Chiedi Chi erano i Beatles

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Chiedi Chi erano i Beatles
Chiedi chi erano i Beatles
Così, nel 1984, cantava il gruppo rock italiano degli Stadio. Appunto, chi erano? Si può rispondere in varie maniere a questa domanda. La prima definizione è che erano una band di quattro ragazzi di nome John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e
Ringo Starr, nati e cresciuti a Liverpool, in attività tra il 1957 e il
1970, il cui primo disco – il 45 giri Love Me Do / PS: I Love You –
è uscito esattamente cinquant’anni fa, il 5 ottobre 1962. Il successo è sopravvissuto allo scioglimento della band e alla morte di due
membri del quartetto, al punto che la raccolta Beatles 1, pubblicata
nel 2000, comprendente tutti i singoli classificatisi al primo posto
nelle classifiche americane e/o britanniche, è ancora il disco più
venduto del xxi secolo, con oltre 31 milioni di copie.
Altra definizione dei Beatles è che si è trattato del più influente complesso di musica leggera della storia, al punto da mettere in
discussione proprio l’aggettivo «leggera». Furono i Beatles i primi a compiere tournée planetarie con migliaia e migliaia di fan in
delirio, a incidere un pezzo pop con l’accompagnamento esclusivo
di un quartetto d’archi (Eleanor Rigby, 1966), a usare il mezzo cinematografico come embrione dei videoclip (A Hard Day’s Night,
film di Richard Lester, distribuito in Italia col ridicolo titolo Tutti per uno, 1964), a trovare artistiche alcune imperfezioni di registrazione al punto da includerle nella versione finale della canzone
(memorabile il feed-back1 di chitarra che apre I Feel Fine, 1964), a
incidere pezzi lunghi più di tre minuti, a pubblicare i testi (avvenne
per gli album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967, e The
Beatles, 1968). Tra l’altro, insieme a Pet Sounds dei Beach Boys e
Freak Out! di Frank Zappa, entrambi del 1966, Sgt. Pepper è tra i
primi concept album della storia della musica pop, ovvero un disco
1 Il feed-back o effetto Larsen è quel suono acuto disturbante, simile a un fischio,
prodotto da un amplificatore cui è stato avvicinato il microfono o il pick-up dello
strumento che lo stesso amplifica.
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che non fosse una semplice raccolta di canzoni, ma che avesse un
senso unitario. Per ultimo, come in uno scherzo del karma, i Beatles furono i primi a essere talmente amati dal pubblico da suscitare odio viscerale in gruppi religiosi cristiani che li definivano più
o meno satanici o da ispirare involontariamente personaggi diabolici quali Charles Manson, fino a pagare il prezzo che nessuno dovrebbe pagare: l’omicidio di John Lennon a opera di un criminale
che in questo libro non sarà nominato – come richiesto all’epoca
da Yoko Ono e Paul McCartney – dato che il movente del suo gesto scellerato era raggiungere la fama.
Una terza definizione di chi erano i Beatles, sicuramente più cinica, ma non per questo meno veritiera, è che erano, sono e saranno ancora per molto tempo un brand, un marchio commerciabile in
tutto il mondo, contraddistinto da vere e proprie icone che richiamano il singolo e il gruppo. Il brand dei Beatles è inoltre associato
a un’epoca ben precisa, gli anni Sessanta del Novecento, insieme
alla Swinging London delle minigonne di Mary Quant, al nuovo
esile modello femminile incarnato dall’attrice Audrey Hepburn e
dalla modella Twiggy, alla rivoluzione sessuale scatenata dalla diffusione della pillola anticoncezionale, alle proteste contro la guerra in Vietnam, all’uso massiccio di droghe, senza dimenticare l’Aston Martin di James Bond, le magie calcistiche di Pelé e i discorsi
di Martin Luther King: tutto in un decennio incredibile che si apre
con il successo sovietico del lancio del vettore Sputnik nello spazio
e l’innalzamento del Muro di Berlino, e che si conclude con Neil
Armstrong che cammina sulla luna, mentre in Italia si apre con il
governo Tambroni e gli scontri di Genova e si conclude con Piazza Fontana, passando per gli angeli del fango del 1966 a Firenze.
