Artemis Fowl e l`ultimo guardiano

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Artemis Fowl e l`ultimo guardiano
Eoin Colfer
Artemis Fowl e l’ultimo guardiano
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© 2012 Eoin Colfer, Artemis Fowl Ltd
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, per l’edizione italiana
Titolo dell’opera originale Artemis Fowl and The Last Guardian
Traduzione di Anna Carbone
www.librimondadori.it | www.ragazzimondadori.it
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Il libro
Da: Colfer, Eoin (si pronuncia “Owen”, lo volete capire?)
Spedito: nel presente? Nel passato? Nel futuro?
A: il Mondo (sopra e sotto, ieri e oggi)
Oggetto: Messaggio urgentissimo dal Biografo Ufficiale di un noto genio
criminale
Non posso non dirvelo: è l’ora dello scontro finale per Artemis Fowl…
Opal Koboi, arcinemica di sempre del nostro, progetta di annientare
l’umanità e diventare unica e sola regina del Popolo. Se ci riuscirà, gli spiriti
dei guerrieri morti e sepolti da secoli sorgeranno dal terreno, prenderanno
possesso dei corpi disponibili più vicini e scateneranno la distruzione di
massa. Capite l’urgenza di questo messaggio? Provate a pensarci: se fra quei
corpi ci fossero anche quelli di corvi, cervi, tassi… o di due bambini di
quattro anni che rispondono al nome di Myles e Beckett Fowl? Esatto. I
fratellini del genio criminale Artemis Fowl rischiano di essere coinvolti nella
distruzione della razza umana. La domanda è d’obbligo: riusciranno Artemis
e Spinella Tappo, capitano della polizia elfica, a fermare Opal e a impedire la
fine del mondo? I fili di tutte le vicende aperte nelle precedenti biografie
parziali saranno raccolti, districati, chiariti. Una volta per tutte.
Per sempre vostro,
Eoin Colfer.
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L’autore
Eoin Colfer è nato e cresciuto a Wexford, nel sud-est dell’Irlanda.
Come sia diventato il biografo ufficiale di Artemis Fowl rimane un mistero.
Colfer sostiene di essere stato avvicinato dagli avvocati di Fowl. Artemis
Fowl, dal canto suo, giura di non averlo mai sentito nominare finché
entrambi i loro nomi sono comparsi sulla copertina della sua biografia non
autorizzata. Corre voce che alcuni anni fa i due si siano incontrati nelle
segrete del Castello di Dublino. Nessuno sa per certo che cosa sia successo là
sotto, ma fonti prossime a Colfer affermano che, al suo ritorno da
quell’incontro, aveva i capelli grigi e neanche un soldo.
Comunque, che ad Artemis piaccia o no, le biografie di Colfer hanno
riscosso un enorme successo, scalando la vetta delle classifiche in tutto il
mondo e vincendo numerosi premi.
Colfer vive tuttora da qualche parte in Irlanda, però si rifiuta di fornire
l’indirizzo esatto, non avendo il minimo desiderio d’incontrare nuovamente
Artemis o la sua guardia del corpo, Leale.
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A tutti i fan di Fowl che hanno viaggiato con me
negli Strati Inferiori. Grazie.
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PROLOGO
ÉRIÚ, OGGI
I Berserkr, gli antichi guerrieri nordici, giacevano disposti a spirale sotto la
pietra runica, scendevano sempre più in profondità nel terreno, con gli stivali
verso l’esterno e le teste all’interno, come esigeva l’incantesimo. Ovviamente,
dopo diecimila anni passati sotto terra, non si trattava più di stivali o teste
materiali, rimaneva solo il plasma della magia nera, che manteneva intatta la
loro coscienza; e pure quella andava dissipandosi, contaminando il
paesaggio, dando vita a strani tipi di piante e infettando gli animali con
un’aggressività fuori dal comune. Nel giro di una dozzina di lune piene
sarebbero scomparsi definitivamente, e la loro ultima scintilla di energia
sarebbe sprofondata nel terreno.
Ma non siamo ancora scomparsi del tutto, pensò Oro di Danu, il capitano dei
guerrieri. Siamo pronti ad afferrare il nostro momento di gloria, quando
arriverà, e a disseminare il caos tra gli umani.
Inviò quel pensiero nella spirale, e fu con orgoglio che sentì i suoi uomini
restanti riecheggiare quel sentimento.
La loro volontà è affilata com’erano un tempo le loro lame, pensò ancora.
Per quanto possiamo essere morti e sepolti, la scintilla della nostra risolutezza
sanguinaria arde luminosa nelle nostre anime.
Era l’odio nei confronti dell’umanità a mantenere viva quella scintilla; quello,
e la magia nera dello stregone Bruin Fadda. Oltre la metà della loro
compagine si era già estinta ed era stata attratta nell’aldilà, ma rimanevano
ancora cinque manipoli di guerrieri per portare a termine il loro dovere, se
fossero stati chiamati a farlo.
Ricordate gli ordini, aveva detto loro lo stregone elfico tanti secoli prima
mentre già l’argilla si depositava sulla loro carne. Ricordate quelli che sono
morti e gli umani che li hanno uccisi.
E Oro ricordava, lo avrebbe fatto sempre. Così come mai avrebbe scordato la
sensazione delle pietre e della terra che rotolavano sulla sua pelle morente.
Ricorderemo: quello fu il pensiero che inviò nella spirale. Ricorderemo e
torneremo.
Quel pensiero si infiltrò lentamente per essergli restituito dai guerrieri morti,
ansiosi di essere liberati da quella tomba e di rivedere il sole.
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CAPITOLO 1 - UNA SITUAZIONE SPINOSA
DAGLI APPUNTI DEL DOTTOR JERBAL ARGON, DELLA
PSICOFRATELLANZA
1. Artemis Fowl, già autoproclamatosi “adolescente dalla mente criminale
superiore”, preferisce ora l’appellativo di “giovane genio criminale”.
Sembrerebbe cambiato. (Nota personale: Bah!)
2. Negli ultimi sei mesi, Artemis è stato sottoposto a sedute settimanali di
terapia presso la mia clinica di Cantuccio allo scopo di curare un grave caso
di Complesso di Atlantide, un disturbo psicologico sviluppato in
conseguenza del suo immischiarsi nella magia del Popolo. (E gli sta proprio
bene, stupido Fangosetto!)
3. Ricordare di presentare alla Libera Eroica Polizia un conto indecente.
4. Artemis sembra guarito, e pure a tempo di record. Ma è plausibile? O
anche solo possibile?
5. Discutere con Artemis la mia teoria della relatività. Potrebbe diventare un
capitolo davvero interessante del mio libro virtuale L’arte di incastrare
Artemis: scaccomatto al folle Fowl. (Gli editori adorano questo titolo: tiè!)
6. Ordinare altri antidolorifici per la mia stramaledettissima anca.
7. Redigere un certificato di salute mentale per Artemis. Oggi ultima seduta.
STUDIO DEL DOTTOR ARGON, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
Il dottor Argon era in ritardo, e Artemis Fowl era sempre più impaziente.
Quell’ultima seduta era inutile esattamente come lo era stata l’ultima mezza
dozzina. Era completamente guarito, lo era fin dalla diciottesima settimana. Il
suo prodigioso intelletto aveva accelerato il processo e non c’era motivo che
lui continuasse a girarsi i pollici agli ordini di uno gnomo psichiatra.
Artemis si mise a camminare su e giù per lo studio, ma la cascata alle pareti,
con le sue luci rilassanti e il loro dolce pulsare, non ebbe su di lui il benché
minimo effetto tranquillizzante; quindi si sedette per un minuto nella cabina
per ossigenoterapia, ma trovò che quella lo tranquillizzava un po’ troppo.
Ossigenoterapia mia nonna, pensò, affrettandosi a uscire dalla cabina con le
pareti di vetro.
Finalmente la porta scivolò sulle guide con un sibilo, e il dottor Argon fece il
suo ingresso nello studio. Il tozzo gnomo puntò dritto alla sua poltrona con la
solita andatura zoppicante. Si abbandonò all’abbraccio dei numerosi
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cuscinetti, armeggiando con i comandi dei braccioli finché il sacco di gel
sotto l’anca destra non brillò debolmente.
— Ah! — sospirò. — Quest’anca mi sta uccidendo. Non c’è niente che
funzioni, davvero. La gente crede di sapere che cos’è il dolore, ma non ne ha
neanche un’idea.
— È in ritardo — brontolò Artemis parlando in gnomico fluente; nella sua
voce non c’era la minima traccia di comprensione.
Argon sospirò beatamente un’altra volta mentre il cuscinetto riscaldato della
poltrona incominciava a massaggiargli l’anca. — Sempre di fretta, eh,
Fangosetto? Perché non ti sei preso una bella boccata d’ossigeno o non hai
meditato davanti alla cascata? Perfino i monaci di Ullallà nutrono una fiducia
cieca in quelle cascate.
— Guardi che io non sono un sacerdote elfico, dottore. Quello che fanno i
monaci di Ullallà dopo il primo gong non m’interessa. E adesso possiamo
passare alla mia riabilitazione? Oppure preferisce farmi perdere un altro po’
di tempo?
Argon sbuffò, poi sporse in avanti la grossa stazza e aprì un sottile fascicolo
sulla scrivania. — Mi sapresti spiegare com’è che più diventi sano di mente
più sei sgradevole?
Artemis accavallò le gambe e per la prima volta il suo linguaggio corporeo lo
mostrò rilassato. — Quanta rabbia repressa, dottore. Da dove le viene?
— Per il momento concentriamoci su di te, sei d’accordo, Artemis? — Argon
estrasse dal fascicolo un mazzo di schede. — Adesso ti mostrerò una serie di
macchie di Rorschach e tu mi dirai che cosa ti suggeriscono le loro forme.
Artemis si lasciò andare a un gemito prolungato e teatrale. — Macchie di
Rorschach, ma per carità! La mia aspettativa di vita è di gran lunga inferiore
alla sua, dottore, preferisco non sprecare il mio preziosissimo tempo a fare
inutili pseudoesami. Tanto varrebbe che ci mettessimo a leggere le foglie del
tè o a divinare il futuro dalle interiora di un tacchino.
— Le macchie di Rorschach sono un indicatore molto affidabile della salute
mentale — obiettò Argon. — La loro efficacia è sperimentata.
— Già, da psichiatri che l’hanno sperimentata per altri psichiatri — sbuffò
Artemis.
Argon sbatté una scheda sul tavolo. — Che cosa ci vedi in questa macchia?
— Ci vedo una macchia d’inchiostro.
— Sì, ma la macchia che cosa ti suggerisce?
Artemis ghignò in un modo estremamente fastidioso. — Ci vedo la scheda
cinquecentotrentaquattro.
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— Come?
— La scheda cinquecentotrentaquattro — ripeté Artemis. — Di una serie di
seicento schede standard con macchie di Rorschach. Le ho memorizzate
durante le nostre sedute. Non perde neppure tempo a rimescolarle.
Argon controllò il numero sul retro della scheda: 534. Ovvio.
— Conoscere il numero non è una risposta alla mia domanda. Che cosa ci
vedi?
Il labbro di Artemis cominciò a fremere. — Ci vedo un’ascia che gronda
sangue. E anche un bambino spaventato e un elfo con indosso la pelle di un
troll.
— Davvero? — Adesso Argon era visibilmente interessato.
— No, non proprio. Vedo un palazzo tranquillo, forse un’abitazione, con
quattro finestre. Un animaletto domestico e un viale che dalla casa si perde in
lontananza. Se consulterà il suo manuale, verificherà che tutte queste risposte
rientrano nei parametri di un soggetto perfettamente sano di mente.
Argon non ebbe bisogno di controllare: il Fangosetto aveva ragione, come
sempre. Magari avrebbe potuto prenderlo alla sprovvista con la sua nuova
teoria. Non rientrava nella terapia, ma forse gli avrebbe fatto guadagnare un
po’ di rispetto.
— Mai sentito parlare della teoria della relatività?
Artemis rimase sconcertato. — Mi prende in giro? Ho viaggiato nel tempo,
dottore, credo di sapere un bel po’ di cosette sulla relatività.
— No, non mi riferisco a quella teoria; la mia teoria della relatività sostiene
che tutti gli oggetti magici sono collegati tra loro e subiscono l’influenza di
antichi incantesimi o punti di accesso magici.
Artemis si sfregò il mento. — Interessante, ma credo che scoprirà che la sua
ipotesi dovrebbe essere chiamata piuttosto teoria della correlazione.
— Come vuoi — ribatté Argon, non dando peso a quel cavillo. — Ho fatto
qualche ricerca e ho scoperto che i Fowl sono stati una spina nel fianco del
Popolo a periodi alterni per diverse migliaia di anni. Decine dei tuoi antenati
hanno cercato la pentola d’oro, anche se tu sei il solo ad averla trovata.
Artemis si rizzò a sedere: adesso sì che era interessato. — E io non l’ho mai
saputo perché lei ha sottoposto i miei antenati a uno spazzamente.
— Esatto — confermò Argon, felice di essere riuscito a calamitare
l’attenzione del ragazzo. — Da piccolo, tuo padre è addirittura riuscito a
legare per le gambe un nano attirato nella tenuta. Immagino che sogni ancora
quel momento.
— Mi fa piacere per lui. — Poi ad Artemis venne in mente una cosa. — E
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perché il nano sarebbe stato attratto nella tenuta?
— Perché lì i residui della magia sono particolarmente abbondanti. Un tempo
nella proprietà dei Fowl è accaduto qualcosa. Qualcosa di enorme, dal punto
di vista della magia.
— E i residui di questa energia impiantano idee nelle nostre menti e ci
spingono a credere alla magia — mormorò Artemis quasi fra sé.
— Proprio così. Si tratta dell’eterna questione dell’uovo e del goblin: pensavi
alla magia e poi l’hai scoperta, oppure è stata la magia a indurti a cercarla?
Artemis prese qualche appunto sul suo smartphone. — E a proposito di
questo enorme evento magico, non potrebbe essere un po’ più preciso?
Argon fece spallucce. — Le nostre registrazioni non vanno così indietro nel
tempo. Direi che stiamo parlando dell’epoca in cui il Popolo viveva in
superficie, vale a dire oltre diecimila anni fa.
Artemis si alzò e si piazzò torreggiante davanti al tozzo gnomo. Si sentiva in
debito con il medico per quella teoria della correlazione, che di sicuro
meritava di essere approfondita.
— Dottor Argon, da bambino lei aveva il piede varo?
Argon rimase talmente sorpreso che, cosa del tutto insolita per uno
psichiatra, diede una risposta sincera a una domanda personale. — Sì, sì.
— E l’hanno costretta a indossare scarpe ortopediche con il plantare?
Argon era molto incuriosito. Erano secoli ormai che non pensava più a quelle
orrende scarpe, anzi, fino a quel momento le aveva del tutto dimenticate.
— Solo una, al piede destro.
Artemis annuì soddisfatto, e Argon si sentì come se avessero di colpo
scambiato i ruoli e fosse diventato lui il paziente.
— Direi che il piede è stato forzato a ritrovare l’allineamento corretto, ma nel
farlo il femore ha subito una lieve torsione. Un semplice tutore dovrebbe
risolvere il suo problema all’anca. — Artemis estrasse dalla tasca un
tovagliolino piegato. — Ne ho abbozzato un disegno mentre mi faceva
aspettare in queste ultime sedute. Polledro dovrebbe essere in grado di
fabbricarglielo. Ho calcolato le misure a occhio, quindi può essere che abbia
sbagliato di qualche millimetro, perciò sarà meglio prenderle come si deve.
— Posò le mani sulla scrivania. — Adesso posso andare? Ho completato i
miei obblighi?
Il medico annuì torvo, pensando che avrebbe fatto bene a omettere
quell’ultima seduta dalla cartella. Rimase a guardare Artemis attraversare lo
studio e piegarsi per passare dalla porta.
Osservò a lungo il disegno sul tovagliolino e istintivamente si sentì certo che
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il Fangosetto non sbagliasse.
O quel ragazzo è la creatura più sana di mente sulla Terra, oppure è talmente
disturbato che i nostri test non riescono neppure a scalfirne la superficie,
pensò.
Prese dalla scrivania un timbro di gomma e applicò la scritta OPERATIVO a
grossi caratteri rossi sulla copertina del fascicolo di Artemis.
Lo spero davvero. Lo spero davvero.
La guardia del corpo di Artemis, Leale, aspettava il suo capo fuori dallo
studio del dottor Argon seduto su una grande poltrona dono del centauro
Polledro, consulente tecnico della Libera Eroica Polizia.
«Non posso vederti appollaiato così su uno sgabello da membri del Popolo»
gli aveva detto Polledro. «Mi offende la vista. Sembri una scimmia al gioco
delle sedie.»
«Benissimo, accetto il dono, se non altro per risparmiare i tuoi occhi» gli
aveva detto Leale con la sua profonda voce roca.
In realtà, era stato un piacere immenso poter disporre di una poltrona
comoda, considerato che in una città progettata per esseri di statura inferiore
al metro, lui sfiorava i due.
L’eurasiatico si alzò e si stiracchiò appoggiando i palmi delle mani al soffitto,
che per gli standard del Popolo era alto il doppio del normale. Grazie a dio,
Argon aveva manie di grandezza, altrimenti nella clinica Leale non sarebbe
riuscito neppure a stare dritto. Per lui quell’edificio, con i soffitti a volta, la
tappezzeria a macchie dorate e le porte scorrevoli in simil-legno di gusto
retrò, sembrava più un monastero in cui i monaci avessero fatto voto di
ricchezza che non uno studio medico. Solo i dispensatori laser di disinfettante
per le mani montati sulla parete e le infermiere elfiche che si affaccendavano
nei corridoi lasciavano intuire che quel luogo fosse in realtà una clinica.
Sono così contento che questa storia stia finendo, aveva pensato Leale per lo
meno una volta ogni cinque minuti nel corso delle ultime due settimane. Era
già stato prima in posti piccoli, ma essere costretto in una città avvinghiata al
lato inferiore della crosta terrestre gli aveva dato un senso di claustrofobia
per la prima volta in vita sua.
Artemis sbucò dallo studio di Argon con un ghigno di soddisfazione ancora
più pronunciato del solito. Vedendo la sua espressione, Leale seppe
all’istante che il suo capo aveva ritrovato il pieno controllo delle proprie
facoltà e aveva ottenuto il certificato di completa guarigione dal Complesso
di Atlantide.
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Basta con il conteggio delle parole. Basta con quella paura irrazionale del
numero quattro. Basta paranoia e allucinazioni. Grazie al cielo, si disse.
Ma comunque, giusto per essere sicuro, gli chiese: — Allora, Artemis, come
andiamo?
Abbottonandosi la giacca dell’abito di lana blu, il ragazzo rispose: —
Andiamo bene, Leale. Il che significa che io, Artemis Fowl Junior, sono
operativo al cento per cento, vale a dire all’incirca cinque volte l’operatività
di una persona media. O, per dirla in un altro modo, uno virgola cinque
Mozart. O tre quarti di un Leonardo da Vinci.
— Solo tre quarti? Sei modesto.
— Sì, lo so — replicò il ragazzo con un sorriso.
Leale diede un sospiro di sollievo. Ego smisurato, estrema sicurezza di sé: il
suo capo era decisamente tornato a essere se stesso.
— Ottimo. Adesso andiamo a prendere la nostra scorta e ci mettiamo in
viaggio, giusto? Ho voglia di sentire il sole sulla faccia. Il sole vero, non
quelle lampade a raggi ultravioletti che hanno quaggiù.
Artemis ebbe un moto di comprensione per la sua guardia del corpo,
un’emozione che provava sempre più spesso negli ultimi mesi. Già era
difficile per Leale passare inosservato tra gli umani, ma lì sotto non avrebbe
attratto più attenzione se si fosse vestito da clown e avesse incominciato a
fare il giocoliere con palle di fuoco.
— Benissimo — disse. — Andiamo a prendere la scorta e partiamo. Dov’è
Spinella?
Leale indicò il corridoio con il pollice. — Dove sta di solito. Con il clone.
Il capitano Spinella Tappo, del Reparto Ricognizione della Libera Eroica
Polizia, fissava il volto della sua nemica storica e provava solamente pietà.
Certo, se quella che aveva davanti fosse stata la vera Opal Koboi e non una
sua versione clonata, forse la pietà non sarebbe stata l’ultima emozione del
suo elenco, ma di sicuro si sarebbe trovata parecchi gradini sotto la rabbia e il
disgusto intenso al limite dell’odio. Quello però era un clone, sviluppato
preventivamente per fornire alla folletta megalomane un doppio che le
permettesse di sfuggire alla custodia protettiva nella clinica del dottor J.
Argon se mai la LEP fosse riuscita a catturarla, come era poi effettivamente
accaduto.
Spinella aveva pietà per il clone perché era una creatura patetica e muta che
non aveva mai chiesto di venire al mondo. La clonazione era una scienza
messa al bando sia per motivi religiosi sia per il fatto più che evidente che,
senza una forza vitale o un’anima ad alimentarli, i cloni erano destinati a
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vivere una vita breve, priva di attività cerebrale e afflitta da insufficienza
organica.
Quel clone particolare aveva quasi esaurito i suoi giorni in un’incubatrice,
lottando per ogni respiro da quando era stato tirato fuori dal bozzolo in cui
era cresciuto.
— Non manca più molto, piccola — bisbigliò Spinella, accarezzando la
fronte del clone attraverso i guanti sterili incorporati nella parete
dell’incubatrice.
L’elfa non avrebbe saputo dire esattamente perché avesse incominciato a
fargli visita. Forse perché Argon le aveva detto che nessun altro andava mai a
trovarlo.
È spuntato fuori dal nulla. Non ha amici, aveva pensato.
Adesso ne aveva almeno due. Artemis aveva preso l’abitudine di
accompagnare Spinella nelle visite e se ne stava seduto in silenzio accanto a
lei, il che era davvero insolito per lui.
La denominazione ufficiale del clone era Esperimento-Non-AutorizzatoNumero-14, ma uno degli ingegni della clinica l’aveva ribattezzato Nopal, un
nomignolo crudele costruito con la negazione del nome Opal. Crudele o
meno, quel nome le era rimasto appiccicato, e adesso lo usava pure Spinella,
anche se con affetto.
Argon le aveva assicurato che Esperimento-Non-Autorizzato-Numero-14 era
privo di facoltà mentali, ma Spinella era certa che a volte gli occhi lattiginosi
di Nopal mostrassero una reazione al suo arrivo. Era davvero possibile che la
riconoscesse?
Guardava i lineamenti delicati del clone e inevitabilmente il suo pensiero
correva al suo originale.
Quella folletta è veleno puro, pensò con amarezza. Qualunque cosa tocchi,
avvizzisce e muore.
Artemis entrò nella stanza e si fermò accanto a Spinella, posandole
delicatamente una mano sulla spalla.
— Si sbagliano, a proposito di Nopal — gli disse l’elfa. — Lei sente le cose,
capisce.
Artemis si inginocchiò. — Lo so. La settimana scorsa le ho insegnato una
cosa. Sta’ a guardare.
Appoggiò la mano sul vetro e picchiettò le dita in una lenta sequenza ritmica.
— È un esercizio sviluppato dal dottor Parnassus di Cuba. Lo usa per
stimolare una reazione nei neonati, anche negli scimpanzé.
Continuò a tamburellare, e dopo un po’ Nopal rispose, alzando a fatica la
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mano verso quella di Artemis e picchiando goffamente il vetro nel tentativo
di riprodurne il ritmo.
— Ecco, hai visto? Questa è intelligenza.
Spinella gli diede un’amichevole spallata, la sua personalissima versione di
un abbraccio. — Lo sapevo che prima o poi il tuo cervellone sarebbe tornato
utile.
Il gruppo di ghiande sul petto dell’uniforme della LEP incominciò a vibrare,
e Spinella si portò una mano all’orecchino a tecnologia wi-fi per rispondere.
Una rapida occhiata al computer da polso le disse che la chiamata proveniva
dal consulente tecnico della LEP, Polledro, e che il centauro l’aveva
classificata come urgente.
— Polledro, che c’è? Sono alla clinica a fare la baby-sitter ad Artemis.
La voce del centauro arrivò nitida attraverso la rete senza fili di Cantuccio.
— Ho bisogno che tu torni immediatamente alla Centrale. E porta con te il
Fangosetto. Il centauro aveva un tono teatrale, ma lui tendeva a fare il
melodrammatico anche quando il soufflé di carote si sgonfiava.
— Non è così che funziona, Polledro. Non sono i consulenti a dare ordini ai
capitani.
— Abbiamo un avvistamento di Koboi sul satellite. È una trasmissione in
diretta — ribatté il centauro.
— Arriviamo — rispose secca Spinella, interrompendo il collegamento.
Passarono a prendere Leale in corridoio. Artemis, Spinella e Leale, tre alleati
che avevano affrontato battaglie, ribellioni e cospirazioni e avevano
sviluppato un loro personale protocollo per le crisi.
Leale capì dalla faccia di Spinella che c’erano guai in vista. — Problemi?
L’elfa non si fermò neppure e gli altri furono costretti a seguirla. — Opal —
disse.
L’espressione di Leale si indurì. — Un avvistamento?
— Satellitare.
— Origine? — chiese ancora la guardia del corpo.
— Sconosciuta.
Attraversarono di corsa il corridoio retrò, diretti al cortile della clinica. Leale,
che aveva preceduto i compagni, tenne aperta l’antiquata porta a cardini con
il vetro colorato su cui era raffigurato un medico premuroso intento a
confortare una paziente in lacrime.
— Prendiamo l’Asta? — domandò con un tono di voce che lasciava
intendere che avrebbe preferito di no.
Spinella varcò la soglia. — Mi dispiace, grand’uomo, stavolta ci tocca.
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Artemis, che non era mai stato tipo da trasporto pubblico, umano o elfico che
fosse, chiese: — Che cos’è l’asta?
Asta era il nome con cui era conosciuta una serie di nastri trasportatori che
correvano su corsie parallele lungo la rete di isolati di Cantuccio. Era un
sistema di trasporto antico e affidabile, residuo di un’epoca meno litigiosa, su
cui si saliva e si scendeva in corsa come su certe scale mobili negli aeroporti
umani. C’erano piattaforme sparse in tutta la città e non si doveva fare altro
che saltare a bordo reggendosi a una delle maniglie in fibra di carbonio che
sporgevano dal nastro. Da lì il nome di Asta.
Ovviamente Artemis e Leale avevano già visto l’Asta prima, ma il ragazzo
non aveva mai avuto in programma di usare un mezzo di trasporto così
indecoroso, perciò non si era mai curato di sapere come si chiamasse.
Conscio che, con la sua leggendaria mancanza di coordinazione, qualsiasi
tentativo di saltare con naturalezza a bordo si sarebbe concluso con un
umiliante ruzzolone. Per Leale il problema non era tanto la mancanza di
coordinazione, quanto, data la stazza, la difficoltà a tenere i piedi dentro la
larghezza del nastro.
— Ah, sì — fece Artemis. — L’Asta. Ma un taxi verde non sarebbe più
veloce?
— No — tagliò corto Spinella, spingendolo su per la rampa che portava alla
piattaforma e poi pungolandolo nelle reni al momento giusto per farlo salire
automaticamente sul nastro, con la mano che atterrava sulla maniglia tonda.
— Ehi! — brontolò Artemis: era forse la terza volta in vita sua che usava
un’espressione colloquiale. — Ce l’ho fatta!
— Prossima fermata, i Giochi olimpici — disse Spinella da dietro. — Su,
vieni, guardia del corpo — si voltò a gridare a Leale. — Il tuo capo sta
puntando dritto verso una galleria.
Leale scoccò all’elfa un’occhiata che avrebbe intimorito un toro. Spinella era
una cara amica, certo, però sapeva prenderti in giro senza pietà. Salì sul
nastro in punta di piedi, schiacciando le enormi estremità in un’unica sezione
e piegando le ginocchia per arrivare a impugnare il minuscolo bastone. Visto
di profilo, sembrava la più grossa ballerina al mondo nell’atto di cogliere un
fiore.
Spinella avrebbe sorriso, se non avesse avuto la mente presa da Opal Koboi.
Il nastro trascinò lentamente i passeggeri dalla Clinica Argon lungo il margine
di una piazza in stile italiano verso una galleria aperta con il laser nella solida
roccia. Alcuni membri del Popolo che pasteggiavano all’aperto si fermarono
con la forchetta a mezz’aria al passaggio di quell’improbabile terzetto.
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Non era così insolito vedere un agente della LEP in uniforme su un’Asta, ma
un dinoccolato ragazzino umano vestito come un impresario di pompe
funebri e una montagna d’uomo delle dimensioni di un troll e con la testa
rasata erano uno spettacolo fuori dal normale.
La galleria era alta meno di un metro, per cui Leale fu costretto a stendersi su
tre sezioni, appiattendo un buon numero di maniglie. Aveva il naso a poco
più di un metro dalla parete del tunnel, istoriata di bellissimi pittogrammi
luminosi raffiguranti episodi della storia del Popolo.
Così i piccoli del Popolo possono imparare qualcosa della loro storia ogni
volta che passano di qui. Fantastico, pensò, ma subito dopo soffocò
l’ammirazione, dato che aveva imparato da tempo a disciplinare il cervello
per concentrarsi sui propri compiti di guardia del corpo senza sprecare
neuroni preziosi per entusiasmarsi per le meraviglie del sottosuolo.
Questa risparmiatela per la pensione, si disse. Allora potrai anche ripensare
all’arte e ammirarla.
La Centrale di Polizia era un crinale sul quale maestri artigiani avevano
accuratamente inserito nei ciottoli della pavimentazione il disegno dello
stemma a forma di ghiande della Libera Eroica Polizia. Tutta fatica sprecata
per quanto riguardava gli agenti della LEP, che per lo più non erano tipi da
fissare lo sguardo fuori dalle finestre del quarto piano per ammirare il modo
in cui i raggi del simil-sole colpivano il bordo di ogni ciottolo a forma di
foglia dorata facendo scintillare l’intero disegno.
In quel giorno particolare, poi, sembrava che al quarto piano fossero usciti
tutti dalle loro stanzette come sassolini su una superficie inclinata per
ammassarsi stretti stretti vicino alla cabina operativa, di fianco all’ufficiolaboratorio di Polledro.
Spinella puntò dritto alla sezione più stretta di quella calca e si fece strada a
gomitate senza dire una parola. Leale non ebbe da fare altro che schiarirsi la
voce e subito la folla si aprì come respinta magneticamente da quell’umano
gigante. Artemis si trovò così la strada spianata per la CabOp, dove il
comandante Grana Algonzo e Polledro seguivano rapiti lo svolgersi degli
eventi davanti a uno schermo a parete.
Polledro colse i sussulti che seguivano il passaggio di Leale ovunque andasse
a Cantuccio e si voltò a guardare. — I quattro siano con te — bisbigliò ad
Artemis. Il saluto scherzoso che aveva adottato negli ultimi sei mesi.
— Come ben sai, sono guarito — precisò Artemis. — Che succede qui?
Spinella gli fece spazio di fianco a Grana Algonzo, che con il passare degli
anni sembrava assomigliare sempre di più al suo ex capo, il comandante
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Julius Tubero. Il comandante Algonzo trasudava fanatismo da tutti i pori, al
punto che il giorno del diploma si era scelto il nomignolo di Grana. Una volta
aveva cercato di arrestare un troll per avere sporcato, il che spiegava la toppa
in simil-pelle sulla punta del suo naso, che vista da una certa angolazione
brillava giallognola.
— Bel taglio di capelli, capo — osservò Spinella. — Proprio come quello di
Tubero.
Il comandante Algonzo non staccò gli occhi dallo schermo. Spinella
scherzava per il nervosismo, e Grana lo sapeva. E aveva tutte le ragioni di
essere nervosa, anzi, avrebbe fatto bene ad avere vera e propria paura, data la
situazione che gli veniva trasmessa.
— Ammira lo spettacolo, capitano — disse secco. — Direi che si spiega da
solo.
Sullo schermo si vedevano tre figure, un prigioniero in ginocchio e i due che
lo avevano catturato, ma sulle prime Spinella non individuò Opal Koboi
perché cercava la folletta tra le due figure in piedi. Poi con un sussulto capì
che Opal era la prigioniera.
— Ma è un trucco, deve esserlo per forza.
Il comandante Algonzo fece spallucce come a dire: Sta’ un po’ a vedere.
Artemis si avvicinò allo schermo studiando l’immagine per carpirne i
dettagli. — E siete sicuri che sia una trasmissione in diretta?
— Direi di sì — rispose Polledro. — Anche se immagino che potrebbero
mandarci una registrazione.
— Da dove arriva?
Il centauro controllò il rilevatore di posizione sul proprio schermo. La linea
partiva da un satellite del Popolo e arrivava fino giù in Sudafrica e da lì a
Miami e a un centinaio di altri posti, come gli scarabocchi di un bambino
arrabbiato.
— Hanno intercettato un satellite e fatto passare il segnale attraverso una serie
di ripetitori. Potrebbero essere ovunque.
— Il sole è alto — rifletté Artemis ad alta voce. — Dalle ombre direi che è
primo pomeriggio. Se si tratta effettivamente di una diretta.
— Il che restringe il campo a un quarto del pianeta — commentò caustico
Polledro.
La confusione nella stanza aumentò mentre, sullo schermo, uno dei due
grossi gnomi in piedi alle spalle di Opal estraeva una pistola automatica da
umani. L’arma cromata sembrava un cannone in quelle dita di fata.
Fu come se nella CabOp la temperatura fosse calata di colpo.
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— Ho bisogno di silenzio — disse Artemis. — Fate uscire tutti.
Di norma, Grana Algonzo avrebbe ribattuto che Artemis non aveva l’autorità
di far sgomberare un ufficio e, anzi, avrebbe invitato altra gente ad affollare
la stanzetta solo per farsi valere, ma quel giorno non rientrava nella norma.
— Tutti fuori! — ringhiò agli agenti assiepati alle sue spalle. — Spinella,
Polledro e Fangosetto, voi rimanete qui.
— Credo che resterò anch’io — disse Leale, proteggendosi con una mano la
sommità del capo dalla lampada accesa.
Nessuno ebbe nulla da ridire.
Di solito gli agenti della LEP si allontanavano malvolentieri e con virile
riluttanza quando ricevevano l’ordine di farlo, ma in quel caso si
precipitarono tutti al monitor più vicino, ansiosi di non perdersi neppure un
fotogramma degli eventi.
Polledro chiuse la porta alle loro spalle con un colpo di zoccolo, quindi
oscurò il vetro per evitare distrazioni dall’esterno. Gli altri quattro rimasero in
un semicerchio disordinato davanti allo schermo a parete, a osservare quelli
che a tutti gli effetti sembravano gli ultimi istanti della vita di Opal Koboi. O
comunque, di una delle Opal Koboi.
Sullo schermo c’erano due gnomi con indosso maschere integrali anti-raggi
UVA programmabili per assumere le fattezze di chiunque. Quelle erano state
modellate su Pip e Kip, due popolarissimi mici dei cartoni animati della
PPTV, ma sotto di esse erano comunque ben riconoscibili due gnomi, con i
robusti torsi a forma di barile e gli avambracci rigonfi. Stavano davanti a un
insignificante muro grigio e torreggiavano sulla minuscola folletta
inginocchiata sui solchi lasciati nel fango da un qualche veicolo a ruote;
l’acqua lambiva i pantaloni della sua divisa di sartoria. Opal aveva i polsi
legati e la bocca sigillata con del nastro adesivo, e sembrava davvero
terrorizzata.
Il distorsore nella maschera dello gnomo con la pistola ne alterava la voce,
che sembrava quella del gattino Pip.
— Non so come spiegarmi meglio di così — squittiva, e in qualche modo
quei suoni da cartone animato lo rendevano ancora più pericoloso. — Noi
abbiamo preso una Opal, voi avete l’altra. Voi lasciate andare la vostra e noi
non uccideremo questa. Vi avevamo dato venti minuti, ve ne restano
quindici.
Pip il gattino alzò il cane della sua pistola.
Leale diede un colpetto sulla spalla a Spinella.
— Ma non ha detto…?
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— Già. Quindici minuti, o Opal muore.
Leale si infilò nell’orecchio una traducimice. Quella faccenda era troppo
importante per poter fare affidamento sulle sue zoppicanti conoscenze dello
gnomico.
Grana Algonzo era incredulo. — Ma che razza di accordo è? O voi ci
consegnate una terrorista o noi ammazziamo una terrorista?
— Non possiamo permettere che qualcuno venga ammazzato sotto i nostri
occhi — disse Spinella.
— Assolutamente no — convenne Polledro. — Non siamo mica umani.
Artemis si schiarì la voce.
— Spiacente, Artemis, ma voi umani siete davvero assetati di sangue —
insistette il centauro. — Certo, anche fra di noi ogni tanto salta fuori un
folletto assetato di potere, ma in linea di massima il Popolo è pacifico. Il che
probabilmente spiega perché viviamo qua sotto.
Grana Algonzo se ne uscì con un vero e proprio ringhio, uno dei suoi trucchi
da capo che non riusciva a molti, soprattutto se raggiungevano a malapena il
metro di altezza in quelli che Artemis era certo fossero stivali col rialzo, ma
abbastanza convincente da soffocare la lite sul nascere.
— Concentriamoci, gente — disse. — Qui ci servono delle soluzioni. Non
possiamo in nessun modo liberare Opal Koboi, ma non possiamo neanche
stare a guardare mentre l’ammazzano.
Nel frattempo il computer aveva cercato tutti i riferimenti a Koboi e aveva
avviato il suo file su uno schermo laterale, giusto nel caso che qualcuno
avesse bisogno di una rinfrescatina alla memoria.
OPAL KOBOI. Folletta geniale certificata, industriale e inventrice. Ha
organizzato il colpo di stato e l’insurrezione dei goblin. Si è clonata per
evitare la prigione e ha tentato di guidare gli umani a Cantuccio.
Responsabile dell’assassinio del comandante Julius Tubero. Si è fatta
impiantare una ghiandola pituitaria umana per produrre l’ormone della
crescita (successivamente rimossa). Una versione più giovane di Opal ha
seguito il capitano Tappo dal passato, e nell’epoca attuale risulta irreperibile.
Si presume che farà un tentativo di liberare il suo alter ego incarcerato e di
tornare alla propria epoca. Opal è nella posizione senza precedenti di
occupare i posti numero uno e due sull’elenco dei criminali più pericolosi
della LEP. Classificata come estremamente intelligente, motivata e psicotica.
Mossa audace, Opal, pensò Artemis. E con ripercussioni potenzialmente
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catastrofiche.
Avvertì più che vedere Spinella al suo fianco.
— Tu che cosa ne pensi, Artemis?
Il ragazzo era scuro in volto. — La mia prima impressione è che si tratti di un
bluff, ma i piani di Opal mettono sempre in conto le prime impressioni.
— Potrebbe essere un trucco. Forse quegli gnomi le sparerebbero a salve?
Artemis scosse il capo. — No. Una mossa del genere non porterebbe alcun
frutto, a parte un momentaneo orrore da parte nostra. Opal ha progettato
tutto questo in modo da assicurarsi comunque la vittoria. Se la liberate, allora
è libera. Se la Opal più giovane muore, allora… Allora cosa?
Leale intervenne. — Oggigiorno con gli effetti speciali si può fare di tutto. E
se elaborassero al computer lo scoppio della sua testa?
Era una teoria che Artemis aveva già valutato e scartato, giudicandola fiacca.
— No, Leale. Pensaci: anche in questo caso, non ci guadagnerebbe niente.
Polledro sbuffò. — In ogni caso, se la uccidono sul serio, sapremo molto
presto se tutta questa faccenda è vera oppure no.
Artemis se ne uscì in una mezza risata. — Ah, questo è vero, lo sapremo
senz’altro.
Leale gemette. Quello era uno di quei momenti in cui Artemis e Polledro
discutevano di qualcosa di scienzievole dando per scontato che anche tutti gli
altri nella stanza riuscissero a stargli dietro. Erano i momenti come quelli che
davano sui nervi a Spinella.
— Ma di che cosa state parlando? — gridò infatti l’elfa. — Che cos’è che
sapremo? Come sapremo qualcosa, qualunque cosa?
Artemis la guardò come appena risvegliato da un sogno. — Dici davvero,
Spinella? Hai due versioni dello stesso individuo nello stesso arco temporale
e non ti rendi conto delle implicazioni di questo fatto?
Sullo schermo, gli gnomi erano immobili come statue alle spalle della folletta
tremante. Quello armato, Pip, di tanto in tanto controllava l’orologio da polso
scostando il polsino della camicia con la canna della pistola, ma per il resto
aspettavano con pazienza. Opal implorava con gli occhi, fissando dritto
nell’obiettivo, con grossi lacrimoni che le correvano lungo le guance,
catturati dalla luce del sole. I capelli parevano più sottili del solito e sporchi.
L’uniforme di Juicy Couture, senza dubbio acquistata nel reparto bambini di
qualche grande magazzino esclusivo, aveva strappi incrostati di sangue in
diversi punti. L’immagine era a super-alta definizione, talmente nitida che
sembrava di vederla attraverso una finestra. Se quella era una minaccia
fasulla, allora la giovane Opal non era a parte del piano.
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Grana Algonzo picchiò un pugno sul tavolo, un gesto ostentato che aveva
ripreso da Julius Tubero.
— E cosa sarebbero le implicazioni? Spiegati!
— Tanto per essere chiari: vuoi che ti spieghi che cosa significa la parola
implicazioni? Oppure vuoi sapere quali sono?
Spinella gli rifilò una gomitata nel fianco per mettergli fretta. — Artemis,
stiamo lottando contro il tempo.
— Benissimo, Spinella. Ecco il problema…
— Oh, per favore, lascia che glielo spieghi io — lo pregò Polledro. —
Questo è il mio regno: sarò semplice e andrò dritto al punto, te lo prometto.
— Avanti, allora — disse Algonzo, che era noto per il suo amore per le
espressioni “semplice e dritto al punto”.
Spinella rise. Un unico latrato secco. Non riusciva a credere che tutti
continuassero a comportarsi come se niente fosse anche con una vita in
gioco.
Siamo diventati insensibili come gli umani, rifletté.
Qualsiasi cosa Opal avesse fatto, era ancora una persona. C’erano stati giorni
bui in cui Spinella aveva sognato di dare la caccia a quella folletta e di
comminare una giustizia come quella dei Fangosi, ma quei giorni erano
passati da un pezzo.
Polledro si tirò l’eccentrico ciuffo.
— Tutti gli esseri sono fatti di energia — esordì con la tipica voce pomposa
da quello-che-trasmette-informazioni-importanti che esibiva in momenti
come quello. — Quando questi esseri muoiono, a poco a poco la loro energia
si dissolve e ritorna alla terra. — Fece una pausa a effetto. — Ma che cosa
succede se tutta l’esistenza di un essere viene improvvisamente annullata da
un’anomalia quantistica?
Grana Algonzo lo interruppe con un gesto della mano. — Piano, piano.
Semplice e dritto al punto, ricordi?
Polledro riformulò il concetto. — D’accordo. Se la giovane Opal muore,
allora la vecchia Opal non può continuare a esistere.
Algonzo impiegò un secondo, ma capì. — Perciò sarà come al cinema? Si
dissolverà e noi resteremo a guardare perplessi per un momento e poi ce ne
dimenticheremo?
Polledro rise sotto i baffi. — Questa è una possibilità.
— E l’altra quale sarebbe?
D’un tratto il centauro impallidì e, cosa insolita per lui, lasciò la parola ad
Artemis.
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— Perché questa parte non la spieghi tu? — gli chiese. — Ho appena intuito
ciò che potrebbe effettivamente accadere e devo incominciare a fare qualche
chiamata.
Artemis annuì. — L’altra teoria è stata avanzata per la prima volta oltre
cinque secoli fa dal vostro professor Bahjee, il quale ritiene che se un arco
temporale viene inquinato dall’arrivo della versione più giovane di un essere
e se quella versione più giovane successivamente muore, allora la versione
attuale di quell’essere sprigionerà tutta la sua energia in maniera spontanea e
violenta. E non solo, ma qualunque cosa esistente grazie alla Opal più
giovane si ridurrà in cenere con lei.
“Violenta” e “ridurre in cenere” erano espressioni che il comandante Algonzo
capiva benone. — Sprigiona la sua energia? E con che violenza?
Artemis fece spallucce. — Dipende dall’oggetto o dall’essere. La materia si
trasforma in energia all’istante. Si sprigionerà una forza esplosiva immensa.
Si potrebbe parlare addirittura di fissione nucleare.
Spinella sentì il cuore accelerare. — Fissione? Fissione nucleare?
— Sostanzialmente sì — confermò Artemis. — Per gli esseri viventi. Gli
oggetti dovrebbero provocare meno danni.
— E qualunque cosa Opal abbia fatto o abbia contribuito a fare esploderà
con lei?
— No. Solo tutto ciò su cui ha avuto influenza negli ultimi cinque anni del
nostro arco di tempo, fra le sue due diverse età, anche se probabilmente su
entrambi i lati si verificherà qualche increspatura temporale.
— Stai parlando di tutte le armi della sua società ancora in uso? — chiese
Spinella.
— E ci sono anche i satelliti — soggiunse Algonzo. — Praticamente un
veicolo su due in questa città.
— Ma è solo una teoria — ricordò Artemis. — Ce n’è un’altra secondo cui
non succederà niente a parte la morte di una persona. La fisica avrà la meglio
sulla fisica quantistica e tutto proseguirà come sempre.
Spinella era paonazza di rabbia. — Parli come se Opal fosse già morta.
Artemis non sapeva che cosa dire. — Stiamo guardando nell’abisso, Spinella.
Fra poco molti di noi potrebbero essere morti. Ho bisogno di mantenere un
certo distacco.
