Rassegna stampa 7 giugno 2016

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Rassegna stampa 7 giugno 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 7 giugno 2016
SOMMARIO
Sulla prima pagina di Avvenire di oggi il direttore Marco Tarquinio commenta così
l’esito del primo turno delle elezioni amministrative 2016: “Non ci sono più dubbi
sulla ormai consolidata natura tripolare del nostro sistema politico. Quaranta mesi (e
diverse tornate elettorali) dopo il voto del febbraio 2013, vera data d’inizio di una
nuova fase nella storia dell’Italia repubblicana, verrebbe da dire che ci ritroviamo
tendenzialmente con tre poli e nessun “padrone”. Il vasto voto comunale del 5 giugno
ha infatti delineato un panorama aperto in cui si distinguono chiaramente tre
schieramenti maggiori – Pd, M5S, ex area berlusconiana – che sono però appesi alle
valutazioni degli elettori che decideranno di partecipare al secondo turno del 19
giugno. Un’incertezza alla quale bisognerà abituarsi, anche perché promette di essere
la condizione di fondo delle battaglie elettorali che si affronteranno nel tempo
dell’Italicum che è alle porte, nel quale la vittoria al primo turno di un polo
dominante e capace di incamerare almeno il 40% dei voti si annuncia come
l’eccezione e il ballottaggio la regola. Tener conto degli elementi specifici, e anche
localistici, delle storie elettorali che si sono scritte domenica scorsa in città grandi e
piccole è certamente giusto e saggio, ma non si può ignorare la tendenza di cui si è
appena detto e che ha preso piede a causa di scelte, orientamenti e insofferenze dei
cittadini-elettori che – anche per effetto di un’astensione sempre clamorosa e più
articolata – stanno scombussolando definitivamente il quadro ereditato dal bipolarismo
centrodestra-centrosinistra e accelerano l’archiviazione di vecchi schemi
interpretativi. È perciò meglio non fermarsi ad ascoltare troppo quelli che cercano di
rievocarli. Quello sguardo non funziona più, forse illude ancora qualche capopartito,
ma di certo non chi va (o non va) alle urne. Tre poli, dunque. E partite aperte,
rischiose e promettenti per tutti. Ma – siamo in Italia, patria delle eccezioni – e allora
è indispensabile sottolineare che due poli su tre (oggi, guarda caso, i più competitivi)
sono costituiti per scelta deliberata o di fatto da un solo partito, caratterizzato da una
leadership magari non solitaria eppure nettamente delineata, nella realtà così come
nella testa della gente. Da una parte, il Partito democratico del segretario-premier
Matteo Renzi e, dall’altra, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Una sfida a due
dentro un sistema non più bipolare che è un film già visto più volte negli ultimi mesi.
E, per come si sono messe le cose, che appare destinato a molte repliche. A
cominciare dalla più importante, in occasione delle prossime elezioni politiche
generali. E, prima ancora, del referendum costituzionale che si è convertito in un
complicato prologo-ordalìa del voto politico, vera prova del nove per la proclamata e
nascente Terza Repubblica. Della vocazione maggioritaria e della determinazione del
Pd renziano si è detto di tutto e di più. E, pur nella difficoltà dell’attuale «deludente»
condizione di incertezza che propizia dissonanze e sgambetti interni (situazione
preziosa, se servisse a vaccinare il presidente del Consiglio da certe pericolose
sensazioni di invulnerabilità), il ruolo della principale forza di governo resta chiaro e
forte. Anche i cinquestelle sembrano, però, in condizioni di affrontare al meglio la
prova, e la corsa tutta di testa – dai sondaggi sino all’impressionante successo al primo
turno – al Comune di Roma ha tutta l’aria di una prova di maturità (che
continuerebbe, si può starne certi, nell’eventuale avvio di un’azione amministrativa
nella “disastrata” Capitale). Particolare e istruttiva è, infine, la condizione
dell’attuale (e assai meno competitivo) terzo polo, un centro-destra tornato col
trattino: da un lato, quel che resta del partitone “moderato e no” capitanato da Silvio
Berlusconi e, dall’altro, la rampante (ma con un invincibile limite di consenso attorno
al 18-20%) coalizione simil-lepenista guidata da Matteo Salvini. La coabitazione rissosa
tra quelle due anime – che aveva reso il vecchio centrodestra spesso vincente, ma
quasi mai davvero governante nei ventidue anni precedenti – appare ora
improponibile. Manca il leader riconosciuto e federatore. E sulla volontà di cercare un
successo comune prevale di gran lunga quella di sottomettere il potenziale alleato.
Basta scorrere le dichiarazioni post-scrutinio per rendersene conto: per esempio la
sanguinosa accusa di commercio di voti con cui il leghista Salvini ha gratificato
Mariastella Gelmini, capolista di Forza Italia a Milano, colpevole di esser stata assai più
votata dell’«altro Matteo». C’è veleno persino dentro la squadra che ha accompagnato
la fenomenale rimonta di Stefano Parisi – competitore eccellente del favorito
candidato renziano Beppe Sala – alla testa di un centrodestra senza trattino, ma assai
diverso da quello di un tempo. La domanda è se quella che un tempo si autodefiniva
«area moderata», nello schema tripolare che si è andato strutturando, possa ambire a
qualcosa di ben diverso da un ruolo inesorabilmente gregario nel gran ballottaggio che
sarà, se sarà. Cioè se continuerà a dimostrarsi più vogliosa di 'far perdere', che di
vincere: una questione di programmi e di valoriguida, non solo di toni e di parole
d’ordine. È l’ultima domanda della serie. E non è da prendere alla leggera” (a.p.)
1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO
Pag 15 Il Patriarca scrive ai musulmani per il Ramadan
CORRIERE DEL VENETO
Pag 13 L’augurio di pace di Moraglia ai musulmani per il Ramadan di A.D’E.
Il patriarca: momento di comune riflessione. La comunità vuole uno spazio proprio ce lo
chiedono
LA NUOVA
Pag 36 L’augurio del patriarca per il Ramadan di Marta Artico
Moraglia ha risposto all’appello dei musulmani: “Ogni tempo di preghiera è rilevante per
l’uomo”
SIR di lunedì 6 giugno 2016
Inizio Ramadan: messaggio mons. Moraglia (Venezia), tempo
promozione dell’uomo” da vivere “nella serenità e nella pace”
“per
la
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 36 Una messa in ricordo del beato Luigi Caburlotto
Oggi a San Marco
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Rivelazione della tenerezza
All’Angelus
Pag 8 Il navigatore e i quattro guai
Messa a Santa Marta
AVVENIRE
Pag 19 Feltre. I migranti islamici portano in spalla la statua di Maria di Francesco
Dal Mas
IL FOGLIO
Pag 2 Inquisizione per il cardinale che ha condannato l’ideologia gender di
Matteo Matzuzzi
Denunciato a Valencia Canizares Llovera: “Odia i gay”
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Alice nel paese di "Amoris laetitia" di Sandro Magister
La folgorante critica di una studiosa australiana all'esortazione postsinodale. "Abbiamo
perso ogni punto d'appoggio e siamo caduti come Alice in un universo parallelo, dove
nulla è ciò che sembra essere"
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 2 Gli stranieri e le favole di Francesco Riccardi
L’alta inattività italiana e quella bassa degli immigrati
Pag 3 Amore o controllo? (Non siamo cannibali) di Alessandro D’Avenia
Cronache durissime ci ricordano un bivio decisivo
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI Il centro destra si riprende Quarto di Melody Fusaro
Grosso: “Frutto del lavoro di squadra. Abbiamo saputo ascoltare gli elettori”
Pag XIII Eraclea, nuovo ribaltone. Mestre vince per 81 voti di Maurizio Marcon
Anche con Talon si conferma la “maledizione” per i sindaci che si ricandidano
Pag XIV “Riprendiamo a lavorare per Caorle” di Riccardo Coppo
Striuli riconquista il municipio dopo crisi e commissariamento
Pag XXIV Un Ramadan per 20mila: “Ora, moschea a Venezia” di Filomena Spolaor
Il presidente della comunità islamica: “Le altre religioni hanno un luogo di culto, noi no”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 9 Caorle, il ritorno di Striuli: “Parlo alla gente, ora più sicurezza” di M.Z.
Pag 9 Eraclea, vince il deb Mestre: “Viabilità da rifare. Teso studia da vice di
Mauro Zanutto
Pag 9 Quarto d’Altino, inizia l’era Grosso: “Nuove telecamere, operazione
decoro” di Alice D’Este
LA NUOVA
Pag 17 Mestre all’ultimo voto, Eraclea cambia di Giovanni Cagnassi
Talon: “Lascio un bilancio a posto”
Pag 19 Caorle, il grande riscatto di Striuli di Gemma Canzoneri
Dopo il commissariamento da sindaco, l’avvocato si ripresenta e vince a mani basse.
Flop dei grillini, la Xausa attacca
Pag 22 Nuova rotta per Quarto. Grosso: “Un plebiscito” di Marta Artico
Vicesindaco sarà Cristina Baldoni. Giomo: “Peccato lasciare ora”
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Cosa c’è da fare subito di Alessandro Russello
Messaggio ai sindaci
IL GAZZETTINO
Pag 1 I 4 segnali che arrivano da Venezia di Tiziano Graziottin
Pag 15 Unioni civili, Padova “batte” Treviso di Giuseppe Pietrobelli
Gli uffici della città di Bitonci hanno i moduli pronti, in quella di Manildo poche
informazioni
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Consigli disattesi di Angelo Panebianco
Pag 1 Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese di Ernesto Galli
della Loggia
Pag 3 Le 3 missioni del leader che non è riuscito a prosciugare il bacino Cinque
Stelle di Aldo Cazzullo
Pag 5 Le pagelle e i protagonisti di Pierluigi Battista
Dal centrodestra spaccato alla “secessione” nel Pd
Pag 6 Gli elettori dem “infedeli”, M5S pesca dappertutto di Luca comodo
Per Sala solo due terzi di chi aveva scelto il Pd nel 2013. Ancora meno per Giachetti
Pag 7 I confini invertiti tra centro e periferia di Paolo Conti
Il Pd ha il primato nel salotto delle città, i quartieri già del Pci a grillini e centrodestra
Pag 13 Se il voto cambia l’analisi sulla natura dei 5 Stelle di Massimo Franco
Pag 14 Il centrodestra frantumato ma vivo, è ancora decisivo nel gioco dei tre
poli di Antonio Polito
Pag 37 La partita del premier (per avere una sponda) pensando al referendum
di Francesco Verderami
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’identità perduta di Ezio Mauro
Pag 23 Schemi saltati e confronti incerti, ecco il tripolarismo imperfetto di Ilvo
Diamanti
Pag 25 Niente cibo né caffè, condividerò con la città il mio rama danda sindaco
di Londra di Sadiq Khan
LA STAMPA
La democrazia anomala dei frammenti di Marcello Sorgi
AVVENIRE
Pag 1 Strutturale incertezza di Marco Tarquinio
Quadro nuovo, nuove domande
Pag 3 La crisi spinge l’astensione ma il Sud ora è più virtuoso di Diego Motta
L’analisi della partecipazione al voto, ancora in calo (62%)
IL GAZZETTINO
Pag 1 Dove sbaglia Matteo e dove nasce il successo grillino di Massimo Teodori
LA NUOVA
Pag 1 Sorridono solo i 5 Stelle di Massimiliano Panarari
Pag 1 Partiti senza successi di Francesco Jori
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1 – IL PATRIARCA
IL GAZZETTINO
Pag 15 Il Patriarca scrive ai musulmani per il Ramadan
Venezia - «Ogni tempo di intensa preghiera e di autentica ascesi è, oggi più che mai,
rilevante per la promozione dell'uomo nella sua integralità». È il messaggio che il
Patriarca di Venezia Francesco Moraglia ha inviato ai fedeli islamici in occasione
dell'inizio del Ramadan. Per Moraglia «siamo immersi in una società che fatica sempre
più a comprendere e ad assumere quei valori che superano la dimensione economica,
edonistica e materiale della vita. In tale contesto, perciò, ogni percorso di preghiera e
ascesi costituisce un importante motivo di costruttiva e comune riflessione». «A tutte le
persone e comunità - conclude Moraglia - che si apprestano a vivere il tempo di
Ramadan rivolgo l'augurio cordiale di vivere questo periodo nella serenità e nella pace».
CORRIERE DEL VENETO
Pag 13 L’augurio di pace di Moraglia ai musulmani per il Ramadan di A.D’E.
Il patriarca: momento di comune riflessione. La comunità vuole uno spazio proprio ce lo
chiedono
Venezia. Il patriarca di Venezia scrive alla comunità musulmana di Venezia per l’inizio
del mese del Ramadan (mese sacro del calendario islamico nel quale, secondo la
tradizione, Allah, attraverso l’Arcangelo Gabriele, avrebbe rivelato il suo messaggio al
profeta che è stato trascritto nelle sure del Corano) «di particolare significato per
l’Islam». «Ogni tempo di intensa preghiera e di autentica ascesi è oggi più che mai,
rilevante per la promozione dell’uomo nella sua integralità - ha scritto monsignor
Francesco Moraglia nel messaggio -. Siamo, infatti, immersi in una società che fatica
sempre più a comprendere e ad assumere quei valori che superano la dimensione
economica, edonistica e materiale della vita. In tale contesto, perciò, ogni percorso di
preghiera e ascesi costituisce un importante motivo di costruttiva e comune riflessione».
Il patriarca segue così l’esempio di monsignor Ambrogio Spreafico presidente della
Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei. «A tutte le
persone e comunità che anche nel nostro territorio veneziano si apprestano a vivere il
tempo di Ramadan - ha detto Moraglia - rivolgo l’augurio cordiale di vivere questo
periodo nella serenità e nella pace». «L’augurio ci ha resi molto felici - dice presidente
della comunità Mohammed Amin Al Ahdab - un segnale in più che dimostra come nella
nostra città ci sia uno spirito di rispetto reciproco e una convivenza che funziona». Per i
musulmani veneziani potrebbero esserci delle novità in vista perché la comunità
musulmana di Marghera vuole diventare stabile comprando un capannone: «Servirebbe
alla comunità ma anche ai turisti - spiega Ahdab - in molti prima di venire a Venezia ci
chiedono dove possono pregare durante la loro permanenza qui. Li invitiamo da noi ma
non è la stessa cosa. Basterebbe uno spazio e sarebbe già un buon segnale. Venezia è
una città internazionale con 4 voli diretti da altrettanti paesi musulmani, una città amata
da tutti a cui però manca un tassello». In queste settimane la comunità di Marghera sta
provando a trovare una soluzione, almeno per i musulmani stabili spostando la moschea
(che ora si trova in un capannone) in un luogo sempre nelle vicinanze ma che permetta
di dare loro meno precarietà. E lo fa proprio nei giorni di avvio del Ramadan dell’anno
1437 iniziato ieri alle 3.30. «In un luogo precario non si possono progettare le cose a
lungo termine, - spiega Al Ahdab -. Vorremmo guardare avanti, la nostra comunità c’è
da tempo, la città è da sempre una cerniera tra occidente e oriente, creare un centro
culturale islamico sarebbe un valore aggiunto alla città di Venezia».
LA NUOVA
Pag 36 L’augurio del patriarca per il Ramadan di Marta Artico
Moraglia ha risposto all’appello dei musulmani: “Ogni tempo di preghiera è rilevante per
l’uomo”
Il Patriarca scrive ai musulmani per l'inizio del Ramadan. Si è aperto nelle prime ore di
ieri mattina il mese sacro per i fedeli di Allah, quello in cui fu rivelato il Corano. Oltre
ventimila in provincia di Venezia, osserveranno il digiuno tutti i giorni fino a sera e si
recheranno a pregare nei centri di culto, più o meno provvisori, affittati dalle rispettive
comunità. Il capo della Chiesa veneziana, Francesco Moraglia, ha inviato per la prima
volta un messaggio, rivolto alle comunità islamiche impegnate a celebrare il mese di
preghiera. «Da poche ore è iniziato il periodo di Ramadan, di particolare significato per
l'Islam» scrive. «Ogni tempo di intensa preghiera e di autentica ascesi è, oggi più che
mai, rilevante per la promozione dell'uomo nella sua integralità. Siamo, infatti, immersi
in una società che fatica sempre più a comprendere e ad assumere quei valori che
superano la dimensione economica, edonistica e materiale della vita». Aggiunge il
Patriarca: «In tale contesto, perciò, ogni percorso di preghiera e ascesi costituisce un
importante motivo di costruttiva e comune riflessione». «A tutte le persone e comunità
che» anche nel nostro territorio veneziano «si apprestano a vivere il tempo di
Ramadan», conclude, «rivolgo l'augurio cordiale di vivere questo periodo nella serenità e
nella pace». Un messaggio gradito a tutti i musulmani e specialmente alla Comunità di
Venezia e Provincia guidata spiritualmente dall'imam Hamad Mahamed, siriano e
teologo, che nei giorni scorsi aveva espresso il desiderio di ricevere l'augurio (e perché
no la visita) formale da parte del Patriarca, in segno di amicizia e rispetto. Un gesto che
agli occhi della società civile, avrebbe avuto un significato importante per i fedeli di Allah
che vivono e lavorano in terraferma, in centro storico, nella stessa macchina comunale,
specialmente in un momento tanto delicato e in cui Venezia è sempre sotto i riflettori del
mondo. Il Patriarca ha raccolto il messaggio. «È la prima volta e siamo davvero molto
contenti» ha commentato Mohamed Amin Al Ahdab, presidente della Comunità islamica
di Venezia e provincia «lo diciamo con il cuore». La speranza della Comunità è che anche
altre autorità civili e non solo religiose, facciano altrettanto. Nel frattempo il centro
culturale sta organizzando un momento comune di rottura del digiuno, aperto alla
cittadinanza, durante il quale saranno invitati anche i rappresentanti del Patriarcato e
delle istituzioni, come avviene tutti gli anni. Si pianifica anche la festa di fine Ramadan,
la cosiddetta Id-Al Fitr, la "festa dell'interruzione" che cade il primo giorno del mese di
Shawwal, il decimo del calendario e catalizza migliaia di persone. Un momento che
dovrebbe, secondo la Sunna, essere celebrato all'aperto. In questi ultimi anni i centri
hanno scelto di festeggiare la Id in un parco, meteo e autorizzazioni permettendo.
SIR di lunedì 6 giugno 2016
Inizio Ramadan: messaggio mons. Moraglia (Venezia), tempo
promozione dell’uomo” da vivere “nella serenità e nella pace”
“per
la
“Ogni tempo di intensa preghiera e di autentica ascesi è, oggi più che mai, rilevante per
la promozione dell’uomo nella sua integralità”. Lo scrive monsignor Francesco Moraglia,
patriarca di Venezia, nel messaggio per l’inizio del Ramadan. “Siamo – osserva Moraglia
– immersi in una società che fatica sempre più a comprendere e ad assumere quei valori
che superano la dimensione economica, edonistica e materiale della vita. In tale
contesto, perciò, ogni percorso di preghiera e ascesi costituisce un importante motivo di
costruttiva e comune riflessione”. Di qui “l’augurio cordiale” del patriarca a “tutte le
persone e comunità che – anche nel nostro territorio veneziano – si apprestano a vivere
il tempo di Ramadan” di “vivere questo periodo nella serenità e nella pace”.
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 36 Una messa in ricordo del beato Luigi Caburlotto
Oggi a San Marco
Oggi alle 18 nella basilica cattedrale di San Marco, sarà celebrata una Santa Messa di
ringraziamento per il primo anniversario della beatificazione e nella festa liturgica del
beato Luigi Caburlotto (in foto), fondatore della congregazione delle Figlie di San
Giuseppe. La liturgia sarà presieduta dal patriarca Francesco Moraglia mentre
l’animazione musicale e del canto verrà assicurata dalla Cappella musicale "Perosi" della
parrocchia di San Giorgio di Chirignago e dai ragazzi della scuola San Giuseppe di
Venezia. Caburlotto (1817-1897), figlio di gondoliere, fu educato nella Scuola dei fratelli
Cavanis e nel Seminario patriarcale. Fu assegnato alla parrocchia di San Giacomo
dall'Orio dove diede vita a una scuola popolare di carità per fanciulle e diresse il Manin, il
prestigioso istituto di beneficenza della città. Ora le religiose si trovano a Venezia,
Mestre, Chirignago, Spinea, in Kenya, Brasile e Filippine con scuole e dispensari.
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Rivelazione della tenerezza
All’Angelus
«La Chiesa oggi ci mostra due suoi figli che sono testimoni esemplari» del mistero di
risurrezione di Cristo, nel quale «la tenerezza di Dio si rivela pienamente»: lo ha
sottolineato Papa Francesco alla messa per la canonizzazione di Stanislao di Gesù Maria
Papczyński e Maria Elisabetta Hesselblad, celebrata domenica 5 giugno in piazza San
Pietro.
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci riconduce all’evento centrale della fede: la
vittoria di Dio sul dolore e sulla morte. È il Vangelo della speranza che sgorga dal Mistero
pasquale di Cristo, che irradia dal suo volto, rivelatore di Dio Padre consolatore degli
afflitti. È una Parola che ci chiama a rimanere intimamente uniti alla passione del nostro
Signore Gesù, perché si mostri in noi la potenza della sua risurrezione. In effetti, nella
passione di Cristo c’è la risposta di Dio al grido angosciato, e a volte indignato, che
l’esperienza del dolore e della morte suscita in noi. Si tratta di non scappare dalla Croce,
ma di rimanere lì, come fece la Vergine Madre, che soffrendo insieme a Gesù ricevette la
grazia di sperare contro ogni speranza (cfr. Rm 4, 18). Questa è stata anche l’esperienza
di Stanislao di Gesù Maria e di Maria Elisabetta Hesselblad, che oggi vengono proclamati
santi: sono rimasti intimamente uniti alla passione di Gesù e in loro si è manifestata la
potenza della sua risurrezione. La prima Lettura e il Vangelo di questa domenica ci
presentano proprio due segni prodigiosi di risurrezione, il primo operato dal profeta Elia,
il secondo da Gesù. In entrambi i casi, i morti sono giovanissimi figli di donne vedove,
che vengono restituiti vivi alle loro madri. La vedova di Sarepta - una donna non ebrea,
che però aveva accolto nella sua casa il profeta Elia - è indignata con il profeta e con Dio
perché, proprio mentre Elia era ospite da lei, il suo bambino si era ammalato e adesso
era spirato tra le sue braccia. Allora Elia dice a quella donna: «Dammi tuo figlio» (1 Re
17, 19). Questa è una parola-chiave: esprime l’atteggiamento di Dio di fronte alla nostra
morte (in ogni sua forma); non dice: “Tienitela, arrangiati!”, ma dice: “Dalla a me”. E
infatti il profeta prende il bambino e lo porta nella stanza superiore, e lì, da solo, nella
preghiera, “lotta con Dio”, ponendogli di fronte l’assurdità di quella morte. E il Signore
ascoltò la voce di Elia, perché in realtà era Lui, Dio, a parlare e agire nel profeta. Era Lui
che, per bocca di Elia, aveva detto alla donna: “Dammi tuo figlio”. E adesso era Lui che
lo restituiva vivo alla madre. La tenerezza di Dio si rivela pienamente in Gesù. Abbiamo
ascoltato nel Vangelo (Lc 7, 11-17) come Lui provò «grande compassione» (v. 13) per
quella vedova di Nain, in Galilea, la quale stava accompagnando alla sepoltura il suo
unico figlio, ancora adolescente. Ma Gesù si avvicina, tocca la bara, ferma il corteo
funebre, e sicuramente avrà accarezzato il viso bagnato di lacrime di quella povera
mamma. «Non piangere!», le dice (Lc 7, 13). Come se le chiedesse: “Dammi tuo figlio”.
Gesù chiede per sé la nostra morte, per liberarcene e ridarci la vita. Infatti quel ragazzo
si risvegliò come da un sonno profondo e ricominciò a parlare. E Gesù «lo restituì a sua
madre» (v. 15). Non è un mago! È la tenerezza di Dio incarnata, in Lui opera l’immensa
compassione del Padre. Una sorta di risurrezione è anche quella dell’apostolo Paolo, che
da nemico e feroce persecutore dei cristiani divenne testimone e araldo del Vangelo (cfr.