Analizzare il fenomeno Beatles può sembrare quindi operazione analoga a quella di studiare altri brand globalizzati, siano
Harry Potter o l’opera di un grande cineasta, se non addirittura la
globalizzazione come fenomeno a sé. Ma i Beatles non sono solo
espressione della nascente globalizzazione: sono uno spartiacque
tra un mondo che non c’è più e il mondo di oggi, rappresentano una
cesura più forte del naturale scorrere del tempo e del susseguirsi
delle generazioni. Pochi personaggi nella storia sono a loro paragonabili da questo punto di vista: uno su tutti, Martin Lutero, uomo del Medioevo, considerato tra i padri della Modernità. Certo, i
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Beatles non conoscevano la posta elettronica e il World Wide Web,
John Lennon sarebbe morto ben prima di vedere cadere il Muro di
Berlino e George Harrison appena dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York. Ma è fuor di dubbio che il quartetto di Liverpool è stato protagonista di un periodo di grandi cambiamenti, le
cui conseguenze, nel bene e nel male, arrivano fino ai giorni nostri.
Gli anni Sessanta del Novecento sono un punto di svolta anche
per il ruolo che il cristianesimo assume nella società occidentale,
paragonabile solo ai grandi rivolgimenti causati – ancora Lutero
– dalla Riforma del xvi secolo. L’8 aprile del 1966 il settimanale
americano “Time” pubblicava una delle sue copertine più dirompenti: una sobria ma solitaria scritta rossa su fondo nero «Is God
dead?» («Dio è morto?»). Proprio in quegli anni, ispirati alla profezia fineottocentesca di Nietzsche, alcuni teologi statunitensi teorizzarono addirittura una “teologia della morte di Dio”, pur non
riuscendo a mettersi d’accordo sul significato di tale espressione.
La questione della morte di Dio si affermò in quegli anni probabilmente perché erano gli anni più duri della guerra fredda e tutti erano consapevoli del rischio reale di distruzione del pianeta. Il Concilio Vaticano II e la teologia della liberazione caratterizzavano il
mondo cattolico, ponendosi in un dialogo interessante con l’epoca, anche se, da una trentina d’anni a questa parte, sono fortemente ridimensionati se non addirittura contrastati dal magistero papale. Inoltre, la fine del colonialismo, l’indipendenza delle colonie europee in Africa e Asia, l’emancipazione dalle chiese madri
delle chiese sorte dalle missioni hanno cambiato il concetto stesso
di missione. I rapporti di forza nel cristianesimo tra Europa, Nord
America e cosiddetto «Sud del mondo» cominciano a cambiare. Il
cristianesimo così come lo conosciamo oggi è una conseguenza diretta di come la società e le chiese hanno interagito in quegli anni.
I Beatles fecero parte di un movimento di ribellione a tutto ciò
che era establishment – una parola che potremmo tradurre come
«potere costituito» – e le chiese facevano parte di questo potere
insieme allo stato, all’esercito, al grande capitale e a un modello educativo che sembrava essere strumentale all’inquadramento
della persona in un sistema dove la sua individualità veniva annullata. Qualche anno più tardi, il gruppo comico inglese dei Monty Python, con amara ironia, in un episodio de Il senso della vi-
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ta (Terry Jones, 1981) avrebbe mostrato un’interpretazione molto
“anni Sessanta” della formazione scolastica inglese – egalitaria e
classista allo stesso tempo – come preparazione delle masse a servire da carne da macello in guerra. Beatles e Monty Python, coetanei e compatrioti: il paese che cessa di essere impero dopo quattro secoli riflette su se stesso e sul mondo.