Polledro alzò gli occhi dallo schermo del suo computer. — E che mi dici
delle percentuali, Fangosetto?
— Percentuali?
— Teoricamente.
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— Ah, capisco. Quante probabilità ci sono che si verifichino le esplosioni?
— Esatto.
Artemis rifletté un istante. — Tutto considerato, direi circa il novanta per
cento. Se mi piacesse scommettere e ci fosse qualcuno pronto ad accettare
una scommessa del genere, ci punterei sopra fino all’ultima moneta d’oro.
Grana Algonzo sembrava un leone in gabbia. — Dobbiamo rilasciare Opal.
Dobbiamo lasciarla andare subito.
Adesso Spinella era incerta. — Pensiamoci un attimo, Gran.
Il comandante si voltò a guardarla. — Non hai sentito che cos’ha detto
l’umano? Fissione nucleare! Non possiamo permetterci di avere una fissione
nucleare nel sottosuolo!
— Sono d’accordo, ma potrebbe sempre essere un trucco.
— L’alternativa è troppo terribile. La lasciamo libera e poi le diamo la caccia.
Mettimi in linea con Atlantide, subito. Ho bisogno di parlare con il guardiano
di Sprofondo. È ancora Vinyàya?
Artemis parlò piano, ma con il tono imperativo che faceva di lui un leader
naturale fin da quando aveva dieci anni.
— È troppo tardi per liberare Opal. Tutto ciò che possiamo fare è salvarle la
vita. È quello che ha sempre avuto in mente.
— Salvarle la vita? — obiettò Grana. — Ma abbiamo ancora…
Il comandante Algonzo controllò il timer. — Dieci minuti.
Artemis diede una pacca sulla spalla a Spinella e poi si allontanò da lei. — Se
la burocrazia elfica assomiglia anche solo un po’ a quella degli uomini, non
riuscirete mai a mettere Opal su una navetta entro quel termine. Al massimo
potreste portarla giù al nucleo del reattore.
Grana Algonzo non aveva ancora imparato sulla propria pelle a chiudere il
becco e a lasciare che Artemis si spiegasse, perciò continuava a fare domande
rallentando il processo e sprecando così secondi preziosi.
— Il nucleo del reattore? Quale nucleo del reattore?
Artemis alzò un dito ammonitore. — Ancora una domanda, comandante, e
mi costringerà a ordinare a Leale di farla tacere.
Grana Algonzo era lì lì per cacciarlo o per accusarlo di qualcosa, ma la
situazione era critica, e se c’era anche solo una possibilità che quell’umano
potesse essere di aiuto in un modo o nell’altro…
Strinse i pugni fino a far scricchiolare le dita. — D’accordo, parla.
— Sprofondo è alimentato da un reattore a fissione naturale in uno strato di
minerale di uranio posato su un letto di granito simile a quello di Oklo, nel
Gabon — spiegò Artemis, recuperando i fatti dalla memoria. — La
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Compagnia Elettrica del Popolo raccoglie l’energia in piccoli serbatoi
installati nell’uranio. Questi serbatoi sono costruiti con la scienza e la magia
per resistere a un’esplosione nucleare di entità moderata. Lo insegnano nelle
scuole, qui. Ogni membro del Popolo presente in questa stanza lo sa, dico
bene?
Tutti quanti annuirono. Tecnicamente era esatto: adesso lo sapevano.
— Se riusciamo a mettere Opal dentro un serbatoio prima dello scadere del
tempo, allora l’esplosione sarà per lo meno contenuta, e teoricamente, se
pompiamo al suo interno una quantità sufficiente di schiuma stopparadiazioni, Opal potrebbe addirittura conservare la propria integrità fisica.
Anche se questa invece è un’eventualità su cui non scommetterei fino
all’ultima moneta d’oro. A quanto pare, Opal è pronta a correre questo
rischio.
Grana Algonzo era tentato di puntare il dito contro il petto del ragazzino, ma
saggiamente ci ripensò. — Stai dicendo che questo è un elaborato piano di
fuga?
— Ma certo, e non così elaborato. Opal vi sta costringendo a farla uscire
dalla sua cella. L’alternativa è la completa distruzione di Atlantide e di ogni
anima al suo interno, che è una cosa impensabile per chiunque tranne che per
la stessa Opal.
Polledro aveva già tirato fuori le planimetrie della prigione.
— Il nucleo del reattore si trova a meno di cento metri sotto la cella di Opal.
Mi sto mettendo in contatto con la guardia proprio adesso.
Spinella sapeva che Artemis era un genio e che non c’era nessuno più
qualificato di lui per cercare di intuire i piani dei rapitori, ma avevano ancora
delle possibilità.
Guardò le figure sullo schermo, e l’indifferenza degli gnomi davanti a quanto
stavano per fare la raggelò. Se ne stavano stravaccati come adolescenti, quasi
non degnavano la loro prigioniera di un’occhiata, sicuri di sé fino alla
sfacciataggine, incuranti delle maschere a percezione sensoriale che
leggevano i loro volti e manifestavano le emozioni corrispondenti nella
maniera esagerata dei cartoni animati. Quelle maschere erano molto popolari
tra gli amanti del karaoke, i quali potevano assumere le sembianze dei loro
idoli oltre a cercare di imitarne la voce.
Forse non sanno di preciso che cosa c’è in ballo qui, pensò d’un tratto
Spinella. Forse ne sono ignari come lo ero io fino a dieci secondi fa.
— Possono sentirci? — chiese a Polledro.
— Sì, ma non abbiamo ancora risposto. Basta premere il pulsante.
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Era un’espressione antiquata; ovviamente, non c’erano più pulsanti veri e
propri, solo un sensore sul touch screen.
— Ferma, capitano! — le ordinò Grana Algonzo.
— Sono addestrata a portare avanti negoziati, signore — ribatté Spinella,
sperando che il rispetto nel suo tono di voce le facesse ottenere ciò che
voleva. — E una volta sono stata… — Scoccò un’occhiata colpevole ad
Artemis, dispiaciuta di dover giocare quella carta. — Sono stata un ostaggio
anch’io, perciò so come vanno queste cose. Mi lasci parlare con loro.
Artemis annuì in segno d’incoraggiamento, e Spinella seppe che aveva
compreso la sua tattica.
— Il capitano Tappo ha ragione, comandante — disse il ragazzo. — Spinella
ha capacità naturali di comunicazione. È riuscita a convincere perfino me.
— Allora fallo — abbaiò Algonzo. — Polledro, tu continua a cercare di
metterti in contatto con Atlantide. E raduna il Consiglio, dobbiamo
incominciare subito a evacuare le due città.
Anche se le facce degli gnomi non erano visibili, adesso le espressioni da
cartoni animati erano annoiate, lo si capiva dall’inclinazione del capo e dalle
ginocchia piegate. Forse tutta quella faccenda non era così emozionante come
avevano sperato. Dopotutto, non vedevano il loro pubblico e nessuno aveva
risposto alle loro minacce. Quella che era iniziata come un’azione
rivoluzionaria si stava trasformando in due grossi gnomi che se la
prendevano con una folletta. Pip agitava la pistola in direzione di Kip, e il
significato di quel gesto era chiaro: Ma perché non la facciamo fuori subito?
Spinella attivò il microfono con un gesto della mano. — Salve. È il capitano
Spinella Tappo della LEP che vi parla. Mi sentite?
Gli gnomi alzarono la testa di scatto, e Pip azzardò persino un fischio, che
attraverso il truccavoce uscì come una pernacchia.
— Salve, capitano Tappo. Abbiamo sentito parlare di te. E ho visto le foto.
Non sei niente male, capitano.
Spinella trattenne una risposta caustica: mai costringere un rapitore a dare
prova della propria determinazione.
— Grazie, Pip. Posso chiamarti Pip?
— Spinella Tappo, tu puoi chiamarmi come vuoi e ogni volta che vuoi —
squittì Pip, allungando la mano libera verso il compagno in un gesto di
complicità.
Spinella era incredula: quei due erano sul punto di cancellare del tutto
l’intero mondo del Popolo e facevano gli scemi come due goblin in
discoteca.
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— D’accordo, Pip — continuò con voce pacata. — E che cosa possiamo fare
per te oggi?
Pip scosse mestamente la testa rivolto verso Kip. — Ma perché quelle carine
sono sempre così stupide? — Poi si voltò verso la telecamera. — Lo sai che
cosa puoi fare per noi, ve lo abbiamo già detto. Liberate Opal Koboi o il suo
modello più giovane si farà una bella dormitina. E con ciò intendo dire che si
buscherà un colpo in piena fronte.
— Dovete darci un po’ di tempo come prova della vostra buona fede.
Avanti, Pip. Che ne dici di un’altra ora? Lo faresti per me?
Pip si grattò la testa con la canna della pistola, fingendo di prendere in
considerazione la richiesta. — Sei carina, Spinella, ma non così tanto. Se ti
do un’altra ora, riuscirai in un modo o nell’altro a rintracciarmi e a
sganciarmi una bella stasi temporale sulla testa. No, grazie, capitano. Avete
dieci minuti. Se fossi in te, aprirei quella cella oppure chiamerei l’impresario
delle pompe funebri.
— Ci vuole tempo per queste cose, Pip — insistette Spinella, ripetendo il
nome del suo avversario per creare una certa confidenza. — Ci vogliono tre
giorni solo per pagare una multa per divieto di sosta!
Pip si strinse nelle spalle. — Non è un problema mio, piccola. E puoi andare
avanti tutto il giorno a chiamarmi Pip, ma non diventeremo mai amici per la
pelle: non è il mio vero nome.
Artemis disattivò il microfono. — Questo è uno tosto, Spinella. Non giocare
con lui, digli la verità e basta.
L’elfa annuì e riaccese il microfono. — D’accordo, come-ti-chiami. Lascia
che ti spieghi come stanno le cose. Ci sono buone probabilità che se spari alla
giovane Opal, qua sotto si verifichi una serie di belle esplosioni. Un mucchio
di persone innocenti moriranno.
Pip agitò noncurante la pistola. — Ah, sì, le leggi quantistiche. Sappiamo
tutto al riguardo, vero, Kip?
— Le leggi quantistiche — confermò Kip. — Certo che lo sappiamo.
— E non vi importa che muoiano elfi buoni o addirittura gnomi che
potrebbero essere vostri parenti?
Pip inarcò talmente le sopracciglia che sbucarono da sopra la maschera. —
Tu vuoi bene a qualcuno dei tuoi parenti, Kip?
— Non ho famiglia. Sono orfano.
— Davvero? Anch’io.
E mentre loro continuavano a punzecchiarsi, Opal a terra tremava, cercando
di parlare attraverso il nastro adesivo. Più tardi, se mai ci fosse stato un più
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tardi, Polledro avrebbe fatto un’analisi vocale di quei mugolii soffocati, ma
non ci voleva un genio per capire che stava implorando di avere salva la vita.
— Ma ci sarà pur qualcosa che vi serve? — insistette Spinella.
— Una cosa ci sarebbe — ribatté Pip. — Posso avere il tuo numero di
interfono? Mi farebbe tanto piacere vederci per un simil-cappuccino, una
volta finito tutto questo. Certo, potrebbe volerci un po’, con Cantuccio in
rovina e tutto quanto.
Polledro inserì una scritta sullo schermo.
Diceva: Stanno trasferendo Opal in questo momento.
Spinella sbatté le palpebre per indicargli che aveva capito, poi riprese i
negoziati. — La situazione è questa, Pip. Ci restano nove minuti. Non si può
far uscire qualcuno da Atlantide in nove minuti, è impossibile. Bisogna fargli
indossare la tuta, se necessario anche pressurizzarla, e poi fargli attraversare i
condotti che portano in mare aperto. Nove minuti non sono sufficienti.
Le risposte teatrali di Pip incominciavano a diventare un po’ insopportabili.
— Be’, allora immagino che un mucchio di gente finirà a bagno. La fissione
può aprire un gran bel buco nello scudo.
Spinella sbottò: — Ma non vi importa di nessuno? Qual è la tariffa attuale
per il genocidio?
Pip e Kip scoppiarono a ridere.
— Che cosa orribile l’impotenza, non è vero? — disse Pip. — Però ci sono
anche sensazioni peggiori. Affogare, per esempio.
— O essere schiacciati dal crollo di un palazzo — aggiunse Kip.
Spinella picchiò i pugnetti sulla console. Quei due mi mandano in bestia,
pensò.
Pip si avvicinò alla telecamera finché la sua maschera non riempì tutto lo
schermo. — Se non riceveremo una chiamata da Opal Koboi nei prossimi
minuti per dirci che è a bordo di una navetta diretta alla superficie, allora io
sparerò a questa folletta. Credimi, lo farò.
Polledro si teneva la testa tra le mani. — E dire che Pip e Kip mi piacevano
così tanto — gemette.
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CAPITOLO 2 - FAR FUORI IL PASSATO
SPROFONDO, ATLANTIDE
Opal Koboi stava compiendo un futile tentativo di levitazione quando i
secondini andarono a prenderla. Era una cosa che aveva imparato a fare fin
da bambina, prima che la strada del crimine le cancellasse ogni forma di
magia dalle sinapsi, le minuscole giunzioni fra le cellule nervose in cui la
maggior parte degli esperti conviene che la magia abbia origine. Forse
avrebbe anche potuto rigenerare i propri poteri, se non fosse stato per la
ghiandola pituitaria umana che per un breve periodo si era fatta impiantare
nell’ipotalamo. La levitazione era un’arte complessa, soprattutto per le follette
dai poteri limitati, e di solito era uno stato raggiunto solamente dai monaci di
Ullallà della Terza Loggia, ma Opal era riuscita a padroneggiarla quando
ancora portava i pannolini, e quello era stato per i suoi genitori il primo
segno che la figlia era in qualche modo speciale.
Ma ci si può credere? pensava. Volevo diventare un’umana. Quello è stato un
errore per il quale prima o poi troverò qualcuno su cui buttare la colpa. Il
centauro Polledro: è stato lui a convincermi. Spero proprio che rimanga
ucciso nell’esplosione.
Fece un sogghigno compiaciuto. C’era stato un tempo in cui aveva superato
la monotonia della prigione ideando trappole mortali sempre più elaborate
per la sua nemesi sul centauro, ma adesso si accontentava di lasciare che
Polledro morisse con tutti gli altri nelle imminenti esplosioni. Oh, certo,
aveva macchinato una sorpresina per sua moglie, ma quello era solo un
progettino collaterale, non ci aveva perso dietro troppo tempo.
Questo dimostra a che punto sono arrivata, pensava. Sono maturata. Il velo
si è sollevato e ora vedo il mio vero scopo.
C’era stato un tempo in cui Opal non era stata altro che una spietata folletta
affarista con problemi con il padre, ma a un certo punto, nel corso di anni di
esperimenti proibiti, aveva lasciato che la magia nera mettesse radici nella sua
anima e piegasse i desideri del suo cuore finché non le era più bastato essere
ammirata nella sua città. Aveva bisogno che il mondo intero si inchinasse
davanti a lei, ed era pronta a rischiare il tutto per tutto e a sacrificare
chiunque per vedere soddisfatto il proprio desiderio.
Questa volta sarà diverso perché avrò piegato al mio volere dei guerrieri
terrificanti. Soldati antichi, che moriranno per me, si diceva.
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Opal si era schiarita la mente e aveva inviato una sonda in cerca del suo alter
ego. E tutto quello che aveva ricevuto era il rumore bianco del terrore.
Lei sa, si era resa conto. Poverina.
Quell’attimo di commiserazione per il suo alter ego più giovane non era
durato a lungo, perché la Opal prigioniera aveva imparato a non vivere nel
passato.
Sto semplicemente eliminando un ricordo, si disse. Tutto qui.
Che era un modo comodo di vedere la cosa.
La porta della sua cella passò dallo stato solido a quello gassoso, e Opal non
fu sorpresa di vedere davanti a sé il secondino Tarpon Vinyàya, un
malleabile burocrate che non aveva mai passato una sola notte sotto la luna.
Si agitava irrequieto sulla soglia, fiancheggiato da due spiritelli giganti.
— Guardia — lo salutò la folletta, lasciando perdere il suo tentativo di
levitazione. — È arrivata la mia grazia?
Tarpon non aveva tempo da perdere per i convenevoli. — Ti trasferiamo,
Koboi. Niente discussioni, seguimi e basta.
Con un gesto, chiamò i due colleghi. — Impacchettatela, ragazzi.
I due spiritelli entrarono decisi nella cella e senza dire una parola bloccarono
le braccia della prigioniera lungo i fianchi. Gli spiritelli giganti erano una
razza caratteristica di Atlantide, dove la combinazione particolare di ambiente
pressurizzato e filtri a base di alghe li faceva saltare fuori con crescente
regolarità nel corso degli anni. Di solito la loro forza muscolare andava a
scapito delle capacità intellettuali, il che faceva di loro delle guardie carcerarie
ideali, dato che non avevano alcun rispetto per qualunque essere più piccolo
di loro, esclusi quelli che gli pagavano lo stipendio.
Prima che Opal potesse anche solo aprire la bocca per formulare
un’obiezione, gli spiritelli l’avevano già ficcata in una tuta foderata stopparadiazioni e le avevano fatto passare attorno al tronco tre pitoncorde.
Il capo dei secondini sospirò come se avesse temuto che Opal riuscisse in
qualche modo a mettere fuori gioco i suoi compagni. Ed era proprio così.
— Ottimo. Ottimo — commentò, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di
canapa. — Portatela nell’interrato. Non toccate le tubature e, se possibile,
trattenete il fiato.
Gli spiritelli sollevarono la prigioniera come fosse un tappeto arrotolato e di
corsa uscirono dalla cella di Opal, attraversarono il ponticello che collegava il
suo cubo alla prigione principale ed entrarono nell’ascensore di servizio.
Opal sorrise dietro la pesante visiera di piombo dell’elmetto.
Questo deve decisamente essere il giorno in cui le Opal Koboi si fanno
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strapazzare da energumeni, si disse.
Trasmise un pensiero al suo alter ego più giovane in superficie: Mi dispiace
per te, sorella.
La cabina dell’ascensore schizzò verso il basso attraverso un centinaio di
metri di morbida argilla fino a una saletta fatta interamente di materiale
ultradenso recuperato dalla crosta di una stella di neutroni.
Opal immaginò che fossero arrivati e ridacchiò al ricordo di uno stupido
gnomo, alle superiori, che aveva domandato di che cosa fossero fatte le stelle
di neutroni.
— Di neutroni, ragazzo — era sbottato il professor Leguminosa. — Di
neutroni. Lo dice il nome stesso.
Quella stanza deteneva il record dell’ambiente più costoso per centimetro
quadrato su tutto il pianeta, anche se ricordava un po’ una fornace per
cemento. A un capo c’era la porta dell’ascensore, all’altro quelli che
sembravano quattro tubi per missili e al centro un nano estremamente irritato.
— Vi prendete gioco di me? — chiese, sporgendo in fuori la pancia con aria
belligerante.
Gli spiritelli giganti scaricarono la prigioniera sul pavimento grigio.
— Ordini, amico — disse uno dei due. — Mettila nel tubo.
Il nano scosse la testa ostinatamente. — Non intendo mettere nessuno in un
tubo. Quei tubi sono stati costruiti per le barre.
— Sono sicuro che uno dei reattori è vuoto, perciò anche il tubo deve essere
vuoto — ribatté il secondo spiritello, orgoglioso di avere memorizzato
quell’informazione.
— Avresti anche ragione, grassone, se non fosse per quel “deve essere” in
fondo alla frase — ribatté il nano che rispondeva al nome di Kolon Zkopja.
— Ma anche se fosse così, ho bisogno di sapere in che modo la conseguenza
del non mettere una persona in un tubo possa essere peggiore della
conseguenza del farlo.
Per digerire una frase di tale lunghezza, a uno spiritello gigante occorrevano
parecchi minuti; per fortuna, lo squillo del telefono di Kolon risparmiò loro
l’imbarazzo di una risposta.
— Un attimo — disse il nano, controllando l’identità del chiamante. — È la
guardia.
Kolon rispose al telefono con un lungo giro di parole. — Sì, pronto. Qui
parla Zkopja, dell’ufficio tecnico.
Rimase in ascolto per un lungo istante, in cui riuscì a proferire solo tre “ah
ah” e due “D’Arvit” prima di rimettere l’apparecchio in tasca.
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— Wow — fece tastando con il piede la tuta stoppa-radiazioni. — Direi che
fareste meglio a metterla nel tubo.
CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
Pip agitava il telefono davanti alla telecamera. — Senti qualcosa? Perché io
invece no. Nessuno che chiami questo numero, eppure ho cinque tacche.
Copertura planetaria al cento per cento. Diamine, una volta ho ricevuto una
telefonata persino su una navicella spaziale.
Spinella sfregò il microfono. — Stiamo facendo più in fretta possibile. In
questo momento Opal Koboi è al navettiporto. Ci servono solo altri dieci
minuti.
Pip incominciò a cantilenare:
Guai a mentire solo per riuscire.
Non dir menzogna se non cerchi rogna.
Polledro si scoprì a canticchiare pure lui. La musica era quella dei cartoni di
Pip e Kip. Spinella lo fulminò con un’occhiata.
— Scusa — borbottò il centauro.
Quei noiosi battibecchi spazientirono Artemis. — Tutto ciò è inutile e
francamente imbarazzante. Non hanno la minima intenzione di liberare Opal.
Dobbiamo sfollare immediatamente, per lo meno ai navettiporti. Sono
costruiti per resistere alle vampe di magma.
Polledro non era d’accordo. — Qui siamo al sicuro. Il vero pericolo è ad
Atlantide, dove si trova l’altra Opal. Tu hai detto, e io sono dello stesso
parere, che le esplosioni serie, quelle teoriche, possono coinvolgere solo gli
esseri viventi.
— Le esplosioni teoriche sono teoriche solo finché la teoria non viene
dimostrata — ribatté Artemis. — E con così tanti… — Lasciò la frase a metà,
cosa davvero insolita per lui, considerato che detestava tanto la grammatica
zoppicante quanto le cattive maniere. Il colorito della sua pelle passò da
pallido a porcellana, e il ragazzo arrivò perfino a darsi dei colpetti alla fronte.
— Stupidi. Stupidi. Polledro, siamo due imbecilli. Non che mi aspettassi che
un membro della LEP fosse capace di pensare fuori dagli schemi, ma tu…
Spinella riconobbe quel tono: lo aveva sentito nelle avventure precedenti, di
solito prima che qualcosa andasse catastroficamente storto.
— Che c’è? — domandò, già temendo una risposta che sicuramente doveva
essere terribile.
— Già — concordò Polledro, che il tempo di sentirsi offeso lo trovava
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sempre. — Perché sarei un imbecille?
Artemis puntò l’indice in diagonale verso il basso e a sud-ovest, all’incirca
nella direzione che avevano preso di ritorno dalla Clinica J. Argon.
— La cabina per ossigenoterapia mi ha annebbiato la mente — disse. — Il
clone. Nopal. Lei è un essere vivente. Se esplode lei, potrebbe aver luogo la
fissione.
Polledro aprì il file del clone sul sito web di Argon, navigando a tutta birra
fino ai dettagli sulla paziente. — No. Credo che dovremmo essere a posto.
Opal ha prelevato il DNA prima che avvenisse la distorsione temporale.
Artemis era comunque furioso con se stesso per avere momentaneamente
dimenticato un elemento di tale importanza. — Abbiamo affrontato la crisi
per diversi minuti prima che mi ricordassi dell’importanza del clone — disse.
— Se Nopal fosse stata creata in un momento successivo, la mia lentezza
mentale sarebbe potuta costare delle vite.
— Ma ci sono ancora un mucchio di vite in gioco, e dobbiamo salvarne il più
possibile — gli ricordò Polledro.
Il centauro sollevò un coperchio di plexiglas sulla parete e premette il
pulsante rosso sottostante. In un attimo, in tutta la città riecheggiò il suono
delle sirene di evacuazione. Quel rumore sinistro si propagò come il lamento
di madri che ricevono la cattiva notizia dei loro incubi.
Polledro si mangiucchiava un’unghia. — Non possiamo perdere tempo ad
aspettare l’approvazione del Consiglio — disse a Grana Algonzo. — Credo
che quasi tutti riusciranno a raggiungere i navettiporti, però dobbiamo
approntare le squadre di rianimazione.
A Leale l’idea di perdere Artemis non garbava per niente. — Non c’è
nessuno in imminente pericolo di vita.
Il suo principale non sembrava eccessivamente preoccupato. — Be’,
tecnicamente, tutti sono in imminente pericolo di vita.
— Chiudi il becco, Artemis! — sbottò Leale con un’infrazione senza
precedenti alla propria etica professionale. — Ho promesso a tua madre che
avrei badato a te, e tu non fai altro che mettermi in una posizione in cui i miei
muscoli e le mie doti non contano un bel niente.
— Sei ingiusto — ribatté Artemis. — Non puoi incolpare me per l’ultimo
scherzo di Opal.
La faccia di Leale prese un paio di tonalità di rosso di più di quanto Artemis
ricordasse di avergli mai visto. — Oh, sì che credo di poter incolpare te, e lo
faccio! Non abbiamo ancora superato del tutto le conseguenze della tua
ultima disavventura ed eccoci qui immersi fino al collo in un’altra.
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Artemis sembrava più scioccato da quello sfogo che dalla faccenda
dell’imminente pericolo. — Leale, non avevo idea che ti sentissi così
frustrato.
La guardia del corpo si sfregò la testa rasata. — Neanch’io — ammise. —
Però negli ultimi anni ne sono successe una dietro l’altra. Goblin, viaggi nel
tempo, demoni. E adesso questo posto in cui è tutto così… così… piccolo. —
Prese fiato. — Va bene, l’ho detto, mi sono sfogato. Adesso sto meglio.
Perciò muoviamoci, d’accordo? Qual è il piano?
— Procedere con l’evacuazione — rispose subito Artemis. — Smettere di
perdere tempo con quelle teste vuote che hanno in mano l’ostaggio, loro
seguono soltanto le istruzioni. Chiudere le porte antiscoppio che dovrebbero
assorbire in parte le onde d’urto.
— Abbiamo già messo in atto le nostre strategie, umano — gli ricordò Grana
Algonzo. — L’intera popolazione può trovarsi ai punti di raccolta in cinque
minuti.
Artemis camminava su e giù, pensieroso. — Dite alla vostra gente di buttare
tutte le armi nei pozzi del magma. Di sbarazzarsi di qualsiasi cosa possa avere
a che fare con la tecnologia Koboi. Telefoni, videogiochi, tutto quanto.
— Tutte le armi prodotte dalla Koboi sono già state ritirate — disse Spinella.
— Però qualcuna delle Neutrino più vecchie potrebbe ancora contenere un
chip o due.
Grana Algonzo ebbe la buona grazia di mostrarsi imbarazzato. — Be’, in
effetti solo alcune delle armi prodotte dalla Koboi sono state ritirate — la
corresse. — I tagli al bilancio, sai com’è.
Pip interruppe i loro preparativi picchiando addirittura sull’obiettivo. — Ehi,
voialtri della LEP! Io ci sto invecchiando, qui. Qualcuno dica qualcosa,
qualunque cosa. Anche altre bugie, non importa.
Artemis si accigliò. Non gli andava a genio quell’atteggiamento così
strafottente quando tante vite erano in pericolo. Indicò il microfono. —
Posso?
Algonzo non si degnò quasi di alzare lo sguardo e continuò con le sue
chiamate di emergenza facendo un gesto vago aperto a qualsiasi
interpretazione. Artemis decise di interpretarlo come un sì.
Si avvicinò allo schermo. — Ascoltami, essere inferiore. Sono Artemis Fowl.
Forse avrai sentito parlare di me.
Pip fece un largo sorriso e la maschera ricalcò la sua espressione. — Oooh,
Artemis Fowl. Il ragazzino prodigio. Certo che abbiamo sentito parlare di te,
non è vero, Kip?
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Kip annuì e accennò una piccola giga. — Artemis Fowl, il ragazzo irlandese
che ha dato la caccia ai leprecauni. Sicuro come l’oro che tutti hanno sentito
parlare di quel saputello.
Quei due sono degli idioti, pensò Artemis. Degli idioti che parlano troppo, e
io dovrei saper sfruttare i loro punti deboli.
Tentò un trucco. — Credevo di avervi detto di leggere le vostre richieste
senza aggiungere altro.
Il volto di Pip era letteralmente una maschera di confusione. — Tu ci hai
detto?
Artemis indurì il tono di voce. — Le mie istruzioni a voi due idioti erano di
leggere le richieste, aspettare che scadesse l’ultimatum e poi sparare alla
folletta. Non mi ricordo di avervi autorizzato a insultare.
La maschera di Pip si accigliò. Come faceva Artemis Fowl a conoscere le
loro istruzioni?
— Le tue istruzioni? Ma noi non prendiamo ordini da te.
— Ah, no? E allora spiegami un po’ come faccio a conoscere i vostri ordini
alla lettera.
Il software della maschera di Pip non era in grado di gestire cambiamenti di
espressione così rapidi e per un attimo si bloccò.
— Io… ehm… non…
— E spiegami anche come faccio a conoscere la frequenza precisa su cui
contattarvi.
— Non sei alla Centrale di Polizia?
— Certo che no, idiota. Sto aspettando l’arrivo di Opal al punto convenuto.
Artemis sentì il polso accelerare mentre la sua mente conscia impiegava un
momento per mettersi in pari con quella subconscia e gli diceva che cosa
riconosceva sullo schermo.
Qualcosa sullo sfondo.
Qualcosa di familiare.
Il muro dietro Pip e Kip era di un grigio anonimo. Ricoperto di un intonaco
rifinito rozzamente, molto comune nelle fattorie in tutto il mondo. C’erano
muri così in tutta la tenuta dei Fowl.
Bingo!
E il suo cuore riprese a battere.
Si concentrò sul muro. Grigio ardesia, tranne per una ragnatela di crepe che
si aprivano nell’intonaco.
Gli tornò alla mente un ricordo di un Artemis di sei anni e di suo padre che
facevano il giro della proprietà. Mentre passavano davanti al fienile accanto
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al pascolo sul confine settentrionale, il piccolo Artemis aveva indicato il
muro e aveva osservato: — Hai visto, padre? Quelle crepe disegnano la
mappa della Croazia, che un tempo faceva parte degli Imperi Romano,
Ottomano e Austro-Ungarico. Tu lo sapevi che la Croazia ha proclamato
l’indipendenza dalla Jugoslavia nel 1991?
Ecco cos’era. Sul muro alle spalle di Pip e Kip. La mappa della Croazia,
anche se adesso l’Artemis quindicenne vedeva che la linea costiera della
Dalmazia era interrotta.
Sono nella tenuta dei Fowl, comprese.
Ma perché?
E allora gli tornò alla mente qualcosa che aveva detto il dottor Argon.
“Perché lì i residui della magia sono particolarmente abbondanti. Un tempo
nella proprietà dei Fowl è accaduto qualcosa. Qualcosa di enorme, dal punto
di vista della magia.”
Artemis decise di agire in base a quell’intuizione. — Sono alla tenuta dei
Fowl in attesa di Opal — disse.
— Anche tu sei a Casa Fowl? — sbottò Kip, il che spinse Pip a voltarsi di
scatto e a sparare al suo compare dritto al cuore. Lo gnomo, sbalzato
all’indietro contro il muro, fece sollevare nuvole di polvere dall’intonaco. Da
un foro nel petto gli uscì un rivoletto di sangue che pulsava piano sulla sua
corazza, simile a una banalissima goccia di pittura fuoriuscita da un barattolo.
La sua faccia da gattino dei cartoni animati sembrava comicamente sorpresa
e, quando il calore abbandonò il suo viso, i pixel si spensero, lasciando solo
un punto interrogativo giallo.
Quella morte improvvisa scioccò Artemis, ma la frase che l’aveva preceduta
lo aveva scioccato ancora di più.
Aveva avuto ragione su entrambe le cose: non solo dietro tutto questo c’era
Opal, ma il punto d’incontro era la tenuta dei Fowl.
Ma perché? Che cos’era successo lì?
Pip gridò contro lo schermo: — Hai visto che cos’hai fatto, umano? Se poi lo
sei davvero, umano. Se sei davvero Artemis Fowl. Non ha importanza quello
che sai, è troppo tardi ormai.
Pip premette la canna della pistola ancora fumante alla testa di Opal e lei si
scostò come se il metallo le bruciasse la pelle, implorando attraverso il nastro
adesivo che le tappava la bocca. Era evidente che Pip aveva una gran voglia
di premere il grilletto, ma non poteva farlo.
Ha ricevuto istruzioni precise, pensò Artemis. Deve aspettare che sia scaduto
il tempo prestabilito. Altrimenti non può avere la certezza che Opal sia al
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sicuro nel reattore nucleare.
Il ragazzo disattivò il microfono e si stava già dirigendo alla porta quando
Spinella lo prese per un braccio.
— Non c’è tempo — gli disse, indovinando giustamente che lui voleva
andare a casa.
— Devo cercare di salvare la mia famiglia dalla prossima fase del piano di
Opal — ribatté secco. — Ci restano solo cinque minuti. Se riesco a
raggiungere un pozzo di magma, potremmo anche farcela prima che le
esplosioni arrivino in superficie.
Il comandante Grana Algonzo soppesò in fretta le opzioni.
Poteva ordinare ad Artemis di rimanere sotto terra, ma di certo sarebbe stato
strategicamente vantaggioso avere qualcuno capace di rintracciare Opal
Koboi, se in un modo o nell’altro fosse riuscita a fuggire da Atlantide.
— Va’ — gli disse. — Il capitano Tappo porterà te e Leale in superficie.
Rimanete in contatto se…
Non finì la frase, ma nella stanza tutti avevano capito che cosa volesse dire:
Rimanete in contatto se… ci sarà ancora qualcosa da contattare.
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CAPITOLO 3 - FUOCO E ZOLFO
A Opal non piacque sentirsi spingere giù per il tubo con uno scovolo piatto
in cima, però dentro la crosta del neutrone si sentì davvero a proprio agio,
avvolta in un morbido strato di schiuma stoppa-radiazioni.
Proprio come un bruco nel suo bozzolo, pensò, appena appena infastidita
dalla ruvida stoffa della sua tuta stoppa-radiazioni. Sto per trasformarmi in
una divinità. Il mio destino sta per compiersi. Inchinatevi, creature, o portate
anche voi la vostra cecità.
E poi pensò: Portate anche voi la vostra cecità? Non sarà un po’ eccessivo?
Un dubbio la tormentava: temeva di avere fatto un errore tremendo a mettere
in moto quel piano. Era la manovra più drastica che mai fosse stata compiuta,
avrebbe provocato la morte di migliaia di membri del Popolo e umani. E,
peggio ancora, lei stessa poteva morire o trasformarsi in un qualche mutante
temporale. Poi però decise di affrontare tali preoccupazioni limitandosi a non
pensarci. Era un atteggiamento infantile, lo sapeva, ma era convinta al
novanta per cento di essere predestinata a diventare il primo Essere
Quantistico.
L’alternativa era troppo orribile per prenderla in considerazione a lungo: lei,
Opal Koboi, sarebbe stata costretta a vivere fino alla fine dei suoi giorni a
Sprofondo come una comune prigioniera, oggetto di ridicolo e di derisione,
di progetti scolastici e di tediose lezioncine moraleggianti. Uno scimpanzé
nello zoo di Atlantide che avrebbe attirato la curiosità del Popolo. Uccidere
tutti o perfino morire lei stessa sarebbe stato di gran lunga preferibile. Non
che sarebbe morta: il tubo avrebbe contenuto la sua energia, e, se si fosse
concentrata abbastanza, sarebbe diventata una versione nucleare di se stessa.
Sembra quasi di sentire il destino imminente. Ormai ogni momento può
essere quello buono, rifletté.
CANTUCCIO
Artemis, Leale e Spinella presero l’ascensore espresso per il navettiporto
della Centrale, collegato al nucleo terrestre attraverso un pozzo di magma che
forniva buona parte dell’energia della città tramite barre geotermiche. Artemis
non parlava, continuava a borbottare tra sé e a tamburellare con le nocche
sulla parete d’acciaio dell’ascensore. Con sollievo Spinella notò che quel
tamburellare non aveva un ritmo, a meno che non fosse troppo complicato
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per poterlo riconoscere. Non sarebbe stata la prima volta che i processi
mentali di Artemis andavano al di là della sua comprensione.
L’ascensore era spazioso per gli standard della LEP, per cui Leale aveva
abbastanza posto per poter stare in piedi, anche se comunque a ogni
scrollone sbatteva il cranio contro la parete della cabina.
Finalmente, Artemis disse: — Se riusciamo a entrare nella navetta prima della
scadenza dell’ultimatum, avremo una possibilità reale di arrivare nei pozzi in
tempo.
Artemis aveva usato la parola “ultimatum”, ma i suoi compagni sapevano che
quello che intendeva era “assassinio”. Una volta scaduto il termine, Pip
avrebbe sparato a Opal, ormai nessuno ne dubitava. E allora le conseguenze
di quell’assassinio, quali che fossero, si sarebbero manifestate, e all’interno
di una navetta di titanio costruita appositamente per sopravvivere
all’immersione totale in un pozzo di magma avrebbero avuto maggiori
probabilità di farcela.
L’ascensore si fermò con un sibilo sui pistoni pneumatici, e le porte si
aprirono su un vero e proprio marasma. Il navettiporto pullulava di membri
del Popolo agitatissimi che si facevano largo a fatica tra i controlli di
sicurezza, ignorando i consueti protocolli di raggi X e scavalcando barriere e
tornelli. Contro ogni legge, i folletti volavano rasoterra sfiorando con le ali i
tubi dell’illuminazione. Gli gnomi se ne stavano ammucchiati in formazione
da squadra di strozzapalla nel tentativo di superare la fila di agenti della LEP
in tenuta antisommossa.
— Dimenticano l’addestramento — mormorò Spinella. — Questo panico
non aiuterà nessuno.
Artemis fissava attonito quella baraonda. Aveva già visto qualcosa del genere
una volta, all’aeroporto JFK, quando dagli ARRIVI era sbucata la star di un
reality. — Non ce la faremo mai. Non senza fare del male a qualcuno.
Leale si caricò in spalla i compagni. — Ce la faremo, eccome! — dichiarò,
buttandosi deciso nella calca.
L’atteggiamento di Pip era cambiato da quando aveva sparato al suo collega.
Aveva messo fine alle chiacchiere e alle sbruffonate e adesso seguiva le
istruzioni alla lettera: aspettare finché non fosse squillata la sveglia del
telefonino e poi sparare alla folletta.
Quel Fowl. Era tutto un bluff, giusto? Ormai non può fare più niente. E poi
probabilmente non era neppure lui, pensò.
Pip decise che non avrebbe mai raccontato in giro quanto era accaduto quel
giorno. Il silenzio era la strada più sicura. Le parole non avrebbero fatto altro
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che intrecciarsi in una corda che lo avrebbe impiccato.
Non c’è bisogno che lei venga a saperlo, rifletté.
Però Pip sapeva anche che le sarebbe bastato guardarlo negli occhi per capire
tutto. Per un attimo prese in considerazione l’idea di scappare, di svicolare da
quel piano complicato per tornare a essere un semplice gnomo.
Non posso farlo. Mi troverebbe comunque. Mi troverebbe e mi farebbe
qualcosa di terribile. E, per qualche ragione, non voglio liberarmi di lei, si
disse.
Non c’era altro da fare che seguire gli ordini a cui non aveva già disubbidito.
Forse, se la uccidessi, lei mi perdonerebbe.
Sollevò il cane della pistola e la premette contro la nuca di Opal.
ATLANTIDE
All’interno del reattore, la mente di Opal era in preda all’euforia. Doveva
mancare poco. Pochissimo. Aveva tenuto il conto dei secondi, ma la corsa in
ascensore, con tutti quegli scrolloni, l’aveva disorientata.
Sono pronta, pensò. Pronta per il prossimo passo.
Premilo!, trasmise, sapendo che il suo alter ego più giovane avrebbe captato
il suo pensiero e sarebbe andata nel panico. Premi il grilletto.
CENTRALE DI POLIZIA
Polledro sentì il ciuffo afflosciarsi per il peso del sudore e cercò di ricordare
quali fossero state le parole con cui quel mattino si era accomiatato da
Cavallina. Credo di averle detto che la amo. Lo faccio sempre, ma questa
mattina gliel’ho detto? L’ho fatto?
Gli sembrava della massima importanza.
Cavallina sta in periferia. Sarà al sicuro. Bene così, si disse.
Il centauro non credeva ai suoi stessi pensieri. Se dietro tutto questo c’era
Opal, il suo piano avrebbe avuto ramificazioni complicate che ancora non
avevano compreso. Opal Koboi non fa piani, lei scrive libretti d’opera.
Per la prima volta in vita sua, Polledro era terrorizzato al pensiero che
qualcun altro potesse essere anche solo un filino più intelligente di lui.
NAVETTIPORTO DELLA CENTRALE DI POLIZIA
Leale procedeva tra la folla, facendo attenzione a dove metteva i piedi.
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All’interno del navettiporto la sua comparsa non fece altro che aumentare il
panico, ma ormai non poteva farci niente. Qualche membro del Popolo
avrebbe dovuto sopportare alcuni disagi temporanei, se questo significava
arrivare alla navetta in tempo. Gli elfi gli si affollavano attorno alle ginocchia
come pesci spazzini; molti di loro lo pungolavano con gli sfrizzagente e un
paio gli spruzzarono addosso uno spray repellente ai feromoni, che occluse
all’istante i seni nasali dell’eurasiatico.
Quando arrivarono al tornello di sicurezza, la colossale guardia del corpo lo
scavalcò con naturalezza, mentre la maggioranza della popolazione spaventata
si accalcava dall’altro lato. Leale ebbe la presenza di spirito di tuffare Spinella
davanti allo scanner retinico in modo da garantirsi l’accesso senza attivare le
misure di sicurezza del terminal.
L’elfa chiamò uno spiritello che riconobbe al banco della sicurezza. — Ehi,
Cicca. Il nostro pozzo è aperto?
Un tempo Cicca Verbil era stato il compagno di pattuglia di Spinella, ed era
vivo solo perché la collega lo aveva trascinato al sicuro quando era rimasto
ferito a un’ala.
— Uhm… sì. Il comandante Grana Algonzo ci ha detto di scavare un buco.
Tu stai bene, capitano?
Spinella smontò dalla spalla di Leale e atterrò sollevando scintille con i tacchi
degli stivali. — Benissimo.
— Un mezzo di trasporto un po’ insolito — commentò Cicca, fluttuando
nervoso a mezzo metro dal pavimento; il suo riflesso scintillava nell’acciaio
lucido sotto di lui come uno spiritello intrappolato in un’altra dimensione.
— Non preoccuparti, Cicca — lo rassicurò Spinella, dando dei colpetti alla
coscia di Leale. — È innocuo. A meno che non senta odore di paura.
Leale diede un’annusatina come se avesse colto un debole olezzo di terrore.
Cicca si alzò di qualche centimetro agitando all’impazzata le ali da colibrì,
quindi picchiettò la tastiera virtuale sul computer da polso. — Va bene.
Potete passare. La squadra di terra ha controllato tutte le vostre
apparecchiature di emergenza. E, già che c’eravamo, abbiamo aggiunto anche
un nuovo cubogeneratore al plasma, perciò dovreste essere a posto per
qualche decennio. Le porte antiscoppio si chiuderanno fra meno di due
minuti, perciò se fossi in te mi darei una mossa e porterei con me quei due
Fangosi… voglio dire, quei due umani.
Leale decise che avrebbe fatto prima se avesse tenuto Artemis in spalla finché
non fossero entrati nella navetta, perché nella fretta sarebbe sicuramente
inciampato in un nano. Imboccò di corsa il tubo di metallo che portava dal
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banco del check-in alla loro navetta.
Polledro era riuscito a far approvare un ordine di ristrutturazione per il porto
in modo che a Leale bastasse solo chinare il capo per passare sotto
l’architrave. La navetta era in realtà un fuoristrada confiscato dall’Ufficio
Sequestri a un contrabbandiere di tonno. La fila centrale di sedili era stata
rimossa perché la guardia del corpo potesse allungarsi stando seduto dietro.
Viaggiare in fuoristrada era la cosa che Leale preferiva nelle sue visite nel
sottosuolo.
— Fuoristrada! — aveva grugnito Polledro. — Come se a Cantuccio ci fosse
qualche posto in cui non ci sono strade. Solo pacchiani status symbol, ecco
cosa sono questi macinini!
Il che non gli aveva impedito di sbizzarrirsi a ordinare accessori che
trasformassero il veicolo in una specie di Humvee americano in grado di
ospitare due umani sul sedile posteriore. E dato che uno dei due umani in
questione era Artemis, Polledro aveva fatto le cose in grande ed era riuscito a
infilare in quello spazio ristretto qualche piccolo extra in più rispetto a quelli
che si trovavano nelle sonde per Marte di serie: sedili a gelatina, trentadue
altoparlanti, TV 3D in HD, e, per Spinella, scorte di ossigeno e una taglierina
a laser nello stemma sul cofano, che rappresentava uno spiritello che soffiava
in un lungo corno. Era quello il motivo per cui la navetta veniva
soprannominata Cupido d’argento. Un po’ troppo sdolcinato per i gusti di
Artemis, perciò Spinella usava quel nome ogni volta che le era possibile.
Il fuoristrada rilevò l’approssimarsi dell’elfa e inviò un messaggio al suo
computer da polso per chiedere se dovesse aprire le porte e avviare il motore.
Spinella diede conferma senza perdere il passo e le porte ad ala di pipistrello
si sollevarono silenziose giusto in tempo perché Leale potesse scaricare
Artemis direttamente sul sedile posteriore come un sacco di gattini. Spinella
scivolò sull’unico sedile anteriore sul muso della navetta, e prima ancora
della chiusura delle porte si agganciò alla rotaia di alimentazione.