Gal 1, 13-17). Questo radicale mutamento non fu opera sua, ma dono della misericordia
di Dio, che lo «scelse» e lo «chiamò con la sua grazia», e volle rivelare “in lui” il suo
Figlio perché lo annunciasse in mezzo alle genti (vv. 15-16). Paolo dice che Dio Padre si
compiacque di rivelare il Figlio non solo a lui, ma in lui, cioè quasi imprimendo nella sua
persona, carne e spirito, la morte e la risurrezione di Cristo. Così l’apostolo sarà non solo
un messaggero, ma anzitutto un testimone. E anche con i peccatori, ad uno ad uno,
Gesù non cessa di far risplendere la vittoria della grazia che dà vita. E oggi e tutti i
giorni, dice alla Madre Chiesa: “Dammi i tuoi figli”, che siamo tutti noi. Egli prende su di
sé i nostri peccati, li toglie e ci restituisce vivi alla Chiesa stessa. E ciò avviene in modo
speciale durante questo Anno Santo della Misericordia. La Chiesa oggi ci mostra due suoi
figli che sono testimoni esemplari di questo mistero di risurrezione. Entrambi possono
cantare in eterno, con le parole del Salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza, /
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre» (Sal 30, 12). E tutti insieme uniamo le
nostre voci dicendo: «Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato» (Ritornello al
Salmo responsoriale).
Al termine della messa il Pontefice, prima della preghiera dell’Angelus, ha pronunciato le
seguenti parole:
Cari fratelli e sorelle, saluto tutti voi, che avete partecipato a questa celebrazione. In
modo speciale ringrazio le Delegazioni Ufficiali venute per le canonizzazioni: quella della
Polonia, guidata dallo stesso Presidente della Repubblica, e quella della Svezia. Il
Signore, per intercessione dei due nuovi Santi, benedica le vostre nazioni. Saluto con
affetto i numerosi gruppi di pellegrini dall’Italia e da diversi Paesi, in particolare i fedeli
provenienti dall’Estonia, come pure quelli della diocesi di Bologna e le Bande musicali.
Tutti insieme ci rivolgiamo ora in preghiera alla Vergine Maria, perché ci guidi sempre
nel cammino della santità e ci sostenga nel costruire giorno per giorno la giustizia e la
pace.
Pag 8 Il navigatore e i quattro guai
Messa a Santa Marta
Se le beatitudini sono «il navigatore per la nostra vita cristiana», ci sono anche le «antibeatitudini» che sicuramente ci faranno «sbagliare strada»: è dall’attaccamento alle
ricchezze, dalla vanità e dall’orgoglio che ha messo in guardia Francesco indicando nella
mitezza, che non va confusa certo per «sciocchezza», la beatitudine su cui riflettere di
più. E così nella messa celebrata lunedì mattina 6 giugno, nella cappella della Casa
Santa Marta, il Pontefice ha suggerito di rileggere le pagine evangeliche sulle beatitudini
scritte da Matteo e Luca. «Possiamo immaginare» ha affermato Francesco, in quale
contesto Gesù ha pronunciato il discorso delle beatitudini, così come lo riporta Matteo
nel suo Vangelo (5, 1-12). Ecco allora «Gesù, le folle, il monte, i discepoli». E «Gesù si
mise a parlare e insegnava la nuova legge, che non cancella l’antica, perché lui stesso
ha detto che fino all’ultima jota dell’antica legge dev’essere compiuta». In realtà Gesù
«perfeziona l’antica legge, la porta alla sua pienezza». E «questa è la legge nuova,
questa che noi chiamiamo le beatitudini». Sì, ha spiegato il Papa, «è la nuova legge del
Signore per noi». Infatti le beatitudini «sono la guida di rotta, di itinerario, sono i
navigatori della vita cristiana: proprio qui vediamo, su questa strada, secondo le
indicazioni di questo navigatore, come possiamo andare avanti nella nostra vita
cristiana». Nelle beatitudini, ha fatto notare Francesco, «ci sono tante cose belle:
possiamo fermarci in ognuna fino alle dieci del mattino». Ma «io vorrei soffermarmi su
come l’evangelista Luca spiega questo». Rispetto al brano di Matteo proposto oggi dalla
liturgia, ha affermato il Papa, Luca nel capitolo 6 del suo Vangelo «dice lo stesso, ma alla
fine aggiunge qualcosa che Gesù ha detto: i quattro guai». Proprio «i quattro guai». E
così ecco che anche Luca elenca quel «beati, beati, beati, beati tutti». Ma poi aggiunge
«guai, guai, guai, guai». Sono precisamente «quattro guai». E cioè: «Guai a voi ricchi,
perché avete avuto la vostra consolazione; guai a voi se siete sazi, perché avrete fame;
guai a voi che ridete: piangerete; guai a voi, quando tutti diranno bene di voi: così
hanno fatto i vostri antenati con i falsi profeti». E «questi guai - ha proseguito il Papa illuminano l’essenziale di questo foglio, di questa guida di cammino cristiano». Il primo
«guai» riguarda i ricchi. «Ho detto tante volte» ha ricordato Francesco, che «le ricchezze
sono buone» e che «quello che fa male e che è cattivo è l’attaccamento alle ricchezze,
guai!». La ricchezza infatti «è un’idolatria: quando io sono attaccato, allora faccio
idolatria». Non è certo un caso se «la maggior parte degli idoli sono fatti d’oro». E così ci
sono «quelli che si sentono felici, a loro non manca niente», hanno «un cuore
soddisfatto, un cuore chiuso, senza orizzonti: ridono, sono sazi, non hanno fame di
nulla». E poi ci sono «quelli a cui piace l’incenso: a loro piace che tutti parlino bene di
loro e così sono tranquilli». Ma «“guai a voi” dice il Signore: questa è l’anti-legge, è il
navigatore sbagliato». È importante notare, ha proseguito il Papa, che «questi sono i tre
scalini che portano alla perdizione, così come le beatitudini sono gli scalini che portano
avanti nella vita». Il primo dei «tre scalini che portano alla perdizione» è, appunto,
«l’attaccamento alle ricchezze», quando si avverte di non aver «bisogno di nulla». Il
secondo è «la vanità», la ricerca «che tutti dicano bene di me, tutti parlino bene: mi
sento importante, troppo incenso» e io alla fine «credo di essere giusto, non come
quello» ha affermato Francesco, suggerendo di pensare «alla parabola del fariseo e il
pubblicano: “Ti ringrazio perché non sono come questo”». Tanto che quando siamo presi
dalla vanità si finisce persino per dire, e questo accade tutti i giorni, «grazie, Signore,
che sono tanto un buon cattolico, non come il vicino, la vicina». Il terzo è «l’orgoglio che
è la sazietà», sono «le risate che chiudono il cuore». «Con questi tre scalini andiamo alla
perdizione» ha spiegato il Papa, perché «sono le anti-beatitudini: l’attaccamento alle
ricchezze, la vanità e l’orgoglio». «Le beatitudini invece sono il cammino, sono la guida
per il cammino che ci porta al regno di Dio» ha fatto presente Francesco. Tra tutte però
«c’è una che, non dico sia la chiave, ma ci fa pensare tanto: “Beati i miti”». Proprio «la
mitezza». Gesù «dice di se stesso: imparate da me che sono mite di cuore, che sono
umile e mite di cuore». Dunque «la mitezza è un modo di essere che ci avvicina tanto a
Gesù». Invece «l’atteggiamento contrario procura sempre le inimicizie, le guerre e tante
cose cose brutte che succedono». Il Papa ha anche messo in guardia dal ritenere che «la
mitezza di cuore» possa essere scambiata per «sciocchezza: no, è un’altra cosa, è la
profondità nel capire la grandezza di Dio, e adorazione». Prima di riprendere la
celebrazione della messa, il Pontefice ha invitato a pensare alle «beatitudini che sono il
biglietto, il foglio di guida della nostra vita, per non perdersi e non perderci». E «ci farà
bene oggi leggerle: sono poche, cinque minuti, capitolo 5 di Matteo». Sì, ha proposto,
«leggerle un pochettino, a casa, cinque minuti, ci farà bene» perché le beatitudini sono
«il cammino, la guida». E pensare, poi, ha concluso, anche alle «quattro antibeatitudini» riportate dall’evangelista Luca, quei quattro guai «che mi faranno sbagliare
strada e finire male».
AVVENIRE
Pag 19 Feltre. I migranti islamici portano in spalla la statua di Maria di Francesco
Dal Mas
Domenica, vigilia dell’inizio di ramadan, otto profughi musulmani ospiti a Feltre prima
hanno pregato per conto loro e poi hanno portato a spalla la Madonna dell’inutile,
alternandosi lungo undici chilometri a piedi con i ragazzi di Villa San Francesco, la
comunità che ha organizzato la processione (lo fa ogni 5 anni). E poi con i volontari
dell’Unitalsi, gli alpini, altri giovani, alcune mamme, perfino i sindaci con tanto di fascia
tricolore e alcune parlamentari. In un pomeriggio di sole e pioggia, i numerosi pel- D
legrini hanno pregato, cantato e riflettuto. La statua della Madonna nasce una ventina
d’anni fa da un’idea dell’allora arcivescovo Loris Capovilla, scomparso lo scorso 26
maggio, che a un amico scultore ha suggerito di confezionarla con rottami di ferro e altri
rifiuti. E Capovilla stesso l’ha donata alla comunità, diretta da Aldo Bertelle, fondata dal
Cif del patriarcato di Venezia e inaugurata dall’allora patriarca Angelo Roncalli. Tra i
minori assistiti, anche alcuni immigrati senza genitori. E sono stati proprio costoro ad
invitare i profughi. «Penso agli 8 profughi musulmani che hanno portato la Madonna nel
tratto iniziale e poi anche per una seconda tappa nel lungo cammino che ci ha portati qui
alla meravigliosa Cooperativa Arcobaleno – ha detto Giuseppe Andrich, vescovo emerito
di Belluno-Feltre –. Ora abbiamo un Papa che parla di “scarti”. Tutti noi siamo
rappresentati da questa Madonna perché la vita è attraversata da sentimenti d’inutilità,
di perdita di senso, magari anche solo per un attimo. Ciascuno di noi talvolta è
“scarto”». Vescovi e sacerdoti, alternatisi nella preghiera, hanno indossato stole donate
alla comunità da papa Francesco, da Giovanni Paolo II, da Giovanni XXIII, da Capovilla o
da don Diana. Il Rosario che Andrich ha sgranato era la corona che Giovanni XXIII
recitava prima della morte. «Essere niente, eppure figli amati sempre – ha evidenziato
Andrich – perché la misericordia di Dio non ha confini, non esclude nessuno, ama tutti».
IL FOGLIO
Pag 2 Inquisizione per il cardinale che ha condannato l’ideologia gender di
Matteo Matzuzzi
Denunciato a Valencia Canizares Llovera: “Odia i gay”
Roma. Le Cortes valenciane, cioè il parlamento regionale della Comunità valenciana,
voterà presto una mozione di condanna dell'arcivescovo cardinale Antonio Cañizares
Llovera, reo d'aver preso posizione contro la diffusione dell' ideologia gender in una
lectio magistralis tenuta nei giorni scorsi presso la sede spagnola dell' Istituto Giovanni
Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Nel suo intervento, il presule - che per un
quinquennio ha operato in Vaticano in qualità di prefetto della Congregazione per il Culto
divino e la disciplina dei sacramenti, chiamato da Benedetto XVI - aveva sottolineato
come fosse in atto il tentativo "di imporci una ideologia di genere con leggi inique alle
quali non dobbiamo obbedire". Cañizares aveva anche criticato "l'escalation contro la
famiglia da parte di dirigenti politici, aiutati da altri poteri come l'impero gay e certe
ideologie femministe". Immediata la reazione dell'associazione Lambda, che assieme ad
altre cinquantacinque sigle a difesa della comunità lgbt ha presentato una denuncia
penale contro l'arcivescovo per "incitamento all'odio contro omosessuali e femministe".
Fani Boronat, coordinatore generale di Lambda, aveva da subito definito "odiose,
omofobe e razziste" le parole del cardinale, che a suo giudizio sarebbe arroccato nella
difesa "di modelli arcaici difesi dalla gerarchia cattolica", annunciando al contempo una
raccolta firme da inviare al Papa affinché condanni "le dichiarazioni omofobiche" dell'
arcivescovo. Il Parlamento locale ha subito provveduto a organizzare un dibattito per
"censurare" il discorso di Cañizares, la cui risposta è stata consegnata a una lettera
aperta alla diocesi in cui lamenta la privazione "del diritto fondamentale alla libertà
religiosa", visto che "sono stato sottoposto a un giudizio senza avermi neppure ascoltato
e senza essermi potuto difendere. Sono stato condannato sulla base di pregiudizi e
letture di parte e interpretazioni fornite da alcuni mezzi di comunicazione". Il porporato che è stato accusato in Parlamento di "essere poco cristiano" e di non mettere in pratica
gli insegnamenti di Papa Francesco - "hanno manipolato anche il Santo Padre per usarlo
contro di me" - ha sottolineato di non essere "razzista, omofobo o sessista. Io accetto
tutti e non escludo nessuno perché credo fermamente nel Signore. Ma cerco e proclamo
la verità e la giustizia, anche a costo di essere sgradevole". Il "mio ministero - ha
aggiunto - è al servizio della verità di Dio, dell' uomo e della famiglia". L' indignazione di
Cañizares è per il dibattito alle Cortes, "trasformate in un tribunale popolare che
rimanda a così cattivi ricordi storici". A difesa dell'arcivescovo - nel silenzio generale
delle alte gerarchie della chiesa spagnola, profondamente divisa al suo interno tra la
vecchia guardia legata al cardinale, emerito di Madrid, Antonio Maria Rouco Varela e i
nuovi vescovi di nomina bergogliana - è intervenuta con un comunicato la Federazione
cattolica delle associazioni dei genitori di Valencia, che ha espresso "pieno sostegno e
gratitudine" al cardinale arcivescovo "per il suo coraggio contro la dittatura del pensiero
unico". La federazione ricorda che "la denuncia dell' ideologia gender è stata fatta
propria dai papi Francesco, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II".
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Alice nel paese di "Amoris laetitia" di Sandro Magister
La folgorante critica di una studiosa australiana all'esortazione postsinodale. "Abbiamo
perso ogni punto d'appoggio e siamo caduti come Alice in un universo parallelo, dove
nulla è ciò che sembra essere"
Occhio all'autrice della prima edizione critica di un capolavoro di san Basilio il Grande
andato perduto nell'originale greco ma giunto a noi grazie a un'antica versione in siriaco
attestata in cinque manoscritti, pubblicato due anni fa dalla storica editrice Brill attiva in
Olanda dal XVII secolo. L'autrice è Anna M. Sllvas ed è studiosa tra le più rinomate al
mondo dei Padri della Chiesa, soprattutto orientali. Appartiene alla Chiesa grecocattolica
di Romania e vive in Australia, ad Armidale, nel Nuovo Galles del Sud. Insegna nella
University of New England e nella Australian Catholic University. I suoi principali soggetti
di studio sono i Padri Cappadoci, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, lo
sviluppo del monachesimo, l'ascetismo femminile nella prima cristianità e nel Medioevo.
Tiene inoltre corsi sul matrimonio, la famiglia e la sessualità nella tradizione cattolica al
Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia di Melbourne.
Quello che segue è il suo commento all'esortazione apostolica postsinodale "Amoris
laetitia", pronunciato davanti a un folto pubblico con vescovi e sacerdoti e poi pubblicato
sul sito web della parrocchia del beato John Henry Newman a Caulfield North, nei pressi
di Melbourne. Il testo originale del commento è arricchito con alcune note a piè di pagina
e un epilogo con un brano di san Basilio, qui omessi. Ma non una parola di più. Il
commento di Anna M. Sllvas è tutto da leggere. Brillante, acuto, competente, schietto.
Un esempio luminoso di quella "parresìa" che è dovere di ogni battezzato.
_________
Alcune preoccupazioni riguardo "Amoris laetitia" di Anna M. Silvas
In questa conversazione vorrei illustrare alcune delle mie preoccupazioni più pressanti
riguardo "Amoris laetitia". Queste riflessioni sono raccolte in tre sezioni. La prima parte
illustrerà le preoccupazioni di carattere generale; la seconda parte si concentrerà
sull’ormai famigerato capitolo ottavo; e la terza parte indicherà alcune implicazioni di
"Amoris laetitia", per i sacerdoti e il cattolicesimo. Sono consapevole che "Amoris
laetitia", in quanto esortazione apostolica, non ricade sotto un qualsiasi titolo di
infallibilità. Eppure è un documento del magistero pontificio ordinario, e quindi rende
piuttosto arduo il proposito di criticarla, soprattutto dottrinalmente. Mi sembra una
situazione senza precedenti. Vorrei che ci fosse un grande santo, come san Paolo,
sant'Atanasio, san Bernardo o santa Caterina da Siena, che possa avere il coraggio e le
credenziali spirituali, cioè la profezia del tipo più vero, per dire la verità al successore di
Pietro e richiamarlo a un migliore quadro concettuale. In questa fase l'autorità
gerarchica nella Chiesa sembra essere entrata in una strana paralisi. Forse questa è l'ora
dei profeti, ma di profeti veri. Dove sono i santi, con "nooi", intelletti, purificati dal lungo
contatto con il Dio vivente nella preghiera e nell'ascesi, dotati di parola ispirata, capaci di
un tale compito? Dove sono queste persone?
Preoccupazioni generali - Scolpite su tavole di pietra dal dito del Dio vivente (Es 31, 8;
32, 15), dicono le dieci "parole" proclamate agli uomini di ogni tempo: "Non commettere
adulterio" (Es 20, 14) e: "Non desiderare la moglie del tuo prossimo" (Es 20,17). Nostro
Signore stesso ha dichiarato: "Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra,
commette adulterio contro di lei" (Mc 10, 11). E l'apostolo Paolo ha ribadito
l'espressione: "Sarà chiamata adultera se vive con un altro uomo mentre il marito è vivo
(Rom 7, 3). Con un silenzio assordante, la parola "adulterio" è del tutto assente dal
lessico di "Amoris laetitia". Invece vi troviamo qualcosa chiamato "unione irregolare", o
"situazione irregolare", con "irregolare" tra virgolette, come se l'autore volesse
tenersene a distanza. "Se mi amate", dice il Signore, "osserverete i miei comandamenti"
(Gv 14, 15) e il Vangelo e le lettere di Giovanni ripetono questo ammonimento del
Signore in vari modi. Ciò non vuol dire che la nostra condotta è giustificata dai nostri
sentimenti soggettivi, ma piuttosto che la nostra disposizione soggettiva è verificata
nella nostra condotta, vale a dire nell'atto obbedienziale. Purtroppo, quando scorriamo
"Amoris laetitia", troviamo che anche i "comandamenti" sono del tutto assenti dal suo
lessico, come lo è anche l'obbedienza. Invece troviamo dei cosiddetti "ideali", che
compaiono più volte in tutto il documento. Un'altro concetto chiave che non trovo nel
linguaggio di questo documento è il timor di Dio. Cioè quello stupore di fronte alla realtà
sovrana di Dio che è il principio della sapienza, uno dei doni dello Spirito Santo nella
cresima. Davvero questo santo timore è da tempo scomparso da una vasta parte del
discorso cattolico moderno. Si tratta di un'espressione semitica che sta per "eulabeia" ed
"eusebia" in greco e per "pietas" e "religio" in latino, il cuore di una disposizione verso
Dio, lo spirito autentico della religione. Un altro registro di linguaggio che manca in
"Amoris laetitia" è quello della salvezza eterna. Non si trovano in questo documento
anime immortali che anelano all'eterna salvezza! È vero, troviamo "vita eterna" ed
"eternità" nominate nei nn. 166 e 168 come l'apparentemente inevitabile "compimento"
del destino di un bambino, ma senza alcun accenno a imperativi di grazia e di lotta,
insomma di salvezza eterna, che facciano parte di quel cammino. Dato che la cultura
intellettuale intrisa di fede di ciascuno è formata per dare eco alle parole che egli
ascolta, la loro assenza produce un fischio nelle mie orecchie. Guardiamo poi quello che
troviamo nel documento stesso. Perché un testo tanto prolisso, con tutte le sue 260
pagine, più di tre volte la lunghezza della "Familiaris consortio"? Questa è sicuramente
una grande scortesia pastorale. Eppure papa Francesco vuole che si legga "ogni parte
con pazienza e con attenzione" (n. 7). Bene, alcuni di noi hanno dovuto farlo. E gran
parte del testo è di tipo noioso e volatile. In generale trovo il discorso di papa Francesco,
non solo qui ma ovunque, piatto e unidimensionale. "Superficiale", potrei definirlo, e
anche "semplicistico": nessun senso di profondità dischiuso da parole sante e vere, che
ci invitino a prendere il largo. Una delle caratteristiche meno gradevoli della "Amoris
laetitia" sono i molti commenti bruschi e insofferenti di papa Francesco, le puntate
polemiche che tanto abbassano il tono del discorso. Si resta molte volte perplessi
riguardo alla fondatezza di questi commenti. Per esempio, nella famigerata nota 351, il
papa ammonisce i sacerdoti che "il confessionale non dev’essere una sala di tortura".
Una sala di tortura? In un altro passaggio, al n. 36, dice: "Spesso abbiamo presentato il
matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di
aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere
della procreazione". Chiunque abbia la minima conoscenza dello sviluppo della dottrina
sul matrimonio sa che il bene unitivo ha ricevuto una grande rinnovata attenzione
almeno a partire da "Gaudium et spes" 49, con un retroterra storico di qualche
decennio. Per me, queste caricature impulsive e infondate sono indegne della dignità e
serietà che dovrebbe avere una esortazione apostolica. Nei nn. 121-122 abbiamo un
esempio perfetto della qualità erratica del discorso di papa Francesco. Dopo una iniziale
descrizione del matrimonio come "segno prezioso" e "icona dell'amore di Dio per noi",
nel giro di poche righe questa immagine di Cristo e della sua Chiesa diventa un
"tremendo peso’" che viene imposto sui coniugi. Egli ha già usato questo termine,
"peso", al n. 37. Ma chi si è mai aspettata un'immediata perfezione degli sposi? Chi non
ha concepito il matrimonio come progetto di tutta una vita, di crescita nel vissuto del
sacramento? Il linguaggio di papa Francesco sull’emozione e sulla passione (nn. 125,
242, 143, 145) attinge non dai Padri della Chiesa o dai maestri della vita spirituale nella
grande tradizione, ma piuttosto dalla mentalità dei media popolari. La sua semplicistica
fusione tra eros e desiderio sessuale nel n. 151 soccombe alla visione laicista e ignora la
"Deus caritas est" di papa Benedetto, immersa in una esposizione meditata del mistero
di eros, di agape e della croce. Ci si trova a disagio davanti al linguaggio ambiguo dei
nn. 243 e 246, che fa pensare che in qualche modo sia colpa della Chiesa, o sia qualcosa
di cui la Chiesa debba chiedere scusa, il fatto che dei suoi membri entrino in un’unione
oggettivamente adulterina, e in tal modo si escludano dalla santa comunione. Questa è
un'idea guida che pervade l'intero documento. Qualche volta durante la lettura di questo
documento ho fatto una pausa e ho pensato: "È da tante pagine che non sento parlare
di Cristo". Troppo spesso siamo sottoposti a lunghe tirate di consigli da zio di campagna
che potrebbero essere dati da qualsiasi giornalista laico, senza la fede, del genere che si
trova nelle pagine del Reader’s Digest, o in uno di quei supplementi sullo stile di vita
abbinati ai giornali del fine settimana. È vero, alcune delle dottrine della Chiesa sono
solidamente sostenute, ad esempio contro le unioni dello stesso sesso (n. 52) e la
poligamia (n. 53), l’ideologia del "gender" (n. 56) e l'aborto (n. 84); ci sono conferme
della indissolubilità del matrimonio (n. 63) e del suo fine procreativo e un sostegno della
"Humanae vitae" (nn. 68, 83), dei diritti sovrani dei genitori nell'educazione dei propri
figli (n. 84), del diritto di ogni bambino a una madre e a un padre (nn. 172, 175),
dell'importanza dei padri (nn. 176, 177). Si trova anche qua e là qualche pensiero
poetico, come ad esempio sullo "sguardo" contemplativo di amore tra gli sposi (nn. 1278) o sulla maturazione del buon vino come immagine della maturazione dei coniugi (n.
135). Ma tutta questa lodevole dottrina è minata, a mio avviso, dalla retorica
dell’esortazione nell’insieme, e da quella dell’intero pontificato di papa Francesco. Queste
conferme della dottrina cattolica sono benvenute, ma bisogna chiedere: hanno in
qualche misura più peso dell’entusiasmo fuggevole ed erratico del titolare attuale della
cattedra di san Pietro? Lo dico seriamente. Il mio istinto mi dice che la prossima materia
in pericolo di andare all'aria sarà il cosiddetto "matrimonio" tra persone dello stesso
sesso. Se è possibile costruire una giustificazione di stati di oggettivo adulterio sulla
base del riconoscimento degli "elementi costruttivi in quelle situazioni che non
corrispondono ancora o non più all'insegnamento della Chiesa sul matrimonio" (n. 292),
"quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico ed è
connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole" (n. 293) ecc.,
fino a quando si potrà rinviare l'applicazione del medesimo ragionamento alle coppie
dello stesso sesso? Sì, i bambini possono essere in questione, come sappiamo molto
bene dall'agenda omosessuale. Già l'ex curatore del Catechismo cattolico, [il cardinale
Christoph Schönborn], alla cui ermeneutica di "Amoris laetitia" come "sviluppo della
dottrina" papa Francesco ci ha rimandato, sembra essere "in evoluzione" sulla potenziale
"bontà" di "unioni" dello stesso sesso.
