito, in Italia, sono state attuate politiche di promozione delle energie rinnovabili che si ispirano agli obiettivi del «Libro Bianco per la valorizzazione energetica delle rinnovabili» (approvato con delibera Cipe n. 126 del 1998), redatto in relazione agli impegni assunti e sottoscritti dal Governo Italiano nel Protocollo di Kyoto e ratificati con la legge n. 120 del 20022. Analizzando anche i dati diffusi dall’Unep3 e dall’Agenzia internazionale dell’energia (AIE o IEA) emerge che, in Italia nel 2010, le energie rinnovabili hanno contribuito alla copertura della Tpes (offerta totale di energia primaria) con una quota pari all’8,2%, il che rappresentava un valore inferiore del 9,4% rispetto alla media dei Paesi europei dell’area Ocse ma superiore del 7,1% rispetto alla prestazione totale dei paesi membri dell’Aie. La maggior parte delle fonti di energia rinnovabile in Italia è rappresentata dall’energia idroelettrica e geotermica che, insieme, ammontavano al 63,5% del totale delle energie rinnovabili prodotte nel 2010, percentuale al di sopra della media dell’energia proveniente da queste fonti dei Paesi dell’area Ocse, che è invece pari al 42,4%. La produzione 2 Nel 1972, a Stoccolma, fu organizzata la prima conferenza sull’ambiente e lo sviluppo, organizzata dall’ONU. Nel 1990 fu costituito un Comitato Negoziatore Intergovernativo che ebbe il compito di redigere una convenzione-quadro sui cambiamenti climatici, sottoscritta a New York, due anni dopo, da 154 Stati. Il protocollo di Kyoto, entrato in vigore il 16 febbraio 2005, si configura come lo strumento applicativo di tale convenzione e prevede l’obbligo da parte dei 35 Paesi, che hanno ratificato l’accordo e responsabili del 55% di emissioni di gas serra, di ridurre entro il 2014 le emissioni di gas inquinanti (soprattutto anidride carbonica e metano) del 5% circa rispetto a quelle del 1990. I governi mondiali stanno, quindi, cercando le migliori politiche economiche e fiscali per incentivare l’utilizzo, da parte di imprenditori e privati, di tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili. «Sono da considerarsi energie rinnovabili quelle forme di energia generate da fonti che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi umani. Sono dunque generalmente considerate fonti di energia rinnovabile il sole, il vento, il mare, il calore della Terra, ovvero quelle fonti il cui utilizzo attuale non ne pregiudica la disponibilità nel futuro. Sebbene, le risorse naturali di energia siano quasi illimitate (basti pensare all’energia proveniente dal Sole o dalle rocce calde sotterranee), i problemi della sua fruizione riguardano, quindi, le riserve, che sono limitate, perché si basano esclusivamente sulle attuali possibilità di sfruttamento» (De Vecchis, 2001, p. 132). 3 L’Unep è il programma ambientale delle Nazioni Unite, istituito nel 1972 come organismo destinato a conseguire il fine della tutela ambientale e dell’utilizzo sostenibile delle risorse naturali, realizza studi volti a monitorare le condizioni ambientali per la tutela delle risorse naturali e paesaggistiche; la sua sede generale è a Nairobi, in Kenya. 34 da fonti rinnovabili, in Italia, è aumentata rispetto al 2000, quando rappresentava il 5,9% del Tpes, un livello leggermente superiore alla media dei Paesi dell’Aie che era pari, un decennio fa al 5,6%. In Italia, oltre a quella geotermica4, tra le principali fonti rinnovabili di energia ricordiamo quella eolica5, la cui diffusione su larga scala trova limiti nei caratteri intermittenti del vento. Anche il mare può essere fonte di energia6 e grandi aspettative sono rivolte all’energia solare soprattutto per quanto riguarda la costruzione di impianti fotovoltaici7. Ma, il settore più esigente è quello edile, responsabile da solo del 30% dei consumi energetici totali. L’attività edilizia, per il suo enorme peso produttivo, è uno dei settori industriali a più alto impatto ambientale; in questo settore occorre investire in progetti di efficienza energetica8. 4 L’energia geotermica sfrutta il calore interno delle rocce del sottosuolo, le quali, venendo a contatto dell’acqua che filtra dalla superficie, la riscaldano fino a trasformarla in vapore. Perforando il terreno si raggiunge il vapore intrappolato nel sottosuolo, che liberato, si può sfruttare per generare energia elettrica; occorre però individuare le zone dove il calore è concentrato in prossimità della superficie terrestre. 5 Per quanto riguarda l’energia pulita prodotta dal vento, possiamo affermare che esistono impianti in grado di soddisfare il fabbisogno di un piccolo centro abitato. Questi generatori sono in grado di produrre fino a 3 Megawatt con una velocità del vento di 3-4 metri al secondo. A tal proposito, possiamo notare che ci sono significativi esempi di geografia regionale (Landini, 2000; Prezioso, 2000) che discutono sul ruolo propulsore di sviluppo detenuto da impianti nei confronti del territorio circostante. Ma, ci sono anche casi di studio in cui vengono evidenziate alcune criticità in termini di impatto paesaggistico provocato dalle torri eoliche (Giorgio, 2007). 6 I francesi hanno primeggiato nello sfruttamento dell’energia delle maree. Nell’estuario del fiume Rauce, presso Saint Malo, esiste una centrale che accumula acqua in un bacino artificiale quando il livello del mare sale (alta marea) e la libera attraverso turbine quando il livello del mare scende (bassa marea). Ma, oggi, anche in Italia, sono presenti casi esemplari di sfruttamento energetico delle correnti marine. Se ne parlerà nel paragrafo successivo. 7 Un impianto fotovoltaico è in grado di trasformare direttamente l’energia solare in energia elettrica. Composto da moduli o pannelli, che rappresentano la parte attiva del sistema (perché convertono la radiazione solare in energia elettrica) e inverter, che trasformano la corrente continua generata dai pannelli in corrente alternata, offre la possibilità di produrre energia in totale sicurezza con assenza di qualsiasi tipo di emissione inquinante. Esso è caratterizzato da un elevato costo iniziale (dovuto essenzialmente all’elevato costo dei pannelli) e da una produzione discontinua a causa della variabilità della fonte energetica: il sole. Considerando che la massima potenza erogata alle utenze domestiche è di 3 kilowatt, una pala è in grado di soddisfare il fabbisogno di circa 1000 utenze domestiche, corrispondenti a 4000-4500 persone (considerando 4 abitanti medi per nucleo famigliare; si tratta delle dimensioni medie di un comune italiano). 8 L’efficienza energetica inerisce interventi di riqualificazione edilizia (favorita da recenti iniziative di incentivazione fiscale). Tali interventi riguardano principalmente gli impianti di condizionamento, i sistemi di illuminazione, i sistemi di monitoraggio dei consumi energetici e i prodotti per l’edilizia con particolari caratteristiche termiche, strutturali, estetiche e acustiche. Il concetto di passive house (di costruzioni a basso consumo energetico) come volano per lo sviluppo delle economie locali, sfrutta ciò che il territorio naturalmente mette a disposizione: il sole, il vento, la terra. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA PERCORSI INTERATTIVI ALLA SCOPERTA DI FONTI E FORME NUOVE DI ENERGIA ALTERNATIVE L’indagine attuata sinora ha avuto sorprendenti sviluppi anche sul piano turistico-ambientale. Fortunatamente da qualche anno ci si è accorti che lo sviluppo turistico deve tener conto, prima di tutto, dei valori e delle potenzialità dei luoghi, evitando di compromettere il paesaggio nei suoi aspetti naturalistici e antropici (Brusa, Papotti, 2012). A tal fine, questo contributo cercherà di illustrare una forma di turismo energetico (energy tourism), caratterizzata dalla sostenibilità e basata sulla diversificazione delle risorse energetiche presenti sul territorio. In tale ottica, l’energy tourism sostiene quello che viene definito «il tourist gaze, cioè il gusto per la geografia tesa alla valorizzazione delle identità locali, come valida alternativa al tourist good ovvero il turismo come bene di consumo (Staniscia, 2006, p. 62) infatti le risorse energetiche di un territorio conferiscono autenticità a quel luogo e «in questo contesto non c’è spazio per le tre f francesi (frime, fripe, frite: finzione, antico, fritto) (Brusa, 2013, p. 268)». Perciò, in tempi recenti in Italia, sono sorti Parchi tecnologici che, ispirandosi alla natura e alle caratteristiche del luogo, hanno creato itinerari attivi specifici di energy tourism all’insegna della sostenibilità. Partendo dal Sud Italia e procedendo verso Nord si può delineare una guida sulle vie dell’energia pulita e ai Poli scientifici e tecnologici italiani del turismo energetico ambientale. In Sicilia, a Messina c’è il Polo scientifico e tecnologico della Fondazione Horcynus Orca che con il patrocinio dell’Unido/Onu, del Centro Internazionale sulle Scienze e le Tecnologie Marine e Ambientali (ICSMT, orientato alla documentazione, ricerca, trasferimento tecnologico e sviluppo di competenze specialistiche), del Cnr-Iamc e di Ponte Archimede S.p.a ha recentemente attivato servizi complessi e percorsi specifici per la crescita del turismo ambientale, energetico, educativo e culturale. Tutto ciò è stato possibile grazie al brevetto, progettato e poi realizzato, con il supporto dell’Unione Europea e della Regione Sicilia della turbina ad asse verticale Kobold per lo sfruttamento energetico delle correnti marine9. In virtù di questa realizzazione, è stato possibile ospitare numerosi turisti attratti anche dall’impatto che la letteratura, la storia, la mitologia e le scienze naturalistiche esercitano sulle loro percezioni. In questo modo è stato possibile coniugare turismo e proposte formative sulle nuove frontiere della comunicazione e della produzione energetica delle correnti di marea10, in particolare. Il Parco Horcynus 9 Ulteriori azioni di ricerca riguardano la creazione di un sistema wireless territoriale, che costituisce la piattaforma base di telecomunicazione dei poli del Centro ICSMT e della Fondazione Horcynus Orca nello Stretto di Messina. La possibilità di produrre energie dalle correnti marine e specifici progetti di trasferibilità si stanno implementando con i Paesi del Sud-Est asiatico (Cina, Indonesia, Filippine). 10 Le proposte formative per i turisti prevedono, in generale, quattro ambiti di approfondimento: letterario (il Parco deve il suo nome al capolavoro di Stefano D’Arrigo che incentra la sua storia nei luoghi dove esso sorge; l’autore utilizza la lingua italiana e il dialetto calabrese e siciliano); Orca è stato, quindi, progettato come un organismo vivente sempre nuovo, un sistema di relazioni in continua osmosi fra saperi ed esperienza. Nel Subappennino Daunio in Puglia sono stati, invece, proposti e attivati i sentieri dell’energia eolica. Nel comune di Accadìa (FG), in località Murge del Cuculo e Monte Tre Titoli, sono in funzione dal 1999 due campi eolici, composti da 18 aerogeneratori11. La ventosità dei siti e le ore annue di funzionamento registrate hanno evidenziato un tal elevato standard di efficienza degli impianti da collocare il Subappennino Daunio tra i maggiori produttori di energia eolica a livello europeo. In virtù di questi risultati, è stato progettato un portale web per il turista del Parco eolico di Accadìa. Esso concerne un sistema esperto per la generazione degli itinerari e consente all’utente di ottenere la visualizzazione dell’ubicazione, la selezione e la scelta delle risorse da visitare e la possibile creazione di un itinerario personalizzato tra le risorse selezionate (su una tematica a scelta: arte, cultura, sport, energia, ambiente, devozione, terme). Il sistema consente tale scelta considerando la variabile tempo e la variabile distanza geografica dalle risorse turistiche; il sistema consente anche la visualizzazione dei percorsi più interessanti creati da altri utenti e la possibilità di valutarli. Anche il Parco delle energie rinnovabili (Per) umbro rappresenta un luogo concreto di incontro. Il Per si trova tra i comuni di Todi (PG), Amelia (TR) e Guardea (TR), a un’altitudine di 575 m, in un’area rurale distante da industrie e terreni adibiti all’agricoltura industriale. Trattasi di un’area d’Interesse Comunitario con alto pregio faunistico e botanico con un bosco di 6.000 ettari. Sorto nel 2005, la storia del Per nasce da un abbandono: l’agricoltura quantitativa e seriale12 aveva spopolato questi campi (che erano riusciti a naturalistico (il Parco prevede diversi percorsi di visita: la sala della terracqua fornisce attraverso la sequenza delle videoinstallazioni un viaggio virtuale tra l’antico mestiere della pesca per immergere il turista nell’habitat dei marinai); storico-mitologico (i luoghi di confine sono luoghi di transito: a Capo Peloro (ME) si sono insediate diverse popolazioni nel corso dei secoli); etno-antropologico (la visita guidata al luntro, l’antica imbarcazione che ha accompagnato per secoli l’uomo nelle attività di pesca e in particolare nella caccia al pescespada nelle acque dello Stretto). Questi quattro ambiti permettono di cogliere l’identità di un luogo; tra storia e mito si può navigare per riscoprire e comunicare il nostro senso di appartenenza a un territorio e le fasi salienti della nostra storia. Il Parco è, quindi, sede di spazi creativi, divulgazione scientifica, animazione alla lettura e alle sperimentazioni visivo-teatrali, percorsi interattivi multidisciplinari, spazi per l’arte contemporanea, scuole di sub e vela, dirette audio/video subacquee, ambienti attrezzati per studiare le fonti energetiche del mare e il suo habitat: i pesci abissali, i fossili e i reperti archeologici. 11 Il Parco n. 1 in località Murge del Cuculo ha 12 aerogeneratori da 600 KW per una potenza installata pari a 7.2 MW; il Parco n. 2 in località Tre Titoli ha 6 aerogeneratori da 850 kW per una potenza installata pari a 3.6 MW. L’intero impianto eolico di Accadìa (FG) ha, quindi, una potenza installata totale pari a 10,8 MW e la capacità produttiva annua è di circa 30 milioni di kW/h. L’energia eolica prodotta viene consegnata direttamente sulla Rete di Trasmissione Nazionale (RTN) attraverso una sotto stazione di raccolta e trasformazione progettata e realizzata dalla Lucky Wind S.p.a. 12 L’agricoltura seriale si basa sull’uso delle serre e fertilizzanti chimici, retaggio novecentesco che non ha mantenuto la promessa di togliere il mondo dalla fame, anzi ha contribuito ad aumentare le differenze tra ricchi e poveri, provocando l’inurbamento di metà della popolazione mondiale e impoverendo i terreni. Alcuni studiosi hanno sottolineato: 35 GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 sfamare la popolazione per millenni). Conseguentemente, negli anni Sessanta il contadino, per vivere ha dovuto vendere il peso dei prodotti, non la loro qualità; ma non c’era acqua sufficiente per gli ortaggi da coltivare con l’agricoltura industriale. Così anche i contadini di queste terre sono dovuti andare in città a fare altri mestieri e comprare le verdure coltivate da altri; i campi erano stati riconquistati dai rovi e il casale era diventato un rudere. I fondatori del Per hanno, invece, puntato sulla riruralizzazione e lo sviluppo turistico di quest’area. L’agricoltura praticata è moderna, basata su lotta integrata, compostaggio, associazione, rotazione, dissuasori fotovoltaici (per tener lontani i cinghiali), recupero dell’acqua piovana13. Per i turisti sono presenti alloggi in edifici ecologici: si tratta di educarsi a un’autonomia energetica condivisa che implica una forma di turismo alternativa in cui si può apprendere come costruire una casa ecologica e autonoma energeticamente con costi poco dissimili a un edificio tradizionale14. In quest’area le più recenti tecnologie energetiche vengono coniugate ai castelli, i borghi, le rocche, i palazzi, le ville, i siti archeologici, le città d’arte, le iniziative teatrali, jazzistiche e culturali che costituiscono un forte richiamo per i turisti. Al Per è, quindi, possibile appassionarsi alle varie soluzioni tecnologiche condividendo anche altre attività inerenti le escursioni naturalistiche tra le colline umbre, le masserie didattiche, il ciclo trekking, i concerti, il degustare prodotti a chilometro zero e specialità gastronomiche del luogo. Perciò, presso il Per vengono organizzati numerosi corsi, stages e seminari. Così come in natura viene apprezzata la biodiversità anche tra i turisti è interessante cogliere le diverse motivazioni che conducono al Per. Un’altra tappa interessante sulle vie dell’energia pulita si trova nella Comunità Montana Alta Val di Cecina, nel Comune di Pomarance (PI); a circa 35 km dalla città di Volterra (PI) è presente l’area geotermica più estesa dell’intera Europa continentale, ancora oggi chiamata la «Valle del Diavolo». Il viaggio attraverso questi territori (che un tempo «L’espansione delle aree urbanizzate, con la trasformazione delle precedenti destinazioni d’uso (ad es. agro-pastorali, boschive, umide), è un processo che, nel nostro Paese, sembra inarrestabile e che invade le aree e i paesaggi rurali (Salvati L. e altri, 2011)». Occorre, perciò: «porre un freno ad un’agricoltura fondata su sistemi di esasperato efficientismo produttivo, i quali provocano la rottura di fragili equilibri naturali e innescano meccanismi di alterazioni ambientali irreversibili. Non si tratta di esaltare l’agricoltura tradizionale, né di condannare alcune esperienze che rispondono a certi bisogni, bensì di fare delle constatazioni, segnalare danni o rischi (Formica, 2004)» 13 Le acque piovane sono recuperate in grandi cisterne di pietra e poi, dopo la fitodepurazione, vengono utilizzate per innaffiare il giardino e per gli alloggi destinati ai turisti, che scoprono che l’acqua piovana è più amica della pelle e per lavarsi basta metà del sapone abituale. 