Tiziano - Convitto Cutelli
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Tiziano - Convitto Cutelli
Tiziano Vecellio Q uesta donna nuda è felice, potente e Venere di Urbino1538 Oil on canvas, 119 x 165 cm Galleria degli Uffizi, Florence irresistibile. Erotica, disponibile, audacissima e però di una purezza perfino sublime. Fin dal 1538, anno in cui (forse) il ventiquattrenne Guidobaldo della Rovere signore di Camerino l’aveva commissionata, questa ragazza scatena reazioni incontrollate. Negli spettatori dell’epoca suscitava desiderio, imbarazzo, scandalo. Negli artisti una cupidigia altrettanto violenta: possederla replicandola. È questo il quadro più copiato della storia dell’arte. Fino a oggi centinaia di pittori si sono confrontati con lei, offrendone una visione più casta, più astratta, oppure più pornografica. Ma questa nuda è l’originale, rimasta senza sorelle a tutt’oggi. La nuda di Tiziano è sveglia, sveglissima. Di più. È consapevole della nostra presenza: ci guarda, le labbra accennano un sorriso. Eppure questo dipinto ha suscitato furiose polemiche, che riassumiamo in due interpretazioni. La prima la legge come un magnifico nudo contemporaneo (forse una cortigiana amica di Guidobaldo, di Tiziano, o di entrambi, probabilmente Giulia Varano da Camerino), senza messaggi o implicazioni allegoriche. La donna reale diventa l’incarnazione della bellezza immediata e trionfante della carnalità. La seconda interpretazione implica una lettura filosofica, carica di simboli legati al matrimonio e alla fecondità della sposa: sarebbe cioè un quadro nuziale. Eppure il fascino dell’opera sta proprio nell’indecifrabilità e nella sua (voluta) ambiguità. La nuda è distesa su un letto. La pelle lattea è il suo vestito. Unici ornamenti, un braccialetto d’oro tempestato di pietre preziose, un orecchino di perla a forma di pera e un anellino al mignolo. E i capelli biondi, sistemati in una complicata acconciatura –che però s’è sciolta- le ricadono sulla spalla. Le lenzuola spiegazzate lasciano affiorare il rivestimento del materasso, un prezioso tessuto rosso a motivi floreali. Poggiata sul braccio destro, la nuda giocherella con un mazzo di rose. Un fiore caduto spicca tra i finti fiori del cuscino, come a solleticare il confronto tra realtà e finzione artistica. Stoffe, carnagione, fiori, sono dipinti con tale maestria da sembrare vera pelle, vero broccato. Lei è qui, davanti a te. La mano sinistra si carezza il pube, con lo scopo apparente di nascondere il punto, ma in realtà attirando il nostro sguardo proprio su quel triangolo, scurito dall’ombra. Ai piedi, un cagnetto da compagnia, che quasi ammicca con l’occhio vispo, a promettere fedeltà e vigilanza. Una linea verticale, il bordo di un rettangolo scuro, divide in due lo spazio, separando la nuda in primo piano dalla stanza sullo sfondo. Sembra quasi che i due ambienti non appartengano alla stessa realtà, la prospettiva non è rispettata, la diminuzione in scala delle due serve sullo sfondo non è scientifica. Le due domestiche frugano in un cassone (dove le nobildonne veneziane conservavano i vestiti), mentre sul davanzale di una finestra campeggia un cespuglio a forma di mirto (il mirto è il simbolo della fedeltà coniugale, a proteggere il focolare) e un albero si muove dolcemente alla brezza del tramonto. La natura sembra tenuta sotto controllo, a distanza. La natura che trionfa qui è un’altra: il corpo nudo della donna, che sigilla ogni mistero. Se gli occhi di lei ti invitano, il centro del quadro è la sua mano sul sesso. Le dita piegate suggeriscono il movimento e muovono lo sguardo e la mente dello spettatore, che vengono risucchiati lì dove ha origine ogni cosa. La combinazione degli occhi teneri e maliziosi della nuda con il gesto della sua mano raggiunge una perfezione –pittorica, concettuale, emozionale- irripetibile. Tiziano ne fu consapevole, e dipinse tante eroine nude, come Danae, Diana e altre ancora. Ma questo sguardo e quel gesto sono rimasti unici: come consapevoli di aver colto l’essenza della vita. Nessuno può spingersi oltre. Le tre età dell’uomo Come sempre accade quando si vuole etichettare a forza un dipinto di carattere