Lettura del capitolo otto - E tutto questo prima di arrivare a leggere il capitolo otto. Mi
sono chiesto se la straordinaria prolissità dei primi sette capitoli aveva lo scopo di sfinirci
prima di arrivare a questo capitolo cruciale, e farci abbassare la guardia. Per me, l'intero
tenore del capitolo otto è problematico, non solo il n. 304 e la nota 351. Non appena ho
finito di leggerlo ho pensato: è chiaro come il sole che papa Francesco voleva fin
dall'inizio qualche forma della proposta Kasper. Ed ecco qui. Kasper ha vinto. Tutto
questo spiega i taglienti commenti di papa Francesco alla fine del sinodo del 2015,
quando censurò i "farisei" di corte vedute, evidentemente coloro che gli avevano
impedito di ottenere un risultato ancora migliore in linea con la sua agenda. "Farisei"?
Che improprietà di linguaggio! Quelli erano in un certo senso i modernisti del giudaismo,
i padroni di diecimila sfumature e, più pertinentemente, quelli che tenacemente
sostenevano la pratica del divorzio e del nuovo matrimonio. I veri analoghi dei farisei in
tutta questa vicenda sono Kasper e i suoi alleati. Andiamo avanti. Le parole del n. 295,
sulle osservazioni di san Giovanni Paolo II sulla "legge di gradualità" in "Familiaris
consortio" 34, mi sembrano sottilmente sleali e corrompitrici. Perché cercano di cooptare
e corrompere Giovanni Paolo proprio a sostegno di un'etica "della situazione" per opporsi
alla quale il santo papa spese tutta la sua amorevole intelligenza pastorale ed energia.
Sentiamo allora che cosa san Giovanni Paolo dice veramente sulla legge di gradualità: “I
coniugi... tuttavia, non possono guardare alla legge solo come ad un puro ideale da
raggiungere in futuro, ma debbono considerarla come un comando di Cristo Signore a
superare con impegno le difficoltà. Perciò la cosiddetta 'legge della gradualità', o
cammino graduale, non può identificarsi con la 'gradualità della legge', come se ci
fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni
diverse. Tutti i coniugi, secondo il disegno divino, sono chiamati alla santità nel
matrimonio". La nota 329 di "Amoris laetitia" presenta anch'essa un altro corrompimento
furtivo. Cita un passaggio di "Gaudium et spes" 51, riguardante l'intimità della vita
coniugale. Ma tramite un gioco di prestigio nascosto lo mette invece sulla bocca dei
divorziati risposati. Tali corrompimenti sicuramente indicano che i rimandi e le note, che
in questo documento sono utilizzati come colonne portanti, devono essere
adeguatamente verificati. Già nel n. 297 vediamo la responsabilità delle "situazioni
irregolari" trasferita al discernimento dei pastori. Passo dopo passo le argomentazioni
portano avanti sottilmente un'agenda precisa. Il n. 299 domanda come "diverse forme di
esclusione attualmente praticate" possono essere superate, e il n. 301 introduce l'idea di
un "colloquio col sacerdote in foro interno". Non si può già indovinare in che direzione
l’argomentazione procede? Si arriva così al n. 301, che fa a meno delle precauzioni
mentre discendiamo nel vortice delle "circostanze attenuanti". Qui sembra che la
"vecchia Chiesa gretta" finalmente è stata sostituita dalla "nuova Chiesa gentile": nel
passato magari pensavamo che coloro che vivono in "situazioni irregolari" senza
pentimento fossero in un stato di peccato mortale; ora invece è possibile che non siano
affatto in uno stato di peccato mortale, infatti la grazia santificante può essere all’opera
in loro. Si spiega poi, in un eccesso di puro soggettivismo, che "un soggetto, pur
conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere i valori insiti
nella norma morale". Ecco una circostanza attenuante che batte tutte le altre circostanze
attenuanti. Stando a questa tesi, possiamo allora discolpare l’invidia originaria di
Lucifero perché aveva "grande difficoltà nel comprendere" il "valore insito", per lui, della
maestà trascendente di Dio? A questo punto sento che abbiamo perso ogni punto
d'appoggio e siamo caduti come Alice in un universo parallelo, dove nulla è ciò che
sembra essere. Una serie di citazioni di san Tommaso d'Aquino è introdotta a sostegno,
sulla quale io non sono qualificata per commentare, se non per dire che, ovviamente, la
verifica e la contestualizzazione sono fortemente indicate. Il n. 304 è un'apologia
altamente tecnica della morale casistica, sostenuta in termini esclusivamente filosofici
senza nessun accenno a Cristo o alla fede. Non si può non pensare che questo passaggio
sia di altra mano. Non è lo stile di Francesco, anche supponendo che sia il suo pensiero.
Infine arriviamo al cruciale n. 305. Inizia con due delle scadenti caricature che ricorrono
in tutto il documento. La nuova dottrina che papa Francesco aveva messo in vista un po'
prima, adesso egli la ripete e ribadisce: una persona può essere in una situazione
oggettiva di peccato mortale – perché è di questo che egli parla – e vivere e crescere
ancora nella grazia di Dio, sempre "ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa" che – la
famigerata nota 351 dichiara – può includere "in certi casi" sia la confessione che la
comunione. Sono sicura che molti già cercano assiduamente di "interpretare" tutto
questo secondo una "ermeneutica della continuità", per mostrare la sua armonia,
presumo, con la tradizione. Potrei aggiungere che in questo n. 305 papa Francesco cita
se stesso quattro volte. In realtà, sembra che per papa Francesco il punto di riferimento
citato più frequentemente in "Amoris laetitia" sia se stesso, e anche questo è
interessante in sé. Nel resto del capitolo papa Francesco cambia rotta. Fa la contorta
ammissione che il suo approccio può dare "luogo a confusione" (n. 308). A questo egli
risponde con una discussione sulla "misericordia". All'inizio di n. 7 aveva scritto che "tutti
si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo". Sì, ma non proprio intendendo ciò in
uno spensierato senso euristico. Papa Francesco ha francamente ammesso in passato
che egli è il tipo di persona che ama fare "casino"? Beh, credo che possiamo concedere
che qui egli ha certamente raggiunto tale scopo. Mi sia permesso raccontare di un amico
piuttosto taciturno e prudente, un uomo sposato, che mi ha detto, prima che
l’esortazione apostolica fosse pubblicata: "Oh, come spero che egli possa evitare
l'ambiguità". Ebbene, penso che anche la più pia lettura di "Amoris laetitia" non
consente di dire che egli abbia evitato l'ambiguità. Per dirla con le stesse parole di papa
Francesco, "troviamo fenomeni ambigui" (n. 33) in questo documento e, mi permetto di
dire, in tutto il suo pontificato. Se siamo stati messi nella situazione impossibile di
criticare un documento del magistero ordinario, consideriamo se in "Amoris laetitia" non
sia proprio papa Francesco che relativizza l'autorità del magistero, elidendo il magistero
di Giovanni Paolo, specialmente in "Familiaris consortio" e "Veritatis splendor". Sfido
chiunque a rileggere con proprietà l'enciclica "Veritatis splendor", poniamo i nn. 95-105,
e a non concludere che c'è una dissonanza profonda tra quell'enciclica e questa
esortazione apostolica. Negli anni della mia giovinezza mi sono arrovellata sopra
l'enigma: come si può essere obbediente al disobbediente? Perché anche un papa è
chiamato all'obbedienza, anzi, lo è in modo preminente.
Implicazioni che vanno al di là di "Amoris laetitia" - Le serie difficoltà che prevedo, per i
sacerdoti in particolare, sorgono dallo scontrarsi delle interpretazioni sulle scappatoie
discretamente piantate in tutta la "Amoris laetitia". Che cosa farà un giovane sacerdote
novello che, ben informato, vorrà sostenere che i divorziati risposati non possono in
alcun modo essere ammessi alla santa comunione, mentre il suo parroco ha una politica
di "accompagnamento", che al contrario prevede che possono? Che cosa farà un
sacerdote con un simile senso di fedeltà, se il suo vescovo e la sua diocesi decidono per
una politica più liberale? Che cosa farà una regione di vescovi nei confronti di un'altra
regione di vescovi, quando ogni gruppo di vescovi decide come tagliare e dividere le
”sfumature" di questa nuova dottrina, in modo che, nel caso peggiore, ciò che è ritenuto
essere peccato mortale su un lato del confine è "accompagnato" via e condonato
sull'altro lato del confine? Sappiamo che questo sta già accadendo, ufficialmente, in
talune diocesi tedesche, e non ufficialmente in Argentina e anche qui in Australia, da
anni, come posso verificare nella mia famiglia. Tale esito è così sconcertante che
potrebbe segnare, come ha suggerito un altro mio amico, anche lui sposato, il crollo
della narrazione cristiana cattolica. Ma naturalmente anche altri aspetti del
deterioramento ecclesiale e sociale ci hanno portato a questo punto: lo scempio del falso
rinnovamento nella Chiesa in questi ultimi decenni; la politica sbalorditivamente stupida
della inculturazione applicata a una sradicata cultura occidentale di secolarismo
militante; l'inesorabile, progressiva erosione del matrimonio e della famiglia nella
società; l’attacco alla Chiesa che è più potente dall'interno che dall'esterno, come papa
Benedetto denunciava; la prolungata defezione di alcuni teologi e laici in materia di
contraccezione; gli spaventosi scandali sessuali; gli innumerevoli sacrilegi; lo
smarrimento dello spirito della liturgia; gli scismi interni "de facto" su tutta una serie di
gravi problemi e approcci, sottilmente mascherati con una parvenza di unità "de iure"
della Chiesa; i modelli di profonda dissonanza spirituale e morale che ribollono ai giorni
nostri sotto il titolo consunto di "cattolici". E ci meravigliamo che la Chiesa sia in uno
stato indebolito e stia scomparendo? Potremmo anche tracciare i lunghi antecedenti
temporali di "Amoris laetitia". Siccome sono di un animo un po’ all’antica, vedo questo
documento come il cattivo frutto di certi sviluppi del secondo millennio nella Chiesa
occidentale. Ne sottolineo brevemente due in particolare: la forma fortemente
razionalista e dualista del tomismo promossa dai gesuiti nel XVI secolo e, in tale
contesto, la loro elaborazione della comprensione casistica del peccato mortale nel XVII
secolo. L'arte della casistica è stata applicata in una nuova categoria di scienza sacra
chiamata "teologia morale", in cui, mi sembra, la regola di calcolo è sapientemente
maneggiata per stimare – tecnicamente, caso per caso – la colpevolezza minima
necessaria per evitare l’imputazione di peccato mortale. Che spirituale meta! Che
spirituale visione! Oggi la casistica rialza la sua brutta testa nella nuova forma dell'etica
della situazione, e "Amoris laetitia", francamente, ne è piena, anche se essa è stata
esplicitamente condannata da san Giovanni Paolo II nell'enciclica "Veritatis splendor"!
Perorazione - Posso esortarvi in qualche modo che possa aiutare? San Basilio pronunciò
una grande omelia sul testo: "Solo presta attenzione a te stesso e custodisci la tua
anima con diligenza" (Dt 4, 9). Dobbiamo prima di tutto prestare cura alle nostre
disposizioni. I Padri del deserto hanno diversi racconti in cui un giovane monaco
persegue la sua salvezza eterna con l'eroica mitezza della sua obbedienza a un abate
con imperfezioni serie. E finisce con l'ottenere anche il pentimento e la salvezza del suo
abate. Non dobbiamo lasciarci tentare da reazioni di ostilità verso papa Francesco, o
rischiamo di cadere nel gioco del diavolo. Anche questo profondamente imperfetto Santo
Padre dobbiamo onorare, e sostenere nella carità, e pregare per lui. Con Dio nulla sarà
impossibile. Chissà che Dio non abbia portato Jorge Mario Bergoglio in questa posizione
al fine di trovare un numero sufficiente di persone che preghino efficacemente per la
salvezza della sua anima? Ho notato che i cardinali Sarah e Pell tacciono. Ci può essere
della saggezza in questo, almeno per ora. Nel frattempo, chi ha delle responsabilità nel
governo della Chiesa dovrà dare disposizioni pratiche per quanto riguarda le questioni
spinose di "Amoris laetitia". Prima di tutto, nella nostra mente, non dobbiamo avere
alcun dubbio su quale è e sarà sempre il reale insegnamento del Vangelo. Ovviamente,
qualsiasi strategia di pressione per un chiarimento ufficiale della futura pratica pastorale
deve essere tentata. Sollecito in particolare i vescovi australiani a fare questo. Alcuni
potrebbero trovarsi in situazioni molto difficili rispetto ai loro confratelli, quasi esigendo
le virtù di un confessore della fede. Sono pronti alla fustigazione, metaforicamente
parlando, che li potrebbe colpire? Certo uno potrebbe scegliere la sicurezza illusoria della
vacuità convenzionale e della simpatia superficiale, una grande tentazione per
ecclesiastici come anche per uomini d’affari. Non lo consiglio. I tempi sono gravi, forse
molto più gravi di quanto sospettiamo. Siamo messi alla prova. "Il Signore è qui. Egli ti
chiama".
Sulla disposizione eucaristica appropriata per i divorziati risposati - Recentemente ho
avuto un po’ di corrispondenza e-mail in cui un amico mi ha sottoposto alcuni punti sulle
disposizioni eucaristiche giuste per quelli in "situazioni irregolari". Nella mia risposta ho
espresso il mio pensiero su ciò che credo sia la condotta spiritualmente e
sacramentalmente consigliabile per un cattolico che si trova appunto in una "situazione
irregolare". C'è – gli ho detto – una amabile signora che viene di solito a messa nella
nostra cattedrale e si siede vicino all’entrata. Ho avuto una conversazione con lei, e ho
appreso che lei si trova in una di queste "situazioni irregolari", ma è ancora molto
diligente nel venire a messa, senza però partecipare alla santa comunione. Lei non si
scaglia contro la Chiesa, né dice "È colpa della Chiesa", o "Com’é ingiusta la Chiesa!',
sentimenti che invece ho sentito da altri che ho garbatamente ammonito. Io trovo il
comportamento di questa signora ammirevole nelle circostanze date. La migliore
posizione nella preghiera per coloro che sono in queste situazioni e ancora non arrivano
alla misura di pentimento richiesto (e così alla confessione) ma non vogliono smettere di
guardare verso Dio, è quella di presentare se stessi al Signore nella messa proprio nel
loro stato di privazione e di necessità, non correndo avanti per "agguantare" l'eucaristia,
ma cercando di aprirsi all’azione della grazia e a un cambiamento delle circostanze, se e
quando ciò sia possibile. Il mio pensiero riguardo alla loro situazione è che è meglio che
si tengano onestamente, anche se dolorosamente, nella tensione della loro situazione di
fronte a Dio, senza sotterfugi. Credo che questa sia il migliore posizionamento per il
trionfo della grazia. Chi di noi non può identificarsi con questa situazione diseguale nella
lotta spirituale della propria vita, cioè con il combattere duramente con qualche passione
apparentemente intrattabile e a malapena trovare la via per uscirne fuori, oppure col
trovarsi intrappolato a lungo in qualche peccato prima che la nostra vita morale emerga
in un luogo di maggiore libertà? Chi non ricorda la famosa preghiera di Agostino a Dio,
alla vigilia della sua conversione definitiva: "Domine, da mihi castitatem, sed noli
modo": O Signore, dammi la castità, ma non subito? Penso che quando queste persone
frequentano la messa e si astengono dal prendere la comunione, la loro può essere una
grande testimonianza per tutti noi. Sì, è un grido che ci chiama a prendere cura delle
nostre disposizioni nel presentarci a partecipare ai santissimi, deificanti Corpo e Sangue
del nostro Signore. A proposito di ciò mi viene in mente di riportare un detto dell'attore
Richard Harris, un guastafeste di cattolico non osservante per molti anni: "Ho divorziato
due volte, ma preferirei morire da cattivo cattolico piuttosto che far cambiare la Chiesa
perché si adatti a me". Trovo più pienezza di verità in questo che in... beh, meglio che
non lo dica.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 2 Gli stranieri e le favole di Francesco Riccardi
L’alta inattività italiana e quella bassa degli immigrati
È il vero tallone d’Achille del nostro Paese, il punto debole, assieme a una produttività
calante, che rende stentato qualsiasi cammino di ripresa economica. Nonostante il
recente miglioramento, infatti, il nostro tasso di attività rimane ancora al di sotto del 70
per cento, al 67,9% per la precisione, quasi 10 punti in meno della media europea del
77,3%. La quota relativamente bassa di persone che lavorano o che cercano
attivamente un’occupazione – in questo caso calcolata da Eurostat escludendo gli
studenti sotto i 20 anni e i pensionati oltre i 64 – è coerente con l’alta percentuale di
inattivi (35% tra i 15 e i 64 anni pari a quasi 14 milioni di persone) calcolata dall’Istat e
con i 2,5 milioni di giovani neet (che non lavorano, non vanno a scuola e non sono in
formazione). Su una popolazione italiana di 60 milioni di persone, quelle che hanno un
lavoro (retribuito) o che lo cercano avendolo perduto non superano i 25 milioni. Assai
meno della metà degli italiani, dunque, partecipa in maniera significativa al mercato del
lavoro, alla produzione di beni e servizi, allo sviluppo economico. In verità, però, a
queste statistiche sfugge del tutto la rilevazione dell’enorme lavoro non retribuito svolto
da chi si dedica gratuitamente e a tempo pieno alla cura di figli, nipoti, parenti malati e
dei tanti volontari che producono servizi e beni relazionali, in una misura forse maggiore
rispetto a quelle medie degli altri Paesi europei. C’è tuttavia un altro dato che merita una
sottolineatura: la percentuale più alta di attivi fra gli stranieri residenti in Italia, il
74,3%, rispetto alla quota relativa ai nostri concittadini. Tendenza che si conferma
anche considerando le sole persone extracomunitarie giunte nel nostro Paese, che per il
72,6% sono occupate o cercano attivamente di diventarlo. Si tratta di una particolarità
che in Europa condividiamo con altri Paesi dell’area mediterranea come Grecia e Spagna
e con i neo-comunitari dell’Est, mentre nel Nord Europa si registano differenze fino a 20
punti ma a favore degli 'indigeni'. È il segno che da noi l’immigrazione economica ha
svolto soprattutto un ruolo di supplenza e sostituzione dei lavoratori italiani, in calo sia
per motivi demografici sia per il rifiuto di svolgere determinate attività. Con buona pace
di chi ancora racconta la favola nera degli stranieri che rubano il lavoro o che sono qui
solo per sfruttare i benefici del nostro welfare.
Pag 3 Amore o controllo? (Non siamo cannibali) di Alessandro D’Avenia
Cronache durissime ci ricordano un bivio decisivo
Se un uomo strangola e brucia la sua fidanzata, perché lo aveva lasciato, non è pazzo,
ma lucidissimo: il contrario dell’amore è il controllo, che si mostra con la maschera
dell’amore, ma dell’amore non ha l’essenza, cioè il dono di sé perché l’altro abbia vita,
ma il contrario: la distruzione dell’altro perché io abbia vita. Molti giornali e
commentatori di fronte a ripetuti fatti di cronaca continuano a snocciolare la solita litania
delle turbe psichiche. Ma qui in gioco non c’è nessuna distorsione della psiche, se non
come conseguenza di una distorsione più radicale, perché più profonda: una frattura
spirituale. L’unica cosa reale di questa vita è l’amore, reale perché amando diventiamo
reali e facciamo diventare reale ciò che amiamo. Senza amore tutto tende al nulla e alla
distruzione. La creazione c’è perché è l’amore di Dio gratuito che si riversa sulle cose,
Dante dice nei primi tre versi del Paradiso: «La gloria di colui che tutto move / per
l’universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove», questa penetrazione e
illuminazione da dentro di ogni cosa e persona ha gradi, e nelle creature libere dipende
dalla volontà di ricevere questo amore. Chi non lo vuole perde realtà, si annulla e
annulla chi gli sta attorno. All’estremo opposto del Padre che dà la vita ai suoi figli
facendosi cibo per loro, Dante pone all’inferno un padre che mangia la vita dei suoi figli,
trasformandoli in cibo, il conte Ugolino. Il cannibalismo di Ugolino ci fa inorridire, ma è
quanto facciamo tutti i giorni con i nostri atti di asservimento della vita. Chi strangola e
uccide una donna, mi riferisco sia a Sara sia a Karen, sia a tutte le altre donne vittime di
queste azioni apparentemente folli, non è pazzo ma lucido portatore della corruzione
dell’amore: tu esisti per me, come se ti avessi dato io la vita. Tutte le volte che, nella
vita quotidiana, noi controlliamo l’altro o lo carichiamo delle nostre aspettative, un po’ lo
strangoliamo, un po’ lo bruciamo. Tutte le volte che invece ci diamo all’altro, senza
annullarci, ma anzi dandogli proprio quella ricchezza che siamo, c’è più vita, nell’altro e
in me. Attribuire questi fatti a patologie psichiche, in alcuni casi di certo determinanti,
nella maggior parte è l’interpretazione tranquillizzante per noi: è pazzo (categoria
psichica), quando in realtà è solo malvagio (categoria spirituale che si mostra anche con
atti “folli”). Nell’uomo c’è una radice di male che si manifesta come distruzione, togliere
vita alle cose e alle persone per nutrirsene, in un delirio di onnipotenza che si illude di
essere padrone della vita. Baudelaire diceva che l’unico problema che l’uomo deve
affrontare è quello del peccato originale e così demoliva l’ideologia del buon selvaggio di
Rousseau, convinto che una «buona educazione» avrebbe mantenuto o reso di nuovo
buono un uomo corrotto dalla società. Per essere buoni non basta una buona
educazione, ma ci vuole la grazia («Perché mi chiami buono? Uno solo è buono, il Padre
mio» dice Cristo persino di sé al giovane ricco, che si riteneva «buono» perché faceva
cose buone, come tanti «giusti» che non avevano bisogno di conversione). Nell’uomo,
risanato dalla grazia, però si fa strada anche il bene, che consiste nel dono di sé, che
nutre la vita degli altri: perché la vita è fatta per essere servita, non per essere
asservita. Cristo lo ribadisce e lo mostra: in lui regnare è servire. E lo stesso vale per
noi: il Regno si diffonde e trionfa dove noi serviamo gli altri, dopo essere stati riempiti
della vita di Cristo, attraverso i sacramenti. Servire quelli che capitano nello spazio dei
metri quadrati a me adiacenti e nel tempo delle mie ventiquattro ore: familiari, partenti,
amici, colleghi di lavoro... Da insegnante se non servo i miei alunni e le loro vite, faccio
della misericordia una chiacchiera vana. Da scrittore se non servo i miei lettori con una
pagina bella e vera, faccio della misericordia una chiacchiera vana. Ogni lavoro e ogni
occupazione ha la sua misericordia, che è “ampliare” la vita degli altri, dopo essere stato
“ampliato” dalla vita di Dio. Oggi puntiamo tutto sull’allungare la vita, perché vogliamo
essere immortali, e potremmo invece provare ad allargare la vita, servendola e non
soggiogandola, costruendola a nostro piacimento, caricandola di aspettative
narcisistiche. Lo dico spesso alle mie alunne: non accettate mai relazioni basate sul
controllo. Magari all’inizio vi fanno sentire protette e amate, altrimenti non si spiega
perché ve ne lasciate attrarre, ma dell’amore hanno solo la maschera. E questo non vale
solo per le azioni “mostruose”, ma per le azioni quotidiane in cui, dietro una maschera,
si nasconde il potere sottile che vogliamo esercitare sugli altri. E a quelle stesse ragazze
dico: non esercitate la vostra femminilità come controllo, non usate il vostro corpo come
strumento di potere. Una cultura senza Dio precipita nella corruzione spirituale
dell’amore, che è il controllo, proprio perché l’amore è l’unica cosa che ci serve a vivere.