Come reagirono le chiese all’epoca? In due maniere: contrastando o ignorando il fenomeno. In entrambi i casi, un muro. Questa è
stata una delle grandi cesure della storia della chiesa, paragonabile solamente al processo contro Galileo Galilei. Con alterne vicende, le chiese cristiane erano state per secoli un tutt’uno con la società, grazie anche alla loro capacità di dialogare e di inglobare le
diverse istanze. Con Galileo inizia la chiusura nei confronti della
scienza, con i Beatles viene sancita la chiusura nei confronti della
cultura popolare. Il prezzo pagato è stato altissimo: la secolarizzazione, un mondo che vive come se Dio non esistesse, un mondo
dove le chiese sono solo un’istanza della società come i sindacati, i partiti, le associazioni, un mondo dove Dio non è più il punto
di partenza, ma dove bisogna lavorare sodo per farlo diventare un
possibile punto di arrivo.
Forse però non è stato un male. Non è possibile mitizzare un’epoca che non abbiamo conosciuto, dove le chiese erano molto più
importanti di oggi, ma dove il messaggio cristiano era probabilmente addomesticato. Eppure vi erano stati dei segnali a riguardo:
la rivoluzione religiosa del Risveglio nel Settecento era un campanello d’allarme per una chiesa che era ormai diventata «del mondo»
e non solo «nel mondo». La ribellione di un’intera generazione di
giovani nei confronti delle chiese non era necessariamente una rivolta contro Gesù Cristo. È possibile leggere la protesta contro la
chiesa come establishment nei termini della distinzione fatta dai
teologi antinazisti Dietrich Bonhoeffer e Karl Barth tra fede e religione, dove la prima è connotata in senso positivo e la seconda in
senso negativo. Una distinzione che ha permesso la sopravvivenza
del messaggio cristiano e delle chiese in Europa dopo Auschwitz.
Ascoltare le canzoni dei Beatles, leggerne i testi e analizzarne
l’impatto sulla società da un punto di vista cristiano non vuole dunque essere l’ennesima lezioncina censoria dall’alto né una riabilitazione tardiva – sempre dall’alto – come quella recente (10 apri-
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le 2010) dell’organo del Vaticano “L’osservatore romano” – che
suscitò in Ringo Starr la laconica reazione «I couldn’t care less!»,
traducibile con: «Non me ne potrebbe importare di meno!». Questo vuole essere soltanto un umile tentativo di riallacciare quel dialogo tra fede cristiana e cultura pop interrotto bruscamente mezzo
secolo fa. A tale scopo proviamo a rileggere il fenomeno Beatles
“navigando” attraverso qualcosa che meno beatlesiano non potrebbe sembrare, ma che funge ancora da bussola nelle vite di molti: i
Dieci comandamenti.
Questi non sono, infatti, solamente dei precetti, ma si pongono
come trascrizione sintetica del rapporto tra essere umano e Dio, in
una dinamica tra il passato della memoria («il Signore Dio tuo ti
ha salvato»), il presente della scelta e il futuro dell’amore. O, come direbbero i Beatles, Love.
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Memoria
Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,
dalla casa di schiavitù. Non avere altri dei all’infuori di me
(Es. 20,2-3).
Io e te abbiamo ricordi
più lunghi della strada
che si perde davanti a noi1
(Two Of Us, 1970).
Anche se ogni fenomeno pop sembra sorgere dal nulla agli occhi
di chi ne fruisce, quest’impressione spesso non corrisponde a verità e neanche i Beatles infrangono questa regola. Il contesto storico
locale è fondamentale per comprendere la genesi, lo sviluppo e il
successo del gruppo. Proprio come il popolo di Dio deve fare memoria delle proprie origini, come intima il primo comandamento,
anche John, Paul, George e Ringo mantengono un legame molto
forte con la memoria di ciò che erano prima di diventare i Beatles.
Ringo Starr e John Lennon nascono nel 1940, Paul McCartney
nel 1942 e George Harrison nel 1943, tutti e quattro durante la
seconda guerra mondiale a Liverpool, grande città portuale del
povero e industrioso Nord, che ha pagato con pesanti bombardamenti la propria capacità produttiva. Oggi è una città molto ridimensionata rispetto all’epoca in cui i cantieri navali erano in
forte attività. Quando nascono i quattro ragazzi, il mondo abitava a Liverpool: sede della la prima comunità africana d’Inghil1
«You and I have memories / Longer than the road / That stretches out ahead».