allegorico, il titolo tradizionale, se non cattivo, è certo insufficiente: il motivo delle “Tre età” è infatti uno schema generale, all’interno del quale Tiziano dispone ora, sotto apparenza di “idillio campestre”, un’allegoria del carattere effimero d’amore mondano, a sua volta fondata in buona misura sulla metafora musicale. The Three Ages of Man,1512 Oil on canvas, 90 x 152 cm National Gallery of Scotland, Edinburgh I due giovani protagonisti non sono necessariamente un pastore e una contadina come riteneva Vasari, e anzi non hanno attributi particolari a indicare il loro stato sociale o le loro occupazioni. Vasari sapeva però che i flauti a becco sono strumenti “inferiori”, caratteristici della dimensione rustica; e certo non poteva ammettere che due giovani perbene potessero presentarsi all’aperto in quelle condizioni - lui seminudo, lei discinta e scollacciata - a scambiarsi uno sguardo di passionale intensità. In realtà l’erotismo della sequenza principale è sottolineato e precisato proprio dai flauti, che sono tre, e non due come spesso si dice: oltre a quelli nelle mani della ragazza, ce n’è infatti un altro nella mano destra del giovane posata sull’erba. Lo strumento più piccolo - quello nella mano sinistra di lei - è dunque del tutto superfluo ai fini del duetto musicale; ma, per via del simbolismo fallico tradizionalmente connesso al flauto a becco (e per via della sua inequivocabile posizione) costituisce un’evidente allusione erotica, che sottolinea piuttosto pesantemente il significato della scena. Nel piano intermedio, un vecchio è assorto nella meditazione della morte: “figli” di Amleto quali siamo, ci aspetteremmo un teschio nelle sue mani e restiamo per un momento sorpresi quando ne vediamo due. Questo è peraltro l’indizio più evidente del fatto che tutto il dipinto ha a che fare col tema del duetto d’amore, ossia della coppia, e che dunque la meditazione del vecchio non riguarda la morte come categoria generale ma la morte che inevitabilmente attende i due giovani per ora impegnati con flauti veri e presunti: giacché il loro amore è del tutto mondano, effimero e corruttibile. Anche l’infanzia è coppia, amore in potenza; e anche su di essa incombe il pericolo della morte, materiale e intellettuale, simboleggiato dall’albero secco, che l’alato Amore bambino (Amore onesto e divino, giacché privo di arco, frecce e faretra, insomma significativamente “disarmato”) provvidenzialmente sostiene evitando che cada sopra i due umani, non alati coetanei, immersi in un sonno profondo. Se il tronco è sterile, le mani dei due infanti addormentati stringono invece zolle di terra da cui spuntano vivi germogli, che potranno crescere sotto la vigile protezione di Amore divino. La condizione della virtù è tuttavia aspra e difficile: mentre i due voluttuosi amanti posano sopra un morbido tappeto d’erba e fiori, gli infanti dormono sul terreno arido e pietroso. L’amor sacro e l’amor profano Amor sacro e amor profano è il brutto, fuorviante titolo settecentesco per un quadro famosissimo di Tiziano: quadro affascinante, a opera del primo Tiziano; e quadro difficile ma non poi così tanto, se lo si legge collocando i dati di cultura letteraria o filosofica nel Sacred and Profane Love, 1514 contesto degli eventi storici, Oil on canvas, 118 x 279 cm pubblici e privati. Galleria Borghese, Rome Di certo è un quadro sul tema d’amore, dove è evidente il contrasto e la conciliazione di morte e vita (il sarcofago che diventa fontana) nonché il contrasto e la conciliazione delle due figure femminili (e dove è Amore in persona, fanciullo alato, a temperare i contrasti e a mediare le conciliazioni). Di certo è un quadro di matrimonio. Si trattava di un matrimonio assai singolare, che univa, il 17 maggio 1514, Niccolò Aurelio, esponente di una famiglia cittadina di vantate origini romane, a Laura, orfana di Bertuccio Bagarotto, l’eminente giurista padovano mandato a morte dalla Serenissima. Al tempo di queste vicende, Niccolò Aurelio era segretario del Consiglio dei Dieci che aveva pronunciato le condanne. Non vi può essere dubbio che queste nozze costituiscano l’occasione del quadro, perché nella fontana è “scolpito” lo