Anatomia di un edificio

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Anatomia di un edificio
cop anatomia 15-01-2013 13:02 Pagina 2
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Colori compositi
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Collana Theoria, Architettura, Città
Una collana sulla Teoria dell’architettura fondata su basi
razionali e non transitorie che riflette sui fondamenti della
disciplina, sulle sue regole, sui suoi principî, sulla dialettica
tradizione/ innovazione contenuta nell’insegnamento dei
maestri in un rapporto ineludibile con le opere. Teoria intesa
come “osservazione” e riflessione sui principia e sugli exempla,
quali depositi di conoscenze e strumento di verifica e
congiunzione tra theoria e praxis nel progetto dell’architettura e
della città. Un punto di vista orientato e “realista” che,
assumendola come dato di fatto, non registra o constata la realtà
ma vuole produrre, criticamente, degli effetti su di essa, nel solco
della scuola italiana che ha avuto in Aldo Rossi la sua guida e
riferimento.
Una ricognizione sui caratteri specifici dell’architettura intesa
come “arte civile” volta alla costruzione e modificazione del
reale, sedimentata nella più “alta costruzione umana” che è la
città da contrapporre alla liquidità informe della infondata
architettura dell’immagine e alla post-metropoli globalizzata di
questi anni. Riflessioni e studi attorno all’architettura, capaci di
rendersi intellegibili, di dichiarare con chiarezza i loro
presupposti e di contribuire alla ricostruzione di un corpus non
dogmatico ma continuamente alimentato dalla dialettica con
l’“inerzia del reale”.
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via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli
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È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-204-0
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Direttore
Fritz Neumeyer
Professore ordinario di Teoria dell’architettura è direttore del
Dipartimento di Storia e Teoria dell’Archiettura alla Technische
Universität di Berlino.
Comitato Scientifico
Gino Malacarne
Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà
di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum di
Bologna.
Daniele Vitale
Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà
di Architettura civile del Politecnico di Milano, ed è coordinatore del
Dottorato in Composizione architettonica del Politecnico di Milano.
Francesco Collotti
Professore associato di Composizione Architettonica presso l’Università
degli Studi di Firenze. È attualmente redattore di “Firenze Architettura”,
membro del Comitato Scientifico di “Archi” e corrispondente dall’Italia di
“Werk”. Ha insegnato al Politecnico Federale di Zurigo e presso la Facoltà
di Architettura di Dortmund.
Antonio Diaz Del Bo (Tony Díaz)
Indice
6 Sulle ragioni del progetto di architettura
Maria Cristina Loi, Raffaella Neri
10 Anatomia di un edificio
Massimo Fortis
12 La costruzione del nuovo centro: Les Gratte-Ciel a Villeurbanne
Francesca Bonfante
24 Il Quartiere sperimentale VIII Triennale QT8
Laura Montedoro
42 Anatomia urbana di Metanopoli
Stefano Guidarini
56 Proporzione, ritmo, figura. Il complesso di piazza dei
Miracoli e l’anatomia del Battistero pisano
Maurizio Meriggi
72 Autonomia/anatomia di un edificio:
L’Altes Museum di Karl Friedrich Schinkel
Michele Caja
84 Il Federal Center di Chicago (1959-1974): una piazza per la città
Raffaella Neri
104 La “Rotunda” di Thomas Jefferson nel campus
dell’Università della Virginia: un’analisi formale
Maria Cristina Loi
120 Cosmologia e simbolismo. L’inabitabilità dello spazio sferico
Domenico Chizzoniti
136 La Biblioteca Ambrosiana di Federico Borromeo.
Architettura, modelli, significati
Isabella Balestreri
Architetto, ha insegnato progettazione nella Facoltà di Architettura di
Buenos Aires e nella Escuela Técnica Superior de Arquitectura de la
Universidad Politécnica de Madrid. È stato inoltre visiting professor ad
Harvard e in numerose università, anche italiane.
148 Il Palazzo del Lavoro di Pier Luigi Nervi
Massimo Ferrari
Coordinamento scientifico ed editoriale
Federica Visconti
158 Quando la struttura disegna lo spazio. Tony Garnier:
l’edificio dei Macelli e il Mercato del bestiame di Lione
Elsa Garavaglia
Professore associato di Composizione Architettonica e Urbana alla
Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Renato Capozzi
Professore a contratto di Composizione Architettonica e Urbana alla
Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
170 Tre interni milanesi di Ignazio Gardella
Angelo Lorenzi
186 Luigi Moretti: Casa detta “Il Girasole”, Roma, 1949
Marco Introini
198 Note biografiche
199 Referenze fotografiche
4
5
Sulle ragioni del progetto di architettura
Maria Cristina Loi, Raffaella Neri
Esistono molti modi di leggere, studiare, raccontare
un’architettura. Ognuna ha una propria storia e una
propria identità, che possono essere analizzate da diversi
punti di vista, sia nel caso di un edificio realizzato che in
quello di un progetto rimasto sulla carta. In questo
processo analitico si svelano i momenti più importanti
della storia di un progetto, i nodi cruciali, le vicende dei
suoi protagonisti, le implicazioni economiche, gli aspetti
sociali e politici, i problemi del cantiere e
dell’esecuzione, la questione tipologica, il giudizio della
critica e della società - solo per citare alcuni tra i temi
ricorrenti - in una successione di eventi che assumono
valori e significati diversi e che possono essere studiati
da angolazioni talvolta anche molto differenti.
Ma lo scopo rimane sempre lo stesso: analizzare un
progetto di architettura significa avviare un processo di
indagine che ha come fine principale la conoscenza, la
possibilità di ritracciare l’iter progettuale e le ragioni che
ne hanno determinato la forma.
Analizzare un edificio significa, in sostanza, svolgere
nuovamente il percorrere del progetto, porsi le domande
che si è posto il suo artefice, valutare le possibili risposte
e le altre strade che si sarebbero potute intraprendere,
dare ragione delle scelte compiute; con il vantaggio che,
conoscendo già l’esito conclusivo, si è garantiti circa la
qualità della soluzione e la validità delle risposte.
È questa, sostanzialmente, l’origine del libro, Anatomia
di un edificio, una raccolta di brevi saggi che analizzano
un’architettura costruita o un progetto non realizzato,
dissezionandolo come su un tavolo anatomico,
mettendone in luce problemi, soluzioni, priorità, scelte
compiute o rimaste sulla carta, per spiegare le ragioni
che hanno condotto alla sua definizione formale.
Guardare, comprendere, interpretare
un’architettura: una puntualizzazione
“Saper vedere” un’architettura, come suggerisce
Le Corbusier, è necessario per conoscere l’architettura,
per capire le ragioni che hanno condotto a definire le sue
forme e la complessità dei problemi che ogni progetto
deve affrontare e risolvere. Comprendere le relazioni fra
le diverse componenti e stabilire la loro gerarchia è un
esercizio fondamentale che conduce alla definizione di
6
un metodo utile per affrontare il progetto.
Al progetto di architettura partecipano diverse
discipline, tutte ugualmente necessarie, ognuna con un
peso e un ruolo diverso, a seconda, anche, del tema e
delle condizioni. Qual è il contributo di queste
discipline? Affrontano problemi diversi, ne
approfondiscono alcuni aspetti, propongono anche
metodi di indagine propri: quali relazioni stabiliscono fra
loro e con il progetto complessivamente? La storia, la
composizione, la rappresentazione, la scienza delle
costruzioni, l’urbanistica sono discipline che partecipano
alla costruzione del progetto e alla formazione
dell’architetto; ognuna ha una propria specificità, un
proprio campo disciplinare ma, rispetto al progetto di
architettura, tutte sono rivolte verso un unico fine
comune, come comune e sintetico è il risultato del
progetto, che risolve in unità problemi molteplici e di
diversa natura.
Per sottolineare questi aspetti abbiamo invitato persone
con diverse competenze disciplinari - architetti storici,
architetti compositivi, architetti paesaggisti, architetti
urbanisti, architetti esperti in disegno e
rappresentazione, architetti che si occupano di strutture
- a offrirci la lettura di una architettura, senza limitazioni
di tempo, di luogo e di scala, e senza vincoli rispetto alla
sua realizzazione; abbiamo cercato di offrire un
confronto di punti di vista, che è essenzialmente un
confronto sul metodo.
Il libro si pone l’obiettivo di offrire un seppur piccolo,
parziale contributo al confronto e alla riflessione sulla
complessità del progetto di architettura.
Muovendo dalla consapevolezza della necessità di
adottare sempre e comunque un metodo rigoroso,
abbiamo voluto rendere conto della molteplicità di modi
attraverso i quali un progetto di architettura può essere
studiato e poi raccontato: ad esempio, partendo dal suo,
o dai suoi, autori; analizzandone i disegni, verificando gli
aspetti strutturali, utilizzando il disegno, il ridisegno, la
fotografia, come strumenti di analisi e di verifica,
rileggendo i documenti d’archivio, le relazioni di
progetto, i giudizi critici testimoniati dalla letteratura.
L’idea che ci ha guidato è che esiste un problema unico,
centrale, cui la ricerca analitica di storici, architetti e
urbanisti deve dare risposta: lo studio di un edificio deve
essere rivolto alla comprensione delle ragioni del
progetto, le ragioni delle scelte morfologiche, tipologiche,
strutturali, formali, decorative. E la risposta sarà tanto più
completa e attendibile quanto meno sarà parziale,
quanto più le diverse discipline sapranno integrarsi e
convergere verso il fine di indagare le relazioni e la
complessità dei problemi. Perché la figura dell’architetto
7
si costruisce attraverso lo studio di più discipline che si
intersecano e infine si ricompongono nel progetto
compiuto.