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terra (eredità della tratta degli schiavi di cui la città era nodo importante), della più antica comunità cinese d’Europa, di decine di
migliaia di irlandesi (discendenti dei due milioni immigrati all’epoca della carestia delle patate nell’Ottocento), di una comunità
ebraica risalente al Settecento e di una comunità islamica che ha
una moschea dal 1887. È la città delle due enormi e bizzarre cattedrali – l’anglicana, simile a un tetro castello neogotico; la cattolica, simile a una tenda indiana di vetro, acciaio e cemento armato –, entrambe del xx secolo, che si fronteggiano su due colline unite da una strada casualmente e felicemente chiamata Hope
Street, «via della speranza».
Chi nasce durante la guerra conosce le privazioni e il cibo razionato che continuerà a essere razionato per molti anni, ma è anche tra i primi a non dover più prestar servizio di leva obbligatorio. Liverpool, crocevia dell’impero perduto, è il luogo dove arriva
per primo il rock’n’roll dagli Stati Uniti, dove i giovani si dedicano alla musica, dove si afferma un genere praticato e ucciso dagli
stessi Beatles – lo skiffle – suonato con banjo e strumenti improvvisati, come pentole e bacinelle metalliche. Nella miseria di una
città di poveri operai e di piccoli borghesi si comincia a respirare
aria di libertà.
La generazione dei Beatles che si libera dai lacci di una società rigida e asfittica, in realtà, è già stata liberata dagli eventi, dalla sconfitta di Hitler, dalla fine dell’impero britannico, dall’ascesa
dell’ex colonia americana a potenza mondiale e dunque libera dalle responsabilità che comporta essere i primi del mondo.
I quattro Beatles sono degni rappresentanti di questa città. Ringo, abbandonato dal padre pasticcere, passa l’infanzia all’ospedale
a causa della sua salute cagionevole e si affeziona al patrigno che
gli regala la prima batteria; John, abbandonato dal padre marinaio, è affidato dalla madre all’imborghesita zia Mimi; Paul, figlio
di un commerciante di cotone e di un’ostetrica; e infine George,
figlio di un autista di autobus e di una commessa.
I quattro giovani innovatori della musica e del costume non mancano mai di mantenere memoria di un passato da guardare con nostalgia, almeno fino allo scioglimento della band. La fama asfissiante di cui sono oggetto li sradica totalmente dalle origini, dal
capolinea periferico degli autobus di Penny Lane, dall’orfanotrofio
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dell’Esercito della Salvezza «Strawberry Field». Spesso i Beatles
rimpiangono un passato di libertà e di spensieratezza. La memoria
si trasforma in nostalgia; cantava John in Help! (1965):
When I was younger,
so much younger than today
I never needed anybody’s
help in anyway
but now these days are gone
and I am not so self assured.
Quand’ero giovane,
molto più giovane di oggi
non avevo bisogno di alcun aiuto
da parte di nessuno
ma ora quei giorni sono passati
e io non mi sento così tranquillo.
E rispondeva Paul, nel finale di Cry Baby Cry (1968):
Can you take me back
where I came from,
Can you take me back?
Puoi riportarmi da dove
sono venuto,
puoi riportarmi indietro?
Non c’è tuttavia una versione univoca della memoria per la band.
Per McCartney essa comprende la memoria di un popolo, della sua
famiglia, e per questo ammicca in alcuni brani lo stile degli anni Quaranta, con vere e proprie operazioni vintage, esaltazioni dei
«bei tempi andati»: Your Mother Should Know e Honey Pie, entrambe del 1968, ma anche molto più recentemente l’album solista
Kisses On The Bottom (2012). Degno di nota il sogno di un futuro idillico di When I’m Sixty-Four (1967), in cui Paul prevede una
vecchiaia molto vicina alla tradizione, fatta di pantofole, nipotini
e gite fuoriporta: McCartney compie 64 anni nel 2006, anno amarissimo per lui, segnato dal divorzio (costatogli oltre 70 milioni di
euro) dalla seconda moglie Heather Mills.