Artemis e Leale si appoggiarono allo schienale in modo che i dispositivi di
sicurezza potessero abbassarsi sulle loro spalle regolandosi automaticamente
grazie ai sensori di tensione.
Le dita di Artemis tormentavano la stoffa dei pantaloni sulle ginocchia. La
lentezza con cui avanzavano sulla rotaia di alimentazione era esasperante. In
fondo al tunnel di roccia rivestito di pannelli metallici potevano già scorgere
il pozzo, un orifizio luminoso spalancato come le porte dell’inferno.
— Spinella, non puoi accelerare? — disse fra i denti.
L’elfa tolse dal volante le mani guantate. — Siamo ancora sulla rotaia di
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alimentazione, Artemis. È tutto automatico.
Su uno schermo installato sul parabrezza apparve la faccia di Polledro. —
Perdonami, Artemis — gli disse. — Mi dispiace davvero, abbiamo esaurito il
tempo.
— No! — gridò Artemis, agitandosi. — Rimangono ancora quindici secondi.
Almeno dodici.
Gli occhi di Polledro corsero ai comandi. — Dobbiamo chiudere le porte se
vogliamo avere la certezza che all’interno dei rifugi sopravvivano tutti. Mi
dispiace davvero tanto, Artemis.
Il fuoristrada si arrestò con un sobbalzo mentre alla rotaia veniva tagliata la
corrente.
— Possiamo farcela — insistette Artemis con un rantolo prossimo al panico.
Davanti a loro la porta dell’inferno incominciò a chiudersi, mentre i
giganteschi meccanismi di costruzione nanesca calavano sull’apertura le
robuste serrande.
Artemis afferrò l’elfa per le spalle. — Spinella? Ti prego…
Spinella, esasperata, passò ai comandi manuali. — D’Arvit — sbuffò,
premendo l’acceleratore a tavoletta.
Il fuoristrada balzò in avanti, sganciandosi dalla rotaia e attivando i fanali
girevoli e il clacson.
Sullo schermo, Polledro si sfregava le palpebre. — Già, già. Eccoci di nuovo.
Il capitano Tappo si appresta a farne un’altra delle sue. Alzi la mano chi ne è
sorpreso. Nessuno?
Spinella cercò di ignorare il centauro e di concentrarsi per riuscire a far
passare la navetta nel varco sempre più piccolo.
Di solito questi numeri li faccio verso la fine di un’avventura, pensava. Il
climax del terzo atto. Stavolta si comincia un po’ presto.
La navetta sfiorò il fondo del tunnel e l’attrito fece sollevare due archi
appaiati di scintille che rimbalzarono contro le pareti. Spinella inforcò un
paio di occhialoni e regolò automaticamente la visione all’insolita doppia
focalizzazione necessaria per inviare comandi palpebrali ai sensori nelle lenti
e al tempo stesso guardare davanti a sé.
— Un pelo — mormorò. — Ce la facciamo per un pelo. — E poi, prima di
perdere il contatto: — Buona fortuna, Polledro. Stammi bene.
Il centauro picchiettò due dita sullo schermo. — Buona fortuna a tutti noi.
Spinella guadagnò un altro paio di centimetri sgonfiando le sospensioni a
cuscinetto della Cupido, e il fuoristrada riuscì all’ultimo secondo a infilarsi
sotto le porte antiscoppio ormai già quasi chiuse e a imboccare il camino
43
naturale. Sotto di loro, il nucleo terrestre sputava vampe di magma di dieci
chilometri di larghezza, creando correnti di fuoco che lambirono la parte
inferiore della navetta, bruciandola e scagliandola a spirale verso la
superficie.
Spinella regolò gli stabilizzatori e posò collo e nuca al poggiatesta. —
Tenetevi forte — disse. — Ci aspetta un viaggio un po’ turbolento.
Pip sobbalzò quando sul suo telefonino squillò la sveglia, quasi non se lo
aspettasse, quasi non fosse stato a contare i secondi. Ciò nonostante, ora che
il momento era finalmente arrivato, parve sorpreso. Sparare a Kip lo aveva
privato di tutta la sua impudenza, e il suo linguaggio corporeo era
chiaramente quello di un assassino riluttante.
Cercò di riguadagnare un po’ del vecchio spirito sprezzante agitando la
pistola e rivolgendo sguardi maliziosi alla telecamera, ma è difficile far
passare l’assassinio di una folletta bambina per qualcosa di diverso da quello
che è.
— Vi avevo avvertiti — disse alla telecamera. — È tutta colpa vostra, gente,
non mia.
Alla Centrale, il comandante Grana Algonzo attivò il microfono.
— Ti troverò — ringhiò. — Anche se dovessi impiegarci mille anni, ti
troverò e ti sbatterò in galera fino alla fine dei tuoi giorni.
In realtà, quelle parole parvero addirittura risollevare il morale dello gnomo.
— Tu? Trovare me? Scusami tanto se la cosa non mi preoccupa, sbirro, ma
conosco qualcuno che mi fa molto più paura.
E senza tanti altri discorsi, sparò a Opal, un colpo solo dritto in testa.
La folletta si accasciò in avanti come se l’avessero colpita alla nuca con un
badile. L’impatto del proiettile la scagliò a terra con una certa violenza, ma
uscì pochissimo sangue, a parte un rivoletto dall’orecchio, come se la piccola
Opal fosse caduta dalla bicicletta nel cortile della scuola.
Alla Centrale, dove solitamente regnava un gran baccano, calò il silenzio
mentre tutto il personale aspettava le ripercussioni dell’assassinio cui aveva
appena assistito. Quale delle teorie quantistiche si sarebbe dimostrata esatta?
Forse non sarebbe accaduto nulla, a parte la morte di una folletta.
— Va bene — disse Grana Algonzo dopo un lungo momento carico di
tensione. — Siamo ancora operativi. Quanto ci vuole per uscire dalla cacca
di troll?
Polledro stava per effettuare qualche calcolo al computer quando lo schermo
a parete andò in frantumi da solo, diffondendo un gas verde nella stanza.
44
— Tenetevi forte — consigliò. — Sta per scoppiare il caos.
ATLANTIDE
Opal Koboi si sentì morire e fu una sensazione curiosa, come un tarlo che la
rodeva dentro.
E così, è questo che ti fa provare un trauma, pensò. Sono sicura che lo
supererò.
Il senso di nausea fu presto sostituito da un’euforia effervescente mentre
pregustava ciò che sarebbe diventata di lì a poco. Finalmente mi trasformerò.
Uscirò dal mio bozzolo come la creatura più potente del pianeta. Non
incontrerò ostacoli sulla mia strada.
Era tutto molto melodrammatico, ma Opal decise che, date le circostanze, un
suo eventuale biografo avrebbe compreso.
Non le venne mai fatto di pensare che la sua teoria del paradosso temporale
potesse semplicemente essere sbagliata e che uccidendo la sua unica vera
alleata si sarebbe potuta ritrovare in fondo a un buco in un reattore nucleare.
Sento un pizzicore, pensò. Comincia.
Il pizzicore diventò un bruciore fastidioso alla nuca che presto si diffuse a
tutta la testa, serrandogliela in una morsa d’acciaio. Mentre tutto il suo essere
si trasformava d’un tratto in panico e dolore, Opal non accarezzava più sogni
di conquiste future.
Ho commesso un errore, pensava disperata. Nessun premio vale un altro
secondo di questa sofferenza.
Si agitò nella sua tuta stoppa-radiazioni, combattendo contro la morbida
resistenza della schiuma che le ostacolava i movimenti. Il dolore si diffuse
attraverso il sistema nervoso, aumentando d’intensità da appena
insopportabile a inimmaginabile. L’ultimo minimo briciolo di sanità mentale
che le era rimasto andò in pezzi come l’ormeggio di una barchetta in un
uragano.
Opal sentì la magia tornare e sottomettere il dolore in ciò che le rimaneva
delle terminazioni nervose. La folletta pazza e vendicativa si sforzò in tutte le
maniere di contenere la propria energia e di non farsi distruggere del tutto dal
suo stesso potere, che veniva rilasciato anche in quel momento mentre gli
elettroni mutavano le loro orbite e i nuclei si spezzavano spontaneamente. Il
suo corpo si trasformò in pura energia dorata, vaporizzando la tuta e aprendo
buchi nella schiuma, che si dissolveva rimbalzando contro le pareti della
camera a neutroni per fare ritorno alla coscienza sfilacciata di Opal.
45
Adesso, pensò. Adesso inizierà l’estasi mentre mi ricostituisco a mia
immagine. Io sono il dio di me stessa.
E, con il solo potere nella mente, si riassemblò. Il suo aspetto rimase
immutato, perché essendo vanitosa si riteneva perfetta, però aprì e ampliò la
mente, lasciando che nuovi poteri permeassero i ponti fra le cellule nervose,
concentrandosi sugli antichi mantra delle arti oscure in modo da poter usare
la sua nuova magia per risvegliare i suoi soldati dal loro luogo di riposo. Un
potere come quello era troppo per un corpo solo, avrebbe dovuto reciderlo
non appena ultimata la fuga, o i suoi atomi sarebbero scoppiati e sarebbero
stati spazzati via come moscerini trasportati dal vento.
È difficile ricostruire le unghie, pensò. Può darsi che debba sacrificarle.
Gli effetti a catena della morte della giovane Opal in un angolo di una fattoria
si propagarono assai più di quanto Artemis non avesse potuto immaginare,
anche se in realtà “immaginare” non è il verbo più esatto, in quanto Artemis
Fowl non aveva l’abitudine di immaginare alcunché. Anche da piccolo non si
era mai immaginato come un cavaliere a caccia di draghi. Lui preferiva
visualizzare un obiettivo raggiungibile e poi operare per realizzare lo scopo.
Sua madre, Angeline, una volta aveva sbirciato oltre la spalla del figlio
quando lui aveva otto anni e disegnava qualcosa nel suo diario.
— Oh, tesoro, ma è meraviglioso! — aveva esclamato deliziata nel vedere
che Artemis manifestava finalmente un’indole artistica e creativa, sebbene
dovesse riconoscere che dal suo disegno traspariva un po’ troppa violenza.
— Un robot gigante che distrugge una città!
— No, mamma — aveva sospirato il bambino, con il suo solito
atteggiamento teatrale da genio incompreso. — È un drone che costruisce un
ambiente lunare.
Angeline gli aveva arruffato i capelli per vendicarsi del sospiro, e si era
chiesta se non fosse il caso di far vedere il piccolo Arty a uno specialista.
Artemis aveva ipotizzato la devastazione di vaste proporzioni provocata
dall’esplosione spontanea di energia rilasciata da tutti i materiali collegati a
Opal, ma neppure lui poteva avere un’idea dei livelli di saturazione che i
prodotti della Koboi avevano raggiunto nei pochi anni trascorsi prima della
sua incarcerazione. Le Industrie Koboi possedevano molte aziende lecite che
producevano qualunque cosa, dai componenti militari alle attrezzature
mediche, ma anche numerose compagnie ombra che allungavano
illegalmente la loro influenza al mondo umano e perfino allo spazio; e gli
effetti dell’esplosione di quelle decine di migliaia di componenti si estesero
dal lieve inconveniente alla catastrofe più totale.
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Nel deposito della LEP, duecento armi assortite, il cui riciclaggio era previsto
per la settimana seguente, si sciolsero come barrette di cioccolato, quindi
irradiarono una violenta luce dorata che mandò in tilt tutti i sistemi locali a
circuito chiuso prima di esplodere con la forza di cento barre di Semtex. Non
si arrivò alla fissione, ma i danni furono comunque ingenti. Il magazzino fu
sostanzialmente vaporizzato, e molte delle colonne di sostegno della città
sotterranea crollarono come mattoncini giocattolo.
Il centro di Cantuccio implose, e un milione di tonnellate di crosta terrestre si
abbatterono sulla capitale elfica, infrangendo i sigilli pressurizzati e
aumentando i livelli di atmosfere di quasi il mille per cento. Tutto ciò che si
trovava sotto la roccia venne maciullato all’istante. Si registrarono
ottantasette vittime, e i danni alle cose furono inestimabili.
L’interrato della Centrale crollò facendo sprofondare i primi tre piani nella
voragine. Per fortuna, i piani superiori erano imbullonati al tetto della
caverna, che li mantenne al loro posto salvando la vita di tanti agenti che
avevano scelto di rimanere al proprio posto.
Il sessantatré per cento delle automobili elfiche montava pistoni Koboi, che
esplosero simultaneamente, scatenando un impazzimento sincronizzato dei
veicoli, parte del quale fu ripreso dalla telecamera di un garage che per
qualche misteriosa ragione era sopravvissuta alla compressione e negli anni a
venire sarebbe stato il video più cliccato della rete web del sottosuolo.
Per anni i laboratori ombra Koboi avevano venduto a società umane
tecnologia elfica obsoleta, che ai loro azionisti sembrava all’avanguardia.
Quei piccoli chip miracolosi o i loro discendenti erano confluiti in quasi tutti
gli strumenti controllati da computer di ultima generazione. Inseriti in
portatili, telefoni cellulari, apparecchi televisivi e forni a microonde,
saltarono in aria rimbalzando come cuscinetti a sfera carichi di energia
cinetica all’interno di lattine. L’ottanta per cento delle comunicazioni
elettroniche sul pianeta Terra cessò all’istante. L’umanità si trovò catapultata
all’età della carta nel giro di mezzo secondo.
I sistemi di supporto vitale sputarono saette di energia e morirono all’istante.
Preziosi manoscritti andarono perduti. Le registrazioni finanziarie degli ultimi
cinquant’anni vennero completamente cancellate provocando un crollo del
sistema bancario. Gli aerei precipitarono. La stazione spaziale Graum II si
perse nello spazio, e satelliti della difesa la cui esistenza era sconosciuta
cessarono di esistere.
La gente si riversò nelle strade urlando in cellulari fuori uso come se potesse
riattivarli con la forza della voce. Nei paesi i saccheggi si diffusero come
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virus di computer, mentre i veri virus informatici morirono insieme con i
loro ospiti e le carte di credito diventarono semplici rettangolini di plastica. In
tutto il mondo i parlamenti vennero presi d’assalto da cittadini che
incolpavano i loro governi per quella serie di inesplicabili catastrofi.
Lingue di fuoco e fetidi sbuffi di zolfo fuoriuscirono dalle fessure nel suolo
terrestre; provenivano per lo più da tubature saltate, ma per la gente erano un
grido dell’Armageddon. Il caos prese il sopravvento e i survivalisti si
affrettarono a estrarre le loro balestre dalle pelli di capretto.
La fase uno del piano di Opal era terminata.
48
CAPITOLO 4 - L’ULTIMA PAROLA AL TECNICO ZKOPJA
Fortunatamente per il capitano Spinella Tappo e i passeggeri della Cupido
d’argento, Polledro era talmente paranoico quando c’era di mezzo Opal e così
tronfio delle proprie invenzioni che aveva insistito che nell’equipaggiamento
della navetta venissero usati solo componenti con tecnologia a marchio
Polledro, arrivando al punto da eliminare qualsiasi pezzo Koboi o generico
che lui non potesse far risalire a una compagnia sicura. Ma pur con tutta la
sua paranoia, gli era comunque sfuggita una chiazza di stucco sul paraurti
posteriore contenente una supercolla sviluppata dai LabKob. Per fortuna,
quando l’adesivo scoppiò sfrigolando, scelse la strada della minore resistenza
e volò via dalla navetta come uno sciame infuocato di api. Nessun sistema
operativo ne riportò conseguenze, anche se sull’alettone rimase una
sgradevole chiazza di vernice di fondo, ma a bordo della navetta tutti
avrebbero convenuto che era di gran lunga preferibile all’essere morti.
La navetta si sollevò sopra le correnti, come un seme di dente di leone sopra
il Grand Canyon, ammesso che, in barba all’aridità, nel Grand Canyon ci
siano denti di leone. Spinella riuscì a infilarsi al centro del vasto camino, per
quanto in assenza di una nuova vampa di magma l’eventualità di uno scontro
con una parete fosse altamente improbabile. Artemis la chiamò dal retro, ma
con il ruggito del vento lei non riuscì a sentirlo.
Auricolari, articolò con le labbra, picchiettandosi gli orecchi nell’elmetto. —
Mettetevi le cuffie.
Il ragazzo prese una coppia di grossi auricolari dal gancio sul soffitto e li
indossò. — Hai qualche rapporto preliminare da parte di Polledro sui danni?
— le chiese.
Spinella controllò l’interfono.
— Niente. Tutto tace, non ricevo neppure il crepitio elettrostatico.
— Benissimo, ecco la situazione, per come la vedo io. Dal momento che non
ci sono comunicazioni, presumo che l’assassinio della giovane Opal abbia
gettato l’intero pianeta nello scompiglio più totale. Si scatenerà una baraonda
mai vista dall’ultima guerra mondiale. Di sicuro la nostra Opal ha in
programma di risorgere dalle ceneri di questo falò globale come una specie di
folletta-fenice. Come pensi di farlo non lo so, però c’è di mezzo casa mia, la
tenuta dei Fowl, perciò è là che dobbiamo andare. Quanto ci metteremo,
Spinella?
L’elfa fece un rapido calcolo. — Posso ridurre i tempi di un quarto d’ora
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rispetto al solito, ma ci vorranno comunque un paio d’ore.
Due ore, pensò Artemis. Centoventi minuti per elaborare una strategia
plausibile in modo che noi tre riusciamo a contrastare i piani di Opal.
Leale si aggiustò il microfono. — Artemis, so che ci avrai già pensato, perché
è venuto in mente anche a me.
— Amico mio, presumo che tu stia per farmi notare che ci stiamo buttando a
capofitto proprio nel luogo in cui Opal è più forte.
— Esatto, Artemis — confermò la guardia del corpo. — Oppure, come
eravamo soliti dire nella squadra Delta, voliamo dritti nella zona di tiro.
Artemis fece una smorfia. La zona di tiro?, pensò.
Spinella fulminò Leale con un’occhiata, come a dire: Complimenti,
ragazzone. Nella zona di tiro ci vive la famiglia di Artemis.
L’elfa fletté le dita e le strinse forte sui comandi. — Forse riesco a ridurre i
tempi di venti minuti sul consueto — disse, e regolò i sensori della navetta in
modo da rilevare le correnti più forti da sfruttare per raggiungere al più
presto la follia che Opal Koboi aveva in serbo per il mondo.
ATLANTIDE
Opal impiegò qualche istante per congratularsi con se stessa per averci
ancora una volta azzeccato in pieno con una sua teoria, poi rimase
assolutamente immobile cercando di sentire il panico filtrare dall’alto.
In effetti qualcosa si sente, concluse. Ed è decisamente un’ondata generale di
paura, con una punta di desolazione.
Sarebbe stato bello sdraiarsi e basta, generando energia, ma con tutto quello
che c’era da fare era un lusso che non si poteva permettere.
Lavorare, lavorare, lavorare, pensò voltandosi a guardare l’imboccatura del
tunnel. Devo darmi una mossa.
Con un solo fremito della mente emise un’aura di luce e calore intensi che
perforarono la schiuma stoppa-radiazioni solidificata in cui era avvolta e
levitò verso il portello, che la ostacolò appena un po’ di più della schiuma.
Dopotutto, adesso aveva il potere di modificare la struttura molecolare di
qualunque cosa su cui si concentrasse.
L’energia sta già svanendo, si rese conto. Sto perdendo magia e presto il mio
corpo incomincerà a disintegrarsi.
Nella camera al di là del portello incenerito trovò un nano, apparentemente
impassibile davanti a tutti gli sconvolgimenti che avevano luogo sotto i suoi
occhi.
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— Oggi è la festa di Foglietta — annunciò Kolon Zkopja con il mento in
fuori. — E nella festa di Foglietta farei volentieri a meno di tutte queste
scemenze rumoreggianti. Prima perdo la ricezione sul mio telefono per cui
non ho idea di chi stia vincendo la partita di strozzapalla, e adesso ecco che
mi piomba nella stanza una folletta dorata. Perciò, ti prego, mia cara folletta,
puoi dirmi che sta succedendo? E dove sono finite le tue unghie?
Opal rimase stupefatta nello scoprirsi obbligata a rispondere. — Le unghie
sono una cosa difficile, nano. Le ho lasciate perdere per risparmiare tempo.
— Sì, capisco, è una cosa sensata — rispose Zkopja, manifestando fin troppa
mancanza di rispetto per i gusti di Opal. — Vuoi sapere che cos’è veramente
difficile? Restarsene qui a farsi abbrustolire dalla tua aura, ecco cosa. Avrei
dovuto spalmarmi una crema solare protezione mille.
Bisogna riconoscere che Zkopja non stava affrontando la faccenda con
indifferenza da psicotico. In realtà era sotto shock e si era fatto un’idea
piuttosto precisa su chi fosse Opal e sul fatto che fosse probabilmente
suonata la sua ora, perciò stava cercando di fare buon viso a cattivo gioco.
Opal aggrottò le sopracciglia dorate in una ruga che sembrava lava
incandescente. — Nano, dovresti essere onorato che l’ultima immagine
impressa sulle tue inutili retine sia quella della mia gloriosa… gloria.
La folletta non era del tutto soddisfatta di come aveva concluso la frase, ma il
nano sarebbe morto di lì a qualche istante, e quella formulazione infelice
sarebbe stata dimenticata. Zkopja non era del tutto soddisfatto dell’insulto di
Opal nei confronti delle sue retine.
— Inutili retine? — sbottò. — Queste retine me le ha date mio padre… Non
che se le sia strappate direttamente dalla testa, mi capisci, ma insomma, le ho
ereditate da lui. — A suo eterno merito cosmico, Zkopja decise di uscire di
scena con stile. — E visto che abbiamo preso a scambiarci insulti, ti avevo
sempre creduto più alta. E poi hai le anche asimmetriche.
Opal era furiosa e di conseguenza la sua aura radioattiva si ampliò per un
raggio di tre metri, polverizzando completamente tutto ciò che incontrò sul
suo cammino, compreso Kolon Zkopja. Ma anche se il nano non c’era più, la
trafittura del suo commento finale sarebbe rimasta nel cassetto della mente
delle questioni in sospeso di Opal per il resto dei suoi giorni. Se la folletta
aveva un difetto che era disposta a riconoscere, questo era la tendenza a
sbarazzarsi senza pensarci troppo di chi la offendeva.
Non devo lasciare che quel nano mi butti giù, si disse mentre risaliva a
velocità incredibile verso la superficie. E di certo non ho le anche
asimmetriche.
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La salita di Opal fu spettacolare a vedersi, come una supernova che schizza
verso la superficie dell’oceano; il calore violento della magia nera respinse le
mura di Atlantide e i flutti dell’oceano con la stessa brutalità, riorganizzando
la struttura atomica di qualunque cosa le ostacolasse il cammino.
Spinse la sua aura di magia nera sempre più in alto e sempre più avanti,
verso la proprietà dei Fowl. Non aveva bisogno di pensare alla sua
destinazione, perché era la serratura a chiamarla. La serratura chiamava, e lei
era la chiave.
52
CAPITOLO 5 - L’ARMAGEDDON
ÉRIÚ, ALIAS PROPRIETÀ DEI FOWL
Sepolti in una spirale discendente attorno alla serratura, i Berserkr si
agitavano sempre di più via via che la magia si scatenava nel mondo
soprastante.
È in arrivo qualcosa, comprese Oro, il capitano dei guerrieri nordici. Presto
saremo liberi e le nostre spade torneranno ad assaporare il sangue umano.
Cucineremo i loro cuori in recipienti d’argilla e richiameremo le antiche forze
oscure. Infiltreremo qualunque forma di vita sia necessaria per tenere a bada
gli umani. Loro non possono ucciderci perché siamo già morti, tenuti insieme
da un groviglio di magia.
Il nostro tempo sarà breve. Non più di una sola notte dopo tutto questo
tempo, ma prima di raggiungere Danu nell’aldilà ci copriremo di gloria e di
sangue.
Avvertite il cambiamento? Oro invocò gli spiriti dei suoi guerrieri. Siate
pronti ad avanzare non appena la porta si aprirà.
Siamo pronti, risposero i suoi soldati. Quando la luce si riverserà su di noi,
prenderemo possesso dei corpi di cani, di tassi e di umani e li sottometteremo
al nostro volere.
Oro non poté fare a meno di pensare: Preferirei abitare il corpo di un umano
che quello di un tasso.
Perché era orgoglioso, e diecimila anni prima quell’orgoglio gli era costato la
vita.
Gobdaw, che giaceva alla sua sinistra, trasmise un pensiero fremente che
poteva quasi essere una risatina. Sì, disse. Ma meglio un tasso di un ratto.
Se il cuore di Oro fosse stato di carne e sangue, si sarebbe gonfiato di un
orgoglio nuovo, ma questa volta per i suoi guerrieri.
I miei soldati sono pronti per la guerra. Combatteranno finché i loro corpi
rubati non crolleranno, e allora finalmente saranno liberi di abbracciare la
luce.
Il nostro tempo è vicino.
Juliet Leale reggeva il forte, e non soltanto nel senso che si occupava di tutto
mentre i genitori di Artemis erano via, a una conferenza ecologista a Londra.
No, lei reggeva letteralmente un forte.
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Il forte in questione era una vecchia torre Martello che faceva la guardia su
una collinetta affacciata sulla Baia di Dublino. Ridotto a un rudere dalle
intemperie, una strana edera nera aveva avvinto i suoi viticci lungo le sue
mura come per rivendicare la pietra per la Terra. Gli aspiranti conquistatori
erano i fratelli di Artemis Fowl: Myles, quattro anni, e il suo gemello Beckett.
I ragazzi avevano preso più volte d’assalto la torre con spade di legno, ma
erano stati respinti da Juliet e ricacciati delicatamente nell’erba alta. Beckett
rideva a crepapelle, ma Juliet vedeva che Myles era sempre più frustrato dal
fallimento dei suoi assalti.
Questo qui è proprio come Artemis, pensò Juliet. Un’altra piccola mente
criminale.
Negli ultimi dieci minuti i ragazzi avevano borbottato dietro un cespuglio,
preparando il nuovo attacco. Juliet sentiva le loro risatine soffocate e i
comandi secchi: senza dubbio Myles impartiva una serie di complicate
istruzioni tattiche a Beckett.
La ragazza non poté fare a meno di sorridere. Le sembrava quasi di vedere la
scena. Myles doveva sicuramente avere detto qualcosa tipo: “Tu vai da quella
parte, Beck, e io da quell’altra. Si chiama manovra di accerchiamento.”
Al che Beckett avrebbe probabilmente ribattuto: “Mi piacciono i bruchi.”
Si poteva senz’altro dire che i due ragazzi volevano più bene l’uno all’altro
che a se stessi, ma Myles viveva in uno stato di costante frustrazione per il
fatto che Beckett non potesse, o non volesse, seguire le istruzioni più
semplici.
Da un momento all’altro, ormai, Beckett si stuferà di questa riunione tattica,
pensò la sorella minore di Leale, e se ne uscirà da dietro il cespuglio
brandendo la sua spada giocattolo.
E in effetti, qualche istante dopo Beckett uscì a passo malfermo da dietro il
cespuglio, ma quella che brandiva non era una spada.
Insospettita, Juliet buttò una gamba al di là del basso parapetto e gridò: —
Beck, che cos’hai trovato?
Beckett sventolò l’oggetto. — Mutandine — confessò candido.
Juliet guardò un’altra volta per avere la conferma che quel triangolino
sudicio fosse effettivamente un paio di mutandine. Considerato che negli
ultimi quarantotto giorni il bambino aveva indossato la T-shirt del Diario di
una schiappa che gli arrivava fino alle ginocchia, era impossibile stabilire se
le mutandine in questione fossero o meno quelle di Beckett, anche se
sembrava piuttosto probabile, visto che il piccolo aveva le gambe nude.
Beckett era un tipo alquanto indisciplinato, e nei pochi mesi passati come sua
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baby-sitter/guardia del corpo, Juliet aveva visto ben peggio di un paio di
mutandine: per esempio l’allevamento di vermi costruito e personalmente
fertilizzato dal bambino nel bagno al pianterreno.
— D’accordo, Beck — urlò dalla torre. — Adesso buttale pure per terra,
piccolo, te ne vado a prendere un paio di pulite.
Beckett non si fermò.
— Niente da fare. Beckett è stufo di portare stupide mutandine. Queste sono
per te, un regalo.
Il visetto del bambino era acceso di entusiasmo innocente, convinto che i
suoi slip fossero il regalo migliore per una ragazza… se si eccettua
ovviamente un paio di suoi slip con una manciata di coleotteri dentro.
Juliet ribatté: — Ma non è mica il mio compleanno.
Adesso Beckett era arrivato ai piedi della torre diroccata e sventolava le
mutandine a mo’ di bandiera. — Ti voglio bene, Jules, accetta il mio regalo.
Mi vuole bene, pensò Juliet. I bambini sanno sempre trovare i punti deboli.
Tentò un’ultima carta disperata. — Ma non avrai freddo al sederino?
Ma Beckett aveva una risposta anche a questo: — No, io non ho mai freddo.
Juliet gli sorrise con affetto. A questo ci credeva: l’ossuto Beckett produceva
tanto calore da far ribollire un lago. Abbracciare lui era come abbracciare un
termosifone.
A quel punto, l’unico modo che le rimaneva per evitare di toccare le
mutandine era una bugia innocente. — I conigli adorano le mutandine
vecchie, Beck. Perché non le seppellisci come regalo per Peter Coniglio?
— Ai conigli le mutandine non servono — ribatté una vocetta sinistra alle
sue spalle. — Sono mammiferi a sangue caldo, e alle nostre latitudini la loro
pelliccia è un abbigliamento più che sufficiente.
Juliet avvertì la punta della spada di legno di Myles contro la coscia e si rese
conto che il ragazzo aveva usato il fratello come diversivo mentre lui tornava
ai gradini sul retro.
Non ho sentito un bel niente, pensò la ragazza. Myles sta imparando a
strisciare.
— Bravissimo, Myles — lo elogiò. — Come hai convinto Beckett a ubbidire
ai tuoi ordini?
Myles sorrise compiaciuto; la somiglianza con Artemis era sorprendente. —
Non gli ho impartito ordini militari. Gli ho soltanto suggerito che forse gli
prudeva il didietro.
Questo bambino non ha ancora cinque anni, pensò Juliet. Aspetta solo che il
mondo faccia la conoscenza di Myles Fowl.
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Con la coda dell’occhio vide qualcosa di triangolare veleggiare in aria verso
di lei e istintivamente l’afferrò. Non aveva ancora fatto a tempo a chiudere le
dita sulla stoffa che si rese conto di quello che stava stringendo.
Fantastico, pensò. Fatta fessa da due bambini di quattro anni.
— Bene, ragazzi — disse. — Adesso è ora di tornare a casa per il pranzo.
Che si mangia oggi?
Myles rinfoderò la spada. — Vorrei un toast con succo di pompelmo fresco.
— E io vermi — rispose Beckett, saltellando su un piede solo. — Vermi con
il ketchup.
Juliet si tirò in spalla Myles e saltellò giù dal muretto della torre. — Allora lo
stesso di ieri, ragazzi.
Devo ricordarmi di lavarmi bene le mani, si disse.
I ragazzi erano in mezzo al pascolo quando in lontananza si scatenò il caos.
Beckett prestò poca attenzione a quella cacofonia distante, dal momento che
la sua colonna sonora interiore prevedeva abitualmente urla ed esplosioni,
ma Myles capì subito che qualcosa non andava.
Tornò alla torre Martello e si arrampicò su per gli scalini di pietra, esibendo
una carenza di capacità motorie che ricordava molto quella di Artemis, cosa
che divertiva un sacco Beckett, molto più agile dei fratelli.
— È l’Armageddon — annunciò Myles una volta arrivato in cima. — La fine
del mondo.
Beckett rimase sgomento. — Non anche di Disneyland!
Juliet gli arruffò i capelli schiariti dal sole. — No, certo non di Disneyland.
— Provava un senso di inquietudine alla bocca dello stomaco. Da dove
venivano quei rumori? Sembrava che vicino ci fosse una zona di guerra.
La ragazza seguì Myles al piano di terra battuta in cima alla torre. Da là si
aveva una visuale chiara sulla città in lontananza. Di solito gli unici rumori
portati dal vento fin lassù a nord erano occasionali colpi di clacson delle auto
bloccate nel traffico sulla tangenziale. Quel giorno, invece, la superstrada per
Dublino sembrava più la via per l’inferno. Anche da lì era chiaro che le sei
corsie erano completamente intasate. Sotto i loro occhi, diversi motori
saltarono in aria e un furgone venne inaspettatamente scagliato in avanti. Più
oltre, all’interno della città, esplosioni più forti rimbombavano da dietro i
palazzi, e volute di fumo si levavano nel cielo, un cielo che già aveva i suoi
bei problemi, dato che un aereo da turismo era atterrato al centro di un
campo da calcio, mentre addirittura un satellite per comunicazioni era
piovuto a peso morto dallo spazio nientemeno che sul tetto dell’albergo degli
U2.
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Beckett salì i gradini e prese Juliet per mano. — È Lama-geddon — annunciò
tranquillo. — Il mondo sta per saltare in aria.
Juliet strinse a sé i gemelli. Quello che stava succedendo sembrava una
faccenda troppo grossa per essere diretta specificamente contro la famiglia
Fowl, ma d’altro canto l’elenco di persone che sarebbero state più che felici
di distruggere l’intera contea di Dublino solo per catturare Artemis era
interminabile. — Non preoccupatevi, ragazzi — disse. — Vi proteggerò io.
Si frugò in tasca. In situazioni come quella, in cui le cose andavano
brutalmente storte, la prima linea di condotta era sempre la stessa: chiamare
Artemis.
Fece scorrere l’elenco di reti sul suo cellulare e senza troppa sorpresa
constatò che l’unica disponibile era il sistema FOX installato da Artemis per
le chiamate sicure nei casi di emergenza.
Immagino che Artemis sia l’unico adolescente al mondo ad avere costruito e
messo in orbita un proprio satellite, pensò Juliet.
Stava per selezionare il nome di Artemis tra i suoi contatti, quando tre metri
davanti a lei sbucò un grosso avambraccio, all’estremità del quale c’era una
mano che stringeva una Neutrino fatata.
— Buon pomeriggio, Fangosa — disse una voce dal nulla, e dalla punta
dell’arma sbucò un lampo di crepitante energia azzurrina.
Juliet aveva abbastanza familiarità con le armi elfiche da sapere che sarebbe
sopravvissuta a un dardo blu, ma che con ogni probabilità avrebbe riportato
un’ustione da contatto e che si sarebbe risvegliata dentro un bozzolo di
dolore.
Spiacente, ragazzi, fu il suo ultimo pensiero. Non sono stata di parola.
E poi il lampo dell’arma di Pip la colpì al petto, le bruciò la giacca e la scagliò
giù dalla torre.
Oro dei Berserkr ebbe un attimo di dubbio.
Forse quest’ansia di libertà non è altro che un desiderio, pensò.
No. Quello era più di un suo desiderio. La chiave era in arrivo. Sentiva la
vampata di energia avvicinarsi alla loro tomba.
Radunatevi, comunicò ai suoi guerrieri. Quando la porta si aprirà, assumete
qualunque forma dobbiate. Qualunque cosa sia viva o abbia vissuto può
essere nostra.
Oro sentì la terra tremare per il ruggito dei suoi guerrieri.
O forse era solo un suo desiderio.
57
CAPITOLO 6 - SVEGLIATEVI, MIEI BELLISSIMI GUERRIERI
NAVETTIPORTO DI TARA, IRLANDA
Quando il capitano Spinella Tappo tentò di attraccare al posto assegnatole,
scoprì che gli ormeggi elettromagnetici di Tara non erano più operativi e
perciò fu costretta a improvvisare un atterraggio nel tunnel di accesso.
Questo, per lo meno, fu all’incirca ciò che il supervisore del navettiporto di
Tara avrebbe scritto nel suo Rapporto sull’Incidente Straordinario una volta
uscito dalla riabilitazione, anche se quelle parole non bastavano a rendere la
reale entità del trauma provocato dalla situazione.
Durante la manovra di avvicinamento, la strumentazione di bordo di Spinella
le aveva assicurato che era tutto perfettamente a posto e poi, proprio mentre
faceva ruotare la poppa della Cupido d’argento per attraccare, il computer
della torre di controllo di Tara aveva emesso un rumore simile a quello di
una polpetta cruda che si spiaccica a tutta velocità contro un muro, e subito
dopo si era spento, non lasciando all’elfa altra scelta se non rientrare nel
tunnel di accesso e pregare di non trovarvi personale non autorizzato.
Il metallo si accartocciò, il perspex andò in mille pezzi e i cavi a fibre ottiche
si dilatarono e scattarono con uno schiocco. Lo scafo rinforzato della Cupido
d’argento resse il colpo, ma cofano e stemma volarono in aria. Lo stemma
sarebbe stato ritrovato tre mesi dopo nella pancia di un distributore di bibite,
talmente corroso da risultare quasi irriconoscibile.
Spinella pigiò il pedale del freno sollevando una pioggia di scintille e
frammenti che si abbatté sul parabrezza. L’imbracatura di sicurezza del sedile
aveva assorbito buona parte dell’urto, ma Artemis e Leale erano stati scagliati
di qua e di là come le palline di un sonaglino.
— Tutti vivi e vegeti? — urlò l’elfa, voltandosi, e l’assortimento di gemiti
che le giunse in risposta le confermò che i suoi passeggeri erano arrivati vivi,
se non del tutto vegeti.
Artemis uscì strisciando da sotto il corpo massiccio di Leale e subito
controllò i dati della navetta. Perdeva sangue da una ferita alla fronte, ma
sembrava non curarsene.
— Devi trovare un modo per farci uscire di qui, Spinella.
L’elfa fu lì lì per mettersi a ridere. Fare uscire di lì la Cupido significava
distruggere volontariamente un’intera installazione della LEP. E ciò
significava non soltanto strappare il regolamento, ma anche farne le pagine in
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minuscoli pezzetti e poi mescolarli alla cacca di troll, infornare il tutto e
gettare i biscotti in un falò.
— Biscotti di cacca — borbottò, il che non aveva senso per chi non avesse
seguito il filo del suo ragionamento.
— Puoi anche ridurre il regolamento a biscotti di cacca, ma dobbiamo
fermare Opal a tutti i costi — ribatté Artemis, che a quanto pareva il filo del
suo ragionamento lo aveva seguito eccome.
L’elfa esitò.
E Artemis ne approfittò all’istante. — Spinella, queste sono circostanze
eccezionali — le disse. — Non ricordi quello che ha detto Leale? Nella zona
di tiro. In questo momento i miei fratelli si trovano proprio lì, nella zona di
tiro. E sai di quali sacrifici sarebbe capace Juliet per salvarli.
Leale si sporse in avanti, afferrò una maniglia sospesa e così facendo la
strappò dall’alloggiamento.
— Ragiona tatticamente — le disse, intuendo per istinto come galvanizzare il
capitano Tappo. — Dobbiamo partire dal presupposto che noi tre costituiamo
l’unico piccolo esercito fra Opal e qualsivoglia forma di dominio del mondo
che la sua mente contorta abbia escogitato. E ricorda: lei era pronta a
sacrificare se stessa. Lo ha programmato. Dobbiamo andare, e subito,
soldato!
Leale aveva ragione, e Spinella lo sapeva.
— D’accordo — disse, inserendo i parametri nel navigatore della Cupido. —
Lo avete voluto voi.
Uno spiritello con un giubbetto ad alta visibilità scendeva in volo lungo il
tunnel di accesso, talmente di fretta che le ali picchiavano sulle pareti ricurve.
Le punte delle ali degli spiritelli sono dotate di sensori a biosonar altamente
sensibili che impiegano decine di anni per guarire, perciò per volare con
quella spericolatezza, lo spiritello in questione doveva essere davvero
sconvolto.
Spinella gemette: — È Nander Thall. Mister Regolamento.
Thall era un paranoico, convinto che in un modo o nell’altro gli umani
sarebbero entrati a Cantuccio contaminandolo o ne sarebbero usciti portando
via qualcosa, perciò insisteva a effettuare una scansione completa ogni volta
che la Cupido attraccava.
— Non ti fermare — la esortò Leale. — Non abbiamo tempo per le fisime di
Thall.
Nander Thall urlò nel megafono: — Spegni il motore, capitano Tappo. In
nome di Foglietta, ma che cosa credi di fare? Lo sapevo che eri una ribelle,
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Tappo, lo sapevo. Imprevedibile.
— Non c’è tempo — insistette Artemis. — Non c’è tempo.
Thall fluttuava a un metro dal parabrezza. — Ti sto guardando dritto nelle
palle degli occhi, Tappo, e quello che vedo è il caos. Qui siamo in stato di
massima allerta. Lo scudo ha fatto cilecca, lo capisci? Basterebbe un solo
Fangoso armato di pala per portare alla luce l’intero navettiporto. Tutti
devono dare una mano alle fortificazioni, capitano. Spegni il motore. È un
ordine preciso.
Gli occhi di Nander Thall stavano per schizzare fuori dalle orbite, e le ali
sbattevano all’impazzata. Lo spiritello era fuori di sé.
— Credi che se chiedessimo il permesso ci lascerebbe andare in tempo? —
domandò Artemis.
Spinella ne dubitava. Alle spalle di Thall si apriva il tunnel di accesso, con i
passeggeri ammassati nelle pozze luminose create dalle striscioluci di
emergenza. La situazione sarebbe già stata abbastanza difficile da tenere sotto
controllo senza che ci si mettesse anche lei ad alzare il livello di panico.
Il computer di bordo incominciò a suonare mostrando sullo schermo la via di
fuga ottimale, e fu proprio il suo bip-bip a farla decidere.
Scusa, articolò con le labbra rivolta a Nander Thall. — Dobbiamo proprio
andare.
Le ali di Thall sbattevano rapide e nervose. — E non starmi a sussurrare le
tue scuse! Non dovete andare proprio in nessun posto.
Ma Spinella era davvero spiacente, e davvero dovevano andare. Perciò andò.
Dritto verso il nastro portabagagli, che di solito si trascinava sopra le loro
teste, con le valigie fluttuanti su un canale di brillacqua trasparente che
mostrava l’identità del proprietario attraverso il perspex. In quel momento il
canale trasportatore stagnava e le valigie si urtavano tra loro come barchette
alla deriva.
Spinella azionò il joystick con il pollice e diresse la Cupido nel canale, che
stando alle informazioni del computer era abbastanza largo da poter ospitare
il veicolo. E lo era davvero, con un gioco di due centimetri su ogni lato.
Incredibilmente, Nander Thall si lanciò all’inseguimento. Ballonzolava lungo
il canale, con il riporto dei capelli gonfio come una manica a vento, senza
smettere di urlare nel piccolo megafono.
Spinella fece teatralmente spallucce. Non ti sento, articolò. Scusa.
E lasciò lo spiritello a imprecare contro il tunnel dei bagagli, che scorreva in
cerchi dolcemente inclinati verso la sala ARRIVI.
Spinella pilotò la Cupido lungo le curve del tunnel; le coppie di fari che
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illuminavano le pareti di perspex in cui erano incastonati chilometri di circuiti
spenti le facevano da guida. Davanti alle scatole degli interruttori si
intravedevano sagome confuse che trafficavano, asportando condensatori
fumanti e fusibili.
— Nani — spiegò. — Sono gli elettricisti migliori. Non hanno bisogno di
illuminazione e, anzi, preferiscono gli spazi bui e angusti. E come se non
bastasse mangiano i componenti fuori uso.
— Davvero? — si meravigliò Leale.
— Certo. Bombarda mi assicura che il rame è altamente depurativo.
Artemis non prese parte alla conversazione. Era banale, e lui era in piena
modalità visualizzazione, intento a ipotizzare ogni possibile scenario da
affrontare una volta raggiunta Casa Fowl e a studiare come uscirne vincitore.
Sotto questo aspetto, la sua metodologia era simile a quella del campione di
scacchi americano Bobby Fischer, capace di calcolare ogni possibile mossa di
un suo avversario per poterla contrastare. L’unico problema di quella tecnica
era che c’erano alcuni scenari che Artemis, non volendo affrontarli,
trascinava in fondo al processo, il quale di conseguenza finiva per risultare
difettoso.
E così tramava, rendendosi conto che probabilmente era tutto inutile in
quanto non conosceva la maggior parte delle costanti di quella equazione, per
non parlare delle variabili.
Una promessa oscura fluttuava sotto la superficie della sua logica. Se farà del
male alle persone cui voglio bene, Opal Koboi dovrà pagarla.
Artemis cercava di scacciare quel pensiero che non aveva alcuna utilità
pratica, ma l’idea della vendetta non voleva saperne di abbandonarlo.
Spinella aveva all’attivo solo alcune centinaia di ore di pilotaggio al timone
nella Cupido, troppo poche per quello che aveva in mente di fare; ma, d’altro
canto, per un’impresa del genere non sarebbero bastate tutte le ore di
pilotaggio di questo mondo.
La Cupido procedeva lungo il canale, con i grossi pneumatici che facevano
presa nel solco di perspex; il minuscolo razzo era mascherato come un tubo
di scarico che sparava una breve scia ribollente nella brillacqua. Schiacciava
le valigie sotto i battistrada o le faceva schizzare come colpi di mortaio lungo
il nastro, inondando chiunque si trovasse di sotto di una pioggia di abiti,
cosmetici e altri ammennicoli umani di contrabbando. Le guardie di sicurezza
di turno avevano avuto la presenza di spirito di confiscare la maggior parte di
quegli oggetti, ma chi avrebbe mai immaginato che qualcuno potesse infilare
in una valigia una sagoma in cartone di Gandalf a grandezza naturale?