Abbiamo detto dell’eterogeneità dei temi e degli autori.
È tuttavia possibile ricondurre ad alcune questioni
tematiche i saggi presentati.
Alcuni hanno trattato il tema della città e dei quartieri
nel Novecento, esemplificato attraverso due esperienze
milanesi - la fondazione di Metanopoli a San Donato
Milanese promossa da Enrico Mattei a partire dal 1953 e
il Quartiere Sperimentale QT8, elaborato tra il 1946 e il
1956 sotto la regia di Piero Bottoni - e un caso francese,
il centro dei Gratte-Ciel di Villeurbanne, presso Lione,
degli anni Venti.
Altri sono dedicati all’analisi dettagliata di un edificio o
di un complesso di edifici, di epoche diverse, interpretati
attraverso il rapporto che instaurano con lo spazio
urbano: sono i casi esemplari del Battistero di Pisa,
dell’Altes Museum di Schinkel, del Federal Center di
Mies van der Rohe, esempi lontani nel tempo, ma con
grandi affinità di principi.
Il tema della ripresa di alcune forme tipiche,
reinterpretate alla luce di aggiornate esigenze e investite
di nuovi significati, è stato affrontato nei saggi dedicati
alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, all’Università della
Virginia di Thomas Jefferson, al progetto per la Casa
delle Guardie Campestri al Villaggio di Maupertuis di
Claude Nicolas Ledoux.
Il tema della casa è stato proposto attraverso una lettura
dall’interno - prendendo ad esempio le case milanesi di
Ignazio Gardella - e dall’esterno - la palazzina Girasole
di Luigi Moretti a Roma.
Due casi-studio hanno come tema centrale il rapporto
fra costruzione e forma: un’opera di Pier Luigi Nervi, il
Palazzo del Lavoro a Torino, e una di Tony Garnier, il
Macello di Lione.
Come intorno a un tavolo anatomico, le singole opere
sono state analizzate avvicinandosi progressivamente
alle viscere del corpo esaminato.
E tanto più importante sembra essere la questione
dell’analisi degli edifici della storia, quella vicina e quella
lontana, perché i problemi affrontati nel comprendere le
ragioni delle architetture sono gli stessi che si affrontano
in ogni progetto di architettura, dove ai diversi perché
che il progetto pone deve essere data una nuova,
fondata, compiuta risposta.
MCL, RN
8
Anatomia di un edificio
Massimo Fortis
Agli inizi degli anni Ottanta un redattore della rivista
londinese 9H mi consigliò di leggere il breve saggio di
analisi che Philippe Panerai aveva dedicato alla Maison
Cassandre di Auguste Perret. Un testo del 1975,
pubblicato inizialmente su AMC Architecture,
Mouvement, Continuité e riproposto nel 1982 sulla
rivista appuntita che si era prefissa lo scopo di riportare
l’attenzione sugli aspetti propri del progetto di
architettura nella prospettiva di costruire le premesse
per una rinnovata capacità di giudizio.
Il breve saggio, corredato dai disegni essenziali e da
schemi grafici interpretativi, proponeva una descrizione
per gradi dell’edificio attraverso un ordine semplice di
questioni:
dati storici essenziali;
situazione;
distribuzione;
organizzazione spaziale (comprensiva delle scelte
strutturali);
linguaggio formale;
retorica.
Nulla di particolarmente sofisticato, se vogliamo, ma
utile sul piano didattico per mostrare come si può
comprendere un edificio attraverso un’operazione di
smontaggio e rimontaggio, nel saper vedere come le
varie componenti del progetto si ricompongano e si
necessitino nell’unità architettonica. Ma il pregio
dell’esercizio descrittivo stava nell’essere rimasto, per
così dire, sul pezzo, cioè di avere tratto dall’oggetto in
esame le informazioni necessarie per comprenderne la
genesi, il processo di scrittura, le qualità formali, nonché
le contraddizioni nascoste nel lavoro di Perret. Senza
appoggiarsi a un apparato documentale sistematico e
senza sovra-imporre interpretazioni critiche estranee
alla constatazione dei fatti presenti. Come se lo studioso
avesse ripercorso dall’interno, nel farsi di un’opera, le
fasi e i dubbi del progettista.
Normalmente gli studi condotti nell’ambito disciplinare
si occupano di ricostruire le condizioni e le scelte
decisionali, l’histoire d’un bâtiment. Qui si tratta di
ripercorrere la logica interna che ha presieduto alla
stesura di un progetto.
Oltre alla comprensione delle relazioni mereologiche che
9
regolano gli equilibri tra le parti e il tutto, ha senso
capire come i diversi sottoinsiemi tecnico-disciplinari forma/funzione/struttura - trovino una consonanza nel
processo di accordatura, diciamo così, dell’organismo
edilizio.
In questo senso la dissezione anatomica dell’edificio
diventa campo di addestramento per l’apprendista
architetto al fine di capire la concatenazione delle varie
componenti che agiscono sulla messa a punto di un
manufatto, ma, soprattutto, per ri-costruire dall’interno
la sintesi che si dà nella forma finale raggiunta.
Quasi a mimare in vitro il processo di scrittura
progettuale che si estende alla sua realizzazione
materiale. Un dispositivo didattico che si affianca a
quello tradizionale del rilievo e che trova una sua
ricaduta manuale, ma tutt’altro che banale, nella
realizzazione della maquette.
Sin qui prevale una finalità applicativa, non priva di
risvolti pedagogici: il metodo - learning from the work è dettato da un consapevole ricorso all’empiria: vale a
dire fondato sull’esperienza diretta e sulla conoscenza
approfondita della cosa, sospendendo per il momento
l’esercizio di ulteriori coloriture critiche. Una sorta di
conoscenza intima dell’opera, colta nella sua condizione
materiale, che accomuna il lavoro dell’autore al percorso
di formazione dell’architetto nella ricerca di strumenti
per operare.
Ciò non toglie che siano possibili e praticate altre
metodiche analitiche che spingono l’indagine esegetica
su un piano di interpretazione critica più sofisticata,
talvolta programmaticamente tendenziosa, oppure
sviluppata filologicamente su approfondimenti specifici
e dati documentali. Così come si affacciano, nell’ambito
della ricerca teorica, studi su edifici che impiegano
ottiche provenienti da altre discipline. Si veda, ad
esempio, il lavoro condotto da Iñaki Abalos nel suo libro
La buena vida, dove un gruppo di case d’autore viene
interpretato alla luce di grimaldelli filosofici. O ancora
l’operazione di ekphrasis che sembra appassionare la
cultura contemporanea della critica architettonica nel
descrivere lo spazio architettonico attraverso sguardi
provenienti da altre forme di arti visive o letterarie.
Così Giuliana Bruno nel suo Pubbliche intimità.
Architettura e arti visive, dove lo sguardo privilegiato è
quello del cinema: «Lo spettacolo della lezione di
anatomia mostra un impulso analitico, un’ossessione
per il corpo, che viene sottoposto a atti di
smembramento. Tale desiderio analitico è presente nello
stesso linguaggio del cinema, È inscritto nella sua
costruzione semiotica, nel suo découpage (come la
parola stessa connota, la “dissezione” della narrazione in
10
fotogrammi e sequenze), nelle sue tecniche di inquadratura e nel suo metodo di montaggio, chiamato alla
lettera “cutting”, tagliare, un intervento di
(de)costruzione dei corpi nello spazio».
In direzione analoga possono essere considerati i
seminari Ekphrasis, promossi da Valerio Adami presso la
Fondazione Europea del Disegno, le cui testimonianze
raccolte negli Annali perseguono l’obbiettivo di
intersecare i tracciati disciplinari della rappresentazione
attraverso la molteplicità dei saperi che segnano la
cultura di un tempo.
L’operazione proposta nei testi qui raccolti, verso i quali
chi scrive ha svolto un modesto ruolo di pronubo
(a partire dal suggerimento del titolo), avendo sollecitato
un gruppo di più giovani colleghi a misurarsi con un
saggio di analisi, descrive uno spettro più concentrato
sul terreno delle discipline che convergono sul progetto
di architettura. Per un confronto, per capire quali
utensili di indagine siano messi in gioco da persone più
o meno della stessa età, che lavorano fianco a fianco
negli stessi spazi, sia pure con sfumature disciplinari
diverse che comprendono la composizione, la storia,
l’urbanistica, la rappresentazione e la progettazione
strutturale. Conta la scelta degli esempi - dove posare lo
sguardo? - ma contano soprattutto il metodo di
scomposizione e gli apparati strumentali messi in gioco
da ciascuno. In una temperie culturale in cui il quadro
dei riferimenti teorici non è univoco ed è ampio lo
spazio lasciato all’interpretazione individuale più o
meno fondata, ha senso disporre sul tavolo le prove per
comprendere, al di là delle eterogeneità delle scale e dei
tagli critici, quali siano le regole del montaggio e le
istruzioni per l’uso. Alla fine ciò che conta è dare ascolto
alle ragioni degli oggetti.
11
La costruzione del nuovo centro:
Les Gratte-Ciel a Villeurbanne
Francesca Bonfante
Con la legge Cornudet del 19191, in Francia, vengono
elaborati numerosi plans d’aménagement et d’extension,
progettati per la maggior parte da architetti di formazione
beaux arts. Tra gli assunti fondamentali vi è l’unità fra
architettura e città, espressa attraverso lo strumento della
“composizione urbana”.