stemma degli Aurelii e nel fondo del bacile posato sul bordo è “inciso” lo stemma di casa Bagarotto. Si può immaginare che non fosse facile sanare il contrasto personale e famigliare, trasformare una memoria di morte in promessa di vita, conciliare la sposa allo sposo. Il dipinto spiega che furono necessarie la mediazione di Amore e la persuasione di Venere. La donna vestita ha tutti gli attributi della sposa, e d’alto rango: i capelli sciolti sulle spalle, la coroncina di mirto sul capo, il mazzetto di roselline nella mano destra, il vaso o cesto metallico munito di coperchio (un portagioie, o più probabilmente una versione ricca della scatola da cucito, tradizionale dono di nozze), le vesti bianche e vermiglie, la cintura chiusa dalla fibbia, e finanche i guanti, segno di raffinata eleganza e metaforica custodia delle belle mani. Se non bastasse, nel fondo c’è anche una coppia di conigli, augurio esplicito d’abbondante prole. Sul piano allegorico, la donna vestita sarà dunque la Venere mondana dei neoplatonici, o magari, come si potrebbe ritenere sulla scorta del mazzolino, Flora, dea della fecondità di primavera, della stagione degli amori e dei matrimoni: in ogni caso, una personificazione adatta a rappresentare Laura come sposa. La nuda Venere celeste con la fiamma d’amore è la personificazione adatta a rappresentare la persuasione nei confronti della sposa. Amore che prova a temperare l’acqua è la personificazione competente a trasformare la morte in vita, il sarcofago con le scene di insidia e castigo in fontana celebrativa con gli stemmi degli sposi e l’amorosa rosa, e dunque a rappresentare la svolta nella vita della sposa. Nel capolavoro di Tiziano - dove non c’è né amor sacro né amor profano, ma la realtà e l’ideologia dell’amore matrimoniale - le due donne sono tanto somiglianti non solo perché sul piano dell’allegoria rispondono a due divinità variamente gemelle, ma perché sul piano della storia rimandano ai due aspetti invariabilmente gemelli nella perfetta sposa: vestita, e ampiamente connotata da simboli e attributi, come sposa nella dimensione pubblica, ufficiale, sociale, e dunque casta, moderata, domestica, elegante, feconda; svestita, e connotata - oltre che dal corpo - soltanto dall’unica fiamma d’amore, come sposa nella privata dimensione coniugale, e dunque sensuale, disponibile, ardente. Davanti alla vestita - davanti alla sposa, che ci guarda con intenzione - ci siamo anche noi, chiamati a diretti testimoni della sua nuova dignità. Davanti alla nuda che non ci guarda, davanti alla moglie, c’è solo il marito. L’Assunta 1516-18 Oil on wood, 690 x 360 cm Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venice Negli anni 1510-1515, Tiziano non trascura i generi tradizionali. Intorno al 1510 esegue per Santo Spirito in Isola la pala con San Marco in trono tra i santi Cosma, Damiano, Rocco e Sebastiano, e quella con Madonna e Bambino tra i santi Antonio da Padova e Rocco, oggi al Prado: ambedue, date le presenze in campo, da leggere quali scongiuri contro la peste. S’arriva così al momento in cui l’intreccio pazientemente allestito di pubbliche e private relazioni schiude a Tiziano anche le grandi commissioni di pale d’altare. In Santa Maria Gloriosa dei Frari, dove si incrociano e si sovrappongono senza alcuna difficoltà politica religione, esigenze celebrative e famigliari del patriziato veneziano ed esigenze teologali e liturgiche dei francescani conventuali, insomma le strutture di potere d’ambedue le parti, Tiziano trova i risultati conclusivi della lunga preparazione al successo. Nella pala dell’Assunta per l’altare maggiore, commissionata nel 1516 e collocata con gran pompa il 19 maggio 1518, come riferiscono i preziosi Diarii di Marin Sanudo, Tiziano elimina ogni tradizionale riferimento iconografico alla morte, al compianto, alla tomba, e inventa - sulla scorta e a sostegno, beninteso, della contemporanea teologia francescana - l’ascesa gloriosa di Maria incorrotta e incorruttibile alla luce del Padre e all’incoronazione come Regina del Cielo, tra la gioiosa meraviglia degli angeli e la stravolta agitazione degli apostoli. La rappresentazione di Maria gloriosa, in trono o