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Spinella avanzava al massimo della concentrazione, gli occhi socchiusi e i
denti serrati. Il canale dei bagagli li portò fuori dal terminal, nel substrato
roccioso. Salirono a spirale attraverso i vari livelli archeologici, superarono
ossi di dinosauro e tombe celtiche, insediamenti vichinghi e mura normanne,
finché la Cupido non emerse in una grande sala bagagli dal tetto trasparente
esposta alle intemperie, una specie di vera e propria tana del supercattivo alla
James Bond completa di rete di montanti metallici e di monorotaia.
Di norma, il lucernario sarebbe stato camuffato con scudi e proiettori, ma
quelle misure di sicurezza erano state disattivate in attesa di sostituire tutti gli
apparati Koboi con una tecnologia ancora intatta. Quel pomeriggio, brandelli
di nembi irlandesi gonfi di pioggia sorvolavano i pannelli smussati, e la sala
bagagli sarebbe stata perfettamente visibile dall’alto, se qualcuno si fosse
preso la briga di fotografare i facchini elfici o i muletti fermi con buchi
fumanti nella carrozzeria come vittime di un cecchino.
Spinella domandò al computer di bordo se ci fosse qualche altra via di uscita
a parte quella suggerita, ma l’avatar la informò con freddezza che sì, ce n’era
una, ma si trovava a trecento chilometri di distanza.
— D’Arvit — borbottò l’elfa, decidendo che non si sarebbe più preoccupata
delle regole o dei danni alla proprietà. Lì c’era un quadro più grande da
considerare, e i frignoni non piacciono a nessuno.
I frignoni non piacciono a nessuno. Suo padre lo ripeteva sempre.
Le sembrava quasi di vederlo: passava ogni momento libero nel suo prezioso
giardino per nutrire di alghe i suoi tuberi sotto la luce del simil-sole.
“Devi sbrigare la tua parte di faccende di casa, Poppy. Tua madre e io
lavoriamo sodo per mantenere la nostra famiglia.” E a quel punto si sarebbe
fermato per accarezzarle il mento. “Molto tempo fa i guerrieri nordici hanno
fatto il sacrificio supremo per il Popolo. Nessuno ti chiede di arrivare a tanto,
però potresti fare la tua parte con un sorriso su quel tuo bel faccino.” Quindi
si sarebbe irrigidito, con fare da sergente maggiore. “Perciò, animo, soldato
Poppy. I frignoni non piacciono a nessuno.”
Spinella scorse la propria immagine riflessa nel parabrezza. Gli occhi erano
pieni di malinconia. Nella sua famiglia, alle femmine veniva sempre dato il
nomignolo “Poppy”, nessuno ricordava perché.
— Spinella — sbraitò Artemis. — La sicurezza si sta facendo sotto.
L’elfa ebbe un sobbalzo colpevole e controllò il perimetro. Un gran numero
di guardie della sicurezza puntava sulla Cupido nel tentativo di ingannarla
con inutili pistole Neutrino, sfruttando la copertura della carcassa fumante di
una navetta rovesciata.
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Una delle guardie sparò un paio di colpi, che centrarono il paraurti anteriore.
Un’arma fuori serie, comprese Spinella. Deve essersela fabbricata da solo.
I colpi non avevano avuto grande effetto sulle lamiere della Cupido, ma se la
guardia si era presa il disturbo di mettere insieme una pistola alternativa,
forse aveva anche pensato di montare una canna perforante.
Come se stesse leggendole la mente, la guardia incominciò ad armeggiare con
la cintura in cerca di un caricatore di munizioni.
Ecco la differenza fra te e me, pensò Spinella. Io non armeggio.
Diede gas ai propulsori e spinse a razzo la Cupido verso il lucernario,
lasciando gli inseguitori a fingere di spararle contro con armi inutili; un paio
di loro arrivarono al punto di mettersi a fare bang bang con la bocca, anche
se le armi elfiche non facevano più bang bang da secoli.
Il lucernario è di perspex rinforzato, rifletté Spinella. O si spezza lui o si
spezza la Cupido. Probabilmente un po’ tutti e due.
Anche se Spinella non lo sapeva, il suo azzardo sarebbe stato infruttuoso. Il
lucernario era stato costruito per resistere all’impatto diretto con qualsiasi
cosa eccetto una testata nucleare a corta gittata, fatto che veniva annunciato
con orgoglio dagli altoparlanti del terminal centinaia di volte al giorno, cosa
che Spinella in qualche modo era sempre riuscita a evitare di sentire.
Fortunatamente per il capitano Tappo e per i suoi passeggeri, e soprattutto
per il destino del mondo intero, la sua ignoranza, potenzialmente fatale, non
sarebbe mai venuta alla luce, in quanto Polledro aveva previsto una
situazione in cui una navetta del Popolo poteva dirigersi a tutta velocità verso
il lucernario e questo si sarebbe rifiutato di aprirsi. Il centauro aveva anche
indovinato che, a causa della legge universale del dislocamento massimo
della cacca – che afferma che, quando la summenzionata cacca centra un
ventilatore, questo sarà nella tua mano e puntato contro qualcuno di
importante nella posizione di poterti licenziare – il lucernario si sarebbe
probabilmente rifiutato di aprirsi in un momento cruciale. Perciò aveva
escogitato un piccolo organismo di prossimità che funzionava con un proprio
cuore bioibrido ricavato dalle cellule staminali di ali di spiritelli dedicati.
L’intero processo era quantomeno dubbio e con ogni probabilità illegale,
perciò Polledro non si era preso la briga di depositarne il brevetto e si era
limitato a installare i sensori di propria iniziativa. Come risultato, il bordo dei
pannelli del lucernario era circondato da un gruppo di quei coleotteri di
prossimità, e se le loro minuscole antenne avvertivano che un veicolo si stava
avvicinando troppo a un certo pannello, secernevano sul vetro uno spruzzo
di acido che lo divorava rapidamente. L’energia necessaria per portare a
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termine in tempo un compito del genere era enorme, perciò quando i
coleotteri avevano finito, si accartocciavano e morivano. Era impressionante,
ma, proprio come l’uomo con la testa esplosiva, era un trucco destinato a
funzionare una volta soltanto.
Quando i coleotteri avvertirono l’ascensione della Cupido, si precipitarono in
azione come una minuscola compagnia di cavalleggeri e divorarono il
pannello in meno di quattro secondi. Una volta compiuto il loro lavoro,
lampeggiarono e crollarono come cuscinetti a sfera sul cofano del veicolo.
— È stato facile — annunciò Spinella al microfono, mentre la navetta
passava attraverso un buco di misura. — Con buona pace del grandioso
lucernario di Polledro.
L’ignoranza, come si suol dire, di solito è fatale, ma talvolta può essere una
benedizione.
Spinella azionò lo scudo della Cupido, anche se con tutti i satelliti umani
fuori uso non se ne sarebbe dovuta preoccupare, e fece rotta su Casa Fowl.
Questo ci dà circa cinque minuti prima che Opal ci abbia esattamente dove ci
vuole, si disse.
Un pensiero meno che confortante che non espresse a parole. Ma le bastò
soltanto un’occhiata alla faccia di Leale nello specchietto retrovisore per
vedere che la guardia del corpo di Artemis stava pensando grosso modo la
stessa cosa.
— Lo so — le disse, cogliendo il suo sguardo. — Ma quale altra scelta
abbiamo?
SPAZIO AEREO IRLANDESE
Opal non sarebbe riuscita a distogliere lo sguardo dalla serratura neppure se
avesse impiegato in quel compito tutta la sua potenziata energia di folletta.
Lei era la chiave, e le due cose andavano insieme. La collisione era
inevitabile come il passare del tempo. La folletta sentiva la pelle del viso
tendersi verso la serratura e le braccia che venivano strattonate finché le
articolazioni non scricchiolarono.
L’elfo stregone era davvero potente, pensò. Anche dopo tutto questo tempo,
la sua magia resiste ancora.
La sua traiettoria la portò con un arco regolare sulla superficie dell’Atlantico
e, attraverso il cielo illuminato dalla luce pomeridiana, fino all’Irlanda. Scese
verso la tenuta dei Fowl come una palla di fuoco scagliata da una fionda,
senza perdere tempo a chiedersi o a preoccuparsi, ma neppure a rallegrarsi,
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dell’imminente verifica cui sarebbero state sottoposte le sue teorie. Farò
resuscitare i morti, aveva pensato spesso nella sua cella. Neppure Polledro
può vantare un successo del genere.
Opal centrò la proprietà dei Fowl come un meteorite piovuto sulla Terra,
direttamente sul rudere diroccato della torre Martello con il suo rampicante
alieno. Come un cane che ha fiutato l’osso, la sua aura di magia distrusse la
torre e si aprì una strada, scese a spirale di sei metri, superò secoli di
sedimenti, rivelando un’altra torre più antica al di sotto di quella. La magia
aveva fiutato la serratura sul tetto, e ci si piazzò sopra come un polpo
scintillante.
Opal giaceva a faccia in giù, a mezz’aria, e osservava lo spiegarsi degli eventi
con aria sognante. Vide le sue dita allargarsi e stringersi, con fiotti di scintille
che uscivano dalle punte. L’incantesimo di invisibilità fu strappato via da
quello che era sembrato un semplice masso trasformato dal tempo e rivelò
che si trattava di una torre di pietra grezza con complicate rune intrecciate
incise sulla superficie. L’ectoplasma magico affondò nelle rune,
elettrizzandole e inviando rivoli ardenti lungo le loro scanalature.
Apriti a me, pensò Opal, sebbene questa non sia che un’interpretazione dei
suoi schemi mentali. Un’altra interpretazione potrebbe essere invece:
Aaaaaaargghhhhh!
Le rune della serratura, pullulanti di magia, si animarono contorcendosi come
serpi sulla sabbia rovente, cercando di addentarsi, con quelle più grosse che
divoravano i versi di magia più debole finché tutto ciò che rimase fu un
semplice distico in gnomico:
Ecco la prima di due serrature:
guardala aprirsi con mille paure.
A Opal rimaneva coscienza quanto bastava per ghignare dentro il suo
bozzolo.
Poesia elfica medievale. Tipicamente banale, rime scontate e metafore
trasudanti melodramma, pensò. Oh, sì che la guarderò aprirsi. E Artemis
Fowl ne avrà paura. Ma non per molto.
Opal si raccolse e appoggiò il palmo della mano destra sulla pietra, con le
dita allargate, e la magia le intorpidì i polpastrelli. La mano sprofondò come
la luce del sole nelle tenebre, con le fessure che si irraggiavano a quel
contatto.
Svegliatevi, pensò. Svegliatevi, miei bellissimi guerrieri.
ÉRIÚ, ALIAS TENUTA DEI FOWL
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I Berserkr vennero espulsi dal terreno sacro e si ritrovarono scaraventati in
aria come sparati da un cannone. L’attrazione dell’aldilà diminuì, e i guerrieri
si sentirono liberi di portare a termine la loro missione. La morte successiva,
lo sapevano, sarebbe stata l’ultima, e finalmente le porte di Nimh si sarebbero
aperte anche per loro. Questo gli era stato promesso e questo ambivano.
Perché è sempre vero che, sebbene i morti desiderino la vita, le anime sono
fatte per il cielo e non troveranno riposo fino a che non lo avranno
raggiunto. Questa era una verità sconosciuta all’elfo stregone quando aveva
forgiato chiave e serratura. Egli non sapeva di avere predestinato i suoi
guerrieri a diecimila anni con le spalle alla luce. E dare le spalle alla luce
troppo a lungo poteva costare l’anima.
Ora, però, tutte le promesse che erano state bisbigliate al loro orecchio
mentre i sacerdoti trascinavano i loro corpi esanimi alla fossa erano sul punto
di adempiersi. Tutto ciò che dovevano fare era difendere la porta nei corpi
rubati, e la loro morte successiva avrebbe aperto loro le porte del paradiso. I
guerrieri avrebbero finalmente fatto ritorno a casa.
Ma non prima che venisse versato sangue umano.
Il suolo sfrigolò e danzò mentre l’ectoplasma di cento guerrieri del Popolo ne
irrompeva all’improvviso per salire verso l’alto, impaziente di rivedere la
luce. Essi venivano inesorabilmente attratti verso la chiave posata sulla
serratura di pietra, e a uno a uno passarono attraverso il condotto della sua
magia.
Oro fu il primo.
È un folletto, si rese conto sorpreso, in quanto i folletti erano conosciuti per
la mancanza di poteri magici. E femmina, per giunta! Ma, nonostante questo,
la sua magia è potente.
Via via che, uno dopo l’altro, i guerrieri schizzavano attraverso l’essenza di
Opal, lei ne avvertiva il dolore e la disperazione e ne assorbiva le esperienze
prima di cacciarli nel mondo con un ordine: Ubbidiscimi. Ora tu sei il mio
soldato.
E così, Oro e la sua truppa di Berserkr vennero sottoposti a un geis, o
vincolo elfico, perché seguissero Opal ovunque lei gli ordinasse di andare.
Rotolarono in cielo, in cerca di un corpo da abitare all’interno del cerchio
magico.
In quanto loro capo, Oro aveva la prima scelta fra le entità disponibili e,
come molti dei suoi soldati, aveva passato molte migliaia di ore a pensare a
quale creatura sarebbe stata l’ospite perfetto per i suoi talenti. Idealmente
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avrebbe scelto un elfo con un po’ di muscoli e un braccio lungo per tirare di
spada, ma era improbabile che lì nei pressi fosse disponibile un esemplare
così valido, e anche se ne avesse trovato uno, sarebbe stato un peccato
prendere un elfo e sostituirlo con un altro.
Di recente aveva optato piuttosto per un troll come suo veicolo di elezione, se
ne avesse avvertito la presenza nei dintorni.
Un troll con la mente di un elfo. Che guerriero formidabile sarebbe!,
pensava.
Ma in giro non c’erano troll, e l’unico spiritello disponibile era un debole
gnomo con rune protettive tracciate su tutto il petto. No, quello no.
C’erano degli umani, tre di quelle odiate creature. Due maschi e una
femmina. Avrebbe lasciato la femmina a Bellico, una degli unici due spiritelli
femmina nei loro ranghi. Perciò non gli rimanevano che i due maschi.
L’anima di Oro volteggiò attorno a loro. Due nanetti curiosi che non
manifestavano il rispetto che la situazione sembrava richiedere. Il loro
mondo si era dissolto sotto un vortice di magia, per Danu! Non avrebbero
dovuto tremare di paura, mettersi a frignare e implorare la pietà che non
avrebbero ricevuto?
Ma no, le loro reazioni furono sorprendenti. Il maschio dai capelli scuri si era
avvicinato in fretta alla ragazza caduta e le stava controllando il polso con
fare esperto. Il secondo, che era biondo, aveva sradicato una manciata di
canne con una forza sorprendente per uno della sua taglia, e in quel momento
si stava avvicinando a quello sciocco gnomo, costringendolo a indietreggiare
verso un fosso.
Quello m’interessa, pensò Oro. È giovane e piccoletto, però il suo corpo
sprizza energia. Prenderò lui.
Fu semplice. Oro lo pensò e divenne realtà. Un attimo prima fluttuava sopra
Beckett Fowl, e un attimo dopo era diventato lui e picchiava lo gnomo con
una manciata di fragilissime canne.
Oro rise forte mentre i sensi prendevano d’assalto le sue terminazioni
nervose. Sentiva il sudore nelle pieghe delle dita, la levigatezza luccicante
delle canne. Avvertiva l’odore del ragazzo, la sua giovinezza ed energia come
il fieno e l’estate. Sentiva un giovane battito nel petto come quello di un
tamburo.
— Ah! — esclamò esultante, e continuò a picchiare lo gnomo solo per
divertimento, pensando: Il sole è caldo, sia lode a Belanu. Vivo di nuovo, ma
questa volta morirò volentieri per vedere gli umani nella terra accanto a me.
Perché è sempre vero che i guerrieri del Popolo risorti sono più che nobili
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nei loro pensieri e non hanno poi tutto questo gran senso dell’umorismo.
— Basta giocare — disse in gnomico, e la sua lingua umana farfugliò le
parole che sembrarono piuttosto un grugnito animalesco. — Dobbiamo
radunarci.
Oro guardò il cielo dove il plasma dei suoi guerrieri schizzava attorno a lui
come una schiera di traslucide creature dei fondali marini. — Questo è
quanto aspettavamo — disse. — Trovate un corpo all’interno del cerchio.
Ed essi si dispersero in un lampo di ozono, perlustrando la tenuta dei Fowl in
cerca di contenitori che potessero diventare i loro ospiti.
I primi corpi a essere occupati furono quelli degli umani più vicini.
Non era una buona giornata per andare a caccia di corpi ospiti nella tenuta
dei Fowl. Di norma, nei giorni feriali la proprietà pullulava letteralmente di
umani, e a presiedere su tutto quanto c’erano Artemis Senior e Angeline
Fowl, padroni di casa. In quel giorno fatidico, però, la casa era praticamente
chiusa per l’approssimarsi delle festività natalizie. I genitori di Artemis erano
a Londra per prendere parte a una conferenza ecologista con un assistente
personale e due cameriere al seguito. Il resto della servitù era stato messo in
libertà anticipatamente, dal momento che durante le feste sarebbe stata
sufficiente una presenza occasionale per mandare avanti il castello. I due
Fowl avevano progettato di trasferirsi con i figli sulla pista di atterraggio
dell’aeroporto di Dublino una volta conclusa la terapia di Artemis e quindi di
puntare il muso composito del jet Lear di famiglia verso Cap Ferrat per
trascorrere il Natale in Costa Azzurra.
Quel giorno in casa non c’era nessuno, tranne Juliet e i suoi due protetti. Non
un briciolo di umanità da depredare, con grande frustrazione delle anime
volteggianti che da tanto e tanto tempo sognavano quel momento. Perciò la
scelta fu limitata a diverse forme di vita selvatica, compresi otto corvi, due
cervi, un tasso, un paio di cani da punta inglesi che Artemis Senior teneva
nelle stalle, e cadaveri contenenti ancora una scintilla residua, che erano più
numerosi di quanto non si possa sospettare. Le salme erano ben lungi
dall’essere gli ospiti ideali, dal momento che la decomposizione e la
disidratazione ostacolavano la rapidità di pensiero e la motricità. E poi, era
facile perdere qualche pezzo proprio nel momento in cui se ne aveva più
bisogno.
Le prime a essere prescelte erano abbastanza ben conservate per la loro età.
Nei suoi giorni da malavitoso, Artemis Senior aveva rubato una raccolta di
mummie di guerrieri cinesi e non aveva ancora trovato un modo sicuro per
rimpatriarle, perciò le custodiva in un interrato segreto a prova di umidità. I
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guerrieri rimasero più che sorpresi nello scoprire che la loro materia
cerebrale si rianimava e si reidratava e che soldati ancora più vecchi di loro si
impadronivano della loro coscienza. Entrarono in azione sferragliando con le
loro armature arrugginite e infransero il vetro delle teche da esposizione per
riappropriarsi delle loro spade e delle alabarde, con le punte di acciaio che un
curatore appassionato aveva tenuto in condizioni di luccichio abbagliante. La
porta dell’interrato andò rapidamente in frantumi sotto il loro assalto e le
mummie sbucarono rumorosamente nel sontuoso atrio del castello e da lì alla
luce del sole, fermandosi un istante per avvertirne il caldo tocco sulla fronte
rivolta verso l’alto prima di marciare nel pascolo verso il loro capo,
costringendosi ad affrettarsi nonostante il risveglio dei sensi, che li
spingevano a fermarsi per annusare ogni forma di vita vegetale. Perfino i
mucchi di letame.
Il successivo gruppo di cadaveri a essere rianimato fu quello di una banda di
furfanti sepolti dal crollo di una caverna nel diciottesimo secolo, mentre
nascondevano il tesoro che avevano trafugato dallo scafo aperto del
Bastimento di Sua Maestà Ottagono per trasferirlo a bordo del loro
brigantino, La sciabola. Il temuto capitano Eusebius Fowl e dieci dei suoi
marinai, appena un po’ meno temuti, non erano stati maciullati dalla roccia,
ma erano rimasti sigillati in una bolla a tenuta stagna che non avrebbe lasciato
passare neppure un respiro di passero per fargli riempire i polmoni.
I corpi dei pirati tremolarono come sottoposti a una scarica elettrica, si
scrollarono di dosso le coperte di alghe e si strizzarono per passare in un
buco appena aperto nel muro della loro tomba, incuranti delle conseguenze,
vale a dire articolazioni e costole saltate.
Ma anche altri cadaveri si trovarono trascinati dai loro luoghi di riposo per
diventare complici dell’ultimo tentativo di Opal Koboi di prendere il potere.
Per alcuni di loro lo spirito era già passato oltre, ma per quelli morti di morte
violenta o con questioni in sospeso rimaneva ancora un accenno della loro
essenza che non poté fare altro che lamentare il triste trattamento riservato dai
Berserkr ai loro corpi.
Opal Koboi si accasciò sulla roccia antica, e le rune che erano strisciate come
serpi di fuoco ripresero posto, raccogliendosi attorno all’impronta della sua
mano come al centro della chiave magica.
La prima serratura è stata aperta, pensò mentre riacquistava i sensi con
ondate di nausea. Soltanto io posso richiuderla, ormai.
Lo gnomo finora noto come Pip, ma il cui vero nome era l’assai più
dignitoso Val Kyria, entrò zoppicando nel cratere, si arrampicò su per i
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gradini della torre e avvolse attorno alle spalle di Opal uno scialle scintillante.
— Il mantello di stelle, Miss Opal — le disse. — Come mi aveva chiesto.
Opal ne accarezzò la stoffa e ne fu compiaciuta. Scoprì di avere nei
polpastrelli ancora abbastanza magia da poter calcolare il numero dei fili. —
Ben fatto, Hal.
— Sarebbe Val, Miss Koboi — la corresse lo gnomo, un po’ seccato.
La carezza di Opal si arrestò, e la mano strinse un lembo del mantello di seta
con tanta forza da farlo fumare. — Sì, Val. Hai sparato al mio alter ego più
giovane?
Val si raddrizzò. — Sì, padrona, come aveva ordinato. E l’ho seppellita a
dovere, come diceva nel codice.
Opal si rese conto allora che quello spiritello le avrebbe sempre ricordato che
aveva sacrificato il suo io più giovane per la sua sete di potere.
— È vero che ti avevo ordinato di uccidere Opal junior, Val, però lei era
terrorizzata. L’ho sentito.
Val era perplesso. Quella giornata non stava prendendo la piega che lo
gnomo si era aspettato. Aveva cullato immagini di elfi soldati con pitture di
guerra, di trecce fermate sulla nuca con ossi, e invece si ritrovava circondato
da bambini umani e da animali selvatici.
— Non mi piacciono quei conigli — sbottò in quella che fu forse
l’affermazione più fuori luogo della sua vita. — Mi sembrano strani. Guardi
quegli orecchi frementi.
Opal non riteneva che una persona del proprio livello dovesse accettare
commenti del genere, perciò vaporizzò il povero Val con un fascio di energia
al plasma, e del leale gnomo non rimase nulla se non una macchia di pasta
nerastra sul gradino. Un uso del plasma di scarso giudizio, si sarebbe
constatato in un secondo tempo, perché di sicuro la folletta avrebbe potuto
concedersi un momento per accumulare una seconda carica che le avrebbe
permesso di occuparsi della navetta corazzata apparsa d’un tratto sul muro di
cinta. Era protetta da uno scudo, è vero, ma Opal aveva sufficiente magia
nera dentro di sé per vedere nel centro del luccichio che le era apparso
davanti. Con una reazione un po’ troppo affrettata, scagliò a gran velocità un
debole lampo sulla sinistra, riuscendo soltanto a scheggiare il vano motore e
non ad avvolgere l’intero mezzo. La magia erratica si scatenò, rovesciando
una torretta del muro della tenuta prima di disintegrarsi in tanti lampi che
schizzarono verso il cielo.
Anche se la Cupido fu solo scheggiata, il contatto era stato sufficiente a
fonderne il motore a razzo, a metterne fuori uso le armi e a farla puntare
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dritto verso terra in una discesa che nemmeno il pilota più abile sarebbe
riuscito a rallentare.
Altri avatar per i miei soldati, pensò Opal, stringendosi attorno il mantello di
stelle e saltellando agilmente giù per i gradini della torre. Discese la parete del
cratere e percorse il solco tracciato nel prato dalla navetta mortalmente ferita.
I suoi guerrieri la seguivano, ancora ebbri per le nuove sensazioni,
barcollanti nei loro nuovi corpi, sforzandosi di articolare parole con gole
sconosciute.
Opal guardò sopra di sé e vide tre anime schizzare verso la navetta fumante,
che si era fermata con un’angolazione strana al riparo di un muro di cinta.
— Prendeteli — ordinò ai guerrieri. — È il mio regalo per voi.
A quel punto, quasi tutti i Berserkr avevano trovato ospitalità e stiravano le
articolazioni con grande sollievo o grattavano la terra sotto le zampe o
annusavano il muschio autunnale. Quando all’interno del cerchio erano
arrivati quei nuovi ospiti, erano ormai tutti sistemati, tranne tre anime
ritardatarie che si erano rassegnate a una risurrezione da passare strette e
infastidite nel corpo di anatroccoli.
Due umani e un elfo. L’animo dei guerrieri ne fu risollevato. Letteralmente.
All’interno della Cupido, a cavarsela meglio nella caduta era stata Spinella,
anche se si era trovata più vicino al punto d’impatto. Cavarsela meglio, in
ogni modo, è un’espressione relativa e probabilmente non quella che Spinella
avrebbe scelto per descrivere le proprie condizioni.
Me la sono cavata meglio, avrebbe probabilmente evitato di dire alla prima
occasione. Mi sono ritrovata solo con un polmone perforato e la clavicola
spezzata. Avreste dovuto vedere gli altri.
Per sua fortuna, ancora una volta gli amici assenti avevano contribuito a non
farla morire. Come i biosensori del lucernario di Polledro avevano evitato
una collisione fatale al navettiporto, così il suo caro amico, il demonestregone N. 1, l’aveva salvata con la sua speciale magia demoniaca.
E come ci era riuscito? Era accaduto due giorni prima, davanti alla tazza
settimanale di simil-caffè allo Stirbox, un locale alla moda nel quartiere del
jazz. N. 1 era ancora più su di giri del solito grazie al doppio espresso che gli
scorreva nel tozzo corpo grigio. Le rune che gli goffravano il pettorale
dell’armatura brillavano per l’eccesso di energia.
— Non dovrei bere simil-caffè — confessò. — Qwan dice che altera il mio
chi. — Il piccolo demone ammiccò, nascondendo per un attimo un occhio
arancione. — Avrei potuto dirgli che i demoni non hanno chi, noi abbiamo il
qwa, però non credo che sia ancora pronto per questo.
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Qwan era il maestro di magia di N. 1, e il demone gli era così affezionato che
fingeva di non averlo superato già da anni.
— E il caffè è ottimo per il qwa, lo fa schizzare alle stelle. Probabilmente, se
ne avessi voglia, potrei trasformare una giraffa in un rospo, anche se
avanzerebbe un mucchio di pelle, per lo più del collo.
— È un’idea inquietante — replicò Spinella. — Se davvero hai voglia di
esercitarti con un po’ di magia utile con qualche anfibio, perché non fai
qualcosa per le smoccorane?
Le smoccorane erano il risultato di uno scherzo di alcuni allievi stregoni di
un corso di perfezionamento, i quali erano riusciti a dare a un gruppo di rane
il dono della parola. Solo quello delle parolacce, però. Era stato divertente
per cinque minuti, finché le rane non avevano incominciato a moltiplicarsi
con un ritmo feroce, sputando epiteti infami contro qualunque cosa si
muovesse, compresi gli spiritelli dell’asilo e le nonne umane.
N. 1 rise piano. — Mi piacciono le smoccorane. A casa ne ho due che si
chiamano Bip e D’Arvit. Sono maleducatissime con me, però so che non lo
fanno apposta. — Il piccolo demone mandò giù un altro sorso di caffè. — E
allora, parliamo un po’ del tuo problema con la magia, Spinella.
— Quale problema? — chiese lei, sinceramente perplessa.
— Io per la magia ho una vista ai raggi X, e tu hai dei buchi grossi come
quelli del formaggio dei nani.
Spinella si guardò le mani come per trovarvi una prova visibile. — Davvero?
— Il tuo scheletro è la batteria in cui immagazzini la magia, ma del tuo hai
abusato una volta di troppo. A quante guarigioni ti sei sottoposta? A quanti
traumi?
— Un paio — ammise Spinella, con il che intendeva dire “una decina”.
— Un paio questo giro — ribatté N. 1. — Non mentire con me, Spinella
Tappo. La tua attività elettrodermica è aumentata sensibilmente. Il che
significa che ti sudano i polpastrelli, vedo anche questo. — Il demone grigio
rabbrividì. — A dire il vero, a volte vedo cose che non ho nessunissima
voglia di vedere. L’altro giorno nel mio ufficio è entrato uno spiritello con un
mazzo di microscopiche larve di anellivermi che si contorcevano attorno alla
sua ascella. Ma che ha la gente?
Spinella non rispose, era meglio lasciare che N. 1 si sfogasse.
— E vedo che tutte le settimane hai anche regalato una scintilla o due della
tua magia al clone di Opal alla clinica di Argon nel tentativo di farla stare un
po’ meglio. È solo una perdita di tempo, Spinella: quella creatura non ha uno
spirito, la magia non le serve a niente.
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— Ti sbagli, N. 1 — ribatté calma Spinella. — Nopal è una persona.
N. 1 stese in fuori i ruvidi palmi. — Dammi le mani — le disse.
Spinella gli mise le dita fra le sue. — E adesso cantiamo una canzonaccia da
marinai?
— No — ribatté N. 1. — Però potrebbe farti un po’ male.
“Potrebbe farti un po’ male” è una frase in codice universale per “Ti farà
sicuramente male un sacco”, ma prima che il cervello di Spinella avesse il
tempo di fare la traduzione, la runa sulla fronte di N. 1 si avvolse a spirale,
cosa che faceva solo quando il demone si sforzava di operare un grosso
spiegamento di energia. L’elfa fece appena in tempo a sbottare in un: —
Ma… — che quelle che sembravano due anguille elettriche le si avvolsero
attorno alle braccia e strisciarono verso l’alto affondandole nel petto. Non fu
un’esperienza gradevole.
Spinella perse il controllo delle membra e incominciò ad avere spasmi come
una marionetta mossa da un burattinaio in preda alle risate. Tutta la faccenda
non durò più di cinque secondi, ma cinque secondi di disagio acuto possono
sembrare lunghissimi.
L’elfa tossì e parlò solo quando la mascella ebbe finito di schioccare. — E
dovevi proprio farlo in un caffè?
— Pensavo che non ci saremmo rivisti per un po’ e sono preoccupato per te.
Sei così imprudente, Spinella. Così ansiosa di aiutare tutti dimenticandoti di
te stessa.
Spinella fletté le dita, e fu come se le articolazioni fossero state lubrificate. —
Wow, ora che quel dolore assurdo è sparito sto benissimo. — D’un tratto,
registrò le ultime parole di N. 1. — E perché non ci dovremmo vedere per un
po’?
Di colpo N. 1 si fece serio. — Ho accettato un invito alla stazione lunare.
Vogliono che esamini alcuni microrganismi per capire se posso estrarre un
po’ di memoria genetica dalle loro cellule.
— Oh-oh! — esclamò l’elfa, che aveva capito perfettamente la prima frase e
niente della seconda al di là delle singole parole. — E per quanto starai via?
— Due dei vostri anni terrestri.
— Due anni — balbettò lei. — Avanti, N. 1. Sei l’unico amico spiritello che
mi rimane. Polledro si è fatto imbrigliare. Grana Algonzo si è lasciato
accalappiare dal caporale Foglietta, anche se non riesco a capire che cosa ci
trovi in quella testa vuota.
— È carina e gli vuole bene, ma a parte questo non ne ho proprio idea —
ribatté malizioso il demone.
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— Scoprirà che tipo è davvero quando lei lo pianterà in asso per qualcuno di
grado più alto.
N. 1 ritenne opportuno non fare cenno ai tre disastrosi appuntamenti di
Spinella con il comandante Algonzo, l’ultimo dei quali era terminato con i
due cacciati via da una partita di strozzapalla.
— Ti rimane sempre Artemis.
Spinella annuì. — Già. Artemis è un bravo ragazzo, credo, ma ogni volta che
ci vediamo finisce sempre con sparatorie, o viaggi nel tempo o cellule
cerebrali che muoiono. Voglio un amico tranquillo, N. 1. Un tipo come te.
Il demone le riprese la mano. — Due anni passeranno in un lampo. Magari
potresti chiedere un lasciapassare lunare e venire a trovarmi.
— Magari. Però adesso basta cambiare argomento. Che cos’è che mi hai
appena fatto?
N. 1 si schiarì la voce. — Oh, solo un ritocco magico. Ora le tue ossa sono
meno fragili e le articolazioni sono lubrificate. Ti ho rafforzato il sistema
immunitario e ti ho ripulito le sinapsi che erano un po’ ostruite dai residui
magici. Ti ho riempito il serbatoio con una mia personale miscela di energia e
ho reso i tuoi capelli un po’ più lucenti di quanto già non siano; poi ho
rinsaldato la tua runa protettiva in modo che tu non possa essere posseduta
mai più. Voglio che tu sia al sicuro fino al mio ritorno.
Spinella strinse le dita dell’amico. — Non preoccuparti per me. Solo
operazioni di routine.
Solo operazioni di routine, pensò adesso Spinella ancora stordita
dall’impatto, con la magia che le scorreva nel sistema riparandole la frattura
alla clavicola e ricucendo il reticolo di ferite sulla pelle.
La magia avrebbe tanto voluto chiuderla per manutenzione straordinaria, ma
l’elfa non poteva permetterlo. Cercò a tastoni il kit di pronto soccorso nella
tasca della cintura e si schiaffò sul polso un cerotto di adrenalina; all’istante,
le centinaia di minuscoli aghi le rilasciarono la sostanza chimica nel flusso
sanguigno. Una scarica di adrenalina l’avrebbe mantenuta all’erta, lasciando
che la magia facesse il suo lavoro. La cabina della Cupido era fracassata, e
solo il guscio rinforzato del veicolo aveva evitato un crollo totale che avrebbe
spappolato i passeggeri. Comunque la navetta aveva cavalcato la sua ultima
vampa di magma. Nel retro del veicolo, Leale cercava di ignorare la
commozione cerebrale che minacciava di trascinarlo nell’oblio, e Artemis era
incastrato nello spazio fra i sedili come un pupazzo gettato via.
Ti voglio bene, Artemis, pensò Spinella. Però in questo momento mi serve
Leale.
74
E così, la guardia del corpo fu il primo a ricevere la scarica di magia
guaritrice, una saetta che lo caricò come un defibrillatore spedendolo con
uno spasmo sul prato al di là del finestrino posteriore.
Wow!, pensò Spinella. Bell’intruglio, N. 1.
Con Artemis ci andò più piano e si limitò a fargli cadere una goccia di magia
dal polpastrello al centro della fronte. Il contatto fu comunque sufficiente per
increspargli la pelle come l’acqua di uno stagno.
Era in arrivo qualcosa. Spinella vedeva le immagini doppiamente distorte
attraverso il vetro in frantumi e il visore scheggiato. Un mucchio di cose.
Sembravano piccole, ma si muovevano con sicurezza.
Non vedo. Non riesco ancora a vedere, si disse.
La magia di N. 1 completò il proprio viaggio risanatore nel suo organismo e,
mentre il sangue le lasciava l’occhio sinistro, Spinella ebbe modo di dare una
bella guardata a quello che le si stava avvicinando.
Un serraglio, pensò. Può occuparsene Leale.
Ma poi la magia di N. 1 le permise di inquadrare uno scorcio delle anime che
fluttuavano nell’aria come logori aquiloni trasparenti, e l’elfa rammentò le
storie che il padre le aveva raccontato tante volte.
“I più prodi dei prodi. Lasciati a protezione della porta.”
Berserkr, comprese Spinella. La leggenda dice il vero. Se catturano Leale,
siamo finiti.
Strisciò sopra Artemis, uscì dal finestrino posteriore e si trascinò nel solco
aperto dallo schianto della Cupido, con la terra arata di fresco che le si
sbriciolava sulla testa. Per un attimo provò la paura irrazionale di essere
sepolta viva, ma poi le zolle di terra rotolarono giù e fu libera.
Sentiva il dolore pulsante lasciato dalla frattura risanata alla spalla, ma per il
resto stava fisicamente bene.
Ho la vista ancora confusa, si rese conto. Perché?
Ma non era la vista: le lenti dell’elmetto erano scheggiate. Sollevò il visore e
fu salutata dalla veduta cristallina di una forza d’assalto guidata dai fratellini
di Artemis, che sembrava comprendere anche una falange di guerrieri in
armature antiche e diversi animali selvatici.
Leale stava carponi al suo fianco, intento a scrollarsi di dosso la nebbia della
magia come un orso grizzly che si scuote l’acqua di un fiume. Spinella trovò
nel pacchetto un altro cerotto di adrenalina e glielo stampò sul collo.
Scusami, amico, ma mi servi operativo, pensò.
Leale balzò in piedi come se avesse appena ricevuto una scarica elettrica, ma
ondeggiò, momentaneamente disorientato.
75
Le figure possedute si fermarono all’istante, disposte a semicerchio,
evidentemente ansiose di attaccare ma trattenute per una qualche ragione.
Il piccolo Beckett Fowl guidava la carica di quell’armata eterogenea, ma
adesso non sembrava tanto un bambino, con quella sua tronfia andatura da
guerriero e una manciata di canne insanguinate che sventolava. Grazie al
residuo della magia di N. 1, Spinella riuscì a scorgere lo spirito di Oro
nascosto dentro al ragazzino.
— Sono un elfo — gli disse in gnomico. — Questi umani sono miei
prigionieri. Lasciaci in pace.
La voce di Opal Koboi si alzò sopra i ranghi: — Prigionieri? Quello grosso
non sembra proprio un prigioniero.
— Koboi — disse Leale, che finalmente aveva ritrovato un po’ di lucidità.
Poi notò la sorella nel gruppo. — Juliet! Sei viva!
Juliet si fece avanti, ma in maniera goffa, come se non avesse familiarità con
i propri meccanismi interni. — ’Ateuo — biascicò con la voce fessa e uno
strano accento. — ’brasciami.
— No, amico mio — lo ammonì Spinella, scorgendo il lampo guerriero nel
corpo della sorella di Leale. — Juliet è posseduta.
L’uomo comprese all’istante. Avevano già avuto a che fare con una
possessione di fate quando Artemis era stato colpito dal Complesso di
Atlantide.
I tratti del viso di Leale si distorsero, e in quel momento i decenni di battaglie
gli apparvero tutti scritti in faccia.
— Jules. Sei tu?
La regina dei guerrieri, Bellico, usò i ricordi di Juliet per rispondere, ma non
aveva il completo controllo delle corde vocali. Le sue parole uscirono
confuse, come se fossero state pronunciate attraverso altoparlanti di latta, e
l’accento era un insolito misto fra lo scandinavo marcato e l’americano del
profondo Sud.
— Scì, ’ateuo. Sciono io. Sgiuuuliet.
Leale comprese la verità: il corpo poteva anche essere quello della sorella, ma
di sicuro la mente non lo era.
Artemis li raggiunse e posò una mano sulla spalla di Spinella. Aveva una
macchia di sangue sulla camicia nel punto in cui aveva tossito. Come al
solito, fece la domanda più pertinente. — Perché non attaccano?
Spinella sobbalzò letteralmente. Perché no? Certo, perché no?
Leale ripeté: — Perché non attaccano? Sono in superiorità numerica e dal
punto di vista emotivo noi siamo un disastro. Quell’affare è mia sorella, per
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amor del cielo!
L’elfa ricordò perché fossero stati lasciati in pace: Siamo ospiti all’interno del
cerchio. Hanno bisogno di noi.
Le anime svolazzanti sopra di loro si impennavano, pronte alla discesa.
Posso spiegare quello che sto per fare, pensò Spinella. Oppure posso farlo e
basta.
Era più facile agire senza tanti complimenti e sperare di avere in seguito
l’opportunità di scusarsi.
Regolò con mano esperta la messa a punto sulla canna della sua Neutrino e
sparò in rapida successione a Leale sul collo e ad Artemis sulla mano.
Ora non saremo posseduti, disse fra sé. Ma l’aspetto negativo è che con ogni
probabilità i Berserkr ci uccideranno.
Le anime calarono sugli ospiti designati come fogli di polietilene bagnato.
Spinella sentì che un ectoplasma le si infilava in bocca, ma lo spirito non
sarebbe riuscito a possederla per via della runa sotto il colletto.
Resisti, si disse. Resisti.
Avvertì il sapore di argilla e bile. Udì echi di grida di decine di migliaia di
anni addietro e sperimentò la Battaglia di Taillte come se lei stessa si fosse
trovata su quella collina in cui il sangue si era riversato sul prato e ondate di
umanità erano rotolate sull’erba, annerendola.
È avvenuto tutto proprio come mi aveva detto mio padre, si rese conto.
Quando perse la presa e si trovò respinta in volo a mezz’aria, l’anima ululò di
frustrazione.
Due anime di guerrieri cercavano di entrare in Artemis e in Leale, ma
vennero respinte. Quando era stato raggiunto dal colpo dell’elfa, l’eurasiatico
era caduto riverso come una sequoia abbattuta, e Artemis gli aveva afferrato
la mano, esterrefatto nel vedere l’amica elfa bruciare la loro pelle nuda con i
raggi della Neutrino. Erroneamente, aveva tratto l’affrettata conclusione che
fosse stata posseduta da uno dei guerrieri di Danu, un’esperienza che
conosceva bene dopo che un’anima aveva cercato di occupare lui.
Cadde in ginocchio e rimase a guardare con gli occhi socchiusi per il dolore i
guerrieri nordici che avanzavano verso di loro.
Spinella era ancora un’amica o era diventata una nemica? Non poteva esserne
sicuro. Sembrava lei, con l’arma puntata contro l’orda.
La voce di Opal li raggiunse da oltre la calca, al riparo di quella massa. — Si
sono protetti. Uccideteli subito, soldati. Portatemi le loro teste.
Artemis tossì.
Portatemi le loro teste?
77
Di solito Opal era un po’ più sottile.
È proprio vero quello che si dice: la prigione non riabilita l’uomo. O per lo
meno, non riabilita i folletti.
Perfino i suoi fratellini avanzavano verso di lui con occhi assassini. Due
bambini di quattro anni che procedevano con sempre maggiore agilità e
velocità.
Sono diventati più forti? Myles e Beckett potrebbero davvero riuscire a
ucciderci?, si chiese.
E se non lo avessero fatto loro, forse ci avrebbero pensato quei pirati con le
loro sciabole arrugginite.
— Leale — gracchiò. — Ritiriamoci e valutiamo la situazione. — Era la loro
unica possibilità.
Non ci rimane nessuna opzione proattiva, pensò.
Comprenderlo lo irritò moltissimo, perfino in quella situazione di pericolo
mortale.
— Ritiratevi e cercate di non fare del male a nessuno tranne a quei pirati. Le
mummie dei guerrieri cinesi e io non ci seccheremo troppo se farete del male
a un paio di animali. Dopotutto, o loro o noi.
Ma Leale non poteva sentire lo sproloquio insolitamente nervoso di Artemis
perché il colpo di Spinella gli aveva centrato il nervo vago e lo aveva steso
secco. Un centro su un milione.
Toccava all’elfa difendere il gruppo. Sarebbe andato tutto bene, tutto ciò che
il capitano Tappo doveva fare era regolare la Neutrino su un raggio largo per
far guadagnare loro un po’ di tempo. Poi nelle dita della mano scheletrica di
un pirata incominciò a roteare un manganello che le centrò il naso,
ricacciandola addosso a Leale.
Artemis vide le creature possedute fare gli ultimi passi verso di lui e con
sgomento si rese conto che alla fine tutto si sarebbe ridotto a uno scontro
fisico.
Ho sempre creduto che la mia intelligenza mi avrebbe tenuto in vita, e invece
adesso verrò ammazzato con un sasso dal mio fratellino. La rivalità finale tra
fratelli, pensò.
E poi il terreno si aprì sotto i suoi piedi e inghiottì l’intero gruppo.
Opal Koboi si fece strada sgomitando fra i suoi accoliti fino all’orlo del
baratro che si era aperto improvvisamente per strappare le sue nemesi al loro
destino.
— No! — strillò, i pugni che colpivano l’aria. — Volevo le loro teste. Sulle
lance. Voialtri lo fate sempre, no?
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— Di solito sì — ammise Oro per bocca di Beckett. — E a volte anche le
membra.
Opal avrebbe potuto giurare che sotto i suoi piedi il suolo avesse ruttato.
79
CAPITOLO 7 - A TUTTO SPUTO
TENUTA DEI FOWL, PARECCHI METRI SOTTO TERRA
Artemis precipitò sempre più giù, urtando con i gomiti e le ginocchia le radici
ricurve e gli spigoli aguzzi di roccia che sporgevano come libri mezzo sepolti.
Le zolle di terra umida gli rotolavano ai fianchi e il pietrisco gli sbatacchiava
sulla camicia e sulle gambe dei pantaloni. Aveva la vista offuscata dal
turbinio di strati di terra, però sopra di sé vedeva un bagliore. Ma anche
sotto. Com’era possibile?
Un tonfo di legno dietro un orecchio e la luce che proveniva dal di sotto lo
lasciarono confuso. Ma quello era sotto, giusto?
Mi sento come Alice che precipita nel Paese delle meraviglie, pensò.