I primi interventi di una certa portata vengono sperimentati
nelle colonie (in particolare nel Protettorato del Marocco, a
Casablanca e Rabat) e successivamente in Francia: a Reims,
Lione, Lille, Tolone, Marsiglia, ecc2. Nonostante prima
dell’inizio della Seconda guerra mondiale vengano
approvati ben 273 piani urbanistici, la maggior parte di essi
resta sulla carta, mentre il carattere prevalente dei processi
di urbanizzazione rimane la lottizzazione unifamiliare a
villini.
Per altro verso, nelle periferie urbane, in forte crescita, le
Municipalità, soprattutto quelle orientate a gauche,
svolgono un ruolo determinante, favorendo la ricerca di
nuove tipologie architettoniche per la costruzione di
residenze ed edifici pubblici (a Villejuif, Drancy, Suresnes,
Boulogne-Billancourt, Lione, Grenoble).
In questo panorama, si stacca il nuovo centro dei
Gratte-Ciel di Villeurbanne, promosso dall’Amministrazione
municipale. Si tratta di un progetto unico e inusuale per la
capacità di concentrare in un intervento unitario sia le
residenze popolari, sia le principali attrezzature collettive
municipali proprio attraverso la “composizione urbana”.
Un’opera condotta collettivamente dall’uomo politico, il
sindaco Lazare Goujon, dall’ingegnere, il direttore dei servizi
municipali Jean Fleury, e dagli architetti, Morice Leroux e
Robert Giroud, che prefigura i cantieri di produzione di
massa del periodo immediatamente successivo la
Ricostruzione, segnando però differenze importanti.
Infatti, mentre a Villeurbanne la costruzione del nuovo
centro avviene attraverso un’elevata sperimentazione
tipologica e figurativa, la successiva politica dei grands
ensembles avviata in Francia alla metà degli anni
Cinquanta è subordinata ai processi della prefabbricazione
pesante che condizionano rigidamente la libertà di ricerca
architettonica. Nel 1958 la creazione delle ZUP (Zone à
Urbaniser en Priorité), integrata da una politica di vasta
acquisizione fondiaria alla periferia delle città, inaugura l’era
dell’urbanistica “colpo su colpo”3. Tale politica viene
12
13
nella pagina accanto
Morice Leroux, Prospettiva
aerea dei Gratte-Ciel,
Villeurbanne, s.d.,
pubblicata su
“L’Illustration”, 30 aprile
1932 (fondo Jules Sylvestre,
Bibliothèque municipale de
Lyon).
predecessori non avevano previsto un’evoluzione così
rapida; il risultato è un’agglomerazione caotica, senza piano
d’insieme, una città mal fatta sviluppata a caso per interessi
privati, dove ciascuno ha costruito a suo modo e tracciato
strade a sua fantasia. È tempo di reagire se vogliamo che la
Villeurbanne di domani sia una città razionalmente
organizzata. (...) Sia dal punto di vista igienico che da quello
estetico7”. Forte dell’indipendenza amministrativa e
politica8 Jules Grandclément avvia una politica urbana di
ispirazione sociale destinata a contrastare gli effetti negativi
delle deficienze del liberismo economico in materia di
attrezzature pubbliche e di alloggi popolari.
Les Gratte-Ciel,
Villeurbanne, veduta aerea,
anni Trenta.
realizzata senza una visione complessiva e raramente viene
inserita in un quadro di pianificazione urbana.
Il caso studio di Villeurbanne, dunque, è particolarmente
significativo sia per le modalità di attuazione, sia per i
contenuti innovativi del programma funzionale e del
moderno disegno urbano.
Prima fase: da borgo agricolo a periferia industriale
Per comprendere il carattere innovativo e dirompente del
nuovo centro dei Gratte-Ciel nel paesaggio di Villeurbanne4,
conviene soffermarsi brevemente sulla trasformazione del
Comune nel periodo dell’industrializzazione.
A partire dalla metà dell’Ottocento, come conseguenza
dello sviluppo di Lione sulla riva sinistra del Rodano e grazie
agli interventi di bonifica volti a risanare i terreni a nord del
capoluogo frequentemente esondati dal fiume, Villeurbanne
viene interessata da una forte urbanizzazione
trasformandosi da borgo agricolo in periferia industriale.
L’accelerazione della crescita industriale porta con sé una
crescita demografica rilevante e costante5. Il Comune si
estende intorno alle fabbriche, nei quartieri residenziali,
dotati di scarsi servizi, o nelle baracche, secondo uno
sviluppo urbano incontrollato e precario6. Il paesaggio è
quello della “città-fabbrica”, escrescenza satellite del centro
di Lione.
Il medico e sindaco Jules Grandclément così descrive la
città: “Villeurbanne è cresciuta prodigiosamente (...) I nostri
14
Seconda fase: da periferia industriale a città
È però Lazare Goujon, sindaco dal 1924 al 1934, l’artefice
della trasformazione di Villeurbanne da periferia a vera città.
Nel suo programma elettorale egli dichiara in termini
pedagogici e pragmatici la volontà di migliorare le
condizioni di vita dei cittadini attraverso l’utilizzo
economico e razionale delle risorse comunali. Oltre alle
numerosissime attrezzature sociali9, la nuova stagione
municipale è incardinata su due progetti che modificano
radicalmente la struttura urbana: il plan d’aménagement,
d’embellissement et d’extension e il quartiere centrale Les
Gratte-Ciel.
Il piano (1926-1931) prolunga e rettifica traiettorie già
esistenti nella maglia viaria comunale ed extracomunale,
facilitando le relazioni fra le diverse parti della città, allora
isolate fra di loro, ma soprattutto prevede il nuovo
insediamento dei Gratte-Ciel in una zona di circa 20.000
mq., rilevata a seguito di una lungimirante politica di
acquisto fondiario. L’intreccio fra il progetto del nuovo
centro e il piano è assai stretto, l’uno condiziona l’altro e
viceversa. Il progetto comprende un apparato normativo di
grande interesse (nuovo regolamento viario, nuovo
regolamento sanitario, un’ordinanza del sindaco sulla loro
applicazione) e un dossier intorno alle condizioni
geografiche, economiche, sociali e igieniche del Comune.
Congiuntamente al piano la municipalità adotta anche un
regolamento edilizio di grande novità rispetto a quelli
vigenti nelle altre città francesi10. In particolare si prevede la
possibilità di una maggiore crescita in altezza degli edifici
in rapporto alla larghezza della strada. Proprio grazie al
nuovo regolamento sarà possibile progettare arterie
monumentali delimitate da grattacieli.
Terza fase: la rinascita nell’attualità
L’intervento riscosse all’origine una grande attenzione da
parte della stampa nazionale e internazionale11, per poi
progressivamente cadere nell’oblio ed essere riscoperto
dalla critica, soprattutto francese, solo a partire dagli anni
15
Les Gratte-Ciel,
Villeurbanne, veduta aerea,
1991.
Settanta12. Allo scadere del contratto di enfiteusi13,
l’ensemble è tornato di proprietà comunale e grazie
all’iniziativa del sindaco Gilbert Chabroux, viene istituita
qualche anno più tardi per tutta l’area dei Gratte-Ciel una
Zone de protection du patrimonie architectural, urbain et
paysager (ZPPAUP)14, di solito riservata ad ambienti naturali
o a edifici isolati. Il progetto di riabilitazione, oltre alla
salvaguardia del patrimonio architettonico esistente, ha
esteso la nozione di centro a un’area più vasta incardinata
proprio sui Gratte-Ciel, per confermarne il ruolo dominante
nel nuovo paesaggio della periferia lionese, pesantemente
trasformato dall’urbanizzazione galoppante degli anni
Sessanta e Settanta15.
L’intervento esalta l’eccezionalità dell’ensemble urbano dei
Robert Giroud, Municipio,
Villeurbanne, 1930-1934, la
hall principale
(fondo Jules Sylvestre,
Bibliothèque municipale de
Lyon).
Gratte-Ciel e ne dimostra ancora l’attualità nella città
contemporanea.
Il programma funzionale, l’impianto e gli elementi
chiave della composizione urbana
Il nuovo centro della città comprende 1.500 alloggi, negozi,
il Palazzo del Lavoro con annessi ufficio d’igiene, teatro,
piscina, università proletaria e locali per le associazioni e il
sindacato, il nuovo Municipio con uffici amministrativi,
biblioteca, museo e commissariato di polizia. Il piano di
insieme e il Palazzo del Lavoro sono realizzati da Morice
Morice Leroux, Les GratteCiel, Villeurbanne, gruppo
di alloggi 1, pianta,
pubblicata su
“La Construction Moderne”,
8 luglio 1934.
Morice Leroux, Les GratteCiel, Villeurbanne, gruppi di
alloggi 1 e 2, sezione, 1931,
pubblicata su
“La Construction Moderne”,
8 luglio 1934.
16
17
Robert Giroud, Municipio,
Villeurbanne, 1930-1934,
veduta degli anni 1950-1960
(soc. L’Avenir, Archives
municipales Villeurbanne,
Le Rize).
Morice Leroux, Palazzo del
Lavoro, Villeurbanne,
progetto definitivo, 1932
(fondo Jules Sylvestre,
Bibliothèque municipale de
Lyon).