14 I collettori solari sul tetto e i moduli fotovoltaici a film sottile per la produzione di energia elettrica si integrano con la struttura dell’ antico casale. I due generatori eolici sfruttano la brezza del luogo che ha un’ottima resa energetica. Due grandi serbatoi per complessivi 4000 litri accumulano il calore prodotto dai collettori solari e dalle caldaie a biomassa (alimentate in gran parte dal cippato e scarti agricoli pellettizzati) e forniscono l’acqua calda sia per i bagni sia per il riscaldamento. D’estate il calore prodotto in eccesso viene inviato alla vasca da idromassaggio esterna. In alcuni ambienti più esposti a sud, l’aria fresca viene pescata da una presa posizionata nel bosco esposto a Nord. 36 ha evocato spiriti e divinità) ci porta a conoscere i segreti del calore che si sprigiona e sale dal sottosuolo e dal quale l’uomo oggi ha ricavato energia elettrica, ha fatto sorgere stabilimenti termali e sviluppare industrie chimiche. Tra gli impianti antichi e moderni per l’utilizzazione del vapore e gli affioramenti geologici sono da segnalare: la Centrale geotermica e il Museo della geotermia di Larderello15; il pozzo dimostrativo e soffione16; le terme ellenistiche di Sasso Pisano 15 Presso questa centrale è possibile effettuare un percorso attrezzato che illustra la storia della produzione energetica. La prima centrale geotermica è entrata in esercizio nel 1913; oggi la geotermia produce il 25% del fabbisogno energetico della Regione Toscana. È, inoltre, incentivato il turismo scolastico (vedi anche nota 20) con una didattica all’ interno del Museo della geotermia. Agli studenti viene consegnata una medaglietta raffigurante uno dei quattro elementi caratteristici della geotermia: fuoco - acqua/ vapore - carica elettrica - luce. Il gruppo si muove nel Museo individuando con la guida i vari elementi. In questo modo viene stimolata l’osservazione, la manualità, la creatività, la capacità di sintesi e lo spirito di gruppo. Questo laboratorio didattico effettuato presso il Museo considera gli studenti come i protagonisti della visita. L’esperienza diretta costituisce la modalità per effettuare una ricerca-azione. 16 Si tratta di un vecchio pozzo geotermico che viene aperto a scopo dimostrativo; il pozzo dotato di moderne tecniche di museografia offre una cronistoria tra l’uomo ed i fenomeni geotermici illustrando un percorso SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA (PI) e Monterotondo Marittimo (GR)17; le Aziende agricole appartenenti alla «Comunità del cibo delle energie alternative» di Slow Food18. Quest’area geotermica presenta, quindi, un congruo insieme di elementi paesaggistici e naturalistici che consentono di costruire innumerevoli itinerari di visita. Tutto ciò dà adito a un laboratorio didattico di educazione ambientale e paesaggistica nel segno della sostenibilità19. che partendo dagli utilizzi della risorsa nel periodo etrusco e medievale ci conduce verso lo sviluppo industriale e la sfida odierna delle energie alternative; ha una portata di circa 20t/h di vapore a 220°C e ci trasmette l’immensa potenza dell’energia della terra che oggi l’uomo cerca di catturare fino oltre i 3000 metri di profondità. 17 Si tratta di un luogo inserito dalla Regione Toscana tra i Siti di Interesse Regionale per la presenza di importanti habitat e specie vegetali. Una terra ricchissima di minerali che nel Medioevo hanno determinato vere e proprie guerre per il loro sfruttamento. 18 Trattasi di aziende agricole di produzione e trasformazione di prodotti alimentari che utilizzano i fluidi geotermici per i loro processi di lavorazione. In particolare, la coltivazione del castagno, a partire dal periodo etrusco ma soprattutto nel Medioevo ha condizionato fortemente la storia, le tradizioni e la cultura di questi luoghi. I castagneti da frutto rappresentano inoltre straordinari habitat per importanti specie animali e vegetali. 19 Trattasi di laboratori artistico-sensoriali che si basano su brevi escursioni geografiche alla scoperta del cibo cotto sul vapore naturale, di terre colorate e di sfumature delle rocce. Presso i siti geotermici di Sasso Pisano Un altro esempio è il Parco delle energie rinnovabili Fenice, a Padova in Veneto. Ubicato in un’area peri-urbana al confine fra il centro della città e le 1400 imprese insediate nella Zona Industriale: l’Isola di Terranegra, il Parco è sorto nel 2001 e si sviluppa su un’area di 1800 mq. L’idea di questo Parco è nata dalla volontà di valorizzare uno degli ultimi polmoni verdi della città di Padova. Anche Fondazione Fenice organizza, così, corsi di alta formazione per aziende e professionisti per favorire la conoscenza delle fonti di energia alternative e le loro possibili applicazioni in ambito civile e industriale. Inoltre, affitta le strutture per meeting aziendali sostenendo lo sviluppo dell’energy tourism. Gli obiettivi posti mirano a: costruire un modello di sviluppo ecocompatibile del territorio; predisporre piani energetici integrati per le piccole e medie realtà industriali e artigianali del territorio; attivare percorsi turistici sui temi dell’energia e dell’ambiente rivolti alle famiglie, ai giovani, alle scuole e agli imprenditori; coinvolgere le associazioni, la cittadinanza e il mondo imprenditoriale in progetti etico-ambientali; educare alla corretta formazione ambientale dei giovani e dei cittadini attraverso l’insediamento di una struttura ricettiva capace di integrare attività turistiche, ludiche e didattiche; monitorare la salute delle principali risorse ambientali; creare un luogo dedicato alla promozione dello scautismo (che conta più di 7000 iscritti nel solo territorio provinciale). Altro esempio di questo tipo è Enertour, il Parco tecnologico della Provincia Autonoma di Bolzano, progetto nato nel 2007 e sviluppato dal TIS innovation park insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano. È rivolto essenzialmente ai professionisti o agli addetti degli enti pubblici che intendono conoscere meglio gli impianti energetici. L’intento è quello di unire ricerca di nuove tecnologie appropriate e sviluppo turistico energetico in linea con le attuali esigenze di tutela ambientale del paesaggio e sviluppo sostenibile del territorio. Questi esempi delineati si distinguono per aver pienamente condiviso la strada di un turismo etico, responsabile e sostenibile. Essi sono espressione «della consapevolezza di sé e delle proprie azioni, della realtà sociale, culturale, economica, ambientale delle destinazioni visitate, della possibilità di una scelta diversa e, in taluni casi, alternativa alle pratiche turistiche tradizionali. Il turista diventa un viaggiatore etico e consapevole che, con rispetto e disponibilità, va incontro alle mete di destinazione, alla gente, alla natura, facendosi portatore di principi di equità, sostenibilità e tolleranza (Cerruti, 2007, p. 30)». Così operando «la meta turistica torna a (PI) e del Lago Boracifero (GR), l’acqua viene utilizzata per far funzionare le centrali elettriche e geotermiche e l’acqua è il tema intorno a cui ruotano le escursioni geografiche. Si tratta di visite guidate che si svolgono nell’area geotermica e che permettono di conoscere i resti archeologici legati alle acque termali, alla flora e alla fauna che vivono in acque dolci, nelle acque ferme dei laghi, in quelle zampillanti dei ruscelli, nelle acque geotermiche calde e in quelle fredde delle sorgenti montane. Il laboratorio di storia delle acque geotermiche è, quindi, un laboratorio didattico all’aperto dove è possibile effettuare anche la misurazione della qualità dell’aria attraverso l’Indice di Purezza Atmosferica (osservando i licheni presenti sulle cortecce degli alberi) e/o della qualità delle acque attraverso l’Indice Biotico Esteso (osservando gli invertebrati acquatici presenti nelle acque). 37 GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 essere uno spazio vissuto e gli spazi non sono alienati e alienanti (Brusa, 2013, p. 268)». «L’idea di viaggio verso i valori della sostenibilità emerge anche dal rapporto Gli italiani, il turismo sostenibile e l’ecoturismo, dal quale si evince un sistema turistico integrato (SIT) in linea con le richieste di uno slow tourism sensibile nei confronti delle soluzioni ecocompatibili, o più semplicemente eco-friendly (Albanese, 2012, p. 490). I luoghi vengono raggiunti per conoscerli, viverli e apprenderli e questo nuovo modo di intendere il viaggio determina la scelta di mete e itinerari diversi in grado di comprendere anche quelle che sono le risorse naturali e le vocazioni energetiche di un territorio. RIFLESSIONI CONCLUSIVE E PROPOSTE Alla luce di quanto sinora esposto si può affermare che recentemente in Italia, ha preso avvio un’importante attività di energy tourism. Questa forma di turismo energetico ha acquistato un significato strategico ai fini dell’acquisizione da parte dei cittadini di un comportamento cosciente e propositivo verso il proprio habitat. Inoltre, si è sviluppato l’interesse anche didattico20 dei percorsi escursionistici proposti dall’ energy tourism in linea con i requisiti indicati nella «Carta Europea del turismo sostenibile». La crescita della sensibilità nei confronti di questo tipo di turismo, emerge in modo evidente se si analizza il numero dei visitatori. In particolare, nel 2012, il Museo della geotermia di Larderello a Pomarance (PI), è stato visitato da 20.590 persone, mentre il Parco delle Biancane di Monterotondo Marittimo (GR) ha registrato 33.498 accessi. Alle 54.088 visite si aggiungono poi le tappe all’indotto agroalimentare della geotermia, alle terme etrusco romane di Bagnone (MS) e alle Centrali geotermiche alle pendici del Monte Amiata, in Toscana; il parco Fenice (PD) fornendo un centro di formazione ambientale permanente riesce ogni anno a ospitare 450 scolaresche provenienti da varie regioni d’Italia. Possiamo dedurre, dunque, che il turismo energetico per il numero di persone che coinvolge nel panorama rappresenta una forma di turismo destinata ad avere un trend di crescita elevato nel prossimo futuro (De Pascali, 2008) e per favorire il crescente interesse nei confronti di questo modo di intendere il rapporto fra energia e turismo potremmo trarre ispirazione anche dalla realizzazione dei nuovi percorsi creati per il geoparco in Val Graveglia (GE) (Faccini, Marescotti e Robbiano, 2000; Terranova, 2004). Alcuni autori hanno sottolineato, in generale, che «il turismo contribuisce alla cura e alla guarigione di alcune malattie tramite soggiorni climatici al mare, ai monti o in località 20 Questo dato pone in rilievo che i temi e gli argomenti geografici sono centrali in un processo formativo (De Vecchis, 2001) e «lo studio della geografia fornisce un insieme di strumenti che possono diventare metodo, un metodo aperto, articolato e flessibile che può trovare efficace applicazione nei percorsi di turismo scolastico responsabile (vedi anche nota 15). Vengono così indossate le lenti della geografia per imparare a guardare il mondo con altri occhi» (Cerruti, 2007, p. 30). 38 termali, rinnovando il legame tra questa pratica e il miglioramento della qualità dell’esistenza (Cannizzaro, 2011, pp. 31-33)»; si pensi anche «alla necessità di evadere dal contesto stressante in cui si vive (Montanari, 2009)». Con questo contributo si vuole evidenziare, in particolare, il ruolo che la realizzazione di questa tipologia di offerta turistica svolge. Esso mira a sensibilizzare e a coinvolgere la popolazione e la comunità locale che, grazie alla prossimità spaziale, può apprendere nuovi modelli comportamentali. A questo punto, è opportuno effettuare un’analisi SWOT dell’energy tourism i cui punti di forza sono rappresentati dalle nuove opportunità per apprendere tecniche di tutela ambientale e dalle scelte di adottare modelli comportamentali differenti. Da questi punti di forza si rendono anche evidenti i punti di debolezza del sistema: la mancanza di divulgazione scientifica per la conoscenza di questo nuovo tipo di turismo e la possibile assenza di programmazione. Le opportunità sono derivate dall’effetto virtuoso del turismo, che ha la capacità di valorizzare in maniera trasversale nuove risorse, come quelle energetiche. I vincoli sono costituiti dalla scarsità di investimenti utili a organizzare e divulgare il successo di tali iniziative. Per fronteggiare le criticità, alcuni autori hanno valorizzato il ruolo delle associazioni, delle reti tra piccole e medie imprese e dei sistemi di volontariato come incentivo nel miglioramento dell’immagine, dell’accessibilità e della fruibilità delle risorse energetiche per lo sviluppo di un turismo sostenibile (Alhroot, 2012). Altri autori hanno, invece, mirato a «far emergere il ruolo dei social networks, blogs e siti web (Albanese, 2012, p. 490)» che potrebbero incentivare nuove attività in campo turistico-energetico. I tour operators si sono, così, attivati nel proporre offerte di visita su misura che presentano il viaggio come un’esperienza di vita. I programmi sono costruiti ad hoc e fanno leva sugli aspetti emozionali dell’esperienza di viaggio che invita a «godere di tutte le possibilità di appagamento estetico e sensoriale che i luoghi offrono» (Brusati, Dessilani, 2007, p. 30). Esso si propone come una sorta di ipertesto reale dove il turista può disegnare un proprio percorso di ricerca e di fruizione personalizzato (Andreotti, 2011). Si mira a una forma di turismo esperienziale che scaturisce dalla conoscenza di nuovi modelli di vita cui ispirarsi e aspirare. L’interesse, nei confronti di questo argomento vuole però esulare dal semplice calcolo del reddito che esso può apportare nell’ambito del Prodotto Nazionale Lordo e dall’occupazione che può assicurare alla popolazione attiva perché fondamentale sembra il parametro della qualità della vita, cui l’energy tourism è in grado di contribuire a promuovere. La letteratura geografica, infatti, riconoscendo tra le cause motivanti del turismo la condivisione e la conoscenza dell’altro (Ooi e Laing, 2010) permette di affermare che l’incontro tra domanda e offerta turistica non è solo un evento economico, ma diventa anche un fattore culturale e ambientale che si basa sul rispetto e la fiducia. A tal proposito, alcuni autori hanno aggiunto: «Le motivazioni del turista internazionale del XXI secolo rimangono orientate verso le vacanze (51%) SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | GEOGRAFIA ma i nuovi turisti provenienti dai Paesi emergenti sono assetati di cultura, di modelli di stili di vita, di esperienze efficaci» (Casari, Spinelli, 2014, p. 25). In linea con tali aspettative, l’energy tourism costituisce, dunque, un ponte innovativo fra ricerca scientifica, innovazione tecnologica, linguaggi creativi, incontri fra culture, sperimentazione di economie solidali e divulgazione partecipata e diviene espressione di «quel contatto intimo e pregnante tra gli uomini e le realtà fisiche con le quali coabitano nel territorio» (Saibene, 1974). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ALBANESE V., Slow tourism e nuovi media: nuove tendenze per il settore turistico in «BSGI», 2013, pp. 489-503. ALROOT H. A., An evaluation of Social Marketing in Humanitarian Tourism Requirements by Using Social Networking Sites, in «International Journal of Marketing Studies», 2012, 4, pp. 130-143. ANDREOTTI G., Amazzonia emozionale. Porto Velho, in «BSGI», 2011, pp. 241-272. BAGLIANI M. e A. PIETTA, Chiavi di lettura geografica applicate all’ambiente. Riflessione critica sugli indicatori ambientali, in «BSGI», 2008, pp. 73-94. BARBINA G., La geografia umana nel mondo contemporaneo, Roma, Carocci, 2000. BISSANTI A. A., Geografia attiva. Perché e come, Bari, Adda, 1993. BIZZARRI C. e G. QUERINI (a cura di), Economia del turismo sostenibile: analisi teorica e casi di studio, Milano, F. Angeli, 2006. BRANDOLINI P. e altri, Geodiversità della Val Graveglia (Appendino Ligure). Proposte per la valorizzazione turistica e la realizzazione di un geoparco, in «BSGI», 2008, pp. 913-927. BRUSA C., Turismo, qualità della vita e sviluppo locale, in E. PARATORE e R. BELLUSO (a cura di), Studi in onore di Cosimo Palagiano. Valori naturali, dimensioni culturali, percorsi di ricerca geografica, Roma, Edigeo, 2013, pp. 261-272. BRUSA C. e D. PAPOTTI, L’indissolubile legame tra agricoltura e paesaggio, in F. POLLICE (a cura di), Rapporto annuale, 2012. I nuovi spazi dell’agricoltura italiana, Roma, Società Geografica Italiana, 2012, pp. 98-100. BRUSATI D. e F. DESSILANI, Turisti per casa. Percorso inusuale per imparare a guardarsi intorno, in «Ambiente Società Territorio», 52, 2007, n. 6, pp. 27-30. CANNIZZARO S., Il turismo, motivazioni, destinazioni e tipologie, in S. CANNIZZARO (a cura di), Per una geografia del turismo. Ricerche e casi di studio in Italia, Bologna, Patron, 2011, pp. 25-61. CASARI M. e G. SPINELLI, L’esposizione universale Milano 2015 e il rinnovamento del turismo italiano, in «Ambiente Società Territorio», 59, 2014, n. 1, pp. 25-28. CERRUTI S., Viaggi di istruzione. Per un turismo scolastico responsabile e di qualità nel nostro Paese, in «Ambien- te Società Territorio», 52, 2007, n. 4, pp. 27-30. CIATTONI A. e V. YVETTE, Géographie e géopolitique des énergies, Parigi, Hatier, 2007. CIPE [Comitato interministeriale per la programmazione economica], Libro Bianco per la valorizzazione energetica delle rinnovabili, Delibera 1998 /126. Commissione delle comunitÁ europee [Commission of the European Communities], Europe 2020. A Strategy for Smart, Sustainable and Inclusive Growth, Bruxelles, CEC 2010. CORNA PELLEGRINI G., Turisti viaggiatori: per una geografia del turismo sostenibile, Milano, Tramontana, 2000. DECRETO LEGISLATIVO, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, 2008/62. DECRETO MINISTERIALE, Certificati Bianchi. Titoli di efficienza energetica, 28/12/2012. DE PASCALI P., Città ed energia. La valenza energetica dell’organizzazione insediativa, Milano, F. Angeli, 2008. DE VECCHIS G., Appunti di Geografia Generale, Roma, Edizione Kappa, 2001. DEWALLY J. M. e E. FLAMENT, Geografia del turismo e delle attività ricreative, Bologna, Clueb, 1996. ELLIOT D., Renewable Energy and Sustainable Futures, in «Futures», Oxford, 2000, pp. 261-274. ESDP [European Spatial Development Perspective], Towards Balanced and Sustainable Development of the Territory of the EU, Bruxelles, Committee on Spatial Development, 1999. ESPON [Rete Osservazione e Pianificazione Spaziale Europea], Project ReRisk, Regions at Risk of Energy Poverty, 2013b, on line: www.voxeu.org/index.php?q=node/564435 EUROPEAN UNION, Territorial Agenda of the European Union. Towards a more competitive and sustainable Europe of diverse regions, Leipzig, May 2007. FACCINI F. e altri, La Val Graveglia, un tesoro geologico nell’Appennino Ligure, Genova, Ente parco dell’Aveto, Fassicomo, 2000. FARINELLI F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino Einaudi, 2003. FEDERAZIONE Europark, Carta Europea del turismo sostenibile, Grafenau Deutschland, Federazione Europark 1993, ristampato 2001. FORMICA C., Geografia dell’Agricoltura, Roma, Carocci, 1996, ristampa: 2004. GIORGIO A. (a cura di), Ambiente, salute e qualità della vita, Bari, Cacucci, 2007, pp. 129-146. GROTTANELLI de’ SANTI E., Guida alle microvacanze in Italia, Milano, Altreconomia, 2014. INNOCENTI P., Geografia del turismo, Roma, NIS, 1990. ISNART (a cura di), Indagine quantitativa sui comportamenti turistici degli italiani. Rapporto 2012, Available from: http://www.isnart.it/bancadati/index.php [accessed on: 1 July 2013] LEED E. J., La mente del viaggiatore: dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992. LANDINI P., Energia elettrica e industria in Abruzzo, in 39 GEOGRAFIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 «BSGI», 2000, pp. 23-34. LOZATO-GIOTART J. P., Geografia del turismo: dallo spazio visitato allo spazio consumato, Milano, F. Angeli, 1990. OOI N. e J. H. LAING, Backpacker Tourism: Sustenaible and Purposeful?, in «Journal of Sustanaible Tourism», 2010, 18, pp. 191-206. MARTINENGO M. C. e L. SAVOJA, Il turismo dell’ambiente, Milano, Guerini studio, 1999. MAZZETTI E., Consumo e rigenerazione del paesaggio turistico, in «BSGI», 2005, pp. 281-293. MIOSSEC J. M., L’image touristique comme introduction à la géographie du tourisme, in «Annales de Géographie», 86, 1976, pp. 55-70. MONTANARI A., Ecoturismo. Principi, metodi e pratiche, Milano, Mondadori, 2009. NIJHUIS M., Esiste il carbone pulito?, in «National Geografhic», 2014, pp. 2-27. NOCIFERA E. (a cura di), Turismatica: turismo, cultura, nuove imprenditorialità e globalizzazione dei mercati, Milano, F. Angeli, 1997. PINNA M., L’informazione in tema di cambiamenti climatici. Molto sensazionalismo e scarsi contenuti scientifici, in «BSGI», 2004, pp. 319-334. POLLICE F., Territori del turismo. Una lettura geografica delle politiche del turismo, Milano, F. Angeli, 2002. Prezioso M., Aspetti geografici della rete elettrica molisana, in «BSGI», 2000, pp. 35-68. PUTTILLI M., Per un approccio geografico alla transizione energetica, in «BSGI», 2009, pp. 601-616. ROGNINI P., Educare alla cultura del paesaggio. Sperimentazione di un protocollo educativo nelle Scuole medie inferiori, in «BSGI», 2012, pp.89-104. SAIBENE C., Geografia degli insediamenti, Milano, Vita e Pensiero, 1974. SALVATI L. e altri, Soil Sealing e Urban Sprawl nei territori in transizione: una prospettiva italiana, in «Rivista Geografica Italiana», 2011, pp. 269-296. SALVATI L. e L. PERINI, Il peso (in)sostenibile del cambiamento climatico, in «BSGI», 2011, pp. 523-539. SEGRE A., L’industria elettrica e il paesaggio, in G. ZANETTI (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 811-820. SODANO G., Conoscere Kyoto, in «Mensile della Lega Navale Italiana», 2005, pp. 16-22. STANISCIA B., Significati e contenuti dello sviluppo locale, in L. BUZZETTI e A. MONTANARI (a cura di), Nuovi scenari turistici per le aree montane, Trento, Artimedia, 2006, pp. 52-80. STROPPA C. (a cura di), Sviluppo del territorio e ruolo del turismo, Bologna, Cooperativa libraria universitaria, 1976. TERRANOVA R. e altri, Valorizzazione turistica di emergenze geomorfologiche e geominerarie: l’itinerario del Rio Novelli in Val Graveglia (Appennino Ligure), in «Atti del 2° Convegno Nazionale Geologia e Turismo, Opportu40 nità nell’economia del paesaggio (Bologna, 3-4 novembre 2004)», Bologna, Regione Emilia Romagna, 2004, pp. 142144. SITOGRAFIA AITR – Associazione Italiana Turismo Responsabile http://www.aitr.org AEA – Agenzia Europea dell’Ambiente http://www.eea.europa.eu ARTI – Agenzia Regionale per la Tecnologia l’Innovazione Regione Puglia http://www.arti.puglia.it IEA – Agenzia Internazionale dell’energia http://www.iea.org ESPON – Rete Osservazione E Pianificazione Spaziale Europea http://www.espon.eu ISTAT – Istituto Nazionale di Statistica http://www.istat.it ITAE – Istituto di Tecnologie Avanzate per l’Energia http://www.itae.cnr.it LEGAMBIENTE e KYOTO Club – Associazione e Organizzazione no profit ambientaliste www.qualenergia.it http://www.kyotoclub.org MUSEI VAL DI CECINA http://www.museivaldicecina.it PARCO ENERGIE RINNOVABILI - ACCADÌA (FG) http://www.montidauniturismo.it http://www.luckywind.it PARCO ENERGIE RINNOVABILI- BOLZANO http://enertour.bz.it PARCO ENERGIE RINNOVABILI- MESSINA http://www.fdcmessina.org http://www.horcynusorca.it PARCO ENERGIE RINNOVABILI- PADOVA http://fondazionefenice.it PARCO ENERGIE RINNOVABILI- RAVENNA http://www.anteritalia.org PARCO ENERGIE RINNOVABILI- UMBRIA http://www.per.umbria.it TCI – Touring Club Italiano http://www.touringclub.it UNEP – United Nations Environment Programme http://www.unep.org SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA Il sacro in Tintoretto. O della luce. Breve saggio sull’opera d’arte come medium ed exemplum. Verso una pedagogia del sentire MARIA D’AMBROSIO Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa «La luce, la presenza: ciò che, in un altro linguaggio, possiamo chiamare l’aperto. È all’aperto che non abbiamo accesso, perché l’aperto è l’accesso a tutto ciò che è. La presenza non è una forma o una consistenza dell’essere, è l’accesso. La luce non è un fenomeno, ma la velocità limite del mondo, quella di ogni apparizione e di ogni esposizione» (Jean-Luc Nancy, 1994-2001, Le Muse, tr. it., Reggio Emilia, Diabasis, pp. 95-96) «Il filosofo disdegna le apparenze in quanto le sa periture. Anche il poeta lo sa ed è il motivo per cui vi si aggrappa, le piange prima ancora che trascorrano, le possiede e già le piange, perché già nel possesso vive la perdita» (Maria Zambrano, 1996, Filosofia e poesia, tr. it., Bologna, Pendragon, 2002-2010, p. 58) «Dichiarazione. Siamo un’ombra profonda, e voi non tormentateci, o inetti: un’opera tanto importante non si rivolge a voi, ma ai dotti. (…) Merlino all’artista. C’è uno che dipinse galli gallinacei, e costui, non essendo del tutto privo di prudenza, per evitare che potessero essere troppo gravemente biasimati i tratti incerti, tracciati da un artista inetto, istruì servitorelli e buoni amici, e vuole che questi caccino lontano i galli naturali. Sapendo questo, sta’ attento quando tu, il vero gallo, ti accosti ai galli dipinti, che riempono di stupore gli asini orecchiuti, a non doverti affliggere, cacciato via da un servo importuno» (Giordano Bruno, 1582, Le ombre delle idee, p. 40) C i arrivo che fuori è gelo. E pure dentro. È la Scuola Grande di San Rocco a Venezia: la confraternita di cui è stato confratello anche Jacopo Robusti detto il Tintoretto , a cui si devono i dipinti della sala e della sa1 1 Cfr. Romanelli, Giandomenico, 1994, Tintoretto: la Scuola grande di San Rocco, Milano, Electa; Gentili, Augusto, 2006, Tintoretto: i temi religiosi, Firenze, Giunti; Pallucchini, Rodolfo-Rossi, Paola, 1982, Tintoretto: le opere sacre e profane, Milano, Electa. Tintoretto, Giuda e Tamar (c. 1555 - 1559) letta al pianterreno e poi di quella al primo piano, carica direi, questa più che quella, delle opere del maestro, fino al soffitto. Una produzione di opere di gran pregio che testimonia della devozione e della determinazione che mossero l’artista a realizzare quella che si definisce una grande impresa pittorica, durata dal 1564 – anno della donazione della ‘Gloria di San Rocco’ – fino al 1587. Per questo la Scuola di San Rocco può divenire meta di una visita al Tintoretto e ai suoi temi sacri e suonare come vera e propria iniziazione alle sue opere: in pieno inverno e nel colmo del festare carnascialesco. Così mi sono trovata al suo cospetto, inondata da così copiose e generose opere, e, così, tra il freddo e la cupa ignoranza, le tele hanno cominciato a rivelare i segni di una scrittura non fatta 41 PEDAGOGIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 di figure né di corpi né di colori, quanto di soli colpi di luce a tagliare quelle figure, quei corpi e quei colori della materia, e dunque a segnare un sentiero possibile, un’apertura, una tensione all’oltrepassamento, desiderabile. A rivelare, cioè, di quella materia, altra consistenza: lo splendere e lo svelarsi di realtà inafferrabili eppure esistenti. Gli interrogativi che s’aprono - al cospetto di cotanta bellezza, che è piacere dei sensi, movimento estatico, anticipazione ed enfasi barocca del sentire sul conoscere - riguardano proprio i piani di realtà: il tentativo dell’artista di rappresentarne la varietà, la molteplicità, la densità e, di fatto, anche la loro unità2: quella tra cielo e terra, a manifestare una sacralità delle umane gesta che sempre è spinta e testimonianza di una divina, magica, presenza. Ricordo, allora, tra una tela e l’altra, che quella di San Rocco è Scuola grande, una delle poche ancora attive a Venezia. E grande perché dedita alla devozione di un Santo, ma soprattutto alle penitenze. Una confraternita, dunque, raccolta attorno al culto del Santo (taumaturgo e curatore degli appestati), e che in nome di questi ha esercitato ed esercita una significativa funzione sociale e politica, facendo del fasto della sua sede lo specchio di un prestigio acquisito e poi ‘esigibile’ fin nella vita ultraterrena. Un sodalizio tutto terreno con ‘giurisdizione’ sull’ultraterreno: si sa, è tipico delle confraternite di tutti i tempi e sostanzia sacrifici, penitenze, donazioni, opere caritatevoli e ogni altra attività sodale. In questo solco dunque, che collega terreno e ultraterreno, ha operato il Tintoretto, dandosi ad una produzione che si è configurata perlopiù come donazione e che opera tuttora a testimonianza di una ‘lettura’ rivolta alle sacre scritture e al vangelo che contiene tutto il suo intento divulgativo, ma, io dico, che non si esaurisce in esso: l’esperienza cui danno accesso le tele del Tintoretto incarna la tensione che è attribuibile a tutta l’arte e agli artisti sacri e che riguarda la questione e la dimensione etica, morale e spirituale del vivere umano. Se l’arte si è andata configurando nel corso del tempo come territorio di esplorazione del tema del sacro, ha assunto il compito di dar forma a quel sacro, conferendogli fattezze riconoscibili e capaci di forgiare e orientare un sentire comune. Non a caso lo studio e l’analisi delle forme estetiche e delle forme d’arte non è di sola ed esclusiva competenza ar2 A proposito di unità, qui il discorso ‘corre’ e incontra quella unione dei sensi che fa del Tintoretto il pittore del ‘parlar disgiunto’ che Torquato Tasso aveva attribuito al suo stesso poetare. A partire dall’Ut pictura poësis di Orazio e della sua Ars Poetica, Torquato Tasso elabora la propria teoria estetica che riconosce una profonda corrispondenza tra poesia e pittura e nel 1575, in occasione della pubblicazione della Gerusalemme liberata, in una lettera indirizzata a Scipione Gonzaga, scrive: «troppo spesso uso il parlar disgiunto; cioè quello che si lega piuttosto per l’unione dipendenza de’ sensi, che per copula o per altra congiunzione di parole». Giulio Carlo Argan (1957) riprenderà il parlar disgiunto di Tasso per farne la cifra comune al Tintoretto che fa dei due artisti degli antifigurativi e antinaturalisti e delle loro opere il ‘luogo’ dove ritrovare, ‘frammischiati’, tutti i sensi insieme. In particolare, cfr. Buzzoni, Andrea, 1985, Del parlar disgiunto fra poesia e pittura, in: Buzzoni, Andrea, 1985, a cura di, Torquato Tasso tra letteratura musica teatro e arti figurative, Bologna, Nuova Alfa Editoriale; e Argan, Giulio Carlo, 1957, Il Tasso e le arti figurative, in: Comitato per le celebrazioni di Torquato Tasso. Ferrara 1954, Torquato Tasso, Milano, Carlo Marzorati Editore, 1957. 42 tistica, quanto invece campo d’indagine di pertinenza molto più ampia che ha l’uomo come orizzonte di senso, insieme al sacro e al divino, e che rintraccia nelle opere d’arte quella documentalità, per dirla con Maurizio Ferraris (2009)3 che connette coscienza e storia, azione e intenzione, visibile con invisibile4. La questione della verità nelle cose rappresentate dagli artisti, non si pone (o almeno non è oggetto di questo breve scritto), come non si pone la questione della loro funzione teologica. Semmai potrebbe essere posta quella teofanica. Ma l’aspetto da cui intendo partire riguarda la ‘esemplarità’ delle opere d’arte, il loro significativo valore pedagogico cioè, la loro vocazione etica sostenuta dall’impianto estetico5. In questo senso l’opera è exemplum: vero e proprio ‘saggio’ del vivere bene, secondo regola morale, essa ha cioè funzioni da manuale ontologico ed epistemologico. Ciascuna opera racchiude in sé ed esprime questa intenzione che la sottende e la supera e che si realizza nell’incontro tra spettatore e concetto-idea-valore-storia che l’opera rappresenta e che, attraverso di essa, si rende accessibile ed esperibile. D’accordo con Ferraris (2009) e con la sua logica della esemplarità, rifletto sul fatto che «non si catalogano né la virtù in sé, né il musico in sé, né il rosso in sé o il suono in sé – ma solo esempi e fattispecie di virtù, di musici, di colori e di suoni. In breve (…) si classificano degli esemplari, cioè per l’appunto degli esempi, dei singoli generalizzabili»6. L’opera d’arte, e in questo caso le sessantuno tele del Tintoretto prodotte per la Scuola di San Rocco e la sua prestigiosa sede ai Frari, fa da ‘esempio’ la cui esemplarità sta nel rendere partecipabile e imitabile la ‘realtà’ rappresentata che a sua volta è mimesis di ‘altro’. Ferraris parla de «lo splendore della reificazione» e quindi de «il fatto che l’oggetto parli, e che taluni oggetti parlino meglio di altri. Così, - dice - gli oggetti danno evidenza visiva ai concetti»7. Nello specifico, poi, della decorazione del Tintoretto della Sala dell’Albergo nella Scuola Grande di San Rocco, Adriano Mariuz (2010) sottolinea quanto il genio visionario abbia «conferito alla sala (…) il 3 Cfr. Ferraris, Maurizio, 2009, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza. 4 Cfr. Merleau-Ponty, Maurice, 1964, Il visibile e l’invisibile, tr. it., Milano, Bompiani; Merleau-Ponty, Maurice, 1960, Segni, tr. it, Milano, Il Saggiatore, 1967 e in particolare a p. 44: «Nessuna cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile, e il visibile non comporta positività pura più dell’invisibile»; cfr. inoltre, proprio sulla pittura, Merleau-Ponty, Maurice, 1961, L’occhio e lo spirito, in: Merleau-Ponty, Il corpo vissuto, tr. it., Milano, Il Saggiatore, 1979. 