Se non è l’amore che donandosi libera, inevitabilmente precipita nel suo polo opposto,
l’amore che controllando lega. Entrambi i tipi di “legame” vogliono l’infinito, ma mentre il
primo crea cose nuove, il secondo distrugge quelle esistenti. Sta a noi scegliere che tipo
di amore vogliamo.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI Il centro destra si riprende Quarto di Melody Fusaro
Grosso: “Frutto del lavoro di squadra. Abbiamo saputo ascoltare gli elettori”
Appena tre ore di sonno, centinaia di chiamate senza risposta e di messaggi di auguri in
attesa su WhatsApp. È questo il primo giorno da sindaco di Claudio Grosso, tirato per la
giacca a destra e a manca alle prese con le "incombenze" post elezioni. «Praticamente
non dormo da due notti - dice, andando verso la proclamazione, alle scuole medie -. È
tutto nuovo per me, avevo sempre seguito le vicende del mio paese e le elezioni, ma
non so nulla di ciò che accade dopo essere stato eletto, dell'insediamento e della scelta
della squadra. Però è un'esperienza affascinante». E ringrazia chi lo sta aiutando:
«Questo risultato è frutto del lavoro fatto in questi anni e del feeling creato nella
squadra - aggiunge -. Ringrazio tutti i miei consiglieri e chi fa parte del gruppo. La
vittoria è stata importante, di oltre 900 voti, quasi un plebiscito, e credo che questo
risultato sia frutto del lavoro di gruppo, della proposta elettorale ma anche del metodo.
Ho voluto mantenere un atteggiamento costruttivo e mai denigratorio nei confronti degli
avversari. Quella di tenere i toni bassi è una mia scelta che porterò avanti anche da
sindaco. Voglio cambiare metodo». E poi aggiunge, riferendosi ai suoi avversari del
centrosinistra: «Loro hanno sentito ma non hanno ascoltato la gente. Ed è ciò che
vogliamo fare noi, metterci tra i cittadini, ascoltare i loro disagi e i punti di vista. Avremo
un approccio diverso con le minoranze ma anche con la cittadinanza». La lista di Grosso
avrà un forte peso in consiglio con otto consiglieri su 12. Il "re delle preferenze", con
399 voti, è il consigliere uscente Alessandro Cesarato che rientra in Consiglio (e, si
vocifera, potrebbe essere pronto anche per un assessorato). Molti i "volti noti" che
entreranno: oltre a Cristina Baldoni (che diventerà vicesindaca), anche Celestino Mazzon
e Mauro Marcassa. Il centrosinistra avrà tre consiglieri: oltre a Giomo ci saranno
l'assessore uscente Radames Favaro e il giovane Matteo Golfetto. Per il Movimento
Cinque Stelle, come spesso accade, molti voti "al simbolo" e poche preferenze personali:
nel parlamentino entrerà solo il candidato sindaco Ezio Petruzzi. La vicesindaca uscente
chiede che non venga cancellato ciò che è stato fatto in questi cinque anni: «I cittadini
hanno fatto una scelta chiara. Vogliono un'amministrazione di centrodestra. Era sempre
stato così solo che prima erano divisi e quest'anno hanno trovato la persona per
coalizzarsi e la scelta vincente - ammette -. Noi ci auguriamo che sappiano governare
con responsabilità, senza cancellare quello che è stato fatto, per non tornare indietro di
5 anni. Spero che Grosso sappia essere un sindaco di tutti e non una marionetta dei
partiti che l'hanno portato alla vittoria. Noi - conclude - come minoranza lavoreremo
dando spazio a quei giovani che hanno dato risultati buoni in termini di preferenze, nella
prospettiva dei prossimi cinque anni. Arriveremo con un gruppo rinnovato e pronto».
Pag XIII Eraclea, nuovo ribaltone. Mestre vince per 81 voti di Maurizio Marcon
Anche con Talon si conferma la “maledizione” per i sindaci che si ricandidano
Nuovo cambio di Amministrazione in riva al Piave. Anche questa volta il sindaco uscente
non riesce a riconfermarsi. Cinque anni fa toccò a Graziano Teso passare la mano a
Giorgio Talon, sostenuto da una lista civica trasversale in cui erano alleati elementi del
Pd e "i300" di centrodestra; quest'anno è toccato a Talon, sostenuto da una lista
omogenea di centrosinistra, cedere il passo per soli 81 voti alla compagine di Mirco
Mestre, che, detratta la Lega Nord passata a sostenere assieme a "i300" la candidatura
di Gianni Cerchier, ricalca più o meno quella che fu di Teso. Molti i nomi forti di allora,
tutti rieletti, da Angelo e Roberto Cattelan a Giuseppe Nello Ferretto, che con Teso erano
assessori, a cercare una rivincita attesa da 5 anni. «La campagna elettorale è stato un
vero e proprio "scontro fisico" - commenta il neoeletto primo cittadino -. Una vera
battaglia e devo ringraziare la squadra che mi ha sostenuto se alla fine siamo riusciti a
prevalere. Sono alla mia prima esperienza politica ed è perciò stato fondamentale
avvalermi di persone capaci ed esperte. Anche in futuro tutto sarà concordato facendo
riferimento alla squadra: domani sera come gruppo ci troveremo per decidere assieme
compiti e ruoli». Quali le urgenze a cui metter mano? «Intanto sarà nostra cura portare
a compimento le opere appaltate dall'Amministrazione uscente, secondo le scadenze
previste dal Patto di stabilità - spiega Mestre -. Su altre iniziative non ancora appaltate,
vedremo se saranno meritevoli di essere portate avanti. Come urgenze, poi, i cittadini ci
hanno chiesto di mettere mano alla viabilità, alla sicurezza e al rischio idraulico». C'è poi
la spinosa questione del disagio dei dipendenti comunali e le relative cause di lavoro che
si dice abbiano influito sulla sconfitta di Talon. «La prima cosa da fare - sostiene il
neosindaco - è riportare serenità nell'ambiente comunale. Riguardo alle cause di lavoro
in corso, da avvocato dico che prima bisogna vedere le carte. Mi dicono che il Comune
ha già dato incarichi legali per costituirsi e quindi bisognerà verificare se sarà possibile
trovare soluzioni alternative». Deluso dalla sconfitta è Giorgio Talon. «Sapevo che tutto
si sarebbe giocato sul filo di lana - commenta -. Purtroppo la lista Cerchier ha preso
meno voti del previsto a Ponte Crepaldo, e questo alla fine ha pesato sul computo degli
81 voti di differenza. Speravo che il voto di Stretti (Talon che risiede nella frazione ha
distanziato nei due seggi di 330 voti la lista di Mestre, ndr.) compensasse i minori voti
previsti a Ponte Crepaldo, ma non è stato sufficiente. Mi auguro che il nuovo sindaco non
sia solo "di facciata" e che possa portare a termine le opere lasciate in eredità dalla mia
amministrazione. Io mi sono congratulato offrendomi di fare il passaggio di consegne».
Pag XIV “Riprendiamo a lavorare per Caorle” di Riccardo Coppo
Striuli riconquista il municipio dopo crisi e commissariamento
Luciano Striuli torna ad indossare la fascia tricolore. Le amministrative 2016 saranno
ricordate per il suo trionfo che lo fa tornare ad essere sindaco superando due crisi di
giunta, il commissariamento della sua amministrazione ed una campagna elettorale dai
toni a dir poco velenosi, conclusasi con una giornata di tensione ai seggi. Il dato finale
parla chiaro: Striuli ha vinto con il 41,37% dei voti (2.747), superando di ben 577 voti la
seconda lista, quella di Carlo Miollo, che si è fermata al 32,68% (2.170). Molto distante
la terza civica guidata da Alessandro Borin, che ha sfiorato il 20% dei consensi (19,29%
con 1.281 voti). Ultima Sonia Xausa del Movimento 5 Stelle con il 6,66% che ha
totalizzato praticamente lo stesso numero di voti che i grillini avevano ottenuto alle
elezioni del 2012. «Sono molto contento - ha dichiarato Striuli nella notte tra domenica e
lunedì, quando ormai i dati parziali davano già per certa la sua vittoria -. Ringrazio tutti i
cittadini e tutta la mia squadra che ha lavorato con grande impegno per questo risultato.
Siamo pronti per lavorare per Caorle: il nostro primo impegno consisterà nel
potenziamento della videosorveglianza e nella sburocratizzazione dell'attività
amministrativa». Per quanto riguarda la futura giunta, il neosindaco ha dichiarato di non
aver ancora scelto i nomi ma che deciderà sulla base di tre criteri: il consenso ricevuto
alle urne, la competenza nei settori e la disponibilità a garantire impegno costante.
«Faremo un'opposizione seria ed attenta - ha commentato Miollo - cercheremo di far
capire ai caorlotti che il nostro era un progetto innovativo e diverso rispetto a quello
delle altre liste». Analizzando i voti raccolti tra capoluogo e frazioni, Striuli ha vinto in
tutti i seggi di Caorle, a Sansonessa, a Porto Santa Margherita e ad Ottava Presa,
mentre Miollo ha tenuto solo a San Giorgio di Livenza e Castello di Brussa. Un altro dato
emerso è il ridottissimo peso che i partiti tradizionali hanno avuto in queste
amministrative, non essendo più capaci di smuovere l'elettorato. È stata l'attività, più o
meno intensa, dei singoli candidati consiglieri, indipendentemente dal colore politico, a
determinare il numero delle preferenze raccolte. Regina delle preferenze è comunque
Rosanna Conte (Lega Nord) della lista Miollo, con 344 voti. Alessandro Borin ha intanto
fatto sapere che rinuncerà al suo posto in Consiglio comunale per garantire la possibilità
ad altri componenti della sua lista di emergere e si è detto dispiaciuto perché i caorlotti
non hanno colto l'occasione per voltare pagina. Durissimi, infine, i grillini: in un post
apparso sulla pagina Facebook "Caorle 5 stelle" si è parlato di «scene alla Corleone.
Caorle si è rincasellata negli interessi speculativi. Auguriamo a tutti di uscire dall'apnea
prima che Caorle venga definitivamente ed inesorabilmente mangiata».
Pag XXIV Un Ramadan per 20mila: “Ora, moschea a Venezia” di Filomena Spolaor
Il presidente della comunità islamica: “Le altre religioni hanno un luogo di culto, noi no”
Sono circa 20mila i musulmani nel Comune di Venezia che da ieri sono entrati nel mese
del Ramadan. E a loro è giunto l'augurio del patriarca. «Ogni tempo di intensa preghiera
e di autentica ascesi - scrive Moraglia - è, oggi più che mai, rilevante per la promozione
dell'uomo nella sua integralità. Siamo immersi in una società che fatica sempre più a
comprendere e ad assumere quei valori che superano la dimensione economica,
edonistica e materiale della vita. In tale contesto, ogni percorso di preghiera e ascesi
costituisce un importante motivo di costruttiva e comune riflessione». Il patriarca rivolge
l'augurio di vivere questo periodo nella serenità e nella pace anche ai 120mila fedeli
musulmani del Veneto. Il centro culturale islamico dietro al Panorama, in via Monzani a
Marghera, ha una capienza di quasi 1000 fedeli, 30 etnie diverse tra stranieri, immigrati,
ma anche italiani. I musulmani di origine turca pregheranno nella loro sede, i bengalesi
(la comunità più numerosa a Mestre) nei centri culturali di Corso del Popolo, via
Fogazzaro, e alla Cita, sempre a Marghera. Luoghi di culto sono presenti anche a Spinea,
Mogliano, ma c'è anche chi pregherà a casa, rivolto alla Mecca. «Manca una moschea a
Venezia - rilancia Mohamed Amin Al Ahdab - presidente della Comunità Islamica di
Venezia e provincia. Tutte le grandi religioni hanno un luogo di culto in centro storico,
tranne noi musulmani. È un'esigenza della città, perché molti dei turisti che vengono in
viaggio chiedono se c'è un luogo di preghiera. Il centro culturale di Marghera, è lontano,
difficile da raggiungere con i mezzi pubblici diretti». I musulmani che vivono nel
territorio stimano molto Papa Francesco, «una guida moderna e aperta alla chiesa
contemporanea» dicono, condividendo in modo particolare il messaggio di Misericordia
nell'anno del Giubileo. «Il nostro pensiero va ai profughi, che scappano dalla morte per
incontrare la morte, e ai rifugiati. Dobbiamo aiutarli ad avere la canna da pesca, non il
pesce» dice Mohamed Amin. Lo scorso Natale, dopo gli attentati terroristici di Parigi e
Bruxelles, i fedeli musulmani hanno comprato uno spazio su diversi giornali veneti per
fare gli auguri alla comunità cristiana. «Il mio motto è più cultura e meno paura»
conclude Mohamed Amin.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 9 Caorle, il ritorno di Striuli: “Parlo alla gente, ora più sicurezza” di M.Z.
Caorle. Ad aprile 2015 la maggioranza del Consiglio mise fine al proprio mandato,
dimettendosi. I motivi: «Mancanza di dialogo», «decisioni senza alcuna condivisione»,
riguardo a opere immobiliari di grande impatto, a partire dal progetto terme. A distanza
di un anno l’ex sindaco Luciano Striuli si riprende ciò che gli era stato tolto e riconquista
la fiducia dei caorlotti con un consenso che non ha mezze misure: 41,3% di preferenze,
ossia una forchetta di 577 voti rispetto a Carlo Miollo, sostenuto da una civica che
include Lega Nord, FI e moderati del Pd, fermatosi al 32,6 per cento. A seguire
l’avvocato Alessandro Borin (lista civica con i Verdi) che ha raggiunto il 19,3 per cento.
In coda la pentastellata Sonia Xausa al 6,6 per cento. Le tensioni dell’ultimo anno non
hanno contribuito ad alimentare la fiducia degli elettori. «La gente è stanca dei partiti e
ha scelto chi lavorerà solo nell’interesse del paese e non per i poteri forti – esulta Striuli
-. La nostra squadra ha parlato alla gente con programmi costruttivi e persone nuove:
un diciottenne entrerà in Consiglio mentre una venticinquenne è stata la più votata di
lista. Già da oggi siamo in grado di governare. La giunta si baserà sul consenso
elettorale, sulla competenza e la disponibilità di tempo». Lungo l’elenco delle priorità:
dall’attivazione del controllo di vicinato alla videosorveglianza, dal ripristino della
viabilità alla vendita diretta del pesce a porto peschereccio. Tra gli avversari l’amarezza:
«Avremo cinque anni di sultanato – taglia corto Carlo Miollo - . Evidentemente non
siamo riusciti a far capire all’elettorato l’innovazione del nostro progetto
amministrativo». Borin annuncia che rinuncerà all’incarico di consigliere comunale: «Gli
elettori hanno scelto chi non rappresenta il cambiamento». Undici consiglieri alla Lista
Striuli: Arianna Boso, Alessandra Zusso, Giuseppe Boatto, Giovanni Comisso, Rozzo
Marchesan, Riccardo Barbaro, Lorenza Vanzan, Bortolussi Filippo, Evaristo Tamassia,
Giacomo Capiotto, Andrea Lo Massaro. All’opposizione tre consiglieri di «Carlo Miollo
sindaco»: Miollo, Rosanna Conte, Matteo Dorigo; due della «Lista Civica Borin»:
Alessandro Borin (che non entrerà, al suo posto Vittorio Emanuele Dalla Bella) e Marco
Favaro.
Pag 9 Eraclea, vince il deb Mestre: “Viabilità da rifare. Teso studia da vice di
Mauro Zanutto
Eraclea. Con una manciata di voti, 81 per l’esattezza, Eraclea cambia versante politico e
passa da un’amministrazione di centrosinistra a una di centro con la regia dall’ex sindaco
Graziano Teso. Un ribaltone dunque, che vede l’uscente Giorgio Talon, gradito al 36%
degli elettori, costretto a cedere la fascia tricolore al giovane avvocato Mirco Mestre, 41
anni, padre di due figli, alla prima esperienza politica, che ha ottenuto il 37,3% delle
preferenze. Nettamente distaccato l’unico candidato a esporre i simboli di partito sulla
propria lista (FI, Lega, Trecento) Gianni Cerchier, fermatosi al 26% dei consensi. E’ un
testa a testa tra Talon e Mestre sino all’una, quando Talon, oramai certo che il distacco
era insormontabile, si è congratulato con Mestre per la vittoria. Il giovane avvocato,
rampollo di una storica famiglia di Eraclea, ha costruito la propria vittoria conquistando
gli elettori del capoluogo comunale e della frazione Ponte Crepaldo, oltre che Brian,
cedendo il passo solo a Stretti e Ca’ Turcata. «E’ la mia prima esperienza politica,
un’emozione immensa – commenta a caldo Mestre -. Credo che a fare la differenza sia
stato il grande lavoro di squadra con un Graziano Teso in splendida forma». Sulle
priorità Mestre non ha dubbi: viabilità e messa in sicurezza idraulica. «Abbiamo dato una
spallata ai partiti», dice il mentore, Teso. Probabilmente sarà proprio lui il vicesindaco.
Sul fronte opposto la delusione: «Sono dispiaciuto - commenta Talon – probabilmente
l’elettorato non ha capito che serviva il secondo mandato per rilanciare questo comune.
Lascio tuttavia un bilancio risanato e una decina di cantieri pronti a partire. La vicenda
profughi? Non ha pesato, nei seggi del centro di accoglienza siamo stati pari, uno
ciascuno». Amareggiato Cerchier: «Gli elettori hanno creduto alle promesse». Questa la
composizione del nuovo consiglio comunale. In maggioranza Graziano Teso, Doretto
Valentina, Angelo Cattelan, Patrizia Furlan, Michela Vettore, Roberto Cattelan, Nello
Ferretto, Giovanna Ongaro, Luca Zerbini, Mario Varagnolo, Maria Gloria Ostan.
All’opposizione tre consiglieri alla civica Talon: Giorgio Talon, Italo Trevisiol, Danilo
Biondi. Due consiglieri a Cerchier: Gianni Cerchier, Ilaria Borghilli.
Pag 9 Quarto d’Altino, inizia l’era Grosso: “Nuove telecamere, operazione
decoro” di Alice D’Este
Quarto d’Altino. Prima la sorpresa per la mancata ri-candidatura della sindaca uscente,
Silvia Conte, poi la lunga attesa per capire chi, dell’ala di centrosinistra, avrebbe provato
a prendere la sua eredità (con una lunga incognita in testa a testa tra Raffaella Giomo e
Radames Favaro) e infine il ribaltone: Quarto d’Altino domenica è passato al
centrodestra con Claudio Grosso che ha raggiunto il 54,68% di preferenze con 2.124
voti: quasi il doppio rispetto a Raffaela Giomo, ex vicesindaco che ha ottenuto solo il
31,92% delle preferenze, con 1.240 voti. Staccato il candidato del M5S, Ezio Petruzzi
(13,38%) con 520 voti. «Siamo andati ben oltre le aspettative – dice Grosso – il
mandato degli elettori è chiaro, questo voto dimostra il desiderio di voler girare pagina,
di fare qualcosa di diverso». Claudio Grosso con la civica «Il Comune di tutti» in alleanza
con la Lega nord e appoggiato anche da Forza Italia e Fratelli d’Italia ha già deciso chi
sarà il vicesindaco: Crisitina Baldoni, già consigliere comunale uscente in lista con la
Lega. In consiglio comunale, invece, entreranno 8 consiglieri della sua lista (Alessandro
Cesarato, Cristina Baldoni, Celestino Mazzon, Filippo Borga, Antonio Piazza, Cristina
Gasparini, Mauro Marcassa, Vittorina Bonesso) e 4 consiglieri di opposizione di cui 3
della lista di Raffaella Giomo (oltre a lei Matteo Golfetto e Radames Favaro) e il
candidato sindaco pentastellato Ezio Petruzzi. Per Grosso la parola d’ordine è «decoro».
Tanto che vorrebbe anche intensificare la sicurezza, chiedendo risorse per investire su
nuove telecamere di sorveglianza.
LA NUOVA
Pag 17 Mestre all’ultimo voto, Eraclea cambia di Giovanni Cagnassi
Talon: “Lascio un bilancio a posto”
Eraclea. Ad Eraclea si cambia davvero. Mirco Mestre è il nuovo sindaco che si impone
grazie a un millimetrico gioco di preferenze e un lavoro capillare sul territorio. Soffia un
forte vento di cambiamento nella cittadina che vede uscire di scena il sindaco Giorgio
Talon, sconfitto di misura per 81 voti, costretto ad abbandonare il proposito di un
secondo mandato, sfumato al fotofinish dopo una campagna elettorale estenuante,
proprio all'ultimo voto. Lascia il posto più ambito all'avvocato rampante, 41enne,
sposato, due figli, rampollo di una conosciuta famiglia di Eraclea che così conquista un
sindaco del capoluogo, dopo i primi cittadini espressi negli ultimi due lustri da Ponte
Crepaldo e Stretti. Sindaco Mestre, ma è Graziano Teso, ex sindaco sconfitto all'ultima
tornata proprio dalla grande coalizione di Talon che, pur facendo un passo indietro
all'ultimo minuto lasciando tutti con il fiato sospeso, ha spinto la lista EracleaSìCambia.
In piazza Garibaldi, verso la mezzanotte di domenica, è arrivato per primo e con grande
entusiasmo Jean Pierre Pasqual, titolare del ristorante pizzeria Marinara a Eraclea Mare,
grande sostenitore di Teso e Mestre. Da diverse ore nella sede della Civica di Talon, i
supporter stavano analizzando il voto. Chiusa invece la sede di Gianni Cerchier in via
Roma. Poco dopo, l'avvocato Mestre è giunto pimpante e ancora incerto. Ma dopo un
paio di sezioni, e in particolare i risultati trapelati da Ponte Crepaldo, il sorpasso era già
ormai consolidato. «Non ce lo aspettavamo», dice Mestre appena incoronato in piazza
dalla folla di amici verso le 2 di notte, «è stata un’avventura entusiasmante. Ma ha vinto
la squadra. Certo con un Graziano Teso che è stato un riferimento importante per tutti
noi». Piano piano sono arrivati tutti, quelli del calcio, artigiani, operai, tanti ragazzi. È la
squadra della coppia Mestre-Teso che si sta affermando nella Eraclea post elezioni. Il
sindaco Talon ha attraversato la strada per congratularsi signorilmente con Mestre, in un
applauso collettivo che ha voluto rendere l'onore delle armi allo sconfitto. Tante le cose
da fare per lasciare subito il segno. «Penso per prima cosa a un riordino della viabilità»,
dice lucidamente il nuovo sindaco, «sia nel capoluogo sia nelle frazioni. Poi c’è la
questione sempre aperta dell’emergenza idraulica in alcune zone del territorio». Si
afferma soprattutto, e non è un mistero, la linea di Graziano, con tutti i suoi
luogotenenti pronti sull'attenti. A Eraclea si pensa già allo sviluppo edilizio, l’economia a
“briglie sciolte”, magari a Valle Ossi che rimane un punto interrogativo per gli
investimenti annunciati e mai arrivati per la nuova darsena. Chi sintetizza i pilastri del
programma è Patrizia Furlan che torna di gran carriera in Consiglio e in odore di
assessorato: «Vogliamo il recupero dell'ex discoteca Perla in piazza perché diventi un
ufficio postale, poi la piscina comunale nella zona sportiva e la sistemazione dell’ex
scuola elementare». Obiettivi precisi che la giunta Mestre cercherà di realizzare nel più
breve tempo possibile, magari partendo dalla piazza centrale che sarà rivoluzionata con
una nuova viabilità. Un segno evidente della nuova èra che si è imposta alle
amministrative di Eraclea dopo cinque anni di centrosinistra nato come coalizione per
sconfiggere Graziano Teso. Ed è sua questa attesa rivincita, calibrata passo dopo passo.
Eraclea. Analizzando il voto, Mestre vince soprattutto nel capoluogo di Eraclea, poi a
Ponte Crepaldo, Brian. Talon si impone nella “sua” Stretti. Cerchier annaspa in tutti i
seggi. «Mi dispiace che i cittadini di Eraclea non mi abbiano dato la possibilità di
affrontare il secondo mandato», sono state le parole di Talon dopo la certezza della
sconfitta, «la nostra squadra era giovane e piena di entusiasmo. Lasciamo un bilancio a
posto, molte opere pubbliche in cantiere che saranno inaugurate da altri. Abbiamo dato
il massimo, non sono riuscito a mettere mano alla macchina amministrativa come avrei
voluto e alla fine questo è stato il risultato». Il 2 Giugno, festa della Repubblica, non
compariva neppure la bandiera tricolore in piazza a Eraclea. Un particolare non da poco
che la giunta ha rilevato. In Consiglio ritorna Italo Trevisiol assieme naturalmente a
Talon, poi la rivelazione Danilo Biondi. Gianni Cerchier non ha decisamente sfondato con
la sua lista: «I cittadini hanno preferito le promesse elettorali a un programma serio e
coerente con le possibilità reali del bilancio», spiega amareggiato. «Hanno preferito
ascoltare chi prometteva e basta. Noi non abbiamo nulla di cui rammaricarci, abbiamo
lavorato con la nostra squadra attorno a una proposta elettorale seria». Cerchier sarà
seduto in Consiglio a fare opposizione e con lui Ilaria Borghilli che supera l'ex assessore
Giuliano Battistel in quanto a preferenze. Proprio il divorzio di Battistel dalla
maggioranza uscente aveva dato un primo segnale inquietante a Talon, oltretutto a
poche settimane dalla data delle elezioni. I loghi dei partiti, Lega, FI, non hanno
funzionato a Eraclea dove altre sono state le variabili elettorali determinanti. Giuseppe
Franzoi, regista dell'operazione che ha condotto alla candidatura di Mirco Mestre, aveva
puntato molto sul concetto dei veri moderati, anche se non entrerà in Consiglio perché
ha preferito lavorare per altri. Volti nuovi e vecchi, tante donne che potrebbero entrare
in giunta. Per la maggioranza, Graziano Teso raggiunge i 424 voti e sarà con tutta
probabilità il vicesindaco con le deleghe più importanti, magari urbanistica o lavori
pubblici. Poi Valentina Doretto, una delle sorprese, papabile assessore all'istruzione o
servizi sociali, Angelo Cattelan, che si mormora possa avere le deleghe dello sport che a
Eraclea sono strategiche, soprattutto dopo le tensioni nel mondo del calcio. Patrizia
Furlan torna in Consiglio, anche lei assessore in pectore per la cultura, dopo che si era
candidata a sindaco nel 2006, ritirata nel 2011 dopo il mandato in Consiglio. Segue
Michela Vettore, altra possibile assessore, magari al turismo. Entrano di gran carriera nel
nuovo consiglio comunale di Eraclea Roberto Cattelan, Giuseppe Nello Ferretto, Luca
Zerbini, Giovanna Ongaro, Mario Varagnolo e Gloria Maria Ostan.