Leroux, il Municipio da Robert Giroud. L’insediamento
Gratte-Ciel è la realizzazione concreta del manifesto
programmatico di Goujon: realizzare un nuovo quartiere per
le generazioni future, incarnazione stessa della modernità;
creare un luogo di massima concentrazione delle attività
amministrative, sociali, commerciali e del tempo libero;
rispondere al problema dell’alloggio costruendo nuovi
appartamenti a prezzi contenuti; reagire al problema della
disoccupazione a seguito della crisi del 1929 con un grande
cantiere pubblico; stabilire un nuovo equilibrio fra Lione e la
periferia operaia, riaffermando la propria autonomia nella
gestione del patrimonio pubblico. L’intervento, infatti, è
anche la risposta alla dinamica politica municipale
perseguita da Edouard Herriot e realizzata da Tony Garnier
a Lione a partire dai primi anni del Novecento16. La
questione dell’abitazione sociale, di solito relegata ai
margini dell’insediamento, diviene il cuore pulsante del
nuovo centro innestato nel dispositivo comunale urbano e
costituisce, per il suo carattere monumentale, un punto di
riferimento nel paesaggio, da vicino e da lontano. Per far
fronte all’operazione economica, lanciata nel 1929 in
condizioni assai sfavorevoli per la sospensione da parte
dello Stato francese della maggior parte dei finanziamenti
HBM, Goujon si avvale di una società indipendente sotto il
controllo della municipalità e di un apparato legislativo17
che consente una struttura finanziaria e giuridica al passo
con il suo ambizioso programma18. Il nuovo quartiere viene
inaugurato nel giugno del 1934 da feste che dureranno 20
giorni, mentre nel Palazzo del Lavoro si alternano la
Conferenza nazionale delle municipalità socialiste e un ciclo
di operette.
L’impianto generale si organizza attorno a un’ampia piazza,
delimitata a est e a ovest da quattro gruppi residenziali a
redans19: su di essa si fronteggiano il Palais du Travail, a
rappresentare il mondo del lavoro, e l’Hôtel de Ville in stile
18
“neoclassico”, a rappresentare la solennità del potere
repubblicano e democratico. Al centro della piazza due
grandi bacini d’acqua quadrati sono contrassegnati negli
angoli esterni solo da quattro piedistalli sormontati da
piccole palme per consentire la completa percezione dei
due edifici pubblici.
A contrappunto della torre municipale, due torri residenziali
alte quasi 60 metri segnano l’accesso all’asse monumentale
prospettico, la rue Henri Barbusse, lungo il quale si
dipanano altri quattro blocchi residenziali a redans.
Un impianto fortemente simmetrico, sottolineato dalle linee
orizzontali delle strade e dalle linee verticali degli edifici.
I blocchi residenziali, a prima vista simili, sono in realtà
differenti e adeguati alle caratteristiche del suolo. I blocchi 1
e 2, alti 38 metri circa, posti su un terreno largo e vergine al
centro del complesso, sono a doppio redan di profondità
diversa; i blocchi 3 e 4, alti 36 metri circa, collocati a ovest
della piazza, per la presenza sul retro di edifici bassi, hanno
un unico redan assai profondo affacciato su strada; i blocchi
5 e 6, alti 31 metri circa, posti all’inizio di rue Barbusse,
affiancati a edifici preesistenti su più piani, presentano un
redan poco profondo; infine, i blocchi 7 e 8, a est della
piazza, previsti con un solo redan, non verranno realizzati.
L’ensemble si scompone in gruppi, ogni gruppo in cellule
corrispondenti alle entrate; le cellule di ciascun gruppo
comunicano fra di loro tramite strade interne, quasi fossero
traboules razionalizzati20.
Nonostante il variare dell’altezza degli edifici e del numero
dei gradoni, l’apparente unità dell’insieme è sapientemente
ottenuta tramite l’arretramento del primo gradone sempre
all’altezza dell’ottavo piano e l’omogeneità del basamento
19
Morice Leroux, Palazzo del
Lavoro, Vileurbanne,
progetto definitivo, sezione
sul teatro, il ristorante e la
piscina, 1932
(Archives municipales
Villeurbanne, Le Rize).
Morice Leroux, Palazzo del
Lavoro, Villeurbanne,
interno della piscina,
1932-34
(fondo Jules Sylvestre,
Bibliothèque municipale de
Lyon).
destinato ad attività commerciali. Fanno eccezione solo le
torri, uniformi fino al 14° piano.
La sezione sugli immobili di 11 piani - progettati da Leroux
- disegna una curva teorica che organizza
matematicamente l’andamento piramidale delle terrazze.
Visto dall’alto l’insieme chiaro e luminoso assume un
aspetto mediterraneo, forse dovuto al soggiorno in Marocco
del progettista. Nonostante negli anni Trenta i requisiti di
comfort e d’igiene si siano particolarmente sviluppati, gli
alloggi dei Gratte-Ciel, il cui taglio dipende anche dalla
profondità del redan, risultano all’avanguardia nell’ambito
delle abitazioni sociali. Infatti oltre alle dotazioni correnti
come acqua, gas, elettricità, bagni, gli appartamenti, da 2 a
7 locali, sono dotati di ascensore, montacarichi,
riscaldamento centralizzato, acqua calda, cucina elettrica e
scarico dei rifiuti.
Nel complesso, innalzato con un’ossatura metallica, Leroux
combina edifici in altezza, redans e gradoni, recependo
alcune istanze emerse in seno al Movimento Moderno e nel
dibattito degli architetti e urbanisti francesi. Egli riprende,
con evidenti varianti, il progetto del boulevard à redans per
Parigi di Eugène Hénard, elaborato a seguito del previsto
smantellamento della cinta delle fortificazioni che rendeva
improvvisamente disponibile all’edificazione una fascia
lunga 33 chilometri e larga 120 metri21; redans che
Le Corbusier proporrà in diversi progetti non realizzati22.
Inoltre reinterpreta, nella parte sommitale degli edifici
residenziali, il sistema di costruzioni a gradoni sviluppato da
Henri Sauvage, insieme a Charles Sarazin, per le maisons du
rapport - maisons ouvrières a partire dal 1909 in numerosi
progetti e realizzazioni23.
Fra la concentrazione in altezza, strenuamente difesa dallo
stesso Le Corbusier al Terzo Congresso dei CIAM del
193024, e la dispersione delle molte città-giardino realizzate
nelle banlieue, Leroux e Goujon optano per la prima,
ottenendo la massima densità in funzione di una ridotta
disponibilità fondiaria. Tutti questi elementi concorrono alla
configurazione di uno spazio urbano altamente condensato
e disegnato secondo i principi propri della composizione
monumentale classica francese.
Il processo originale che conduce alla realizzazione dei
Gratte-Ciel deve la sua forza a un’idea innovativa, ossia il
Palazzo del Lavoro25, ispirato nel programma alla Maison du
Peuple di Gand, centro di attività intellettuali, artistiche e
morali, espressione di un’idea culturale e politica,
indispensabile allo sviluppo democratico di una città, dove
il lavoro deve far sentire tutta la sua forza e vitalità.
Morice Leroux, vincitore del concorso con il motto Sous le
ciel de Villeurbanne, nel progetto definitivo sopraeleva le ali
laterali di due piani e rimaneggia il corpo centrale al fine di
accentuarne la verticalità. All’esterno l’edificio forma con i
20
complessi residenziali un insieme stilisticamente
omogeneo. Il corpo centrale e le ali laterali più basse sono
trattati come volumi puri forati da grande vetrate. La parte
centrale, ritmata dalla sequenza pensilina, finestre,
tamponamento pieno, è delimitata dalle aperture continue
verticali degli elementi di risalita sormontate da torrette a
gradoni, a stabilire un dialogo serrato con la torre
municipale. All’interno il programma funzionale prevede
nell’ala est il dispensario d’igiene e di assistenza sociale,
nell’ala ovest le sale di riunione e gli uffici delle società
locali (artistiche, sportive, di mutuo soccorso, ecc.), al centro
la piscina, il circolo municipale a livello della piazza con sale
per ricevimenti, il teatro per 1.500 posti26, sovrapposti dal
basso verso l’alto in una sezione complessa.
La nuova sede del Municipio, come previsto dal bando del
concorso vinto da Robert Giroud27, doveva rispettare “lo
spirito moderno che presiede all’attuale attività
dell’amministrazione municipale”.
Giroud propone un impianto simmetrico. Al centro un
ampio passaggio porticato, non realizzato, sormontato da
una torre di 65 metri, doveva mettere in comunicazione
l’asse principale e la piazza. Secondo un trattamento
omogeneo, il ritmo delle facciate è determinato da
imponenti colonne scanalate in cemento armato,
intervallate, quasi per contrasto, da sottili serramenti
metallici abbinati a vetro smerigliato. Verso la piazza il
frontone accentua l’andamento orizzontale della facciata,
mentre verso la rue Barbusse la torre, integrata al fronte, ne
esalta la verticalità. Alla monumentalità dell’esterno
corrisponde all’interno un ambiente dove aria e luce
penetrano senza ostacolo; al posto dei consueti “corridoi
interminabili sui quali si aprono porte misteriose che
assoggettano a spingere con timidezza nel timore di essere
rimandati verso una porta ancora più introvabile”28, il
rapporto fra spazi serventi e spazi serviti viene declinato nel
pieno rispetto del pubblico. Al primo piano intorno a una
grande hall centrale sono disposti gli uffici dei servizi
amministrativi e dell’esattoria municipale, separati solo da
pareti vetrate. Nella torre, chiamata anche donjon - torrione
- in riferimento simbolico alla torre medioevale, come se il
municipio rappresentasse per la città il carattere di una
fortezza protettrice, si trovano l’ufficio del sindaco con
balcone d’onore e le sale d’esposizione dell’industria locale,
un embrione di museo regionale. Nella sala dei matrimoni,
posta al secondo piano e separata dalla sala del consiglio
solamente da un paramento in seta, troneggia un organo
Cavaillé-Coll: per la prima volta in Francia i matrimoni civili
assumono il carattere di vere cerimonie laiche.