Gliene tornò alla mente una frase: Sarebbe bello se per una volta qualcosa
avesse un senso.
Nessuna caduta può durare in eterno se c’è di mezzo la gravità, e la discesa di
Artemis fu per fortuna graduale via via che il cratere si stringeva a un collo di
bottiglia che Leale e Spinella ebbero la decenza di bloccare con un groviglio
scomposto di corpi e arti prima di precipitare nel buco. Mani ruvide
afferrarono Artemis, trascinandolo in un tunnel sottostante.
Il ragazzo atterrò sull’ammasso di corpi e dovette ripulirsi gli occhi dalla
terra. Qualcuno o qualcosa stava nudo davanti a lui, una figura eterea che
risplendeva di una luce divina dalla testa ai piedi. Stese verso di lui una mano
fulgida e gli parlò con una voce profonda da trailer cinematografico.
— Tirami il dito.
Artemis rilassò i muscoli del collo. — Bombarda.
— L’unico e il solo. Venuto ancora una volta a salvare il tuo cervellotico
didietro. Ricordami soltanto una cosa: chi è che dovrebbe essere il genio,
qui?
— Bombarda — ripeté Artemis.
Il nano gli puntò contro il dito teso come una pistola. — Ah ah! Ti stai
ripetendo. Una volta mi hai detto che ripetersi è un esempio di ridondanza.
Be’, chi è ridondante adesso, Fangosetto? A che cosa ti è servito il tuo genio
con quei fuori di testa là sopra?
— A niente — ammise Artemis. — Ma non potremmo discuterne dopo?
— Solo perché hai torto — ribatté Bombarda.
— No, perché quei fuori di testa ci stanno alle calcagna. Dobbiamo ritirarci e
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riorganizzarci.
— Non preoccuparti di questo — gli disse il nano, stendendo un
avambraccio in un buco della parete del tunnel ed estraendone una grossa
radice. — Quando avrò fatto crollare l’imboccatura della galleria, nessuno ci
seguirà da nessuna parte, però forse dovresti avere la compiacenza di
avanzare di un metro o due.
La terra sopra di loro rimbombò come nubi temporalesche che si andassero
ammassando sulla cresta di una montagna, e il ragazzo fu colto di colpo dalla
certezza che sarebbero stati travolti tutti quanti. Si precipitò in avanti e si
schiacciò contro la fredda parete di terra scura come se questo potesse in
qualche modo fare la differenza.
E invece il tunnel di Bombarda resistette, e a rimanere bloccato fu soltanto il
punto in cui fino a pochi istanti prima si era trovato Artemis.
Il nano avvolse le dita attorno alla caviglia di Leale e con un certo sforzo
trascinò la guardia del corpo priva di sensi lungo il pavimento della galleria.
— Tu pensa a Spinella. Fai piano. A giudicare dalla tua mano, deve avere
scacciato quegli spiriti e averti salvato la vita. Prima che lo facessi anch’io. E
probabilmente subito dopo che lo ha fatto Leale. Ti sembra di riuscire a
riconoscere uno schema ricorrente in tutto questo, Fangosetto? Incominci a
capire chi è la palla al piede qui?
Artemis si guardò la mano: nel punto in cui Spinella gli aveva sparato era
marchiata con una runa a spirale. A quella vista, le ultime sfere di ectoplasma
dei Berserkr incollate ai capelli gli diedero i brividi.
Una runa di protezione. Spinella li aveva marchiati per salvarli. E pensare che
aveva dubitato di lei.
La prese in braccio e seguì il nano, cercando a tastoni la strada con le punte
dei piedi. — Rallenta! — gridò. — C’è buio qui.
La voce di Bombarda riecheggiò nel tunnel. — Segui i globi, Arty. Gli ho
dato uno strato in più di saliva di nano, la soluzione magica che fa tutto, da
brillare al buio a respingere gli ospiti fantasma. Dovrei imbottigliarla e
venderla, questa roba. Segui i globi.
Artemis sbatté gli occhi davanti al bagliore che si allontanava ed
effettivamente riuscì a distinguere due globi intermittenti un po’ più luminosi
degli altri. Quando si fu reso conto di che cosa fossero, decise di non seguirli
troppo da vicino. Li aveva visti in azione, e di tanto in tanto se li sognava
ancora di notte.
Il pavimento del tunnel diventò ondulato e poi curvò finché la bussola
interiore di Artemis non cedette anche quel poco senso di orientamento che
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gli era rimasto. Continuò a scarpinare dietro il sedere luminoso di Bombarda,
guardando l’amica priva di sensi fra le sue braccia. Sembrava così piccola e
fragile, anche se lui l’aveva vista affrontare un’orda di troll per difenderlo.
— Le probabilità sono contro di noi com’è accaduto spesso, amica mia —
bisbigliò tanto a se stesso quanto all’elfa. Fece un rapido calcolo, tenendo
conto delle situazioni disperate che avevano dovuto affrontare nel corso degli
ultimi anni, del QI relativo di Opal Koboi e del numero approssimativo di
avversari che gli era parso di scorgere in superficie. — Direi che le nostre
probabilità di sopravvivenza sono inferiori al quindici per cento. Però
l’aspetto positivo è che siamo sopravvissuti, anzi, siamo usciti vincitori, da
una situazione ancora peggiore. Una volta.
Ovviamente i suoi bisbigli dovevano essere trasportati dal tunnel, perché
sentì la voce di Bombarda. — Devi smetterla di pensare con la testa,
Fangosetto, e incominciare a farlo con il cuore.
Artemis sospirò. Il cuore era l’organo preposto a pompare sangue ricco di
ossigeno alle cellule del corpo. Non era in grado di pensare, proprio come
una mela non si sarebbe potuta mettere a ballare il tip tap. Stava appunto per
spiegarlo al nano, quando il tunnel si aprì in un vano più largo e Artemis si
sentì togliere il fiato.
Quello spazio aveva le dimensioni di un piccolo fienile, con le pareti che
salivano in diagonale e terminavano in una punta. C’erano tunnel di
alimentazione a diverse altezze, e sfere di una sostanza viscosa attaccate alla
roccia nuda fungevano da sistema di illuminazione. Era un impianto
particolare che Artemis aveva già visto prima.
— Saliva di nano — disse, indicando con un cenno del capo un grappolo
ribassato di sfere grosse come palle da tennis. — Si indurisce quando viene
secreta e brilla di una luminescenza che non ha uguali in natura.
— Non è solo saliva — ribatté il nano con fare misterioso, e per una volta
Artemis non ebbe voglia di andare a fondo della questione, dato che il fondo
dei misteri di Bombarda di solito si trovava nelle vicinanze del fondo
misterioso di Bombarda stesso.
Artemis depositò delicatamente Spinella su un letto di pellicce ecologiche e
riconobbe l’etichetta di uno stilista. — Ma sono le pellicce di mia madre!
Bombarda lasciò andare la gamba di Leale. — Esatto. Be’, il possesso è nove
decimi della legge, perciò perché non riporti il tuo decimo su in superficie e
non mi denunci per furto a quella cosa che una volta era Opal Koboi?
Era un’ottima argomentazione. Artemis non aveva il benché minimo
desiderio di vedersi scacciare da quel rifugio.
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— Siamo al sicuro qua sotto? Non ci seguiranno?
— Possono provarci — ribatté Bombarda, poi sputò un po’ di saliva
luminosa sopra uno spruzzo che andava spegnendosi. — Però ci
metterebbero un paio di giorni, armati di sonar e trivelle industriali. E perfino
allora per buttare giù tutto quanto mi basterebbe una scarica ben piazzata di
gas nanesco.
Artemis lo trovò difficile da credere. — Non dirai sul serio. Una sola scarica
e tutta questa struttura precipiterebbe?
Bombarda assunse una posa da eroe, con un piede su una roccia e le mani sui
fianchi. — Nel mio settore, devi essere pronto a scappare, a tagliare la corda.
Il ragazzo non si sentiva dell’umore di apprezzare l’esibizione. — Ti prego,
Bombarda, lascia perdere. Mettiti un paio di pantaloni, piuttosto.
Il nano acconsentì brontolando e infilò un paio di brache sbiadite sulle
robuste cosce. Era il massimo che poteva concedergli, quindi il petto villoso
e il ventre prodigioso rimasero scintillanti e nudi.
— I pantaloni me li metto solo per Spinella, ma questa è casa mia, Artemis.
Nelle grotte, noialtri Sterro preferiamo il casual.
Da una stalattite gocciolava acqua che andava formando una pozza luminosa.
Artemis ci tuffò la mano che poi posò sulla fronte di Spinella. Era ancora
priva di sensi dopo aver subito due traumi fisici nel giro di altrettanti minuti,
e un’unica scintilla di magia ronzava sulla ferita alla testa come
un’industriosa ape operaia. L’ape parve notare la mano di Artemis e saltò sul
marchio, alleviandogli il bruciore sulla pelle, ma lasciando una cicatrice
rigonfia. Una volta finito il suo lavoro, la magia tornò da Spinella e si sparse
sulla sua fronte come un balsamo. L’elfa aveva il respiro profondo e regolare
e sembrava dormire più che essere priva di sensi.
— Da quanto tempo sei qui, Bombarda?
— Perché? Vuoi farmi pagare l’affitto arretrato?
— No, per il momento sto semplicemente raccogliendo informazioni. Così
posso fare un piano dettagliato.
Il nano diede un colpetto al coperchio di un contenitore frigorifero, che
Artemis riconobbe appartenere a un vecchio set da picnic della famiglia, e ne
estrasse un salame color rosso sangue.
— Continui a blaterare di piani dettagliati eccetera, e noi continuiamo a finire
a capofitto nella cacca di troll senza stivali molleggiati.
Era da un pezzo ormai che Artemis aveva rinunciato a chiedere a Bombarda
di spiegargli le sue metafore. Aveva assoluto bisogno di qualunque
informazione potesse fornirgli uno spunto, qualcosa che potesse aiutarlo a
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riprendere il controllo di quella situazione disperata.
Concentrati, si disse. Ci sono troppe cose in ballo qui. Più che mai.
Si sentiva a pezzi. Le fatiche e le guarigioni degli ultimi momenti gli avevano
lasciato il petto in fiamme. Cosa insolita per lui, non sapeva che fare se non
aspettare il risveglio dei suoi amici. Strisciò da Leale e gli controllò le pupille
in cerca di eventuali danni al cervello. Spinella gli aveva sparato al collo e
avevano fatto un bel capitombolo. Con sollievo constatò che entrambe le
pupille avevano le stesse dimensioni.
Bombarda gli si acquattò accanto, brillante come un tozzo semidio, il che era
un po’ inquietante se si pensava che cosa fosse il nano in realtà: Bombarda
Sterro distava dalla divinità quanto un riccio dal velluto.
— Che ne pensi della mia tana? — gli chiese il nano.
— Tutto questo è… — Artemis indicò l’ambiente circostante con un gesto
della mano. — Straordinario. Lo hai scavato tutto da solo? Ma da quanto
tempo stai qui?
Il nano fece spallucce. — Un paio d’anni. Di tanto in tanto, mi capisci. Ho
una decina di questi rifugi sparsi un po’ dappertutto. Mi sono stufato di fare
il cittadino rispettoso della legge, perciò dirotto un po’ di energia da quelle
tue barre geotermiche e pirato i tuoi cavi.
— Ma perché vivi qua sotto?
— Non è che ci viva proprio, di tanto in tanto mi ci rintano, ecco tutto.
Quando la situazione si fa scottante. Ho appena portato a termine un lavoretto
importante e avevo bisogno di stare nascosto per un po’.
Artemis si guardò attorno. — Un lavoretto importante, dici? E allora, dov’è il
bottino?
Bombarda agitò un dito brillante come un fiammifero. — Ed è qui, come
direbbe mio cugino Nordio, che la mia bugia rabberciata viene a cadere.
Artemis fece due più due e ottenne uno spiacevolissimo quattro. — Sei
venuto qui per derubare me!
— No, niente affatto. Ma come osi?
— Ti sei appostato qua sotto per scavare un tunnel fino a Casa Fowl.
Un’altra volta.
— “Appostato” non è una bella parola, mi fa sembrare un serpente marino.
Preferisco pensarmi nascosto nell’ombra. Freddo, come un felino.
— Tu i felini te li mangi, Bombarda.
Il nano congiunse le mani. — D’accordo, lo ammetto. Può essere che avessi
in progetto di dare una sbirciatina nel caveau in cui tenete le opere d’arte.
Però guarda il lato divertente. Derubare un genio del crimine: non lo trovi
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ironico? A voi cervelloni l’ironia piace, no?
Artemis era sbigottito. — Ma non puoi tenere le opere d’arte qui. È sporco e
umido.
— Ai faraoni non ha mai fatto male — ribatté il nano.
Spinella, distesa a terra di fianco a loro, aprì gli occhi, tossì e poi eseguì una
mossa molto più difficile di quanto non sembrasse, balzando in posizione
verticale da dove si trovava e atterrando sui piedi. Bombarda ne rimase
impressionato finché Spinella non cercò di strangolarlo con la sua stessa
barba, al che smise di sentirsi impressionato, troppo preso com’era a
soffocare.
Era quello il problema dei risvegli dopo una guarigione magica: spesso il
cervello rimane perfettamente illeso, ma la mente è confusa. È una
sensazione strana, essere svegli e intontiti allo stesso tempo. Se si aggiunge al
tutto un rallentamento temporale – e spesso il soggetto incontra difficoltà a
effettuare il passaggio dallo stato onirico al mondo vigile – è consigliabile
mettere il paziente in un ambiente tranquillo, magari con qualche giocattolo
attorno al cuscino. Purtroppo per Spinella, aveva perso i sensi nel bel mezzo
di una battaglia all’ultimo respiro e si era svegliata con un mostro luminoso
che le torreggiava davanti. Ecco perché, del tutto comprensibilmente, aveva
avuto una reazione esagerata.
Le ci vollero circa cinque secondi per capire chi avesse davanti. — Oh —
borbottò imbarazzata. — Sei tu.
— Già — rispose Bombarda, espettorando qualcosa che squittì e sgattaiolò
via. — Se per cortesia volessi essere così gentile da lasciarmi andare la barba,
ho appena fatto la messa in piega.
— Davvero?
— Certo che no. Vivo in una caverna e mangio terra, che ti credi?
Spinella gli diede una sistematina alla barba con le dita, poi scese dalle spalle
del nano. — Ero seduta nella saliva, vero? — chiese con una smorfia.
— Non è che sia proprio tutta saliva — ribatté Bombarda.
— Ebbene, Artemis — disse l’elfa, sfregandosi il debole marchio rosso sulla
fronte. — Qual è il piano?
— Ciao anche a te — le disse Bombarda. — No, non dire nulla, non c’è
bisogno che mi ringrazi. Salvarti un’altra volta la vita è stato un piacere, solo
uno dei tanti servizi offerti dalla Sterro Airlines.
Spinella lo fulminò con un’occhiata. — Ho un mandato d’arresto nei tuoi
confronti.
— E allora perché non mi ammanetti?
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— Perché al momento le prigioni non sono esattamente operative.
Bombarda impiegò un istante per digerire l’informazione, e la spavalderia che
era il suo marchio di fabbrica svanì dai suoi tratti marcati, ruga dopo ruga. E
sembrò anche che il suo bagliore calasse di un paio di tonalità.
— Oh, per tutte le flatulenze — esclamò, tracciando sullo stomaco il sacro
segno dell’intestino rigonfio per scacciare il maligno. — Che cos’ha
combinato Opal questa volta?
Spinella si sedette su un cumulo di terra picchiettando il computer da polso
per verificare se funzionasse ancora.
— Ha trovato e aperto la Porta dei Berserkr.
— E c’è di peggio — continuò Artemis. — Ha ucciso il suo alter ego più
giovane, il che ha distrutto tutto ciò che Opal ha inventato o su cui ha avuto
influenza da allora. Cantuccio è isolata, e gli umani sono tornati all’Età della
Pietra.
La faccia di Spinella era tetra alla luce della saliva luminescente. — A dire la
verità, Artemis, che abbia trovato la Porta dei Berserkr è davvero la cosa
peggiore, perché ci sono due serrature. La prima libera i guerrieri…
Nella pausa si intromise Bombarda. — E la seconda? Avanti, Spinella, non
abbiamo tempo per la teatralità.
L’elfa si abbracciò le ginocchia come una bambina sperduta. — La seconda
scatena l’Armageddon. Se Opal riuscirà ad aprirla, tutti gli umani sulla faccia
della Terra moriranno.
Man mano che la portata sanguinaria del piano di Opal gli si chiariva, la testa
di Artemis girava sempre di più.
Leale scelse proprio quel momento per riprendere conoscenza. — Juliet è in
superficie con i signorini Beckett e Myles, perciò immagino che non
possiamo permetterlo.
Si sedettero stretti in cerchio attorno a un falò di saliva luminosa, mentre
Spinella raccontava loro quella che era stata considerata una leggenda ma che
adesso erano portati a ritenere un fatto storico piuttosto preciso.
— Buona parte di quanto sto per dirvi probabilmente lo conoscete dagli
spiriti che hanno cercato di possedervi.
Leale si sfregò il marchio sul collo. — Io no, ero steso secco. Non ho
percepito altro che frammenti di immagini. Qualcosa di tremendo, anche per
me. Arti smembrati, gente sepolta viva, nani in battaglia a dorso di troll: può
essere?
— È successo tutto quanto — confermò Spinella. — Esisteva un’armata di
nani che cavalcavano troll.
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— Già — disse Bombarda. — Si chiamavano i trollieri. Forte come nome,
eh? Ce n’era un gruppo che usciva solo di notte e si faceva chiamare “i
trollieri della notte”.
Artemis non poté fare a meno di chiedere: — E quelli che cavalcavano di
giorno come si chiamavano?
— “I trollieri del giorno” — rispose allegro il nano. — Vestiti di pelle da
capo a piedi. Puzzavano come l’interno della vescica di un puzzoverme, però
erano efficienti.
Spinella avrebbe voluto piangere di frustrazione, ma durante il breve periodo
in cui aveva lavorato come investigatrice privata con Bombarda come socio,
aveva imparato che il nano chiudeva il becco solo quando era disposto a
farlo. Da Fowl, però, non se lo aspettava.
— Artemis — lo interruppe secca. — Non incoraggiarlo. Il tempo stringe.
Al bagliore della saliva, l’espressione del ragazzo sembrava quasi impotente.
— Certo, niente più commenti. Sono un po’ sconvolto, a dire la verità. Va’
avanti, Spinella, per favore.
E così, l’elfa continuò il suo racconto, il viso illuminato dal di sotto da quella
fonte di luce così poco convenzionale. Leale non poté fare a meno di
ripensare alle storie dell’orrore raccontate a lui e ai suoi compagni scout dal
capo Prunes nei bivacchi alla grotta di Dan-yr-Ogof, nel Galles. Quella di
Spinella era ridotta all’osso, ma le circostanze gli davano comunque i brividi.
E non è che io rabbrividisca così facilmente, pensò l’omone, agitandosi a
disagio sulla radice fangosa che gli faceva da sedile.
— Quando ero bambina, mio padre mi raccontava la storia di Taillte quasi
tutte le sere perché non dimenticassi mai il sacrificio compiuto dai nostri
antenati. Alcuni pagarono con la vita, ma altri andarono perfino oltre e
rimandarono la morte. — Spinella chiuse gli occhi e cercò di riferirla come
l’aveva sentita. — Diecimila anni fa, gli umani combatterono per sradicare le
famiglie del Popolo dalla faccia della Terra. Non avevano alcun motivo di
farlo, il Popolo è generalmente pacifico. Le capacità guaritrici dei suoi
membri e il loro legame speciale con la terra erano di beneficio per tutti, ma
fra gli umani ci sono sempre quegli individui che vorrebbero avere il
controllo su tutto ciò che vedono e che si sentono minacciati da ciò che non
comprendono.
Artemis si astenne dal far notare l’ovvio, e cioè che lei era proprio un
membro di quel pacifico Popolo che in quel momento stava tentando di
distruggere il mondo, ma lo stivò nella memoria, da dove lo avrebbe
recuperato al momento opportuno.
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— E così, il Popolo si rifugiò nella nebbiosa isola di Ériú, la patria della
magia, dove erano più potenti. E là scavarono i loro pozzi di guarigione e
ammassarono il loro esercito sulla collina di Taillte per tentare un’ultima
resistenza.
Adesso gli altri tre l’ascoltavano in silenzio, vedendo la scena nella loro
memoria.
— Fu una battaglia breve — continuò Spinella in tono amaro. — Gli umani
non mostrarono alcuna pietà e fin dalla prima notte fu chiaro che il Popolo
era destinato allo sterminio. E così il Consiglio decise che si sarebbero ritirati
nelle catacombe sotterranee donde erano venuti prima dell’alba dell’età
dell’uomo. Tutti tranne i demoni, che usarono la magia per trasportare la loro
isola fuori dal tempo.
— Va bene — la interruppe Bombarda. — Fin qui ti seguivo, ma ora che hai
detto “donde” sento il bisogno di fare una scappata al frigorifero.
Spinella lo fulminò con un’occhiata e riprese a parlare. Ormai era un fatto
noto a tutti che mangiare era il modo con cui Bombarda affrontava le cattive
notizie. E anche quelle buone. E pure quelle banali. Tutte le notizie, in
pratica.
— Però il Consiglio pensò che gli umani avrebbero rappresentato un pericolo
anche per il loro rifugio sotterraneo, perciò costruirono una porta con una
serratura magica. Se mai tale serratura fosse stata aperta, allora le anime dei
Berserkr sepolti attorno alla porta si sarebbero levate e avrebbero preso
possesso di qualunque corpo avessero trovato per impedire l’accesso agli
umani.
Artemis ricordava ancora la puzza nauseabonda che aveva sentito quando lo
spirito del guerriero aveva tentato di prendere possesso della sua mente.
— E se la Porta dei Berserkr fosse stata aperta dalla mano di un membro del
Popolo, allora i guerrieri sarebbero stati suoi schiavi. In questo caso, di Opal
Koboi. Fu un incantesimo gettato per durare per lo meno un secolo, finché il
Popolo non fosse stato al sicuro e l’ubicazione della porta dimenticata.
Spinella arricciò il labbro mentre pronunciava queste ultime parole, e
Artemis ne trasse una conclusione. — Però ci fu un traditore?
Negli occhi di Spinella si accese un lampo di sorpresa. — Ma come… Sì,
certo, non potevi non indovinare, Artemis. Siamo stati traditi dall’infame
gnomo Shaden Froide, un tempo noto come Shaden l’Audace, ma da allora
conosciuto come Shaden la Vergogna di Taillte. Nella cappella di Ullallà c’è
una statua capovolta di Shaden, e non è un complimento, credimi.
— Che è successo, Spinella? — la incitò a continuare Artemis.
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— Shaden Froide si nascose in una nebbia da lui stesso evocata finché i
guerrieri morenti non furono sepolti attorno alla porta e il Popolo non fu
sceso nel sottosuolo, quindi si mise ad armeggiare con la serratura. Non
voleva soltanto aprirla per gli umani, ma anche guidare i guerrieri incantati
contro la loro stessa gente.
— Quel tipo era un vero tesoro — intervenne Bombarda, il viso inondato dal
bagliore del frigo. — Secondo la leggenda, una volta ha venduto sua madre
giù per un fiume. E qui non sto parlando per metafore: ha proprio messo sua
madre in una barca e poi l’ha venduta al villaggio a valle più vicino. Mi pare
che già questo avrebbe dovuto far accendere qualche lampadina.
— Ma il piano di Shaden fallì, giusto? — chiese Artemis.
— Sì, perché la fase segreta del piano prevedeva che qualcuno rimanesse
indietro a far crollare la valle sulla porta. Uno stregone capace di mantenere
la nebbia finché la porta non fosse stata sepolta per poi usarla per coprire la
propria fuga. Dato che i demoni se n’erano già andati, solo l’elfo stregone
Bruin Fadda, che nutriva per gli umani un odio leggendario, poteva portare a
termine la missione salendo fino all’imboccatura della valle per mettere in
atto il crollo orchestrato da una squadra di tecnici nani.
Ad Artemis, Leale e Spinella sembrava di avere quasi vissuto dal vero quanto
era accaduto. Forse erano gli ultimi residui del plasma dei Berserkr sulle loro
sopracciglia, ma di colpo ebbero come la sensazione di sentire il fiato nella
gola di Bruin Fadda che correva giù per la collina, gridando a Shaden di stare
lontano dalla serratura.
— La battaglia fu feroce, con i due potenti guerrieri che si ferirono
mortalmente a vicenda. E alla fine, Bruin, morente e reso furioso dal dolore,
dall’odio e dalla disperazione, usando il proprio sangue e la magia nera
proibita fece apparire una seconda serratura. Se quella serratura fosse stata
aperta, allora Danu, la Madre Terra, avrebbe ceduto la propria magia all’aria
in uno scoppio di energia che avrebbe annientato tutti gli umani sulla
superficie, e il Popolo sarebbe stato al sicuro per sempre.
— Solo gli umani?
Spinella si risvegliò dal suo stato di sogno. — Solo gli umani. Gli odiati
oppressori. Bruin aveva perso tutti i membri della sua famiglia in
un’incursione ed era fuori di sé.
Leale si sfregò il mento. — Ogni arma ha una sua data di scadenza, Spinella.
Sono passati diecimila anni. Questo incantesimo non potrebbe avere un
tempo di dimezzamento o qualcosa del genere?
— È possibile, ma i Berserkr sono liberi ormai e la prima serratura ha
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funzionato alla perfezione.
— Ma perché Opal vorrebbe aprire la seconda serratura?
Artemis conosceva la risposta a quella domanda. — Si tratta di una questione
politica. A Cantuccio c’è una grossa lobby che da anni invoca la guerra
totale. Per loro Opal sarebbe un’eroina.
Spinella annuì. — Esatto. E poi, Opal è così fuori di testa da credere davvero
che il suo destino sia quello di diventare una specie di messia. Avete visto
che cos’è stata capace di fare solo per evadere.
— Racconta — la esortò Bombarda.
— Ha fatto rapire il suo alter ego più giovane e poi ha fatto una finta richiesta
di riscatto per il suo vero io perché la mettessimo in un reattore nucleare
naturale che l’aiutasse a generare magia nera sufficiente ad aprire la prima
serratura.
Bombarda sbatté lo sportello del frigorifero. — Adesso mi dispiace di aver
fatto questa domanda, davvero. È tipi©o dei pasticci in cui ci ficchi sempre,
Artemis.
— Ehi — lo rimbrottò Spinella. — Questa volta non è colpa sua.
— Grazie — disse Artemis. — Finalmente.
— Ci sarà tutto il tempo che vogliamo per incolparlo dopo, quando questa
faccenda sarà risolta.
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto con un gesto esagerato. — Non me lo
merito, Spinella. Io qui sono una vittima come chiunque altro. Anche quei
guerrieri sono usati per combattere una guerra che è terminata diecimila anni
fa. Non potremmo semplicemente dire loro che la guerra è finita? Stanno
facendo la guardia a una porta che immagino non conduca nemmeno più da
nessuna parte.
— Questo è vero, non usiamo quelle vecchie reti da millenni.
— E tu non puoi farglielo sapere in qualche modo?
— No. Sono sotto un vincolo elfico. Niente di ciò che potremmo dire loro
avrebbe il benché minimo impatto.
— Quanto tempo abbiamo? — domandò Artemis.
— Non lo so — replicò Spinella. — Mio padre mi raccontava questa
leggenda come una storia della buonanotte che gli era stata a sua volta narrata
da suo padre. Tutta la faccenda era nata dalla mente di un empatostregone
entrato in contatto con Bruin Fadda nei suoi ultimi momenti di vita. Tutto
quello che sappiamo è che la seconda serratura è una magia complessa. Opal
si sta servendo della magia nera, ma quella ha un prezzo altissimo e svanisce
in fretta. Vorrà aprirla prima dell’alba, finché la luna elfica è ancora alta. Da
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quel momento i suoi Berserkr saranno solo un pallido ricordo del loro io
precedente e non potranno durare molto di più. Prima di allora qualcuno di
loro avrà già ceduto al richiamo dell’aldilà.
Artemis si voltò verso Leale per fargli una domanda su una questione tattica.
Quello era area di competenza della guardia del corpo.
— In che modo Opal dispiegherebbe le forze?
— Schiererà attorno a sé la maggior parte dei suoi guerrieri per guardarle le
spalle mentre lei armeggia con la serratura magica. Il resto sorveglierà le
mura con pattuglie di ronda attorno alla tenuta, senza dubbio armate fino ai
denti. Probabilmente con le mie armi.
— E noi di armi ne abbiamo? — chiese Artemis.
— Io ho perso la Neutrino quando siamo precipitati — disse Spinella.
— Io ho dovuto consegnare la pistola all’ufficio immigrazione di Cantuccio
— aggiunse Leale. — E non ho mai avuto la possibilità di riprenderla.
Bombarda tornò al falò. — Però hai detto che tutti gli umani in superficie
saranno uccisi. Vorrei soltanto far notare che voi siete sotto terra. Perciò,
sapete, potreste semplicemente rimanere qui.
Spinella gli scoccò un’occhiata velenosa.
— Ehi, dicevo per dire. È sempre bene esaminare tutte le possibilità.
— Se Opal aprirà la seconda serratura, non soltanto ucciderà miliardi di
esseri umani, ma scatenerà fra il Popolo una guerra civile senza precedenti.
Dopodiché probabilmente si dichiarerà imperatrice suprema.
— Perciò stai dicendo che dovremmo fermarla?
— Sto dicendo che dobbiamo fermarla, però non so come.
Artemis guardò in alto come in cerca di ispirazione divina, ma tutto ciò che
gli riuscì di vedere furono le pareti luccicanti del rifugio sotterraneo di
Bombarda e il nero inchiostro delle imboccature del tunnel che ne
punteggiavano la superficie.
— Bombarda — chiese indicando con un dito — dove portano quei tunnel?
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CAPITOLO 8 - UN’ARMATA ETEROGENEA
ISOLA DI DALKEY, CONTEA DI DUBLINO SUD
È molto diffusa l’erronea convinzione che i troll siano stupidi. Il fatto è che i
troll sono solo relativamente stupidi.
In confronto agli astrofisici o ai sommi sacerdoti di Ullallà, i troll potrebbero
effettivamente essere considerati un po’ carenti quanto a QI, ma anche un
troll sotto la media è capace di risolvere un indovinello più in fretta di
qualsiasi scimpanzé o delfino del pianeta. I troll sono conosciuti per la
capacità di fabbricare rozzi utensili, imparare il linguaggio dei segni e perfino
grugnire un paio di sillabe comprensibili. Agli inizi del Medio Evo, quando
gli spettacoli con i troll erano ancora legali, il famoso troll, il conte Amos
Moon beam, veniva ricompensato con punch al miele dal suo addestratore di
nani finché non riusciva a ruttare una versione più o meno approssimativa
della Ballata dei piccoletti frementi.
Perciò, i troll sarebbero stupidi?
Decisamente no.
Piuttosto, sono ostinati. Patologicamente ostinati. Se un troll ha anche solo il
sospetto che qualcuno voglia farlo uscire dalla porta A, allora sceglie senza
alcun dubbio la porta B, possibilmente dopo essersi scaricato ben bene su
tutta la porta A al suo passaggio.
E questo rendeva alquanto difficile ai troll integrarsi negli Strati Inferiori. La
LEP ha addirittura una speciale divisione anti-troll di esperti che fatturano il
maggior numero di ore di straordinari a testa per rintracciare troll vagabondi
che rifiutano di farsi incanalare nei tunnel della Cantuccio sotterranea. In
qualsiasi momento ci sono più di cento troll che si sono sbarazzati dei loro
chip per il rilevamento di posizione e strisciano nelle fessure della crosta
terrestre dirigendosi inesorabilmente verso i punti di accesso magici in
superficie.
I troll sono attratti dai residui di magia come i nani dalla roba che non gli
appartiene. Si cibano di quei residui, che li nutrono e accrescono la loro
aspettativa di vita. E, invecchiando, diventano più abili.
Il più vecchio troll mai registrato è stato conosciuto sotto molti nomi nel
corso della sua vita: la madre poteva anche averlo chiamato Rozzo, o forse
aveva solo cercato di dirgli “ti strozzo”. Per la LEPtroll, era semplicemente il
Sospetto Zero, e per gli umani era l’Abominevole Uomo delle Nevi, Bigfoot
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o El Chupacabra, a seconda della regione in cui era stato avvistato.
Rozzo era riuscito a rimanere in vita per diversi secoli in più tenendosi
sempre pronto a viaggiare in tutto il globo in cerca di residui di magia. Non
c’era continente che non avesse visitato col favore delle tenebre, e la sua
pelliccia brizzolata era solcata da cicatrici e ustioni, ricordo di cento e più
scontri con la LEP e diversi cacciatori umani. Se Rozzo fosse riuscito a
mettere insieme una frase, probabilmente avrebbe detto: “Potrò anche
sembrarvi malridotto, ma dovreste vedere quegli altri.”
Attualmente, Rozzo risiedeva in una grotta sull’Isola di Dalkey, al largo della
costa meridionale di Dublino, e raggiungeva a nuoto la riva dove attraverso
uno scalo privato si serviva di bestiame dalle fattorie circostanti. Un paio di
volte era stato avvistato dal proprietario dello scalo, un eccentrico irlandese
che adesso tutte le notti gli cantava qualcosa dall’altra parte della baia. Rozzo
sapeva che avrebbe dovuto trasferirsi o mangiare l’umano nel giro di un paio
di giorni, ma per quella particolare sera gli bastava posare la testa sulla
carcassa di una pecora che gli sarebbe servita da cuscino nell’immediato e da
colazione in un secondo tempo.
Il suo sonno fu interrotto dall’attivazione di un sesto senso che nel suo
cervello occupava lo spazio in un qualche punto fra il gusto e l’olfatto. Lì
vicino c’era un’attività magica, che gli scatenò all’interno del cranio un
pizzicore come se ci fosse rimasto imprigionato uno sciame di lucciole. E
dove c’era magia, di sicuro ci sarebbero stati dei residui, almeno quanto
bastava per fargli passare il male alla schiena e per asciugare la piaga
purulenta all’anca dove lo aveva azzannato un tricheco.
Rozzo ingurgitò salsicce di frattaglie dalle interiora della pecora e le mandò
giù intere come sostentamento per il viaggio. E mentre si calava in acqua per
la breve nuotata che lo separava dalla terraferma, avvertì sempre più forte il
richiamo della magia e si sentì tirare su di morale.
Rozzo non vedeva l’ora di mettere le mani sul dolce nettare del residuo che
gli avrebbe guarito i malanni da cui era afflitto. E quando un troll ha messo il
corpulento cuore su qualcosa, non ci sono molti ostacoli su questa Terra in
grado di fermarlo.
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CAPITOLO 9 - IL VELENO AMARO
TENUTA DEI FOWL
Opal stava sul bordo del tunnel crollato, leggermente contrariata ma per
niente abbattuta. Dopotutto, al momento era una vera e propria dinamo di
magia nera. Artemis Fowl era sepolto sotto una tonnellata di macerie, se non
morto per lo meno ben scompigliato, il che avrebbe irritato il Fangosetto
quasi quanto lo era lei.
Morto o no, il piano rimaneva invariato.
Oro si inginocchiò e raccolse l’arma di Spinella dal terriccio. — Che cos’è
questa, padrona?
Opal tenne la pistola sui palmi delle minuscole mani e stabilì un contatto con
l’energia dell’arma, che acconsentì a trasferirsi su di lei. Non accadde niente
di spettacolare, solo un rapido sospiro e un accartocciamento.
— Devo aprire la seconda serratura — disse a Oro, rinvigorita da quel
rifornimento di energia. — Ho tempo fino all’alba, poi la mia magia
evaporerà con la rugiada e rimarrò priva di difese.
— La seconda serratura? — chiese Oro con le corde vocali di Beckett che
facevano scempio dello gnomico. — Ne è certa, padrona?
— Regina — lo corresse Opal. — Ti riferirai a me come alla regina Opal.
Aprendo la prima serratura della Porta dei Berserkr ti ho legato a me, però
preferirei che mi rivolgessi la parola il minimo indispensabile, giacché la tua
stolida laringe umana mi irrita. E smettila di accigliarti, quell’espressione è
ridicola su quel visetto da bambino. Mammina avrebbe tanta voglia di darti
una bella sculacciata.
— Ma la seconda serratura? — insistette Oro. — Quella scatenerà il potere di
Danu.
— Prima di tutto, che cosa ti ho appena detto su come ti devi riferire a me? E
in secondo luogo, dai una sbirciatina nel cervello del tuo umano. Una piccola
ondata di Danu è la cosa migliore per questo pianeta.
Oro sembrava sconcertato, ma il vincolo gli impediva di discutere, e Opal
sapeva che anche se avesse potuto farlo, avrebbe presentato le proprie
obiezioni con ampollosa prosa medievale e logica semplicistica.
— Lasciami parlare con il ragazzo umano — disse la folletta, pensando che
un bambino Fowl, per quanto piccolo, avrebbe apprezzato ciò che aveva
realizzato. E poi, sarebbe stato divertente vedere un umano sulle spine.
94
Oro sospirò, rimpiangendo che il suo vecchio amico Bruin Fadda non avesse
lasciato un po’ di libertà di azione nel vincolo elfico, e poi rabbrividì quando
permise alla propria consapevolezza di cedere temporaneamente il passo a
quella di Beckett Fowl.
I secoli caddero dal volto di Oro, e Beckett ne emerse sorridente. — Stavo
sognando — disse. — Nel mio sogno sembravo me, ma con più dita.
Opal allargò le braccia facendo pulsare la magia nera in cavi arancioni fra gli
arti. — Non sei terrorizzato, ragazzino?
Beckett saltellava come una scimmia nella sua versione di una posa da
guerriero ninja. — No, sei tu che dovresti essere terrorata.
— Io? — rise Opal. — Tu non puoi farmi del male, il vincolo elfico te lo
impedisce.
Beckett le rifilò un pugno allo stomaco, scaricandolo dalla spalla, come gli
aveva insegnato Leale. — Oh, invece sì, guarda come sono veloce. Più
veloce di quel tuo stupido vincolo elfico. Leale dice che sono naturalmente
presupposto.
Opal rimase momentaneamente senza fiato e barcollò all’indietro, andando a
sbattere con il gomito contro la predella rialzata della Porta dei Berserkr. Per
sua fortuna, il vincolo si attivò e Oro riprese il controllo del corpo, altrimenti
quel bimbetto di quattro anni, Beckett Fowl, avrebbe potuto mettere fine ai
suoi piani di dominio del mondo in men che non si dica.
Oro si precipitò ad aiutarla a rialzarsi. — Mia regina, si è fatta male?
La folletta lo scacciò con un gesto della mano, incapace di proferire parola, e
fu costretta a sopportare diversi secondi di tentativi di Oro di pomparle il
tronco su e giù come un mantice finché non ebbe ripreso fiato.
— Lasciami andare, stupido elfo. Stai cercando di spezzarmi una costola?
Oro fece come gli era stato detto. — Quel ragazzino è veloce, ha sconfitto il
vincolo. Pochi riuscirebbero a farlo.
Opal si sfregò la pancia con una mano magica, tanto per evitare un livido. —
Sei sicuro di non avergli dato un aiutino? — gli chiese sospettosa.
— Certo che no, mia regina — disse Oro. — I Berserkr non aiutano gli
umani. Desidera parlare ancora con il ragazzo?
— No! — squittì Opal, che subito si affrettò a ricomporsi. — Cioè… no. Il
ragazzo è servito allo scopo. Dobbiamo procedere con il piano.
Oro si inginocchiò e prese una manciata di terra. — Dovremmo per lo meno
dare la caccia ai nostri aggressori. L’elfa ha doti di combattente, e anche il
grosso umano è un avversario formidabile. Sicuramente tenteranno un
sabotaggio.
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Opal era pronta ad ammetterlo. — Molto bene, che elfa fastidiosa. Manda il
tuo luogotenente più scaltro con un paio di soldati. Ricordati di includere
nella tua piccola armata anche l’altro bambino. Fowl potrebbe dimostrarsi
riluttante a uccidere il proprio fratello. — Opal sbuffò, un piccolo atto che
rese più che chiaro che lei stessa non avrebbe esitato a uccidere un membro
della propria famiglia, se si fosse trovata nella posizione di Fowl. Anzi,
avrebbe considerato l’esitazione ad abbattere un parente come un segno di
scarsa dedizione al piano.
Dopotutto, pensò, non mi sono forse fatta uccidere io stessa per evadere di
prigione?
Ma il Popolo era debole, e gli uomini lo erano ancora di più. Forse Fowl
avrebbe esitato il secondo necessario perché il fratellino gli piantasse un
pugnale nel fianco.
— Non sprecare troppo tempo o risorse. Voglio un cerchio di guerrieri a
guardarmi le spalle quando lavorerò sulla seconda serratura. Ci sono
incantesimi complessi da sciogliere.
Oro si rialzò e chiuse gli occhi un istante per godersi la brezza sulla faccia.
Dall’altra parte delle mura sentiva il crepitio di fiamme enormi, e quando
riaprì gli occhi il fumo di una devastazione lontana lambiva le nuvole nel
cielo notturno.
— Siamo entusiasti ma pochi, mia regina. Incontreremo altri nemici sulla
nostra strada?
Opal emise un suono simile a una risatina. — Non prima del mattino. I miei
nemici stanno incontrando qualche difficoltà. Ci ha pensato mammina.
La parte della mente di Oro che ancora apparteneva a lui e non era alla mercé
di uno scintillante spiritello arancione pensò: È indecoroso che si riferisca a
se stessa come a nostra madre. Si prende gioco di noi.
Ma tale è la forza del geis, o vincolo elfico, che perfino quel pensiero ribelle
provocò nel capitano dei guerrieri un dolore fisico.
Opal notò la sua smorfia. — Che stai pensando, capitano? Niente di
sedizioso, voglio sperare.
— No, mia regina — la rassicurò Oro. — Questo misero corpo è incapace di
contenere la mia sete di sangue. — La bugia gli costò un’altra fitta, ma se
l’aspettava e la sopportò senza reagire.
Opal si accigliò. Quello spirito aveva idee proprie, ma non aveva importanza.
La sua energia stava già svanendo. I guerrieri nordici non sarebbero durati
oltre la notte, e per allora la seconda serratura sarebbe stata aperta e l’era
Koboi avrebbe finalmente avuto inizio.
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— Va’, dunque — sbottò. — Metti insieme una squadra di ricerca, ma
ricorda che è compito tuo proteggere la porta. Ho disposto che gli umani
siano occupati al momento, ma quando il sole sarà sorto, arriveranno in
un’ondata devastatrice per distruggere anche l’ultimo della nostra specie. —
Opal decise di mostrarsi spietata perché Oro cogliesse il nocciolo della
questione. — Muoveranno contro di noi senza alcuna pietà nei loro freddi
cuori crudeli.
Quel modo di parlare parve fare breccia, e Oro si allontanò con passo
pesante per mettere insieme la sua squadra.
L’intera situazione, Opal non poté fare a meno di ammetterlo con se stessa,
era decisamente perfetta. I Berserkr avrebbero montato di guardia al
perimetro, commiserevoli nell’errata convinzione che la loro grossa e tetra
porta conducesse realmente da qualche parte. E poi sarebbero semplicemente
evaporati nell’aldilà, inconsapevoli dell’inutile genocidio che avevano
contribuito a compiere.
Gli spiriti sono testimoni così inaffidabili in tribunale, pensò Opal con un
sogghigno.
Ma per quanto i sogghigni di autocompiacimento potessero essere gradevoli,
aveva del lavoro da fare, un lavoro che richiedeva la totalità della sua mente.
La serratura rimaneva chiusa, e lei poteva mantenere la magia nera solo per
un certo tempo prima che le consumasse il corpo fisico. Sentiva già le
vesciche formarsi fra le scapole. La magia l’avrebbe abbandonata presto, ma
prima di allora avrebbe mandato in rovina il suo organismo. Il suo potere
risanava le vesciche non appena si formavano, ma tutto ciò le costava magia,
e le vesciche si riformavano comunque.
Perché non posso risolvere il problema facendo fuori qualcuno?, pensò
stizzita, e poi si consolò con il mantra che in prigione l’aveva aiutata ad
andare avanti.
— Presto tutti gli umani saranno morti — continuò a ripetere con tono
monotono, alla maniera consolidata dei guru di ogni dove. — E allora Opal
sarà amata.
E anche se non dovessi esserlo, pensò, almeno tutti gli umani saranno morti.
Oro salì con le gambette i gradini segnati dal tempo che correvano tutto
attorno alla Porta dei Berserkr, e per un attimo rammentò con chiarezza il
giorno in cui aveva contribuito a costruire quella tozza torre. Ma ci era voluta
più magia che fatica. Il vecchio Bruin Fadda aveva costretto la sua squadra a
riversare in quella serratura ogni singola scintilla di energia su cui erano
riusciti a mettere le mani. Un grande cerchio di stregoni che avevano
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scagliato dardi di energia nella pietra.
Chiunque apra questa porta otterrà più di quanto abbiamo speso, gli aveva
promesso in seguito, mentre Oro e i suoi uomini giacevano morenti. Bruin si
era sbagliato: la regina Opal avrebbe ottenuto esattamente ciò che si
aspettava.
Come lo sapeva?, si chiese Oro. Io ero quasi certo che il mondo ci avesse
dimenticati.
I Berserkr friggevano di violenza repressa ed erano ansiosi di far subire
danni all’umanità. Cercavano di restare fermi mentre Oro parlava, ma era una
lotta, soprattutto per i pirati che non riuscivano a impedire alle proprie ossa
nude di sbatacchiare.
Oro salì su un tronco d’albero in modo che il piccolo corpo che occupava
potesse essere visto da tutti e teneva il pugno sollevato per chiedere silenzio.