5 In un certo senso si fa riferimento al ‘progetto’ che, più propriamente, María Zambrano (1991) colloca verso un sapere dell’anima e che individua nell’arte e nella poesia forme originarie di linguaggio sacro e vero e proprio “spazio vitale” dove è possibile far incontrare chiarezza e oscurità, in «una luce che accoglie in sé le ombre lasciando loro la possibilità del senso, prima che la luce smisurata e spietata del sole, astro unico, compaia mettendole in fuga nel buio indistinto della notte» (Prezzo, Rosella, 1996, Introduzione all’edizione italiana. Il cominciamento, in: Zambrano, María, 1991, Verso un sapere dell’anima, tr. it., Milano, Raffaello Cortina, 1996, p. XIII). 6 Ferraris, Maurizio, 2009, op. cit., pp. 7-8. 7 Ferraris, Maurizio, 2009, op. cit., p. 11. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA significato, come è stato scritto (De Tolnay) di un “oscuro atrio di miracolose rivelazioni, di soggettive illuminazioni religiose che, quasi attraverso aperture di finestre (portae coeli) divengono improvvisamente visibili nel soffitto e sulle pareti […]. La Sala diviene una scuola della ‘conoscenza di Dio’ in senso religioso-estatico”»8. Pertanto, di fronte a una raccolta così significativa di exempla, la visita alla Scuola di San Rocco si fa momento topico per una riflessione più ampia che riguarda la necessità, tutta umana e sempre più da rilegittimare direi, dell’arte e dell’esperienza artistica. Parto dall’opera come artefatto9 e quindi come ‘documento’ artistico che, grazie al dispositivo linguistico su cui è ‘forgiato’, contiene una significativa progettualità che suona axiologica e quindi che esalta e legittima le questioni formali come cariche di valore e di pathos. Il fatto che fino alla riproducibilità dell’opera d’arte10 essa abbia conservato nell’immaginario collettivo la sua aura e dunque la sua sacralità, fa dell’opera d’arte anche un possibile oggetto di culto. Intendo recuperare dunque la tesi di Benjamin (1936) e in particolare il nesso tra arte e religione per tornare all’aura dell’opera, e quindi alla sua sacralità, come ad una condizione che l’uomo di tutti i tempi cerca e di cui investe il suo rapporto con le cose scelte come exemplum e utilizzate come strumento di accesso alla dimensione sacra, appunto. Questa funzione ‘strumentale’ dell’opera è da connettere alla sua ‘oggettualità’ estetica che coinvolge la sfera del sentire dello spettatore e dunque agisce su di un piano fisico e, attraverso di esso, consente di accedere ad un piano meta-fisico11. Exemplum e medium, l’o8 Mariuz, Adriano, 2010, L’adorazione dei pastori di Jacopo Tintoretto. ‘Una stravagante invenzione’, Verona, Scriptaedizioni, 2011, p. 5. 9 Per la nozione di artefatto e quindi di artefatto cognitivo, cfr. Mantovani, Giuseppe, 1995, Comunicazione e identità, Bologna, Il Mulino. Sul tema specifico dell’artificio nell’estetica del Tintoretto, interessante è la ‘lezione’ che ci offre Giulio Carlo Argan (1957) - nel suo già citato saggio ‘Il Tasso e le arti figurative’ nel volume Torquato Tasso pubblicato a Milano dall’editore Carlo Marzorati in occasione delle celebrazioni che la città di Ferrara ha organizzato per Torquato Tasso - in cui ricorda «la congiuntura Tasso-Tintoretto» per sottolineare il loro comune ed esemplare passaggio dal Rinascimento al Barocco. In particolare Argan scrive «il Tasso è maestro di quel supremo artificio, che consiste nel dare all’espressione un’apparenza di spontaneità tanto maggiore quanto, in realtà, è maggiore lo studio, più sapiente ed elaborata la costruzione interna dell’immagine. È questa, s’intende, la condizione prima ed essenziale di un’arte che voglia anzitutto persuasione, rapporto di simpatia che si stabilisce tra l’artista e il suo pubblico. “Nasconder l’arte” è il precetto aristotelico che è alla base della teoria estetica barocca; e “l’arte che tutto fa, nulla si scopre” è il principio estetico fondamentale della poesia del Tasso» (p. 224). Riferendosi al Tasso e al Tintoretto, Argan parla de «lo stesso ‘luminismo’»: «un modo nuovo di vedere gli oggetti come cose in sé (…). Ciò che importa non è la cosa, né l’immagine nella sua concretezza plastica o coloristica, ma il giudizio sulla qualità che l’immagine esprime. È su quella valutazione che si vuole trovare e stabilire un accordo; e perciò l’immagine non deve imporsi, deve rimanere vaga e generica (…) è appunto per questa via che si passa dall’arte del Rinascimento all’arte barocca: che è un’arte in nessun modo interessata all’indagine oggettiva del reale, ma tutta rivolta ad appurare il valore dell’arte come mezzo di espressione e comunicazione dei sentimenti umani» (p. 218 e p. 223). 10 Cfr. Benjamin, Walter, 1936, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, tr. it., Torino, Einaudi, 1966-2000. 11 Il riferimento è all’ontologia merleau-pontiana, ovvero a quella che lo stesso Merleau-Ponty (1960) definisce «una riabilitazione ontologica del sensibile» che consente di guardare alla pittura come al prolungarsi della carne del sensibile in carne del linguaggio. Come sottolinea Mauro pera d’arte si sostanzia in un oggetto che viene trasceso ma da cui non si può prescindere. Per questo l’opera può essere intesa come parte di una ritualità che non è mera adesione alla morale contenuta nell’esempio, non è espressione di un potere esercitato attraverso la forza della sua materialità estetica che genera con-formazione, ma è quella forma ‘scritta’ e tangibile – e per questo la documentalità dell’opera e la sua oggettualità sottolineata dall’analisi e dalla proposta teorica di Ferraris (2009) – che nel provare a sottrarsi alla caducità del fenomeno ne afferma anche la necessità ontologica da cui si producono mondi e dunque ‘realtà’ epistemologiche esteticamente fondate. L’umano quando incontra l’arte afferma l’afferrabilità del suo spirito, così come del divino. La produzione artistica di tutti i tempi può essere intesa proprio come la ‘traccia’ di un sistema di credenze che investono l’ultraterreno, che ha la funzione di ‘soglia’ che offre a chi vi giunge la possibilità ‘tangibile’, quasi tattile direi, «di sentire l’insensibile ed esserne presi»12. Questa l’esperienza che affiora dal gelo delle sale della Scuola di San Rocco e dalla visione delle tele del Tintoretto: dai Cristi e dalle Madonne, dai Santi e dagli angeli, dalla luce e dalle ombre. Esperienza che sembra fare eco alla straordinaria lezione che Nancy (2003) offre nel ritornare al tema evangelico del Noli me tangere13. Se ritorno con Nancy a quell’episodio è per coglierne con lui tutto il valore metaforico del me mou háptou (Noli me tangere – Non mi toccare) di una sottrazione (quella che Gesù impone alla Maddalena) che corrisponde alla capacità della Maddalena di vedere apparire il Cristo nel sepolcro. «Maria Maddalena è la sola ad aver visto gli angeli nel sepolcro. I discepoli che l’avevano preceduta avevano occhi che non vedevano in questa oscurità. Al contrario lei vede. Non dissipa la notte dal sepolcro: vede la presenza di chi custodisce l’assenza»14. Il corpo del Carbone nella presentazione a Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty (1964), si tratta di un metodo indiretto: «Se infatti la metafisica ambisce alla coincidenza ma in tal modo finisce per operare soltanto “una sublimazione dell’Essente”, l’Essere non può che venire indagato svelando indirettamente e inesauribilmente, attraverso gli enti, la “differenza ontologica” fra questi e quello. (…) è emerso come l’ontologia che Merleau-Ponty intende elaborare, pur delineando una nuova impostazione della relazione fra il visibile e l’invisibile, conservi tuttavia al vedere la posizione privilegiata tradizionalmente accordatagli dalla cultura occidentale. Il mantenimento di tale privilegio, (…) conferma come la riflessione merleau-pontiana non si muova con l’intento di rinnegare velleitariamente quella tradizione, quanto piuttosto di operarne un radicale ripensamento» pp. 13-14. 12 Nancy, Jean-Luc, 2003, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, tr. it., Torino, Bollati Boringheri, 2005, p. 61. 13 Cfr. Matteo 12, 34-35; Marco 4, 33-34. L’episodio narrato è questo: «Maria si reca al sepolcro. Lo trova vuoto, e due angeli sono lì accanto. Ed essi le chiedono: “Donna, perché piangi?” Risponde loro: “Perché hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano messo”. Detto questo si voltò indietro e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le domanda: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?” E lei pensando fosse l’ortolano, gli dice: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi almeno dove l’hai messo e io lo prenderò!” Gesù allora la chiama “Maria!” Essa, voltandosi, esclama in ebraico: “Rabbuni!” che significa: Maestro! Gesù le dice: “Non toccarmi, perché non sono ancora disceso al Padre, ma ora va’ dai miei discepoli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria Maddalena corse ad annunziare ai discepoli: “Ho veduto il Signore”, e che le aveva detto tali cose» (Giovanni 20, 13-18). 14 Nancy, Jean-Luc, 2003, op. cit., p. 61. 43 PEDAGOGIA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Dio, che in quanto tale è inafferrabile, appare agli occhi di colei che tiene in sé la sensualità e pure la levità di un corpo15 e insieme ‘disegnano’ una figura carica di tensione al visibile e al tangibile, che allo stesso tempo eccede il senso stesso della figura rappresentabile (due corpi colti nel loro incontro che è già foriero di allontanamento, di un levarsi del corpo, appunto) e apre un varco verso l’invisibile. Tornare a quell’episodio del Cristo e della Maddalena ha qui il valore di ritornare all’uso della rappresentazione e quindi dell’opera d’arte come figurazione di una sfera propriamente inafferrabile – come la verità che appunto «non si lascia toccare né trattenere»16 - la cui sostanza può essere colta solo attraverso l’assenza e l’abbandono. L’incontro si realizza nel punto dell’abbandono: la Maddalena – che in senso metaforico cogliamo come l’essere umano che non rinuncia a sentire e a vedere (anche nell’oscurità) - «si abbandona a una presenza che è una partenza, a una gloria che è nient’altro che tenebra, a un sentore che è nient’altro che gelo»17. E, tornando alla Scuola di San Rocco e alla visione procurata dalle tele del Tintoretto, il gelo non era solo metaforico quanto una condizione fisica che ha giocato come ulteriore elemento significante la sottrazione, l’assenza, e dunque la mancanza, che è già evocazione e produzione di una presenza18. Se il sacro, il divino, il metafisico, sono quello spazio e quella dimensione che s’apre a partire dall’esperienza dell’opera d’arte, appare forse chiaro quanto il solo essere exemplum dell’opera non basti a dire di un potere che è abbandonico, potremmo dire, che l’opera può esercitare sulla sfera del sensibile. Tale potere non si esaurisce dunque nell’uso delle opere come parabole o come lezioni spirituali. Sarebbe come limitare l’educazione estetica19 a una pratica educativa di particolare ‘presa’ ed efficacia. Il ‘pedagogico’ che la sottende non è di cifra esplicativa e rivelatrice, tantomeno didascalica, ma richiede quella che Nancy chiama una ‘disposizione a ricevere’, a comprendere, che implica partecipazione e penetrazione, una vera e propria disposizione all’ascolto: in tal senso l’opera d’arte non mostra il divino dandogli un corpo di cui l’altro può fare esperienza, patendolo, sentendolo, trattenendolo a sé, ma ha il pregio di offrire come praticabile un aldilà del senso stesso che sconfina rispetto al ‘voler dire della rappresentazione’20 e afferma la possibilità di rintracciare il sacro, più che il divino, nella forma sensibile e di collocare nel sentire l’atto del dare e del prender forma (che avvicina al divino e che è il principio dell’arte stessa). L’oggetto artistico non si risolve dunque in un ‘modello’ cui conformarsi per vivere bene a questo mondo, tantomeno può ridursi a fare da 15 La levità è riferita in particolare a quella delle parole con cui la Maddalena annuncia ciò di cui è stata testimone. 16 Nancy, Jean-Luc, ibidem. 17 Nancy, Jean-Luc, op. cit., p. 62. 18 Cfr. le teorie di Wilfred Bion, Donald Winnicott, Melanie Klein. 19 Cfr. Gennari, Mario, 1994, L’educazione estetica, Milano, Bompiani; Schiller, Friedrich, 1795, L’educazione estetica, tr. it., Palermo, Aesthetica, 2005. 20 A questo proposito cfr. Derrida, Jacques, 1967, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, tr. it., Milano, Jaca Book, 1968-2010. 44 ‘guida pratica’ per conquistarsi il regno dei cieli. Forse il suo valore riconosciuto socialmente è questo, ma qui voglio più propriamente farne territorio privilegiato di un sensorio che fonda l’esperienza del sacro. La visita alle sessantuno tele del Tintoretto nella Scuola di San Rocco mi fanno sentire l’urgenza di riaffermare e rafforzare l’orizzonte sacro dell’arte, orizzonte che appunto l’incontro con le opere del Tintoretto m’ha reso presente e che ho provato a collegare con questioni che risuonano come estetiche della formazione21 e arrivano a toccare il tema, tanto caro a Maria Zambrano, della libertà nelle cose22: la narrazione contenuta in ogni tela, la plasticità e la drammaticità dei corpi, la composizione geometrica della scena rappresentata e l’irrompere in essa di altri piani di disequilibrio e di tensione narrativa, sono ‘elementi’ di un’estetica che, dentro il Rinascimento, anticipa stilisticamente e culturalmente la Modernità e tutto il suo portato epistemologico, ponendosi già dentro la crisi del tempo di cui è interprete. La monumentalità del luogo fornisce certo un’aura sacra al già imponente apparato pittorico che viene riconosciuto come tale da tanti studiosi che ne rintracciano il valore sia sul piano teologico che su quello storico-artistico. La produzione artistica del Tintoretto è esemplare, ricca, formidabile. Ed è nella Scuola grande di San Rocco che si avverte, vibrante, il suo geniale furore. Ma l’intento qui non è quello di offrire un’analisi critico-artistica delle tele quanto quello di animare una riflessione che, va detto, non può prescindere dalla ‘consistenza’ delle tele stesse23. Nel loro insieme e distintamente prese. Una dissertazione sull’arte (del conoscere) e sul mistero che reca in sé e che pone il Tintoretto in un ideale dialogo con Giordano Bruno, in cui a fare da protagonista sono il sole e il suo contrario: luci ed ombre, dunque, la materia di cui si sostanzia l’arte e il suo prender forma in questa o quell’opera. Dissertazione e ‘prova’, dicevo, di una drammatica modernità del Tintoretto nell’offrire l’arte come ‘traccia’ o memoria di un sole che produce luce ed ombre. L’arte e le opere del Tintoretto ‘incarnano’ dunque il tragico paradosso dell’umano, ‘segnandone’ la consustanzialità di corpo e spirito, attraverso l’ostensione dei corpi di cui solo una parte risplende, come attraversata da un principio aurorale ed emersa come ‘scarto’ dall’opprimente buio che la ammanta. L’accesso al sacro è esercizio e pratica che nel corporeo individua e riconosce la soglia presso la quale recarsi e restare, per abbandonarsi all’Altro. Forse questa la possibilità di 21 Cfr. D’Ambrosio, Maria, 2006, Media Corpi Saperi. Per un’estetica della formazione, Milano, Franco Angeli; D’Ambrosio, Maria, 2010, Las meninas: metafore della conoscenza per una teoria della formatività, in: Gily, Clementina-Persico, Maria Rosaria, a cura di, 2010, Arte e Formazione. Collingwood, Gentile, Croce ed altri studi, Napoli, Scriptaweb. 