Per Lennon, passato e presente si mischiano, cambiando così
la percezione stessa della memoria a seconda della fase della vita in cui si trova. Emblema di questa confusione, l’identificazione
tra la moglie Yoko Ono e la madre Julia. Tracce di questo possono essere trovate in Julia (1968), canzone dedicata alla madre di
cui ha grande nostalgia e che ha vissuto poco con lui, nella quale è
chiamata, tra le varie cose, «Ocean Child» ovvero «Figlia dell’oceano», traduzione del nome giapponese Yoko. Sempre nel White
Album, troviamo Happiness Is A Warm Gun, in cui si fa riferimen-
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to a un rapporto sessuale con «Mother superior», espressione che
alludeva a Yoko.
Interessante che il primo brano di John Lennon / Plastic Ono
Band, primo disco solista di Lennon, s’intitoli Mother, con un testo struggente dedicato ai genitori:
Mother, you had me,
but I never had you
[…]
Father, you left me,
but I never left you
I needed you,
but you didn’t need me
[…]
Mama don’t go
Daddy come home.
Mamma, tu hai avuto me,
ma io non ho mai avuto te
[…]
Papà, tu hai lasciato me,
ma io non ho mai lasciato te
Io avevo bisogno di te,
ma tu non avevi bisogno di me
[…]
Mamma non andare via
Papà torna a casa.
Mother fa intuire il ruolo fondamentale avuto da Yoko Ono nella gestione dei fantasmi dell’infanzia di Lennon.
Il particolare rapporto di John con il presente e con la memoria
gli permette di scrivere un pezzo sui Beatles con un certo anticipo sullo scioglimento del gruppo: in Glass Onion (1968) Lennon
canta di come riesce ad astrarsi e a guardare alla band «in una cipolla di vetro», immagine ben più suggestiva della classica palla
di vetro, che richiama stratificazioni che, rimosse, permettono di
arrivare al cuore dell’identità propria e degli altri.
Nelle feroci polemiche tra McCartney e Lennon, in seguito alla
fine dei Beatles, colpisce come quest’ultimo abbia scritto in How
Do You Sleep? che
The only thing you done
was Yesterday
and since you’ve gone you’re
just Another Day
L’unica cosa che hai fatto
è stata Ieri
e da quando te ne sei andato sei
solamente Un altro giorno
citando la canzone di McCartney preferita da Lennon e il successo del momento di Paul, entrambe canzoni con riferimenti tem-
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porali. Tra l’altro, il «Te ne sei andato» rivela una colpevolizzazione simile a quella rivolta al padre, come se John si sentisse di nuovo abbandonato da un membro della famiglia.
Ringo Starr non rivela alcun rapporto degno di nota con la memoria, mentre troviamo un rapporto originale in George Harrison
attraverso il suo percorso nella religiosità orientale, che lo porta a
essere forse l’esponente più famoso del movimento Hare Krishna,
un po’ come oggi Tom Cruise lo è di Scientology. La ciclicità del
karma gli dona un senso di quasi-eternità che permette a lui – il
più giovane dei quattro – di scrivere testi più profondi e maturi a
riguardo, nella loro estrema semplicità. In Long Long Long (1968),
canta del tempo lunghissimo intercorso tra la sua perdita di conoscenza di Dio e la sua ripresa di consapevolezza. Va detto che per
Harrison c’è identità tra il Dio cristiano e Krishna, identità che comunque è in favore di quest’ultimo.
Il primo comandamento, su cui si fonda tutto il Decalogo, è sì
quello della sovranità di Dio, ma è anche quello della memoria
e dell’identità. È l’unico a non iniziare con una prescrizione, ma
con un’affermazione – «Io sono» – legata all’azione salvifica avvenuta: la liberazione degli israeliti dall’Egitto, terra di schiavitù.
È sulla base di questa identità che il comandamento prosegue con
il precetto «Non avere altri dei all’infuori di me». La memoria è
condizione necessaria alla fondazione di un popolo o, perché no,
della vita di una persona, oppure ancora, nel nostro caso, di quattro giovani inglesi.
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