2.3. Istigazione o aiuto al suicidio L`art. 580 c.p. prevede che
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2.3. Istigazione o aiuto al suicidio L`art. 580 c.p. prevede che
508 Parte prima – I reati previsti dal codice penale 2.3. Istigazione o aiuto al suicidio L’art. 580 c.p. prevede che “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”. Nella trattazione di questa fattispecie delittuosa, una premessa è d’obbligo: nel nostro ordinamento il suicidio non è oggetto di punibilità, neppure nella forma del tentativo, perché nonostante costituisca un disvalore sociale, la vita non può essere imposta coattivamente. Come puntualmente rilevato da un’illustre dottrina (Mantovani), nel nostro sistema penale il suicidio viene in rilievo in diverse situazioni giuridiche: a) come elemento costitutivo nei reati degli artt. 579, 589 c.p., degli artt. 14 e 15, l. 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa e art. 30, l. 6 agosto 1990, n. 223, sulla radiotelevisione; b) come conseguenza eventuale in altri reati (art. 572, co. 2, c.p., secondo certa dottrina e giurisprudenza, che vi ravvisa l’unica possibilità di punire la causazione non dolosa del suicidio, quale conseguenza della situazione di disperazione creata dai maltrattamenti; ed art. 586 c.p., fuori però dei casi rientranti nella norma speciale dell’art. 572, co. 2, c.p.); c) come eventuale mezzo per commettere il reato dell’art. 640 c.p. (e non dell’art. 642 c.p.); d) come oggetto materiale della contravvenzione di cui agli artt. 114-117 T.U.L.P.S. Ad avviso del nostro legislatore è punibile il comportamento di colui che determina altri al suicidio, per il principio dell’interesse pubblico alla indisponibilità della vita umana, e ciò giustifica la previsione della figura autonoma di reato di istigazione o aiuto al suicidio. Secondo il prevalente orientamento dottrinale, dal punto di vista strutturale, l’art. 580 c.p. non disegna un’ipotesi di reato a concorso necessario con soggetto non punibile, ma una fattispecie monosoggettiva (Mantovani); attraverso di essa il legislatore pertanto incrimina condotte che risultano tipiche non in quanto accessorie al fatto del suicida, non previsto, appunto, come reato, ma in quanto causalmente idonee ad offendere il bene protetto. In assenza della previsione criminosa in esame, infatti, i comportamenti meramente preparatori o accessori al suicidio non sarebbero punibili a titolo di concorso, posto che mancherebbe la fattispecie base su cui innestare la clausola dell’art. 110 c.p. Capitolo XIII – I delitti contro la persona 509 Il reato in esame è a forma libera, perché può essere compiuto con qualunque comportamento diretto al raggiungimento dello scopo prefissato dall’agente. A)Elementi costitutivi del reato. Il bene tutelato attraverso l’incriminazione dell’art. 580 c.p. è la vita, come bene indisponibile appartenente all’intera collettività. Per quanto attiene al soggetto attivo, il reato può essere commesso da chiunque; si tratta, dunque, di un reato comune. L’elemento materiale consiste nella cd. condotta di partecipazione all’altrui suicidio. La partecipazione può essere psichica (o morale), ossia diretta a determinare o rafforzare l’altrui proposito criminoso, oppure di natura materiale (o fisica), risolvendosi nell’agevolare l’esecuzione dell’altrui proposito criminoso. Più nel dettaglio, determinare altri al suicidio significa far sorgere in un individuo il proposito di suicidarsi, prima del tutto inesistente; rafforzare altri al suicidio, significa incentivare colui che ha intenzione di suicidarsi al compimento dell’azione; agevolare altri al suicidio, infine, significa collaborare in maniera attiva o omissiva alla effettiva realizzazione dell’altrui proposito suicidiario, attraverso un comportamento di ausilio consistente, ad esempio, nella fornitura dei mezzi o nella rimozione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del proposito di morte e sempre che si tratti di forme di ausilio che lasciano comunque all’aspirante suicida la piena signoria sull’esecuzione del proprio suicidio (Fiandaca-Musco). Affinché sia integrata la fattispecie in parola è altresì necessario, oltre alla realizzazione di una delle condotte sopra indicate, che si verifichi effettivamente il suicidio o quantomeno il tentativo di suicidio seguito dalle lesioni gravi o gravissime (Fiandaca-Musco). Inoltre, per essere punibile, la condotta di partecipazione deve tradursi in un concreto ed effettivo contributo causale alla realizzazione del suicidio; l’evento morte o comunque le lesioni gravi o gravissime rappresentano dunque elementi costitutivi dell’illecito e non, come parte della dottrina riteneva in passato, condizioni obiettive di punibilità. La condotta di agevolazione o istigazione assume rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 580 c.p. soltanto nel caso in cui essa si traduca in un contributo causale alla realizzazione dell’altrui volontà suicidiaria (Fiandaca-Musco); occorrerà pertanto accertare, di volta in volta, se tra evento (suicidio o tentato suicidio con lesioni) e le condotte