22 Cfr. Zambrano, Maria, 1996, Filosofia e poesia, tr. it., Bologna, Pendagron, 2002-2010. 23 Cfr. Nancy, Jean-Luc, 1994, Le Muse, tr. it., Reggio Emilia, Diabasis, 2006, e in particolare nel testo: Sulla soglia che è il discorso pronunciato al Museo del Louvre, davanti alla Morte della Vergine di Caravaggio, il 22 giugno 1992, e Pittura nella grotta che fu pubblicato in una prima versione nel 1994 in forma di manoscritto con disegni originali del pittore François Martin. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | PEDAGOGIA libertà di cui dicevo. Forse questo lo spazio dove la materia ritrova la sua stretta parentela con lo spirito. Forse questo, dell’arte, della poesia, il principio che rende unificabile l’essere con l’apparire: quello spazio non finito e non concluso dove è possibile l’affermazione della bellezza, del sentire e di tutto quello che contengono oltre, e che rendono esperibile di ulteriore. Legittimare l’arte, più che la filosofia, sul terreno della pratica della conoscenza, vuol dire riconoscere che, senza rinunciare alle apparenze, si può trascendere la realtà e afferrarne la sua pur mutevole e tremante consistenza, riconoscendosi in essa e quindi in quella parte che è già il tutto e che coincide con il sacro. Lo specifico dell’opera d’arte è appunto quella di presidiare e celebrare l’infinito stratiforme e mobile territorio estetico che, a sua volta, apre alla possibilità di riunire ciò che sin dalla tradizione classica e dal mito della caverna si è separato o come strappato: e quindi la ragione dal sentire, l’umano dal divino, l’ombra dalla luce. «In principio era il logos. Sì, ma… il logos si fece carne e abitò tra noi, pieno di grazie e verità»24 dice Maria Zambrano, facendo della poesia la categoria che rende pensabile il farsi carne del logos perché «la poesia (…) assisa fin dalle origini sull’ineffabile, tesa a dire l’indicibile, non vede minacciata la propria esistenza. Fin dal primo istante, si è sentita trascinata a esprimere l’ineffabile in due direzioni: ineffabile in quanto vicino, carnale; ineffabile anche in quanto inaccessibile, in quanto senso al di là del senso, ragione ultima al di sopra di ogni ragione»25. In tal senso, l’opera d’arte è consacrata e mossa da questa dimensione poetica e celebra l’Assente: proprio nel senso del citato me mou háptou e proprio nel senso vissuto al cospetto delle tele del Tintoretto nella Scuola grande di San Rocco, e grazie alla loro ‘essenza’. Un’essenza che ritrova nel tema della cristianità e quindi propriamente del Cristo il valore simbolico e l’exemplum del divino incarnato nell’umano. Natura umana e natura divina cercano nella tela forme che si muovono tra presenza e assenza: l’erompere dei corpi, degli oggetti, delle stoffe, delle architetture, dei decori e dei volti, distinti l’uno dall’altro e tratteggiati dall’abile mano del Tintoretto che offre allo sguardo la possibilità di tenere insieme queste distinte forme grazie a un segno che le sussume ed è chiara traccia di effimera ed incontenibile luce. Luce che per il Tintoretto affiora come origine di ogni cosa e dunque è luce che accomuna e sostanzia ogni materia, ogni presenza di cui c’è traccia nella tela. In questo senso mi è sembrato di vedere animato un dialogo tra queste tele e il pensiero e le opere, contemporanee o di poco successive, di Giordano Bruno. Bruno (1582) nel dialogo preliminare del suo Ombre delle idee, fa dire ad Ermes: «È il libro Ombre delle idee, contratte per apprendere la scrittura interiore; a proposito di esso sono in dubbio, e non so se debba essere pubblicato, oppure rimanere perennemente avvolto in quelle tenebre in cui era celato»26. E, rispetto a tale dubbio, Filotimo – che pare interpretare il senso del dramma delle tele del 24 Zambrano, Maria, 1996, op. cit., p. 47. 25 Zambrano, Maria, 1996, op. cit., p. 129. 26 Bruno, Giordano, 1582, op. cit. p. 45. Tintoretto - gli tiene dietro dicendo: «Non cessa la provvidenza degli dèi (dissero i sacerdoti egiziani) di mandare agli uomini, in certi tempi stabiliti, dei Mercuri; e questo anche se già conoscono che essi non saranno accolti affatto, o lo saranno male. Né cessa l’intelletto, come pure questo sole sensibile, di dar sempre luce, per il motivo che non sempre, né tutti quanti la avvertiamo»27. Le sessantuno tele del Tintoretto nella Scuola grande di San Rocco credo abbiano a che fare con questo sole sensibile e con la provvidenza degli dèi, senza escluder anche tutto il resto che pure è raccontato e celebrato. La questione della luce e delle ombre costituisce come l’impalcatura, il principio ultimo, di un discorso sulla possibilità umana di porsi in rapporto con la ‘realtà’: possibilità di conoscere e di conoscersi nella e attraverso la rappresentazione, la mimesis dell’arte appunto. Rappresentato e rappresentabile nel quale irrompe sempre l’indicibile, indefinito e indefinibile. L’arte è dunque anche lo spazio della speranza e dell’utopia, è la possibilità dello sconfinare e sconfinamento stesso: questa la dimensione e la ‘materia’ che prende corpo con l’arte e questo l’orizzonte che muove l’arte stessa e le conferisce un ruolo eminentemente formativo, capace di fare dell’esperienza estetica la condizione di ogni conoscenza possibile. E questo anche un breve itinerario, luminoso e tenebroso a un tempo, indagine dai tratti barocchi, che individua nel Tintoretto un interlocutore privilegiato per un parlar disgiunto che recupera, lasciandola affiorare qui e lì come fa con la luce, la centralità del sentire che di fatto irrompe e riconfigura un quadro epistemologico e ontologico che riconnette essere e apparire e individua nelle arti un rinnovato valore e una significativa ‘progettualità pedagogica’ che investe Sein e Da-sein, aprendo l’esperienza, se non al sacro o al divino, all’altro e all’altrove. «Manca il parlar; di vivo altro non chiedi Né manca questo ancor, se agli occhi credi» (Torquato Tasso, 1575, La Gerusalemme liberata, canto XVI) 27 Bruno, Giordano, 1582, op. cit. p. 46. 45 LINGUE E LETTERATURE MODERNE | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 Un teatro per tutti nel lavoro di Jean Vilar PAOLA MARTINUZZI Dipartimento di Studi linguistici e comparati, Università Ca’ Foscari Venezia O ggi, in Francia, vengono tributati importanti riconoscimenti a Jean Vilar1. Possiamo citare un numero monografico della Revue d’Histoire du Théâtre2, un convegno internazionale promosso dal Ministero della Cultura francese3, insieme a varie pubblicazioni che spiegano la sua opera, uscite negli ultimi anni. Ci sembra giusto ricordare questo artista proponendo una intervista, inserita nel suo libro De la tradition théâtrale, apparso sessant’anni fa e non ancora tradotto in Italia. Nell’intervista sono toccati vari temi che coincidono con la nostra realtà attuale, anche se è mutato il panorama storico. Negli anni in cui fu direttore del Théâtre National Populaire al Palais de Chaillot (fra il 1951 e il 1963), Jean Vilar cercò di dare corpo a un teatro per tutti e controcorrente, dove la classicità e la qualità non fossero un privilegio per una élite. Democratizzare la cultura significava pensare al 1 Jean Vilar nasce a Sète, vicino a Montpellier, nel 1912; studia a Parigi, dove si entusiasma conoscendo l’opera degli illuministi. Studia recitazione con Charles Dullin, fa parte della compagnia ambulante La Roulotte per la quale scrive testi comici e nel 1943 fonda la Compagnia dei Sette con la quale mette in scena drammi moderni come Assassinio nella Cattedrale di T.S. Eliot (teatro del Vieux-Colombier), La danza dei morti e Temporale di Strindberg. Dall’incontro con il poeta René Char e con i critici d’arte Christian e Yvonne Zervos, nel 1947, nasce la Settimana dell’arte, prima edizione del Festival di Avignone, che sarà diretto da Vilar fino all’anno della sua morte (1971). La prima opera che il regista propone è il Riccardo II di Shakespeare. Sperimenta nella splendida architettura della Cour du Palais des Papes il valore di una scenografia essenziale, ridotta al minimo. Nel 1951 l’attore Gérard Philipe inizia la sua collaborazione con il Festival e nel 1967 il programma si apre anche alla danza e al cinema. Nel corso della direzione del Théâtre National Populaire (1951-1963), Vilar organizza numerose tournées nelle periferie, in varie regioni francesi e all’estero (New York, Mosca, Berlino, Venezia). 2 « Revue d’Histoire du théâtre », Jean Vilar, genèse et postérité, n. 4, 2012. 3 L’œuvre de Jean Vilar, Jean Vilar à l’œuvre, Biblioteca Nazionale, rue Vivienne, Parigi, 29 ottobre 2012, organizzato dalle Università di Avignone, Paris-Sorbonne, la Maison Jean Vilar, con la collaborazione della Comédie-Française, della Bibliothèque nationale de France, del Théâtre National de Chaillot. 46 teatro come a un servizio pubblico. Sgomberata la scena da inutili accessori, viene ripensato il lavoro di attori e regista considerando l’insegnamento di chi era stato precursore in questo cammino: Jacques Copeau, (che al Vieux-Colombier riconduceva il teatro all’interpretazione attoriale spoglia di affettazioni), Firmin Gémier che si richiama al Rousseau della Lettre à d’Alembert4, e ancor prima Maurice Pottecher con il suo «teatro del popolo» a Bussang, nei Vosgi, e naturalmente Romain Rolland (che aveva inseguito un progetto utopico destinato a formare non solo nel gusto, ma nella coscienza un largo pubblico)5. Dalle idee di Jean Vilar nacque la rivista Théâtre populaire (1953-1964) che fece conoscere Brecht ai francesi e dalle cui pagine si espressero critici come Roland Barthes, Bernard Dort; il periodico vide anche lo scontro fra posizioni differenti (celebri, gli interventi di Sartre). Il Théâtre National Populaire continuò dopo il 1963 la sua attività col nuovo direttore Georges Wilson e diffuse il suo programma al di fuori della città di Parigi, grazie alle nascenti compagnie di giovani professionisti e soprattutto nel processo di decentralizzazione e democratizzazione della cultura, concretizzatosi nei centres dramatiques nationaux et régionaux, istituiti grazie a Jeanne Laurent, André Malraux, Jacques Duhamel6. Dal 1972, il T.N.P. trasferì la sua sede a 4 Firmin Gémier fondò il Théâtre National Populaire nel 1920 al Palais du Trocadéro a Parigi e lo diresse fino al 1933; prima di questa realizzazione, il suo sogno di raggiungere le persone che non potevano frequentare il teatro, lo aveva portato a inventare un «teatro nazionale ambulante». 5 Romain Rolland affidò il suo pensiero teorico soprattutto alle pagine di Le Théâtre du Peuple, essai d’esthétique d’un nouveau théâtre (Paris, Cahiers de la Quinzaine, 1903). 6 Nello statuto dei Centri Drammatici Nazionali si legge che essi hanno per missione di «allargare l’accesso alla creazione teatrale a tutte le tipologie di pubblico», compreso quello giovanile. La loro attività consiste nel «garantire una presenza artistica continua sul territorio»; i Centri sono «case di artisti» che devono produrre due opere per stagione, assicurando almeno dieci repliche nella città in cui la compagnia ha lavorato, e una tournée nazionale o internazionale. Il repertorio deve contemplare sia i classici della tradizione che le pièces di autori viventi, che vanno adeguatamente SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | LINGUE E LETTERATURE MODERNA Villeurbanne, nella periferia di Lione, dove prese la direzioNel 1946, un anno prima di fondare il Festival di Avine Roger Planchon insieme a Patrice Chéreau, Robert Gil- gnone e cinque anni prima di inaugurare la seconda fase bert, Georges Lavaudant; dal 2002, il direttore è Christian del Théâtre National Populaire, il regista esprime in questa Schiaretti, e l’attività prosegue sempre con la proposta di intervista10 che proponiamo in lingua italiana, varie sue condrammaturghi contemporanei insieme ai grandi autori del vinzioni, nate dal lavoro diretto sulla scena e dal confronto passato, letti dai moderni. (Per la stagione in corso 2014- con la realtà. Ne traduco i punti salienti. 15, accanto a L’école des femmes Fu chiesto a Jean Vilar: di Molière, a Marivaux messo in «Sente di avere punti di contatto scena da Michel Raskine, ex-attore con altri animatori, suoi predecesdi Planchon, troviamo Kleist nella sori o suoi contemporanei, e se sì, regia di Giorgio Barberio Corsetti, con quali? un coreodramma di James ThierSento di essere debitore dell’orée, Jean Genet visto da Robert pera di alcuni predecessori, soWilson). prattutto per alcune loro riflessioni Per non disperdere la memoria scritte. Quando Jouvet scrive: «In del lavoro di tanti anni, alla morte realtà, un’opera teatrale offre già in dell’artista viene fondata ad Avisé la sua messa in scena, basta fare gnone la Maison Jean Vilar e dal attenzione e non essere troppo per1982 escono i Cahiers Jean Vilar sonali per vederla animarsi, e avere che propongono documenti inediun effetto sugli attori. Agendo su ti e materiale d’archivio, insieme di loro, misteriosamente, li mette alle riflessioni di artisti viventi sul alla prova, li ingrandisce o li rimteatro contemporaneo. piccolisce, li sposa o li rifiuta»11; Nelle pagine del volume De la quando Pitoeff, secondo le tradition théâtrale, Jean Vilar ci affermazioni di Lenormand12, lascia una testimonianza viva sul impedisce a se stesso di absignificato del lavoro teatrale, sul bassare un capolavoro al livelruolo del teatro e dei suoi artisti lo di comprensione beata del per la Pace, trasposizione di Jean Vilar da nel mondo contemporaneo. Il tema Manifesto pubblico perché quest’ultimo Aristofane, 14 dicembre 1961, Palais de Chaillot, costumi del grande pubblico, affrontato di Jacques Le Marquet, musica di Michel Jarre. possa riempire la sala almeno con coscienza civile da Vilar, pocento volte, allora sento, come trebbe sembrare superato, perché festival e rassegne teatrali lei dice, di avere dei punti di contatto con loro. accolgono oggi nei vari paesi europei presenze numerose e Ma bisognerebbe citare gli scritti di Stanislavski, di variegate, ma in realtà il problema non è solo quantitativo. Baty, di Dullin e di Copeau, di Talma, della Clairon, Anche oggi vi è «l’impossibilità di condividere nell’agorà e così via13. Ciò che conosco, invece, dell’opera reun vero dibattito sui temi civili», cosa che fa del teatro un «surrogato di una democrazia» carente; per questo, un certo (sous la direction de), Le théâtre en France, vol. 2, Paris, Armand Colin, 1989, p. 464. spettacolo diventa «predicatore» e si delinea come «prodot- 10 Non è specificato dall’autore chi fosse l’intervistatore. Jean to di massa» che semplifica e dimentica la tradizione te- Vilar, Interview, in Id., De la tradition théâtrale, Paris, L’Arche, 1955 atrale creando un «falso poetico»7. Se Vilar abbandonò il (Gallimard, « Idées », 1966), pp. 37-67. Louis Jouvet (1887-1951) costituì nel 1927, insieme a Gaston Baty, Théâtre National Populaire, nonostante i cinque milioni di 11 Charles Dullin, Georges Pitoeff il Cartel des Quatre, una associazione 8 spettatori e gli ottantacinque spettacoli allestiti , è perché di artisti solidali, accomunati da un’idea morale del loro lavoro, contro non vide realizzarsi il concetto di “popolare”: una società l’invadenza del teatro commerciale. Il Cartel non aveva come unico scopo ancora discriminatoria non poteva produrre una cultura ve- la creazione, ma l’allargamento della conoscenza del teatro; invitarono artisti internazionali, da Ermete Zacconi con la sua compagnia, al Teatro ramente popolare, cioè per tutti9. d’Arte di Stanislavski, ai Ballets Suédois di Rolf de Maré, a Isadora valorizzati grazie alla collaborazione di comitati di lettura e alla presenza di un drammaturgo interno alla compagnia. (Cahier des missions et des charges des Centres Dramatiques Nationaux, Ministère de la Culture et de la Communication, http://www.culturecommunication.gouv.fr/ content/ download/63512/486300/file/Centres%20dramatiques%20nationaux. pdf). 7 Antonio Attisani, Logiche della performance, Torino, Accademia, 2012, p. 19. 8 Il repertorio comprendeva i classici e i moderni: Aristofane, Shakespeare, Corneille, Molière, Racine, Calderon, Marivaux, Beaumarchais, Büchner, Musset, Strindberg, Gide, Vauthier, Obaldia, Gatti, Pillaudin-Jarre, Pichette. 9 Bernard Dort, L’âge de la représentation, in Jacqueline de Jomaron Duncan. Molti punti espressi da Vilar nella sua riflessione, riflettono senza dubbio l’influenza esercitata da Jouvet; si leggano a proposito, le pagine scritte fra il 1939 e il 1950, raccolte nei volumi Témoignages sur le théâtre (Paris, Flammarion, 1952) e Le comédien désincarné (Paris, Flammarion, 1954). La citazione di Vilar rimanda a un discorso di Jouvet pubblicato in «Conferencia. Journal de l’Université des annales», v. 30, n. 1, 1935-1936, p. 79-94. 