in cielo, è contemporaneamente una metafora della sua Immacolata Concezione, ossia della sua nascita senza il peccato originale. Tiziano può ormai sottrarsi a ogni confronto e allestire la stupefacente macchina “moderna” di moti e luci che annulla definitivamente ordini e misure della diligenza quattrocentesca, e annulla insieme ogni iscrizione e ogni latino, perché non c’è più architettura, non c’è più catino absidale, ma il cielo è tutto una gran volta dorata e quel che prima poteva soltanto essere scritto è ora direttamente e magicamente tradotto in linguaggio pittorico. Baccanale degli Andrii 1522-24 Oil on wood, 175 x 193 cm Museo del Prado, Madrid Alfonso I d’Este, signore di Ferrara, pensava da tempo a un ciclo di dipinti mitologici per il suo “camerino d’alabastro”. Nel 1514 era riuscito chissà come a ottenerne uno, il Festino degli dei, da Giovanni Bellini, che non ne aveva mai fatti prima e che qualche anno addietro aveva gentilmente quanto tenacemente respinto l’analoga richiesta di Isabella d’Este, sorella di Alfonso e signora di Mantova. Negli anni successivi il Festino fu largamente modificato con interventi “modernizzanti” di Dosso Dossi e di Tiziano: quest’ultimo, probabilmente verso il 1524-1525, rifece l’intero sfondo montano a sinistra nonché il fogliame degli alberi a destra, per accordare il dipinto del Bellini agli altri - i suoi - del ciclo ormai compiuto. Per il momento ad Alfonso non dovette essere difficile dare al Festino, giocando in casa, la compagnia di un dipinto del Dosso, forse la Festa di Cibele oggi a Londra. Da Fra’ Bartolomeo e da Raffaello ebbe solo progetti, ossia disegni. La morte di Raffaello nel 1520 convinse Alfonso ad affidarsi completamente a Tiziano, che, convocato all’impresa nella primavera del 1518, aveva già eseguito la Festa di Venere, partendo dal bellissimo disegno di Fra’ Bartolomeo ma stravolgendolo in una sfrenata “kermesse” di Amori e mele che, rispetto al prototipo, mette da parte, nei fatti e nella sostanza, la statua della dea. L’originario “ciclo di feste” si completa con la festa di Bacco rappresentata nel Baccanale degli Andrii: nella magica isola di Andro, l’acqua del torrente si muta in vino, l’ebbrezza erotica si rinnova continuamente come si moltiplicano le libagioni, il putto (visto che non si può rappresentare l’eiaculazione) fa pipì un po’ nel torrente e un po’ sulle gambe della ragazza nuda, e questa (visto che non si può rappresentare l’orgasmo) dorme appagata di vino e d’amore. La teoria musicale determina coerentemente gli elementi iconografici che caratterizzano il contenuto dionisiaco del dipinto: anzitutto il foglio di musica in terra con il testo che dichiara «Qui boit et ne reboit / Il ne scet que boire soit» (ovvero, «Chi beve e non ribeve non sa cosa sia bere»: massima ovviamente da estendere, in questo contesto, al rapporto sessuale), un semplice canone circolare da ripetere anch’esso all’infinito, scritto probabilmente come “divertissement” da Adrian Willaert, il grande musico fiammingo che, attivo in quegli anni alla corte di Ferrara, passerà poi a Venezia come maestro di cappella in San Marco. Altri elementi musicali di carattere dionisiaco sono la danza dal ritmo sfrenato e l’apparato strumentale composto esclusivamente di flauti diritti. Nel momento fissato dal dipinto non c’è tuttavia musica strumentale in atto, ma solo la vorticosa danza e forse il canto di due giovani in secondo piano accanto agli alberi. I flauti delle due fanciulle in primo piano sono inutilizzati, ma c’è ancora una volta un terzo flauto, di dimensioni maggiori degli altri due: è in terra, tra la gamba del giovane sdraiato al centro e un calice pieno di vino. Lo strumento appartiene certo a questo giovane, che ora appare impegnato - anche se pretende di guardare distrattamente dall’altra parte - in un evidentissimo approccio amoroso nei confronti della bella in rosso: per l’esattezza, le sta delicatamente insinuando una mano sotto la veste. Anche in questa occasione - dove è condizionato dal riferimento a una selezione dal testo delle Immagini di Filostrato (I, 25), predisposta dagli umanisti di corte - Tiziano inserisce tuttavia un elemento di