partecipative di cui si è detto sussista un nesso causale penalmente rilevante. L’evento previsto dalla presente fattispecie consiste nel suicidio di un uomo, da intendersi come cessazione irreversibile delle funzioni dell’encefalo, o nel 510 Parte prima – I reati previsti dal codice penale tentativo di suicidio con conseguenti lesioni gravi o gravissime; ad avviso di parte della dottrina, nel primo caso si configurerebbe un’ipotesi di reato di danno, mentre nel secondo un reato di pericolo, posto che il bene vita viene solo messo in pericolo, ma non effettivamente pregiudicato. Il soggetto passivo è il titolare del bene vita. L’elemento soggettivo è rappresentato, per una parte della dottrina, dal dolo generico, inteso come coscienza e volontà del fatto tipico previsto dalla norma penale incriminatrice (Fiandaca-Musco); per altra dottrina, invece, è rappresentato dal dolo specifico, in quanto le condotte debbono essere connotate dal proposito di realizzare il suicidio altrui. La Corte di Cassazione è, ad oggi, orientata nel senso di ritenere sufficiente il solo dolo generico, ossia la mera coscienza e volontà di determinare, rafforzare, o agevolare l’altrui proposito suicida, mancando nella previsione normativa il riferimento ad uno scopo ulteriore rispetto alla realizzazione dell’evento del reato, essendo comunque necessaria nell’agente la consapevolezza del suddetto proposito (Cass. Pen., Sez. I, 01/02/2007, n. 3924). Permangono invece ancora profonde divergenze quanto alla compatibilità dell’illecito in parola con il dolo eventuale. La consumazione del reato si ha nel momento e nel luogo in cui si verifica il suicidio o le lesioni gravi o gravissime del suicidio mancato. L’ultimo comma dell’art. 580 c.p. prevede l’applicabilità della disciplina dell’omicidio comune quando il fatto è compiuto contro una persona minore degli anni quattordici o comunque priva della capacità di intendere e di volere. Il tentativo non è configurabile. Ed infatti nell’ipotesi in cui il suicidio non si verifichi, ma dalla condotta criminosa siano comunque derivate lesioni gravi o gravissime, ricorre l’ipotesi delittuosa consumata di cui all’art. 580 c.p., seppur nella forma “attenuata”; laddove invece le lesioni riportate dal soggetto passivo non siano né gravi né gravissime, secondo l’orientamento prevalente, non sarà configurabile alcun reato, rappresentando le stesse il limite “invalicabile” della rilevanza penale del fatto. B)Circostanze aggravanti. L’art. 580, co. 2, c.p., prevede una circostanza aggravante speciale ad effetto comune, che contempla un aumento di pena sino ad un terzo nel caso in cui la persona istigata, eccitata o aiutata al suicidio sia minore degli anni diciotto, ma maggiore degli anni quattordici, oppure sia persona inferma di mente, in condizioni di deficienza psichica, affetta da altra infermità o che abbia abusato di sostanze alcooliche o stupefacenti (art. 579, co. 3, nn. 1-2, c.p.). La suddetta circostanza ha natura oggettiva, ossia afferente le condizioni della persona offesa, e si estende a tutti i compartecipi al reato (art. 118 c.p.). Capitolo XIII – I delitti contro la persona 511 All’istigazione o aiuto al suicidio non è applicabile l’attenuante di cui all’art. 62, n. 5, c.p.; sono invece applicabili tutte le altre attenuanti comuni. C)Rapporti con altri reati. La distinzione tra istigazione o aiuto al suicidio e omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), come anticipato nel paragrafo precedente, risiede nel diverso rapporto che viene ad instaurarsi tra la condotta dell’agente e la volontà della vittima. Infatti, nell’omicidio del consenziente l’agente si sostituisce alla vittima con il consenso di questa, sia nella fase della determinazione volitiva che nella causazione materiale dell’omicidio; mentre nell’istigazione o aiuto al suicidio, la persona offesa conserva la signoria sulla propria azione e si autodetermina con mano propria al suicidio, anche se con il contributo dell’agente. Nell’ipotesi di doppio suicidio, ove cioè uno dei partecipi sia morto, mentre l’altro sia sopravvissuto, occorrerà provare se il superstite sia stato esecutore o coesecutore dell’uccisione dell’altro, ovvero semplice istigatore del suo suicidio oppure non abbia avuto alcuna influenza su di esso. Nel primo caso il soggetto superstite risponderà di istigazione al suicidio, mentre nel secondo di omicidio del consenziente; non sarà invece punibile laddove il suicida si sia autonomamente determinato senza essere stato dal superstite in alcun modo influenzato. Riguardo l’agevolazione colposa del suicidio, essa non è punibile (è punibile solo quella dolosa), né ai sensi dell’art. 580 c.p., né dell’art. 589 c.p., in quanto ad avviso della giurisprudenza il cagionare colposamente la morte di un soggetto è fatto ben diverso dall’agevolarla. 