12 Cf. Henri-René Lenormand, Confessions d’un auteur dramatique, vol. II, Paris, A. Michel, 1952. 13 Nel 1921 Jacques Copeau pubblica L’école du Vieux-Colombier nei «Cahiers du Vieux-Colombier» ; Gaston Baty scrive Le Masque et l’encensoir nel 1926 e Rideau baissé, nel 1949 ; Konstantin Stanislavski pubblica nel 1937 Il lavoro dell’attore (apparso in Francia nel 1958 con introduzione dello stesso Vilar); i Souvenirs et notes de travail sur l’acteur 47 LINGUE E LETTERATURE MODERNA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 strada. Il contrario! Certi nostri antenati che erano poveri si stupirebbero se venisse loro detto che le loro realizzazioni appartenevano a un’arte raffinata dello spettacolo. In realtà, essi presero spesso dalle arti maggiori o minori (architettura, scultura, decorazione, cinematografia, musica, alta moda...) il complemento più sottile del loro operare. È a questa concezione del teatro che bisogna volgere le spalle in modo deciso. Mi pare, d’altronde, che un popolo al quale la guerra ha fatto ritrovare non solo i bisogni primari dell’esistenza, ma forse anche una coscienza più chiara dell’esistenza, esigerà da noi qualcosa di diverso da un’apparenza ricca, raffinata dello spettacolo. Qui, per esempio, gli attori improvvisati reduci dagli stalag avranno da dire la loro. Bisogna anche sapere se avremo abbastanza lucidità e tenacia per imporre al pubblico ciò che desidera senza esprimerlo. Questa sarà la nostra lotta. Essa supera il compito del regista propriamente detto. alizzata in scena da Antoine o da Gémier, mi lascia indifferente. O per meglio dire, ostile. [...] Non vi è nulla di sorprendente nel prendere coscienza del mio debito attraverso gli scritti e non dalla pratica scenica (regia, scenografie, costumi, recitazione). Perché un identico e obbligatorio atteggiamento intellettuale nei confronti dell’opera (perlomeno: chiaroveggenza e sincerità), non deve necessariamente produrre le medesime reazioni sensibili. [...] In quali punti si oppone, invece, a determinate scelte registiche passate o presenti? Mi ritengo contrario ad ogni messa in scena che tenda, secondo un orribile termine recente, a “riteatralizzare” il teatro. Contrario a tutto ciò che è “spettacolo per lo spettacolo”. Contrario alla mania per le scenografie, quindi. Contrario all’arte dell’illuminotecnica, alla patafisica14 parigina del costume. Contrario al simbolismo nella recitazione dell’attore. Tra il realismo di Antoine e le «convenzioni teatrali» di coloro che lo hanno seguito e combattuto, vi è posto per un teatro dagli effetti semplici, senza intenzioni, a tutti familiare. Ciò non significa che la scenografia sarà di- sprezzata, che non si studierà accuratamente il costume, non significa che il gesto dell’attore sarà quello dell’uomo della di Charles Dullin escono nel 1946. Talma e la Clairon, grandi attori del Settecento, hanno aperto alla sensibilità moderna la recitazione, fuori dei clichés accademici e, interessati alla verità storica e psicologica, hanno lasciato delle memorie scritte. 14 Il termine, utilizzato qui con intento scherzoso, fu coniato da Alfred Jarry nella sua opera Gestes et opinions du Docteur Faustroll, pataphysicien (1911), per indicare una «scienza delle soluzioni immaginarie». 48 Quale spazio hanno i classici nel suo repertorio? Vorrebbe cambiarlo, e se sì, per quali ragioni? A domande come questa non si può rispondere senza una premessa, altrimenti può sembrare che facciamo quello che vogliamo. In effetti, non è così, purtroppo. Se fossimo aiutati dallo Stato, o da imprese private o pubbliche, come accade agli artisti della scena in Russia, potremmo definire un piano di lavoro regolare in cui inserire il teatro classico. Dico un piano di lavoro regolare, perché non bisogna dimenticare che il teatro esige da parte degli attori un esercizio quotidiano. Se non li frequentate assiduamente, i personaggi si fanno beffe di voi come degli aristocratici, per la semplice ragione che essi ci obbligano a una conoscenza intima e diligente dei mezzi espressivi vocali e plastici. Si può giungere a un compromesso con un personaggio di Becque, di Musset, di Claudel15. Ma ciò è impossibile con personaggi come Argante, Alceste, Nerone, Ermione, Andromaca, il Cid, Poliuto16. Essi reclamano qualcosa di diverso dal temperamento generoso di un attore comico o tragico; è necessario avere assimilato, aver fatto propria quella sintassi e quel ritmo molteplici e rigorosi. Bisogna rendere verosimile ciò che non è vero. In questo ambito, una buona parte della superiorità degli attori della Comédie Française sui loro colleghi viene da questa frequentazione permanente delle opere classiche che 15 Vilar cita autori che non appartengono al Seicento, l’âge classique francese, ma alla modernità, e i cui personaggi, né leggendari, né mitici, non hanno la pienezza dei classici. Vilar non giustifica questa asserzione. Possiamo ipotizzare alcune ragioni, considerando che per i drammaturghi nominati a titolo di esempio la preoccupazione principale non è la creazione di personaggi da affidare agli attori. Alfred de Musset, nel cuore del romanticismo, fa ricorso a colpi di scena; Henri Becque, contemporaneo di Zola ma non adepto del naturalismo, si focalizza su argomenti morali ma tratteggia “caratteri” e ritratti non universali; Paul Claudel, dal complesso pensiero religioso, si interessa molto all’insieme scenico, fino all’inclusione dei cori. 16 Il riferimento è naturalmente ai protagonisti del Malato immaginario e dell’Avaro di Molière, del Britannico, di Fedra e di Andromaca di Racine, del Cid e del Poliuto di Corneille. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | LINGUE E LETTERATURE MODERNA il Conservatorio e la Casa di Molière17 pongono loro come punti obbligati. Questa frequentazione obbligatoria, questo piacevole “matrimonio forzato” mi pare, d’altronde, il volto familiare della tradizione. [...] Forse l’importanza di Jacques Copeau in Francia e in altri paesi è dovuta in primo luogo alla sua costante preoccupazione di ridare piena luce e la capacità di scuotere le coscienze, al repertorio dei suoi antenati. Quando crea un’opera teatrale, lei si sforza di piegare gli elementi necessari all’idea d’insieme che si è fatto, o modifica la sua concezione in base agli elementi di cui dispone? La realizzazione scenica di un’opera è sempre il risultato di un compromesso. Compromesso, se non altro, fra quanto il regista immagina sul piano visivo e uditivo e la realtà viva e anarchica degli attori. Per quanto mi riguarda, nulla di definitivo, nulla di preciso viene fissato prima delle prove. Né carte, né appunti, né schemi scritti. Nulla fra le mani, nulla in tasca, perché tutto è affidato al corpo e all’anima dell’altro. Di fronte a me, c’è l’attore. Certo, obbligare la voce o il corpo di un interprete ad integrarsi in un’armonia o in un gioco plastico fissati in anticipo, è come fare un addestramento. L’attore non si può confondere con un animale ammaestrato o con un robot. Con pazienza, lentamente, fra lui e me credo si crei una sorta di familiarità fisica che mi permette di comprenderlo e di essere compreso senza che ci sia bisogno di molte parole. Bisogna che io lo conosca bene e, anche se non è amabile, amarlo. Non mi è possibile realizzare in modo efficace un’opera il cui destino dipende dall’unione di molte volontà, di “guidare” bene una pièce, collaborando con gente che non posso amare. Amare il teatro non vuol dire nulla; amare coloro che lo praticano è forse un’operazione meno “da artisti” ma consente di raggiungere risultati più concreti. Tuttavia, benché non mi sforzi di piegare gli elementi necessari a un’idea d’insieme, come lei dice, è vero comunque che dopo un certo numero di prove, ci si vede obbligati a condurre gli interpreti, talora senza che sia utile che ne siano consapevoli, verso un’idea d’insieme, verso un diapason che non è necessariamente scelto dal regista, ma che nasce dalla fusione delle voci, dei corpi, dell’anima degli altri interpreti e dal testo. Una volta giunti a questo punto, non bisogna discostarsene. […] Occorre ritornare di nuovo all’autore. Ascoltarlo. Seguirlo. Stare alla larga, quindi, dai difetti da piccolo dittatore ai quali un regista ha sempre la tendenza a cedere. Ma bisogna anche pregare l’autore di non tapparsi le orecchie di fronte alle lamentele e ai suggerimenti spesso mal espressi da uno o più interpreti. Il parere di un attore che prova la parte è fondamentale. Apelle ascoltava il calzolaio mentre criticava il suo disegno di una scarpa. Per quanto grande sia, uno scrittore dev’essere cacciato dal teatro se disprezza deliberatamente 17 “Maison de Molière” è il nome che è stato dato alla Comédie Française dove confluirono gli attori di Molière dopo la sua morte. Fino al 1946, il Conservatoire National d’Art Dramatique aveva un corso riservato agli attori della Comédie Française. 49 LINGUE E LETTERATURE MODERNA | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 l’attore. […] Crede che il teatro venga danneggiato dallo sviluppo del cinema e, per questo, sia destinato a subire una profonda trasformazione per potere continuare a esistere; o deve rassegnarsi ad essere riservato ad una minoranza? Per rispondere efficacemente alla sua domanda, bisognerebbe ricorrere alle informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione: fra il 1920 e il 1939, gli incassi del teatro commerciale sono stati danneggiati dallo sviluppo dell’industria cinematografica? Perché il primo nemico del teatro d’arte non è il cinematografo, ma lo spettacolo commerciale, quello dove tutto converge verso la preoccupazione dell’incasso, e del massimo incasso. Come sa, questo genere di spettacolo appartiene tanto al palcoscenico che alle sale di proiezione. Debbo aggiungere che un film di qualità appartiene alla nostra cultura, così come un bel romanzo o il quadro di un maestro contemporaneo. Non può certo minacciare l’arte del teatro. Al contrario, nella misura in cui è stimolante e originale, ci aiuta a mantenere attivi la curiosità e il fervore del pubblico. Non sono i film di Charlie Chaplin o Il gabinetto del dottor Caligari che hanno condannato Jacques Copeau alla chiusura definitiva del Vieux-Colombier. Non sono nemmeno i film di René Clair, non è Tempeste sull’Asia, né La Corazzata Potemkin, né i film di Murnau ad avere provocato il deficit nel budget dei Pitoeff o di Jouvet. Non credo quindi che lo sviluppo specifico dell’industria cinematografica abbia provocato o rischi di provocare profondi cambiamenti nell’arte del teatro. Nei momenti in cui vi sono stati dei cambiamenti, le ragioni furono diverse, quasi sempre di ordine interno. Quanto a sapere se il teatro può appartenere solo ad una minoranza è un problema senza soluzione ai nostri giorni. Fu possibile, in una certa misura, nel corso del Seicento francese. E reputo che un ruolo non secondario lo ebbe la borsa dei Grandi. A tale riguardo, mi sono sempre chiesto come avesse potuto costituire un repertorio tanto vario Antoine, rappresentando ogni spettacolo solo due o tre volte... Resta il fatto che ad oggi, non possiamo costruire una casa, un garage, un laboratorio nostri, dove potremmo almeno attirare una minoranza fedele: sì, la crisi attuale ci mette nell’impossibilità di trovare sia pure un garage in disuso, soffriamo della penuria di legno, di oggetti di fabbrica, sedie, poltrone, attrezzature elettriche, serrature, indispensabili ai nostri spettacoli. Rispondo in modo meno personale; faccio presente che le modifiche profonde dell’arte teatrale nel corso degli ultimi cinquant’anni almeno, sono state sempre provocate da una minoranza: alcuni attori o alcuni artisti per quanto riguarda gli esperti, un numero ridotto ma fedele di amanti del teatro per quanto riguarda il pubblico: in Francia (Antoine, Copeau, il Cartel); negli Stati Uniti (Little Theatre, Provincetown Players); in Russia, Stanislavski e le prime compagnie amatoriali, per finire con gli studi del Teatro d’Arte di Mosca. Non è quindi lo sviluppo del cinema che ci può costringere a una minoranza. Sarebbe più giusto dire che se una compa50 gnia introduce un cambiamento profondo nell’arte teatrale, essa è destinata, per tutto il tempo della creazione originale, ad appartenere a una minoranza. In una società più equilibrata, organizzata in modo più giusto, sono persuaso che il grande pubblico farebbe sue le forme d’arte nuove. Ma nei nostri teatri, il grande pubblico presente non appartiene alla parte sensibile del paese (i prezzi dei biglietti sono troppo alti) [...]. Per quanto mi riguarda, preferisco recitare davanti alle poltrone vuote e per piacere mio, piuttosto che avere a che fare con un pubblico la cui unica virtù è poter pagare un posto 90 o 155 franchi (prezzi sindacali del 1944)». RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI: Antonio Attisani, Logiche della performance, Torino, Accademia, 2012. «Cahiers Jean Vilar», periodico a cura della Maison Jean Vilar, Avignon. 1983-2014. Bernard Dort, Un âge d’or ou: sur la mise en scène des classiques en France entre 1945 et 1960, «Revue d’Histoire Littéraire de la France», v. 77, n. 6, 1977, pp. 1002-1018. Catherine Faivre-Zellner, Firmin Gémier, héraut du théâtre populaire, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006. Laurent Fleury, Le T.N.P. de Vilar. Une expérience de démocratisation de la culture, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2006. Colette Godard, Chaillot: un théâtre national et populaire?, Paris, Norma, 1998. Jacqueline de Jomaron (sous la direction de), Le théâtre en France, vol. 2, Paris, Armand Colin, 1989. Guy Leclerc, Le T.N.P. de Jean Vilar, Paris, Union Générale d’Édition, 1981. Emmanuelle Loyer, Le Théâtre citoyen de Jean Vilar, une utopie d’après-guerre, Paris, P.U.F., 1997. Id., Le Théâtre National Populaire au temps de Jean Vilar (1951-1963), «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», n. 57, 1998, pp. 89-103. Gian Renzo Morteo, Il teatro popolare in Francia : da Gémier a Jean Vilar, Bologna, Cappelli, 1960. Didier Plassard, Réjouir l’homme est une tâche douloureuse ; le T.N.P. de Jean Vilar et la presse, «Revue d’Histoire du Théâtre», n. 2, 1998, pp. 101-128. «Revue d’Histoire du Théâtre», n. 4, 2012 (numero monografico: Jean Vilar, genèse et postérité). Jean Vilar, De la tradition théâtrale, Paris, L’arche, 1955 (Gallimard, 1966). Id., Le Théâtre, service public et autres textes, Paris, Gallimard, «Pratique du théâtre», 1975. Id. e Émile Copfermann, De Chaillot à Chaillot, Paris, Hachette, 1981. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI Il “bene comune”: una revisione dei costrutti del discorso delle politiche pubbliche LUIGI COLAIANNI Dipartimento di Neuroscienze e Salute mentale, Fondazione Policlinico di Milano Laboratorio di Metodologia di Analisi dei Dati Informatizzati Testuali (MADIT), Università degli Studi di Padova « Il contenuto di realtà di un oggetto dipende dal metodo impiegato per conoscerlo. J. Dewey1 Milano ha bisogno di buoni cittadini che sappiano vincere la paura». A parlare è l’arcivescovo Angelo Scola, nel Duomo, per la messa di Ognissanti. E lo ripeterà nel pomeriggio, pregando per i defunti al cimitero Monumentale: «La paura è comprensibile ma questo sentimento lo si sconfigge solo ascoltandoci reciprocamente e non contrapponendoci». Non cita direttamente la Lega né la manifestazione contro l’immigrazione di due settimane fa, ma a messa finita spiega: «Tutti, a partire da chi ha responsabilità politiche, dobbiamo lavorare al cambiamento. Il nemico dell’amicizia civica è l’ideologia. Dobbiamo vivere insieme anche con gli immigrati che arrivano». E ammette: «C’è un problema reale di riuscire ad assorbire in pochi anni tanti immigrati, ma se lo strumentalizziamo, allora cadiamo nell’ideologia e non costruiamo». A Greco qualcuno ha imbrattato di vernice verde il citofono della parrocchia che ospiterà una nuova mensa per i poveri della Caritas. E i parroci in prima linea nei quartieri difficili sono preoccupati: «Chi ha perso il lavoro vede l’immigrato come un concorrente. Inoltre quest’anno con l’avanzata dell’Is, c’è la paura degli islamici e l’annuncio di nuove moschee non fa certo piacere»2. Il testo dell’articolo riportato, tratto da un quotidiano nazionale, permette di evidenziare la necessità che la messa a tema delle interazioni sociali con il loro portato e declinazione di “concetti” cui – apparentemente con medesima attribuzione di senso – tutti i parlanti fanno riferimento – dal ruolo del singolo cittadino, al rappresentante di interessi già costituiti e riconosciuti, al decisore, fino alle figure che operano nei contesti dei dispositivi disciplinari (Foucault 1994) nei 1 John Dewey, 1948, Esperienza e natura, Torino: Paravia. 