contrappunto moraleggiante ai contenuti mondani del particolarissimo idillio collettivo, chiudendo percorso e discorso dell’immagine sul vecchio stremato in cima alla collina, che, ormai lontano dallo spazio e dal tempo della festa, tende ai giovani il verde germoglio delle ebbrezze future. Il putto mingente, i giovani in festa e il vecchio esausto costituiscono un’evidente allusione al tema delle “tre età”. Più specificamente, l’esplicito “richiamo” amoroso giocato attorno a tre flauti, la figura di vecchio in distanza e i verdi germogli di esistenze ancor tutte da spendere sono elementi iconografici che abbiamo già incontrato, in diverso modo e in diverso contesto, nelle Tre età di Edimburgo. Ciò dimostra che Tiziano s’è ormai costruito una cultura definita e consapevole, che gli consente di orientare nel senso voluto finanche il contesto obbligato degli Andrii e di inserire nell’elogio dell’ebbrezza una personalissima punta di ironia e malinconia. Pala Pesaro 1519-26 Oil on wood, 478 x 266,5 cm Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venice Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venice La risonanza dell’Assunta fu clamorosa, non solo all’esterno ma anche all’interno della chiesa dei Frari. All’inizio del 1518 Jacopo Pesaro, patrizio veneziano e vescovo di Pafo, acquisisce insieme ai fratelli l’altare nella navata sinistra dedicato all’Immacolata Concezione, impegnandosi a curarne convenientemente culto e ornamento, e ottenendo in cambio l’autorizzazione a destinarlo con la zona circostante a sepolcro di famiglia. La pala, commissionata a Tiziano nel 1519, sarà consegnata soltanto nel 1526. Nei suoi primi anni di attività, Tiziano aveva eseguito il dipinto votivo con Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI, che celebra la vittoria ottenuta contro i turchi a Santa Maura, il 30 agosto 1502, dalle forze navali di papa Borgia, al comando appunto di Jacopo, unite a quelle della Serenissima, comandate da Benedetto Pesaro, esponente di un altro ramo della famiglia. La Pala Pesaro riprende nella parte sinistra la celebrazione ritrattistica di Jacopo, ovviamente nel frattempo assai invecchiato, e l’evocazione delle sue glorie militari ormai lontane: collocandolo ancora una volta, come si conviene a un servitore della chiesa, al cospetto di san Pietro; assegnandogli la compagnia di un santo soldato (Giorgio, o forse Maurizio) con lo stendardo vermiglio che reca il lauro di vittoria e lo stemma dei Pesaro ancora insieme a quello del papa Borgia, odiatissimo a Venezia e comunque defunto da parecchio tempo; e concedendogli finanche il vanto di condurre l’infedele sconfitto, un moro inturbantato, davanti alle supreme gerarchie cristiane. Ma al di là di Pietro c’è stavolta Maria sull’elevato seggio, e ci sono le due enormi colonne che si perdono in aria, prive di ogni funzione che non sia quella di simboli di prerogative mariane che ormai conosciamo: porta del cielo, della Città di Dio, della divina città che è Venezia. C’è Cristo bambino, turbato dalla croce delle braccia aperte di Francesco che “riflette” quella vera, sorretta dagli angeli sopra la nuvola scura. E ci sono appunto Francesco in evidenza e Antonio un po’ sacrificato che introducono e rappresentano, nello straordinario gruppo di famiglia in basso a destra, i personaggi che portano il loro nome, Francesco e Antonio Pesaro, fratelli maggiori di Jacopo. Data la destinazione sepolcrale dell’altare, il gruppo, in cui dopo Francesco e Antonio si dispongono in ordine d’età altri due fratelli di Jacopo, Giovanni e Fantino, costituisce una galleria di ritratti funerari “anticipati”. Tra questi risalta tuttavia la celebre immagine dell’adolescente Leonardo, figlio di Antonio, erede non solo del padre ma di tutti gli zii, unico garante della linea maschile della famiglia, che si volge verso l’esterno a stabilire, e mantenere, il contatto con noi e con la vita. Altre pale tizianesche riprendono negli anni Venti la logica dell’incrocio tra celebrazione ecclesiastica e celebrazione personale. Possiamo ricordare la pala con Madonna in gloria, i santi Francesco e Biagio e il donatore commissionata per la chiesa di San Francesco