2.4. Omicidio preterintenzionale L’art. 584 c.p. dispone che “chiunque con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusone da dodici a diciotto anni”. L’omicidio preterintenzionale trova giustificazione rispetto all’omicidio volontario, secondo la più illustre dottrina (Antolisei; Fiandaca-Musco), nell’esigenza politico-criminale di prevenire, mediante la minaccia di una pena particolarmente severa, la realizzazione volontaria di comportamenti aggressivi dell’altrui integrità che, per la loro intrinseca pericolosità, possono degenerare nella produzione, ancorché involontaria, di eventi a carattere letale. Si tratta dunque di un’ipotesi speciale di omicidio nella quale gli elementi specializzanti sono rappresentati, sul piano soggettivo, da quella forma particolare di colpevolezza che è la preterintenzione, (per la cui completa disamina si rinvia alla Parte generale) e, su quello oggettivo, dalle particolari modalità della 512 Parte prima – I reati previsti dal codice penale condotta che deve consistere in atti diretti a ledere e percuotere, tanto che se la morte è involontariamente causata con atti diversi troveranno applicazione, se del caso, i delitti di cui agli artt. 586 e 589 c.p. A)Elementi costitutivi del reato. Il bene tutelato dall’art. 584 c.p. è rappresentato dall’interesse dello Stato a salvaguardare la sicurezza della vita umana. Invero la norma in esame protegge il bene vita in maniera particolarmente forte, stigmatizzando tutte quelle condotte che, pur se non dirette ad uccidere la vittima, comunque ne provocano la morte. Il soggetto attivo del reato in esame può essere chiunque, costituendo anche questo un reato comune. La condotta è caratterizzata da atti diretti a percuotere o ledere, mentre l’evento morte si configura come un quid pluris non voluto rispetto alla condotta effettivamente voluta. Se è pacifico che il comportamento tenuto dall’agente, per assumere rilevanza ai fini della norma in esame, non debba necessariamente sortire l’esito materiale auspicato, giusta la dizione normativa atti diretti a ledere e percuotere, ci si chiede se sia comunque necessario che la condotta tenuta dall’agente si risolva nel compimento di atti penalmente rilevanti, integranti gli estremi del tentativo dei reati di lesione o percosse, ovvero se sia sufficiente un atteggiamento soltanto minaccioso o aggressivo finalizzato a realizzare i suddetti reati. Parte della dottrina (Patalano; Marini) e della giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. IV, 15/12/1989, n. 17687), interpretando l’espressione “diretti a” come sinonimo di univocità o comunque di non equivocità, ritiene che possa imputarsi all’agente l’omicidio preterintenzionale ogniqualvolta vi sia un comportamento finalizzato, anche solo soggettivamente, a commettere i reati-base di lesioni o percosse, a prescindere dal requisito della idoneità degli atti medesimi, non richiesto espressamente dall’art. 584 c.p. ed essenziale, viceversa, ai fini della configurabilità del tentativo. Di diverso avviso, invece, quegli Autori per i quali non può dirsi sufficiente la sola direzione finalistica degli atti, occorrendo anche l’idoneità dei medesimi, con la conseguenza, quindi, di ravvisare la figura criminis in esame nel solo caso in cui vi sia almeno un tentativo di lesioni o percosse (Antolisei; Fiandaca-Musco; Mantovani). Nonostante il diverso avviso di parte della dottrina (Fiandaca-Musco), si ritiene che la condotta di lesioni possa consistere anche in un’omissione e non necessariamente in un atto positivo di aggressione. Si pensi al caso della madre che non alimenta il figlioletto per provocare allo stesso soltanto lesioni, cagionandone invece la morte (non voluta). Nell’ipotesi di percosse, la dottrina ritiene per lo più che non si possa attribuire rilevanza Capitolo XIII – I delitti contro la persona 513 ad un comportamento omissivo, posto che le percosse sono realizzabili soltanto attraverso un atto positivo (v. infra Par. 3.1). Rinviando al Par. 3.1. per quanto attiene alle lesioni, nell’economia della fattispecie in esame il termine percuotere è assunto in termini più ampi rispetto all’art. 581 c.p., e quindi non solo nel suo significato letterale di battere, colpire, picchiare, bensì in quello più ampio comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica; in una tale prospettiva, anche una spinta integra un’azione violenta, estrinsecandosi in un’energia fisica, più o meno rilevante, esercitata direttamente sulla persona; pertanto, anche una simile condotta, consapevole e volontaria, rivela la sussistenza del dolo di percosse o di lesioni, onde, se ne derivi la morte, dà luogo a responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale (Cass. Pen., Sez. V, 22/03/ 2005, n. 17394). Partendo pertanto dal presupposto che il delitto di cui all’art. 582 c.p. può essere commesso con qualunque mezzo idoneo e, quindi, anche introducendo nelle vene di altra persona sostanze stupefacenti mediante iniezioni, in quanto lo stupefacente, così iniettato, provoca un’alterazione dello stato fisico e psichico, la giurisprudenza è giunta ad affermare che deve rispondere di omicidio preterintenzionale colui che inietti ad una persona per via endovena dell’eroina o della cocaina cagionandone la morte, a nulla rilevando il consenso della vittima (Cass. Pen., Sez. V, 13/02/2004, n. 13987). Tra