Infine, nel 1933 l’amministrazione incarica Robert Giroud e
Morice Leroux per il progetto di uno stadio per 12.000
spettatori, su un terreno messo in vendita dalla società
21
Robert Giroud, Morice
Leroux, Stadio,
Villeurbanne, facciata
principale, 1933, pubblicata
in Lazare Goujon, “Le crime
que j’ai commis?”, s.d.
Schwarz Haumont a est dei Gratte-Ciel, che doveva
completare le dotazioni comunali destinate allo sport e al
tempo libero. Il programma prevede uno stadium a
vocazione multipla comprensivo di velodromo coperto,
pista di schettinaggio, pista di pattinaggio, hockey su
ghiaccio, ring per la boxe, ecc., un ristorante e una brasserie.
Il fronte principale è ritmato dalla sequenza di grandi
vetrate e alte colonne sormontate da giganteschi
orifiamma29. Un sistema di scale e vomitori permette
l’accesso e l’evacuazione in modo facile e rapido;
nell’invaso del campo di gioco una piattaforma mobile
consente lo svolgimento di manifestazioni culturali. I lavori
verranno interrotti nel 1935 da Camille Joly, successore di
Lazare Goujon e l’edificio, per metà realizzato, sarà demolito
nel 1962 per far posto al Palazzo dello sport.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Note
1. La legge Cornudet del 14 marzo 1919, sotto l’urgenza degli interventi di
ricostruzione delle città devastate, impone ai Comuni superiori ai 10.000
abitanti e indistintamente a tutti i Comuni del Dipartimento della Senna
piani “d’aménagement, d’embellissement et d’extension”. La legge viene
poi modificata da quelle del 5 dicembre 1923, del 15 maggio e del 19
luglio 1924, quest’ultima a precisare la natura dei documenti da produrre.
2. Cfr. Enrico Bordogna, “Ville Radieuse”, “embellissement”, città come
opera d’arte collettiva, in “Hinterland”, n. 28, dicembre 1983-marzo 1984,
pp. 30-39.
3. I terreni delle ZUP vengono scelti in piena periferia per alloggiare al
minor costo la manodopera operaia e il finanziamento viene accordato
solo a condizione di adottare un determinato tipo di produzione
esclusiva dell’una e dell’altra impresa sostenuta ufficialmente dallo
Stato. Al posto delle municipalità, lo Stato assume a scala nazionale il
ruolo di costruttore. Cfr. Jean-Claude Delorme, Francia: origine beaux
arts della pianificazione urbanistica; classicismo, filologia, razionalismo
nella ricostruzione; la crisi attuale della pianificazione urbanistica, in
“Hinterland”, n. 1, dicembre 1977-gennaio 1978, pp. 26-31.
4. Il Comune ha una superficie di 1537 ettari, delimitata a nord per 2 km
dal fiume Rodano che lo separa dai Comuni di Caluire e Cuire, a est dal
Comune di Vaulx-en-Velin, a sud dal Comune di Bron, a ovest dal
Comune di Lione.
5. La popolazione passa da 6.000 abitanti nel 1851 a 82.000 nel 1931.
6. Cfr. Marc Bonneville, Naissance et métamorphose d’une banlieu
ouvrière Villeurbanne. Processus et formes d’urbanisation, Presses
Universitaires de Lyon, Lione 1978.
7. Jules Granclément, Discorso tenuto al consiglio municipale il 24
settembre 1920.
8. Fra il 1842 e il 1913 vi sono cinque tentativi da parte del Comune di
Lione di annettere il Comune di Villeurbanne. Villeurbanne difende
strenuamente la propria autonomia. Cfr. Bernard Meuret, Le socialisme
municipal, Villeurbanne 1880-1982: Histoire d’une différenciation,
éditions PUL, Lione 1982.
9. Cfr Lazare Goujon, Villeurbanne 1924-1934 dix ans d’administration,
Villeurbanne 1934.
10. Cfr. Anne-Sophie Clémençon, La parenthèse réglementaire, in AA.VV.,
Les Gratte-Ciel de Villeurbanne, Les Éditions de l’Imprimeur, Besançon
2004, pp. 122-133.
11. Il progetto viene pubblicato, fra gli altri, su: “La Construction moderne”,
n. 41, 1934; “L’Architecture d’Aujourd’hui”, n. 7, 1934; “Arkhitektoura za
roubejom”, n. 1, 1935.
12. Cfr. Dominique Boudier, Didier François, Michel Raynaud, Villeurbanne
22
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
1924-1934 un centre urbain, in “Architecture, mouvement, continuité”,
n. 39, 1976.
Il contratto è scaduto nel 1989. Sulle modalità dell’enfiteusi si vedano le
note 17 e 18.
La ZPPAUP viene istituita nel 1993.
Cfr. Joëlle Bourgin, Protection, réhabilitation, perspectives, in Les
Gratte-Cile de Villeurbanne, cit., pp. 212-219 e Gabriel Ehret, Les GratteCiel de Villeurbanne à la conquête du grand large, in “L’Architecture
d’Aujourd’hui”, n. 358, 2005, pp. 66-71.
Cfr. Tony Garnier, Les Grands Travaux de la Ville de Lyon, Ch. Massin,
Parigi 1919.
I testi di legge a sostegno dell’operazione sono i decreti del 5 novembre
e del 31 dicembre 1926, le leggi del 28 dicembre 1926, 28 dicembre 1928,
17 febbraio 1930 riguardanti l’enfiteusi e la partecipazione dei Comuni a
imprese private che perseguano il miglioramento delle condizioni
igieniche e sanitarie dell’insediamento.
Per salvaguardare la proprietà municipale e conservare in equilibrio le
finanze comunali, Goujon opta per un affitto in enfiteusi di sessanta anni
tra la città e un consorzio, il Comptoir d’études et de travaux urbains
(CETU), che crea una società anonima, la Societé villeurbannaise
d’urbanisme (SVU). Cfr. Édith Traverso, Une des premières sociétés
d’économie mixte, in AA.VV., Les Gratte-Cile de Villeurbanne, cit.,
pp. 148-151 e idem, Les Gratte-Ciel de Villeurbanne, in “Travaux de
l’Institut d’Histoire de l’Art de Lyon”, n.11, giugno 1988, pp. 111-124.
Il termine redan indica un impianto “a greca”.
A Lione tra il Rodano, la place des Terraux e la chiesa di St.-Polycarpe si
estende il quartiere dei traboules, passaggi coperti fino a quattro piani
sovrapposti che permettono di passare di via in via sempre al coperto.
Nell’Ottocento vi vivevano 30.000 canuts, artigiani della seta. Cfr. René
Dejean, Traboules de Lyon. Histoire secrète d’une ville, Éditions des
Traboules, Brignais 2000.
Cfr. Eugene Henard, Études sur le trasformations de Paris. Les
Alignements brisés. La question des fortifications et le boulevard de
Grande-Ceinture, fasc. 2, 1903, ora in Eugéne Hénard (a cura di
Donatella Calabi e Marino Folin), Alle origini dell’urbanistica. La
costruzione della metropoli, Marsilio, Venezia 1972, pp. 61-79.
Per esempio il Piano per una città di tre milioni di abitanti, 1922, e il Plan
Voisin, 1925.
Henri Sauvage dal 1909 al 1932 si occupa del sistema di costruzioni a
gradoni di cui depositerà il brevetto il 23 gennaio 1912. Le realizzazioni
più significative sono la casa in rue Vavin a Parigi, 1912-13 e l’edificio
HBM in rue des Amiraux a Parigi, 1913-30. Cfr. Jean-Baptiste Minnaert,
Henri Sauvage, Éditions NORMA, Parigi 2002.
Il tema del Terzo Congresso dei CIAM del 1930 a Bruxelles è “Metodi
costruttivi razionali”.
Il concorso è indetto nell’ottobre del 1927; nel gennaio 1930 si tiene il
concorso per l’Hôtel de Ville; nell’agosto 1930 viene presentato il “plan
d’extension” che comprende, oltre agli edifici pubblici, alloggi ad affitto
moderato e l’apertura di nuove strade, seguito nel 1931 dal “plan
d’ensemble”. Per la cronologia completa cfr. Édith Traverso, Chronologie
générale, in AA.VV., Les Gratte-Cile de Villeurbanne, cit., pp. 226-227.
Nel 1957 Roger Planchon, su invito del sindaco Étienne Gagnaire,
prende la direzione del teatro municipale che diviene Théâtre de la Cité,
rivolto a un pubblico popolare. Nel 1963 verrà promosso a Centro
drammatico nazionale e nel 1972 prende il marchio TNP, Théâtre
Nationale Populaire.
Robert Giroud si è formato all’École régionale d’architecture di Lione
(atelier Tony Garnier) e all’École del Beaux-arts di Parigi (atelier Laloux)
ed è sostenitore di una visione monumentale classica.
Cfr. Jaen Fleury, Le centre neuf de Villeurbanne, conferenza tenuta a
Marsiglia, 1934.