Pag 19 Caorle, il grande riscatto di Striuli di Gemma Canzoneri
Dopo il commissariamento da sindaco, l’avvocato si ripresenta e vince a mani basse.
Flop dei grillini, la Xausa attacca
Caorle. Striuli vince a mani basse: a Caorle la sua seconda èra politica è cominciata ieri.
Se fino all’ultimo minuto la situazione poteva apparire poco chiara, già con lo spoglio del
primo seggio, su 13, la vittoria di Striuli era ormai una certezza. C’è stato solo un
momento di incertezza nella gara con il suo principale avversario, l’architetto Carlo
Miollo, leggi l’ufficializzazione dei voti riscontrati dal terzo seggio, ma poi la strada per lui
è stata in discesa. A votare per la sua squadra è stato il 41,37 per cento degli aventi
diritto, che si traduce in 2.747 preferenze. Nel 2012 aveva vinto con meno del 30 per
cento e 1.964 voti, ma allora le liste in gara erano sette. La storia, dunque, si ripete ma
ora è tutta da riscrivere, o almeno questi sembrano essere i propositi del “nuovo” e
“vecchio” sindaco, l’avvocato Luciano Striuli, che a 46 anni ha già avuto modo di
amministrare la città alla guida di due diverse maggioranze, cadendo nell’aprile del 2015
dopo la sfiducia ottenuta dal consiglio comunale. Striuli riconferma nella sua squadra la
presenza di chi, nel 2013, gli garantì di proseguire con la sua amministrazione politica,
cioè Giovanni Clemente Comisso, Alessandra Zusso e Rocco Marchesan ma ci ha visto
giusto arruolando i giovani. Infatti tra i più votati spicca in cima alla lista il nome della
venticinquenne Arianna Buoso, la neo laureata in giurisprudenza che ha ottenuto la
bellezza di 332 preferenze. In questi mesi di campagna elettorale il neo sindaco è stato
preso letteralmente di mira dagli altri candidati soprattutto con riferimento al progetto
terme e alla sua presunta implicazione con organizzazioni di stampo mafioso che, prima
della caduta della sua giunta, avevano portato all’estromissione del Comune di Caorle
dall’Associazione per il controllo antimafia Avviso Pubblico. I cittadini di Caorle, però,
domenica hanno creduto in lui e non alle “malelingue”, hanno creduto nella sua nuova
squadra arruolata tra le associazioni, il volontariato, i liberi professionisti e i
commercianti, e hanno deciso di dargli la possibilità di portare avanti il suo programma
politico, «ingiustamente interrotto da giochetti di potere», come lui stesso li ha sempre
definiti. Gli scrutini a Caorle sono andati per le lunghe proclamando il vincitore quando
da poco erano passate le 3.30 del mattino di ieri, ma la vittoria di Striuli, nonostante il
30 per cento degli astenuti, era ormai palese al punto che la sua squadra ha cominciato
quasi subito i festeggiamenti, durati fino alle prime luci dell’alba. Ora i pareri si dividono
sul significato di svolta politica: è lui la vera novità o poteva esserlo il secondo
classificato, Carlo Miollo, distaccato di 9 punti percentuali? Striuli, si sa, è stato il sindaco
ereditario della politica di Marco Sarto e prima di lui di Luigino Moro, questo almeno fino
a che quella compagine della sua prima maggioranza non decise di andare
all’opposizione. Oggi, invece, il suo nuovo gruppo vede solamente tre volti noti della
politica e tutti lontani dalla storica unione che per anni ha amministrato Caorle e che, in
questa tornata elettorale, aveva invece puntato su Miollo. Quella vissuta domenica dalla
città è stata sicuramente una giornata non priva di tensioni, momenti caldi e scontri tra
seguaci e candidati. Le polemiche non mancano ma il risultato non cambia: Caorle ha
scelto di dare una seconda possibilità a Luciano Striuli. «Ringrazio tutti i cittadini per
avermi scelto come sindaco di Caorle» è stato l’unico commento del primo cittadino
espresso attraverso i social. «Da oggi si ricomincia a lavorare per il paese e per la nostra
gente».
Caorle. A parte il numero di liste presentatisi per questa tornata elettorale, a Caorle le
cose si sono ripetute tali e quali al 2012: Luciano Striuli sul podio, la civica appoggiata
da Forza Italia, Pd e Lega, oggi capeggiata da Carlo Miollo, al secondo posto, medaglia di
bronzo per Alessandro Borin e ancora nulla di fatto per il 5 Stelle di Sonia Xausa. In
pratica si ricomincia da quel 5 aprile 2015, con grande soddisfazione per Striuli, che
riscatta la caduta prematura della sua giunta, e rammarico soprattutto per Alessandro
Borin, entrato in minoranza con due consiglieri, e la grillina Sonia Xausa che neanche
stavolta è riuscita a mettere le mani nell’amministrazione comunale. Non ce l’ha fatta a
raggiungere la vetta per 577 voti l’architetto Carlo Miollo ma, in qualche modo, la Lega
sì che all’interno del consiglio è riuscita finalmente a piazzare un suo rappresentante,
Rosanna Conte, che siederà in minoranza a fianco di Miollo e Tamara De Lazzari.
«Ringrazio tutti gli elettori e le elettrici che ci hanno votato, ma la realtà è che i caorlotti
non ci hanno scelto per amministrare il Comune e prendo atto che non hanno scelto il
cambiamento» è stato il commento di Alessandro Borin che ha già ufficializzato la sua
volontà di lasciare il posto in consiglio ad un alto membro della sua squadra, che
affiancherà Marco Favaro. «Ritengo più giusto che nuove persone possano crescere e
maturare l’esperienza necessaria ad offrire in futuro un’alternativa ai cittadini», ha
spiegato. Non ottiene i numeri per fare il consigliere Sonia Xausa, che tanto aveva
sperato di entrare finalmente nell’amministrazione comunale, ma allo stesso tempo non
ha nemmeno peli sulla lingua per definire la situazione vissuta durante l’election day e
che ora, secondo il M5S, si prospetta per Caorle: «Il gruppo è deluso del risultato
ottenuto e sconvolto per le scene cui ha assistito fuori dai seggi, in quel di “Casal di
Caorle”» ha dichiarato, tra i doppi sensi, la grillina. «Avremmo davvero voluto entrare in
consiglio per vigilare e informare ma i mezzi messi in campo dalla concorrenza sono stati
più efficaci. Auguriamo a Caorle di uscire dall'apnea prima che le speculazioni devastino
il territorio inesorabilmente e ai cittadini di smettere di “chiedere" e di riscoprire la
dignità civica perduta».
Pag 22 Nuova rotta per Quarto. Grosso: “Un plebiscito” di Marta Artico
Vicesindaco sarà Cristina Baldoni. Giomo: “Peccato lasciare ora”
Quarto d’Altino. Che il centrodestra unito avesse buone chance di ribaltare le carte in
tavola e strappare il Comune all'amministrazione uscente era una possibilità per nulla
remota, bastava fare due conti e qualche raffronto con il 2011, quando i candidati erano
7. Ma che addirittura staccasse fin quasi a doppiare i voti della lista a sostegno della
candidata Raffaela Giomo, non era scontato. Claudio Grosso, 45 anni, architetto libero
professionista che si affaccia sulla soglia della politica per la prima volta, è il nuovo
sindaco di Quarto d'Altino. Ha vinto con 2124 voti, il 54,68% del totale, con la sua lista
espressione civica, della Lega, primo partito ad appoggiarla, e delle forze di centrodestra
che nella tornata precedente si erano sparpagliate in mille rivoli. La lista avversaria,
continuazione del progetto del sindaco uscente Silvia Conte in cui si riconosceva il
centrosinistra, si è fermata al 31,92% raccogliendo 1.240 voti. Il Movimento Cinque
Stelle con Ezio Petruzzi non ha superato il 13,38 per cento (520 voti). Grosso è al
settimo cielo. «Contento? È stato un plebiscito, quando mai si è visto un risultato del
genere in questi ultimi anni, la comunità voleva cambiare». I numeri gli danno ragione.
«Non so se il programma degli avversari fosse meglio o peggio, quello che posso dire è
che ho un'idea su come affrontare il futuro e la voglio portare avanti. Il risultato
ottenuto sta a significare che abbiamo scelto le persone giuste, i partiti che ci hanno
appoggiato, che abbiamo trovato la quadra. È stata un'impresa, ancora adesso non me
ne rendo conto, ma è un risultato sbalorditivo, nessuno ci avrebbe mai pensato». Dove
hanno sbagliato gli altri? «Non trovo difetti, penso però che l'amministrazione uscente
abbia “sentito” ma non “ascoltato” davvero la gente, non abbiano elaborato la richiesta, i
cittadini hanno capito che noi invece li ascoltiamo sul serio. Abbiamo parlato terra terra,
abbiamo fatto capire che siamo tali e quali a loro, che vogliamo le stesse cose». E
ancora: «Noi siamo stati uniti fin dall'inizio, il centrosinistra forse più per necessità, ma è
solo un'opinione. La gente ha capito che siamo una squadra compatta e ci ha dato
ascolto e fiducia, si è sentita sicura». E adesso? «Il buono non lo butteremo certo via,
anzi. Lo ribadisco, continueremo il lavoro positivo che c'è stato, anche perché sono state
profuse forze e spesi soldi, per il resto confronterò le mie scelte con la cittadinanza e le
motiverò volta per volta». Le prime due promesse? «Sposterò al piano terra gli uffici del
sindaco e mi occuperò delle manutenzioni delle scuole e degli sfalci». Per la giunta è
ancora presto, ma un nome c'è già, quello del vicesindaco, che sarà Cristina Baldoni.
«Sarò sindaco a tempo pieno ma non lascerò il mio lavoro né l'attività di famiglia, farò
entrambe le cose». Conclude: «Questo è il momento dei ringraziamenti, a tutti quelli, in
lista e non, che mi hanno dato una mano e senza i quali non ce l'avrei mai fatta». Dopo
Grosso, il più votato della lista è Alessandro Cesarato, consigliere uscente, che ha
raccolto ben 399 voti. Regina dei voti delle donne, invece, con 333 preferenze, Cristina
Baldoni: «Dopo vent'anni di impegno per il territorio le persone di Quarto e delle frazioni
hanno riconfermato e anzi hanno irrobustito i miei numeri perché hanno capito il mio
impegno».
Quarto d’Altino. «Adesso dobbiamo lavorare e rimboccarci le maniche per dare risposte a
chi ci ha sostenuto». Raffaela Giomo, la candidata erede di Silvia Conte, elabora con
lucidità i dati della sconfitta. «La premessa», ci tiene a sottolineare, «è che i nostri
giovanissimi hanno ottenuto dei buoni risultati, penso a Laura Pirro, a Claudia Ronchin, a
Matteo Golfetto, molti di loro sono nuove leve alla prima esperienza, adesso dobbiamo
lavorare per far sì che le promesse vengano mantenute e da minoranze impegnarci per
far crescere nuovi giovani che possano cambiare nuovamente le cose». Poi entra nel
merito della sconfitta: «La coalizione di destra ha vinto, non ci sono state spaccature tra
le liste che gli anni scorsi avevano corso separate, i cittadini hanno votato le persone e
forse meno i contenuti. Il simbolo della Lega ha rappresentato un grosso attrattivo e
Claudio Grosso è riuscito a riunire tutti. L'interpretazione è sempre difficile da dare, ma
c'è stata una scelta netta della cittadinanza, che vuole il centrodestra». Prosegue: «Mi
auguro che non si torni indietro a cinque anni fa ma che ci sia la capacità di guardare
avanti e di fare scelte lungimiranti. La democrazia è questa, i voti ci sono e il
centrodestra adesso deve dimostrare di dare contenuto e sostanza ai numeri. Il lavoro di
squadra non è mai facile, mi auguro che trovino condivisione nelle scelte». Aggiunge:
«Da Grosso mi aspetto che non sia una marionetta in mano ai partiti e non butti via le
cose buone che sono state fatte, specialmente sul metodo da noi usato, che metteva
sempre davanti la trasparenza. Noi faremo tutto il possibile per incidere». Ieri
pomeriggio il cambio della guardia in sala Piaser, il sindaco uscente Silvia Conte ha
consegnato al nuovo sindaco il libro sulla Resistenza, la Costituzione, la fascia tricolore e
anche il bilancio di fine mandato. «Avevo stabilito che questo (ieri, ndr) sarebbe stato
l’ultimo giorno da sindaco e che mi sarei congedata comunque, anche se avessimo vinto.
Dispiace che il riconoscimento e il calore che ho sentito in questi ultimi giorni di saluti,
non si sia trasformato nelle urne in una conferma del progetto avviato. Faccio a Claudio
Grosso, a cui i cittadini hanno voluto dare fiducia, il mio augurio di buon lavoro».
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Cosa c’è da fare subito di Alessandro Russello
Messaggio ai sindaci
So che è impopolare dire quel che dirò, ma lo faccio volentieri immolandomi sull’altare di
chi pensa che sia troppo comodo scaricare i propri vizi solo su chi il «Paese dei vizi»
rappresenta, cioè la «politica». Premesso che un Paese sempre più allergico alle urne (in
Veneto quasi il 7% in meno di affluenza rispetto al 2011) non è un buon segno per la
democrazia, alla fine va ringraziato chi si assume la responsabilità di una scelta. Perché
in base a questa scelta si consente alla democrazia - cioè alla nostra società del Patto di funzionare. Nel bene e nel male. Non so da quanti anni ormai, ad ogni elezione, parte
la litania della «disaffezione» al voto. Tanto che nel risentirla ho un senso di rifiuto sia
del contenuto che della retorica che la accompagnano. E se nella progressiva distanza
dei cittadini dalla «politica» del maneggio e dell’autoreferenzialità c’è tanta verità,
annoia la lezioncina dei portatori sani d’etica di turno. Ai quali andrebbe ricordato che
quando andavamo «tutti» a votare, quell’Italia di stakanovisti dell’urna stava costruendo
un debito pubblico di oltre duemila miliardi di euro. Votavamo «tutti» perché la politica
sia nazionale che locale ci «ricompensava»? Perché costruiva (anche in Veneto) cinque
ospedali nel raggio di venti chilometri? Perché chiudeva molti più occhi di oggi su chi non
pagava le tasse? Beh, quella politica del consenso è (più o meno) finita e otto anni di
crisi hanno fiaccato un intero sistema, ma c’è un «vizio» che in questo Paese tutti
accomuna, i cittadini ancor prima dei suoi rappresentanti: il rifiuto del cambiamento.
Famiglie, mestieri, imprese, corporazioni, associazioni di categoria, scuola, università,
professioni: chiunque venga toccato da una delibera o da una legge utili alla comunità
ma non gradite a se stesso «tiene un amico» o un «politico» che può «fare qualcosa».
Qualcosa che va al di là del merito, dell’onestà, dell’efficienza. Insomma, spesso
l’«antipolitica» comincia da noi e poi finisce dentro i palazzi. Dove diventa la tragedia
della malapolitica. Dico questo perché una parte del cambiamento può cominciare
proprio dai sindaci che abbiamo eletto e che usciranno dai ballottaggi. Rimasti senza
risorse, spesso costretti a fare i gabellieri per conto terzi e gravati da responsabilità
inversamente proporzionali ai compensi che ricevono, come primo atto - nel nome del
risparmio e dell’efficienza - possono portare a termine una piccola-grande rivoluzione.
Ovvero fondersi, aggregarsi, o se questo è troppo consorziarsi. Sempre più. Come ha
fatto l’esempio più virtuoso del Veneto: la «Fondazione dei Comuni del
Camposampierese», nel Padovano. Undici comuni di aree politiche diverse che hanno
avuto un’idea geniale. Hanno costituito un’utility alla quale hanno conferito tutti i servizi:
dall’anagrafe, al catasto, alla contabilità, alla vigilanza, alla protezione civile. Ebbene, in
dieci anni questi comuni hanno ridotto del 38 per cento il costo pro capite dei servizi. Si
chiama visione, si chiama «politica». Quella buona. Purtroppo invisibile. Tanto che in
dieci anni quasi nessuno (in Veneto esistono altre realtà virtuose ma sono ancora poche)
l’ha imitata. In Veneto (579 Comuni) e in Italia (8000) c’è un problema di campanilismo
e «identità» che non va confuso con la ricchezza di un dna. Perché l’identità non è solo o
tanto il passato ma il futuro. E il futuro non è il ripiegamento dentro un gonfalone: è la
creazione di comunità vive, che erogano servizi apprezzabili e cancellano sprechi.
Spesso bisogna vincere gelosie, cedere sovranità, progettare insieme. Il cambiamento
non è facile, farlo diventare una priorità un atto di buon governo. Che significa
amministrare onestamente ma anche, soprattutto, avere «visione».
IL GAZZETTINO
Pag 1 I 4 segnali che arrivano da Venezia di Tiziano Graziottin
Il Partito Democratico in difficoltà, barcollante anche in una terra storicamente amica. Il
Movimento 5 Stelle in continua ascesa e pronto a sferrare l’attacco finale per prendere
Chioggia, sesta città del Veneto. Il centrodestra rinato, ma spesso sotto i vessilli della
Lega gonfiati dal voto anche lontano dalle sue roccaforti. Tre indizi per una prova: il
vento che tira dalla provincia di Venezia soffia oltre i confini metropolitani e offre chiavi
di lettura regionali e per certi aspetti anche nazionali. Quasi un voto-laboratorio delle
dinamiche in movimento. Con un elemento aggiuntivo di forte interesse, rappresentato
dal test, di valore non solo locale, sulla "rivoluzione fucsia" del sindaco di Venezia Luigi
Brugnaro, che giusto un anno fa sfrattò il centrosinistra dal municipio di Ca’ Farsetti.
Senza il front man in campo l’onda s’infrange a Chioggia, dove il format fucsia
(campagna con cartellonistica, parole d’ordine e modalità di azione uguali sul territorio)
non basta alla sua candidata Marcellina Segantin che sfiora solamente il secondo posto
utile per il ballottaggio. Per contro il modello Brugnaro risulta sorprendentemente
vincente a Napoli, dove Gianni Lettieri - ufficialmente appoggiato dal sindaco lagunare,
del quale ha mutuato colore e slogan - brucia la candidata Pd e si guadagna la
candidatura a sfidante di De Magistris. Fa rumore a Venezia, ma in generale in tutto il
Veneto, il tonfo del Pd, licenziato a Chioggia dall’ex alleato Casson e bastonato in tre
comuni (su 5) dove esprimeva il sindaco. Non una catastrofe, si dirà, ma elettoralmente
è un’onda lunga negativa per i democratici che negli ultimi anni, nel Veneziano, hanno
perso in successione la Provincia, il capoluogo veneto e le due città principali dopo
Venezia, ovvero Mira e per l’appunto Chioggia. Più di un campanello d'allarme per il
partito di Renzi. Sull’altro piatto della bilancia, e anche questo è dato politico rilevante,
prende sempre più peso il Movimento 5 Stelle, che proprio con la conquista nel 2012 di
Mira (la "piccola Stalingrado" strappata alla Sinistra che governava da sessant’anni)
diede la prima spallata e che ora - guadagnato un altro Comune (Vigonovo) in questa
tornata - punta ad assestarne un’altra nel ballottaggio di domenica 19 a Chioggia,
magari proprio con i voti del Pd. Il centrodestra, infine, che laddove non è dilaniato da
liti interne e veleni, si ricandida a squadra di governo: 8 comuni presi su 11 soprattutto
con civiche di area, e con la Lega, pur in un territorio meno amico che altrove come
quello veneziano, in una posizione di preminenza. Anche questo, in vista della futura e
inevitabile resa dei conti dentro il centrodestra nazionale, è segnale di una certa
importanza.
Pag 15 Unioni civili, Padova “batte” Treviso di Giuseppe Pietrobelli
Gli uffici della città di Bitonci hanno i moduli pronti, in quella di Manildo poche
informazioni
Il sindaco leghista Massimo Bitonci, al quale soltanto a sentire la parola “unioni civili” di
persone dello stesso sesso viene l'orticaria, in realtà è molto più veloce, nei fatti, del suo
collega trevigiano Giovanni Manildo, del Pd, che pure al momento dell'approvazione della
nuova legge Cirinnà aveva inneggiato al «salto di civiltà» dell'Italia. Provate, per
credere, nelle primissime ore di entrata in vigore della norma che ha lacerato il Paese e
il mondo della politica, a percorrere la trafila burocratica per ottenere l'ormai
riconosciuto diritto a unirvi, anche di fronte allo Stato, con il vostro (o vostra) compagno
(compagna). Abbastanza incredibilmente, il Comune di Padova ha già pronti i moduli per
istruire le pratiche, mentre il Comune di Treviso è ancora lì che aspetta, aspettando i
decreti attuativi del governo. Per due cuori trepidanti, che da una vita attendono di
regolarizzare la propria posizione, l'effetto non è precisamente lo stesso. Nella Marca
gioiosa la richiesta rimane sospesa, l'entusiasmo si affloscia, l'ardore si spegne di fronte
alla pur gentilissima voce di un'addetta dell'ufficio anagrafe. Sul sito comunale, delle
unioni civili non c'è traccia, se si esclude la dichiarazione entusiasta dell'avvocatosindaco del 12 maggio scorso per l'obiettivo centrato dall'amico Matteo Renzi. Ed è
proprio al governo che la struttura comunale rimanda la palla: «La legge ha effetto da
ieri (domenica, ndr), ma non è arrivata alcuna indicazione attuativa. Bisogna attendere
che il governo legiferi, ci sono tempi tecnici da rispettare...». La delusione di chi telefona
si manifesta in una sola domanda: quanto tempo ci vuole ancora? «Non lo sappiamo.
Per i decreti attuativi ci sono sei mesi, ma la presidenza del consiglio dei ministri può
fissare norme transitorie a 30 giorni». E come può un cittadino esserne informato?
«Metteremo tutto sul sito del Comune, mi spiace dovete attendere». Altra musica a
Padova, dove invece ti aspetteresti una specie di Linea Maginot a difesa della tradizione
matrimoniale bisex. L'esordio dell'Ufficio relazioni con il pubblico è solo apparentemente
tiepido. «Ne abbiamo parlato con la dirigente dell'Ufficio anagrafe tempo fa, ora la legge
è in vigore, ma nessuno ci ha ancora detto cosa si deve fare». Non è che ci sono
problemi perché il sindaco Bitonci è contrario alle unioni civili? La risposta è
istituzionalmente impeccabile: «Che sia contrario o no, la legge 76 del 2016 è una legge
dello Stato e un modo bisogna trovarlo, perché non è possibile disattenderla». Già il
cuore comincia ad allargarsi, quando l'Anagrafe conferma, dimostrando che la macchina
comunale di Bitonci è già all'opera. Anticipa i tempi, ha perfino predisposto i moduli. «E'
semplice, basta che vi presentiate all'Ufficio Matrimoni in piazza Capitaniato, sotto
l'orologio. Prendete due moduli, uno a testa, e li compilate con i dati anagrafici. Lasciate
una fotocopia del documento di identità così cominciamo a istruire la pratica. La
modulistica al momento non è ancora a disposizione sul sito. Dovete venire qui». La
parola “matrimoni” già viene pronunciata, se il problema è solo quello di fare due passi
fino in centro... Eppure un dubbio ci assale: non è che mancando i decreti attuativi non
se ne può fare ancora nulla? «No, state tranquilli, intanto istruiamo la pratica». Le
modalità operative verranno comunicate in seguito, a cominciare da quella più
appariscente. Quando lo facciamo? «Intende la cerimonia? Vi diremo anche quello». Non
è che siccome il sindaco non vuole celebrare i matrimoni, salta fuori qualche altro
intoppo? «Il sindaco non ha mai celebrato nessun tipo di matrimonio, noi ci siamo
sempre arrangiati». Con un assessore, un consigliere comunale? «Dipende se conoscete
qualcuno o volete che lo faccia qualcuno». Scusi, ma non serve un ufficiale di stato
civile? «Sì, ma lo può fare anche un amico, un conoscente. Si prepara una delega. E'
sufficiente una persona qualsiasi, purché in possesso di alcuni requisiti. Dev'essere
iscritto alle liste elettorali, non può essere un parente in linea diretta». E dove lo
facciamo? «Abbiamo alcune sale del Comune». Nessun rischio di ghettizzazione, sono le
stesse usate per i matrimoni.