la condotta diretta a percuotere o ledere e l’evento letale deve sussistere un rapporto di causalità, nel senso che la morte deve essere conseguenza del comportamento tenuto dall’agente, diretto a realizzare il reato-base di percosse o lesioni, senza comunque necessità che la serie causale che ha prodotto la morte rappresenti lo sviluppo dello stesso evento di percosse o lesioni voluto dall’agente (cfr. da ultimo Cass. Pen., Sez. I, 11/11/2015, n. 45175, la quale ha ritenuto la contrazione di un’infezione ospedaliera da parte della vittima non avesse eliso il nesso di causalità tra la condotta di lesioni personali posta in essere dall’agente e l’evento morte, non costituendo un fatto imprevedibile od uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale). Sul nesso di causalità tra condotta ed evento la recente giurisprudenza di legittimità ha statuito che ai fini dell’integrazione dell’omicidio preterintenzionale è necessario che l’autore dell’aggressione abbia commesso atti diretti a percuotere o ledere la vittima, che esista un rapporto di causa ed effetto tra gli atti predetti e l’evento letale e che eventuali cause sopravvenute non siano da sole sufficienti a determinare l’evento, ma lo abbiano causato in sinergia con la condotta dell’imputato, per cui, venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato. (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 08/01/2016, n. 6918 nella quale è stato configurato l’omicidio preterintenzionale con riferimento alla morte di una 514 Parte prima – I reati previsti dal codice penale persona, che, nel disperato tentativo di sottrarsi all’azione lesiva in atto nei suoi confronti, fuggiva correndo sulla strada, dove veniva travolta da un’autovettura che sopraggiungeva in corsa). Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’evento sia unico e consista nella morte di un essere umano, morte che rappresenta quel quid pluris rispetto all’evento effettivamente perseguito. Il soggetto passivo è il titolare del bene vita. L’elemento soggettivo del reato è la preterintenzione e, quindi, a seconda dell’interpretazione che si intende privilegiare, il dolo del reato-base di percosse o lesioni e la responsabilità oggettiva o la colpa rispetto all’evento morte involontariamente cagionato; ciò che è certo è che l’evento morte non deve essere voluto dall’agente neppure a titolo di dolo eventuale (vedi Cap. XI, Par. 4., Parte II della Parte generale). La consumazione del reato in esame si ha nel momento e nel luogo in cui si verifica la morte. Nell’omicidio preterintenzionale il tentativo e la desistenza volontaria non sono configurabili perché presuppongono un evento voluto, mentre nel reato de quo deve mancare la volontà alla realizzazione della morte: così se l’agente tenta di ledere o percuotere e si verifica la morte della vittima, il delitto in parola è già perfezionato, se invece la morte non si verifica, egli risponderà, in assenza del dolo di omicidio, di lesioni o percosse tentate. È ammissibile il concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.) in tutti quei casi in cui più persone concorrono moralmente o materialmente con atti diretti a ledere o percuotere, dai quali derivi la morte (evento non voluto), sempre che tra attività ed evento sussista il nesso di causalità. Ad avviso di dottrina e giurisprudenza vi è incompatibilità tra concorso anomalo (art. 116 c.p.) ed omicidio preterintenzionale, in quanto la suddetta forma attenuata di concorso risulta configurabile solo nelle ipotesi in cui il concorrente abbia voluto un reato diverso da quello voluto dagli autori materiali del fatto, mentre nell’omicidio preterintenzionale la morte non è voluta da nessuno dei concorrenti e tutti vogliono le percosse o le lesioni. B)Circostanze aggravanti. L’art. 585 c.p., come modificato dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, prevede un’aggravante speciale in base alla quale “nei casi previsti dagli articoli 582, 583, 583-bis e 584, la pena è aumentata da un terzo alla metà, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 576, ed è aumentata fino ad un terzo, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 577, ovvero se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite. Agli effetti della legge penale per armi s’intendono: Capitolo XIII – I delitti contro la persona 515 1) quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona; 2) tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo. Sono assimilate alle armi le materie esplodenti e i gas asfissianti o accecanti”. L’omicidio preterintenzionale è pertanto aggravato se concorre una delle circostanze previste per l’omicidio doloso, agli artt. 576 e 577 c.p., oppure se il fatto-reato è commesso con armi o con sostanze corrosive. Per armi si intendono: a) le c.d. armi proprie, che possono essere da sparo (armi da guerra o tipo da guerra, armi comuni da sparo, come fucili e pistole) e non da sparo (tra le quali rientrano le c.d. armi bianche, da punta o da taglio, quali i pugnali, le sciabole, le lance, le spade e simili); b) le armi improprie (specificate nell’art. 