Gli effetti salutistici delle spezie di uso più comune

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Gli effetti salutistici delle spezie di uso più comune
Gli effetti salutistici delle spezie di uso più comune
- Andrea Poli -
Introduzione
Utilizzate da sempre soprattutto per insaporire o per conservare i cibi, le spezie possiedono
interessanti proprietà digestive conosciute fino dall’antichità. Solo negli ultimi decenni, tuttavia,
ricerche scientifiche, di base e cliniche, hanno studiato i meccanismi d’azione con cui le spezie
agiscono, e hanno permesso di evidenziare la loro capacità di indurre un aumento della secrezione
degli acidi biliari a livello epatico, migliorando la digestione e l’assorbimento dei grassi, e di
stimolare significativamente l’attività di una serie di enzimi come la lipasi pancreatica, l’amilasi e
alcune proteasi. In seguito ad un pasto arricchito con le spezie, quindi, la digestione è in genere
sensibilmente più rapida, e il tempo di transito del cibo nel tratto gastrointestinale è ridotto.
Inoltre le spezie, essendo prive di valore energetico, non solo insaporiscono alimenti e bevande
senza aumentarne l’apporto calorico, ma promuovono anche la termogenesi corporea e
aumentano il senso di sazietà. Alcuni di questi composti, in particolare (come il pepe nero, lo
zenzero e la capsaicina del peperoncino) potrebbero contribuire al mantenimento del bilancio
energetico e alla prevenzione del sovrappeso. Altri componenti delle spezie, secondo dati recenti,
svolgono poi effetti biologici potenzialmente interessanti (di natura Antiossidante, per esempio): il
loro uso, quindi, può presentare interessanti sorprese nell’ottica della relazione tra alimenti e
salute.
Pepe nero
Il pepe nero viene ottenuto dalle bacche acerbe del Piper nigrum, a differenza del pepe bianco che
viene estratto dalle bacche mature. E’ la spezia più diffusa al mondo e, benché venga utilizzata
prevalentemente in campo alimentare per rendere più piccanti i cibi, trova largo impiego nella
preparazione di farmaci e di cosmetici, come conservante e come insetticida. Analogamente alle
altre spezie, il pepe aumenta la secrezione dell’amilasi salivare, della lipasi pancreatica,
dell’amilasi, della tripsina, della chimotripsina e della lipasi intestinale. Le proprietà digestive del
pepe sono correlate alla riduzione del tempo di transito del cibo a livello del tratto
gastrointestinale, grazie all’effetto sia sugli enzimi digestivi che sulla secrezione biliare.
L’oleoresina che si estrae dal pepe contiene l’olio essenziale che gli conferisce l’aroma, e
soprattutto la piperina, un alcaloide irritante che non ha né odore né sapore, ma che modifica
significativamente l’intensità del gusto e quindi la percezione dei sapori, ed in particolare
dell’amarezza e dell’acidità. Come le altre spezie piccanti il pepe, alle dosi comunemente utilizzate,
non danneggia la mucosa gastrica; al contrario in letteratura è stata descritta un’azione protettiva
della piperina nei confronti dell’ulcera gastrica indotta sperimentalmente nel ratto e nel topo.
Inoltre, secondo i risultati di studi sperimentali, la piperina interagirebbe con i lipidi di membrana
delle cellule intestinali, modificandone la struttura, aumentando la lunghezza dei microvilli, e
quindi della superficie assorbente, e la permeabilità. Infine, in un recente studio condotto sui topi,
la piperina somministrata a basse dosi mostra un effetto lassativo, mentre ad alte dosi mostra
attività
antisecretoria
e
antidiarroica.
Queste osservazioni giustificano il tradizionale utilizzo del pepe nero nella preparazione di miscele
di erbe impiegate nel trattamento dei disturbi della motilità intestinale.