Da domenica è entrata in vigore la legge 76/2016, meglio conosciuta come Cirinnà che
regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina le convivenze di
fatto etero o gay prive di vincoli giuridici. L’unione civile deve essere registrata davanti a
un pubblico ufficiale alla presenza di due testimoni e il documento sarà registrato
nell’archivio di stato civile. Ma per celebrare le prime unioni occorrerà aspettare il
decreto attuativo previsto per il 30 giugno. Con Le uniche differenze con il matrimonio,
sono l’assenza delle pubblicazioni e la mancanza dell’obbligo di fedeltà. Con questa legge
molti altri diritti del matrimonio vengono estesi alle coppie gay: congedi parentali,
contratti collettivi di lavoro, detrazioni per il coniuge, possibilità di usufruire di 3 giorni di
permesso al mese per assistere il coniuge con handicap grave (Legge 104/92).
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Consigli disattesi di Angelo Panebianco
Per tradizione, in Italia, le elezioni locali hanno riflessi sulla politica nazionale. Per il
principio che, qui da noi, tutto fa brodo. Da questo punto di vista, il primo turno soprattutto nelle grandi città per le quali il richiamo mediatico è maggiore - rappresenta
un campanello d’allarme per Matteo Renzi. Se ai ballottaggi il Pd perdesse in alcune
importanti città (in particolare, Milano o Torino), il governo accuserebbe il colpo, Renzi
perderebbe quella reputazione di invincibilità che fino ad ora lo ha protetto e sorretto. Le
cose si complicherebbero alquanto anche in vista della madre di tutte le battaglie, il
referendum costituzionale di ottobre. Forse, si riaprirebbe anche la discussione sul
sistema elettorale, sul cosiddetto Italicum. Ciò premesso, notiamo però anche tre
caratteristiche di queste elezioni locali. Le prime due sono comuni a tutte le elezioni
locali, in tutte le parti del mondo ove si svolgano elezioni di questo tipo. La terza è
specifica di quelle elezioni locali ove ci siano ballottaggi. La prima caratteristica è che
nelle elezioni locali i leader nazionali non concorrono e pertanto non possono svolgere
quel ruolo di «traino» che, soprattutto i più popolari fra loro, riescono ad esercitare nelle
elezioni nazionali. Ci provano sempre, questo è vero, ma, per lo più, con risultati dubbi.
La seconda caratteristica è che, nelle elezioni locali, ci sono sempre due tipi di elettori. Il
primo tipo è composto da quelli che votano per ragioni esclusivamente ideologiche (nel
nostro caso, pro o contro Renzi, pro o contro Grillo, eccetera). Il loro voto,
effettivamente, se potesse essere isolato e scorporato dal voto degli altri, sarebbe una
misura del grado di popolarità e forza dei vari leader e delle varie formazioni nazionali.
Però, nelle elezioni locali esiste anche un secondo tipo di elettore (per fortuna: se questo
tipo di elettore non esistesse, le elezioni locali sarebbero inutili). Questo elettore
(giustamente), quando deve scegliere un sindaco, se ne infischia degli equilibri politici
nazionali. Vota Tizio oppure Caio dopo avere cercato di capire chi sia il più affidabile,
quello che forse eliminerà le buche che ci sono davanti a casa sua, quello che forse
combinerà qualcosa per migliorare il traffico urbano, eccetera. Ammetto di avere più
simpatia per questo secondo tipo di elettore, uno che comprende la specificità delle
elezioni a cui sta partecipando, che per il primo. Il primo tipo è un elettore
eccessivamente ideologizzato, uno che non ha bisogno di informarsi sui candidati locali e
i loro programmi, uno che vota per il Consiglio comunale e per il sindaco a prescindere,
pro o contro Renzi, pro o contro il Jobs act, eccetera. La presenza del secondo tipo di
elettore - quello che comprende la natura delle elezioni a cui sta partecipando e si regola
di conseguenza - è precisamente ciò che impedisce di considerare le elezioni locali
un’anticipazione delle successive elezioni nazionali. Dal momento che, in elezioni
nazionali, quell’elettore ragionerà e si comporterà in modo diverso da come ha ragionato
e si è comportato nelle elezioni locali. La terza e ultima caratteristica riguarda le elezioni
locali con ballottaggi, che è appunto il nostro caso. I ballottaggi non sono la replica, solo
con qualche piccolo aggiustamento, delle elezioni del primo turno. Sono elezioni nuove,
completamente diverse dalle prime. Innanzitutto, tra il primo turno e il secondo turno,
c’è un rimescolamento dell’elettorato. Alcuni elettori che avevano votato per un certo
candidato, risultato escluso dal ballottaggio, si asterranno, altri convergeranno su uno
dei due contendenti in base alla logica del «meno sfavorito» (voto per uno che non mi
piace al fine di sconfiggere uno che mi piace ancora meno). Ci sono poi molti elettori che
si erano astenuti al primo turno e che ora voteranno al secondo turno, almeno in parte
attratti dalla prospettiva di un eccitante incontro di boxe fra i due restanti concorrenti.
Anche in questo caso, non si voterà tanto «per» quanto «contro», contro il candidato
che si detesta di più. Poiché i ballottaggi sono elezioni nuove, si sconsigliano (ma si
tratta di un consiglio che verrà certamente ignorato), gridolini di stupore di fronte a
risultati cosiddetti «inattesi». Non è scritto da nessuna parte che chi ha ottenuto più voti
al primo turno, il candidato che è risultato in vantaggio, vinca facilmente le elezioni
finali. Potrebbe benissimo uscirne sconfitto. Egli potrebbe avere fatto il pieno dei suoi
voti al primo turno. Il suo vantaggio iniziale, inoltre, potrebbe innescare una
mobilitazione a lui contraria: elettori che non hanno votato al primo turno potrebbero
votare al secondo con il solo scopo di farlo perdere. Da cento anni si ripete il ritornello
sulla distanza fra il «Paese legale» e il «Paese reale». Il Paese legale scruta le elezioni
locali per ragionare sulle grandi strategie nazionali. Il Paese reale si preoccupa di buche
nelle strade e di traffico urbano.
Pag 1 Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese di Ernesto Galli
della Loggia
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di
qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi
politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto
probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o
antisistema. Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa
assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente
aveva fatto credere, non è quel Cesare. Per cominciare, proprio domenica è mancata al
presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che
distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una
leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a
sinistra - così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee.
Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun
serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente
l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della
Nazione». Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in
questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione
pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare
democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza. Il primo
è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di
molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo
(una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente
del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il
flusso dei nuovi arrivi. Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a
Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa,
e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità»
dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta
del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano,
presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act,
poi il Migration compact, adesso si annuncia un Social act: ci si rende conto della
ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact, dicevo, ha ricevuto
un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo
avanti. Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di
tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner
europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò
capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono. Il
secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe
dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è
sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi
che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani,
e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha
mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia
italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una
sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità. Renzi non ha
colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per
prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha
rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua
prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza
della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille
complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto
di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato
sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie
in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una
gestione inevitabilmente «burocratica». La verità è che in generale Renzi avverte
realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd - gli riesce
difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce
difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da
riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe
voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a
manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il
solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe
politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere. Per
cambiare il Paese - come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte
speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza
- non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna
riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma
comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve
assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori
energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della
gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi
nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul
suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è.
Pag 3 Le 3 missioni del leader che non è riuscito a prosciugare il bacino Cinque
Stelle di Aldo Cazzullo
Scravattato, camicia bianca aperta - look scelto certo casualmente anche dagli scudieri
suonati Orfini e Guerini -, sorridente ma anche un po’ abbacchiato: «Se uno di sinistra
non vota Pd, vota 5 Stelle», dice Matteo Renzi. Ma è proprio questo il problema. Renzi è
andato a Palazzo Chigi con tre missioni: riformare la Costituzione; rilanciare l’economia;
ridimensionare Grillo. La prima partita si decide a ottobre; e sarà tutta un’altra storia
rispetto ai sindaci. La seconda è ancora da vincere, come ha detto Piero Fassino: la crisi
sociale morde le grandi città (solo Milano sta un po’ meglio); senza una ripresa solida,
sarà difficile che gli italiani votino entusiasti per il governo. La terza partita, per ora, è
perduta: dopo la vittoria alle Europee, Renzi non è più riuscito a prosciugare il bacino dei
5 Stelle; e oggi due candidate del tutto prive di esperienza amministrativa sono oltre il
30% in metropoli-chiave. È vero, come ha notato il premier dietro le quinte della
conferenza stampa, che la media nazionale dei grillini è molto più bassa, e che vanno al
ballottaggio solo in 20 Comuni su 1.300. Ma sarà molto difficile fermare la corsa di
Virginia Raggi. «Se Giachetti fa il Giachetti saranno due settimane divertenti» auspica il
premier; però una grillina sindaca della Capitale è destinata a diventare la prima notizia
sui siti di tutto il mondo: un effetto Guazzaloca elevato al cubo. È clamoroso anche il
risultato di Chiara Appendino, che non aveva molto più di un sorriso fresco da opporre a
un fondatore del Pd, due volte ministro, già ai cancelli della Fiat con Berlinguer; ma
nell’era della rivolta anti-establishment, avere un curriculum e una storia diventa uno
svantaggio. E in un’epoca che consuma tutto in fretta, a un diciottenne che vota per la
prima volta il rottamatore Renzi rischia di apparire già un veterano da scalzare. «Quando
non le vinco tutte, per un quarto d’ora mi viene voglia di vincerle tutte», dice il premier,
scherzando ma non troppo. Con la sua bulimia vorrebbe combattere tutti i duelli,
candidarsi in tutte le città, vincere di persona tutti i ballottaggi. Poi si ricorda che il suo
mestiere è un altro, e finisce per tornare sulla battaglia della vita: il referendum di
ottobre. Forse nella campagna per le Amministrative ne ha parlato fin troppo: è stato più
accorto Parisi, a evitare di schierarsi per non perdere consensi; o Fassino, a chiedere
«un voto per la città, non per altre posizioni politiche». Ieri Renzi ha convocato le tv al
Nazareno, non a Palazzo Chigi. Non ha parlato da capo del governo, ma da segretario
del partito. E la sua prima preoccupazione è stata ricompattare la sua famiglia politica. A
sinistra del Pd non c’è vita: la minoranza riottosa non ha un altro posto dove andare; gli
elettori scontenti non votano Fassina o Airaudo, ma Raggi e Appendino. Dice in sostanza
Renzi: se fossi un politico tradizionale, potrei sostenere di aver vinto, in fondo il mio
candidato è primo a Milano, Torino, Bologna; ma siccome sono io, riconosco che avrei
potuto fare di più; «e ora poco politichese, sacro fuoco, pancia a terra e testa alta».
Come se fosse facile. A Milano, dove il premier ha puntato la posta più alta, si mette
male. Il ministro Martina - la notte di domenica è stata durissima per tutte le correnti del
Pd, compresi i neorenziani - vaticinava che Sala avrebbe superato i 4 punti di vantaggio
indicati dalle prime proiezioni; invece il candidato più consono alla strategia renziana,
schierato non a caso nell’unica grande città con una maggioranza politica di
centrodestra, rischia seriamente di perdere. A Napoli il Pd non ha toccato palla,
nonostante i fondi per Bagnoli e le pizze in periferia con la Valente; e il risultato brucia,
«a Napoli non poteva andare peggio». Tra pochi giorni le prime tre città italiane
potrebbero avere un sindaco antirenziano: l’urlante de Magistris, l’incognita Raggi prima vittima, il sogno olimpico di Roma 2024 -, la sorpresa Parisi: se conquistasse
Milano, sarebbe il candidato naturale del centrodestra alle prossime politiche. «Non
pensate che Silvio Berlusconi sia finito», fa notare Renzi, quasi con sollievo: l’avversario
conosciuto lo spaventa meno di un Di Maio, che con i suoi trent’anni da compiere ha l’età
che aveva lui quando divenne presidente della Provincia di Firenze. Resta da capire
quanto l’impero mediatico di Berlusconi spingerà per il No, e quanto lo faranno i 5 Stelle,
con il rischio di rinunciare all’Italicum: l’unica legge elettorale che, escludendo le
alleanze, consente loro di vincere. Renzi può ancora tranquillamente prevalere al
referendum. Ma la lezione di domenica è che la vera questione resta l’economia. Tutta la
sua avventura è basata in fondo su un solo discorso: far ripartire il Paese, ritrovare
orgoglio e fiducia; «L’Italia deve fare l’Italia» (un po’ come Giachetti che deve fare
Giachetti, in queste due settimane che passerà a cercare invano occasioni di confronto
con la Raggi; al più se ne farà uno). Renzi ora ha necessità che il suo racconto del Paese
sia confermato dai numeri e dalla percezione degli italiani; altrimenti si aprono scenari
imprevedibili.
Pag 5 Le pagelle e i protagonisti di Pierluigi Battista
Dal centrodestra spaccato alla “secessione” nel Pd
Le pagelle prima dei ballottaggi possono sempre modificarsi, come negli esami di
riparazione che sono un secondo tempo della valutazione, e stavolta definitivo:
promosso o bocciato. Per cui se a Milano dovesse prevalere Stefano Parisi, Silvio
Berlusconi potrebbe veder aumentato quel secco 4 guadagnato dopo la disastrosa e
autolesionistica gestione del caso Roma, dove prima ha proposto Giorgia Meloni, ma
davanti alla Meloni recalcitrante ha optato per Bertolaso, ma con un Bertolaso azzoppato
ha scelto Alfio Marchini. E un buon risultato potrebbe alleggerire la pesantezza del 4 al
piddino non ortodosso renziano Virginio Merola a Bologna, che era stato accreditato
come vincitore al primo turno ma che non ha raggiunto nemmeno la vetta del 40 per
cento, insidiato ora dalla leghista Lucia Borgonzoni (voto 7). Il trionfo della Raggi Ma
comunque vadano le cose, la squillante e trionfale marcia di Virginia Raggi a Roma non
può che essere gratificata da un 8 (così come Roberto Giachetti ha conquistato un 6 se
solo si considera la condizione disperante da cui è partito). Un voto che diventa 8+ nel
caso della Cinque Stelle di Torino Chiara Appendino la quale, con lavoro certosino, senza
la spinta di cui ha goduto la Raggi grazie al disastro Pd dell’era Marino a Roma, con una
presenza mediatica praticamente azzerata, ha ottenuto un risultato strabiliante,
bloccando la vittoria al primo turno di Piero Fassino (voto 6--), cannibalizzando il
deludente voto di sinistra di Giorgio Airaudo (voto 3) e schiantando una destra torinese
incartata e rissosa.
La sinistra in crisi - Per i leader nazionali, Beppe Grillo è accreditato di un incoraggiante
7. Ha azzeccato le candidature di Raggi e Appendino, ha effettivamente compiuto il
passo di lato non mettendosi al centro della scena rischiando di attirare sì voti ma di
farne scappare molti di più, si è tenuto in disparte e oggi può godersi la nascita ufficiale
del Movimento 5 Stelle come protagonista di primo piano del nuovo tripolarismo
all’italiana. Difficile assegnare a Matteo Renzi un voto superiore al 5. Che anzi avrebbe
potuto essere più severo perché il Pd è andato male e soprattutto perché deve prendere
atto di una secessione silenziosa del popolo di sinistra che o non va a votare oppure
sceglie direttamente l’antagonista di Cinque Stelle, bypassando completamente le tante
denominazioni in cui si condensa la sinistra alla sinistra di Renzi che certifica in queste
elezioni la sua marginalità non riuscendo ad intercettare né a Torino, né a Roma con
Stefano Fassina (voto 4) nemmeno un voto della protesta antirenziana. Peggio di
Fassina possono essere valutati Giorgia Meloni (voto 3) che ha contribuito al grande
caos della destra romana, alimentando un pasticcio inestricabile accettando il terreno
della rissa scelto da Matteo Salvini per poi accontentarsi solo del grande vantaggio
acquisito su Alfio Marchini. Il quale Marchini (voto 3) ha compiuto il più spettacolare
suicidio politico smentendo la sua immagine di candidato «indipendente» e allontanando
tutto l’elettorato che non ha digerito l’alleanza con Berlusconi. La sua trasformazione in
candidato di una frazione (minoritaria, con Forza Italia ridotta a un misero 4 per cento)
del centrodestra è stato l’opposto dell’immagine di Virginia Raggi: lei si è presentata
come candidata alternativa, lontana dai partiti, espressione di un desiderio fortissimo di
discontinuità con gli assetti precedenti, lui invece come un pezzo dell’establishment
romano legato ai partiti e nemmeno tra i più popolari.
Il sindaco Masaniello - Potrebbe goderne Matteo Salvini, spettatore del disastro
berlusconiano, e che però come primo motore della disfatta romana non ha portato a
casa un grande risultato meritando perciò un clamoroso 4, corroborato anche dal
pessimo risultato della lista della Lega a Milano, surclassata persino da quella di Forza
Italia. A Milano il 7 di Sala, che ha pagato un certo disamore della sinistra verso il Partito
della Nazione fortemente voluto da Renzi ma che però guida al primo posto la battaglia
del ballottaggio, fa da contrappeso all’8 di Stefano Parisi, che si è imposto su una
coalizione ingovernabile e che con la sua figura ha dato forza all’ipotesi di un
centrodestra moderato. In Campania l’8 squillante del sindaco Masaniello di Napoli Luigi
de Magistris è oscurato solo dal 9 di Vincenzo De Luca che ha fatto di Salerno, presa con
il 75 per cento dei voti, un caso da studiare nei manuali di sociologia politica. Tra due
settimane esami di riparazione. C’è tempo per prepararsi.
Pag 6 Gli elettori dem “infedeli”, M5S pesca dappertutto di Luca comodo
Per Sala solo due terzi di chi aveva scelto il Pd nel 2013. Ancora meno per Giachetti
Per aiutare a leggere i risultati del primo turno delle Amministrative è utile cercare di
capire quali sono stati i flussi di voto nelle due città principali del Paese, Milano e Roma.
In attesa di avere i dati delle sezioni, ci siamo basati sui nostri sondaggi pre-voto. Si
tratta quindi di approssimazioni che verranno raffinate e chiarite dai successivi flussi su
dati veri. Cominciamo da Milano. Sala non ha convinto tutti gli elettori pd del 2013, che
lo scelgono solo per due terzi. Un quarto ha invece ritenuto di astenersi, mentre il
restante 10% circa si distribuisce sugli altri. Gli elettori di sinistra (Sel e Rc) scelgono in
misura rilevante di astenersi. Tra gli elettori del Movimento 5 Stelle solo una parte
minoritaria converge sul candidato di riferimento, mentre la maggioranza assoluta
sceglie l’astensione. Gli elettori di centrodestra invece confermano massicciamente la
propria preferenza per Parisi, che raccoglie quasi i tre quarti dei voti ottenuti da
quest’area alle scorse politiche. In sintesi: Sala non ce la fa a convincere del tutto il
proprio elettorato e per questo non riesce a produrre una distanza significativa da Parisi.
Al contrario Parisi compatta i propri elettori di riferimento, ma non riesce ad ottenere
risultati significativi nelle altre aree elettorali. Vittoriosa è l’astensione: la crescita
rispetto al 2011 è di circa 13 punti. Gli elettori milanesi che hanno deciso di recarsi alle
urne polarizzano i propri voti sui due candidati principali dedicando scarsa attenzione
agli altri. È quindi probabile che la capacità espansiva dei due al ballottaggio sarà
scarsa: vincerà chi saprà meglio mobilitare i propri elettori, eventualmente, come nel
caso di Sala, rimotivando coloro che al primo turno hanno scelto l’astensione. A Roma la
situazione è decisamente diversa. Intanto, Roma è l’unica, tra le cinque grandi città, in
cui cresce la partecipazione al voto. Inoltre il successo di Virginia Raggi deriva da una
evidente trasversalità. Da un lato la candidata pentastellata riesce a tenere gran parte
degli elettori 5stelle alle politiche del 2013, dall’altro lato è in grado di attirare elettori
dal centro, dal Pd e dalla sinistra. Giachetti non riesce a convincere davvero il proprio
elettorato di riferimento che lo sceglie solo per poco più della metà. Pur ridotti, questi
consensi e altri scarsi flussi derivanti da altre aree, gli sono sufficienti ad arrivare al
ballottaggio. Anche grazie, naturalmente, alla divisione nell’area di centrodestra. Giorgia
Meloni infatti, convince solo poco meno del 40% degli elettori di centrodestra. Il
competitor, Alfio Marchini, ottiene un risultato deludente poiché non riesce a mobilitare
gli elettori di area, ottenendo dal centrodestra solo il 20% e mobilitando poco le forze
centriste. Infine la sinistra. I risultati non sono assolutamente confortanti. La proposta di
sinistra non convince l’area di riferimento (che gli consegna il sostegno di poco più del
20%, non molto più di quanti scelgono la Raggi): deluso dalle proposte in campo
l’elettorato di sinistra sceglie massicciamente l’astensione. La battaglia del ballottaggio
sarà nella Capitale più complessa di quella milanese. Posto che anche in questo caso il
primo obiettivo è la mobilitazione dei propri, a Roma entrambi i candidati hanno bisogno
di allargare la propria area di riferimento. La Raggi gode già di un endorsement esplicito
da parte di Salvini. Ed è probabile che gli elettori di Meloni, se decideranno di votare al
ballottaggio, si esprimeranno in misura massiccia per la candidata pentastellata. Più
difficile la partita di Giachetti: per vincere deve riportare al voto i propri (anche parte di
quelli che al primo turno hanno preferito astenersi), ma nello stesso tempo convincere al
voto la porzione dell’elettorato moderato che vede come un rischio consegnare la città
nelle mani di una persona nuova e con qualche sospetto di eterodirezione. Battaglia
complessa, di esito incerto. Ancora più complessa la partita sul fronte della sinistra. Qui
le resistenze verso il Pd, Renzi e il sospetto partito della nazione sono davvero difficili da
recuperare, tanto più che l’avversario non è un candidato di destra che potrebbe
provocare una reazione unitaria di quest’area.
Pag 7 I confini invertiti tra centro e periferia di Paolo Conti
Il Pd ha il primato nel salotto delle città, i quartieri già del Pci a grillini e centrodestra
Il caso più clamoroso è Roma. Il centrosinistra, con Roberto Giachetti, tiene bene (3334%) nel centro storico, nell’area elegante-borghese-benestante tra Tridente e Prati e in
un altro quadrante del benessere, Parioli-Nomentano, mentre tutte le periferie guardano
al Movimento Cinque Stelle e a Virginia Raggi. Il colpo d’occhio, scrutando la mappa,
rende plasticamente il distacco tra il Pd erede dei Democratici di Sinistra, del Pds e
quindi del Pci, e le zone più popolari. Raggi vola a Ostia al 43,6% e Giachetti arranca al
19,1, a Tor Bella Monaca Raggi al 41,2 e Giachetti distante al 17,3 e si potrebbe
continuare. Il Pd dialoga con la borghesia, i professionisti, col mondo dei circoli e dei
salotti ma perde nella Roma più difficile. Capita sempre così, quando a Roma la sinistra
si «autoreferenzializza». Nel 1985, dopo nove anni di giunte di sinistra troppo sicure di
loro stesse, furono le periferie a restituire il Campidoglio alla Dc. Nel 2008 furono
sempre le periferie a votare più per Gianni Alemanno e assai meno per lo sfidante, l’ex
sindaco Francesco Rutelli, percepito come un ritorno e non come una novità. E Alemanno
vinse. Lo schema funziona anche nelle altre città coinvolte in questa competizione. A
Milano, il centrosinistra ha il 42,2% nel centro-zona 1 ma perde complessivamente
cinque municipalità su nove rispetto al 2011, inclusa la zona 9, Niguarda–Dergano,
sempre governata dal centrosinistra, anche quando a palazzo Marino regnava il
centrodestra. Torino conferma l’addio delle «aree difficili» al Pd e al centrosinistra: nel
centro storico il sindaco uscente Piero Fassino (ex segretario dei Ds) naviga su un solido
50% e più, mentre Chiara Appendino del M5S si ritrova al 22%, ma basta attraversare le
periferie per individuare una Torino opposta, spesso con Chiara Appendino in vantaggio.