in Ancona dal mercante raguseo Alvise Gozzi, gratificato di uno splendido ritratto; la pala dell’Annunciazione nel duomo di Treviso sull’altare della cappella di Broccardo Malchiostro, vicario del vescovo, dove il ritratto del committente, poco gradito alla cittadinanza, fu invece sconciato a palate di m... e appare oggi mal ridipinto; il polittico della Resurrezione nella chiesa dei Santi Nazaro e Celso in Brescia per il legato pontificio Altobello Averoldi, zeppo di citazioni “romane” antiche e moderne, con l’autorevole donatore a sua volta ritratto in atteggiamento devoto nello scomparto dei santi cittadini. I Farnese si rivolsero per la prima volta a Tiziano nel 1542, chiedendo il ritratto di Ranuccio, nipote del papa, allora dodicenne. L’iniziativa fu presa dal cardinale Alessandro, che poco dopo propose al pittore di trasferirsi a Roma per entrare al 1546 servizio del papa. Tiziano non ne aveva la minima intenzione, ma i Oil on wood, 210 x 174 cm Farnese gli fecero balenare dinanzi agli occhi la possibilità di Gallerie nazionali di Capodimonte, Napoli assegnare allo scapestrato figlio Pomponio, per il quale il pittore cercava a tutti i costi una sistemazione, il ricco beneficio ecclesiastico dell’abbazia di San Pietro in Colle nel territorio di Ceneda. Nella primavera del 1543, il cardinale convocò Tiziano a Ferrara, se lo portò a Busseto, dove giunse Carlo V per incontrare il papa, e poi a Bologna. In questo periodo Tiziano dipinse i ritratti di Paolo III senza camauro e con camauro, oggi a Capodimonte (e da poco esposto a Troina). Nel luglio se ne tornò a Venezia, certo di avere già in tasca la concessione del beneficio promesso. Passavano i mesi: senza alcuno sviluppo della faccenda, ma con la commissione, intanto, di un altro quadro per il cardinale, la Danae. Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese Nel settembre 1544 il letterato Giovanni della Casa, nunzio apostolico a Venezia, scrive al cardinale che Tiziano, pur di ottenere il beneficio, è pronto a venire a Roma e a ritrarre tutta la famiglia farnesiana, «fino alle gatte». In realtà il pittore si decise al grande passo soltanto nell’ottobre 1545. Completò la Danae, eseguì altre opere di cui poco o nulla sappiamo, e soprattutto dipinse lo straordinario ritratto di Paolo III con i nipoti. Nel giugno del 1546, di nuovo convinto di aver finalmente raggiunto l’obiettivo tanto a lungo perseguito, riprese la via di Venezia, promettendo di tornare quanto prima. Non tornò mai, e mai ebbe il sospirato beneficio. A Roma aveva avuto vitto, alloggio e molti onori; ma non risulta che le pitture gli siano mai state pagate. Il triplo ritratto è un’immagine funzionale prodotta dalla ragion di famiglia, piuttosto che di Stato: un manifesto del sistema nepotistico e un programma politico per l’immediato futuro. Papa Paolo III si è fatto rappresentare insieme a Ottavio, erede del nuovo ducato di Parma e Piacenza, e insieme ad Alessandro, candidato alla successione al soglio pontificio. Ottavio è impegnato in un inchino, ovvero in una fase intermedia della cerimonia ufficiale della riverenza al pontefice, che prevedeva tre inchini e si concludeva con il bacio del piede, non a caso in bella evidenza nella pantofola vermiglia con la croce d’oro. L’atteggiamento ossequioso e ambiguo, sempre rilevato dalla critica, corrisponde in effetti al temperamento prudente e riservato del giovane duca, che mostrò in ogni occasione la massima accortezza politica. Il cardinale Alessandro è ritratto in un gesto che illustra la sua ossessiva ambizione: la mano s’afferra alla sedia del papa, dichiarando la brama di poterla un giorno occupare. Il gesto è ripreso dal ritratto di Raffaello con papa Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi: ma lo faceva il cardinal de’ Rossi, che non divenne papa e anzi morì prima di Leone X. Non era certo un segno di buon augurio per Alessandro, che difatti fallì regolarmente l’obiettivo. Papa Paolo è rappresentato nella decadenza fisica che annuncia l’imminenza della morte: a sottolineare l’ineluttabile scorrere del tempo, c’è sul tavolo la clessidra. Eppure questo vecchio curvo e rinsecchito ancora non s’arrende: stringe convulsamente il bracciolo, ostenta l’anello del potere pontificio. E si guarda intorno con occhi acuti, vigili, interrogativi: quando lui non ci sarà più, i due giovani nipoti - che oltretutto si odiano, e neppure troppo cordialmente - saranno capaci di mantenere la grandezza del casato? Tiziano vide perfettamente tutto questo. Vide, e dipinse, la compressa ambizione del cardinale Alessandro, la molle ruffianeria del duca Ottavio, l’indomita vecchiezza di papa Paolo. Con tre soli colori, quelli che al grande pittore bastano e avanzano: il bianco, il rosso, il nero. L’esecuzione del dipinto fu interrotta perché il successivo mutamento del programma politico di Paolo III lo rese di fatto inutile, non certo perché Tiziano volesse fare un dispetto al papa. Ma è curioso che, partendo, non riuscì a finire proprio la mano destra del pontefice, la mano che molto gli aveva preso e poco gli aveva dato. Pietà 1570-1576 Oil on wood, 378x347 cm Gallerie dell’Accademia, Venezia Stando alle fonti, Tiziano intendeva destinare la Pietà alla cappella del Crocifisso in Santa Maria dei Frari, la grande chiesa francescana dove aveva lasciato, mezzo secolo prima, l’Assunta e la Pala Pesaro: in cambio del dipinto, i frati gli avrebbero concesso sepoltura nella medesima cappella. Ma l’accordo andò solo in parte a buon fine: Tiziano, morto il 27 agosto 1576 mentre Venezia era sconvolta dalla peste, fu effettivamente sepolto ai Frari, nella cappella prevista o in altro luogo imprecisato; ma non vi giunse mai la Pietà, o perché Tiziano al solito ne tirò in lungo l’esecuzione, o perché i frati ritennero il dipinto e il suo soggetto poco appropriati al titolo della cappella e comunque troppo “concorrenziali” nei confronti dell’antico e veneratissimo crocifisso che vi si trovava. Dopo la morte di Tiziano, la Pietà, incompiuta, fu acquisita (ma non sappiamo come e perché) da Palma il Giovane: un eccellente pittore che aveva frequentato l’atelier del grande vecchio, che conosceva perfettamente la sua ultima maniera e sapeva (quasi) perfettamente imitarla. Ma la Pietà era un quadro troppo grande, troppo importante, forse già troppo noto: Palma si limitò a qualche intervento secondario e a una ripassatura generale di uniformazione (come è stato chiarito dal recente restauro), e fu costretto a rilasciarne, dentro il quadro, dichiarazione scritta. Nel Seicento, forse dopo la morte di Palma, il dipinto passò nella chiesa di Sant’Angelo, dove rimase fino al trasferimento ottocentesco nelle Gallerie dell’Accademia. La scena e’ dominata dalla pietra. I personaggi si dispongono su una sorta di ampia pedana dinanzi a un grande sacello a nicchia, in prevalente stile rustico contraddetto da un più canonico timpano. Ai lati dell’edicola stanno, sopra i piedistalli con teste feroci di leone, le statue di Mosè, con le tavole della Legge e con la magica verga che gli servì a molti prodigi, e della Sibilla Ellespontica, con la croce in braccio e la corona di spine sul capo. Questa abbondanza di pietra dipinta si spiega come metafora di Cristo, pietra viva, pietra angolare, pietra di fondamento della Chiesa: coerentemente accompagnato da Mosè, guida dell’antico popolo eletto come Cristo è guida del nuovo, iniziatore dell’era della Legge come Cristo è iniziatore dell’era della Grazia; dall’ellespontica, che tra le Sibille si distingue proprio per aver predetto la crocifissione del Messia; e finanche dai leoni, simboli cristiani di morte e resurrezione. C’è però anche un’altra spiegazione, di ordine interno alla cultura figurativa di Tiziano: la pietra è la componente fondamentale (ma non la sola) di un evidentissimo omaggio alla memoria di Michelangelo, scomparso nel 1564. Il gruppo di Pietà - iconografia mai praticata prima d’ora da Tiziano - rimanda alla celeberrima Pietà in San Pietro; il Mosè, alla non meno celebre statua in San Pietro in Vincoli; la Sibilla, al Cristo portacroce della Minerva. Queste opere Tiziano le aveva certamente viste durante il soggiorno romano del 1545-1546; con ogni probabilità non ebbe modo di vedere le ultime incompiute Pietà, ma ne ebbe certo notizia. In ogni caso - esattamente come Michelangelo - pensò a una