L’orifiamma è un gonfalone di seta rossa a due o tre punte, con stelle
ricamate e fiamme d’oro dipinte, anticamente insegna dei re di Francia.
23
Il Quartiere sperimentale VIII Triennale QT8
Laura Montedoro
“…Gli esempi più importanti…”
Il QT8 - Quartiere sperimentale VIII Triennale - rappresenta
un’esperienza di indagine diretta sul tema dell’abitare
unica in Italia. L’aggettivo “sperimentale” si riferisce
soprattutto all’aver reso stabile e permanente l’attività
legata alle esposizioni della Triennale, trasformando, a
partire dal 1947, una parte a nord-ovest della città in un
laboratorio di sperimentazione2 continua sul tema della
“casa”, su modello delle precedenti esperienze europee del
Weissenhof di Stoccarda, nel 1927, e del Werkbund
Siedlung di Vienna, nel 1932.
A ciò si aggiungono ulteriori motivi di interesse: la ricerca
sul rinnovamento delle tecniche di cantiere, con la verifica
sui metodi di industrializzazione e prefabbricazione edilizia,
e l’esplorazione sulla varietà tipologica.
Anche “l’invenzione” di un paesaggio è motivo di
eccezionalità: non solo nella relazione tra insediamento
urbano e natura (di fatto un “quartiere giardino”) ma anche,
e soprattutto, per la creazione di una collina artificiale - il
Monte Stella - che dà carattere e inconfondibile identità a
uno dei più importanti ingressi alla città (la via Scarampo
collega, infatti, Milano alle autostrade per i Laghi e alla
Torino-Venezia), ponendo il quartiere in relazione con
l’intero comparto urbano e con la scala territoriale.
Assai innovativa, e irripetibile, è anche la formula
istituzionale utilizzata per la realizzazione del Quartiere.
Nel 1945 viene nominato un Commissario Straordinario
della VIII Triennale, carica affidata all’architetto Piero
Bottoni che, in questo ruolo, cura la regia dell’operazione
per molti anni.
Ma andiamo con ordine.
Urbanistica, architettura, paesaggio
Il quartiere visibile oggi è l’esito di tre diversi progetti
succedutisi nell’arco di sette anni e di numerosi “incidenti”,
rallentamenti, varianti3. La prima ipotesi - datata 1946-47 e
firmata dallo stesso Bottoni con Cerutti, Gandolfi, Morini,
Pollini, Pucci, Putelli - era in parte diversa da quanto poi
realizzato, sebbene lo schema principale sia rimasto fedele
a quanto qui prefigurato: il quartiere si compone di quattro
nuclei residenziali, ciascuno dei quali caratterizzato
dall’adozione di un tipo edilizio prevalente, ma sempre
composito (si vedano, ad esempio, l’edilizia a bassa densità
24
25
L’architettura dei quartieri […]
non è andata oltre l’importante
proposta di Bottoni con il QT8 e
il Monte Stella; così questi due
fatti rimangono certamente come
gli esempi più importanti, e
senza seguito, della situazione
milanese.
Aldo Rossi1
nella pagina accanto
Piero Bottoni, Ezio Cerutti,
Vittorio Gandolfi, Mario
Morini, Gino Pollini, Mario
Pucci e Aldo Putelli, QT8
(Quartiere sperimentale
della ottava Triennale) a
Milano, primo progetto,
1945-48 (realizzazione
parziale), planimetria
(Archivio Piero Bottoni,
Politecnico di Milano; d’ora in
avanti APB).
Piero Bottoni, Ezio Cerutti,
Vittorio Gandolfi, Mario
Morini, Gino Pollini, Mario
Pucci e Aldo Putelli, QT8
(Quartiere sperimentale
della ottava Triennale) a
Milano, primo progetto,
1945-48 (realizzazione
parziale), plastico (APB).
del “villaggio dei reduci”, con case a due piani, unifamiliari,
a schiera o binate); le case in linea di lunghezza minima,
alte quattro piani, sulle aree di margine tra i settori; l’area
delle “case multipiano”, in gran parte lunghe ottanta metri
e alte otto piani; il nucleo prevalentemente di uso pubblico
(oggi tutto a parco) caratterizzato da spazi aperti per il
tempo libero, un laghetto e un grande Centro Civico
presidiato da un’alta “casa collettiva” (mai realizzati), con
una fascia residenziale di margine verso la via Sant’Elia
(anch’essa non realizzata).
I quattro settori residenziali sono serviti da una rete
stradale dalla chiara gerarchia (strade di collegamento con
il contesto, strade di attraversamento, strade cieche
riservate ai residenti, percorsi esclusivamente pedonali).
È alla confluenza delle due strade di attraversamento che si
progetta il Centro Civico mai costruito, vero cuore pulsante
del quartiere attorno a cui vengono previsti anche altri
servizi. Di quell’intenzione restano solo la Chiesa
parrocchiale di Santa Maria Nascente di Magistretti e
Tedeschi (1947-55), il Mercato Coperto e la Scuola
Elementare di Arrighetti (1954-55).
Questa prima ipotesi guida di fatto la costruzione del
nucleo sud-ovest, il primo a essere edificato, con le casette
per i reduci, anche perché rispondente alla situazione di
grave emergenza abitativa.
Il secondo progetto (1949-50), di Bottoni e Cerutti, porta la
visibile modificazione delle previsioni precedenti per l’area
del parco: la soluzione della collina artificiale appare in
sostituzione del laghetto quale perno della zona per il
tempo libero, ma si tratta ancora di una collina timida.
È nell’ultimo progetto del 1953, redatto dal solo Bottoni, che
la collina diventa “la montagnetta”, come è popolarmente
chiamato il Monte Stella (1953-70); inoltre vi è contenuto
un ampliamento del quartiere nella fascia a nord, con
l’apertura della via Cimabue e il rapporto diretto con il
prolungamento della via Scarampo, dove vengono previste
le “case stellari” (vedi la Prima “Casa stellare”, 1955-57, e la
Seconda “Casa stellare”, 1958-59, progettate dallo stesso
Bottoni).
Tutti e tre i progetti marcano però con decisione un
percorso di continuità con le ricerche razionaliste del
periodo tra le due guerre sul tema dell’abitare e con quanto
aveva maturato l’esperienza dei CIAM (Congressi
Internazionali di Architettura Moderna): edilizia aperta,
rapporto con il verde, orientamento delle unità abitative
secondo principi igienici ottimali (il famoso asse
eliotermico), standardizzazione edilizia. La varietà
tipologica - con “case alte, medie e basse” - era un altro
elemento assunto in modo programmatico per la
composizione dell’insediamento. Con tutta evidenza, una
stretta parentela lega il QT8 ai quartieri autosufficienti
26
teorizzati, e in parte realizzati, nel corso degli anni Trenta e
Quaranta, con la differenza che qui vi è già un’assunzione
problematica del tema dell’isolamento dei nuovi
insediamenti, a cui si cerca di ovviare tramite la previsione
di un collegamento su rotaie (sarà poi, solo nel 1964, la
metropolitana).
Anche il tema del verde è qui oggetto di una riflessione e di
una progettualità sistematiche e preziose: sottratto alla
nozione di generico distanziatore e portatore di salubrità, il
verde si fa paesaggio e la creazione della collina artificiale
sigla questa possibilità con persuasione e disvela
pienamente le potenzialità architettoniche del rapporto
natura-artificio. Non a caso, ancora Aldo Rossi scrive:
«pochi sono i monumenti dell’architettura moderna; pochi
soprattutto quelli che hanno un significato che va oltre la
loro qualità tecnica […]. Certamente due a Milano: il Monte
Piero Bottoni, Ezio Cerutti,
QT8 (Quartiere
sperimentale della ottava
Triennale) a Milano,
secondo progetto, 1949-51
(realizzazione parziale),
planimetria (APB).
Piero Bottoni, Ezio Cerutti,
QT8 (Quartiere
sperimentale della ottava
Triennale) a Milano,
secondo progetto, 1949-51
(realizzazione parziale),
plastico (APB).
27
Stella di Piero Bottoni e la Torre Velasca dei BBPR. Piero
Bottoni […] trasforma un programma in una grande
architettura: il Monte Stella»4.
Sperimentazione e prefabbricazione
Una volta assunta “la casa” quale tema unico per la
Triennale e steso il programma per il quartiere, la necessità
di adottare nuovi modi del cantiere e nuovi procedimenti
costruttivi - soprattutto per dare risposta alla tragica
situazione della ricostruzione - viene fatta propria da
Bottoni e dal Comitato della Triennale quale tema di
sperimentazione permanente. È soprattutto la prima parte
del quartiere a registrare questa attenzione in anni in cui il
Ministero dei Lavori Pubblici e il CNR bandiscono concorsi
finalizzati alla verifica dei metodi di prefabbricazione; dopo
il 1953 questa via verrà progressivamente abbandonata, nel
QT8 ma anche a livello nazionale, per il mutamento del
quadro strategico generale. In particolare, si ricorda il
conflitto con la potente azione del Piano Ina-Casa, che
aveva per sua natura una finalità eminentemente
economica e di risposta alla questione occupazionale, e
solo di riflesso alla domanda di abitazioni «Chiare sono le
finalità del piano: […] usare l’edilizia in funzione
subordinata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livello
preindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccole
imprese. […] Non certo le proposte di innovazione
produttiva implicite […] nel QT8 possono essere funzionali
a tali obiettivi»5. Scelte politiche e necessità economiche
strutturali, perciò, candidano di fatto al fallimento la ricerca
in questa materia, nonostante «l’ambiente della cultura
architettonica milanese esprimesse […] una particolare
attenzione alla sperimentazione di nuovi metodi di
industrializzazione edilizia, tanto da suggerire a Tafuri anche in riferimento al più diretto rapporto dei lombardi
con le avanguardie e con le “utopie” del moderno che della
standardizzazione avevano fatto un’esperienza ineludibile di riconoscere nella via milanese una “proposta
radicalmente alternativa all’organizzazione della
produzione edilizia nell’età della ricostruzione”6 rispetto alla
“via romana”. Di tale “linea, perdente,”7 Bottoni è testimone
privilegiato»8. Tuttavia, la zona del villaggio dei reduci ci
mostra una parte di quella esperienza - tra le pochissime
compiute in Italia in modo sistematico - ed è ben
osservabile nella serie delle otto case di quattro piani (vedi
quella progettata da Mucchi in via Goya, 1947-48), nelle
Due case prefabbricate in via Sant’Elia (1950-55) di Bottoni,
e nella serie delle Casette a schiera o delle monofamigliari
binate (1947). Il progetto di queste ultime, peraltro, si rivela
una straordinaria “palestra” per giovanissimi architetti,
spesso neolaureati, che saranno protagonisti della cultura
architettonica della stagione successiva.