— Miei soldati! — gridò alle truppe. — Il nostro giorno è finalmente
arrivato!
Quelle parole furono accolte da un coro di urla, grida, latrati e fischi mentre
le varie creature abitate dai Berserkr davano voce alla propria approvazione.
Oro non riuscì a nascondere una smorfia. Quelli non erano i guerrieri che
ricordava, che avevano combattuto e subito ferite mortali sulla collina di
Taillte, ma erano quello che erano, con la voglia, se non la capacità, di
combattere. C’erano volpi nei ranghi, per Danu: in che modo una volpe
avrebbe potuto impugnare una spada? In ogni caso, era meglio alimentare il
fuoco dei suoi guerrieri con un po’ di sana retorica. Oro era sempre stato
orgoglioso della propria eloquenza.
— Berremo il veleno amaro della sconfitta e lo sputeremo sui nostri nemici!
— gridò, e la sua voce fu trasportata per tutto il prato.
I suoi guerrieri esultarono, ruggirono e ulularono la propria approvazione, a
eccezione di uno.
— Come dici? — chiese il suo luogotenente, Gobdaw.
— Cosa? — ribatté Oro.
Il luogotenente, ospite nel corpo del secondo Fangosetto, aveva
un’espressione confusa sul volto cereo. In realtà, qualunque tipo di
perplessità era una novità per Gobdaw: di solito era uno che non faceva
domande, spaccava le parole con l’accetta. E di solito un po’ di bella retorica
gli piaceva.
— Ebbene, Oro — disse, e apparve alquanto sorpreso dalle parole che gli
uscivano dalla bocca. — Che cosa significa esattamente? Sputeremo il veleno
amaro della nostra sconfitta sui nostri nemici?
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Quella domanda colse Oro di sorpresa. — Be’, significa semplicemente…
— Perché – e spero che perdonerai la mia obiezione – usare la parola
“sconfitta” in un discorso motivazionale trasmette un messaggio alquanto
contraddittorio.
Adesso era Oro a essere perplesso. — Motivazionale? Messaggio
contraddittorio? Ma che cosa significano queste parole?
Gobdaw sembrava sul punto di piangere. — Non lo so, capitano. È il mio
ospite umano. È forte.
— Concentrati, Gobdaw. Hai sempre apprezzato la mia retorica.
— Sì, è vero, capitano. Il giovane rifiuta di farsi zittire.
Oro decise di distrarre il luogotenente richiamandolo al dovere. — Hai
l’onore di guidare la ricerca dei nemici. Prendi i cani, Bellico e anche quei
marinai. Tutti gli altri circondino la porta. La regina Opal lavora alla seconda
serratura. Intesi?
— Sì, capitano! — ruggì Gobdaw, agitando il pugno. — Ai tuoi ordini.
Oro annuì. Così sì che andava bene.
Gobdaw, Bellico e i cani da caccia dei Fowl accerchiarono il tunnel crollato.
Bellico era piuttosto soddisfatta di sé, rinchiusa com’era nel corpo di Juliet
Leale. Era un’ospite migliore di quanto non avrebbe potuto sperare: un
perfetto esemplare fisico dotato della conoscenza di numerosi antichi stili di
combattimento che, grazie ai ricordi di Juliet, sapeva benissimo come mettere
in pratica.
Bellico controllò il proprio riflesso nella lama del coltello di un pirata, e ciò
che vide le piacque.
Non troppo male, per un’umana. È quasi un peccato che la mia forza vitale
non possa sorreggermi più di una sola notte. Forse se fossimo stati richiamati
nel giro di cinquant’anni da quando siamo stati stesi nella tomba, allora la
magia avrebbe potuto sostenerci più a lungo, ma adesso il nostro spirito è
indebolito dal tempo. L’incantesimo non era stato gettato per tenerci sotto
terra così a lungo, rifletté.
La memoria di Bellico conteneva immagini che dipingevano un quadro
orribile di Opal Koboi, ma era stata messa in guardia che le visioni che gli
umani avevano del Popolo non erano affidabili. L’odio che i Fangosi
nutrivano per il Popolo era tale che perfino i loro ricordi sarebbero stati
distorti.
I pirati erano meno compiaciuti dei corpi che avevano ereditato, che si
disintegravano a ogni loro passo.
— Mi sta costando tutta la magia solo tenere insieme questo sacco di vermi
99
— brontolò quello che un tempo era il gigante guerriero Kisch Lorenz, ora
ospitato nel corpo di Eusebius Fowl, il pirata succhia-polmoni.
— Per lo meno tu hai le gambe — grugnì il compagno di battaglia Catch
McKaron, che balzellava su un paio di monconi di legno. — Come dovrei
fare la mia caratteristica mossa da derviscio con questi affari? Sembrerò un
maledettissimo nano ubriaco che non sa stare in piedi.
E peggio era per i cani da punta, che con le loro corde vocali potevano
emettere solo i suoni più rudimentali.
— Fowl — latrò uno di loro, che conosceva bene la traccia di Artemis. —
Fowl, Fowl.
— Bravo il mio ragazzo — gli disse Gobdaw, accarezzandogli il muso con la
manina di Myles, cosa che il cane non trovò affatto divertente: l’avrebbe
morsa, quella mano, se non fosse appartenuta a un ufficiale superiore.
Gobdaw gridò ai suoi soldati: — Guerrieri. I nostri nobili fratelli all’interno
di queste bestie hanno fiutato una traccia. Il nostro obiettivo è trovare gli
umani.
Nessuno chiese: “E poi?” Tutti sapevano bene che cosa si fa agli umani
quando li si trova. Perché, se non lo fai tu a loro, lo faranno loro a te e a tutta
la tua specie, e probabilmente anche a chiunque con cui la tua specie abbia
bevuto un boccale di birra.
— E l’elfa? — chiese Bellico. — Di lei, che ne facciamo?
— L’elfa ha fatto la sua scelta — rispose Gobdaw. — Se si farà da parte, la
lasceremo vivere. Ma se opporrà resistenza, allora per noi sarà come una
Fangosa. — Anche se la notte stava rinfrescando, Gobdaw aveva la fronte
imperlata di gocce di sudore e parlava a denti stretti, cercando di ricacciare
indietro la coscienza di Myles Fowl, che ribolliva dentro di lui come
un’indigestione mentale.
La conversazione fu interrotta quando i cani si allontanarono
dall’imboccatura del tunnel crollato e attraversarono il prato diretti alla
grande dimora umana sulla sommità della collina.
— Ah — disse Bellico, partendo all’inseguimento degli animali. — Gli umani
sono nel tempio di pietra.
Gobdaw cercò di impedirsi di parlare, ma non ci riuscì. — Dice di dirvi che
si chiama casa. E che tutte le ragazze sono stupide.
Artemis, Spinella e Leale avanzarono a fatica lungo una galleria che
Bombarda gli aveva assicurato che sbucava nella cantina, dietro una
rastrelliera di Château Margaux del 1995.
100
Quella rivelazione fece inorridire Artemis. — Non lo sai che il tuo tunnel
potrebbe influire sulla temperatura della cantina? Per non parlare
dell’umidità! Quel vino è un investimento.
— Non preoccuparti del vino, stupido Fangosetto — ribatté Bombarda con
un tono di voce condiscendente che aveva imparato e utilizzava solo per
infastidire Artemis. — L’ho bevuto mesi fa e l’ho sostituito. Era l’unica cosa
responsabile da fare: dopotutto, l’integrità della cantina era stata
compromessa.
— Certo, da te! — Artemis era seccato. — E l’hai sostituito con che cosa?
— Vuoi davvero saperlo? — domandò Bombarda, e il ragazzo scosse il capo,
decidendo che, considerata la storia del nano, in quel caso particolare
l’ignoranza sarebbe stata preferibile alla verità.
— Saggia decisione — convenne Bombarda. — Perciò, come dicevo, la
galleria corre sul retro della cantina, ma il muro è intasato.
— Intasato da cosa? — chiese Artemis, che nonostante tutto il suo genio
sapeva essere un po’ tardo di comprendonio.
Il nano si passò le dita nella barba. — Ti ripeterò la mia ultima domanda:
vuoi davvero saperlo?
— Possiamo passare comunque? — chiese Leale, pragmatico come sempre.
— Ma certo — rispose Bombarda. — Un umano grande e grosso come te.
Nessun problema. Lo farei io per te, ma a quanto pare ho quest’altra
missione da portare a termine.
Spinella alzò gli occhi dal computer da polso, che ancora non captava alcun
segnale. — Abbiamo bisogno che tu vada a recuperare le armi nella navetta,
Bombarda. Leale ha un po’ di attrezzi in casa, ma Juliet potrebbe averci già
accompagnato i guerrieri. Dobbiamo muoverci in fretta, e su due fronti. Una
manovra a tenaglia.
Bombarda sospirò. — A tenaglia. Mi piacciono i granchi. E l’aragosta. Mi
gonfia un po’ l’intestino, ma ne vale la pena.
Spinella si diede una pacca sulle ginocchia. — È ora di andare — annunciò, e
nessuno dei due umani ebbe da ridire.
Bombarda rimase a guardare gli amici arrampicarsi nel tunnel che portava
alla casa e poi ripercorse la strada a ritroso, diretto alla navetta.
Non mi piace tornare sui miei passi, pensò. Perché di solito ci trovo qualcuno
a darmi la caccia.
E così, adesso erano lì, a contorcersi in quel tunnel opprimente, con il greve
odore di terra nel naso e l’onnipresente minaccia di una quantità indicibile di
terra che incombeva su di loro come una gigantesca incudine.
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Spinella sapeva che cosa stavano pensando i suoi compagni. — Questa
galleria è sicura. Bombarda è il miglior scavatore nel suo campo — disse fra
grugniti e rantoli.
Il tunnel serpeggiava, e la loro unica fonte di luce era quella di un telefonino
fissato con il nastro adesivo alla fronte di Leale. Artemis ebbe la visione
improvvisa di loro tre imprigionati là sotto per sempre, come roditori nella
pancia di un serpente, che venivano lentamente digeriti finché di loro non
rimaneva neppure una traccia.
Nessuno verrà mai a sapere che cosa ne è stato di noi, si disse.
Era un pensiero ridondante, Artemis lo sapeva, perché se non fossero usciti
da quella galleria, allora con ogni probabilità non sarebbe rimasto nessuno a
chiedersi che cosa ne fosse stato del loro gruppetto. E lui non avrebbe mai
saputo se avesse fallito nell’impresa di salvare i suoi genitori o se fossero già
rimasti uccisi a Londra in un modo o nell’altro. Tuttavia, non riusciva a
scrollarsi di dosso l’idea che stessero per morire in quella grande tomba
senza lapide, e la sua convinzione si rinsaldava ogni volta che allungava la
mano, cosa che lo trascinava sempre più in profondità nel sottosuolo.
Artemis allungò ancora la mano nell’oscurità e, grattando, le sue dita
incontrarono lo stivale di Leale.
— Credo che ce l’abbiamo fatta — annunciò la guardia del corpo. — Siamo
arrivati all’ostruzione.
— È solida? — chiese Spinella dalla retroguardia.
Seguì una serie di rumori che non sarebbero sembrati fuori posto in una
fabbrica di gelatina e un odore che sarebbe stato perfettamente in tono con lo
scoppio di una fognatura.
Leale tossì più volte, imprecò, e poi disse poche parole cariche di sottintesi
tremendi. — È solida solo la crosta.
Precipitarono da un buco abbattendo una rastrelliera di bottiglie di vino che
l’ingresso precipitoso di Leale mandò in frantumi. Di norma, l’omone
sarebbe entrato con cautela, spostando la rastrelliera un po’ alla volta, ma in
quel caso la velocità era più importante della circospezione, perciò piombò
nella cantina attraverso la chiusura del tunnel di Bombarda. I suoi due
compagni lo seguirono a ruota, felici di sfuggire alla galleria.
Artemis annusò il liquido raccolto nelle curve concave dei cocci di vetro. —
Di certo questo non è Château Margaux del 1995 — commentò.
— Non è neppure vino di riso — convenne Leale, spazzolandosi i vestiti. —
Anche se conosco un paio di mercenari che non disdegnerebbero di berne.
Spinella salì gli alti gradini di pietra della cantina del diciassettesimo secolo,
102
poi premette l’orecchio alla porta. — Non sento niente — disse dopo un
momento. — Il vento all’esterno e nient’altro.
Leale aiutò Artemis a rialzarsi dalle rovine della rastrelliera. — Andiamo,
Artemis. Dobbiamo recuperare le mie armi prima che la passeggera di Juliet
se ne ricordi.
Spinella socchiuse la porta e sbirciò fuori. La cantina si apriva su un
corridoio, a metà del quale stava appostato un gruppo di pirati forniti di armi
automatiche. Stavano perfettamente immobili, forse nel tentativo di impedire
alle loro ossa di sbatacchiare.
Leale arrivò furtivamente alle spalle dell’elfa. — Come andiamo? — chiese.
Spinella trattenne il fiato e richiuse la porta. — Non troppo bene — disse.
Si accovacciarono dietro una rastrelliera di rossi californiani degli anni
Novanta e bisbigliarono con urgenza.
— Che cosa abbiamo? — chiese Artemis.
Leale alzò i pugni. — Io ho questi. E basta.
Spinella si frugò nelle tasche della tuta. — Delle plastomanette. Un paio di
razzi. Non è granché, come inventario.
Artemis picchiettò la punta di ciascun dito sul polpastrello del pollice, uno
degli esercizi che faceva sempre quando aveva bisogno di concentrarsi. —
Abbiamo qualcos’altro — disse. — Abbiamo la casa.
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CAPITOLO 10 - RIVALITÀ TRA FRATELLI
CASA FOWL
Gobdaw e Bellico seguirono i cani su per il sontuoso scalone di Casa Fowl e
lungo il corridoio che portava allo studio di Artemis. Una volta varcata la
soglia, i cani balzarono sul camice bianco di Artemis, appeso a un gancio, e
con denti e zampe lo ridussero a brandelli e ne masticarono la stoffa.
— Hanno fiutato l’umano — disse Gobdaw, deluso di non avere avuto la
possibilità di usare la piccola Glock che si adattava così bene alla manina di
Myles.
Avevano fatto razzia nell’armeria di Leale, nascosta nelle sue stanze dietro
una finta parete. Solo quattro persone erano a conoscenza dell’ubicazione del
tastierino e della password da inserirvi, cinque adesso, se Bellico poteva
essere contata come un soggetto distinto da Juliet. Gobdaw prese la piccola
pistola e diverse armi bianche, mentre Bellico scelse una mitragliatrice e un
arco ricurvo in fibra di carbonio con una faretra piena di frecce di alluminio.
I pirati arraffarono praticamente tutto il resto, danzando allegre gighe mentre
scendevano sbatacchiando di sotto per montare di guardia.
— Dovremmo continuare a cercare — aveva proposto Gobdaw.
Bellico non era stata d’accordo, avendo dalla sua la conoscenza di Juliet della
casa. — No. Lo studio di Artemis è nella stanza a fianco, perciò verranno
sicuramente qui. Abbiamo guerrieri nella cantina e nella stanza della
cassaforte. Lasciamo che siano i cani e i pirati a spingerli verso di noi.
Gobdaw aveva sufficiente esperienza da leader per riconoscere un buon
piano. — Molto bene. Aspetteremo qui, ma se non potrò usare quest’arma
prima dell’alba ne sarò molto deluso.
— Non preoccuparti. Per l’umano grosso ti serviranno tutti i proiettili.
Bellico prese i cani per il collare e li allontanò dal camice con uno strattone.
— Voi due dovreste vergognarvi — disse. — Non perdetevi dentro quelle
bestie.
Uno dei due segugi diede una musata al compagno come se fosse stata tutta
colpa sua.
— Adesso andate — disse Bellico, assestandogli un calcio nel didietro. — E
trovateci qualche Fangoso.
Gobdaw e Bellico si accucciarono dietro la scrivania, l’una intenta a
incoccare una freccia e l’altro a togliere la sicura della pistola di cui si era
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impossessato.
— La casa è una fortezza virtuale — spiegò Artemis. — Una volta inserita nel
pannello di controllo la modalità assedio, ci vorrebbe un esercito per
penetrare le difese; sono state tutte progettate e installate prima che Opal
lasciasse il suo tempo, perciò è impossibile che qualche componente sia
esploso.
— E dove si trova questo pannello? — s’informò Spinella.
Artemis si picchiettò l’orologio. — Di solito posso accedervi da remoto con
l’orologio o il telefonino, ma la rete dei Fowl è fuori uso. Di recente ho
aggiornato il router e forse si è insinuata qualche componente Koboi, perciò
dovremo usare quello del mio ufficio.
Leale sapeva che toccava a lui fare l’avvocato del diavolo. — Ma in questo
modo non ci ritroveremo chiusi qui dentro con un mucchio di pirati?
Artemis sorrise. — Oppure saranno loro a ritrovarsi rinchiusi qui dentro con
noi.
Kisch Lorenz piangeva la perdita del proprio corpo con il suo compagno
Catch.
— Te li ricordi i bei bicipiti che avevo? — disse malinconico. — Erano o
non erano come tronchi? E adesso guardami. — Mosse a scatti il braccio
sinistro per dare una dimostrazione di come i lembi di carne gli penzolassero
flosci dalle ossa. — Non riesco quasi a tenere in mano questa bocca di fuoco.
— Non è una bocca di fuoco — ribatté Catch. — Si chiama “pistola”. È una
parola facile da ricordare, non trovi?
Kisch guardò l’arma automatica che teneva fra le dita ossute. — Immagino di
sì. Basta mirare e premere, giusto?
— Così ha detto Bellico.
— Avete sentito, guerrieri? — chiese Kisch alla mezza dozzina di pirati
schiacciati nella tromba delle scale alle sue spalle. — Basta mirare e premere.
E non preoccupatevi di colpire il compagno davanti a voi, perché tanto siamo
già morti.
Erano nel corridoio di mattoni rossi e pregavano di veder passare qualche
umano. Dopo tutto quel tempo, sarebbe stato un peccato non trovare nessuno
da uccidere.
Tre metri sotto, nella cantina, Leale prese due bottiglie di Macallan 1926 Fine
and rare whiskey.
— Tuo padre non sarà per niente contento — disse ad Artemis. — Queste
105
costano trentamila euro a proiettile.
Artemis avvolse le dita attorno alla maniglia della porta. — Sono certo che
comprenderà, date le circostanze.
Leale fece una risatina. — Oh, questa volta pensi di spiegare a tuo padre le
circostanze? Sarebbe una novità.
— Be’, magari non proprio tutte le circostanze — precisò Artemis
spalancando la porta.
Leale uscì nel varco e scagliò le bottiglie contro il soffitto, sopra la testa dei
pirati. Entrambe andarono in frantumi, annaffiando i guerrieri di una pioggia
di liquido ad alta gradazione alcolica. Spinella passò sotto le gambe della
guardia del corpo e sparò un razzo: in meno di un secondo, tutto il gruppo di
pirati si ritrovò avvolto in un sibilo di fiamme blu e arancioni che dipinsero
di nero il soffitto. A quanto pare, la cosa non li preoccupò più di tanto; solo
quello con i moncherini di legno in breve si ritrovò senza una gamba a
sorreggerlo. Gli altri continuarono la loro esistenza di scheletri e puntarono le
armi contro la porta della cantina.
— Sarà la casa a salvarci? — chiese Spinella con un certo nervosismo. —
Hai detto così.
— Tre — incominciò Artemis. — Due… uno.
E in quel momento preciso il sistema antincendio della tenuta registrò
l’aumento di temperatura e ordinò a otto dei suoi duecento ugelli di inondare
le fiamme di una schiuma antincendio gelata. I pirati furono ricacciati in
ginocchio dalla forza dello spruzzo e tormentarono i grilletti alla cieca,
sparando colpi che rimbalzarono sulle pareti e giù per le scale. I proiettili
esaurirono l’energia cinetica sulle ringhiere di acciaio e finirono a terra
fumando. Nel corridoio la temperatura delle ossa dei pirati si abbassò di
quaranta gradi in meno di dieci secondi, sbriciolandole come foglie secche.
— Andiamo — disse Leale, e imboccò le scale schiantando i pirati
disorientati come una vendicativa palla da bowling. Gli sfortunati guerrieri si
fracassarono al minimo impatto, disintegrandosi in un milione di cristalli
d’osso che volteggiarono per aria come fiocchi di neve. Spinella e Artemis
sfrecciarono nel corridoio al seguito dell’eurasiatico, frantumando sotto i
piedi frammenti di osso senza fermarsi a raccogliere le armi, per lo più
esplose nell’incendio e pertanto inutilizzabili.
Come al solito, durante la corsa Artemis era fra Leale e Spinella.
— Non fermiamoci — disse l’elfa da dietro. — Ce ne saranno altri, statene
certi.
Nella stanza antipanico trovarono altri pirati, e molto soddisfatti di sé.
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— Questa è la cosa più furba che abbiamo mai fatto — disse Marty Nidrai
nelle sue vesti di comandante. — Loro vengono qui per nascondersi da noi,
ma noi ci siamo già. — Raccolse la sua ossuta ciurma attorno a sé. —
Ripassiamo il piano. Che cosa facciamo quando li sentiamo?
— Ci nascondiamo — risposero i pirati.
— E che cosa facciamo quando entrano?
— Saltiamo su all’improvviso — gridarono allegri i pirati.
Marty puntò un dito ossuto. — E che cosa fai tu, in particolare?
Un pirata piccoletto che sembrava indossare i resti di un barile stava
appoggiato al muro. — Schiaccio questo bottone qui e faccio scendere la
porta di acciaio, così restiamo tutti in trappola qui dentro.
— Benissimo — approvò Marty. — Benissimo.
Tra i soffitti a volta rimbombò il rumore di spari ripetuti che riecheggiavano
lungo il corridoio verso la stanza antipanico.
— Arrivano, compagni — annunciò Marty. — Ricordatevi di ucciderli tante
volte per essere sicuri. Fermatevi solo quando vi cadono le braccia.
Si accovacciarono nell’oscurità, con la luce proveniente dall’esterno che
scintillava sulle loro lame.
Se Bellico avesse scandagliato un po’ più a fondo i ricordi di Juliet, si
sarebbe resa conto che la stanza antipanico era accessibile o sigillabile
dall’esterno, da remoto o con un programma di attivazione vocale. Ma anche
se lo avesse saputo, non avrebbe avuto senso che gli umani volessero
rinchiudersi fuori dal loro rifugio. Sarebbe stata follia pura.
Mentre varcava di corsa la porta della stanza, Leale rallentò appena per
parlare nel microfonino inserito nel telaio di acciaio. — Leale, D. —
pronunciò chiaramente. — Autorizzazione primaria. Blocca.
Calò una pesante porta che sigillò completamente la stanza antipanico e
chiuse all’interno la ciurma di pirati guerrieri. Artemis ebbe a malapena un
secondo per sbirciare sotto. Quello è un pirata con indosso un barile? pensò.
Oggi non mi sorprende più niente.
Arrivato allo studio, Leale alzò il pugno. Artemis andò a sbattere contro
l’ampia schiena della sua guardia del corpo. Per fortuna, il ragazzo non aveva
il peso sufficiente per smuoverlo, perché se Leale avesse fatto anche solo un
passettino incerto in avanti, di sicuro sarebbe stato infilzato da una delle
frecce di sua sorella.
— Ah, sì — bisbigliò Artemis. — Pugno alzato significa fermati.
Leale si portò un dito alle labbra.
— E questo dovrebbe significare che vuoi che stia zitto. Ho capito.
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Le parole di Artemis furono sufficienti a stimolare una reazione dall’interno
dello studio. La reazione prese la forma di una freccia di alluminio che
penetrò nella parete divisoria affondando nel cartongesso e facendone
schizzare frammenti tutto attorno.
Leale e Spinella non discussero una strategia, in quanto erano entrambi
soldati esperti e sapevano che il momento migliore per attaccare era subito
dopo che era stato sparato un colpo, o in questo caso una freccia.
— Sinistra — disse l’eurasiatico, e non ebbe bisogno di aggiungere altro.
Tradotto per i profani, intendeva dire che lui si sarebbe occupato degli
elementi ostili sulla sinistra della stanza, lasciando la destra a Spinella.
Si slanciarono all’interno accucciati, dividendosi in due bersagli mentre
attraversavano il pavimento. Leale aveva il vantaggio di avere familiarità con
la pianta dello studio, e sapeva che l’unico nascondiglio logico sarebbe stato
dietro il lungo banco da lavoro di acciaio inossidabile dove Artemis
trafficava con l’ignoto e costruiva modellini sperimentali.
Mi sono sempre chiesto quanto questo affare fosse sicuro, pensò prima di
caricarlo come un rugbista che entra in una mischia in cui il prezzo di una
partita persa sarebbe stato la vita. Sentì il sibilo di una freccia vicino
all’orecchio un attimo prima che la spalla prendesse d’assalto l’acciaio,
sollevando il banco dai cavi di sostegno in mezzo a una pioggia di scintille e
a un sibilo di gas.
Gobdaw si arrampicò sul banco con uno spadino e una torcia accesa pronti a
colpire, quando il becco Bunsen si chinò a salutare il cavo elettrico, il che
provocò scintille e una breve esplosione, ricacciando il guerriero all’indietro,
tra le tende di velluto.
Bellico valutò in fretta la situazione e schizzò verso l’ufficio.
Leale la vide scappare. — Io penso a Juliet — gridò a Spinella. — Tu cattura
Myles.
Forse il bambino è privo di sensi, pensò l’elfa, ma la sua speranza si spense
non appena vide Myles Fowl che si liberava dalle tende di velluto. Il suo
sguardo le disse che in quel corpo c’era ancora un Berserkr e che non era
disposto ad arrendersi. Ormai era armato solo di uno spadino, ma Spinella
sapeva che i guerrieri avrebbero combattuto fino all’ultima goccia di sangue,
anche se il sangue non sarebbe stato propriamente il loro.
— Non fargli del male — si raccomandò Artemis. — Ha solo quattro anni.
Gobdaw sorrise mettendo in mostra i dentini da latte, che Myles puliva
religiosamente con uno spazzolino modellato sulla testa di Einstein e con le
setole che riproducevano i caratteristici capelli ritti dello scienziato. — Esatto,
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traditrice. Gobdaw ha solo quattro anni, perciò non farmi del male.
Spinella sperava che Artemis si tenesse fuori da quella faccenda. Quel
Gobdaw poteva anche avere un aspetto innocente, ma aveva di gran lunga
più esperienza in battaglia di quanta lei non avrebbe mai desiderato avere, e,
a giudicare dal modo in cui faceva roteare la lama nel palmo, non aveva
perso nessuna delle sue abilità.
Se questo tizio fosse nel suo corpo, mi farebbe a pezzi, si rese conto.
Il problema di Spinella era che in quello scontro non ci metteva il cuore.
Anche senza contare il fatto che combatteva contro il fratellino di Artemis,
quello era Gobdaw, santo cielo! Gobdaw la leggenda. Gobdaw che aveva
guidato la carica di Taillte. Gobdaw che aveva trasportato un compagno
ferito su un lago ghiacciato a Bellannon. Gobdaw che dopo l’incursione di
Cooley era stato messo con le spalle al muro da due lupi in una grotta e ne
era uscito con una pelliccia nuova.
I due soldati si giravano intorno.
— È vera la storia dei lupi? — chiese Spinella in gnomico.
Gobdaw perse il passo, sorpreso. — I lupi a Cooley? Come sai di questa
storia?
— Stai scherzando? — ribatté l’elfa. — La conoscono tutti. A scuola faceva
parte del corteo storico, tutti gli anni. Se devo essere sincera, mi ha pure un
po’ stufato. I lupi erano due, giusto?
— Sì, due, ma uno era malaticcio.
Gobdaw sferrò il colpo a metà frase, come Spinella si era aspettata. La mano
armata del Berserkr sfrecciò in avanti, diretta allo stomaco del suo
avversario, ma non aveva la portata di una volta, e l’elfa gli centrò il fascio di
nervi al deltoide immobilizzandogli il braccio, che adesso gli penzolava inerte
dalla spalla.
— D’Arvit — imprecò Gobdaw. — Sei un tipo astuto. Le femmine sono
sempre infide.
— Continua a parlare — gli disse Spinella. — Mi piaci sempre di meno, il
che dovrebbe semplificare di molto il mio lavoro.
Gobdaw fece tre passi di corsa e saltò su una sedia Regency per strappare
due riproduzioni di picche incrociate dalla parete.
— Sta’ attento, Myles! — urlò Artemis per forza d’abitudine. — È molto
affilata.
— Affilata, dici, Fangosetto? È così che mi piacciono le lance. — Il volto del
guerriero si contrasse come se fosse sul punto di starnutire, poi Myles fece
capolino per un secondo.
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— Non è una lancia, idiota. È una picca. E poi ti vorresti spacciare per un
guerriero.
Quindi i suoi lineamenti si contrassero nuovamente, e Gobdaw fece ritorno.
— Chiudi il becco, ragazzo. Ho io il controllo di questo corpo.
La breve interruzione diede speranza ad Artemis. Suo fratello era là dentro,
da qualche parte, e non aveva perso un briciolo della sua lingua tagliente.
Gobdaw si infilò la picca nell’incavo del braccio buono e partì all’attacco.
Nella sua mano, l’arma sembrava grossa come una lancia da torneo. Ne
sventolò la punta da una parte all’altra in un rapidissimo arco e riuscì ad
affettare il gomito di Spinella prima che l’elfa avesse il tempo di scansare
l’attacco di lato.
La ferita non era grave però era dolorosa, e Spinella non disponeva della
magia per una guarigione rapida.
— Per la chioma di Danu — disse Gobdaw. — Il primo sangue è per i
Berserkr.
I due si affrontarono una seconda volta, ma ora Spinella era stretta all’angolo
con minor spazio di manovra, e il braccio inerte di Gobdaw stava
riprendendo energia. Il guerriero afferrò la picca con entrambe le mani,
aumentando la velocità e la solidità dell’affondo. Si avvicinò, e questo non
lasciò più spazio a Spinella per muoversi.
— Non mi fa piacere — disse. — Però non provo neppure troppo dolore.
Scegli il tuo scarafaggio, elfa.
“Scegli il tuo scarafaggio” era un riferimento al gioco elfico in cui si
masticavano scarafaggi. Un gruppo di bambini tirava fuori cinque scarafaggi
e ognuno ne sceglieva uno da mettere in bocca. Statisticamente, per lo meno
uno scarafaggio sarebbe stato nel ciclo di morte e avrebbe incominciato a
decomporsi dall’interno, perciò uno dei bambini si sarebbe trovato con un
boccone putrido in bocca. Però non importava, perché le regole del gioco
dicevano che dovevi inghiottire il tuo scarafaggio comunque. Un equivalente
umano di quel detto sarebbe: “Hai voluto la bicicletta e ora pedala.”
Brutto affare, pensò Spinella. Non vedo come potrei sbarazzarmi di Gobdaw
senza fare del male a Myles.
D’un tratto Artemis agitò le braccia e gridò: — Myles! La punta di quella
picca è di acciaio. Dove si trova l’acciaio nella tavola periodica?
Di nuovo sul viso di Gobdaw venne a disegnarsi una smorfia e tornò fuori
Myles. — Artemis, l’acciaio non è sulla tavola periodica. Non è un elemento,
come ben sai. Si compone di due elementi: carbonio e ferro.
Verso la fine dell’ultima frase, Gobdaw riprese ancora il controllo, appena in
110
tempo per sentirsi strattonare le braccia dietro la schiena e per udire il rumore
delle plastomanette che gli si stringevano attorno ai polsi.
— Era un trucco — disse, incerto su come esattamente fosse stato
imbrogliato.
— Spiacente, Gobdaw — disse Spinella, sollevandolo per il colletto. —
L’umano non ha giocato con lealtà.
— E da quando in qua gli umani giocano con lealtà? — borbottò Gobdaw,
che in quel momento avrebbe avuto una gran voglia di sgomberare dalla
mente di Myles Fowl, se solo ci fosse stato un altro ospite a disposizione. Ma
proprio allora si rese conto di quanto Artemis fosse stato scaltro.
Non è una cattiva strategia, pensò. Forse posso rendergli la pariglia e
rivoltare il trucco dell’umano contro di lui.
All’improvviso gli occhi di Myles rotearono all’indietro, e il bambino si
afflosciò tra le braccia di Spinella.
— Credo che Gobdaw se ne sia andato — disse l’elfa. — Artemis, a quanto
pare hai riavuto tuo fratello.
Leale inseguì Bellico nello studio, dove lei si fermò appena prima di sabotare
il quadro comandi. Aveva già tirato indietro il pugno per colpire, quando
Leale le agganciò il braccio nella piega del gomito e tutti e due
incominciarono a roteare come ballerini, si allontanarono dal pannello di
controllo e rotolarono sul tappeto. Bellico liberò il braccio e con una piroetta
si diresse verso il muro.
— Sei finita — disse Leale. — Perché non liberi mia sorella?
— Prima moriremo entrambe, umano! — urlò Bellico, continuando a
muoversi cautamente in cerchio.
Leale mantenne la propria posizione. — Se hai accesso ai ricordi di mia
sorella, vedi di darci una guardata. Non potrai mai sconfiggermi, lei non ci è
mai riuscita e non ci riuscirai mai neppure tu.
Bellico rimase immobile per un momento per accedere al database della
mente di Juliet. Era vero, Leale aveva sconfitto sua sorella senza problemi
almeno mille volte. I suoi talenti erano di gran lunga superiori a quelli di lei.
Ma… un momento! C’era una visione del grosso umano sulla schiena, con la
fronte corrugata dal dolore. Stava parlando: Mi hai davvero inchiodato con
quella mossa, Jules. È uscita fuori dal nulla. Come faceva il tuo fratellone a
difendersi da una cosa del genere?
Gli occhi di Bellico lampeggiarono. Di quale mossa parlava l’umano?
Scavò un po’ più a fondo e trovò un kata in cinquantaquattro passi che Juliet
Leale aveva ideato da sola, rielaborando gli insegnamenti di Kano Jigoro,
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l’inventore dello judo.
Ho trovato il punto debole dell’umano, pensò.
Lasciò che la memoria tornasse completamente alla superficie e trasmettesse
istruzioni al corpo. Gli arti di Juliet incominciarono a eseguire il kata.
Leale si accigliò e subito si piegò in una posa difensiva da pugile. — Ehi, che
stai facendo?
Bellico non perse tempo a rispondere. C’era ansia nella voce del Fangoso, e
tanto bastò per assicurarle che aveva fatto la scelta giusta. Incominciò a
volteggiare per l’ufficio come una ballerina, aumentando la velocità a ogni
piroetta.
— Fermati! — le disse Leale, faticando a mantenerla nella propria visuale. —
Non puoi farcela!
E invece Bellico poteva farcela, ne era certa. Quel vecchio non era all’altezza
del corpo giovane e forte che lei si era scelta. Volteggiava sempre più veloce,
con i piedi che a malapena sfioravano il pavimento e l’aria che sibilava
nell’anello di giada che le fermava la coda di cavallo.
— Ti darò ancora una possibilità, Juliet, o chi diavolo sei. E poi dovrò farti
del male.
Bluffava. Un bluff evidente, dettato dalla paura.
Vincerò io, pensò Bellico, che ormai si sentiva invulnerabile.
Al cinquantaduesimo passo, Bellico si slanciò in volo all’indietro, quindi
appoggiò la gamba posteriore al muro, cambiò direzione e aumentò l’altezza.
Si abbatté su Leale a tutta velocità, il tallone diretto al fascio di nervi del collo
come una punta di freccia.
Una volta messo fuori gioco l’umano, distruggerò il quadro comandi, pensò
Bellico che già celebrava la sua vittoria.
Leale le scostò il tallone con il palmo di una mano e le affondò le dita
dell’altra mano nello stomaco, con forza sufficiente a lasciarla senza fiato, e
non c’è guerriero sul pianeta capace di combattere se non può respirare.
Bellico si accasciò sul tappeto come un sacco di pietre e si rannicchiò in
posizione fetale. — Ma come? — ansimò. — Come hai fatto?
Leale la sollevò per il colletto. — Quel giorno era il compleanno di Juliet e
l’ho lasciata vincere.
La scortò verso il pannello di controllo; aveva appena inserito la sequenza di
blocco quando sentì un rumore di mascelle simile a un tamburo militare sul
pavimento alle sue spalle. Lo riconobbe all’istante.
Il cane sta per attaccarmi, si disse.
Ma si sbagliava. Il cane si scagliò su Bellico e la trascinò sotto la serranda di
112
acciaio che si stava abbassando e poi attraverso la finestra; l’omone se ne
rimase con un brandello di stoffa nella mano a fissare la serranda con
sguardo spento, pensieroso.
Non l’ho neppure vista atterrare. Non so se mia sorella sia ancora viva,
pensò.
Corse alla scrivania di Artemis e attivò le telecamere di sicurezza appena in
tempo per vedere Juliet accarezzare il cane e allontanarsi zoppicando, in
direzione di Opal, suppose.
— È viva per il momento — borbottò.
E finché c’era vita, c’era speranza. Almeno per un paio d’ore ancora.
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CAPITOLO 11 - MORTE PER MANO DI CONIGLI
SOTTO CASA FOWL, un PO’ A SINISTRA
Nessuno, umano o membro del Popolo, era stato dichiarato morto più volte
di Bombarda Sterro, ed era un record, questo, di cui lui andava
smodatamente fiero. Ai suoi occhi, essere dichiarati morti dalla LEP non era
altro che un modo meno imbarazzante per loro di ammettere che gli era
sfuggito per l’ennesima volta. Al bar degli evasi, Il Pappagallo Sbronzo, i
certificati di morte della LEP erano stampati e affissi sul Muro degli Eroi.
Bombarda cullava cari ricordi della primissima volta in cui si era finto morto
per sbarazzarsi della polizia. Santo cielo, possono essere già passati più di
duecento anni? Il tempo vola più in fretta dell’aria dalla patta posteriore,
come soleva sempre dire la nonna, che dio l’abbia in gloria.
Era impegnato in un lavoretto con il cugino Nordio, sulla montagna d’oro di
Cantuccio, quando il padrone di casa era inaspettatamente rientrato in casa
dal convegno di Atlantide, dove sarebbe dovuto rimanere a spese dei
contribuenti per altri due giorni.
Odio quando tornano a casa prima del previsto, pensò Bombarda. Ma perché
la gente fa di queste cose, quando sa benissimo che ci sono ottime probabilità
di trovare un rapinatore in soggiorno?
Ad ogni modo, il caso aveva voluto che il padrone di casa fosse un ex
membro delle forze dell’ordine, con regolare porto d’armi per uno
sfrizzagente che aveva usato con gran gusto sui due cugini nani. Nordio era
riuscito a scappare passando dal tunnel, ma Bombarda era stato costretto a
portarsi le mani al petto e a fingere un attacco cardiaco per poi scaraventarsi
dalla finestra e fingersi morto fino all’impatto con il fiume sottostante.
Fare il cadavere è stata la parte più difficile, ricordò Bombarda. Non c’è
niente di più innaturale che tenere le braccia flosce quando vorrebbero
mettersi a roteare in aria.
La LEP aveva interrogato il padrone di casa, il quale aveva enfaticamente
dichiarato: Sì, l’ho ucciso. È stato un incidente, naturale, volevo soltanto
mutilare quel nano e poi prenderlo a calci fino a fargli perdere i sensi, ma
quell’idiota potete pure considerarlo morto. Nessuno può fingersi cadavere
per un volo di tre piani.
E così, Bombarda Sterro era stato dichiarato morto per la prima volta. Ci
sarebbero state altre dodici occasioni ufficiali in cui si sarebbe erroneamente
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creduto che avesse tagliato la corda per l’ultima volta e, a sua insaputa, in
quel momento stava strisciando verso un’occasione ufficiosa.
Le sue istruzioni, del resto, erano semplicissime: scavare un tunnel parallelo a
quello appena crollato, sgattaiolare nei rottami della Cupido e poi rubare tutte
le armi conservate nell’armadietto. Scavare, sgattaiolare e rubare, tre dei
quattro verbi preferiti di Bombarda.
Non so proprio perché lo sto facendo, pensò mentre scavava. Dovrei puntare
verso la superficie e trovarmi una bella crepa. Dicono che l’ondata di morte
di Opal ucciderà solo gli umani, ma perché correre un rischio così da
irresponsabili con il grande dono della vita?
Bombarda sapeva bene che quel ragionamento era solo un mucchio di
polpette di troll, ma riusciva a scavare meglio se era seccato, anche se
l’oggetto del suo fastidio era lui stesso. E così, il nano fumava di irritazione
in silenzio mentre avanzava nel sottosuolo verso i rottami della navetta.
Sei metri più in alto e trenta metri a sud, Opal Koboi metteva mano ai
profondi incantesimi algebrici della seconda serratura dei Berserkr. I simboli
le si avvolgevano attorno alle dita come lucciole e cedevano il proprio potere
uno alla volta man mano che lei ne scopriva i segreti. Alcuni venivano
sottomessi forzatamente con il puro potere della sua magia nera, ma altri
dovevano essere persuasi con subdole fatture o solleticamenti magici.
Ci sono quasi, pensò. Riesco ad avvertire la forza della Terra.
Presumeva che l’ondata di morte avrebbe assunto la forma di energia
geotermica, attratta dalle risorse di tutto il pianeta e non solo dai bacini
idrotermici più in superficie, e ciò avrebbe intaccato le riserve mondiali e
teoricamente avrebbe potuto sprofondare la Terra in una nuova era glaciale.
Sopravviveremo, pensò cinicamente. Ho dei bellissimi stivali termici da
parte.
Il lavoro era impegnativo ma fattibile, e sapere di essere l’unica folletta al
mondo ad avere svolto sufficienti ricerche sulle complessità della magia
antica per poter aprire la seconda serratura le dava una certa soddisfazione.
La prima era stata semplice – aveva richiesto poco più di un lampo di magia
nera – ma per la seconda occorreva una conoscenza enciclopedica dell’arte
magica.
Quel tecnoanalfabeta di Polledro non ci sarebbe mai riuscito, neppure in un
milione di anni, gongolava.
Opal non lo sapeva, ma in quel momento era così compiaciuta che roteava le
spalle e faceva un verso simile a fusa.
Sta andando tutto così bene, si diceva.
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Quel piano era stato fuori dal comune perfino per i suoi standard, ma
improbabile o no, tutti gli elementi stavano andando al loro posto. La sua
prima idea era stata di sacrificare il suo alter ego più giovane e di usare il
potere trafugato per evadere da Sprofondo. Poi però le era venuto in mente
che si sarebbe dovuta liberare di quel potere all’istante, se voleva evitare che
la divorasse viva. E allora perché non farne buon uso?
L’opportunità si era presentata quando l’alter ego più giovane di Opal si era
messo telepaticamente in contatto con lei.
Una mattina, Opal era nel bel mezzo di un Coma Rigeneratore quando –
ping! – a un tratto nella sua testa aveva sentito una voce che chiamava la
sorella chiedendo aiuto. Per un attimo aveva temuto di essere impazzita, ma
poi, a poco a poco, l’informazione era filtrata. Una Opal più giovane aveva
seguito Artemis Fowl dal passato.
Non me lo ricordo, si era resa conto Opal. Perciò il mio alter ego più giovane
deve essere stato catturato e rimandato indietro dopo uno spazzamente.
A meno che…
A meno che la linea temporale non si fosse spezzata in due parti. In quel
caso, qualunque cosa sarebbe stata possibile.
Opal fu sorpresa nel trovare la se stessa più giovane un po’ piagnucolona,
perfino noiosa. Davvero pensava sempre e solo a se stessa?
Che razza di egocentrica, rifletteva la folletta. È tutto un: Mi sono fatta male
alla gamba nell’esplosione; la mia magia sta svanendo; devo ritornare nel mio
tempo.
Niente di tutto ciò era minimamente di aiuto a Opal, rinchiusa nella sua
prigione.
Quello che devi fare è aiutarmi a uscire di qui, aveva trasmesso al suo alter
ego più giovane. Così potremo occuparci delle tue ferite e rimandarti a casa.
Ma come riuscirci? Quel maledetto centauro Polledro l’aveva incarcerata
nella cella più tecnologicamente avanzata del mondo.
La risposta era semplice: Devo costringerli a liberarmi perché l’alternativa
sarebbe semplicemente troppo orribile per poterla anche solo contemplare.
La folletta si era baloccata con quel problema per parecchi minuti prima di
accettare il fatto che fosse necessario sacrificare la giovane Opal e, una volta
messa a posto quella tessera del puzzle, aveva fatto presto a costruirci tutto
attorno il resto del progetto.
Pip e Kip erano due gnomi non troppo svegli che lavoravano come
funzionari pubblici. Qualche anno prima il Consiglio li aveva incaricati di
effettuare una revisione di uno dei conti della sua fabbrica, e Opal li aveva
116
ipnotizzati usando rune proibite e magia nera. Era bastata solo una telefonata
della giovane Opal per attivare la loro lealtà, anche a costo della vita di uno o
di entrambi. Aveva trasmesso le sue istruzioni alla giovane Opal, spiegandole
esattamente come organizzare il falso rapimento e come usare le tracce di
magia nera rimaste nel suo sistema per trovare la leggendaria Porta dei
Berserkr. La porta era la via per ritornare al passato o, per lo meno, quella era
la storia che Opal aveva rifilato al suo alter ego.
La giovane Opal non poteva saperlo, ma c’era un motivo valido se le
istruzioni per Pip e Kip erano così precise. Nelle parole era nascosto un
semplice codice che Opal vi aveva inserito insieme con il vincolo di lealtà. Se
la giovane Opal avesse pensato di mettere per iscritto tutte le lettere che
corrispondevano a numeri primi, avrebbe scoperto un messaggio ben più
sinistro di quello che credeva di trasmettere: Quando sarà scaduto il termine,
uccidete l’ostaggio.