2 Cit. da la Repubblica ed. di Milano del 2 novembre 2014. vari ambiti: dalla sanità all’assistenza, dall’esecuzione penale ai diversi servizi alla persona, agli operatori dell’ordine pubblico – possa trovare una collocazione che la sottragga al mero senso comune. Ciò che viene attestato nella citazione, in assenza di riferimenti “terzi”, è la conseguente e inevitabile definizione della “situazione”3 in termini di controver- sia – si condivide un frame comune, non si condividono le specifiche opzioni – e il più delle volte di conflitto – ciascun parlante configura una definizione della situazione in termini esclusivi e quindi non condivisibili. Cosa possa essere un “buon cittadino”, quali i criteri per rilevarne la “bontà”, cosa si intenda per “amicizia civica” e come questa possa esse3 Il Teorema di Thomas enuncia: «If men define situations as real, they are real in their consequences», W.I. Thomas e D. Thomas 1929, The Child in America, New York: Alfred Knopf, p. 572. 51 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 re descritta e implementata trovano risposta – nel testo – in repertori prescrittivi, dove il verbo “dovere” declina ogni possibilità di risposta, chiudendole in una prospettiva o di adesione a tale dovere, o di non adesione: quanto offerto da chi parla non permette una condivisione di criteri, di considerazioni, di obiettivi e di strategie, lasciando le criticità, nel caso migliore, a una prospettiva di mera “tolleranza”. Come è possibile, differentemente, promuovere un “dialogo”4 come generazione di una configurazione terza di realtà5 (giochi a somma diversa da zero), e non una mera dialettica6 (giochi a somma zero) tra chi, per esempio, propone di assegnare un’area del territorio alla costruzione di un tempio di preghiera (che si chiami sinagoga, moschea, ashram o cattedrale apparentemente non rileva) e chi in virtù di teorie personali implicite è contrario a tale scelta? È sufficiente “ascoltare”7 i singoli cittadini? E cosa si può anticipare che questi possano offrire rispetto a ciò su cui vengono consultati? E se gli interlocutori fossero individuati non tra i “portatori di interessi” (stakeholder) riconosciuti – come generalmente avviene – e quindi già con voice? Si sarebbe di qualche grado più vicini all’obiettivo? E, dunque, come è definibile l’obiettivo in 4 Alla dialogica si richiama Richard Sennett, il sociologo autore di Insieme (2012), il suo saggio più recente che tratta di una vasta ricerca sul mutamento delle relazioni sociali. Nel complesso il testo di Sennett suona come un appassionato grido d’allarme in tempi di individualizzazione e di perdita di solidarietà sociale. Il testo, ripercorrendo la strada dello sviluppo sociale dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento – anni che hanno visto l’affermazione delle scienze sociali e il porsi di una “questione sociale” – sottolinea il principio della collaborazione fra gli uomini come unica condizione della continuità della vita. 5 Scrive Bachtin: «La comunicazione dialogica afferma la fede dell’Uomo nella propria esperienza. Per una comprensione creativa [...] è essenziale che la persona si collochi all’esterno dell’oggetto che vuole comprendere» (Bachtin 1886, 7). 6 Kant definisce la dialettica come la logica dell’apparenza, che ha lo scopo di mettere in luce il carattere illusorio dei giudizi trascendenti, mettendoci in guardia contro l’inganno della ragione, che è l’inganno della totalità, l’illusione con la quale l’uomo tende a superare sul piano della conoscenza il mondo dei fenomeni. Ma l’apparenza della dialettica, in quanto trascendentale è connaturata alla ragione umana e quindi continua a dare l’illusione di essere vera anche quando se ne dimostri la falsità. La dialettica è perciò una logica dell’apparenza, in quanto la conclusione, pur derivando logicamente dalle premesse, non è necessaria, perché non sono necessarie le premesse in sé da cui prende le mosse; il suo obiettivo è quello di far prevalere una particolare attestazione di realtà e quindi mira alla persuasione dell’interlocutore: il potere di affermare e contraddire; è noto il detto dei gesuiti per cui “concede parum, nega saepe, distingue semper”. 7 Il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia chiudeva una intervista affermando, dopo aver enunciato che se chiedesse a cento persone il loro orientamento circa una determinata questione su cui decidere, queste non sarebbero d’accordo tra loro: «Ascolto tutti, poi decido io». Ciò evidenzia una cruciale criticità rispetto a quanto promosso/promesso durante la campagna elettorale: «Comitati di quartiere, associazioni, singole personalità, università, grandi vecchi e giovani creativi: tutti quelli che per mesi hanno contribuito a costruire il sogno arancione, che hanno affollato piazze e teatri, che hanno assaporato in quei giorni il frutto della condivisione di un progetto, ora chiedono di passare — metaforicamente — all’incasso, trasformando le proposte in atti, le idee in decisioni. Non vogliono più solo dire la loro, ma si aspettano che la loro diventi realtà» (la Repubblica ed. di Milano del 5/1/2012). Si traccia qui un ruolo della partecipazione declinata come mera consultazione, che si pone ai gradi più bassi della scala delle strategie per generare processi partecipativi e che risulta inadeguata a gestire le criticità che il testo del Sindaco anticipava, ovvero la polverizzazione degli interessi e delle opinioni che li attestano. 52 quanto tale condivisibile? Per dirla con la sceneggiatura di un noto film in cui Totò e Peppino De Filippo sono protagonisti8, è utile ai fini della nostra riflessione porsi la domanda: «per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare»? Non sarà necessario prima definire “dove vogliamo andare”, e in virtù di ciò generare strategie utili, adeguate ed efficaci? «PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE, PER DOVE DOBBIAMO ANDARE?» Per gestire le criticità (definibili come snodi che a seconda della strategia impiegata possono evolvere una determinata situazione in un senso o in un altro) che la modernità radicale (Giddens 1994), o liquida (Bauman 2002) o come definita da Beck (2000), la seconda modernità riflessiva e i cambiamenti epocali che il pianeta attraversa pongono nella quotidianità è necessario compiere uno scarto dalla modalità conoscitiva adottata, caratteristica del senso comune, con un franco slittamento da un paradigma di realismo ontologico sostanzialista, ancorato a modalità ingenue e fondato sulla “realtà del percetto”9: tutto è sotto il sole (έν πυρóς), a un realismo concettuale che generi teorie fertili in grado di produrre l’osservato (in virtù della scelta teorica libera e argomentata dell’osservatore) e quindi che liberino dal “panico epistemologico” (Bateson & Bateson, 1989) che si produce quando l’osservatore teme di perdere la referenza “materiale” e ontologica dell’oggetto conoscitivo, referenza sostenuta dall’impiego denotativo e connotativo del linguaggio comune, come se il mondo fosse l’insieme delle cose e il linguaggio ancillare alla loro denominazione. Si dà atto conoscitivo solo quando si è in presenza del dubbio (Wittgenstein 1999), del non–so metodologico (Colaianni 2007) e, come evidenzia tutta la storia della scienza fino a oggi, tali processi sono contro intuitivi e pongono come propri oggetti osservativi elementi che sono per lo più fuori della portata dei meri apparati percettivi umani e quindi della comune esperienza (si pensi alle onde elettromagnetiche, oppure alla non percepibilità della dimensione del tempo nella relatività generale). Nella ricostruzione che Malcolm (1949, 200–20) dà delle condizioni perché vi sia atto conoscitivo, la grammatica di «so che p» richiede: - che vi possa essere un dubbio; - che si possano fornire ragioni per il proprio sapere che p; - che sia possibile un’indagine che determini se si dà il caso che p. Pertanto il medesimo processo conoscitivo non sarebbe concepibile se non fondato sulla grammatica e quindi sul lin8 Totò, Peppino e la malafemmina, 1956, regia di C. Mastrocinque. 9 Ovvero sulla configurazione di realtà che l’ancoraggio al percetto genera; come diceva George Edward Moore (1942) a Wittgenstein: «so che qui c’è una mano, che questa è la mia mano, indubitabilmente questa è la mia mano», evidenziando la forza retorica del sancire l’Ente (ciò che si dà in virtù della sua essenza, sostanza, ciò che sta sotto), come modalità conoscitiva. Ma, come si riporterà più avanti, non si dà atto conoscitivo se non vi sia possibilità del dubbio. SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI guaggio, tanto che Bachtin può asserire che «Dove non c’è un testo, non c’è neppure l’oggetto di studio e di pensiero» (Bachtin 1929, 291). Collocarsi nel processo di generazione delle configurazioni di realtà, discorsivamente intesa, come alveo adeguato e appropriato al tema che trattiamo – e quindi individuare come oggetto osservativo il linguaggio – fa sì che si possa prescindere dagli aspetti di contenuto che i discorsi presentano e permette di distogliersi dalla cosalità obbligata dell’ontologia, senza perciò perdere in realismo; permette di occuparsi di come tale realtà venga a configurarsi in virtù dei discorsi prodotti nella comunità dei parlanti e di anticipare le possibili ricadute pragmatiche. Sintonicamente con quanto Wittgenstein asserisce, definendola come tutto ciò che accade (p.1). Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose (p. 1.1) (Wittgenstein 1964), singolo individuo, ma lo ricomprende per definizione, ovvero come cosa data a cui si appartenga12e che di per sé includa (si legge spesso, in testi di progetti, di delibere comunali o di leggi, di “inclusione sociale” e di “integrazione”, poste come obiettivo di per sé evidente), come un perimetro che distingua tra insiders e outsiders, per cui il confine (limes) è tracciato tra chi è dentro e chi è fuori; ciò in virtù, per esempio, di una “cultura” giudicata comune, di quel qualcosa che si pre–suppone condiviso in quanto al fondo, alla base (culus) di quanto si “coltiva” (coleo)13 che permette l’attribuzione di un “noi” antinomico a un “tutti gli altri”. In virtù di tale configurazione si producono, per esempio, i discorsi sull’identità come fondata sull’appartenenza territoriale con tutte le nefaste conseguenze che è possibile rilevare come ricadute di tale configurazione; ma anche in virtù di ciò che ciascun individuo reputa essere “comune” e sancisce come tale. L’etimo del termine permette di porre il costrutto su un piano differente, più fertile e utile a generare il cambiamento nel senso auspicato dal testo dell’articolo riportato in apertura: cum munus, deriva da munus, –ĕris: dono, regalo, dovere, funzione, impegno, tributo, spettacolo, compito, carica, tassa, favore, funerale; munus dare: offrire uno spettacolo; munere vacare: essere esentato dal servizio militare; templis munera ferre: recare offerte agli dei; lungi dall’indicare ciò che è contenuto entro un perimetro – fisico e/o attributivo – e da esso è definito, il termine esprime invece un compito, un impegno, un vuoto che ci interroga: la comunità non si dà, non è data; la comunità si configura facendola nell’interazione, nella polifonia delle “voci narranti” (Bachtin 1968). Essa la “realtà” si configura in virtù delle azioni comunicative che il linguaggio – i giochi linguistici come forma di vita – porta all’esistenza (da ex sistere: essere in atto)10. Il contributo che tale ricollocazione è in grado di offrire va proprio nel senso di sottrarre al mero senso comune costrutti diffusi nei discorsi che si producono nella comunità dei parlanti e quindi alla definizione che ciascun parlante ne dà in virtù di teorie personali e in un determinato tempo – come osservato nel testo in apertura del capitolo – quali “bisogno”, “problema”, “esigenza”, “comunità”, “cultura”. Riprendendo quanto asserito da Dewey (riportato in esergo), se cambia la modalità conoscitiva, “cambia anche il contenuto di realtà di un oggetto”; tali forme lessicali, quindi, meritano una considerazione in virtù del loro pervadere lo spazio discorsivo e della loro riconfigurazione nel senso scientifico in virtù della scienza dialogica: pertanto, se è condivisibile che prima di definire il “per dove si debba andare” sia necessario definire il “dove andare”, e quindi l’obiettivo di “generare comunità”, è innanzitutto necessario poter dare di tale costrutto (e poi degli altri citati che verranno considerati più avanti) una definizione dialogica e ”terza”. La referenza di tale forma lessicale nel senso comune è per lo più indicata in “qualcosa che è” (impiego del verbo essere sostantivo e non copulare– attributivo)11 là fuori; questo “qualcosa” non coincide con il Se si dà possibilità di incontro tra perfettamente “altri” – stranieri a se stessi, scriverebbe Fernando Pessoa – e quindi anche con colui che sopraggiunge, tra individui che non ancora condividono in quanto perfettamente sconosciuti, ma che possono generare tale processo di condivisione in quanto abitano il linguaggio, è possibile parlare di un processo che non appartiene a nessuno in particolare e in modo esclusivo e 10 Un rappresentante della corrente filosofica del “nuovo neo realismo” come Markus Gabriel, e quindi un tenace costruttore di discorsi di referenza ontologica afferma: «Che cos’è il mondo? È un’entità di cui può essere detto che esiste in ogni caso – molti dei pensieri di Moore sembrano prendere questa direzione – o è un dominio? [...] L’esistenza non può essere una proprietà propria, a livello degli oggetti. […] Che cos’è, allora, l’esistenza? Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione– in–un–mondo. Essa non è la relazione di ”rientrare sotto un concetto” o di ”soddisfare una funzione”, ma il fatto che qualcosa appaia all’interno di un campo di senso, che sia all’interno di un mondo» (Gabriel 2012, 40–46). Pertanto “il mondo” è definibile come un atto conoscitivo generato da un soggetto conoscente entro una “provincia finita di senso” (Schütz 1979): «in principio era il verbo». 11 “essere”, tanto come verbo che come concetto, costituisce uno dei più significativi punti di incontro tra riflessione linguistica e filosofica; un punto di incontro che costringe a ripercorrere la storia non conclusa di quella che è considerata da alcuni filosofi del linguaggio, come Bertrand Russell «una disgrazia per l’umanità». Come spiega bene Moro, sul fatto che il verbo essere esprima temporalità ci sono pochi dubbi, ma è solo dopo lunghe riflessioni che si è emancipato dal ruolo di coprotagonista per diventare, attraverso una sineddoche linguistica, il «campione stesso dell’affermazione» (Moro 2010, 54). 12 A proposito della potenza retorica che il sancire qualcosa esprime, si ricorda come enuncia la Costituzione italiana al Titolo II, art. 29 la definizione di famiglia: “società naturale”; si attesta un chiaro ossimoro (la natura non richiede normazione) per cui si attribuisce a un istituto giuridico, che è tra quelli più regolati nelle differenti società, lo statuto di “naturale”. Tale attestazione non richiede giustificazione argomentativa e diventa senso comune. Salvo poi, nel tempo, richiedere una revisione alla luce del senso scientifico e della varianza delle possibilità umane. 13 La sceneggiatura del film “Mio cognato” di Alessandro Piva evidenzia come la non conformità con comportamenti attesi in un determinato contesto sociale metta in discussione l’identità come appartenenza alla cultura “comune”: “la vuoi la birra? – No, grazie – Allora non sei di Bari!?” https://www.youtube.com/watch?v=y9E85Av6Ouc non è una proprietà, un pieno, un territorio da difendere e separare rispetto a coloro che ne fanno parte, ma un vuoto, un debito, un dono (i significati di munus) nei confronti degli altri, che ci richiama nello stesso tempo alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi (Esposito 1998, presentazione). 