Studi in altri modelli animali hanno dimostrato che la piperina aumenta la biodisponibilità di
diversi nutrienti e di alcuni farmaci, dei quali inibisce il metabolismo in modo non specifico, ed
influenza la spesa energetica o termogenesi, soprattutto agendo sul sistema nervoso simpatico, la
cui
attività
è
inversamente
correlata
al
grasso
corporeo.
Ricerche in vitro hanno dimostrato per la piperina un’attività protettiva contro il danno ossidativo,
che è stata solo parzialmente confermata dagli studi in vivo: a basse concentrazioni essa si
comporterebbe quindi come trasportatore (e quindi, funzionalmente, da “neutralizzatore”) di
radicali liberi, mentre a concentrazioni elevate funzionerebbe da generatore dei radicali stessi. Nel
ratto l’aumento delle difese antiossidanti in seguito a somministrazione di piperina si riflette sulla
riduzione dell’ossidazione delle lipoproteine LDL, sulla protezione dal danno ossidativo associato al
diabete mellito, sull’effetto chemopreventivo e sul controllo dell’ossidazione indotta da una dieta
ad
elevato
contenuto
di
grassi.
Documentata a livello sperimentale è anche l’attività antinfiammatoria della piperina, che in un
modello di macrofagi peritoneali in vitro sarebbe in grado di inibire la risposta infiammatoria
indotta dal lipopolisaccaride. Inoltre in un modello sperimentale di artrite in vivo, la piperina si è
dimostrata in grado di inibire l’infiammazione indotta da urato monosodico.
Recentemente è stata infine evidenziata un’attività neuro protettive della piperina, che, in un
modello sperimentale che riproduce la patologia di Alzheimer nel ratto, ha avuto effetti positivi
sulle “performances” di memoria e ha ridotto significativamente la neurodegenerazione a livello
dell’ippocampo, probabilmente in associazione ad un riduzione dell’attività dell’enzima
acetilcolinesterasi.
Peperoncino e capsaicina
Il peperoncino deve il gusto particolarmente piccante ad un alcaloide, la capsaicina, componente
caratteristico del frutto di Capsicum, nel quale probabilmente funge da deterrente nei riguardi
degli
animali
erbivori.
E’ ormai dimostrato che la capsaicina provoca il rilascio della sostanza P da alcuni nocicettori,
desensibilizzando le terminazioni nervose che diventano insensibili al calore eccessivo ed agli
stimoli chimici, e perdono la capacità di rilasciare i mediatori coinvolti nella trasmissione nervosa e
nell’Infiammazione. Si ottiene così un effetto analgesico che è stato sfruttato per la preparazione
di applicazioni per uso topico da impiegare in casi di dolore cronico, come la neuropatia diabetica
e i dolori neuromuscolari. Una revisione sistematica che ha considerato sei studi controllati in
doppio cieco, condotti per più di quattro settimane, ha permesso di concludere che la
somministrazione topica di una soluzione allo 0,075% di capsaicina è efficace nella riduzione del
dolore, che è diminuito del 50-60% rispetto al trattamento placebo. Due trials clinici invece ne
hanno valutato l’effetto nella nevralgia posterpetica, un dolore neuropatico che interessa circa il
40% dei pazienti con più di sessant’anni un mese dopo l’attacco di herpes zoster. L’applicazione di
capsaicina si è rivelata efficace in alternativa agli antidepressivi triciclici, che rappresentano il
trattamento di elezione. Un recentissimo studio randomizzato condotto nella stessa tipologia di
pazienti, ha confermato l’efficacia della capsaicina, somministrata in forma di cerotto
transdermico.
Anche il dolore associato all’osteoartrosi sembra essere ridotto, anche se in modo meno
significativo, dall’uso topico di capsaicina soprattutto con l’aggiunta di glicerolo trinitrato che
riduce
il
rischio
di
irritazione
cutanea.
La capsaicina trova impiego anche nell’aumento della funzione vescicale e per ridurre
l’incontinenza urinaria, nella riduzione della nausea e del vomito nel decorso postoperatorio, ed è
stata testata nella cura del prurito associato all’insufficienza renale e come gastroprotettore nel
trattamento
con
antinfiammatori
non
steroidei.