Pietà per la sua sepoltura e usò il “non-finito” come equivalente linguistico/espressivo di una spiritualità drammaticamente irrisolta e inconciliata. Cristo morto si offre, naturalmente, quale immagine del sacrificio eucaristico, come è confermato nel catino dorato della nicchia dal pellicano che si squarcia il petto per nutrire i figli del proprio sangue. La massiccia, silenziosa, avvolgente figura di Maria che sostiene ed esibisce il corpo del figlio garantisce la sua partecipazione al percorso di salvazione, il suo determinante ruolo di mediatrice e corredentrice. Maddalena agitata scende dalla pedana e ci chiama col braccio alzato, invitandoci, con l’altro braccio proteso all’indietro, a contemplare la scena centrale: mostrando la morte e annunciando la resurrezione. L’angelo che s’appropria del vaso di profumi di Maddalena, buoni per la funebre unzione, l’altro in volo coi ceri accesi, i fiammeggianti “lumini” disposti in bell’ordine sul timpano, sono tutti riferimenti chiarissimi alla tradizionale liturgia di Pasqua. A destra un vecchio smagrito, solo in parte coperto da un mantello realizzato con rapidi tocchi di bianco e di rosso, si inginocchia davanti a Cristo tendendo il corpo verso di lui, fissando lo sguardo nel suo volto e prendendogli affettuosamente il braccio e la mano. Ormai conosciamo bene le sue fattezze: è ancora una volta il vecchissimo Tiziano dell’Autoritratto del Prado e di tanti altri autoritratti “mascherati”. Qual è, stavolta, la “maschera” di Tiziano? Non è Giobbe, perché dovrebbe avere addosso qualche piaga di riconoscimento e perché Tiziano aveva pensato questo dipinto e questa figura ben prima che scoppiasse la peste. Non è Giuseppe d’Arimatea, perché dovrebbe essere vestito di tutto punto; e non è Nicodemo, perché non potrebbe permettersi tanta intimità e perché anch’egli dovrebbe comunque essere vestito almeno di una tunica, e magari di un cappuccio, come aveva fatto Michelangelo per identificarsi con lui nella Pietà fiorentina. Il vecchio Tiziano si identifica invece con san Gerolamo, con l’asceta penitente, il solo che possa guardare in faccia Cristo morto e prendere la sua mano in quel modo perché già ha preso sulle spalle la sua sofferenza e la sua solitudine. Non ci può essere il minimo dubbio sull’identificazione (e stupisce che ancora se ne cerchino di alternative), poiché Tiziano ha dipinto questa figura esattamente come le ultime immagini “indipendenti” di San Gerolamo. Due dettagli conclusivi: - In basso a destra, appoggiati al piedistallo della Sibilla sotto le fauci del leone, stanno lo stemma di casa Vecellio con l’aquila bicipite del cavalierato imperiale e un tipico quadretto votivo dove Tiziano, insieme al figlio Orazio, compare nuovamente in adorazione della Pietà. Orgoglio di famiglia, desiderio di vita. Schizzato in maniera veloce e approssimativa forse da Orazio - il quadretto è evidentemente un’aggiunta dell’ultima ora per invocare scampo dalla terribile epidemia. Non ebbe la funzione sperata: Orazio morì di peste, Tiziano di dolore e di stanchezza. Restò la dinastia, che perse ben presto grandezza e orgoglio. - Sul piedistallo della Sibilla è posata la parte inferiore di un braccio con la mano rivolta in alto, di materia pittorica identica a quella della statua. Cos’è e a chi appartiene questo braccio di pietra dall’apparenza di ex voto? Ci concederemo in chiusura una risposta più sentimentale che razionale, rivendicandone comunque l’assoluta legittimità: in questo capolavoro di concentrazione contenutistica e proiezione autobiografica, concepito in vista della morte e della sepoltura, ragionato come confessione e come testamento, Tiziano vota alla resurrezione e all’eternità il “suo” braccio, la mano straordinaria del pittore. In ogni caso - esattamente come Michelangelo - pensò a una Pietà per la sua sepoltura e usò il “non-finito”. Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni. Le citazioni sono liberamente tratte dai testi contenuti nel CDROM ARTE (GIUNTI MULTIMEDIA 1996) Le considerazioni su “LA VENERE D’URBINO” sono tratte dall’articolo apparso sulla rubrica IL MUSEO DEL MONDO pubblicato su Repubblica, a firma di Melania Mazzucco.