53 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 non di uno stato, non di una condizione disposizionale di un aggregato di individui. Fare comunità è un processo continuo che, generando “coesione sociale”, sia in grado di produrre responsabilità condivisa tra tutti i cittadini, non solo tra i portatori di interessi riconosciuti (stakeholder); anzi, che collochi ciascuno a partire dal proprio ruolo sociale nel ruolo di community holder14; ma, più coerentemente con quanto scritto, l’espressione più adeguata potrebbe essere community makers. In altri termini, tutte le politiche pubbliche, che dichiarano di mirare al massimo di “inclusione sociale” attraverso processi di assimilazione degli individui giudicati anormali/devianti/emarginati/stranieri a ciò che è enunciato15 e assunto essere lo statuto della comunità, si rivelano fallimentari rispetto all’obiettivo dichiarato e in più autoritarie e disabilitanti delle competenze delle persone (Illich 2008), generatrici di stigma e di maggiore esclusione. La pervasione linguistica dello spazio comunitario da parte dei dispositivi politici e disciplinari attraverso l’identificazione di/e l’interlocuzione con portatori di interessi espropria il singolo cittadino della propria vocazione e della possibilità di agency (Colaianni 2004), della voice, e preclude ogni possibilità che si generi comunità, per cui nel caso migliore, ubi ius ibi societas, e quindi si dispone solo di quanto il sistema normativo–giuridico è in grado di offrire per gestire controversie e conflitti: i confini (limes) rimangono tali e non si trasformano in soglie (limen) (Alexander Langer); non è possibile portarsi ultra ius verso la communitas. In particolare, l’inadeguatezza teorica del riferimento al costrutto di stakeholder nella definizione operativa di “comunità” si evidenzia – oltre che nella rilevazione sul campo circa la difficoltà di gestire la molteplicità e polverizzazione di interessi spesso conflittuali tra loro e nella considerazione che tali interessi siano solo quelli che hanno già “voce” e quindi di per sé non rappresentativi se non di quella parte che vi si riconosca – proprio nella sua origine: il suo impiego deriva come metafora tratta dal ruolo di colui che teneva le scommesse di singoli giocatori/investitori, per cui viene speso in un ambito quale quello di “comunità” – come responsabilità condivisa – in cui ha poco gioco nel generare tale condivisione, operando in senso divergente: vengono rappresentati solo gli interessi di tutti coloro che a vario titolo sono implicati nella “scommessa” e i cui interessi sono ben definiti ed espressi (Stakeholder theory: Freeman, 1983)16. 14 Cfr. Turchi, Gherardini 2014, Politiche pubbliche e governo delle interazioni della comunità. Il contributo della metodologia “Respons. In.City”, Milano: Franco Angeli. 15 Cosa “comunità” significhi in tal caso risente dei processi di gerarchizzazione sociale; la conformità dell’individuo è sancita in virtù dei sistemi disciplinari e politico–istituzionali: «Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno». «La domanda è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi». «La domanda è» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qui» (Carroll 1993, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio magico. Ediz. integrale, Roma: Newton Compton). 16 «A person, group or organization that has interest or concern in an organization. Stakeholders can affect or be affected by the organization’s actions, objectives and policies. Some examples of key stakeholders are 54 Pertanto tale costrutto non permette di approssimarsi a una prospettiva di superamento delle differenti opinioni individuali (una testa, un voto) e in quanto tali esclusive per definizione, per generare una realtà terza generata dal processo di condivisione, che ancora non è data; non a caso “condividere” contiene il riferimento innanzitutto a un atto conoscitivo: dividere: prov. devire; rad. VID che viene identificato con VID–ÈRE vedere, chi è il senso originario di sapere, apprendere, giudicare, o anche quello di cercare, trovare, in quanto la divisione, l’analisi è fonte di cognizioni. L’attestarsi sul sancire un interesse particolare non permette di per sé di “vedere” altro se non tale interesse. Le considerazioni offerte intorno a come definire “comunità” in termini tali che aprano una prospettiva operativa e non meramente speculativa meritano una specifica trattazione che non impegna il presente testo; in questa sede è necessario proseguire con l’esaminare alla luce di tale anticipazione l’uso che il senso comune fa dei costrutti sopra cennati di “bisogno” e di “esigenza”, per rispondere all’obiettivo posto; infine si offrirà una considerazione sulla valenza attribuita anche in ambito scientifico all’immedesimazione empatica, ritenuta nella comunità dei parlanti modalità utile – scriverei “regina” – nel processo di generazione di coesione sociale. Nei discorsi che vengono prodotti intorno a tali arcipelaghi di significato, essi – coerentemente con la caratteristica sostanzialistica che il senso comune attribuisce loro con l’impiego ostensivo del linguaggio (quanto detto viene sancito nella sua realtà per il solo essere detto17) e, parimenti, i discorsi generati a riguardo dalle scienze -logos come la sociologia e la psicologia – vengono impiegati come sinonimi, attribuendo loro lo statuto di “enti” e, in quanto tali, sono posti come oggetto di rilevazione, misurazione e di calcolo. Il “bisogno” viene denominato e attribuito ad altri come “mancanza di qualcosa” da chi ne ha facoltà e potere, fino a essere posto come pivot delle politiche pubbliche; il decisore ascolta, rileva, quantifica e prevede; quindi dispone per “rispondere” al “bisogno” (generalmente in modo autoreferenziale), considerato come rilevante e generalizzato, secondo una logica di razionalità sinottica lineale. Se si legge quanto enunciato nella letteratura corrente, per esempio, di sociologia e di servizio sociale, la “rilevazione del bisogno” compare nella filiera conoscitiva definita come fase appropriata alla “metodologia” dell’intervento sociale, attestando retoricamente una referenza ontologica del termine lessicale, laddove si tratterebbe solo di rilevare ciò che è “là fuori”, costituito in virtù di relazioni di causa–effetto; per esempio, creditors, directors, employees, government (and its agencies), owners (shareholders), suppliers, unions, and the community from which the business draws its resources. Not all stakeholders are equal. A company’s customers are entitled to fair trading practices but they are not entitled to the same consideration as the company’s employees. The stakeholders in a corporation are the individuals and constituencies that contribute, either voluntarily or involuntarily, to its wealth–creating capacity and activities, and that are therefore its potential beneficiaries and/or risk bearers» (Post, Preston and Sachs 2002). 17 «Questo ve l’ho detto tre volte, e perciò è vero» (da Carroll L. 1876, The Hunting of the Snark, Macmillan). SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 | SCIENZE POLITICHE E SOCIALI Anna Maria Campanini scrive che l’intervento […] non è concepito come una semplice omologazione del soggetto al suo contesto, ma si cerchi di sottolineare la specificità di ciascun soggetto, la partecipazione attiva a questo processo, la necessità di operare sul contesto in modo che questo si apra e si modifichi per meglio rispondere ai bisogni (corsivo del r.) delle persone (Campanini 1999, 22). Il testo indica l’inizio di uno slittamento circa quanto rappresentato in merito al costrutto verso una dimensione di azione definita «partecipazione attiva» dell’individuo, che si valuta essere in grado di “aprire e modificare” – non viene definito cosa – «per meglio rispondere al bisogno», posto come elemento attrattore e non meglio definito (tutti sanno cosa sia un “bisogno”); ciò tuttavia non ne muta la configurazione che rimanda a un realismo ontologico referenziale. Folgheraiter spinge più avanti le sue considerazioni: Quando la contingenza pratica è rilevante, è più facile che [... si] cada in preda di una subdola tentazione, un’apparente scorciatoia metodologica, in realtà più spesso una trappola. Potrebbe lasciarsi andare al seguente (sensato) ragionamento: dal momento che la situazione che crea il problema c’è (corsivo del r.), e quindi può essere eliminata, perché non farlo direttamente? Perché, si dovrebbe rispondere, è limitativo pensare la soluzione del problema solo come attacco, da parte dell’operatore, alla contingenza oggettiva che lo crea (corsivo del r.). Quella idea è teoricamente insufficiente. E non solo: fatte salve trascurabili eccezioni, essa è insufficiente anche empiricamente, dato che in genere non funziona. […] La semplicistica idea del ruolo del servizio sociale solo come attività di erogazione di risorse pubbliche standardizzate, in risposta a veri o presunti problemi oggettivati (corsivo del r.), nasce precisamente da questo nodo. […] Ciò vuol dire, in termini intuitivi, che se qualcuno sta ricercando una soluzione per una persona diversa da se stesso, questa non può reggere se non è tale anche agli occhi di quest’ultima (Folgheraiter 1998, 158). Il testo introduce riferimenti a una “situazione che crea il problema”, a una “contingenza oggettiva” che creerebbe il “problema”; una strategia che miri ad “attaccare” tale contingenza è ritenuta fallace, in virtù di una modalità conoscitiva definita “intuitiva”, e quindi “pratica”18 che si rileva essere “teoricamente insufficiente”. Infatti manca una teoria che permetta di collocare il costrutto “bisogno” (lessicalmente posto come “problema”, [dal gr. πρόβλημα _ατος «sporgenza, promontorio, ostacolo, questione proposta», der. di προβάλλω «mettere avanti, proporre»]) in una prospettiva evolutiva a ogni livello, da quello dell’intervento sociale nei vari ambiti, a quello degli interventi di attivazione di processi partecipativi e quindi delle interazioni comunitarie. Che il costrutto appartenga a un dominio meramente discorsivo (legami retorici) piuttosto che empirico–causale è rilevabile anche nella letteratura che ne tratta, laddove ciascun autore – come avviene nel senso comune – ne traccia una propria definizione referenziale; tra i molti, Bradshaw (1972) mette in relazione bisogni e modalità di risposta (erogazione dei relativi servizi che mirano a soddisfarli) e definisce quattro categorie: – bisogno normativo: è quello definito da un esperto pro18 La pratica si fonda sull’esperienza (capacità, non trasferibili, né trasmissibili) e quindi su teorie personali di senso comune; la prassi si fonda sulle competenze (trasmissibili nella formazione e trasferibili tra differenti contesti) e quindi sul senso scientifico. fessionale; – bisogno avvertito: è quello contemplato nelle aspettative dell’utente; – bisogno espresso: è l’espressione di quello avvertito in un comportamento, ovvero coincide con il concetto di “domanda”; – bisogno comparativo: è definito dal confronto tra persone che siano in stato di necessità e altre che per quello stato già usufruiscano di interventi. È evidente come le descritte specificazioni del costrutto si fondino su meri atti discorsivi (speech act, Austin 987), generati dal soggetto (io ho bisogno di...) in virtù di una richiesta o da un secondo che li denomini (tu/voi/loro hai/avete/ hanno bisogno di...); comunque si è al cospetto di almeno quattro arcipelaghi semantici differenti. Anche l’etimo del termine rimarca lo slittamento da una originaria dimensione interattiva (cura, sollecitudine, attenzione) a una dimensione oggettuale connotata da una attestazione soggettiva/individuale di una mancanza, e quindi non “terza”, di quanto venga attribuito (o auto attribuito): bisogno: dal fr. Besoin, lat. med. BISÒNIUM, BÈ SOMNIUM = SUNNIA, SONIA (nella Legge Salica), cura, sollecitudine, attenzione; divenne con valore generico mancanza di qualche cosa, necessità e impedimento, per il legame che esiste tra cura e necessità, cioè cosa che preme, molesta, e cosa che trattiene, che ostruisce (Treccani). Il riferimento a “bisogno” come descritto nelle varie specificazioni, comunque venga definito, non è utile per la calibrazione dell’intervento in ambito sociale in senso evolutivo e trasformativo, né sul piano teorico – come enunciato da Folgheraiter –, né sul piano empirico; a tale proposito, Clayton (1983, 215) critica «questa classificazione su un terreno pratico, ma non solo [...], pur portando a una migliore comprensione dei bisogni, non aiuta in alcun modo a decidere se fornire effettivamente un determinato servizio o meno». Gilbert Smith (1980), in uno studio sul funzionamento di un distretto sociale, ha mostrato che il bisogno è costituito amministrativamente dalle decisioni degli assistenti sociali man mano che essi procedono nel loro lavoro quotidiano. Kemshall (1986) ha studiato un’équipe di servizio sociale di distretto, e ha mostrato che le decisioni sui bisogni risultavano dalle reazioni quotidiane degli operatori ai problemi con cui si confrontavano; «reazioni che, in seguito allo stabilirsi di un consenso dinamico all’interno dell’équipe, reinterpretavano continuamente le definizioni ufficiali dei bisogni fornite dalla normativa» (in Payne 1998, 37). Il riferimento al costrutto di “bisogno”, impiegato come se si fosse in presenza di un concetto semanticamente univoco (caratteristica propria del concetto) e che invece presenta una definizione incerta e sfumata, lo priva di fondamento scientifico e lo espone a etero attribuzioni come quelle esaminate, legate a specifici contesti discorsivi politici, istituzionali e organizzativi che condizionano quanto si intende mettere in atto attraverso le risorse effettivamente rese disponibili da scelte pre–determinate in virtù della definizione attuale che la comunità dei parlanti attribuisce. Così, ciò che si riteneva di poter risolvere con la centratura sul bisogno (need–led), 55 SCIENZE POLITICHE E SOCIALI | SCIENZE E RICERCHE • N. 4 • FEBBRAIO 2015 ovvero di rendere l’intervento del decisore e del tecnico adeguato alla singola persona e alla singola situazione in virtù della risalita in generalità che considera l’insieme dei bisogni coincidente con il “bene comune”, si configura come un processo top down che risulta rispetto al “portatore del bisogno” – appunto – “calato dall’alto”, standardizzato, inefficace (una volta soddisfatto, si genera un nuovo bisogno e ciò che vi è di “comune” è solo tale modalità di reiterazione) e spesso anche con perdita di efficienza: il “bisogno”, si potrebbe asserire, è il modo con cui l’individuo, che si collochi nel ruolo di cittadino, di utente di un servizio, o di politico, o di tecnico, “dice” in virtù di teorie personali non condivise e non esplicitate, cosa manchi per realizzare un obiettivo altrettanto non condiviso; ovvero è il “prodotto” linguistico di una modalità conoscitiva propria del senso comune (ciascuno, nel “dire”, pone il “detto” come dato di fatto che è sancito per tale modalità che come appartenente a tutti): ciò è attestato da quanto il Sindaco di Milano in apertura del capitolo esprimeva: «Ascolto tutti, poi decido io», che evidenzia la criticità che quanto raccolto dai cittadini non è di per sé condiviso/condivisibile dalla comunità dei parlanti (cittadini, decisori, apparti tecnici, opinione pubblica), così come per quanto si è fin qui scritto è possibile facilmente anticipare. Se tale modalità fosse in grado di rispondere sia alla questione cognitiva, sia alla copertura dell’obiettivo (generare “comunità”), non ci si troverebbe in presenza della continua “produzione” di bisogni tutti differenti e non facilmente comparabili, che rende il costrutto non fertile ai nostri fini. Come sopra enunciato, il senso comune impiega in modo si56 nonimico anche il termine “esigenza”; fallacia evidenziabile dal considerare la sua etimologia che permette di sviluppare alcune considerazioni circa il suo impiego in ambito scientifico; esigenza: (gr. έξ·άγω), esìgere v. tr. [dal lat. exigĕre, comp. di ex– «fuori» e agĕre «spingere»], spingere fuori, portare, pretendere cosa dovuta; il costrutto permette di porsi immediatamente in una modalità dialogica, sottintendendo un movimento dal proprio luogo, un venire fuori in un luogo terzo, non proprietà esclusiva di ciascun parlante, in virtù di un criterio condivisibile: indurre, spingere, portare via, emettere, far uscire, costruire, cacciare, inseguire, incalzare, perseguitare, vivere, esistere, agire, fare, eseguire, operare, esercitare, compiere, occuparsi di, attendere a, trattare, discutere, proporre, parlare, sollecitare; sono verbi collocabili in un processo, piuttosto che in una dimensione ontologica: dall’essere all’esistere, dal “detto” al “dire”, in virtù di un processo conoscitivo fondato sulle modalità di impiego del linguaggio comune. Il costrutto apre a una posizione terza, a un luogo in cui convenire che non sia esclusivo di alcuno e che viene generato nell’interazione. Nell’orizzonte aperto dalla scienza dialogica e dal modello dialogico–interattivo, il costrutto “bisogno