La capsaicina è tra le spezie che hanno un effetto favorevole sulla spesa energetica,
sull’ossidazione dei grassi e sul controllo dell’appetito, in associazione con l’aumento dell’attività
del sistema nervoso simpatico. Aumentando il flusso ematico a livello gastrointestinale e
modulando le sensibilità neuronali, che influenzano la motilità intestinale, e il rilascio di ormoni da
parte delle cellule intestinali, la capsaicina sarebbe in grado di modulare appetito e sazietà.
L’effetto sulla sazietà sembra dovuto ad un meccanismo che coinvolge un particolare recettore,
denominato TRPV-1. Secondo uno studio recente, il consumo di circa 1 mg di peperoncino ricco in
capsaicina nella fase postprandiale aumenta le concentrazioni di GLP-1 (glucagone like peptide) e
tende a ridurre i livelli plasmatici di grelina, confermando quanto già osservato con concentrazioni
più
elevate
dell’alcaloide.
L’attivazione dello stesso recettore TRPV-1 sembra inoltre coinvolto nelle proprietà benefiche
della capsaicina a livello cardiovascolare: secondo un recente studio la capsaicina promuoverebbe
il rilascio di ossido nitrico e l’abbassamento della pressione arteriosa.
Curcuma
Benché utilizzata nella tradizione indiana soprattutto come antinfiammatorio, il principio attivo
della curcuma, o turmerico (il rizoma e la radice della Curcuma longa, che appartiene alla famiglia
dello zenzero), e cioè la curcumina, che è il pigmento che conferisce al curry il caratteristico colore
giallo, sembrerebbe possedere attività diverse.
Oltre all’uso in cucina per dare colore ai cibi e come conservante, la curcuma viene infatti
impiegata nella medicina tradizionale indiana per trattare diversi disturbi, come la flatulenza, la
dissenteria, le ulcere, l’artrite e le infezioni della cute e dell’occhio. La curcumina è stata isolata
per la prima volta nel 1815, e già all’inizio del secolo scorso veniva utilizzata per la cura delle
malattie biliari, come antibatterico e per ridurre i livelli di glucosio nel sangue. Negli ultimi 10 anni
il mondo scientifico si è sempre più interessato alle proprietà di questa spezia, che si è rivelata
anche un efficace Antiossidante, antivirale, antiproliferativo ed antinfiammatorio. Studi in vitro, in
particolare, hanno dimostrato la capacità della curcumina di inibire la COX2, la Lipossigenasi e la
Nitrossido sintasi, gli enzimi principali coinvolti nell’Infiammazione. Inoltre, gli stessi studi in vitro
evidenziano la capacità della curcumina di inibire l’attivazione del fattore i trascrizione Nf-kB, un
importante mediatore dell’Infiammazione. Probabilmente, come conseguenza di questa inibizione,
la curcumina si mostra in grado di ridurre la secrezione di alcune citochine pro-infiammatorie,
come l’interleuchina-6 e l’interleuchina-9.
L’osservazione che molti tipi di cancro sono più comuni in occidente che non in India, dove si
verifica un alto consumo di curcumina con la dieta, ha fatto pensare ad una sua potenziale attività
antitumorale: studi in vitro hanno dimostrato che la curcumina è in grado di ridurre l’angiogenesi
in cellule endoteliali umane; inoltre sembrerebbe inibire l’espressione del gene p53, che svolge un
ruolo fondamentale nell’evoluzione di diversi tipi di cancro. Per queste proprietà, la curcumina è
stata testata sia come agente chemioterapico che chemiopreventivo in diversi modelli animali di
carcinogenesi: da questi studi sono emerse le proprietà protettive della curcumina a livello
intestinale ed extraintestinale. Inoltre, risultati di un trial clinico condotto su 25 pazienti, hanno
suggerito che la curcumina, somministrata per via orale, può avere effetti chemio preventivi sulla
progressione di lesioni pre-maligne o ad alto rischio.
