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Già dalla frontiera te ne accorgi: i bulgari sono meno allegri dei rumeni. C’è nell’andatura e nella parlata la fierezza guerriera degli slavi e la tristezza rassegnata del post-Comunismo, condita da umorismo nero. Qui Bulgaria, mescolanza di sangue e miele REPORTAGE testo e foto di Monika Bulaj Stalin ha picchiato duro. Ha demolito villaggi, deportato popolazioni contadine, costruito acciaierie immense e kolchoz di cui restano soltanto i rottami. Fuori Sofia, invece... om’è lontana la Bulgaria. Una terra da cui ci separa una distanza mentale prima che chilometrica. Persino a Milano non trovi libri che la raccontino, o una buona guida da leggere prima della partenza. Un italiano su due la confonde con la Romania; quasi nessuno conosce la sua storia o il nome dei suoi maggiori poeti. La Nuova Europa è un cammino lungo da fare. Eppure la Bulgaria è dietro l’angolo, cardine inevitabile della diagonale di emigranti e camionisti che dalla Mitteleuropa porta ai confini dell’Asia. Bulgaria, porta di Istanbul, margine meridionale di quella grande “strada senza polvere“ che è il Danubio, epico “Finis terrae“ sullo spazio grigio del Mar Nero. Ultimo bastione slavo sulla Grecia mediterranea. Già il nome dice tutto. Bulgha in turco è “mescolanza“, complessità razziale. Nel primo Novecento si fantasticava ancora sull’indeterminatezza delle sue frontiere, sulle sue città e i suoi abitanti. In Danubio, Claudio Magris scrive che il crogiolo bulgaro “affonda le sue radici nell’arcaico scontro fra la civiltà agricola del Sud-est e gli invasori nomadi delle steppe“. Esso nasce, spiega lo scrittore, dalla C 88 fusione di tre elementi: gli slavi che sono la terra e la mano paziente che le dà forma; i traci, cioè la civiltà carpatiodanubiano-balcanica, che sono oceano; i protobulgari dall’Altai, che varcano il Danubio nel VII secolo, e sono l’onda che muove e agita quell’oceano originario. Bulgaria, quintessenza dei Balcani. E ai Balcani, non a caso, essa dà il nome, da una catena di montagne antiche che l’attraversa. È la Stara Planina che, sempre in turco, era detta Balkan, montagna. La montagna per eccellenza, dolce protuberanza dei Carpazi, argine di contenimento dell’ultimo Danubio. Luogo di rose, frescura e delizia tra due pianure infuocate d’estate, la Valacchia e la conca che da Plovdiv scende al Mar Nero. Luogo di inverni terribili e scontri tra imperi. Spazio già impregnato d’Oriente, dolce e cruento insieme. Da qui un’altra favoleggiata – e mai provata – etimologia: “Sangue e miele“. Segno identitario della penisola che per due volte in un secolo ha incendiato l’Europa. Già alla frontiera te ne accorgi. Sono meno allegri dei rumeni. C’è, nell’andatura e nella parlata, la fierezza guerriera degli slavi e la tristezza rassegnata del BULGARIA, MESCOLANZA DI SANGUE E MIELE post-Comunismo condita di umorismo nero. Qui Stalin ha picchiato duro. Ha demolito villaggi, deportato popolazioni contadine, costruito acciaierie immense e kolchoz di cui restano solo i rottami. Fuori Sofia e Plovdiv, il paesaggio urbano è spesso desolante. Condomini sbriciolati, finestre che danno sul nulla e il cemento. Il vento che soffia nei monasteri svuotati dall’ateismo di Stato, proprio qui nella terra di Cirillo e Metodio, dove nacque la lingua liturgica dell’ortodossia slava. È d’inverno che devi venire da queste parti, per capire. Sofia è un altro pianeta. Senti subito amore per l’eleganza. Ci sono pizzi e fiori di plastica nella cabina della guidatrice del tram che mi porta in centro. Sorride, sferraglia nella neve, ogni tanto ferma tutto ed esce per spostare a mano le rotaie. A bordo una donna con un capello rosso fuoco urla con rabbia. Tiene un comizio ai passeggeri, quasi tutte donne, fagotti con- tadini o belle con tacchi a spillo e minigonna. Tutte ascoltano con attenzione, annuendo, blindate nei capotti. Quando finisce il grigiore imbalsamato dei quartieri post-sovietici, il tram ti sputa in piazze di rara bellezza, tra cupole a cipolla di chiese, solidi palazzi nobiliari, manifesti di concerti di musica classica, getti di vapore caldo nel gelo. Di nuovo tacchi a spillo, fame arretrata di eleganza che trasuda da ogni gesto, il passo è leopardato anche se la neve arriva alle ginocchia. Macchine di notabili, dai vetri oscurati, spruzzano fango sui passanti e i carri degli zingari. Vecchi raccolgono acqua bollente dalle vasche delle sorgenti termali