42, T.U.L.P.S. e nell’art. 4, l. 18 aprile 1975, n. 110, modificata dalla l. 21 febbraio 1990, n. 36), costituite dagli strumenti comunque diretti ad offendere, per i quali la legge vieta assolutamente il porto (bastoni ferrati, mazze ferrate) e quelli che la legge vieta di portare senza giustificato motivo (mazze, tubi, bastoni con puntale, catene bulloni, sfere metalliche, strumenti da punta e da taglio atti ad offendere); c) infine le materie assimilate alle armi, ossia le materie esplodenti ed i gas asfissianti o accecanti. Possono considerarsi materie esplodenti, e quindi equiparate alle armi, quelle dotate di forza esplosiva (non potranno considerarsi tali i proiettili e le torce di balistite). Le sostanze corrosive sono quelle idonee ad intaccare l’epidermide, le mucose, ecc., distruggendo i tessuti, siano esse liquide (ad es.: acido solforico, vetriolo), solide (ad es.: calce viva) oppure gassose (ad es.: gas nervino). Non possono considerarsi tali le sostanze venefiche e neppure le materie incandescenti, anche se il fuoco può produrre effetti similari a queste. Quanto al travisamento, il legislatore si riferisce a tutte quelle alterazioni dell’aspetto esteriore e delle sembianze del volto che sono idonee a rendere la persona irriconoscibile (ad es.: maschera, parrucca ecc.); si ritiene irrilevante il mezzo attraverso il quale il travisamento è realizzato. In ordine invece alle più persone riunite, è necessaria e sufficiente la simultanea presenza di almeno due persone, ancorché non imputabili e non punibili, nel luogo ed al momento della commissione dell’illecito. C)Rapporti con altri reati. L’omicidio preterintenzionale si differenzia dall’omicidio volontario, sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Specificatamente, l’omicidio preterintenzionale si configura allorquando l’azione aggressiva dell’au- 516 Parte prima – I reati previsti dal codice penale tore del reato sia diretta soltanto a percuotere la vittima o a causarle lesioni, così che la morte costituisce un evento non voluto, ancorché legato da nesso causale alla condotta dell’agente, mentre l’omicidio doloso si caratterizza per la rappresentazione e volontà dell’evento morte; sul piano dell’accertamento, si farà quindi principalmente riferimento alle concrete modalità della condotta, al fine di inferire l’effettivo proposito (cfr. da ultimo, Cass. Pen., Sez. I, 23/10/2015, n. 42725). La differenza tra omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.) e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.) va individuata nel diverso reato-base che l’agente voleva realizzare: se il reo, infatti, intendeva commettere il delitto di lesioni o percosse, la morte non voluta sarà ad esso imputabile a titolo di omicidio preterintenzionale; se invece la morte intervenga quale conseguenza di un diverso reato voluto dall’agente, allora questa sarà addebitata al predetto in base al disposto dell’art. 586 c.p. Relativamente ai maltrattamenti in famiglia, la giurisprudenza esclude l’ammissibilità del concorso tra il predetto reato e l’omicidio preterintenzionale, ricorrendo l’ipotesi aggravata dei maltrattamenti in famiglia (art. 572, co. 2, c.p.) quando dai fatti derivi la morte non voluta della vittima. 2.5. Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto L’art. 586 c.p. dispone che “quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”. L’art. 586 c.p. è generalmente considerato una norma di rafforzamento e di chiusura della normativa posta a tutela della vita e della incolumità individuale, prevedendo casi non rientranti nelle fattispecie speciali, aggravate dall’evento della morte o delle lesioni, o in quella anch’essa speciale dell’omicidio preterintenzionale. Esso trova applicazione nei casi in cui la morte o le lesioni siano conseguenza non voluta di un delitto doloso. L’art. 586 c.p., ad avviso della dottrina prevalente e di copiosa giurisprudenza, non configura un reato autonomo o circostanziato, ma una ipotesi speciale di aberratio delicti bioffensiva, cioè di concorso formale di reati (tra il delitto doloso e il delitto di omicidio o di lesioni colpose), dove l’elemento specializzante è dato dalla natura dell’offesa non voluta e dalla enunciazione di una circostanza aggravante speciale, oltre che dalla non necessaria indagine circa l’errore sui mezzi di esecuzione del reato o altra causa (che invece è richiesta dall’art. 83 c.p.). La ragione dell’aggravamento della pena non risiede tanto nella maggiore tutela all’incolumità individuale apprestata dal nostro legislatore, bensì nella mag- Capitolo XIII – I delitti contro la persona 517 giore gravità dell’offesa alla vita e alla integrità fisica attraverso la commissione di un illecito doloso. A)Elementi costitutivi del reato. Il bene tutelato è la vita e l’incolumità individuale. Il soggetto attivo di entrambi i delitti concorrenti è l’autore della condotta delittuosa dolosa, causa della morte o delle lesioni. La condotta incriminata consiste nella commissione di un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso (nell’ipotesi consumata o anche