A Bologna (e parliamo di una città che per decenni ha legato il proprio nome alla
sinistra, quando l’Italia era democristiana, la città era «La Rossa» per eccellenza) il
fenomeno è lo stesso. Il centrosinistra con Virginio Merola si è ripreso il quartiere di
Santo Stefano, per anni bacino del centrodestra, ma nelle altre periferie c’è molto
sostegno a Lucia Borgonzoni, candidata del centrodestra. Per questo Merola ha già
pronto un comizio in quel della Bolognina, in piazza Unità, proprio nel tentativo di
riaprire un dialogo anche puntando sui simboli. I centri storici e le aree più
economicamente sicure sembrano insomma individuare nel centrosinistra un
interlocutore rassicurante e, in qualche modo, «somigliante» al proprio modello di vita.
Le periferie invece inseguono uno strumento politico di negazione, di dissenso. Spiega lo
storico e politologo Giuseppe Vacca, studioso del marxismo e direttore della Fondazione
Istituto Gramsci: «C’è un fenomeno, non solo italiano e non solo europeo, che spinge
comunque alla protesta elettorale contro ciò che rappresenta il potere e l’istituzione. Ma
poi c’è un fenomeno tutto italiano che spiega bene ciò che è accaduto in questa tornata
elettorale». E sarebbe, Vacca? «Gli attuali partiti politici tutti ”nuovi” e i sindacati, invece
strutturati su identità ideologiche della Prima Repubblica, non dialogano più. E lo
sganciamento della dimensione sindacale dai partiti che erano di riferimento, sul
territorio, ha il suo prezzo. In più i partiti, incluso il centrosinistra, si organizzano e
comunicano sempre di più grazie alle reti d’opinione. Quindi con chi è già incluso, il ceto
medio. E chi resta fuori, gli esclusi, votando protestano, manifestando frustrazione,
negatività. Dunque una modalità di essere “anti”, con qualsiasi mezzo...».
Pag 13 Se il voto cambia l’analisi sulla natura dei 5 Stelle di Massimo Franco
I risultati delle Amministrative di domenica hanno già prodotto un primo effetto:
comincia a cambiare la percezione del Movimento 5 stelle. Può darsi che si tratti di
un’operazione tattica e elettorale: magari con un occhio ai ballottaggi di alcune città
dove i voti di Beppe Grillo fanno la differenza, vedi Milano. È un fatto che ieri, a
sorpresa, una nota ufficiale e anonima di Forza Italia ha preso atto che «il M5S ha avuto
una crescita politica, non solo numerica, importante. Non è più solo un fenomeno di
protesta: è una realtà politica che merita rispetto e con la quale bisogna fare i conti». Ha
tutta l’aria di una risposta in tempo reale dopo l’affermazione di Virginia Raggi a Roma e
del secondo posto di Chiara Appendino a Torino, che hanno chiesto analisi meno
pregiudiziali sul loro movimento. La crisi del partito di Silvio Berlusconi permette questa
interpretazione. Per il Pd, al contrario, cambiare ottica risulta più difficile. Oggi il M5S è il
rivale giurato di Matteo Renzi. Gli contende pezzi d’elettorato e il primato in Campidoglio
e, in prospettiva, nel Paese. Ammettere che oggi sia più di un contenitore della protesta
significherebbe dargli un vantaggio che i Dem non si possono permettere. Così, il Pd
continua a martellare su Grillo. Renzi ribadisce che il voto di domenica è amministrativo.
Mette al riparo il referendum costituzionale di ottobre, spiegando che «sarà tutta un’altra
partita». E azzarda che «molti di quelli che hanno votato Beppe Grillo o Lega, al
referendum voteranno per il “sì”. I parlamentari saranno per il “no”, perché se una
poltrona su tre salta, non la vogliono mollare». Insomma, l’approccio è irridente,
aggressivo. Per il premier, il M5S deve restare ai margini. D’altronde, Grillo non lesina
attacchi. «Il Pd sta scomparendo e FI è quasi un ricordo», sostiene. E il vicepresidente
della Camera, Luigi Di Maio, dice di avere visto un Renzi imbarazzato nei commenti sul
voto. «La propaganda non funziona più. Invece di cambiare registro», è la tesi di Di
Maio, «Renzi passa il tempo a vantarsi». È la conferma di una rivalità destinata a
inasprirsi, anche perché il Pd rimane l’unica forza che può contrastare l’ascesa del M5S:
sebbene non sembri in grado di fermarla come si pensava un anno fa. Sarà interessante,
piuttosto, vedere fino a che punto le candidature della Raggi e della Appendino
inaugurino una fase più moderata, se si può definire così, della creatura di Grillo; e se
preludano a un allargamento degli orizzonti elettorali e culturali del movimento, e a una
strategia tesa a agganciare non solo i delusi della sinistra ma dello stesso centrodestra.
È un tentativo che soprattutto nella capitale si profila come inevitabile. E l’apertura di
credito di FI è un favore oggettivo al M5S.
Pag 14 Il centrodestra frantumato ma vivo, è ancora decisivo nel gioco dei tre
poli di Antonio Polito
Le notizie circolate domenica notte sulla morte del centrodestra sono decisamente
esagerate. Se fosse davvero morto, diciamoci la verità, tutto sarebbe più semplice, e il
complicato triangolo della politica italiana si sarebbe risolto in un nuovo, forse brutale,
ma elementare bipolarismo tra la stella di Renzi e le cinque stelle di Grillo. E invece no.
Perché su 25 Comuni capoluogo di provincia il centrodestra, nelle sue varie fogge e
formazioni, porta candidati al ballottaggio in 16 casi e vince una volta al primo turno, più
o meno come il centrosinistra che conquista 18 ballottaggi (e ha già vinto domenica in
tre Comuni). Tanto per avere un’idea delle proporzioni, basti pensare che il M5S va al
ballottaggio in tre città (in due grandi capitali come Roma e Torino con percentuali da
capogiro, più Carbonia). D’altra parte, se il centrodestra fosse davvero morto oggi Renzi
respirerebbe meglio, avrebbe un serbatoio di voti cui attingere per fronteggiare l’assalto
grillino, vedrebbe nascere l’embrione di un Partito della Nazione. E invece travaso non
c’è: neanche il buon pastore Verdini, sui cui sentieri avrebbero dovuto transumare un
po’ di pecorelle smarrite, porta voti da quella parte. Con Ala non si vola né a Napoli né a
Cosenza né a Grosseto. È anzi da considerarsi fallito il primo connubio elettorale alla luce
del sole, con comizi congiunti, tra il centrosinistra e il centrodestra. Si può dire allora che
è morta Forza Italia, spazzata via dalla nuova destra leghista e fratello-italiota? A Roma
certamente, il partito di Berlusconi prende percentuali irrisorie, quasi umilianti, sotto il
cinque. A Torino pure. Ma per niente a Milano, anzi il contrario: lì Forza Italia supera il
20% e quasi doppia la Lega; e a Napoli, dove sommando i suoi voti con le liste civiche di
Lettieri sorpassa il Pd. Forza Italia è allo stremo, ma è ancora il primo partito del
centrodestra in Italia. L’Opa di Salvini non c’è stata. Né lui né Meloni possono dire di
aver posto le basi elettorali di una potenziale leadership nazionale: il primo non esiste da
Roma in giù, la seconda è debolissima dal raccordo anulare in su. Berlusconi ha
certamente perso di brutto la scommessa che aveva fatto su Marchini, però neanche i
suoi competitori l’hanno vinta: perfino a Varese il candidato leghista non sarebbe in
testa senza Forza Italia. Per non dire di Milano. Sarà per questo che sia Salvini sia
Meloni hanno ieri fatto due conferenze stampa più unitarie che bellicose. D’altra parte,
abbiamo avuto la conferma che Berlusconi non è più il Re Mida di quell’area, e che anzi
rischia di fare l’alchimista al contrario, trasformando ciò che tocca in legno: a Marchini
fischiano ancora le orecchie per lo choc. All’ex Cavaliere resta Milano. Ma se perde al
ballottaggio, sul suo regno tramonta per sempre il sole. E se vince, la sua leadership
finisce lo stesso, perché dovrà passare la mano alla nuova generazione che ha fatto il
miracolo. Il centrodestra dunque non è morto. Ma è frantumato. Ha gambe ma non ha
testa. È uno stato d’animo più che una coalizione. Un arcipelago di elettori, invece che
una forza politica. Però proprio queste Amministrative ci ricordano che dovunque ritrova
un capo e un progetto ridiventa competitivo. Si capisce ora molto meglio di che
materiale deve essere fatto il bostik per riattaccarne i pezzi. L’ideale è un tipo come
Parisi, il non politico autore di un piccolo capolavoro politico. Ma candidati con le stesse
caratteristiche «civiche» e vincenti hanno ben fatto anche altrove: da Trieste, a
Grosseto, a Brindisi. Il tripolarismo, insomma, non sembra affatto finito. E a quanto pare
non finirà nemmeno con la roulette russa del ballottaggio a due, quando a decidere
saranno il caldo e l’astensione (con l’Italicum la posta sarà addirittura Palazzo Chigi).
Anzi: questo ménage à trois della politica italiana, il cui manifestarsi alle ultime elezioni
produsse la soluzione del governo Renzi, rischia ora di diventare pericoloso per lo stesso
premier, se la tenaglia dei due poli avversari si stringerà sul suo al referendum, dove o
si vince o si perde, e tertium non datur .
Pag 37 La partita del premier (per avere una sponda) pensando al referendum di
Francesco Verderami
Non è stato l’onore delle armi. La mano che ieri Renzi ha teso al Cavaliere è parsa
piuttosto nostalgia (e desiderio) del vecchio patto del Nazareno. D’altronde, se nel
momento più difficile di una storia ventennale, il presidente del Consiglio tiene a
sottolineare che in Italia «c’è ancora la destra e c’è sempre Berlusconi», è perché - nel
momento più difficile della sua storia biennale - proprio il presidente del Consiglio ha
bisogno di trovare una sponda per spezzare l’accerchiamento di chi mira a sconfiggerlo
al referendum. Così ritorna dove tutto era cominciato, in vista dei ballottaggi che
spiegheranno se c’è un nesso tra le Amministrative e la futura consultazione popolare,
cioè se il voto per le Comunali avrà un’incidenza sulla politica nazionale. Non era
dall’esito del primo turno che lo si poteva capire, sarà nel secondo turno che si vedrà se
il variegato fronte anti renziano sarà capace di compattare i propri voti a Roma, a
Milano, a Torino, per sconfiggere ora i candidati democratici e in ottobre il leader dei
Democratici. La tesi di Renzi che «molti elettori» dei Cinquestelle, di Forza Italia e della
Lega si esprimeranno a favore delle riforme costituzionali, si poggia sull’assunto che «la
maggioranza dei cittadini» vogliono la riduzione del numero dei parlamentari e una
semplificazione dell’iter legislativo. E dunque faranno «zapping» nelle urne. In questo
modo il premier mira a strappare la bandiera e le parole d’ordine dell’antipolitica per
affermare se stesso e il primato della politica, inchiodando i suoi avversari al ruolo dei
difensori della «casta» e dello status quo. Ma l’idea del plebiscito che Renzi ha suscitato
nel Paese ha finito per piantarsi come un seme nell’immaginario collettivo e ha messo
radici al di là della sua volontà. L’obiettivo iniziale era attirare l’attenzione degli elettori
su un tema che non suscita emozioni, trasformando un confronto cattedratico sul
modello istituzionale in un duello politico personale. Non si è fermato al «se perdo vado
a casa», ha voluto fare gioco sugli istinti dei suoi oppositori, aggiungendo che andare a
votare sarebbe stato «un incentivo per tanti a votarmi contro». C’era una strategia
dietro questa provocazione, che gli serviva per motivare il fronte a lui favorevole e
mobilitarlo in vista delle urne: un’esigenza dettata dai numeri, siccome gli analisti
ritengono che solo superando la soglia del 65% dei votanti il Sì avrà la meglio sul No. E
infatti ora Renzi sta tentando di cambiare i toni, «non ce la faccio a vincere da solo
questa sfida», ha detto davanti ai dirigenti della Coldiretti strappando il loro applauso.
Ma il seme ha messo radici, e la congiuntura non sembra favorevole al premier. Il suo
rischio è aver esaurito la carica innovativa del rottamatore senza aver avuto ancora il
tempo (o la possibilità) di guadagnarsi il profilo del buon governatore: e nel gioco dei
consensi, perdere i primi senza aver consolidato i secondi rende tutto più complesso.
Ecco la necessità di allargare il blocco dei riformatori, o meglio di ripristinare quell’area
che consentì lo start-up del processo costituente: «La destra c’è sempre e c’è ancora
Berlusconi». Di più: c’è un pezzo di classe dirigente della destra - del centrodestra - che
è pronta a manifestarsi a favore del Sì, al momento opportuno. È a loro, oltre che al
Cavaliere, che Renzi pare rivolgersi. Senonché nella sfida referendaria è diventato
centrale il tema della legge elettorale, con quel premio di maggioranza alla lista che è
vissuto con ostilità e che fu pensato dopo le Europee, quando il Pd sfondò il tetto del
40%. Non è chiaro se il risultato delle Amministrative farà cambiare verso al premier, se
- come uno yogurt - quel meccanismo dell’Italicum andrà in scadenza. Per ora il leader
del Pd difende la legge, una linea Maginot dietro la quale si terrà quantomeno fino al
referendum, per non manifestare segni di debolezza. Ma già ieri quel muro mostrava
delle crepe, perché quando Renzi ha citato il voto di Torino, «dove Fassino ha superato il
41%», ha dimenticato che lì il Pd si è fermato sotto la quota del 30% e che quel risultato
è la somma dell’intera coalizione. Ecco: il premio alla coalizione è ciò che gli chiedono
quanti sono pronti a sostenerlo al referendum, è la richiesta che fa anche Berlusconi, è
un modo per far breccia al Sud dove il premier teme per ottobre. Perché al Sud i
detentori dei «pacchetti di voti» di ogni partito, anche del Pd, sono pronti a danzare
insieme a Renzi. Ma vogliono continuare a credersi «il sale della terra».
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LA REPUBBLICA
Pag 1 L’identità perduta di Ezio Mauro
Il buon vecchio "che fare?" dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi
dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul
tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche
il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire "non
siamo soddisfatti del risultato" (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta
al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi
città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è
addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano
persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto - Milano, dove si giocava
l'esperimento renziano più ardito - la destra resuscita miracolosamente appaiando al
primo turno il candidato cui è stata affidata l'eredità vincente di Pisapia cambiando base
sociale, profilo culturale, paesaggio politico. Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da
mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta
dell'apparato, i gruppi d'interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di
pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che
continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie
trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e
per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e
occidentale così come la conosciamo. Ma l'anima, come dicevamo il giorno dopo il flop
delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per
noncuranza. Come se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse
di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece
che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa
ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese. Non è certo un deficit di leadership
quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente
ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà
ogni volta l'impressione di giocarsi l'intera posta sulle questioni che deve affrontare per
cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più
irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit,
evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per
usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno
strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha
mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di
voto, ma dando l'impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver
l'ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni
liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché
non sono dei guanti. Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di
responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente
alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli
errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica
è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una
tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua
cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di
Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero" della sinistra
italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica
rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del
nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro
storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni)
potesse diventare il vero emblema della sinistra e l'avvento di un leader non fosse l'inizio
di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno
Zero. La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far
parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che
gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile,
democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga
riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo
è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse, e
distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei
giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a
funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del
Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione,
per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E' difficile capire, al
contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito,
rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C'è in questo uno
spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider
che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e
preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni
incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore
d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile,
come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha
tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici
improvvisati e sproporzionati alla sua storia. Questi limiti del renzismo sono fortemente
ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza
interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha
legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato
legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il
respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto
non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura
politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che
apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di
impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al
Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero
più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa,
sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo
mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi
chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo. E qui siamo alla questione finale. Il
grande tema che potremmo intitolare "quale sinistra per il nuovo secolo" interessa a
Renzi? Se si assume quell'identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e
personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L'obbligo di spiegare ad
esempio che il cosiddetto "partito della nazione" non è non può essere un "partito della
sostituzione", che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed
evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L'obbligo di
chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento
sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L'obbligo
di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la
crisi sta riducendo a semplici "spettanze" comprimibili nei momenti di difficoltà. L'obbligo
di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la
sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si
riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e
della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto. C'è un patto
sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze
italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli,
degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa
carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di
Salvini o dell'antipolitica grillina (che stanno già preparando le "nozze del caos" per il
secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni
ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di
difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento
che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?
Pag 23 Schemi saltati e confronti incerti, ecco il tripolarismo imperfetto di Ilvo
Diamanti
Il dato più chiaro del primo turno della consultazione amministrativa di domenica scorsa
è che, ormai, non c'è più nulla di chiaro. E di prevedibile. Nel rapporto fra cittadini e
politica. Fra elettori e partiti. Così, l'esito delle elezioni è ancora aperto. Tra i 143 comuni
maggiori (oltre 15 mila abitanti) al voto domenica scorsa, infatti, 121 andranno al
ballottaggio. Cioè, non tutti, ma quasi. Alle precedenti elezioni erano molti di meno: 92.
Questa tendenza appare evidente soprattutto nelle regioni dell'Italia centrale. Un tempo
definite "rosse", perché politicamente di sinistra. Ebbene, fra i 19 comuni maggiori al
voto, in questa zona, quasi tutti (17) andranno al ballottaggio. In primo luogo, Bologna.
Dove il sindaco in carica, Merola, si è avvicinato al 40% dei voti. E fra due settimane
dovrà, quindi, affrontare Lucia Borgonzoni, candidata leghista del Centro-destra. Una
prova sulla quale incombe, minaccioso, il precedente del 1999, quando Giorgio
Guazzaloca, del Centro-destra, prevalse su Silvia Bartolini, di Centro-sinistra. Al
ballottaggio. Nel complesso, i candidati del Centro-sinistra vanno al ballottaggio in 88
comuni (sono primi in 47), quelli di Centro-destra, della Lega o dei FdI in 69 (primi in 38
Comuni). Infine, il M5s raggiunge il ballottaggio in 20 comuni (è primo in 6). Questo
rapido profilo quantitativo serve a chiarire una ragione importante - se non la più
importante - dell'incertezza che pervade questa competizione amministrativa: la
pluralità degli attori in gioco. In altri termini, se per molti anni abbiamo inseguito un
bipolarismo senza preclusioni, senza fratture, Oltre l'anticomunismo e il berlusconismo
(o il suo contrario), oggi dobbiamo fare i conti con un modello diverso. Sicuramente più
aperto. Anzi: fin troppo. Siamo entrati, infatti, in un sistema a "tripolarismo imperfetto".
Dove il centrosinistra, imperniato sul PD(R), si oppone non solo al Centro-destra,
impostato sull'asse FI-Lega - allargato, in alcuni contesti, ai FdI. Ma anche al M5s che ha
ottenuto risultati importanti a Roma, con Virginia Raggi e a Torino, con Chiara
Appendino a Torino. Mentre in alcuni casi, è sfidato da soggetti diversi ma, comunque,
alternativi ai due poli tradizionali. Come Luigi De Magistris, a Napoli. Ciò rende il
confronto complicato. Non solo nel primo turno, ma anche e tanto più nei ballottaggi.
Perché non è chiaro se e per chi voteranno gli elettori dei partiti esclusi. Nello specifico:
chi sceglieranno gli elettori di Centrosinistra fra un candidato leghista, forzista o dei 5s?
Oppure, reciprocamente, chi sceglieranno gli elettori leghisti, forzisti o del M5s nel caso il
loro candidato di riferimento fosse, a sua volta, escluso dal ballottaggio? In linea teorica,
ove fosse rimasto in gioco, sarebbe favorito il candidato del M5s. Perché a-ideologico.
Esterno alle fratture tradizionali. Visto che gli elettori del M5s sono, politicamente,
trasversali. Riassumono il disagio verso i partiti ma anche la mobilitazione su temi
"civici" e territoriali. Così, i loro candidati possono venire utilizzati dagli altri
elettori,"contro" gli avversari storici. Post-berlusconiani, leghisti oppure renziani. A
seconda dei casi e delle esigenze. È probabile, allora, che molti elettori, nel dubbio,
ricorrano al non-voto. Si astengano. Non per scelta, ma per non-scelta. D'altronde, si
tratta di un orientamento diffuso, anche in questo caso. La partecipazione al voto,
infatti, ha superato il 60%. Cinque punti in meno rispetto alla precedente scadenza
elettorale. Tuttavia, non si è verificato il crollo temuto. Piuttosto, è interessante
osservare che l'affluenza - e parallelamente l'astensione - elettorale ha colpito il Nord e
le regioni rosse, più del Mezzogiorno. Certo, il voto amministrativo, nel Sud, è
condizionato - e incentivato - da logiche particolaristiche. Ma è singolare che oggi, nel
Centro-Nord, la partecipazione elettorale sia calata molto più che nel Sud. Ciò sottolinea
un'altra tendenza, emersa dopo le elezioni del 2013. La perdita delle specificità
territoriali. Meglio: la "nazionalizzazione" del voto. E dei partiti. Fino allo scorso
decennio, infatti, gli orientamenti politici ed elettorali riproducevano legami sociali e
territoriali di lungo periodo. Veicolati da partiti di massa, che esprimevano ideologie di
lunga durata e disponevano di organizzazioni diffuse. I partiti di sinistra, in particolare,
si imponevano nelle regioni rosse del centro. Mentre al Nord erano più forti i partiti di
centrodestra e la Lega. Ma alle elezioni del 2013, per la prima volta, si afferma un
partito senza una specifica "vocazione" territoriale. Il Movimento 5 Stelle, appunto.
Primo oppure secondo in quasi tutte le province italiane. Da Nord a Sud, passando per il
Centro. Alle elezioni europee del 2014, il PD di Renzi, il PdR ne riproduce la traccia.
Primo oppure secondo partito, dovunque. Inseguito dal M5s. E da un centrodestra
spaesato e diviso, dopo il declino di Berlusconi. Nume tutelare e identitario. Così le
diverse Italie politiche, oggi, si sono omogeneizzate. La stessa Lega si è "nazionalizzata".
È la Ligue Nationale di Salvini, alleata con i FdI di Giorgia Meloni. Guarda a Roma e al
Sud. Così, non c'è più religione. E non c'è più fedeltà. Non solo a Bologna. Neppure a
Torino. Dove le tradizioni operaie e industriali hanno perduto rilievo. E la crisi economica
incombe (come ha osservato Piero Fassino). Mentre a Milano Sala e Parisi appaiono due
candidati allo specchio. Roma è, dunque, la capitale esemplare di questa Italia - senza
colori e con poche passioni. Dove ogni voto - politico, europeo, amministrativo - diventa
un'occasione im-prevedibile. E ogni elezione, come ho già scritto, è "un salto nel voto".
Pag 25 Niente cibo né caffè, condividerò con la città il mio rama danda sindaco
di Londra di Sadiq Khan
Testo non disponibile
LA STAMPA
La democrazia anomala dei frammenti di Marcello Sorgi
Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un
test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di
centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci
comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse»,
annunciando la svolta dei governi di unità nazionale '76-'79. E ancora, con l'elezione
diretta dei primi cittadini nel '93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi
e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel '94 alla vittoria del
centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall'ondata
dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di
pochi mesi l'uscita da Palazzo Chigi dell'ex-Cavaliere. Con lo stesso criterio ci si potrebbe
chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l'affermazione
dell' Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la
rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente
a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per
pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione
del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che
si tratta del primo turno di un' elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due
settimane, si potrà fare una valutazione completa. Al momento la svolta - se di svolta si
può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non
si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto
provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle
candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è
tutt'altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e
clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un'Italia a 5
Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la
leghista Borgonzoni e a Napoli con l'usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione exberlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l'anima
moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l'Unico
vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d'Italia, e a
Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell' alleanza. A
conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate
finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la
nuova carta politico-geografica dell'Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai
difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l'ambizione di tornare
ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della
coalizione di centrosinistra e dell'ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il
loro simbolo in un'assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati
a un'indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il
guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con
la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo
dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei
ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie
delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di
appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si
nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati
elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali
che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all' esatto contrario delle più
collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una
e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato
sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti
voluto avere al tuo fianco. La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da
Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo
complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su
1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei
risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello
frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi
e almeno finché è possibile - s'impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti,
come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.