dentro bottiglie di Coca Cola. Un folle predicatore sale sul bordo di una delle vasche e grida un sermone. Nel freddo polare una donna infagottata vende icone di Cristi barbuti, copertine per passaporti e vocabolari di lingue straniere. Attorno, una grande moschea, una REPORTAGE Appena il corpo verrà messo nella terra gli uomini correranno via perché l’anima possa raggiungere più velocemente il cielo. Intorno, minareti nuovi di ferro, cemento e legno sono puntati verso il cielo grande sinagoga e una cattedrale. È il sacro triangolo di Sofia, parola che in greco vuol dire la Saggezza. In un salotto surriscaldato con divani coperti di pelle di pecora incontro Tatiana Granitowa, un cognome che è un manifesto politico. Granitov era il nome di battaglia del padre, che divenne poi ufficiale anche per l’anagrafe. Beviamo caffé lentamente; anche questo è un segno d’Oriente. Con Tatjana c’è la madre e ci sono le signore dell’ex nomenklatura comunista. Raccontano che in Bulgaria, nazione di otto milioni e mezzo di persone, ci si conosce un po’ tutti. La chiamano ironicamente il Paese dei cognati, Badzanaska dyrzawa, e sembrano in pochi a volerci rimanere. Parto verso sud, i Monti Rodopi, l’ultimo pezzo dei Carpazi. I più dimenticati, i più selvaggi e nevosi. Le ultime cittadine, i condomini grigi d’epoca comunista, le chiazze di umidità, i blocchi grigi tra le montagne innevate. Il cemento ha riempito persino le sorgenti. Durante l’inverno i muri dei condomini sono ricoperti da cataste di legno. Negli appartamenti predisposti per il riscaldamento centrale, il gas manca da chissà quanti anni, e d'inverno si vive in una sola stanza scaldata solo con la stufa a legna. La porta è blindata per non far passare un solo spiffero di freddo. Quel po’ di confort è tutto in mano alla buona volontà delle donne. Poi, la sorpresa. Lascio alle spalle gli ulti- mi orrori in cemento e scopro un altro mondo. Improvvisamente, prati rasati, giardini e vigne, canalizzazioni capillari. Sono i villaggi dei pomaky, i bulgari musulmani. Non è strano? L’unico giardino della Bulgaria non appartiene all’ortodossia. Una piccola Svizzera con i muezzin, dove però le cafane (locande) hanno nomi di divinità greche e gli uomini bevono grappa senza problemi. A Zlatograd, la città d’oro, un funerale musulmano mi taglia la strada. Solo uomini, un’interminabile fila di capotti neri e baffi. Appena il corpo verrà messo nella terra correranno via perche l’anima possa raggiungere più velocemente il cielo. Intorno, minareti nuovi di ferro, cemento e legno sono puntati contro il cielo. I pomaki sono bulgari convertiti all’islam sotto la dominazione turca. Più o meno come i bosniaco-musulmani. E sulle montagne gira la leggenda di un indomito prete ortodosso che salva le anime bulgare dai predicatori d’oriente pieni di petrodol- lari, e le riporta alla fede antica. Ora sono le montagne profonde, la terra delle Gajde, le cornamuse. Un mondo musicale unico in Europa, dove trovi ancora i segni vitali dell’antica musica pentatonica. È qui che incontro Valja Balkanska, la voce dei Rodopi. Scoperta per caso da due antropologi americani che la sentirono cantare in un campo di grano, il suo talento esplose con tanta forza che poco dopo una sua canzone fu spedita su un disco d’oro nello spazio, via satellite, BULGARIA, MESCOLANZA DI SANGUE E MIELE assieme alla Nona di Beethoven, a Bach, Mozart e Stravinsky. Destinazione l’Orsa Minore, stella AC 793888, per narrare agli Alieni le voci del nostro mondo. Quando torna dalle tournée in America o in Nord Europa, Valja si rifugia nel suo paese, nel piccolo ranch di famiglia. Mi trovo davanti a una donna dagli occhi straordinari, ardenti come carboni, che annuncia, per prima cosa, che le sono nati due nuovi maialini. Valja dai capelli lunghi sale la montagna in ciabatte. È felice nel suo mondo. La terra, per lei, è garanzia di vita, non un lusso o un passatempo. Pomodori, patate, carote, cipolle, carne: tutto viene da quella sua terra, tranne la farina e il sale. “Il giorno“, dice “nutre un anno“. Un bungalow di legno. Una baracca per le bestie. Un vecchio vagone, un giardino che nutre la numerosa tribù. La foto del marito. “Tenni un concerto pochi giorni dopo la sua morte“, racconta “i miei occhi e la mia voce piangevano“. Valja è la Bulgaria profonda, l’anima musicale risparmiata dal Comunismo e dalla globalizzazione. Fa maglioni per i nipoti, ricama le ciabatte, accende il fuoco. Parla dell’amore. Il