solo tentata), fatta eccezione per le percosse e le lesioni, poiché in questo caso si configura la diversa ipotesi dell’omicidio preterintenzionale. Tipico esempio è quello della donna morta di spavento durante un tentativo di stupro. La struttura di questa fattispecie delittuosa è similare all’omicidio preterintenzionale: infatti è caratterizzata dalla volontà del soggetto di commettere un reato doloso (escluse le percosse e le lesioni) e dalla causazione di un evento costituito dalla morte o dalle lesioni, entrambe non volute dall’agente. Tuttavia, il delitto previsto dall’art. 586 c.p. si differenzia dall’omicidio preterintenzionale perché nel primo delitto l’attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre nel secondo l’attività del colpevole è diretta a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe reato di percosse o lesioni; nella preterintenzionalità, quindi, è necessario che la lesione si riferisca allo stesso genere di interessi giuridici (incolumità della persona), mentre nell’ipotesi di cui all’art. 586 c.p. la morte o la lesione deve essere conseguenza di delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni (Cass. Pen., Sez. V, 19/12/2003, n. 46040). Nel caso in cui il fatto doloso voluto non sia punibile, per la sussistenza di una causa di non punibilità, il soggetto (che non versa in illecito), potrà essere chiamato a rispondere per l’evento non voluto ai sensi degli artt. 589, 590 c.p., qualora ne ricorrano le condizioni, in quanto le cause di non punibilità, a differenza delle cause di giustificazione, nulla tolgono alla intrinseca illiceità del fatto voluto dall’agente. L’evento consiste nella morte o nella lesione di un essere umano, morte o lesione determinate dalla esecuzione di un delitto doloso diverso dalle lesioni o dalle percosse. Tra la condotta che costituisce già di per sé reato doloso e l’evento morte o lesioni ulteriore deve intercorrere un rapporto di causalità; a tal riguardo la giurisprudenza ritiene che, pur definendosi il rapporto tra il delitto voluto e l’evento non voluto in termini di causalità materiale, la condotta delittuosa deve avere insito, in sé, il rischio non imprevedibile né eccezionale di porsi come concausa di morte o lesioni (Cass. Pen., Sez. IV, 25/01/2006, n. 19179). Da ciò discende 518 Parte prima – I reati previsti dal codice penale che, ad esempio, nell’ipotesi di incendio doloso di un’abitazione, appiccato per provocare danni, la deflagrazione, che ha determinato la morte dell’occupante, inserendosi in un contesto di non imprevedibile eccezionalità, non può ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, escludente il nesso di causalità tra la condotta e l’evento non voluto. Riguardo al soggetto passivo del reato, la dottrina è divisa tra coloro i quali sostengono che esso può non coincidere con il soggetto passivo del delitto doloso presupposto (come, ad esempio, la morte o la lesione del genitore per infarto, di fronte alla violenza del figlio) e coloro che invece escludono detta possibilità. L’accertamento dell’elemento soggettivo nel delitto doloso (voluto), non pone problemi; interrogativi sono sorti invece in merito all’imputazione dell’evento non voluto (morte o lesioni personali), a seguito dei quali sono state elaborate tre diverse tesi dottrinali. La prima prevede la responsabilità dell’agente per l’evento non voluto a titolo di responsabilità oggettiva, ovvero l’evento morte viene attribuito al soggetto agente sulla base del mero rapporto di causalità materiale. Anche la giurisprudenza ha mostrato talvolta di aderire a siffatto orientamento, ritenendo che in tema di Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, il rapporto tra delitto voluto ed evento non voluto è stabilito dall’art. 586 c.p. in termini di pura e semplice causalità materiale, rientrando tra quei casi determinati dalla legge nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione ex art. 42, co. 2, c.p. (Cass. Pen., Sez. II, 15/02/1996, n. 6361). Secondo altra dottrina la responsabilità per l’evento non voluto deve essere attribuita a titolo di colpa, intesa come comportamento contrario alle regole di correttezza (Mantovani). Infine vi è una terza teoria dottrinale minoritaria per la quale la responsabilità per l’evento non voluto deriverebbe dalla inosservanza della regola cautelare che prevede il reato base, inosservanza che fa presumere la colpa per l’evento più grave (Bettiol-Pettoello Mantovani). L’orientamento ad oggi prevalente in giurisprudenza e in dottrina è quello che vede una imputazione del fatto più grave (morte o lesione) a titolo di colpa in concreto, sussistente quando venga accertata la violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma incriminatrice) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (Cass. Pen., Sez. Un., 29/05/2009, n. 22676). Pertanto, la responsabilità penale per morte o lesioni costituenti conseguenza non voluta di un delitto doloso, deve ritenersi configurabile, attesa la indefettibilità, nell’attuale sistema normativo, del principio di colpevolezza tendenzialmente esclusivo di