Nonostante siano circa 2500 gli studi in vitro e in vivo che hanno valutato le proprietà della
curcumina, solo poco più di 40 sono gli studi clinici condotti perlopiù su piccoli numeri di soggetti.
In generale essi hanno indicato che la curcumina a dosi elevate, fino a 15 g al giorno, assunte per
bocca per un periodo di tempo inferiore ai tre mesi, è del tutto sicura.
Dosaggi compresi tra i 450 mg e i 3,6 g al giorno sono stati testati in pazienti con cancro
colorettale. Sei mesi di trattamento con circa 1,5 grammi al giorno di curcumina sono risultati
efficaci nella riduzione sia del numero che della dimensione dei polipi in pazienti affetti da poliposi
adenomatosa familiare.
L’effetto della curcumina è stato dimostrato in diverse malattie infiammatorie croniche nell’uomo:
in soggetti con morbo di Crohn ha permesso la riduzione del trattamento farmacologico, in alcuni
casi di colite ulcerosa si è dimostrata efficace nel mantenimento della remissione e in associazione
con la piperina ha ridotto il livello di perossidazione lipidica in pazienti con pancreatite.
Poiché la perossidazione dei lipidi di membrana mediata dai radicali liberi è considerata, insieme
all’Infiammazione, una delle cause principali di patologie croniche come quelle cardiovascolari e
neurodegenerative, è stato ipotizzato che la curcumina possa trovare impiego preventivo o
terapeutico in questo campo. Alcune osservazioni epidemiologiche in popolazioni di anziani
asiatici confermano infatti che coloro che consumano regolarmente curry, e quindi curcumina,
hanno una migliore performance comportamentale e intellettuale rispetto a coloro che non ne
fanno mai uso. Per questo recentemente la curcumina è stata proposta come farmaco potenziale
per il trattamento dell’Alzheimer, e studi preliminari animali hanno dimostrato il miglioramento
del quadro clinico associato alla patologia e la riduzione del deficit cognitivo in modelli
sperimentali animali, anche se non hanno ancora permesso di chiarirne i meccanismi. Nonostante
questo, il primo studio clinico condotto non ha dimostrato effetti benefici della curcumina, ma
probabilmente dovuto al fatto che non si è verificato un significativo declino cognitivo nel gruppo
placebo. Vi sono attualmente tre trials clinici in corso atti a definire l’efficacia della curcumina sul
declino cognitivo.
Cannella
Anche la cannella comune (Cinnamomum verum, C. zeylanicum) e cassia (C. aromaticum) è da
sempre una delle spezie più utilizzate, per una serie di impieghi. Già citata nella Bibbia, in Egitto
era elencata tra gli ingredienti delle preparazioni utilizzate per imbalsamare le mummie, e nella
tradizione veniva somministrata come astringente e germicida. E’ anche uno dei più antichi
trattamenti utilizzati per la bronchite cronica. L’aroma e il gusto pungente dell’olio contenuto nella
corteccia della cannella vengono sfruttati anche per la preparazione di prodotti per l’odontoiatria,
di farmaci e di cosmetici, nonché per condimenti, dolci, bevande e per aromatizzare il tabacco. Ad
esempio un componente dell’olio di cannella, la cinnamaldeide, è utilizzata nei dentifrici per
mascherare il sapore del pirofosfato, composto da sapore sgradevole che inibisce la calcificazione
della placca bloccando la conversione del calcio fosfato amorfo in idrossiapatite.
L’efficacia della cannella è stata esaminata nei confronti di diverse patologie, tra le quali il Diabete
di tipo 2, l’infezione da Helicobacter pylori, la candidiasi associata all’HIV e la salmonellosi cronica.
La maggior parte degli effetti studiati sono stati messi in relazione con le proprietà antiossidanti ed
anti microbiche della cannella.