lei c’è qualcosa di straordinariamente semplice e puro. Devi cercare qui l’alchimia del suo talento. Racconta delle cento cornamuse che suonano assieme al festival di Rozen, su quelle monagne. Basta che una emetta una nota e lei la afferra, la prolunga, prepotente come una sfida. Tra lei e quella pelle di capra c’è un’affinità totale. “La capra è meglio della pecora“, ride, “si accontenta di poco“. “La nostra musica“, dice, “ci ha salvato dalla assimilazione greca e turca“. Parliamo una lingua franca fatta di parole russe, polacche, bulgare. Ha un modo tutto suo per spiegare il significato delle parole. Il senso arriva con il suono. Il mistero è tutto nella fonetica. Sento che così potrei capire qualsiasi lingua. Per Valja il canto è semplicemente il suo modo di parlare. Ma parla anche con gli occhi. Con gli occhi ascolta, con gli occhi canta quello che ti vede dentro. Non ha eredi, e spiega perché. “Non si puo imparare a cantare, la voce viene da Dio“. Torno in città, al carnevale di Pernik. Fa un freddo cane mentre entro in una città- REPORTAGE fantasma, tra ciminiere, cimiteri di fabbriche e casermoni per operai. Qui il mondo di Valja è già disidratato, codificato, mummificato come folclore. La cultura è strappata alla terra, spostata sul palco, vissuta con la serietà mortale. Sul palcoscenico, popi dalle barbe finte, ubriachi di rakijka, ragazzine in pizzo e calze bianche, nonne alle prese con la memoria di antichi riti nuziali. “Il regime sceglieva le forme di cultura popolare più attraenti“, mi spiega Irena Bobova, etnografa di Sofia, “per omologarle in un prodotto della cosidetta cultura alta e ufficiale“. Ma appena partono i striduli della zurna e i tamburi, avverti – nonostante il gelo – una forza mai domata. Saltono i grandi animali di pelo lungo, mucchi di paglia e abiti di pigne. Si scatenano danze acrobatiche dai ritmi impossibili, in sette ottavi, ma anche in 5/16, 17/16, 11/16. Guance rosse di gelo e rakijka. È un mondo pagano che riemerge. In Bulgaria, sulle montagne ai confini con la Grecia, esiste ancora, si dice, la porta degli Inferi dove Orfeo perse Euridice per sempre. Qui egli adorava Apollo e sfidava Dionisio, il sacerdote sciamano “maledetto”, fatto a pezzi per aver divulgato i segreti dei dei. Ma dietro i vapori di rakijka emerge il nazionalismo. Anche negli uomini più miti, come Valjo, sessant’anni e due bypass, che mi fa da autista. Parla di antichi massacri turchi, di lapidi cristiane nascoste. Valjo non ha mai visto Paesi fuori dalla Bulgaria, forse per questo la sogna grande, senza confini. Annette alla Bulgaria il mondo intero. Alessandro Magno, la Macedonia, la Serbia, l’Albania, ovviamente la Romania. I baschi, dice, parlano bulgaro. Terra bulgara la trovi in Hindukush, in Iran, Afganistan, Rajastan e Dagestan. “Un lago del Tibet si chiama Lago dei Bulgari. I bulgari furono gli alleati, come dice Mahabharata, di potenti re. I loro discendenti erano i Tartari del Volga e i Balkari del Caucaso. I turchi, invece, non sono mai esistiti davvero, furono solo un mucchio di barbari nomadi senza dio, un popolo venuto dal nulla“. Gelo e stelle, finiamo nell’angolo del Paese fra Grecia e Macedonia. Valjo russa beato nella stanza accanto. Inizia una terra incognita, la vecchia cortina di ferro si BULGARIA, MESCOLANZA DI SANGUE E MIELE sente ancora. C’è un confine di sospetto persino verso i fratelli ortodossi greci. Con la Grecia ci sono appena due valichi di frontiera. L’Egeo, che qui chiamano il Mare Bianco, è a un passo, ma rimane invisibile dietro le cime di querce dove d’inverno scendono metri di neve. D’estate potresti sentire il Meltemi e il profumo della macchia. L’alba con una montagna di panna acida e mirtilli a colazione. I fiumi scorrono accanto alla strada in una luce spettrale. Più in su, diventano lastre di ghiaccio. Poi un un monastero, nella nebbia. Solitario, indifeso. Un antico muro, portici di legna, dipinti slavati dal vento e dalla pioggia, passaggi stretti, il campanile e, infine, nel buio e silenzio, una miracolosa icona della Madonna con iscrizioni greche. Le mie, sulla neve fresca, sono le uniche impronte. Gli unici suoni sono i salmi bizantini di 96 un registratore e il frusciare delle ali di un gufo nel tetto. Unico custode uno zingaro, padre di dodici figli. Mi offre monastyrski caj, il tè di erba raccolto sulle valli di Strumica. Il solo abitante è un monaco che mi appare all’improvviso nella neve, su un cavallo baio.