ogni forma di responsa- Capitolo XIII – I delitti contro la persona 519 bilità oggettiva, solo a condizione che sussista un coefficiente di riferibilità psicologica, a titolo di colpa, dell’evento non voluto all’autore del delitto voluto (Cass. Pen., Sez. V, 06/07/2006, n. 1795). Al fine della sussistenza del delitto di cui all’art. 586 c.p., è dunque necessario, oltre al legame eziologico, che l’evento di morte o lesioni sia conseguenza prevedibile del delitto base e che l’agente, all’atto di realizzare la condotta sorretta dal dolo, non si rappresenti, né accetti il rischio della concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza del proprio comportamento; in presenza del dolo eventuale rispetto all’evento ulteriore morte o lesioni, infatti, non potrà trovare applicazione l’art. 586 c.p., che presuppone, in relazione alla conseguenza ulteriore della morte o della lesione, la mancanza di ogni profilo di volontarietà, anche indiretta e, dunque, una condizione psicologica incompatibile con la previsione ed accettazione dell’evento diverso (Cass. Pen., Sez. I, 19/06/2002, n. 28647). La consumazione del reato in esame si ha nel momento e nel luogo in cui si verifica la morte o le lesioni della vittima. Il tentativo non è configurabile essendo una fattispecie ove l’evento più grave è involontario. B)Rapporti con altri reati. Come già anticipato sopra, la differenza tra il reato in commento e l’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.) risiede nel fatto che nonostante la morte sia evento non voluto in entrambe le ipotesi, nella seconda la morte è la conseguenza di una condotta intenzionalmente diretta contro l’integrità fisica, mentre nella prima ipotesi la morte è la conseguenza di altro delitto doloso diverso dalle percosse e dalle lesioni (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 20/05/2015, n. 21002). Il reato di omicidio come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.) non concorre con il reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.), in quanto l’evento morte già posto a carico del soggetto agente in qualità di autore di un reato di danno non può essere addebitato a questi anche come conseguenza di un reato di pericolo. Per quanto attiene, invece, ai rapporti con il reato di omicidio volontario (art. 575 c.p.), sussiste il dolo del delitto di omicidio allorquando l’agente, pur non mirando ad un evento mortale come proprio obiettivo intenzionale, abbia tuttavia previsto come probabile, secondo un normale nesso di causalità, la verificazione di un siffatto evento lesivo, accettandone, con l’agire in presenza di tale situazione soggettivamente rappresentatasi, il rischio della sua verificazione; diversamente, nell’ipotesi di cui all’art. 586 c.p., l’agente si è rappresentato ed ha voluto soltanto il delitto dalla cui commissione è derivato l’evento morte, non presente nella cosciente determinazione del reo, ma verificatosi soltanto quale effetto diretto del diverso delitto realizzato (Cass. Pen., Sez. I, 21/12/1993, n. 3766). 520 Parte prima – I reati previsti dal codice penale 2.6. Omicidio colposo L’art. 589 c.p. dispone che “chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni. Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici”. A)Elementi costitutivi del reato. Per quanto attiene il soggetto attivo, il soggetto passivo, la condotta (diretta a cagionare la morte di uomo), il bene giuridico tutelato, l’evento, l’offesa e la consumazione, si rinvia a quanto già esposto sull’omicidio doloso (v. supra, Par. 2); quanto all’elemento soggettivo, si rimanda alla trattazione contenuta nella Parte generale, anche per quanto attiene, nello specifico, alla colpa professionale. L’ultimo comma dell’articolo de quo fa riferimento ai casi in cui la condotta incriminata ha provocato la morte di una o più persone oppure congiuntamente la morte di una o più persone e le lesioni personali di una o più persone. Si tratta di una ipotesi di concorso formale di reati (non come erroneamente sostenuto in dottrina di un reato continuato, vista l’incompatibilità di questo con i reati colposi), per il quale si applicherà la pena prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo, con il limite degli anni quindici. Nell’omicidio colposo il tentativo non è ammissibile, data l’incompatibilità fra delitto tentato e delitto colposo. B)Circostanze aggravanti. L’art. 589, co. 2, c.p. prevede un’aggravante ad effetto speciale che si applica laddove la condotta tenuta dal soggetto agente avvia violato regole specifiche relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro. L’aggravante punisce non solo chi con la propria condotta viola espressamente la normativa antinfortunistica, ma anche chi viola tutte le altre leggi e regolamenti afferenti la sicurezza sul lavoro. Con il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il legislatore ha provveduto al riordino della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, sostituendo, mediante formale abrogazione, la disciplina di settore contenuta nel d.P.R. 24 aprile 1955, n. 547, in materia