28
Piero Bottoni, QT8
(Quartiere sperimentale
della ottava Triennale) a
Milano, terzo progetto e
successive varianti
esecutive, 1953-1957
(realizzazione parziale),
plastico (Archivio della
Triennale di Milano).
Continuità e innovazione: generazioni in dialogo
Come già anticipato in apertura, non si può non
sottolineare come il QT8 abbia rappresentato un laboratorio
cruciale anche per lo scambio, il confronto e (a volte) il
conflitto tra i diversi soggetti coinvolti. Per quanto
concerne gli architetti, si trovano fianco a fianco
protagonisti del Razionalismo e giovanissimi professionisti,
in uno scambio assai proficuo.
Fulvio Irace sottolinea bene questo aspetto quando mette
in fila alcuni luoghi topici per la formazione di quella
generazione di nuovi professionisti milanesi: l’importante
esperienza dell’MSA (Movimento Studi per l’Architettura),
la redazione della rivista Casabella-Continuità e, appunto, il
cantiere del QT8, dove dalle idee era anche possibile
passare ai fatti. Qui fanno il loro esordio Magistretti, Castelli
Ferrieri, Buzzi, Zanuso, Sottsass jr, ecc. «Si configura
insomma uno scenario critico sostenuto da una fitta trama
di relazioni che propone alle forze più giovani un simbiotico
patto di lavoro, fianco a fianco ai loro maestri»9.
Storia istituzionale
L’iniziativa pubblica e il coinvolgimento attivo di molti
soggetti hanno reso possibile la costruzione del quartiere
modello.
Per quanto attiene l’organizzazione e il coordinamento, gli
attori coinvolti sono: in primo luogo il Comune, proprietario
di quasi tutte le aree interessate, in secondo luogo l’Ufficio
tecnico della Triennale (dopo Centro studi Triennale), poi il
Provveditorato alle Opere Pubbliche, il Genio Civile di
29
Milano, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR),
l’Osservatorio di Brera, e l’Università (di Milano e di altre
città). Per quel che riguarda i finanziamenti dell’operazione,
gli Enti interessati sono la Triennale stessa, il Ministero
dell’Assistenza postbellica e il Ministero dei Lavori
Pubblici, il Comune di Milano, gli Istituti per le Case
Popolari (Ina-Casa, Incis, ecc.), i privati.
In ultimo, in riferimento alla sperimentazione edilizia, sarà
nominata una Commissione edilizia del QT8, per
l’applicazione di una normativa speciale creata ad hoc, il
Ministero dei Lavori Pubblici e il CNR per l’utilizzo di
sistemi di prefabbricazione. La costruzione del QT8 è
pertanto oggetto dell’attenzione di molti Enti e di molte
persone che qui fanno convergere energie importanti,
investendo in un’esperienza che si fa (anche) simbolica per
la stagione epica della Ricostruzione. Tuttavia, questo
promettente spiegamento di forze non ha la durata e la
costanza attese, e l’avventura del quartiere registra
rallentamenti, accusa colpi imprevisti. «D’altra parte, è
questo un destino comune ad alcune delle iniziative più
interessanti di quegli anni. Dopo la Liberazione v’era tanto
fervore di progresso che tutti incoraggiavano la nostra
battaglia, poiché vi sono rari momenti nella Storia in cui gli
ideali sembrano così prossimi a realizzarsi da destare
l’interesse concreto anche di coloro che altrimenti non
sanno apprezzarli se non come strumento e mezzo ai propri
scopi pratici»10.
“Gli esempi più importanti, e senza seguito…”:
il QT8 oggi
La situazione delle periferie urbane e metropolitane è
tristemente nota. Per quanto riguarda il presente, piuttosto
che affannarsi a definire cosa è oggi il QT8, sembra più
interessante sottolineare cosa non è, come propone
Graziella Tonon, facendo un bilancio convincente circa gli
esiti di quell’esperienza11: «il QT8 non è un ghetto» perché
alla varietà tipologica è corrisposta una varietà di abitanti
che «hanno funzionato da antidoto alla formazione di una
enclave monoclasse […] o a stagnazione sociale»; «il QT8
non è un quartiere isolato, né dipende esclusivamente
dall’automobile nelle sue relazioni territoriali» perché la
Linea 1 della metropolitana assicura il collegamento
pubblico, rapido ed efficiente con il centro della città,
rendendolo di fatto privilegiato nel sistema
dell’accessibilità; «il QT8 non è un quartiere dormitorio» per
via delle numerose presenze di eccellenza legate allo sport
e al tempo libero (Monte Stella, Bocciodromo, Centro
sportivo XXV aprile e prossimità al Lido e all’Ippodromo) e
all’offerta di ospitalità (Casa della Madre e del fanciullo,
Ostello della Gioventù); infine, il QT8 non è sprovvisto di
servizi per l’infanzia e l’istruzione, perché può contare su
30
una buona dotazione di strutture, sebbene non tutto quanto
programmato sia poi andato a buon fine, come l’asilo nido
previsto al piano terra sia della Casa Incis di 9 piani in via
Bertinoro (1953-58) di Bottoni, sia nella Casa per abitazioni
economiche di 11 piani in via Pogatschnig (1949-51) di
Lingeri e Zuccoli.
Inoltre, il rapporto con il verde ne fa un’area ambientale
godibilissima e rara a Milano: il fitto sistema di spazi aperti
e collegamenti pedonali connota la vita del quartiere con
una nuance bucolica, ma con tutti i vantaggi dell’abitare
nel capoluogo.
Le occasioni mancate certo rendono più fragile il modello:
si pensi in particolare al mancato insediamento di attività
produttive, al vuoto lasciato dal Centro Civico mai
realizzato, al sistema del commercio. La carenza di
quest’ultimo, in particolare, penalizza alcune categorie di
cittadini e snatura la concezione dell’impianto originario,
31
Piero Bottoni, QT8
(Quartiere sperimentale
della ottava Triennale) a
Milano, terzo progetto e
successive varianti
esecutive, 1953-1957
(realizzazione parziale),
planimetria.
secondo il quale ciascuno dei quattro settori residenziali
avrebbe dovuto essere dotato di un’offerta minima di
negozi “di prima necessità”. Dove questi servizi sono stati
previsti - come nelle Case a schiera con negozi in via
Agrigento (1950-53) dello stesso Bottoni - sono falliti per
via dell’insostenibile concorrenza della grande
distribuzione.
Piero Bottoni, Autorimessa
collettiva in via Collecchio
10 al QT8, Milano, 1961-62.
Veduta dell’interno.
La “lezione di anatomia”: una sineddoche
La “lezione di anatomia” si propone pertanto di illustrare
criticamente e far conoscere le diverse esperienze edilizie
compiute da Piero Bottoni all’interno del quartiere, fornendo
strumenti minimi di conoscenza e lettura dei singoli episodi
al fine di valorizzarne il carattere innovativo e la qualità
architettonica. Il QT8, tuttavia, deve essere apprezzato,
interpretato e salvaguardato come un unicum, complesso, il
cui valore è assai superiore a quello della somma dei singoli
frammenti.
In questo senso, anche il tema spinoso e delicato della
tutela del Moderno deve essere, a nostro avviso, declinato
con la massima attenzione all’esperienza nel suo insieme,
al sistema delle relazioni interne all’insediamento ed
esterne, con il contesto metropolitano; a un tentativo di
offrire modi di abitare alternativi a quelli consolidati nella
città compatta o a quelli impoveriti delle periferie; all’idea
di città che vi è sottesa.
Difficilmente, senza una piena conoscenza della
sperimentazione urbanistica qui espressa e, anche, del
valore documentario depositato nell’intero progetto, si
potranno intraprendere consapevoli e oculate azioni di
salvaguardia dell’esistente.
Monte Stella (1953-1970)
La costruzione del Monte Stella è vicenda appassionante.