AVVENIRE
Pag 1 Strutturale incertezza di Marco Tarquinio
Quadro nuovo, nuove domande
Non ci sono più dubbi sulla ormai consolidata natura tripolare del nostro sistema politico.
Quaranta mesi (e diverse tornate elettorali) dopo il voto del febbraio 2013, vera data
d’inizio di una nuova fase nella storia dell’Italia repubblicana, verrebbe da dire che ci
ritroviamo tendenzialmente con tre poli e nessun “padrone”. Il vasto voto comunale del
5 giugno ha infatti delineato un panorama aperto in cui si distinguono chiaramente tre
schieramenti maggiori – Pd, M5S, ex area berlusconiana – che sono però appesi alle
valutazioni degli elettori che decideranno di partecipare al secondo turno del 19 giugno.
Un’incertezza alla quale bisognerà abituarsi, anche perché promette di essere la
condizione di fondo delle battaglie elettorali che si affronteranno nel tempo dell’Italicum
che è alle porte, nel quale la vittoria al primo turno di un polo dominante e capace di
incamerare almeno il 40% dei voti si annuncia come l’eccezione e il ballottaggio la
regola. Tener conto degli elementi specifici, e anche localistici, delle storie elettorali che
si sono scritte domenica scorsa in città grandi e piccole è certamente giusto e saggio,
ma non si può ignorare la tendenza di cui si è appena detto e che ha preso piede a
causa di scelte, orientamenti e insofferenze dei cittadini-elettori che – anche per effetto
di un’astensione sempre clamorosa e più articolata – stanno scombussolando
definitivamente il quadro ereditato dal bipolarismo centrodestra-centrosinistra e
accelerano l’archiviazione di vecchi schemi interpretativi. È perciò meglio non fermarsi
ad ascoltare troppo quelli che cercano di rievocarli. Quello sguardo non funziona più,
forse illude ancora qualche capopartito, ma di certo non chi va (o non va) alle urne. Tre
poli, dunque. E partite aperte, rischiose e promettenti per tutti. Ma – siamo in Italia,
patria delle eccezioni – e allora è indispensabile sottolineare che due poli su tre (oggi,
guarda caso, i più competitivi) sono costituiti per scelta deliberata o di fatto da un solo
partito, caratterizzato da una leadership magari non solitaria eppure nettamente
delineata, nella realtà così come nella testa della gente. Da una parte, il Partito
democratico del segretario-premier Matteo Renzi e, dall’altra, il Movimento 5 Stelle di
Beppe Grillo. Una sfida a due dentro un sistema non più bipolare che è un film già visto
più volte negli ultimi mesi. E, per come si sono messe le cose, che appare destinato a
molte repliche. A cominciare dalla più importante, in occasione delle prossime elezioni
politiche generali. E, prima ancora, del referendum costituzionale che si è convertito in
un complicato prologo-ordalìa del voto politico, vera prova del nove per la proclamata e
nascente Terza Repubblica. Della vocazione maggioritaria e della determinazione del Pd
renziano si è detto di tutto e di più. E, pur nella difficoltà dell’attuale «deludente»
condizione di incertezza che propizia dissonanze e sgambetti interni (situazione preziosa,
se servisse a vaccinare il presidente del Consiglio da certe pericolose sensazioni di
invulnerabilità), il ruolo della principale forza di governo resta chiaro e forte. Anche i
cinquestelle sembrano, però, in condizioni di affrontare al meglio la prova, e la corsa
tutta di testa – dai sondaggi sino all’impressionante successo al primo turno – al
Comune di Roma ha tutta l’aria di una prova di maturità (che continuerebbe, si può
starne certi, nell’eventuale avvio di un’azione amministrativa nella “disastrata” Capitale).
Particolare e istruttiva è, infine, la condizione dell’attuale (e assai meno competitivo)
terzo polo, un centro-destra tornato col trattino: da un lato, quel che resta del partitone
“moderato e no” capitanato da Silvio Berlusconi e, dall’altro, la rampante (ma con un
invincibile limite di consenso attorno al 18-20%) coalizione simil-lepenista guidata da
Matteo Salvini. La coabitazione rissosa tra quelle due anime – che aveva reso il vecchio
centrodestra spesso vincente, ma quasi mai davvero governante nei ventidue anni
precedenti – appare ora improponibile. Manca il leader riconosciuto e federatore. E sulla
volontà di cercare un successo comune prevale di gran lunga quella di sottomettere il
potenziale alleato. Basta scorrere le dichiarazioni post-scrutinio per rendersene conto:
per esempio la sanguinosa accusa di commercio di voti con cui il leghista Salvini ha
gratificato Mariastella Gelmini, capolista di Forza Italia a Milano, colpevole di esser stata
assai più votata dell’«altro Matteo». C’è veleno persino dentro la squadra che ha
accompagnato la fenomenale rimonta di Stefano Parisi – competitore eccellente del
favorito candidato renziano Beppe Sala – alla testa di un centrodestra senza trattino, ma
assai diverso da quello di un tempo. La domanda è se quella che un tempo si
autodefiniva «area moderata», nello schema tripolare che si è andato strutturando,
possa ambire a qualcosa di ben diverso da un ruolo inesorabilmente gregario nel gran
ballottaggio che sarà, se sarà. Cioè se continuerà a dimostrarsi più vogliosa di 'far
perdere', che di vincere: una questione di programmi e di valoriguida, non solo di toni e
di parole d’ordine. È l’ultima domanda della serie. E non è da prendere alla leggera.
Pag 3 La crisi spinge l’astensione ma il Sud ora è più virtuoso di Diego Motta
L’analisi della partecipazione al voto, ancora in calo (62%)
La politica al tempo dei populismi vive ancora di un forte senso di disaffezione, di una
partecipazione territoriale a due velocità e di un abbassamento delle attese ideali in
cambio della scommessa su una buona amministrazione. Sono sostanzialmente tre le
linee di frattura che il primo turno delle elezioni amministrative ha portato con sé e tutte
hanno a che vedere con il cambiamento in atto a livello locale, dove la crisi economica
ha frustrato le aspettative di sviluppo e i tagli dei trasferimenti dallo Stato centrale
hanno di fatto costretto i sindaci (o aspiranti tali) a rivedere le loro strategie. È
sufficiente tutto questo, insieme all’insorgere di nuove e vecchie paure periferiche
(legate in diversi casi ai flussi migratori) per spiegare un tasso di partecipazione al voto
sempre più basso? Se è vero quanto sostiene L’Osservatore Romano che «alla fine, il
paventato grande exploit dell’astensionismo non si è verificato», anche se «il calo è
stato netto», vale però la pena guardare dentro i numeri per capire cosa si sta
muovendo nel mood, nella pancia del Paese. La prima risposta si ottiene mettendo in fila
l’esito delle consultazioni nelle cinque grandi città al centro di questa tornata: a fronte di
un’affluenza complessiva in calo rispetto al 2011 (62,13% contro 67,42%) solo Bologna
riesce ad assestarsi di un soffio sopra il 60% (sia pur solo con il 60,07% contro il
71,55%). Le altre fanno tutte peggio, con più di quattro elettori su dieci pronti a
disertare le urne: male Milano (55,90% contro 68,02%) Torino (58,43% contro 67,87%)
e Napoli (58,35% contro 64,18%) a salvarsi apparentemente è solo Roma, che ha avuto
almeno il merito di invertire la tendenza, con il 58,42% degli aventi diritto che si è
recato ai seggi, tre punti in più rispetto a cinque anni fa, quando però si registrò un
picco negativo. Al 'grande freddo' metropolitano va peraltro sovrapposta la diversa
geografia elettorale, da Nord a Sud. Secondo un’analisi pubblicata dall’Istituto Cattaneo,
sono Benevento (78,5%) Cosenza (72,4%) e Crotone (71,2%) le città capoluogo, tutte
del Mezzogiorno, in cui si è votato di più. Complessivamente, nei capoluoghi del Sud la
partecipazione è stata maggiore rispetto al Centro-Nord: il 60% contro il 56,7% al Nord
e il 57,4% al Centro. La partecipazione rallenta la caduta nei centri mediopiccoli del
Meridione, mentre entra fortemente in crisi nelle grandi città e nell’Italia settentrionale.
«Assistiamo senza dubbio a un problema di rappresentanza del mondo politico nelle
grandi realtà metropolitane – riflette Mario Rodriguez, docente di Comunicazione politica
all’Università di Padova –. Si tratta di luoghi sempre più particolari, in cui anche
un’offerta articolata come è accaduto nella Capitale o nel capoluogo lombardo può non
essere ragione sufficiente per decidere di votare. C’è un nodo partecipazione che va
sciolto, visto che aumenta la massa di persone che non entra in contatto con la pubblica
amministrazione. Sono elettori che vivono semplicemente 'senza' politica: non sono solo
i più poveri o i più ricchi, ma anche giovani, millennials, lavoratori del terziario. Decidere
il sindaco non li appassiona, ma magari intervengono nel dibattito pubblico su altre
questioni». E cco perché, una volta compreso il dato sull’astensione, occorre fare
qualche passo in più. «In fondo – spiega Mauro Calise, docente di Scienza politica
all’Università di Napoli Federico II – se di malessere legato alla partecipazione al voto si
deve parlare, andrebbe riconosciuto che in Italia siamo a livelli fisiologici. Anzi, va
addirittura meglio rispetto al resto delle democrazie occidentali». L’esempio più
lampante sembra essere in questo senso Londra, che ha da poco eletto Sadiq Khan,
primo sindaco musulmano della sua storia, con appena il 46% dei votanti. «Semmai –
continua Calise – il problema è che siamo di fronte a città sempre più difficili da
governare, dove leadership forti e in grado di affermarsi sono un fenomeno raro». P er
Piergiorgio Corbetta, direttore di ricerca dell’Istituto Cattaneo, «il fenomeno
dell’astensionismo accentuato nelle metropoli in realtà anticipa ciò che potrebbe
succedere nel resto del Paese, dal punto di vista politico e culturale. A disertare i seggi
sono soprattutto le donne anziane sole, mentre i giovani si presentano al primo voto,
dopo però la loro partecipazione diminuisce fino ai 30 anni». Quanto al merito
dell’offerta elettorale, più che i programmi, sembrano contare le sensazioni e le emozioni
suscitate dai candidati, soprattutto se debuttanti: la capacità di rottura col passato, la
forza anti-establishment, un linguaggio capace di parlare in modo trasversale ai cittadini.
Nel concreto, in questo momento per un sindaco appare più conveniente dal punto di
vista del consenso elettorale promettere di sistemare le buche e sbandierare
un’immagine law and order che fare voli pindarici sulla nuova città metropolitana (anche
in questo, le città americane e britanniche sono sideralmente lontane). «I n tempi di
recessione prolungata o di stagnazione strisciante, i Comuni possono fare sempre di
meno e, parallelamente, si abbassa il livello di richiesta alla classe politica» conferma
Rodriguez. «L’ingovernabilità a livello locale è certamente dovuta al fatto che mancano
anche risorse pubbliche, per questo emergono due tendenze distanti – riprende Calise –.
Una è di tipo fisiologico e prevede la cooptazione, in tempi di austerity, di figure
manageriali in grado di gestire la cosa pubblica, com’è avvenuto a Milano; l’altra risposta
che arriva dai municipi sfrutta invece il residuo di iperpoliticizzazione che rimane sul
territorio, come nel caso di Roma e Napoli, per un voto a favore o contro la leadership
nazionale». Lontana la primavera dei sindaci che tanto successo riscosse negli anni
Novanta, oggi si va dunque alla disfida dei campanili con quel resta sul territorio e con
gli avanzi della classe dirigente nazionale, all’insegna del motto 'governi chi può, con
quel che c’è'. Sarebbe normale amministrazione, più che buon governo, se solo si
individuassero personalità di alto profilo. Poi, senza dubbio, ci sono le dinamiche
politiche, ma riguardano una fase successiva. «Il voto contro Matteo Renzi, che si
aspettava un risultato non buono e ha cercato di giocare d’anticipo per togliere rilevanza
mediatica ad amministrative, finendo per rischiare l’autogol, soprattutto a Torino»,
spiega Calise, oppure il risultato positivo ottenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega
Nord in alcune città, non sufficiente però, secondo l’Istituto Cattaneo, «a frenare
l’avanzamento dell’astensione». Sullo sfondo c’è il vento anti-governativo che soffia in
Europa, «e anche Palazzo Chigi è sotto pressione», e la sfida contro i partiti, che su base
locale continua a funzionare perché, come dice Corbetta, «tutto sommato, nei paesini si
sceglie la persona più che il simbolo politico e il primo cittadino è normalmente persona
conosciuta». Ah, com’è lontana Londra...
IL GAZZETTINO
Pag 1 Dove sbaglia Matteo e dove nasce il successo grillino di Massimo Teodori
E’ vero che in Europa (e in America) spira il vento dell’antipolitica a danno dei partiti
tradizionali. Ma sarebbe un escamotage attribuire il successo grillino alla generica
tendenza anti-migranti diffusa oltralpe. Ogni fenomeno politico ha caratteristiche sue
proprie che vanno analizzate, e così si deve fare per l’ondata elettorale del movimento 5
stelle che quasi ovunque in Italia ha destabilizzato i partiti del centrosinistra e del
centrodestra, particolarmente a Roma. Il voto ai pentastellati non ha premiato né la
qualità dei candidati sindaci, né le loro proposte per le amministrazioni locali. A Roma,
come e più che altrove, gli elettori si sono rifugiati in una scelta, per quanto densa di
incognite, indirizzata ad esprimere il disagio della vita quotidiana nella città e
l’avversione a lungo repressa contro gli amministratori che non sono stati in grado di
garantire il buongoverno. Si è trattato, dunque, di un voto rivelatore dello scontento che
pervade gran parte dei cittadini, quasi un termometro sociale che indica il superamento
del grado di sopportazione per la cattiva amministrazione. Sono così passati in silenzio
l’inesperienza della candidata sindaco e le ingenue proclamazioni di onestà e legalità
che, nel caso di elezione in Campidoglio, saranno messe alla dura prova della
responsabilità pubblica che necessita competenza e fermezza al di là delle buone
intenzioni. Il voto di Roma è tuttavia la punta di un fenomeno politico-elettorale più
generale che sarebbe imprudente sottovalutare. Di fronte al clima di incertezza
alimentato dalla situazione economica, dai vincoli europei e dalle ondate di migranti, in
molti prevale la ricerca della novità piuttosto che la tutela della stabilità politica. Se
finora le cose sono andate in maniera insoddisfacente - pensano in molti -, tanto vale
provare qualcosa di nuovo come il movimento dei grillini prima che svaniscano gli
ingenui entusiasmi di una forza politica che passa dalle proclamazioni alle responsabilità
di governo. All’inizio Matteo Renzi rappresentava una novità carica di entusiasmo, se pur
intriso di una certa provinciale improvvisazione. La sua foga di rottamatore, indirizzata a
quel mastodonte che era il partito già comunista, piaceva a quanti non ne potevano più
di una sinistra aggrappata al potere locale. Il presidente del Consiglio fu premiato alle
elezioni europee grazie al fatto di essere l’homo novus che non aveva rispetto per i
vecchi gestori di partito. Oggi, diversamente da allora, lo stesso Renzi è percepito come
un politico il cui richiamo alla stabilità serve soprattutto alla propria stabilizzazione.
Distrutta la “vecchia Ditta”, avanza il sospetto che stia nascendo una “nuova Ditta”,
diversa ma parallela alla precedente. Un altro motivo del successo grillino va individuato
nella fine di quel bipolarismo che, bene o male, ha retto per una ventina di anni. Come
tutti gli equilibri bipolari, le due parti della mela si tengono reciprocamente e cadono
insieme. La Dc è finita quando è crollato il comunismo. Il berlusconismo ha avuto
successo quando si è contrapposto all’antiberlusconismo che, a sua volta, si è nutrito
della polemica contro il Cavaliere. Oggi, il disfacimento della coalizione di centro-destra è
la premessa dell’indebolimento del centro-sinistra. Il Partito democratico che in
apparenza si ingrossa di gruppi che cercano di salire da destra e da sinistra sul carro del
vincitore, in realtà è logorato dalle difficoltà del potere. Al bipolarismo si va sostituendo
un tripolarismo, preludio a un equilibrio a due, forse del tutto nuovo. Ultima, ma non
minore causa dell’insuccesso del Pd, è stato l’errore di Renzi di polarizzare l’opinione
pubblica - “O con me o contro di me” - facendo continuo riferimento al referendum
costituzionale di ottobre. Sarebbe stato più saggio attendere una più meditata
discussione a più voci sul futuro costituzionale dell’Italia mentre si sceglieva la classe
dirigente e i progetti di governo delle nostre città; in primo luogo, del gioiello Roma che
rischia di finire in chissà quali mani.
LA NUOVA
Pag 1 Sorridono solo i 5 Stelle di Massimiliano Panarari
“Ballottaggio continuo”. È questo il verdetto delle urne dopo il primo turno delle elezioni
amministrative, che contemplano un ennesimo calo del numero dei votanti. Un
fenomeno costante, che, data la tradizione italiana di elevato attaccamento all’esercizio
dei diritti elettorali, segnala come una parte via via crescente dell’opinione pubblica
reputi l’offerta politica non adeguata. Il voto locale, naturalmente, non è un
pronunciamento nazionale, e in esso rilevano le specificità dei singoli territori e realtà; e,
tuttavia, sostenere che risulti esente dall’influsso del clima politico generale si rivela
scorretto, oppure - più ragionevolmente - rinvia a una tattica. E, dunque, non c’era nulla
di casuale nei tentativi della vigilia di depotenziamento dell’esito elettorale da parte del
premier e segretario Pd Matteo Renzi. Che avrà le sue “belle (o, meglio, brutte) gatte da
pelare” (per esprimersi in “bersanese”): il Partito democratico esce decisamente
ridimensionato rispetto alla fase trionfante del renzismo, con casi clamorosi come quelli
di Napoli (esclusione dal ballottaggio) e Bologna (il sindaco uscente Virginio Merola che
raccoglie una percentuale piuttosto imbarazzante per le consuetudini della sinistra
emiliana). Segno che i candidati risultano - ovviamente - fondamentali anche a livello
locale; e quelli con un profilo debole o di risulta vengono “rottamati” da leader forti
(specie se “capipopolo” come Luigi de Magistris, che si è inventato pure una narrazione
identitaria locale molto efficace, a metà tra il neo-meridionalismo e il vittimismo contro il
governo centrale). E l’esito conferma giustappunto, in maniera chiarissima, la crisi
verticale del ceto dirigente locale del Pd, a cui Renzi non ha voluto o saputo mettere
mano - oltre che, verosimilmente, la scarsa simpatia suscitata in una parte del suo
elettorato dalle varie (anche se mai dichiarate) prove generali di slittamento in direzione
del modello del “partito della nazione”. Viste le condizioni di partenza, quindi, l’accesso
allo stadio del ballottaggio da parte di Roberto Giachetti potrebbe venire considerato un
“miracolo romano”. Il Movimento 5 Stelle ha riportato - pur in un voto a macchia di
leopardo - un’affermazione nettissima, ponendo un’ipoteca rilevante sulla conquista della
Capitale. Pare così configurarsi per il “partito-non partito” la costituzione di una
leadership - con un’importante componente femminile - in grado di emanciparsi dai
padri fondatori. Ciò non significa l’avvio del sempre rigettato processo di
istituzionalizzazione e, tuttavia, il combinato disposto di ricambi nel (mai formalizzato)
gruppo dirigente e assunzione di potenziali responsabilità di governo nelle metropoli
(dopo le discutibili e deludenti esperienze in capoluoghi come Parma e Livorno)
innescherà inevitabilmente dei processi di cambiamento anche organizzativi. Last but
not least, la leadership del centrodestra, la quale rischia di andare verso una sostanziale
“irrilevanza” nelle dinamiche del sistema politico, a meno che a Milano prevalga Stefano
Parisi (protagonista di una notevole rimonta). Se il berlusconismo, dopo il flop
dell’esperimento Marchini, continua il suo inesorabile cammino sul viale del tramonto, ad
avere “disperatamente” bisogno di una vittoria di Parisi è anche il suo supporter più
distante nello stile (e, per tanti versi, anche nella vision), Matteo Salvini. Queste
amministrative confermano che la Lega Nord in versione sovranista e populista non
dispone di appeal nei confronti dell’elettorato moderato. Salvini può cercare di fare il
pieno di voti di destra radicaleggiante, ma non sfonda al centro e dunque, dopo
l’insuccesso - seppure sul filo di lana - di Giorgia Meloni, sembra dover congedarsi dalle
sue ambizioni di leader del centrodestra (che non riesce a federare). Si può pertanto
immaginare che, a brevissimo, inizierà tutta una serie di manovre e cantieri tra Lega e
Forza Italia, oltre che nella frastagliata galassia centrista. In ogni caso, va da sé, si
devono attendere i ballottaggi: e, quindi, da oggi, per tutti i competitor si apre una
partita-campagna elettorale da giocare in maniera significativamente diversa da quella
che li ha condotti al risultato di domenica.
Pag 1 Partiti senza successi di Francesco Jori
Un voto nel vuoto. Già in scala ridotta per il numero limitato di Comuni ed elettori
coinvolti, l’appuntamento veneto con le urne si rivela di basso profilo anche per i
contenuti espressi, specie dal punto di vista dei partiti. Può dirsene soddisfatta la Lega,
per le tre piazze in cui si è confermata fin dal primo turno, da Montebelluna a Villorba a
Cittadella. E un brindisi sia pure in versione mignon se lo possono concedere i grillini,
anche se limitato al Veneziano: dove vanno al ballottaggio nel test più significativo,
quello di Chioggia, e aggiungono un secondo municipio a quello espugnato a suo tempo
a Mira. Non ha appigli cui aggrapparsi un Pd che conferma il suo sbandamento,
riuscendo ad approdare al secondo turno in soli tre Comuni su undici; né c’era da
aspettarsi qualcosa di diverso, vista la paralisi del partito a livello regionale. E in stato
comatoso rimane Forza Italia, che dopo essere stata a lungo egemone ormai è ridotta
dovunque a una miseranda percentuale a una cifra. Ma è considerato nel suo insieme,
che l’esito del sistema dei partiti suggerisce l’immagine del vuoto: perché i successi,
comunque targati, sono dovuti molto più al fattore personale che a quello della “ditta”.
Quasi dovunque, a fare la differenza sono state le plurime liste civiche, accuratamente
prive di riferimenti partitici fin dall’etichetta: come anticipato del resto già alle regionali
dell’anno scorso, dove la lista Zaia aveva raccolto centomila voti in più di quella ufficiale
della Lega. E anche dove il Carroccio ha fatto il vuoto, come a Montebelluna, lo deve a
una figura atipica rispetto all’attuale corso targato Salvini: il sindaco uscente e
riconfermato, Marzio Favero, è personaggio che rifugge dalle piazzate chiassose e dalle
esternazioni a nastro, ed è rimasto fedele alla vecchia battaglia federalista che il vertice
padano sembra aver relegato in una polverosa soffitta. Certo, questo test specifico offre
spunti ridotti di analisi, anche perché è improponibile ogni raffronto con la volta
precedente: quella del 2011 è pressoché preistoria, per una politica all’epoca segnata
dallo squagliamento berlusconiano e dalla transizione alla precaria stagione di Monti. Ma
c’è una chiarissima linea di tendenza che si può cogliere, passando attraverso i tre test
delle politiche 2013, europee 2014 e regionali 2015: la maggioranza del corpo elettorale
ha girato le spalle ai partiti, o meglio a questi partiti, suddividendosi tra un’astensione
crescente e una proliferazione di liste civiche. È significativo il fatto che le due formazioni
che oggi rappresentano il riferimento della protesta anti-governativa non siano riuscite
neppure stavolta, in Veneto come altrove, a drenare sia pure in minima parte la palude
del non voto. In attesa dell’esito dei ballottaggi, c’è un ultimo spunto che si può trarre in
chiave regionale; e riguarda il referendum d’autunno sull’autonomia. Un appuntamento
che nelle intenzioni dei proponenti deve rappresentare la strategica mossa di apertura di
un’aspra partita con lo Stato, nella quale saranno determinanti la qualità e l’impegno
della squadra. Se il peso e la credibilità dei partiti sono quelli espressi dal voto di
domenica, il pessimismo è di rigore; e lo diventa ancora di più se inserito nelle cronache
recenti, dallo scandalo Mose al crac delle banche, con una politica comunque o debole o
complice. Non è decisamente un gran bel Veneto, quello che si presenta a Roma a
rivendicare ampia autonomia, magari evocando pure lo scenario dell’indipendenza.
Certo, è legittimo chiedere, sollecitare, rivendicare di potersi gestire in proprio. Ma
bisogna anche essere preparati a rispondere all’inevitabile domanda conseguente: come,
con chi e per farne cosa? E se si rischia di rimediare la figura della classica terza C, forse
è meglio darsi prima un robusto ripasso.
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