Con i funzionari pubblici era meglio stare sul semplice.
Ogni cosa aveva funzionato esattamente come previsto, tranne per l’arrivo di
Fowl e del capitano Tappo. Però, in un certo senso, anche quello era stato un
colpo di fortuna: adesso avrebbe potuto ucciderli di persona.
Non tutto il male vien per nuocere, pensò.
Di colpo Opal si sentì aggrovigliare lo stomaco e un’ondata di nausea l’assalì.
Il primo pensiero della folletta fu che la magia nera lottasse contro i suoi
anticorpi, ma poi si rese conto che l’origine di quel malessere era esterna a
lei.
Qualcosa offende i miei sensi magici acuiti, pensò. Qualcosa che c’è laggiù.
I rottami della navetta stavano al di fuori del cerchio di guerrieri che
montavano di guardia alla loro regina.
Sotto la navetta. Qualcosa è coperto di una sostanza che mi fa stare male,
comprese.
Era quel maledetto nano, sempre pronto a ficcare quella sua patta dove non
doveva.
Opal si accigliò. Quante volte ancora avrebbe dovuto subire le umilianti
flatulenze di quel nano? Era inaccettabile.
Lo hanno mandato a recuperare le armi, non c’è dubbio, pensò.
Opal alzò gli occhi di quindici gradi in direzione della navetta. Per quanto la
Cupido potesse essere distrutta, il suo sesto senso riusciva ad avvistare
un’aura di energia serpeggiare attorno alla fusoliera come una grossa biscia.
Quella particolare lunghezza d’onda non sarebbe stata di aiuto per aprire la
seconda serratura, ma di sicuro avrebbe fornito materiale sufficiente per una
117
dimostrazione estremamente chiara del suo potere.
Opal ritirò una mano dai deboli rantoli della pietra e curvò le dita ad artiglio,
disponendo le molecole in modo da attrarre ogni briciola di energia presente
all’interno della Cupido. L’energia lasciò il veicolo in un pantano luminoso,
prosciugandolo fino a ridurlo a un rottame avvizzito, e fluttuò nell’aria sopra
i guerrieri ammirati.
— Guardate che cosa è capace di fare la vostra regina! — gridò con gli occhi
accesi. Le minuscole dita si attorcigliarono, manipolarono l’energia fino a
farle assumere la forma di un cuneo appuntito che scagliò attraverso la terra
verso il punto in cui il nano stava trafficando. Si udì un gran tonfo, e una
colonna di terra e pietre schizzò verso il cielo, lasciandosi dietro un cratere
annerito.
Opal riportò la propria attenzione alla seconda serratura. — Riesci a vedere il
nano? — chiese a Oro, che sbirciava all’interno del buco.
— Vedo un piede e un po’ di sangue. Il piede si muove, perciò è ancora
vivo. Vado a prenderlo e lo porto su.
— No — gli disse Opal. — Mammina non vuole perderti di vista. Manda le
creature della terra a ucciderlo.
Se il vincolo elfico non avesse condizionato così tanto la volontà di Oro,
avrebbe richiamato all’ordine Opal per avere ripetutamente mancato di
rispetto agli anziani ma, stando così le cose, perfino la sola idea di
rimproverare la sua regina gli procurava forti crampi allo stomaco.
Quando il dolore fu passato, si portò due dita alle labbra per chiamare i suoi
sterratori con un fischio. Scoprì che non era così facile fischiare con dita
estranee, e tutto ciò che gli uscì dalla bocca fu uno sbavo rumoroso.
— Non conosco quel segnale, capo — disse Yesswi Khen, che un tempo era
stato uno gnomo d’ascia piuttosto in gamba. — È l’ora del tè?
— No! — urlò Oro. — Mi servono gli sterratori. A rapporto.
Una decina di conigli arrivarono saltellando ai suoi piedi. I loro baffi
tremavano per l’ansia di vedere finalmente un po’ di azione.
— Andate a prendere il nano — ordinò Oro. — Vi direi di portarmelo vivo,
ma non è che ne abbiate esattamente le capacità.
I conigli picchiarono per terra le zampe posteriori in segno di assenso.
— Perciò gli ordini sono semplici: uccidetelo — continuò Oro con un certo
rammarico.
I conigli si infilarono in massa nel buco, raspando con zelo verso il nano
ferito.
Morte per mano di conigli, pensò Opal. Non è un bel modo di andarsene.
118
Oro non voleva guardare. I nani facevano parte del Popolo, e in altre
circostanze sarebbero potuti essere alleati. Alle sue spalle sentì uno
scricchiolio di ossa e lo sbatacchiare di terra che franava. Oro rabbrividì.
Avrebbe preferito sempre e comunque affrontare un troll che un mucchio di
conigli carnivori.
Sulla predella, Opal si sentì levare un peso dal cuore mentre un altro nemico
soffriva.
Presto sarà il tuo turno, Polledro, pensò. Ma la morte sarebbe troppo facile
per te. Forse stai già soffrendo. Forse la tua graziosa moglie ha già aperto il
regalo che i miei piccoli gnomi le hanno fatto.
La folletta continuò a lavorare alla seconda serratura e intanto, per far passare
il tempo mentre lavorava, intonò una canzoncina.
Questo, miei cari, è il giorno che
tutto andrà come va bene a me.
Opal non ne era consapevole, ma era una canzone famosa dello spettacolo di
Pip e Kip.
119
CAPITOLO 12 - LA BANDA DEGLI SMANETTONI SUONATI
CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
A Cantuccio le cose non erano mai andate così male. Perfino i gruppi di
empatelfi – capaci di percepire con chiarezza le immagini residue di millenni
passati e che amavano tenere conferenze agli allievi delle scuole elfiche su
come la vita non fosse che un secchio di salsa agrodolce in confronto a
quello che era stata ai tempi degli scavi minerari – dovettero ammettere che
quello era il giorno più tetro della storia di Cantuccio.
Gli abitanti di Cantuccio stavano affrontando la loro notte più buia, resa
ancora più cupa dall’assenza di corrente elettrica, il che significava che le
uniche luci erano le lampade di emergenza alimentate dai vecchi generatori
geotermici. La saliva di nano era improvvisamente diventata un bene molto
prezioso, e in giro per l’accampamento degli sfollati sorto attorno alla statua
di Foglietta si vedevano molti dei parenti di Bombarda intenti a vendere
barattoli di saliva luminescente per un lingotto o due.
La LEP cercava di cavarsela come meglio poteva, e nella maggior parte dei
casi operava con attrezzature limitate. Il problema principale era quello del
coordinamento. La rete di telecamere e centri informatici wireless, sospesa al
soffitto della caverna con fili di ragnatela, era stata ammodernata tre anni
prima con obiettivi prodotti dai LabKob. L’intera rete aveva preso fuoco e si
era abbattuta sui cittadini di Cantuccio, marchiandone molti con un reticolo
di cicatrici, il che significava che la LEP doveva operare priva di supporto
informatico e facendo affidamento solo su vecchie radio per le
comunicazioni audio. Alcuni degli agenti di polizia più giovani non erano
mai stati sul campo senza il pieno sostegno dei loro preziosi elmetti, e senza il
continuo aggiornamento di informazioni da parte della Centrale si sentivano
un po’ troppo esposti.
In quel momento, il cinquanta per cento delle forze operative era impegnato
nel tentativo di spegnere un grosso incendio scoppiato ai Laboratori Koboi,
che erano stati rilevati dalla fabbrica automobilistica Krom. L’esplosione e il
successivo incendio avevano provocato il crollo di una grossa sezione della
caverna sotterranea, e le perdite di pressione venivano contenute a fatica dai
cannoni al gel plastico. La LEP aveva spianato i detriti con i bulldozer e
puntellato il tetto con colonne pneumatiche, ma il fuoco continuava
imperterrito a liquefare i puntoni metallici, e molti gas tossici diversi
120
fuoriuscivano dai cilindri circostanti il fabbricato.
Un altro dieci per cento degli agenti era impegnato nella retata dei prigionieri
fuggiti dal Picco dell’Ululo dove, finché il suo campo di contenimento non si
era spento, era ospitata la maggior parte dei più grandi goblin del crimine che
stavano dietro le bande organizzate di Cantuccio, oltre a malavitosi e ai loro
tirapiedi. Adesso quei goblin sgattaiolavano nelle viuzze della città con i
prendisonno sottocutanei che non rispondevano ai frenetici segnali
ripetutamente inviati dal quartier generale. Alcuni goblin cui il chip era stato
impiantato più di recente erano stati così sfortunati da avere modelli di
seconda generazione che erano esplosi all’interno della loro testa, aprendo
nel cranio buchi abbastanza piccoli da poterli tappare con una monetina, ma
abbastanza grandi da risultare fatali per quelle creature a sangue freddo.
Altri agenti ancora erano immersi fino al collo in operazioni varie di
salvataggio, controllo della folla e caccia agli sciacalli, che non mancavano
mai in una catastrofe di tali proporzioni.
E il resto degli agenti della LEP era stato messo fuori gioco dall’esplosione
dei telefoni cellulari vinti di recente in una lotteria a cui non ricordavano di
avere partecipato, sicuramente opera degli scagnozzi di Opal. In questo
modo, la malvagia folletta era riuscita a far fuori buona parte del Consiglio,
mutilando efficacemente il governo del Popolo in quel momento di
emergenza.
Polledro e i suoi cervelloni erano rimasti alla Centrale per cercare di riportare
in qualche modo in vita una rete che era andata letteralmente a farsi friggere.
Il comandante Grana Algonzo aveva impartito istruzioni al centauro
praticamente senza fermarsi.
— Basta che tu rimetta in funzione le macchine — aveva detto, indossando
una quarta fondina. — Il più in fretta possibile.
— Tu non capisci! — aveva obiettato Polledro.
Algonzo aveva tagliato corto con un gesto secco della mano. — Io non
capisco mai, è per questo che paghiamo te e la tua banda di smanettoni
suonati.
Polledro obiettò un’altra volta. — Non sono suonati!
Grana trovò posto per un’altra fondina ancora. — Davvero? Quello lì si
porta tutti i giorni un pupazzetto al lavoro. E tuo nipote, Mayne, parla
fluentemente l’unicornese.
— Be’, ma non sono suonati proprio tutti — si corresse Polledro.
— Basta che rimettiate in funzione la città — insistette Grana. — Ci sono vite
che dipendono da questo.
121
Polledro bloccò la strada al comandante. — Non lo capisci che la vecchia rete
è vaporizzata? Mi stai dando briglia sciolta, per usare un’espressione
sgradevole, per fare tutto quello che devo?
Grana lo scostò bruscamente. — Fa’ tutto quello che devi.
Polledro fu lì lì per sorridere.
Tutto quello che devo, ripeté fra sé.
Polledro sapeva che il segreto del lancio riuscito di un prodotto spesso stava
nel nome. Un nome facile da ricordare ha più probabilità di suscitare la
curiosità degli investitori e contribuisce al decollo di una nuova invenzione,
mentre un groviglio di lettere e numeri fa addormentare tutti e garantisce un
flop.
Il nome di laboratorio dell’ultimo progetto preferito di Polledro era Fibra a
codice Analogico per la Ricezione delle Onde a Luminescenza Pterygota 2.0.
Il centauro sapeva che era troppo lungo per attirare potenziali investitori. Alla
gente ricca piace sentirsi in gamba, e mettersi in imbarazzo incespicando su
un nome del genere non era certo da persona in gamba, perciò Polledro gli
aveva dato il nomignolo di Faro.
I Faro erano l’ultimo di una serie di organismi bioibridi sperimentali che
Polledro era convinto rappresentassero il futuro della tecnologia. Il centauro
aveva incontrato notevole resistenza da parte del Consiglio sulla base di
motivazioni etiche, in quanto la sua invenzione accoppiava la tecnologia con
gli esseri viventi, sebbene lui avesse contestato che la maggior parte degli
agenti della LEP aveva ormai piccoli chip impiantati nel cervelletto che li
aiutavano a controllare gli elmetti. La controargomentazione del Consiglio era
stata che gli agenti potevano scegliere se farsi impiantare o meno i chip,
mentre i piccoli esperimenti di Polledro nascevano così.
Perciò il centauro non aveva avuto il via libera per i test pubblici. Il che non
stava a significare che non ne avesse fatti, si era semplicemente limitato a non
liberare i suoi preziosi Faro in pubblico, o quanto meno non davanti al
Popolo. Ma la tenuta dei Fowl, be’, quella era un’altra cosa.
L’intero progetto Faro era contenuto in un unico kit all’interno di una logora
valigetta nascosta in bella vista sopra un armadietto del laboratorio. Polledro
si impennò sulle zampe posteriori per prenderla e la sbatté sul banco da
lavoro.
Suo nipote Mayne gli trotterellò alle spalle per vedere che cosa stesse
facendo. — Dung navarr, zio? — gli chiese.
— Oggi niente unicornese, Mayne — lo rimbrottò Polledro, infilandosi la
bardatura da laboratorio modificata. — Non ho tempo.
122
Mayne incrociò le braccia sul petto. — Gli unicorni sono nostri cugini, zio.
Dovremmo avere rispetto per la loro lingua.
Polledro si avvicinò alla valigetta perché lo scanner potesse identificarlo e far
scattare le serrature. — Sì che rispetto gli unicorni, Mayne. Ma i veri unicorni
non parlano. Quei farfugliamenti che produci sono di una serie TV.
— Ma scritta da uno sceneggiatore empatico — sottolineò Mayne.
Polledro aprì la valigetta. — Ascolta, nipote, se vuoi piantarti un corno in
mezzo alla fronte e andare alle convention di fan nei fine settimana, a me sta
benissimo. Però oggi ho bisogno che tu rimanga qui, in questo universo.
Intesi?
— Intesi — assentì di malavoglia Mayne. Il suo umore migliorò quando vide
il contenuto della valigetta. — Ma quelle sono lucciole?
— No, le lucciole sono coleotteri — lo corresse Polledro. — Questi sono
Faro di ultimissima generazione.
A Mayne parve di ricordare qualcosa. — Ma ti avevano rifiutato il permesso
di fare i test, non è vero?
Per Polledro era un’immensa fonte di irritazione che un centauro del suo
genio dovesse essere costretto a giustificarsi con un assistente solo per via del
legame con la sorella.
— Ho appena ottenuto il permesso, dal comandante Algonzo. È tutto su
video.
— Wow! — esclamò Mayne. — In tal caso, vediamo quei piccoletti in
azione.
Forse non è così male, pensò Polledro, inserendo il codice di attivazione in
una tastiera manuale di vecchia generazione nella valigetta.
Una volta inserito il codice, la valigetta si sintonizzò sullo schermo a parete
del laboratorio, dividendolo in una dozzina di riquadri bianchi. Non c’era
niente di così speciale, e nessuno si sarebbe messo ad applaudire o a
sdilinquirsi per l’ammirazione. Quello che avrebbe suscitato applausi e
ammirazione, invece, era lo sciame di libellule in miniatura geneticamente
modificate che andavano risvegliandosi all’interno della valigetta. Gli insetti
scossero le testoline insonnolite e incominciarono a far vibrare le ali, quindi
si alzarono in formazione perfettamente sincronizzata per volteggiare
all’altezza degli occhi di Polledro.
— Oooh! — fece Mayne, battendo le mani.
— Aspetta — gli disse Polledro attivando i sensori. — Guarda e ammira.
La nuvola di libellule tremolò come se avesse ricevuto un’improvvisa
scarica, e i loro occhietti luccicarono verdi. Undici dei dodici riquadri sullo
123
schermo mostrarono immagini in 3D di Polledro, messe insieme dalla
prospettiva di ciascun insetto. Gli insetti erano capaci di leggere non soltanto
lo spettro visibile, ma anche i raggi infrarossi, gli ultravioletti e quelli termici.
Un flusso costante di dati in arrivo scorreva a lato dello schermo, riportando
enormi quantità di informazioni sulla frequenza cardiaca di Polledro, sulla
sua pressione sanguigna, pulsazioni ed emissioni di gas.
— Questi gioiellini possono andare dappertutto e vedere qualsiasi cosa.
Possono ricavare informazioni da ogni microbo. E tutto ciò che si vede è solo
uno sciame di libellule. I miei piccoli Faro potrebbero passare i controlli a
raggi X di un aeroporto, e nessuno capirebbe che sono imbottiti di
biotecnologia. Vanno dove li mando io e spiano chi dico io.
Mayne indicò un angolo dello schermo. — Ma quella sezione è vuota.
Polledro si schiarì la voce. — Ho fatto un test alla tenuta dei Fowl e, non so
come, Artemis è riuscito a individuare ciò che era virtualmente
inindividuabile. Immagino che i miei gioiellini siano a pezzi sotto un
microscopio elettronico del suo studio.
— Non l’ho letto in nessun rapporto.
— No, mi sono dimenticato di accennarne. Il test non era stato esattamente
un successo, ma questo lo sarà.
Le dita di Polledro battevano a tutta velocità sulla tastiera. — Quando avrò
inserito i parametri della missione, i miei Faro ripristineranno il controllo in
tutta la città nel giro di un paio di minuti. — Polledro ordinò a un unico
insetto di atterrargli sul dito indice. — E tu, amico mio, sei speciale perché
andrai in casa mia, tanto per assicurarci che la mia amata Cavallina stia bene.
Mayne si sporse per guardare l’animaletto. — Puoi farlo?
Polledro agitò il dito e l’insetto si alzò in volo, infilandosi lateralmente in un
condotto.
— Posso fare tutto quello che voglio. Sono perfino codificati sulla mia voce.
Sta’ a guardare. — Si appoggiò allo schienale e si schiarì la voce. — Codice
di attivazione Faro alpha alpha uno. Qui Polledro. Il mio nome è Polledro.
Trasferimento immediato in centro città. Scenario tre. Tutte le sezioni.
Disastro a livello globale. Volate, piccole mie, volate.
I Faro partirono come un branco di pesciolini d’argento nell’acqua,
scivolando nell’aria in un volo perfettamente sincronizzato e poi formando
un cilindro compatto che schizzò nel condotto di aerazione. Le ali sfiorarono
rapide le pareti, trasmettendo dati da ogni centimetro.
La teatralità di quell’operazione affascinò la sensibilità da amante dei fumetti
di Mayne. — Volate, piccole mie, volate. Forte. Lo hai inventato tu?
124
Polledro incominciò ad analizzare i dati che già arrivavano dai Faro.
— Certo che sì — disse. — Ogni parola è un Polledro originale.
I Faro potevano essere guidati manualmente o, se quella funzione era
disattivata, si dirigevano verso punti irradiati prefissati sul tetto della caverna.
I minuscoli insetti biotecnologici operarono alla perfezione, e nel giro di
pochi minuti Polledro si ritrovò con una rete funzionante sospesa sopra
Cantuccio che poteva essere manovrata con una parola o un gesto.
— E adesso, Mayne — disse al nipote — voglio che tu venga qui e trasmetta
le informazioni al comandante Algonzo tramite — e qui rabbrividì — radio.
Io voglio controllare un attimo tua zia Cavallina.
— Mak dak Jiball, zio — rispose Mayne facendo il saluto militare. Altra cosa
che i veri unicorni non fanno.
Gli umani hanno un modo di dire: “La bellezza è negli occhi di chi guarda”,
che sostanzialmente significa che se tu pensi che una cosa sia bella, allora lo
è. La versione del Popolo di questo detto era stata composta dal grande poeta
B.O. Selecta, il quale aveva affermato che “Perfino una cagna è degna di
regnare”, che i critici avevano sempre trovato un po’ cacofonica. La versione
nanesca della stessa massima è invece: “Se non puzza, sposalo”, che è un po’
meno romantico, ma il succo è sempre quello.
A Polledro non occorreva rifarsi a nessuno di quei motti, perché nella sua
mente la bellezza era personificata dalla moglie Cavallina. Se mai qualcuno
gli avesse domandato una definizione della bellezza, avrebbe semplicemente
diretto lo sguardo al polso e poi avrebbe attivato il cristallo olografico
installato nel suo computer e proiettato in aria un’interfaccia grafica rotante di
sua moglie.
Polledro era talmente innamorato di Cavallina che sospirava ogni volta che
pensava a lei, il che accadeva diverse volte in un’ora. Per quanto lo
riguardava, aveva trovato la sua anima gemella.
L’amore aveva toccato i garretti di Polledro relativamente in tarda età.
Quando tutti gli altri centauri se ne andavano a sgambettare in giro per i
simil-pascoli, scalciando il terreno, messaggiando le puledre e inviando alle
prescelte carote candite, lui era immerso fino al garrese nelle attrezzature da
laboratorio cercando di cavarsi dalla testa le sue invenzioni radicali e di
introdurle nel mondo reale. Quando si era reso conto che forse l’amore stava
scalpitando al suo fianco, era ormai già scomparso oltre l’orizzonte. Perciò il
centauro si era convinto di non avere bisogno di una compagna ed era
contento di vivere per il suo lavoro e i suoi colleghi.
Poi, quando Spinella Tappo era rimasta dispersa in un’altra dimensione, alla
125
Centrale di Polizia aveva incontrato Cavallina. Per lo meno, questo era quello
che aveva raccontato a tutti. “Incontrato” potrebbe essere un termine un po’
fuorviante, in quanto implicherebbe una situazione piacevole, o per lo meno
non violenta. Ciò che in realtà era accaduto era che uno dei programmi di
riconoscimento facciale di Polledro installato in una banca aveva avuto un
malfunzionamento e aveva identificato Cavallina come una goblin rapinatrice
di banche. Era stata arrestata all’istante dagli spiritelli giganti della sicurezza e
cavalcata alla Centrale. L’ignominia suprema per un centauro.
Prima che tutta la faccenda venisse ricondotta a un errore del software,
Cavallina era già stata confinata in una cella imbottita per più di tre ore. Si era
persa la cena per il compleanno della madre ed era estremamente impaziente
di strozzare il responsabile di quel malinteso. Il comandante Grana Algonzo
aveva ordinato senza mezzi termini a Polledro di scendere nelle celle e di
assumersi la responsabilità di quel pasticcio.
Polledro aveva ubbidito a malincuore, pronto a tirar fuori una decina di
scuse standard, che però erano tutte quante evaporate non appena si era
trovato faccia a faccia con Cavallina nella sala colloqui della Centrale. Non
era solito incontrare molti centauri, e di sicuro non gli era mai capitato di
conoscerne una più bella di Cavallina, con quei suoi occhi nocciola, il grosso
muso robusto e la criniera lucida che le arrivava alla vita.
— C’era da scommetterci — era sbottato senza pensare. — La mia solita
fortuna.
Cavallina si era preparata a fare metaforicamente a pezzi il mantello
dell’imbecille responsabile del suo arresto, e magari anche non solo
metaforicamente, ma la reazione di Polledro l’aveva bloccata e lei aveva
deciso di offrirgli la possibilità di tirarsi fuori dal buco in cui era
sprofondato.
— E quale sarebbe, la sua solita fortuna? — gli aveva chiesto guardandolo
dritto negli occhi e facendogli capire che avrebbe fatto meglio ad avere una
risposta buona.
Polledro avvertì la pressione e così prima di rispondere rifletté ben bene.
— La mia solita fortuna — finì per dire — è che finalmente conosco una
centaura bella come lei, e lei ha soltanto voglia di uccidermi.
Era stata una risposta discreta e, a giudicare dall’infelicità negli occhi di
Polledro, conteneva ben più di un briciolo di verità.
Cavallina aveva deciso di muoversi a compassione per quel centauro così
depresso che aveva davanti e di smorzare un po’ il proprio spirito di
antagonismo, ma era ancora troppo presto per fargliela passare del tutto
126
liscia.
— E perché non dovrei avere voglia di ucciderla? Lei pensa che io sembri
una criminale.
— Non lo penso, non lo penserei mai.
— Davvero? Perché l’algoritmo che mi ha identificato come una goblin
rapinatrice si basa sui suoi schemi di pensiero.
Questa femmina è intelligente, comprese Polledro. Intelligente e bellissima.
— È vero — ammise. — Però immagino che ci fossero di mezzo anche
fattori secondari.
— Tipo?
Polledro decise di tentare il tutto per tutto. Si sentiva attratto da quella
centaura che gli stava mandando in corto circuito il cervello. Il modo
migliore che aveva per descrivere quella sensazione era una prolungata
scossa elettrica a basso voltaggio, simile a quelle inflitte sui volontari nei suoi
esperimenti di deprivazione del sonno.
— Tipo che la mia macchina è incredibilmente stupida, perché lei è
esattamente l’opposto di una goblin rapinatrice di banche.
Cavallina era divertita, ma non voleva cedere. — E cioè?
— E cioè una non-goblin titolare di conto corrente venuta a fare un
versamento.
— Che è esattamente la verità, idiota.
Polledro trasalì. — Come ha detto?
— Idiota. La sua macchina è idiota.
— Sì, assolutamente. La farò smontare all’istante e la farò rimontare come
tostapane.
Cavallina si morse un labbro, forse soffocando un sorriso. — È un inizio.
Però ne deve fare, di strada, prima che siamo pari.
— Capisco. Se ha qualche reato grave sulla sua fedina, posso cancellarlo.
Anzi, se per caso volesse sparire del tutto, potrei pensarci io. — Polledro
decise di riformulare l’ultima frase. — Be’, sembrava quasi che mi
proponessi di farla fuori, il che non è, assolutamente no. L’ultima cosa che
vorrei è farla fuori. Anzi, proprio il contrario.
Cavallina prese la borsa dalla spalliera della sedia e se la mise a tracolla sulla
camicia sfrangiata. — Mi sembra che le piacciano proprio, i contrari, signor
Polledro. E quale sarebbe il contrario di farmi uccidere?
Per la prima volta, Polledro incrociò il suo sguardo. — Renderla felice e viva
in eterno.
Cavallina fece per andarsene e Polledro pensò: Stupido somaro. Hai rovinato
127
tutto.
Invece lei si fermò alla porta e gli lanciò una ciambella di salvataggio. — In
effetti avrei una multa per divieto di sosta che ho già pagato, ma a quanto
pare i suoi macchinari ce l’hanno con me e giurano che non è così. Potrebbe
dare un’occhiata a quella faccenda.
— Nessun problema — la rassicurò Polledro. — Lo consideri fatto e
consideri anche la macchina già compattata.
— Lo racconterò alle mie amiche — disse Cavallina, che già stava uscendo
dalla stanza. — Quando le vedrò alla mostra alla Nitritional Gallery, il
prossimo fine settimana. Le piace l’arte, signor Polledro?
Polledro rimase immobile per un minuto intero dopo che lei se ne fu andata,
a fissare il punto in cui si era trovata la testa di Cavallina l’ultima volta che
aveva parlato. In seguito, aveva dovuto rivedere il nastro della sorveglianza
per assicurarsi che gli avesse dato una specie di appuntamento.
E adesso erano sposati, e Polledro si considerava l’idiota più fortunato del
mondo e, anche se la città era in piena crisi, una crisi della quale non si era
mai visto prima l’uguale nella metropoli sotterranea, non ebbe alcuna
esitazione a prendersi un momento di pausa per controllare la sua splendida
moglie, che con ogni probabilità in quel momento era a casa, in pensiero per
lui.
Cavallina, pensò. Ti raggiungerò presto.
Dal loro matrimonio, Polledro e la moglie condividevano un legame mentale
simile a quello sperimentato così spesso dai gemelli.
So che è viva, pensò.
Però non sapeva niente di più.
Poteva essere ferita, prigioniera, angosciata o in pericolo, Polledro non lo
sapeva.
E aveva bisogno di saperlo.
Il Faro che Polledro aveva inviato per controllarla era stato creato
espressamente per quello scopo e sapeva esattamente dove andare. Mesi
prima il centauro aveva dipinto un angolo del soffitto della cucina con un
laser capace di attirare l’insetto da centinaia di chilometri di distanza, se
necessario.
Polledro collegò gli impulsi provenienti dagli altri Faro alla CabOp
principale, dove Mayne poteva monitorarli, e si concentrò su Cavallina.
Volate, piccole mie, volate, ripeté tra sé.
La libellula modificata sfrecciò nel sistema d’aerazione della Centrale e da lì
nella città, saettando sopra il caos che regnava per le strade e fra i palazzi.
128
Nella piazza e nella superstrada divampavano incendi, in tutte le vie i
cartelloni pubblicitari erano ridotti a telai carbonizzati e l’acqua alluvionale
riempiva l’anfiteatro all’aperto sino alla fila H.
Può occuparsene Mayne per cinque minuti, pensò Polledro. Arrivo,
Cavallina.
Il Faro ronzò oltre la piazza centrale fino alla periferia sud, che aveva un
aspetto più rurale. C’erano boschetti di alberi geneticamente modificati e
perfino quantità controllate di creature selvatiche, che venivano monitorate
attentamente e liberate in superficie quando il loro numero raggiungeva un
livello fastidioso. Lì le abitazioni erano modeste, meno moderne
nell’architettura, e al di fuori della zona di evacuazione. Polledro e Cavallina
vivevano in un villino a livelli sfalsati con pareti di mattoni di argilla cotta e
finestre curve. I colori erano quelli autunnali, e l’arredamento era sempre
stato un po’ troppo ritorno alla natura per i gusti di Polledro, anche se lui non
si sarebbe mai sognato di farne parola.
Il centauro tirò verso di sé la tastiera virtuale e controllò con fare esperto il
piccolo insetto utilizzando coordinate numeriche, anche se sarebbe stato più
facile farlo usando un joystick o anche il controllo vocale. Era assurdo che
chi aveva la responsabilità di tante innovazioni tecnologiche continuasse a
preferire un’antica tastiera virtuale costruita con un telaio di finestra quando
era ancora all’università.
Il vasistas sopra la porta era socchiuso, perciò Polledro guidò il suo Faro
nell’atrio, arredato con arazzi appesi alle pareti che raffiguravano grandi
momenti della storia dei centauri, come la scoperta del fuoco a opera del re
Thurgood e l’accidentale scoperta della penicillina da parte dello stalliere
Zoccolo di Camoscio, il cui nome era entrato nel vernacolo popolare per
indicare una persona estremamente fortunata, per esempio: “È la seconda
volta che vince alla lotteria, quello zoccolo di camoscio!”
La libellula ronzò lungo il corridoio in cerca di Cavallina e la trovò seduta sul
suo tappetino yoga, con gli occhi fissi su un cellulare che aveva in mano.
Sembrava scossa, ma incolume, mentre faceva scorrere il menu sullo
schermo in cerca di una rete cui agganciarsi.
Non avrai fortuna, amore mio, pensò Polledro, che poi mandò un SMS
all’apparecchio della moglie direttamente dal Faro.
C’è una piccola libellula che ti guarda, diceva. Cavallina lo lesse e alzò la
testa per cercare l’insetto. Polledro impostò gli occhi su un lampeggio verde
per aiutarla.
La moglie alzò la mano e la libellula le atterrò sul dito. — Il mio
129
intelligentissimo marito — disse lei con un sorriso. — Che cosa sta
succedendo alla nostra città?
Polledro mandò un altro messaggio, riproponendosi nel frattempo di
aggiungere un altoparlante alla nuova versione dei Faro.
A casa sei al sicuro. Ci sono state grosse esplosioni, ma è tutto sotto
controllo.
Cavallina annuì. — Torni a casa presto? — chiese alla libellula.
Non tanto. La nottata potrebbe essere lunga.
— Non preoccuparti, tesoro. So che hanno bisogno di te. Spinella sta bene?
Non lo so. Abbiamo perso il contatto, ma se c’è qualcuno capace di badare a
se stessa, quella è Spinella Tappo.
Cavallina alzò un dito e la libellula le fluttuò davanti alla faccia. — Anche tu
devi badare a te stesso, Signor Consulente Tecnico.
Lo farò, messaggiò Polledro.
Cavallina prese dal tavolino una scatola con un fiocco. — Mentre ti aspetto,
aprirò questo bel regalo che mi ha mandato qualcuno, centauro romantico.
In laboratorio, Polledro provò una fitta di gelosia. Un regalo? Chi poteva
averle mandato un regalo? Ma, in breve, la gelosia lasciò il posto alla
preoccupazione. Dopotutto, quello era il giorno della grande vendetta di Opal
Koboi, e non c’era nessuno che la folletta odiasse più di lui.
Non aprirlo, digitò in fretta. Non te l’ho mandato io, e stanno succedendo
cose brutte.
Ma Cavallina non ebbe bisogno di aprire la scatola, perché questa aveva un
codice temporizzato e a DNA, e non appena l’ebbe toccata il sensore totale
sul lato scansionò il suo dito e mise in moto il meccanismo di apertura con
un ronzio. Il coperchio scattò e andò a sbattere contro il muro. Dentro… non
c’era niente. Letteralmente niente. Un vuoto nero che sembrava respingere la
luce dell’ambiente.
Cavallina scrutò nella scatola. — E questo cos’è? — chiese. — Uno dei tuoi
aggeggi? — E fu tutto quello che Polledro sentì, perché il nero, o qualunque
cosa fosse, spense il Faro, lasciando il centauro all’oscuro sulla sorte della
moglie.
— No! — urlò. — No, no!
Stava succedendo qualcosa. Qualcosa di sinistro. Opal aveva deciso di
prendere di mira Cavallina apposta per torturare lui, ne era sicuro. Il suo
complice, chiunque fosse, aveva mandato alla moglie quella scatola
apparentemente innocua, che però era ben lungi dall’esserlo; Polledro ci
avrebbe scommesso i suoi duecento e più brevetti.
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Che cosa ha fatto?, si chiese.
Il centauro fu torturato da quella domanda per circa cinque secondi, finché
Mayne non fece capolino nella stanza. — Abbiamo qualcosa dai Faro. Credo
che dovresti passarlo sul tuo schermo.
Polledro pestò uno zoccolo. — Non ora, stupido pony. Cavallina è in
pericolo.
— Devi vederlo — insistette Mayne.
Qualcosa nel tono di voce del nipote, un morso di acciaio che lasciava
intravedere che tipo sarebbe diventato, spinse Polledro ad alzare lo sguardo.
— Benissimo. Mettimi in collegamento.
Gli schermi si accesero all’istante, con riprese di Cantuccio vista da diverse
angolazioni, tutte in bianco e nero tranne per un grappolo di puntini rossi.
— I puntini rappresentano i rilevatori dei prendisonno dei goblin evasi —
spiegò Mayne. — I Faro ne rilevano le radiazioni caratteristiche, ma non
riescono ad attivarli.
— Ma questa è una buona notizia — sbottò Polledro stizzito. — Manda le
coordinate agli agenti sul territorio.
— Si muovevano a casaccio, ma qualche istante fa hanno cambiato direzione
tutti quanti, esattamente nello stesso momento.
E allora, Polledro seppe che cosa aveva fatto Opal, in che modo la sua arma
avesse superato i controlli di sicurezza: aveva usato una bomba sonica.
— E si dirigono verso casa mia — disse.
Mayne deglutì. — Esatto. E a gran velocità. Il primo gruppo sarà là in meno
di cinque minuti.
Ma ormai Mayne parlava al vento, perché Polledro galoppava già fuori dalla
porta.
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CAPITOLO 13 - UN TUFFO FORTUNATO
CASA FOWL
Myles Fowl era seduto alla scrivania di Artemis nella poltroncina da ufficio
che il fratello maggiore gli aveva regalato per il compleanno. Artemis gli
aveva raccontato che era una produzione di serie, ma in realtà proveniva da
Elf Aralto, il famoso negozio di design per elfi specializzato in mobili eleganti
ma pratici.
Myles se ne stava appollaiato lì a sorseggiare la sua bevanda preferita: succo
di açaì da un bicchiere da aperitivo. Due cubetti di ghiaccio, niente
cannuccia.
— Questa è la bibita che mi piace di più — disse, tamponandosi l’angolo
della bocca con un tovagliolo su cui era ricamato il monogramma con il
motto dei Fowl, Aurum potestas est, l’oro è potere. — Lo so perché sono di
nuovo io e non un guerriero del Popolo.
Artemis gli stava seduto di fronte in una poltrona simile, solo più grande.
— Non fai che ripeterlo, Myles. A proposito, posso chiamarti Myles?
— Sì, certo — rispose il bambino. — Perché è così che mi chiamo. Non mi
credi?
— Certo che ti credo, ometto. So riconoscere la faccia di mio fratello.
Myles giocherellava con lo stelo del suo bicchiere. — Ho bisogno di parlarti
da solo, Arty. Leale non potrebbe rimanere ad aspettare fuori per qualche
istante? Sono questioni di famiglia.
— Leale fa parte della famiglia, lo sai, fratellino.
Myles mise su il broncio. — Lo so, però è imbarazzante.
— Leale ne ha già viste di tutti i colori. Non abbiamo segreti per lui.
— Ma non potrebbe uscire soltanto per un momento?
Leale stava in silenzio alle spalle di Artemis, con le braccia conserte in un
atteggiamento aggressivo, cosa che non riesce poi così difficile se hai
avambracci grossi come prosciutti affumicati e maniche che scricchiolano
come seggiole vecchie.
— No, Myles. Leale rimane.
— Va bene, Arty, lascio decidere a te.
Artemis si appoggiò allo schienale della poltrona. — Che cosa è successo al
Berserkr che c’era dentro di te, Myles?
Il fratellino fece spallucce. — Se ne è andato. Prima mi controllava la testa,
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ma poi se ne è andato.
— E come si chiamava?
Myles roteò gli occhi, lambiccandosi il cervello. — Uhm… Gobdaw, credo.
Artemis annuì come chi conosce benissimo l’argomento Gobdaw.
— Ah, sì, Gobdaw. Ho sentito parlare di lui dai nostri amici del Popolo.
— Credo che lo chiamassero Gobdaw il Guerriero Leggendario.
Artemis ridacchiò. — Sono sicuro che gli piacerebbe che tu la pensassi così.
— Perché è vero — insistette Myles con una lieve tensione ai lati della bocca.
— Non è quello che abbiamo saputo noi, vero, Leale?
Leale non reagì né fece il minimo gesto, ma in qualche modo diede
l’impressione di rispondere in maniera negativa.
— No — continuò Artemis. — Quello che abbiamo saputo dalle nostre fonti
nel mondo del Popolo è che questo Gobdaw era una barzelletta, per dirla
tutta.
Le dita di Myles stridettero sul collo del bicchiere. — Barzelletta? E chi lo
dice?
— Tutti — rispose Artemis, aprendo il portatile e controllando qualcosa sullo
schermo. — Sta scritto in tutti i libri di storia del Popolo. Ecco qua, guarda.
Gobdaw il Grandissimo Grullo, così lo chiamano, carina l’allitterazione. E
qui c’è un altro articolo in cui si parla del tuo amico guerriero come di
Gobdaw il Puzzoverme, che credo sia un termine usato per descrivere una
persona che si prende la colpa di tutto. Noi umani lo chiameremmo capro
espiatorio.
Adesso Myles aveva le guance arrossate. — Puzzoverme? Puzzoverme, hai
detto? Ma perché mi… perché chiamerebbero Gobdaw puzzoverme?
— È una storia triste, patetica, ma a quanto pare è stato proprio questo tipo,
Gobdaw, a convincere il suo capo a far sì che tutta la squadra dei Berserkr
venisse sepolta attorno a una porta.
— Sì, ma era una porta magica — ribatté Myles. — Che proteggeva gli
elementi del Popolo.
— Già, questo è quello che gli avevano raccontato, ma in realtà la porta non
era nient’altro che un mucchietto di sassi, una deviazione che non conduceva
da nessuna parte. I guerrieri hanno sprecato diecimila anni a fare la guardia ai
sassi.
Myles si premette una mano sugli occhi. — No. Non è… no. L’ho visto, nei
ricordi di Gobdaw. La porta è autentica.
Artemis rise piano.
— Gobdaw il Grandissimo Grullo. Che crudeltà. Ci hanno fatto anche una
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canzoncina, sai?
— Una canzoncina? — chiese Myles con voce stridula, e i bambini di quattro
anni di solito non hanno la voce stridula.
— Ah, sì, una filastrocca. Vuoi sentirla?
Myles sembrava fare la lotta con la propria faccia. — No. Sì, dimmelo.
— Benissimo, fa così. — Artemis si schiarì teatralmente la voce.
Gobdaw, il grullo,
che grande citrullo,
di guardia a un ammasso
di sterpi e di sasso.
Artemis nascose un sorriso con una mano. — I bambini sanno essere così
crudeli.
Myles cedette, e in due modi. Prima cedette la sua pazienza, rivelando che in
effetti era Gobdaw, e poi fu lo stelo del bicchiere a cedere sotto le sue dita,
trasformandosi in un’arma letale.
— Morte agli umani! — strillò in gnomico, saltando sulla scrivania e
avventandosi su Artemis.
Nel combattimento, a Gobdaw piaceva visualizzare i colpi appena prima di
eseguirli, trovava che lo aiutasse a concentrarsi. Perciò nella mente saltò con
grazia dal bordo della scrivania, atterrò sul petto di Artemis e gli affondò lo
stiletto di vetro nel collo. In tal modo avrebbe conseguito il doppio effetto di
uccidere il Fangosetto e anche di farsi una bella doccia di sangue arterioso, il
che lo avrebbe aiutato ad assumere un aspetto un po’ più terrificante.
In realtà, però, le cose andarono in modo leggermente diverso. Leale allungò
un braccio e afferrò Gobdaw a metà del salto, gli strappò lo stelo di vetro dal
pugno e poi imprigionò saldamente il bambino tra le sue braccia robuste.
Artemis si sporse in avanti sulla poltrona. — C’è anche una seconda strofa
— gli disse. — Ma forse questo non è il momento.
Gobdaw si divincolava come un matto, ma era stato completamente
neutralizzato. Preso dalla disperazione, provò con il fascino. — Adesso
ordinerai a Leale di liberarmi — intonò.
Artemis era divertito. — Ne dubito proprio — disse. — Ti rimane magia solo
per tenere sotto controllo Myles.
— Allora ammazzami e falla finita — intimò Gobdaw senza il minimo
tremito nella voce.
— Non posso uccidere mio fratello, perciò ho bisogno che tu esca dal suo
corpo senza fargli male.
Gobdaw ghignò. — Non è possibile, umano. Se vuoi avermi, devi far fuori il
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ragazzo.
— Sei male informato — ribatté Artemis. — C’è un modo per esorcizzare la
tua anima combattiva senza danneggiare Myles.
— Voglio proprio vederti — disse Gobdaw con forse un accenno di dubbio
negli occhi.
— Ogni tua parola è un ordine eccetera eccetera — rispose Artemis
premendo un pulsante sull’interfono. — Portalo dentro Spinella, per piacere.
La porta dello studio si spalancò e un barile rotolò nella stanza,
apparentemente da solo, finché dietro di esso non apparve l’elfa.
— Non mi piace, Artemis — disse Spinella nel ruolo dello sbirro buono
concordato in precedenza. — Questa è roba pericolosa. L’anima di una
persona potrebbe non raggiungere mai l’aldilà intrappolata in questa poltiglia.
— Elfa traditrice — sbottò Gobdaw scalciando. — Stai dalla parte degli
umani.
Spinella fece rotolare il barile fino al centro dello studio e lo parcheggiò sul
pavimento, non su uno dei preziosi tappeti afghani che Artemis insisteva
sempre a descrivere nei minimi dettagli storici ogni volta che lei veniva a
trovarlo lì.
— Io sto dalla parte della Terra — ribatté, incrociando lo sguardo di
Gobdaw. — Tu sei rimasto sepolto per diecimila anni, guerriero. Le cose
sono cambiate.
— Ho consultato i ricordi del mio ospite — disse Gobdaw stizzito. — Gli
umani sono quasi riusciti a distruggere l’intero pianeta. Le cose non sono
cambiate così tanto.
Artemis si alzò e andò a sollevare il coperchio del barile. — E vedi anche una
navetta spaziale che spara bolle dal tubo di scarico?
Gobdaw lambiccò rapidamente il cervello di Myles. — Sì, sì, la vedo. È
d’oro, giusto?
— Quello è uno dei progetti sognati da Myles — spiegò lentamente Artemis.
— Solo un sogno. Il jet a bolle. Se frughi un po’ meglio nella fantasia di mio
fratello, troverai un pony robotico che fa i compiti e una scimmia che ha
imparato a parlare. Il ragazzino che controlli è molto intelligente, Gobdaw,
ma ha solo quattro anni. A quell’età il confine fra realtà e immaginazione è
molto sottile.
Il petto di Gobdaw si sgonfiò man mano che trovava tutti quegli oggetti nel
cervello di Myles. — Perché mi dici questo, umano?
— Voglio che tu capisca di essere stato ingannato. Opal Koboi non è la
salvatrice che finge di essere. È un’assassina condannata ed evasa di
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prigione. Vorrebbe mandare a monte diecimila anni di pace.
— Pace! — esclamò Gobdaw, che poi latrò una risata. — Umani pacifici?
Anche sepolti sotto terra avvertivamo la vostra violenza. — Si agitò fra le
braccia di Leale, un Artemis in miniatura con i capelli neri e l’abito scuro. —
E questa la chiami pace?
— No, e mi scuso per il trattamento che devi subire, però rivoglio mio
fratello. — Artemis fece un cenno a Leale, che issò Gobdaw sopra il barile
aperto. Il piccolo guerriero rise.
— Sono rimasto sotto terra per millenni. Credi davvero che a Gobdaw faccia
paura l’idea di essere imprigionato in un barile?
— Ma non sarai imprigionato. Tutto quello che serve è un rapido tuffo.
Gobdaw abbassò lo sguardo sui piedi ciondoloni: il barile era pieno di un
viscoso liquido bianco con una pellicola in superficie.
Spinella voltò le spalle. — Non voglio vedere, so che cosa si prova.