Il suo progettista, Piero Bottoni, ci racconta dell’invenzione
di questo paesaggio in un gustoso scritto che ha il
carattere di una visione12. Originariamente infatti, come è
ben osservabile nei primi progetti per il Quartiere, in questo
luogo era previsto sì un elemento di paesaggio molto forte
e caratterizzato ma affatto diverso: un laghetto. L’area è,
infatti, quella di una vecchia cava di ghiaia che si
immaginava riempita d’acqua, anche in relazione alla
prossimità con l’Olona. A qualche tempo di distanza dalle
prime ipotesi di progetto, Bottoni torna sul luogo e “scopre”
che quella che era una concavità era diventata una
convessità: la popolazione aveva infatti riversato in quella
grande fossa le macerie delle distruzioni belliche. Come
una sorta di “discarica” della memoria della distruzione.
Ecco che la suggestione di quella visione e la
consapevolezza del valore simbolico del luogo - simbolo
della rinascita auspicata nella eroica stagione della
32
Ricostruzione - danno corpo al progetto di una collina
artificiale. Nasce “la Montagnetta”, battezzata poi nel 1956
Monte Stella, in onore della prima moglie dell’architetto
Bottoni, deceduta in quell’anno.
Originariamente immaginata più alta di come poi realizzata
(60 metri contro i 100 originari), la collina è anche scena di
altri episodi progettuali poi non costruiti. In particolare, si
ricordano i progetti per ville lungo il pendio e un ristorante
panoramico sulla sua sommità.
«Con il Monte Stella il QT8 compie un salto di qualità:
conquista definitivamente, sia pure in prospettiva, una
dimensione cittadina e un rapporto organico con Milano,
anche se la nuova immagine lo avvicina ancor di più a una
garden city che a un quartiere della tradizione con il suo
tessuto compatto e gli edifici a cortina a formare piazze e
strade corridoio»13.
Due case prefabbricate per senzatetto al QT8
(1950-1955) in via Sant’Elia
L’emergenza della Ricostruzione trova nel progetto del
Villaggio dei reduci al QT8 una risposta tempestiva al
problema dei senzatetto. Con la finalità di accelerare
pratiche di cantiere e di economizzare sulla costruzione, in
piena coerenza con il programma sperimentale del
quartiere, si dà l’occasione per mettere a verifica alcuni
metodi della prefabbricazione.
33
Piero Bottoni, Casa Incis in
via Bertinoro 9 al QT8,
Milano, 1953-58.
Veduta del prospetto nordovest durante il cantiere.
Queste due case binate ne sono testimonianza. Qui Bottoni
mette alla prova il sistema “Arbor-Sarre” che in sostanza «si
basa sulla prefabbricazione fuori cantiere del rustico, negli
elementi sia strutturali che di completamento, così che il
cantiere viene ridotto a un montaggio pressoché a secco di
pezzi prodotti in officina»14. Di fatto «un unico specialista e
una squadra di manovali bastano per il montaggio»15.
Non deve perciò stupire l’aspetto assai umile dei due
edifici, ciascuno contenente due unità residenziali, che non
denunciano però all’esterno l’inconsueto sistema
costruttivo e che non rinunciano all’aspetto di una
rassicurante, povera, domesticità.
Piero Bottoni, Due «case
stellari» al QT8, Milano: in
via Cimabue 2, 1955-57,
1956-58.
Casa stellare al QT8, pianta
arredamento piano tipo,
scala 1:100, prot. 1063, 24
novembre 1955. China su
eliografia su lucido, cm
40,0x41,5.
Padiglione per mostre e campo giochi al QT8
(1951) in via Pogatschnig
Coerentemente con il principio guida di dotare il quartiere
di un verde fortemente connotato e attrezzato, e non come
puro connettivo tra gli edifici, Bottoni progetta nel 1948 il
primo “campo giochi” del quartiere, dotato di arredi per i
bambini e per le attività all’aperto, su modello di coeve
esperienze europee.
Si dovrà tuttavia attendere la IX Triennale nel 1951 per
vedere il progetto del campo realizzato, assieme all’edificio
del Padiglione per le mostre.
Nonostante le sue dimensioni contenute, il Padiglione si
distingue e si impone figurativamente per la soluzione
architettonica adottata: un’aula a pianta centrale (di forma
circolare), pienamente denunciata all’esterno e sottolineata
da una originale copertura a disco; inoltre «nella soletta di
copertura un anello centrale in cemento armato, su cui si
incastrano le travi disposte a raggiera, è chiuso un
lucernario mobile montato su rotaie»16. L’intento è infatti
quello di poter disporre di un ambiente altamente flessibile
rispetto alle esigenze espositive, seppure nella ridotta
superficie a disposizione. A tal fine, pertanto, il lucernario
semisferico e trasparente può essere del tutto spostato sui
binari - rendendo così possibile una mostra all’interno ma a
cielo aperto e con luce diretta - oppure oscurato
all’occorrenza, del tutto o parzialmente, tramite uno
schermo mobile ottenendo una modulazione della luce
naturale. La soletta della copertura, poggiata sul cilindro
come un disco, disavanza a sbalzo di molto la dimensione
del corpo di fabbrica; in tal modo Bottoni ottiene anche una
pensilina che sottolinea l’ingresso e funziona da invito.
L’edificio è dotato di un piano seminterrato - a cui si
accede da un vano scale a “mezzo anello” addossato al
Padiglione - pensato per ospitare una piccola biblioteca, un
locale per il custode e un deposito invernale per porre al
riparo i giochi all’aperto.
Oggi il Padiglione appare completamente intonacato e
tinteggiato di rosso. Originariamente, invece, era rivestito
34
Piero Bottoni, Casa a schiera
con negozi in via Agrigento
9 al QT8, Milano, 1950-53
Veduta del prospetto sud.
da un mosaico di tesserine ceramiche a tinte chiare su cui
si distingueva una decorazione a disegni geometrici (non
dissimile da quello a tutt’oggi visibile nella portineria del
Palazzo Ina di corso Sempione), su progetto dello stesso
Bottoni, rivolta verso il campo giochi. Qui era anche a
disposizione «una tavola nera (lavagna) destinata alle
esercitazioni di disegno dei bambini con gessi colorati»17.
Nel 1957 si affiancherà al padiglione un piccolo Centro
sociale, su definizione dell’INA-Casa, a cui si accede dal
giardino tramite una rampa.
Case a schiera con negozi al QT8 (1950-53)
in via Agrigento
L’edificio, leggibile tipologicamente come un unico edificio
in linea a un piano (dalla quota di calpestio del quartiere), è
l’esito dell’accostamento di sette unità abitative identiche e
indipendenti, sviluppate ciascuna su tre livelli collegati
internamente da un corpo scale: il piano terra ospita un
negozio, il piano superiore l’abitazione e un terzo piano
interrato - con accesso da uno spazio ribassato privato, ma
comune, di pertinenza dell’edificio - per il magazzino. Ogni
modulo è perciò una reinterpretazione della “casa-bottega”,
qui proposta con una regola di aggregazione comune e
seriale.
La posizione è nevralgica rispetto all’area del quartiere a
bassa densità: si trattava infatti dei primi esercizi
commerciali del “villaggetto dei reduci”, per offrire merci di
prima necessità (in particolare: «fornaio, salumiere,
droghiere, lattaio, erbivendolo, macellaio, farmacista»18).
L’impaginato delle facciate è sobrio, regolare e rende
35
Piero Bottoni, Due case
prefabbricate per senzatetto
in via Sant’Elia 62/1 e 62/2
al QT8, Milano, 1950-55.
Veduta del cantiere.
riconoscibili le sette unità leggibili in verticale. Sul fronte
con l’accesso ai negozi il rivestimento è di intonaco chiaro,
sul retro invece compare il tipico mosaico ceramico
(piastrelline cm 2x2) a impreziosire e a differenziare,
attraverso l’uso dei colori, i parapetti sovradimensionati dei
balconi al piano degli appartamenti. Questi sono composti
di soggiorno, due camere da letto e bagno; la cucina trova
invece posto al piano inferiore del locale per la vendita.
Sempre su questo fronte, si nota il particolare dispositivo di
“occultamento” della zona per lo stenditoio, ottenuto
dall’accostamento di pilastrini di cemento verticali con
effetto brise-soleil.
Purtroppo oggi nessuno dei negozi è attivo e l’edificio
richiederebbe un intervento di manutenzione.
Casa Incis di 9 piani al QT8 (1953-58)
in via Bertinoro
La grande Casa di via Bertinoro, edificio in linea alto 9 piani
e disposto lungo l’asse eliotermico come gli altri edifici
“a lama” presenti nel quartiere, rappresenta - insieme al
condominio di Lingeri e Zuccoli - un “personaggio”.
Ciò che lo rende tale è la posizione che sta, insieme, a
chiudere la prospettiva del grande invaso spaziale della
spina centrale del quartiere e a dialogare con la città
compatta al di là della circonvallazione su cui si affaccia:
divide per unire, punto di saldatura tra il tessuto
preesistente e l’insediamento sperimentale.
La soluzione architettonica che Bottoni riserva all’edificio
interpreta questa particolare circostanza dando luogo a
un’architettura di grande interesse sia per quanto concerne
il rapporto del quartiere, sia all’interno della biografia
professionale dell’architetto. Qui, infatti, si portano a
maturazione le ipotesi di rinnovamento dei modi della
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37
Piero Bottoni, Monte Stella
al QT8, Milano, 1953-70.
Sezione e planimetria.
nella pagina accanto
Piero Bottoni, Monte Stella
al QT8, Milano, 1953-70
Veduta dei lavori per la
realizzazione del Monte
Stella, positivo, bianco e
nero, mm 54x55.
Piero Bottoni, Monte Stella
al QT8, Milano, 1953-70
Veduta dei lavori per la
realizzazione del Monte
Stella, positivo, bianco e
nero, mm 57x57.