di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, relativo alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nel d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 emanato in attuazione di direttive comunitarie per la tutela dell’igiene dei luoghi di lavoro e della salute dei lavoratori. Capitolo XIII – I delitti contro la persona 521 Premesso che per datore di lavoro, in base alla normativa su richiamata, si intende “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”, il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 impone all’imprenditore, in relazione all’attività produttiva esercitata, di adottare tutta una serie di precauzioni dirette a scongiurare il rischio di verificazione di eventi lesivi in danno dei propri dipendenti, andando così a riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2087 c.c. Al riguardo si ritiene inoltre che l’eventuale comportamento colposo del lavoratore, pur risultando condicio sine qua non rispetto all’evento lesivo verificatosi, in linea di massima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, posto che quest’ultimo è tenuto a prevenire anche le possibili disattenzioni ed imprudenze del proprio dipendente; fa eccezione tuttavia l’ipotesi in cui il lavoratore medesimo abbia tenuto una condotta assolutamente anomala ed imprevedibile, completamente avulsa ed estranea rispetto al processo produttivo ed alle mansioni svolte, così da integrare una causa sopravvenuta ex art. 41, co. 2, c.p. coma tale idonea ad interrompere il nesso causale. Tuttavia, mai l’imprenditore potrà invocare a propria discolpa il comportamento abnorme del lavoratore, laddove non abbia adottato le misure precauzionali ed antinfortunistiche prescritte. Ed infatti la funzione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro è principalmente quella di evitare le conseguenze degli errori commessi dai lavoratori – per inesperienza, negligenza, eccessiva sicurezza, disattenzione etc. – per cui non appare giuridicamente configurabile un concorso di colpa del lavoratore nel caso di violazione, da parte di altre persone, di norme espressamente dirette a prevenire proprio le conseguenze di tali suoi comportamenti colposi. E ciò anche se il lavoratore abbia acconsentito a prestare la sua attività in situazione di pericolo, in considerazione dell’indisponibilità del diritto alla salute (Cass. Pen., Sez. IV, 29/01/2008, n. 12348). C)Rapporti con altri reati. Come già evidenziato sopra, l’omicidio colposo si differenzia da quello doloso per quanto concerne l’elemento psicologico del reato, il primo costituito dalla colpa, il secondo dal dolo. La giurisprudenza ha chiarito che il delitto di omicidio colposo plurimo ed il disastro colposo (art. 449 c.p.) concorrono formalmente, perché la morte di una o più persone non è considerata dalla legge né come elemento costitutivo né come circostanza aggravante del reato di disastro, che appunto costituisce un’autonoma figura di reato; non solo, il concorso sussiste perché l’imputato con un’unica condotta colposa realizza due differenti eventi, quello di danno per le persone fisiche e quello di pericolo per la pubblica incolumità. La giurisprudenza ha ritento che concorrano formalmente anche il reato di omicidio colposo e il reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.), in quanto le norme de quibus tutelano interessi differenti, quali, rispettivamente, la vita umana e l’incolumità pubblica. 522 Parte prima – I reati previsti dal codice penale Nel caso di reato aggravato ai sensi del comma 3 dell’art. 590 c.p., si ha concorso fra il reato di omicidio colposo e quello di guida in stato di ebbrezza (Cass. Pen., Sez. IV, 28/01/2010, n. 3559). 2.7. Omicidio stradale L’art. 589-bis c.p., introdotto dalla l. 23 marzo 2016, n. 41 (in vigore dal 25 marzo 2016), prevede che “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni. Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni. La stessa pena si applica al conducente di un veicolo a motore di cui all’articolo 186-bis, comma 1, lettere b), c) e d), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, il quale, in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera b), del medesimo decreto legislativo n. 285 del 1992, cagioni per colpa la morte di una persona. Salvo quanto previsto dal terzo comma, chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La pena di cui al comma precedente si applica altresì: 1) al conducente di un veicolo a motore che, procedendo in un centro urbano ad una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita, cagioni per colpa la morte di una persona; 2) al conducente di un veicolo a motore che, attraversando un’intersezione con il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano, cagioni per colpa la morte di una persona; 3) al conducente di un veicolo a motore che, a seguito di manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua, cagioni per colpa la morte di una persona. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti la pena è aumentata se il fatto è commesso da persona non munita di patente di guida o con patente sospesa o