Le maggiori evidenze riguardano i benefici della Supplementazione con cannella nel controllo del
Diabete: in due trials clinici su tre, infatti, la cannella cassia si è dimostrata efficace nel ridurre la
glicemia a digiuno del 10-40%. Un trial clinico recente conferma gli effetti benefici della cannella su
pazienti affetti da Diabete di tipo 2: l’assunzione di 2g al giorno giornalieri di cannella per 12
settimane infatti, sembrerebbe ridurre in maniera significativa i livelli di emoglobina glicata
(8.22%), e la Pressione arteriosa.
Inoltre nei pazienti affetti da Diabete di tipo 2 la cannella migliorerebbe anche il quadro lipidico,
riducendo la trigliceridemia ed i livelli di Colesterolo LDL (Tabella 1). La cannella cassia
sembrerebbe più efficace in questo senso della cannella comune.
Un recente studio di intervento per il quale sono stati somministrati 6 g di cannella con un budino
di riso ha permesso di evidenziare che la presenza della spezia riduce lo svuotamento gastrico,
senza modificare il senso di sazietà, oltre a migliorare la risposta glicemica post-prandiale.
Recentemente benefici sul controllo glicemico sono stati osservati anche con quantità inferiori di
cannella, più vicine a quelle che potrebbero essere assunte con una dieta standard nella pratica
quotidiana. L’aggiunta di 3 g di cannella allo stesso budino di riso si è infatti dimostrata efficace
nella diminuzione dell’insulinemia post-prandiale e nell’aumento dei livelli di GLP-1 (glucagon-like
peptide-1), un ormone gastrointestinale che stimolerebbe la secrezione glucosio-dipendente di
insulina. Non sono stati descritti effetti sullo svuotamento gastrico e sul senso di sazietà con
dosaggi inferiori ai 3 grammi di cannella. Studi a più lungo termine sono comunque necessari per
dimostrare di effettivi benefici della cannella nel controllo del Diabete, che tengano anche conto
degli effetti sui livelli di emoglobina glicata (che come è noto riflettono la media della glicemia nei
tre mesi precedenti).
Esperimenti in vitro hanno dimostrato sia per la cannella comune che per la cannella cassia
un’attività Antiossidante, soprattutto se consumata sotto forma di tè, che contribuirebbe
all’effetto antidiabetico. L’estratto di cannella cassia inoltre, come emerge da studi in vitro, è un
potenziale agente antitumorale: possiede infatti la capacità di inbire la proliferazione delle cellule
tumorali e indurre la morte cellulare delle stesse, attraverso l’inibizione dei fattori di trascrizione
Nf-kB e AP1.
Per quanto riguarda la sicurezza sia la cannella comune che la cassia sembrano generalmente ben
tollerate e prive di effetti indesiderati, anche durante la gravidanza l’allattamento, alle dosi
comunemente utilizzate per la preparazione dei cibi.
Zenzero
Lo zenzero, cioè il rizoma della pianta perenne Zingiber officinale Roscoe, contiene alcune
centinaia di composti diversi, la cui concentrazione varia in base al paese d’origine, alla
conservazione e al fatto che sia fresco o essiccato; esso deve comunque alla presenza dei gingeroli
il caratteristico gusto pungente.
Sebbene venga coltivato per le sue proprietà medicamentose e culinarie da almeno 2000 anni, i
suoi effetti antinfiammatori ed antiossidanti sono stati scientificamente confermati solo negli
ultimi anni.
Studi in vitro hanno dimostrato che diversi componenti dello zenzero inibiscono in modo dose
dipendente la produzione di nitrossido, di citochine infiammatorie e di alcuni enzimi che
partecipano al metabolismo dell’acido arachidonico. Tutti questi composti sono mediatori
coinvolti nel processo infiammatorio, che rappresenta un importante fattore di rischio per le
malattie croniche ed in particolare per le patologie coronariche. Ricerche condotte in modelli
animali hanno permesso di quantificare l’effetto antinfiammatorio dello zenzero, che in alcuni casi
è simile a quello dei farmaci convenzionali, e di valutare la dose minima efficace che, secondo uno
studio retrospettivo nell’uomo, sarebbe di 1 g al giorno. Dosi più elevate permetterebbero di
ottenere effetti maggiori.
Il potere Antiossidante dello zenzero è elevato grazie alla sua capacità di trasportare i radicali liberi
e di proteggere i lipidi delle membrane cellulari dall’ossidazione. Secondo osservazioni nel ratto, lo
zenzero riduce la perossidazione lipidica e aumenta i livelli di enzimi antiossidanti e di glutatione,
dimostrando un’efficienza Antiossidante analoga a quella dell’acido ascorbico.
In animali diabetici carenti del gene per l’apolipoproteina E o alimentati con una dieta iperlipidica,
lo zenzero ha dimostrato di ridurre significativamente il Colesterolo totale, le lipoproteine LDL e
VLDL, i Trigliceridi e i fosfolipidi, nonché la formazione di lesioni aterosclerotiche e di cellule
schiumose, aumentando i livelli di Colesterolo HDL, come i farmaci ipolipemizzanti. Nel fegato
inoltre lo zenzero riduce la sintesi del Colesterolo, stimolandone la conversione ad acidi biliari ed
aumentandone l’escrezione fecale. Tali osservazioni tuttavia non hanno trovato confermategli
studi condotti in pazienti cardiopatici con livelli di assunzione di zenzero inferiori ai 4 g al giorno
Anche l’effetto sull’aggregazione piastrinica, mediato dalla riduzione della sintesi di eicosanoidi
(trombossani e prostacicline) è stato dimostrato esclusivamente in soggetti sani che hanno
assunto 5 g al giorno di zenzero in associazione ad una dieta ricca di grassi, ma non in soggetti
cardiopatici supplementati con 4 g al giorno per tre mesi.
In base ad alcuni dati sperimentali lo zenzero sarebbe inoltre in grado di bloccare i canali del
calcio, sviluppando quindi un’attività antipertensiva e vasodilatante, che è stata dimostrata
nell’animale, e che nell’uomo è stata parzialmente confermata dall’effetto sinergico della cosomministrazione di zenzero e nifedipina.
Infine alcuni studi suggeriscono come lo zenzero possa avere un potenziale impiego come
antitumorale: ad esempio, il 6-shogaolo, contenuto nello zenzero, ha un’azione antimetastatica
nei confronti delle cellule di cancro al seno, che avverrebbe attraverso una riduzione della
secrezione di metallo proteinasi-9 e la soppressione del fattore di trascrizione Nf-kB.
Ma l’impiego più tradizionale dello zenzero è per la cura di diversi tipi di nausea e malessere, primi
tra tutti quelli associati al mal di mare. I marinai che navigavano per lunghi periodi di tempo in alto
mare consumavano infatti in passato 1 g di zenzero al giorno, che riduceva drasticamente i sintomi
del mal di mare, ed in particolare la nausea e il vomito. Una recente revisione Cochrane supporta
l’efficacia dello zenzero nel controllo della nausea durante la gravidanza, senza lo sviluppo di
fastidiosi effetti collaterali. Infine una Metanalisi di cinque studi randomizzati ne suggerisce
l’utilizzo nella riduzione della nausea e del vomito anche durante il decorso post operatorio.
Conclusioni
I dati più recenti, in conclusione, mostrano come le spezie, selezionate nel tempo essenzialmente
per il loro sapore, contengano in realtà composti dotati di interessanti attività biologiche. Il loro
studio sistematico, secondo i principi classici della sperimentazione clinica controllata, ha aperto
alcune interessanti prospettive di impiego delle spezie stesse (o di composti specifici in esse
contenuti) nella prevenzione o nella terapia di alcune patologie molto diffuse nella nostra società.
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