— Che cos’è? — chiese il Berserkr nervosamente mentre dall’aura di quella
roba si levava un’ondata di nausea fredda a lambirgli i piedi.
— Questo è un regalino di Opal — spiegò Artemis. — Qualche anno fa ha
rubato i poteri di uno stregone usando proprio quel barile. Io lo avevo tenuto
da parte in cantina perché non si sa mai, giusto?
— Che cos’è? — ripeté Gobdaw.
— Uno dei due inibitori naturali della magia — spiegò il ragazzo. — Grasso
animale fuso. Una roba disgustosa, lo ammetto, e mi dispiace davvero di
doverci infilare dentro mio fratello, perché lui adora quelle scarpe. Un tuffo,
e il grasso fuso ti intrappola l’anima. Myles ne esce intatto e tu rimani
trattenuto nel Limbo per l’eternità. Non è esattamente la ricompensa che ti
saresti aspettato per il tuo sacrificio.
Qualcosa sfrigolò nel barile, scatenando piccole scariche elettriche. — Ma
che accidente è? — stridette Gobdaw con la voce di un’ottava più acuta per il
panico.
— Oh, quello è il secondo inibitore naturale della magia. Ho chiesto al mio
amico nano di sputarci dentro, giusto per dargli un po’ di brio.
Gobdaw riuscì a liberare un braccio e a picchiarlo contro il bicipite di Leale,
ma per il risultato che ne ricavò avrebbe anche potuto prendere a pugni un
macigno. — Non ti dirò niente — disse con il mento che tremava.
Artemis tenne stretti gli stinchi di Gobdaw in modo da puntarli dritti dentro il
barile. — Lo so. Myles mi dirà tutto fra un momento. Mi dispiace doverti fare
questo, Gobdaw. Sei stato un guerriero valoroso.
— Non Gobdaw il Grandissimo Grullo, quindi?
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— No — ammise Artemis. — Me lo sono inventato per costringerti a rivelare
la tua identità. Dovevo avere la certezza.
Spinella spintonò via Artemis con una gomitata. — Berserkr, ascoltami. So
che sei vincolato a Opal e non puoi tradirla, ma questo umano entrerà nel
barile in un modo o nell’altro. Perciò leva le tende dal suo corpo e passa
nell’aldilà. Non c’è nient’altro che tu possa fare qui. Questa non è una fine
che si conviene a un possente guerriero.
Gobdaw si accasciò tra le braccia di Leale. — Diecimila anni. Così tante vite.
Spinella gli sfiorò la guancia.
— Hai fatto tutto ciò che ti era richiesto. Riposare ora non è tradimento.
— Forse l’umano si sta prendendo gioco di me e questo è tutto un bluff.
Spinella rabbrividì. — Il barile non è un bluff. Opal mi ci ha imprigionato
dentro, una volta. È stato come se mi si atrofizzasse l’anima. Salvati, ti prego.
Artemis fece un cenno verso Leale. — Benissimo, basta indugi. Buttalo
dentro.
Leale spostò la presa sulle spalle di Gobdaw e cominciò a calarlo lentamente.
— Aspetta, Artemis! — gridò l’elfa. — Questo è un eroe del Popolo.
— Mi dispiace, Spinella, ma non c’è più tempo.
Le punte delle dita dei piedi di Gobdaw toccarono il grasso, e subito viticci di
vapore gli si avvinghiarono attorno alle braccia. In quell’istante comprese che
non era un bluff: la sua anima sarebbe rimasta imprigionata per sempre in
quella poltiglia.
— Perdonami, Oro — disse, volgendo gli occhi al cielo.
Lo spirito di Gobdaw si allontanò da Myles e fluttuò in aria, impresso
nell’argento. Rimase sospeso per diversi istanti, apparentemente confuso e in
ansia, finché una goccia di luce non gli fiorì in petto e incominciò a roteare
come un piccolo ciclone.
A quel punto Gobdaw sorrise, e il dolore di secoli gli scivolò via dalla faccia.
La luce diventava sempre più grande a ogni rotazione, allargando le sue
increspature fino a inghiottirgli gli arti, il tronco e infine il volto, che al
momento del passaggio aveva un’espressione che si può definire solamente
estatica.
Per chi lo osservava, fu impossibile guardare quel volto spettrale senza
provare un po’ di invidia.
L’estasi, pensò Artemis. Raggiungerò mai quello stato?
Myles mandò all’aria quel momento scalciando furiosamente e facendo
schizzare gocce di grasso.
— Artemis! Tirami fuori di qui! — gli ordinò. — Questi sono i miei
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mocassini preferiti!
Artemis sorrise: il suo fratellino aveva ritrovato il controllo della propria
mente.
Myles non volle parlare finché non ebbe pulito le scarpe con uno straccio
umido.
— Quell’elfa mi ha sporcato le scarpe di fango — brontolò, sorseggiando un
secondo bicchiere di succo di açaì. — Sono mocassini di capretto, Arty.
— Un tipetto precoce, n’est-ce pas? — bisbigliò Artemis a denti stretti.
— Senti chi parla, c’est plus facile — bisbigliò di rimando Leale.
Artemis prese in braccio Myles e lo mise seduto sul bordo della scrivania. —
Benissimo, ometto. Ho bisogno che adesso tu mi dica tutto quello che ricordi
della tua possessione. Presto i ricordi incominceranno a dissiparsi. Il che
vuol dire…
— So che cosa vuol dire dissiparsi, Arty. Non ho mica tre anni, sai?
Spinella sapeva per lunga esperienza che inveire contro Myles e Artemis non
sarebbe servito ad accelerare le cose, ma sapeva anche che l’avrebbe fatta
stare meglio. E in quel momento si sentiva depressa e sporca per il
trattamento che aveva dovuto infliggere a uno dei guerrieri più illustri del
Popolo. Inveire contro i Fangosetti poteva essere proprio quello che le ci
voleva per tirarsi su di morale.
Decise per un pungolamento di medio livello. — Non potreste darvi una
mossa? Questa operazione non prevede nessun time-out. Presto sarà mattina.
Myles la salutò con un gesto della mano. — Ciao, elfa. Hai una voce buffa.
Hai mica respirato dell’elio? L’elio è un gas monoatomico inerte, fra
parentesi.
Spinella sbuffò. — Oh, è proprio tuo fratello. Ci servono tutte le
informazioni che ha nella testa, Artemis.
Il ragazzo annuì. — Benissimo. Ci sto lavorando. Myles, che cosa ti ricordi
della visita di Gobdaw?
— Mi ricordo tutto — rispose orgoglioso il bambino. — Ti piacerebbe
sentire il piano di Opal per distruggere l’umanità o come progetta di aprire la
seconda serratura?
Artemis lo prese per mano. — Ho bisogno di sapere tutto, Myles. Comincia
dal principio.
— Comincerò dal principio, prima che i ricordi inizino a dissiparsi.
Myles raccontò tutto quanto in un linguaggio di una decina d’anni in anticipo
sulla sua età. Non divagò dal punto e non fece confusione, e nemmeno parve
mai preoccupato per il proprio futuro, e questo perché Artemis aveva
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ripetuto spesso al suo fratellino che alla lunga l’intelligenza vince sempre, e
che al mondo non c’era nessuno più intelligente dello stesso Artemis.
Purtroppo, in seguito agli eventi delle ultime sei ore, Artemis non nutriva in
quella massima la solita fiducia. E, man mano che Myles procedeva con il
suo racconto, cominciò a credere che perfino la sua intelligenza non sarebbe
bastata per garantire un lieto fine al pasticcio in cui erano finiti.
Forse possiamo farcela, pensò. Però non ci sarà nessun lieto fine.
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CAPITOLO 14 - I NOVE BASTONI
CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
Polledro non aveva in mente questo gran piano. Tutto quello che sapeva
mentre galoppava era che in un modo o nell’altro doveva raggiungere
Cavallina. A qualunque costo.
È questo che fa l’amore, si rese conto, e in quel momento comprese perché
Artemis avesse rapito un elfo per trovare i soldi per salvare il padre.
L’amore fa apparire irrilevante ogni altra cosa, si disse.
Anche con il mondo che cadeva a pezzi attorno a lui, non riusciva a pensare
ad altro che al pericolo che correva la moglie.
Ci sono goblin criminali che puntano sulla nostra casa, si ripeteva.
Opal sapeva che, in quanto consulente della LEP, Polledro avrebbe preteso
che d’abitudine tutte le consegne a casa sua venissero passate ai raggi X,
perciò aveva mandato un elaborato pacco regalo che agli scanner sarebbe
apparso vuoto, mentre di fatto nessuna scatola può mai essere veramente
vuota. Quella doveva essere piena di microrganismi che vibravano ad alta
frequenza e producevano un ronzio ultrasonico che avrebbe messo fuori
gioco la sorveglianza e fatto impazzire i goblin, tanto da indurli a fare
qualunque cosa pur di metterlo a tacere.
Anche nelle condizioni migliori, i goblin non erano creature sveglie. In
passato si era registrato un solo caso di un goblin capace di vincere un
premio scientifico, che si era poi rivelato un esperimento genetico che si era
iscritto alla gara.
La bomba sonica avrebbe cancellato ogni funzione cerebrale superiore dei
goblin e li avrebbe trasformati in rettili predatori sputafuoco. Polledro lo
sapeva perché aveva proposto una versione in miniatura della bomba sonica
alla LEP come deterrente anticrimine, ma il Consiglio aveva rifiutato di
sovvenzionarla perché quell’apparecchio provocava epistassi in chi lo
indossava.
La Centrale era stata abbattuta ormai per l’ottanta per cento. Rimaneva in
piedi solo l’ultimo piano, abbarbicato alla roccia come una patella. I piani
inferiori erano crollati sui parcheggi riservati sottostanti, formando una
piramide di detriti fumante che mandava scintille. Per fortuna, il ponte
coperto che portava al parcheggio contiguo era ancora relativamente intatto.
Polledro si affrettò ad attraversarlo, cercando di non vedere i varchi nella
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pavimentazione dove avrebbe potuto infilarsi uno zoccolo e di non sentire il
lamento stridente dei puntoni di metallo che si torcevano sotto il peso di quel
carico eccessivo.
Non guardare giù. Visualizzati sano e salvo dall’altra parte, si ripeteva.
Mentre correva, intere sezioni del ponte crollarono alle sue spalle come
tessere di un domino. La porta automatica sull’altro lato era bloccata da un
danneggiamento nella rotaia e continuava a sobbalzare, lasciando a malapena
spazio perché Polledro potesse infilarcisi in mezzo e poi crollare ansante sul
pavimento del quarto piano.
È melodrammatico, pensò. Ma Spinella se la passa così ogni giorno?
Spronato dal crollo dei muri e dal tanfo di macchine bruciate, il centauro
attraversò di corsa il parcheggio per raggiungere il suo furgone, fermo in un
posto preferenziale vicino al marciapiede. Il furgone era un vecchio catorcio
che poteva facilmente essere scambiato per un trabiccolo abbandonato
anziché il mezzo di trasporto di elezione del responsabile della maggior parte
dei progressi tecnologici della città. Se qualcuno avesse saputo chi ne era il
vero proprietario sarebbe probabilmente stato indotto a credere che Polledro
ne avesse camuffato l’esterno per scoraggiare potenziali ladri d’auto. E invece
no, il furgone era solo un mucchio di ferraglia arrugginito che aspettava di
essere sostituito da decenni. Come molti arredatori non si occupano mai delle
proprie abitazioni, Polledro, un esperto in progressi automobilistici, non si
curava di quello che guidava, e questo costituiva quotidianamente uno
svantaggio in quanto la centauromobile aveva un’emissione di rumori di
diversi decibel oltre il consentito e faceva regolarmente scattare gli allarmi
sonori di tutta la città. Quel giorno, però, il furgone malandato era
decisamente un vantaggio, essendo uno dei pochi veicoli in grado di marciare
in maniera indipendente dal sistema di rotaie magnetiche automatizzato di
Cantuccio e pertanto perfettamente operativo.
Polledro aprì con il telecomando la portiera anteriore e indietreggiò fino alla
cabina, in attesa che la imbracatura estensibile sbucasse a imbrigliargli il torso
equino. I finimenti gli si agganciarono attorno con un bip continuo, quindi lo
issarono a bordo. Quando la portiera ad ala di pipistrello si fu richiusa, i
sensori rilevarono la presenza del centauro e avviarono il motore. Gli erano
occorsi un paio di secondi per salire e avviare il veicolo, ma gli ci sarebbe
voluto molto di più per cercare di salire in una macchina con sei arti e una
coda, che alcuni equinologi consideravano un settimo arto o quanto meno
un’appendice.
Polledro estrasse il volante dallo scomparto nel cruscotto e appoggiò lo
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zoccolo sul metallo, uscendo dal parcheggio con un grido.
— A casa! — urlò al navigatore satellitare sospeso davanti al viso con una
pitoncorda. In un momento di vanità, aveva sagomato il monitor a propria
immagine.
— Il solito percorso, bellissimo? — gli chiese il sistema con un
ammiccamento affettuoso.
— Negativo — rispose Polledro. — Ignora la velocità normale e i parametri
di sicurezza, l’importante è arrivare sul posto il più in fretta possibile. Tutti i
limiti comportamentali consueti sono annullati per mio ordine.
Se il navigatore avesse avuto le mani, se le sarebbe sfregate. — Era un bel
po’ che aspettavo di sentirlo — disse, prendendo il controllo del veicolo.
Nella meravigliosa scatoletta intarsiata che Cavallina teneva tra le mani stava
succedendo qualcosa. Sembrava che all’interno si stesse accumulando una
minuscola nuvola temporalesca. Quell’affare vibrava come un alveare, anche
se non produceva il benché minimo rumore. Però qualcosa c’era, una
sensazione che la faceva rabbrividire e le faceva lacrimare gli occhi, come
unghie invisibili che graffiassero una lavagna mentale.
Pazzesco, lo so, ma è così che mi sento, si disse.
Scagliò il contenitore lontano, ma non prima che la nuvoletta ne fuoriuscisse
e le si posasse sulla mano. La scatola rotolò sotto il tavolino del soggiorno –
un gigantesco fungo pietrificato che una volta Spinella aveva definito “un tale
stereotipo che mi metterei a urlare” – e rimase là, a emettere qualsiasi cosa
fosse quella che stava logorando i nervi a Cavallina.
— Che succede, tesoro? — si voltò a chiedere al piccolo Faro, ma lo trovò
morto sul pavimento con un filo di fumo che si levava in aria dalla testa.
È stata la scatola, suppose. Qualunque cosa fosse, non gliel’aveva mandata
Polledro, perché aveva qualcosa di sbagliato. E adesso quello sbaglio era
sulla sua mano. Non che Cavallina fosse un centauro schizzinoso, ma
avvertiva un senso di pericolo che le faceva quasi cedere le zampe.
Sta per succedere qualcosa di brutto. Anche peggio di tutte le brutte cose che
sono già accadute oggi, pensò.
Molti membri del Popolo sarebbero crollati sotto il peso di circostanze così
nefaste, ma se l’universo si aspettava una reazione simile da Cavallina
Wanderford Paddox Polledro, allora l’universo avrebbe avuto una bella
sorpresa, perché una delle caratteristiche della centaura che aveva attirato
Polledro era stato il suo spirito combattivo, uno spirito che non alimentava
certo solo con la forza del pensiero positivo. Cavallina aveva raggiunto il
142
livello di fusciacca blu nell’antica arte marziale dei Nove Bastoni, che
comprendeva tra le armi anche la testa e la coda. Spesso si allenava con
Spinella Tappo nella palestra della LEP, e anzi, una volta, ripensando tutto a
un tratto a un suo ex, aveva involontariamente scalciato la piccola elfa al di là
di una parete di carta di riso.
Cavallina trottò a un alto armadio chiuso a chiave in camera da letto e gli
ordinò di aprirsi. Dentro c’era la sua fusciacca blu, che si affrettò a
drappeggiare intorno al petto. Se i suoi aggressori erano già per strada, la
fusciacca non avrebbe avuto alcuna utilità pratica. Quella che le sarebbe
tornata utile sarebbe stata la flessibile canna di bambù lì accanto, che fendeva
l’aria con un sibilo e, nelle mani giuste, poteva spellare la schiena di un troll.
Avere la canna nel palmo la tranquillizzò, e Cavallina finì per sentirsi un po’
sciocca in perfetta tenuta da Nove Bastoni.
Non succederà niente di brutto. È solo una reazione eccessiva, la mia, pensò.
E poi la porta di casa esplose.
Il sistema di navigazione di Polledro guidò all’impazzata, schiamazzando con
una felicità che il centauro non ricordava di avere inserito nel suo
programma. E anche se era angosciato da visioni da incubo di Cavallina nelle
grinfie di goblin sputafuoco, non poté fare a meno di notare la devastazione
fuori dal finestrino: intravedeva nubi di denso fumo e lampi arancioni e blu
mentre il suo furgone vi sfrecciava accanto. Agenti della LEP smuovevano i
detriti in cerca di sopravvissuti e colonne di fumo si levavano da una decina
di punti di riferimento familiari.
— Vacci piano — disse, picchiando il monitor del navigatore. — Se arriverò
morto non sarò di nessun aiuto per Cavallina.
— Calmati, amico — rispose la testolina. — Non saresti di grande aiuto
comunque. Cavallina conosce i Nove Bastoni. Che cosa pensi di fare?
Lanciare una tastiera?
Amico?, pensò Polledro rimpiangendo di avere inserito nel navigatore un
chip sperimentale di personalità e rimpiangendo ancora di più che il chip non
avesse la sua, di personalità. Però aveva ragione: che cos’avrebbe potuto
fare? Se Cavallina fosse rimasta uccisa nel tentativo di salvarlo, sarebbe stata
una vera tragedia. D’un tratto Polledro si sentì come un bagnino con la fobia
dell’acqua. Sarebbe stato utile, nella situazione?
Il navigatore parve leggergli la mente, il che era impossibile, ma Polledro
decise di brevettarlo nel caso in cui avesse accidentalmente inventato un
robot telepatico. — Devi sfruttare i tuoi punti di forza, amico — gli disse.
Ma certo, pensò Polledro. I miei punti di forza. Ma quali sono? E dove
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stanno?
Stavano, ovviamente, sul retro del furgone, dove aveva immagazzinato un
migliaio di esperimenti e pezzi di ricambio quasi finiti e quasi legali.
Riflettendoci sopra, il centauro si rese conto che in quel furgone c’erano cose
che avrebbero potuto aprire un varco nel flusso temporale se si fossero
scontrate, ragione per cui molto tempo prima aveva deciso di non pensarci
troppo su, perché l’alternativa sarebbe stata svuotare il veicolo.
— Tu pensa a guidare — ordinò al navigatore; sgusciò fuori dall’imbracatura
e passò dalla cabina al vano di carico. — Devo dare un’occhiata qua dietro.
— Attento alla testa, amico — rispose allegro il monitor un attimo prima di
affrontare a suon di scrolloni un ponte a schiena d’asino fuori da uno studio
dentistico per folletti a forma di gigantesco molare.
Quel chip di personalità dev’essere guasto, pensò Polledro. Io non sarei mai
così spericolato, e non mi sognerei mai di chiamare qualcuno “amico”.
Quando la porta di casa esplose, la reazione di Cavallina fu furiosa. Prima di
tutto perché il portone era di palissandro antico e proveniva dal Brasile, e in
secondo luogo perché era comunque già aperto e solo un idiota avrebbe
sentito il bisogno di far saltare in aria qualcosa che era già socchiuso. Adesso
avrebbero dovuto sostituirlo e non sarebbe più stato lo stesso, anche se si
fossero recuperati tutti i frammenti.
Cavallina si precipitò in ingresso, dove trovò un goblin impazzito che
strisciava carponi con sbuffi di fumo che gli uscivano dalle narici piatte e la
testa da lucertola che ciondolava di lato come se avesse dentro un calabrone.
— Come osi! — urlò, rifilando a quella rettilesca creatura un colpo tale sulla
tempia da farla schizzare letteralmente fuori dalla pelle prossima alla muta.
Ce l’ho fatta, pensò, convinta che l’assalto fosse finito. Ma un secondo
goblin apparve sull’uscio annerito con la testa ciondoloni, alla stessa
sconcertante maniera del primo. Altri due incominciarono a grattare alla
finestra, e qualcosa prese a raspare nel bidone della spazzatura.
Non dirmelo. Un altro goblin, si disse.
Cavallina diede le spalle al goblin sull’uscio e gli sferrò un calcio con le
zampe posteriori, facendogli uscire uno sbuffo di fumo dalla bocca aperta e
spedendolo in volo all’indietro oltre il muro di cinta come se fosse stato
appeso a un elastico per bungee jumping. Allo stesso tempo, aprì dei buchi
nella finestra con due colpi ben assestati della sua canna di bambù e scacciò i
goblin dal davanzale, che era appena stato ridipinto. Attraverso il vetro
crepato ne vide decine di altri convergere sulla proprietà e avvertì qualcosa di
molto simile al panico vero.
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Spero che Polledro non venga a casa, pensò, piegando le ginocchia in posa
da combattimento. Non credo che riuscirei a salvare entrambi.
Polledro frugava nel retro del furgone in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa,
che potesse salvare la sua amata.
Anche se potessi chiedere aiuto, pensò, sono tutti immersi fino al collo in
qualche disastro. Tocca a me.
Il furgone era un’accozzaglia di cianfrusaglie, sui ripiani erano impilate
custodie di computer, barattoli di campioni, incubatrici, alimentatori e parti
del corpo bioniche.
Niente armi. Neppure una pistola, si rese conto.
Scovò un barattolo di occhi bioibridi che lo fulminarono e un campione di
un qualche liquido che non ricordava di avere messo via.
— Trovato niente? — gli chiese il navigatore da un altoparlante al gel
installato su un pannello a parete.
— Non ancora — replicò Polledro. — Quanto manca?
— Due minuti — rispose il navigatore.
— Non riesci a fare prima?
— Potrei, se investissi un paio di pedoni qua e là.
Il centauro prese seriamente in considerazione l’idea. — No, meglio di no.
Non c’era un cannone al plasma qui dietro, da qualche parte?
— No, lo hai donato all’orfanotrofio.
Polledro non perse tempo a chiedersi perché mai avesse donato un cannone
al plasma a un orfanotrofio, e continuò a scavare in quell’accozzaglia di roba.
Se avessi un’ora di tempo potrei mettere insieme qualcosa, ma due minuti…,
pensò.
Fibre ottiche. Rovesciatori. Bamboline voodoo. Macchine fotografiche.
Niente di utile.
Sul fondo del furgone trovò un’obsoleta batteria magica a ioni di litio che
avrebbe dovuto buttare da anni. Accarezzò affettuosamente il grosso cilindro.
Con una serie di voialtre abbiamo attivato quella famosa stasi temporale a
Casa Fowl, pensò.
Si fermò di botto. Una stasi temporale!
Poteva fermare il tempo, e dentro tutti sarebbero rimasti bloccati finché la
batteria non si fosse scaricata. Però le stasi richiedevano calcoli complessi e
vettori di precisione, non se ne poteva eseguire una in periferia.
Di solito no. Queste però non sono circostanze normali, si disse.
Doveva rimanere concentrato. Quasi magia pura, con un diametro non più
grande della casa.
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— Vedo che guardi la batteria magica — disse il navigatore. — Non starai
pensando di attivare una stasi temporale, vero, amico? Ti occorrerebbe una
decina di permessi.
Polledro sincronizzò il timer della batteria con il navigatore, una cosa che
Spinella non avrebbe saputo fare neppure in un milione di anni.
— Io no — disse. — Io non lo farò. Lo farai tu.
Cavallina si era bruciacchiata la pelle e aveva segni di morsi sulle zampe
posteriori, ma non intendeva arrendersi. Ormai era circondata da una decina
di goblin che addentavano l’aria con gli occhi fuori dalle orbite, resi folli da
qualcosa. Altri erano sul tetto e si facevano strada a morsi, e non c’era porta
o finestra in cui non vi fosse un ammasso di corpi che si contorcevano.
Non ho potuto dirgli addio, rifletté, decisa ad abbattere il maggior numero
possibile di quei rettili prima che loro la seppellissero sfruttando la
superiorità numerica.
Addio, Polledro, ti amo, pensò, sperando che il suo sentimento riuscisse a
raggiungerlo in un modo o nell’altro. E poi, suo marito si schiantò con il
furgone sul lato della casa.
Il navigatore comprese le istruzioni all’istante. — È un piano folle —
osservò. — Però è quello che farei io.
— Bene — disse Polledro, sistemandosi nell’imbracatura del sedile del
passeggero. — Perché lo farai tu.
— Ti voglio bene, amico — gli disse l’apparecchietto con una lacrima
gelatinosa che gli colava sulla guancia.
— Calmati, programma — gli ordinò Polledro. — Ci rivediamo fra un
minuto.
Cavallina non riuscì a comprendere davvero che cosa accadde subito dopo
finché la sua mente non ebbe il tempo di scorrere le immagini. Il furgone da
lavoro di suo marito squarciò la casa abbattendo una decina di goblin. La
portiera del guidatore si aprì con l’imbracatura allungata, e Cavallina non
ebbe il tempo di registrare il fatto che già si sentì sollevare, tirare all’indietro
e abbattere a faccia in giù nella nicchia per il posteriore.
— Ciao, tesoro — la salutò Polledro con un’allegria prontamente smentita
dal sudore nervoso sulla fronte.
L’asse del furgone andò in pezzi mentre il retro frenava e il davanti si
piantava nel muro di fronte.
— La mia casa! — gridò Cavallina, mentre calcinacci piovevano contro le
portiere e scintille schizzavano sul parabrezza.
Polledro aveva programmato di usare i comandi manuali nella cabina per
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arrestarla gradualmente a distanza di sicurezza dall’edificio, ma le vetture
malandate sono imprevedibili, e quella rotolò su un fianco e schizzò in
cortile, affondando la ruota nella fossa di riciclaggio di famiglia dove erano
conservati parecchi antenati di Polledro.
Sul momento i goblin rimasero confusi, poi i loro poveri sensi torturati
rilevarono l’odiata firma sonica sulla mano di Cavallina e voltarono la testa
verso la cabina del furgone. Sulla casa erano ormai talmente numerosi che
sembrava una creatura gigantesca ricoperta di scaglie verdi. Tutti gonfiarono
il petto per scagliare una palla di fuoco.
— Bel salvataggio, peccato che non sia stato un successo completo —
osservò Cavallina. — Però ho apprezzato il gesto.
Il marito l’aiutò a tirarsi su. — Aspetta a dirlo.
Prima che una sola sfera di fuoco avesse il tempo di partire, dal retro del
furgone uscì un lampo di magia blu che schizzò in alto per sei metri per poi
aprirsi in una semisfera di ectoplasma gelatinoso che ricadde ordinatamente
sulla casa.
— Ritiro tutto — disse Cavallina. — È stato un salvataggio spettacolare.
Polledro aveva appena chiuso la mano di Cavallina in un guanto isolante e
rassicurato i vicini accorsi che l’emergenza era superata che la stasi si esaurì
mettendo in mostra un folto gruppo di docili goblin.
— Polledro! — gridò Cavallina. — Il campo di forza blu è esaurito.
— Non preoccuparti. Era la tua mano a farli impazzire, ma ho smorzato il
segnale. Adesso siamo al sicuro.
Cavallina protesse il marito con il proprio corpo, mentre i goblin si
allontanavano confusi dalle rovine della casa.
— Sono comunque dei criminali, Polledro.
— Hanno fatto il loro tempo. Quella era una stasi temporale concentrata.
Pura quasi al cento per cento. Cinque secondi per noi sono stati cinque anni
per loro.
— E perciò sono riabilitati? — volle sapere Cavallina.
Polledro si fece strada tra i piccoli fuochi e i mucchietti di macerie, tutto ciò
che rimaneva della sua casa.
— Non potranno mai esserlo più di così — disse, guidando quei goblin
confusi verso i pilastri della porta che ancora resistevano. — Andatevene a
casa — li invitò. — Tornate dalle vostre famiglie.
Del vano di carico del furgone non rimaneva granché, solo l’ossatura dello
chassis e dei cerchioni a pezzi. Polledro infilò la testa nel telaio della portiera
e una voce gli disse: — Amico, mi sei mancato. Quanto tempo. Come ce la
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siamo cavata?
Polledro sorrise e diede una pacca al navigatore. — Ce la siamo cavata bene
— rispose, e poi aggiunse: — Amico.
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CAPITOLO 15 - ALLERTA GRILLO
CASA FOWL
Dopo la dura prova con Gobdaw, Myles si sentì improvvisamente spossato e
fu messo a letto con la sua copia laminata della tavola periodica stretta al
petto.
— La possessione può essere davvero faticosa — osservò Spinella. —
Credimi, io lo so. Domattina starà benissimo.
I tre erano seduti attorno alla scrivania di Artemis come un consiglio di
guerra, cosa che in effetti era.
Leale fece l’inventario. — Siamo in due a combattere e non disponiamo
neppure di un’arma.
Artemis si sentì in dovere di obiettare. — Posso battermi anch’io, se
necessario. — Ma non fu convincente neppure per se stesso.
— Per Bombarda dobbiamo presumere il peggio — continuò l’eurasiatico,
ignorando il fiacco commento del ragazzo. — Per quanto, bisogna ammettere
che quel nano ha un modo alquanto spettacolare di farsi gioco della morte.
— Qual è il nostro obiettivo, con precisione? — volle sapere Spinella.
La domanda era rivolta ad Artemis, il pianificatore. — La Porta dei Berserkr.
Dobbiamo chiuderla.
— Che cosa facciamo? Scriviamo una letteraccia?
— Le armi normali non penetreranno la magia di Opal, anzi, lei ne
assorbirebbe l’energia. Però, se avessimo un superlaser, quello potrebbe
bastare a sovraccaricare la porta. Sarebbe come spegnere un incendio con
un’esplosione.
Spinella si picchiettò le tasche. — Be’, sai una cosa? Credo di avere lasciato il
mio superlaser a casa.
— Neppure tu puoi costruire un superlaser in un’ora — disse Leale,
chiedendosi perché Artemis avesse sollevato la questione.
Per qualche motivo, di colpo il ragazzo assunse un’espressione colpevole. —
Potrei sapere dove trovarne uno.
— E dove sarebbe, Artemis?
— Nel fienile, sul mio aereo a energia solare.
Adesso Leale capiva il motivo dell’imbarazzo di Artemis. — Nel fienile dove
avevamo installato la palestra? Dove avresti dovuto fare pratica di
autodifesa?
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— Esatto, proprio quello.
Nonostante la gravità della situazione, Leale era deluso. — Me lo avevi
promesso, Artemis. Mi avevi detto di avere bisogno di privacy.
— Ma è così noioso, Leale. Ci ho provato, davvero, ma non riesco a capire
come tu faccia. Prendere a pugni un sacco di cuoio per tre quarti d’ora!
— E così ti sei messo a lavorare al tuo aereo a energia solare invece di
mantenere la promessa che mi avevi fatto?
— Le celle erano così efficienti che rimaneva un po’ di energia, perciò nel
tempo libero ho progettato un superlaser leggero e l’ho costruito da zero.
— Ovvio. A chi non serve un superlaser sul muso dell’aereo di famiglia?
— Avanti, ragazze — li interruppe Spinella. — Smettetela di bisticciare per il
momento, d’accordo? Artemis, quanto è potente questo laser?
— Oh, più o meno quanto un brillamento solare. Alla concentrazione
massima dovrebbe avere potenza sufficiente da aprire un buco nella porta
senza ferire nessuno a terra.
— Vorrei davvero che ce ne avessi parlato prima.
— Non l’ho ancora sperimentato — spiegò il ragazzo. — Non scatenerei mai
una potenza del genere a meno che non ci fosse assolutamente nessun’altra
alternativa. E, da quanto ci ha detto Myles, non abbiamo altre carte da
giocare.
— E Juliet non ne sa niente? — chiese Spinella.
— No, me lo sono tenuto per me.
— Bene, in tal caso forse abbiamo una possibilità.
Leale li equipaggiò tutti con tute mimetiche trovate nel suo armadio e
costrinse Artemis perfino a sopportare l’applicazione di strisce di cerone nero
e verde oliva sulla faccia.
— Ma è proprio necessario? — brontolò Artemis.
— Decisamente sì — rispose la guardia del corpo, applicando energicamente
la pasta. — Certo, se preferisci rimanere qui e lasciare che vada io, allora tu e
Myles potreste rilassarvi nei vostri mocassini preferiti.
Artemis sopportò la frecciata, presumendo correttamente che Leale fosse
ancora un po’ seccato per l’inganno del superlaser.
— Devo venire anch’io, Leale. Questo è un superlaser, non un fucile
giocattolo. C’è di mezzo tutto un sistema di attivazione e non ho tempo di
insegnarvi la sequenza.
Leale gli buttò un pesante giubbotto antiproiettile sulle esili spalle. — Va
bene. Se devi venire, allora è compito mio proteggerti. Perciò facciamo un
patto: se tieni per te tutti i fastidiosi commenti sul peso o sull’inutilità di
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questo giubbotto che di sicuro ti stanno girando per quel tuo gran cervello,
allora io non riparlerò della faccenda del superlaser, d’accordo?
Questo giubbotto mi taglia davvero le spalle, pensò Artemis. Ed è così
pesante che non riuscirei a correre più veloce neanche di una lumaca.
Però rispose: — D’accordo.
Quando il sistema di sicurezza di Artemis li ebbe rassicurati che il perimetro
era libero, il gruppo sgattaiolò in fila indiana dallo studio, poi attraversò la
cucina, passò in cortile e scivolò nel vialetto fra le stalle.
Non c’erano sentinelle, e a Leale parve strano. — Non vedo niente. Opal
ormai dovrebbe sapere che siamo sfuggiti ai suoi pirati.
— Non può permettersi di dislocare forze nuove — bisbigliò Spinella. — La
porta è la sua priorità e deve mettere il maggior numero possibile di Berserkr
a guardarle le spalle. A questo punto, noi siamo una questione secondaria.
— E sarà questa la sua rovina — ansimò il ragazzo, che già soffriva sotto il
peso del giubbotto. — Artemis Fowl non è mai una questione secondaria.
— Ah, e io che credevo che tu fossi Artemis Fowl Secondo — ribatté
Spinella.
— È diverso. E comunque io credevo che fossimo in missione.
— Hai ragione — ammise Spinella, che poi si girò verso Leale. — Questo è il
tuo territorio, amico mio.
— Hai ragione. D’accordo.
Attraversarono la tenuta con prudente velocità, timorosi di qualsiasi essere
vivente che incrociavano. Forse i Berserkr avevano preso il controllo perfino
dei vermi della terra o dei grossi grilli, così numerosi nella proprietà, che
agitavano le ali alla luce della luna come un’orchestra di piccoli falegnami.
— Non schiacciate i grilli — si raccomandò Artemis. — A mia madre piace il
loro frinire.
Quei grilli, che gli entomologi di Dublino avevano identificato con la sigla
GP, erano presenti per tutto l’anno solo nella tenuta dei Fowl e potevano
raggiungere le dimensioni di topi. A quel punto Artemis immaginò che
dovesse essere un effetto delle radiazioni magiche che filtravano dal
sottosuolo. Quello che non avrebbe potuto immaginare era che la magia
aveva infettato il sistema nervoso dei grilli sviluppando in loro una certa
simpatia per i Berserkr, simpatia che non si manifestava in gruppi di grilli
seduti in cerchio attorno a falò in miniatura ad ascoltare storie di valorosi
guerrieri del Popolo, bensì in un atteggiamento aggressivo nei confronti di
chiunque rappresentasse una minaccia per loro. O per dirla in maniera più
semplice: se a Opal non piacevi, allora neanche i grilli ti trovavano granché
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simpatico.
Leale avvicinò piano un piede a un gruppetto di grilli aspettandosi che si
spostassero. Ma quelli non lo fecero.
Dovrei schiacciarli, questi affari, pensò. Non ho tempo di perdermi in
gentilezze con questi insetti.
Si voltò. — Artemis — disse. — Questi GP mi sembrano un po’ aggressivi.
Il ragazzo si lasciò cadere sulle ginocchia, affascinato. — Guardate, non
danno il benché minimo segno di naturale prudenza. Sembra quasi che non
gli piacciamo. Dovrei davvero fare uno studio di laboratorio.
L’insetto più grande del mucchio spalancò le mascelle, diede un balzo e lo
morse su un ginocchio. Anche se i suoi denti non penetrarono oltre la stoffa
pesante dei pantaloni militari, Artemis indietreggiò bruscamente per lo shock,
e sarebbe finito col sedere a terra se Leale non lo avesse afferrato e non fosse
partito di corsa con il suo capo stretto sotto l’ascella. — Lasciamo quello
studio di laboratorio per un’altra volta.
Il ragazzo era incline a concordare.
I grilli li seguirono, con le zampe posteriori che andavano su e giù come
stantuffi per slanciarli in aria. Saltarono all’unisono, un’animata onda verde
che replicava esattamente il percorso di Leale. A quell’onda si unirono
sempre più insetti, che sbucavano da avvallamenti nel paesaggio e buchi nel
terreno, un’onda che avanzava crepitando tanto i grilli erano fitti.
Meno male che non volano, pensò Leale. Altrimenti non avremmo scampo.
Artemis trovò un punto d’appoggio, si liberò dalla stretta di Leale e si mise a
correre. Aveva il grosso grillo ancora attaccato al ginocchio, impegnato con
la stoffa dei pantaloni. Il ragazzo gli rifilò una manata e gli parve di colpire
una macchinina giocattolo: il grillo era ancora lì e adesso gli faceva male il
palmo.
In circostanze simili perfino per lui pensare era difficile, o piuttosto gli
riusciva difficile afferrare un pensiero sensato dal vortice che gli sibilava tra i
meandri del cervello.
Grilli. Grilli assassini. Giubbotto antiproiettile pesante. Troppo rumore.
Troppo. Grilli impazziti. Forse ho di nuovo le allucinazioni, si ripeteva.
— Quattro! — urlò, tanto per essere sicuro. — Quattro.
Leale indovinò cosa stava facendo il suo capo. — Sta succedendo davvero.
Non preoccuparti, non è la tua immaginazione.
Artemis avrebbe quasi voluto che lo fosse. — È grave! — urlò, cercando di
superare il rumore del cuore che gli batteva negli orecchi.
— Dobbiamo arrivare al lago — disse Spinella. — I grilli non sono bravi
152
nuotatori.
Il fienile era costruito in cima a una collina che dava su un lago conosciuto
come “la Pozza Rossa” per il modo in cui lo si vedeva brillare al tramonto
dalla finestra del soggiorno della casa. L’effetto era spettacolare, come se le
fiamme dell’Ade fossero in agguato sotto il pelo dell’acqua. Di giorno campo
da gioco per gli anatroccoli, di notte porta per l’inferno. L’idea che una
massa d’acqua potesse avere un’identità segreta aveva sempre divertito
Artemis ed era uno dei pochi argomenti in cui lasciava libero sfogo alla sua
fantasia. Adesso invece quel lago gli sembrava soltanto un porto sicuro.
Probabilmente il peso di questo giubbotto mi tirerà a fondo, rifletté.
Spinella gli stava addosso e continuava a rifilargli gomitate nel fianco.
— Sbrigati! — gli diceva. — Togliti dalla faccia quell’espressione vacua.
Ricordati che ci sono dei grilli assassini che ci danno la caccia.
Artemis allungò il passo cercando di correre veloce come aveva visto spesso
fare a Leale, apparentemente senza fatica, come se correre per mezza giornata
non richiedesse un grande sforzo.
Attraversarono in un lampo una serie di orti separati con staccionate di
fortuna fatte di paletti e arbusti. Leale travolgeva tutto quello che gli sbarrava
la strada. I suoi scarponi schiacciavano le patate novelle aprendo un
passaggio per Artemis e Spinella. I grilli non incontravano ostacoli, si
limitavano a girarci attorno o a passarci in mezzo senza apparentemente
perdere il ritmo. Il rumore che producevano era fitto e sinistro, una cacofonia
di borbottii. Insetti infidi.
I capifila del gruppo mordevano gli stivali di Spinella e si avvinghiavano alle
sue caviglie, dandoci dentro senza posa con le mascelle prepotenti. L’istinto
dell’elfa le diceva di fermarsi e di spazzarli via, ma il suo addestramento da
soldato le ordinava di continuare a correre sopportando i morsi. Fermarsi in
quel momento sarebbe sicuramente stato un errore fatale. Sentiva che le si
arrampicavano su per le caviglie, avvertiva i carapaci che si schiacciavano
sotto i suoi piedi. Era come correre su un campo disseminato di palline da
ping pong.
— Quanto manca? — gridò. — Quanto manca? — Leale le rispose alzando
due dita.
E questo che vuol dire? Due secondi? Venti secondi? Duecento metri?, si
chiese.
Continuarono a correre in mezzo agli orti e giù per la collina arata verso il
bordo dell’acqua. La luna si rifletteva sulla superficie dell’acqua, e dall’altra
parte spuntava il dolce pendio della pista dell’aereo di Artemis. Ormai i grilli
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li avvolgevano, avevano già raggiunto la vita di Spinella. Arrivavano a sciami
da ogni parte della tenuta.
Non abbiamo mai avuto problemi con i grilli, pensò Artemis. Da dove
saltano fuori?
Ne avvertivano i morsi sulle gambe, simili a piccole ustioni; correre era
diventato quasi impossibile, con i grilli che si contorcevano ricoprendo tutti i
loro arti. Spinella fu la prima a soccombere, poi toccò ad Artemis, entrambi
convinti che quello fosse senz’altro il peggior modo possibile di morire. Il
ragazzo aveva smesso di dimenarsi quando una mano era penetrata in quel
ronzio elettrico e lo aveva liberato da quel pantano.
Alla luce della luna vide un grillo avvinghiato al suo naso e sollevò una
mano per schiacciarlo fra le dita. Il corpo scricchiolò, e per la prima volta
Artemis avvertì la scarica di adrenalina della lotta. Avrebbe avuto voglia di
spiaccicarli tutti quanti.
Ovviamente, a salvarlo era stato Leale, e mentre penzolava dalla morsa della
guardia del corpo, il ragazzo vide Spinella che pendeva dall’altra mano.
— Fate un respiro profondo — disse Leale, e li buttò nel lago.
Cinque minuti dopo, Artemis arrivò ansante sull’altra riva, tutto intero tranne
per il giubbotto, cosa sulla quale era certo Leale avrebbe avuto da ridire, ma
aveva dovuto scegliere se sbarazzarsi del giubbotto o affogare, e aveva
ritenuto che essere invulnerabile ai proiettili non gli sarebbe servito granché
sul fondo di un lago.
Fu un sollievo per lui ritrovarsi di fianco a Spinella e alla sua guardia del
corpo, che sembravano decisamente meno affannati di lui.
— Abbiamo seminato i grilli — disse Leale, al che l’elfa scoppiò in una serie
di risatine isteriche che soffocò con la manica grondante acqua.
— Abbiamo seminato i grilli — ripeté. — Neppure tu riesci a farlo sembrare
brutale.
L’eurasiatico si sfregò il testone rasato. — Io sono Leale — disse serio. —
Tutto quello che dico è brutale. E adesso, fuori dal lago, elfa.
Ad Artemis sembrava che i suoi vestiti e gli stivali dovessero avere assorbito
metà dell’acqua del lago, a giudicare da quanto pesavano, mentre si
trascinava dolorosamente all’asciutto. Spesso aveva notato gli attori negli
spot in TV uscire con grazia dalle piscine, ma lui era sempre stato costretto ad
arrampicarsi dalla parte con il fondo basso o a lasciarsi cadere sulla pancia
sul bordo della vasca. La sua uscita dal lago fu ancor meno aggraziata, un
misto fra una contorsione e uno sfarfallamento che avrebbe ricordato a chi lo
avesse visto i movimenti di una goffa foca. Alla fine, Leale lo liberò da
154
quella situazione di difficoltà mettendogli una mano sotto un gomito. —
Vieni fuori, Artemis, il tempo stringe.
Il ragazzo si rialzò, con rivoli di acqua fredda che gli colavano dai pantaloni.
— Ci siamo quasi — disse Leale. — Duecento metri.
Da tempo il ragazzo aveva smesso di ammirare la capacità della sua guardia
del corpo di separare le sue emozioni in compartimenti. A rigore, dopo
quello che avevano passato sarebbero dovuti essere sotto shock tutti e tre, ma
Leale era sempre stato bravo a rinchiudere i traumi in un cassetto per
affrontarli in un secondo tempo, quando il mondo non fosse stato più a
rischio di finire da un momento all’altro. Al giovane Fowl bastava stare al
suo fianco per sentirsi forte.
— Che stiamo aspettando? — chiese dunque, incamminandosi su per la
collina.
Il frinire dei grilli si attenuò alle loro spalle finché non si confuse con il vento
che soffiava tra i pini, e nella breve corsetta su per la salita non incontrarono
altri avversari animali. Arrivarono in cima alla collina, dove il fienile era
incustodito. E perché non sarebbe dovuto essere così? Dopotutto, che razza
di stratega abbandona una roccaforte per nascondersi in un fienile altamente
infiammabile?
Finalmente un colpo di fortuna, pensò Artemis. Qualche volta è utile essere
complicati.
Dentro il fienile furono fortunati ancora una volta: Leale recuperò una Sig
Sauer da una cassaforte a combinazione inchiavardata al lato cieco di un
travetto. — Non sei l’unico ad avere i tuoi segreti qui dentro — disse ad
Artemis con un sorriso mentre controllava il funzionamento della pistola.
— Fantastico — commentò secca Spinella. — Adesso sì che possiamo far
fuori una decina di cavallette.
— Grilli — la corresse Artemis. — Ma vediamo di mettere in aria questo
aereo e di aprire una falla nei piani di Opal, piuttosto.
La fusoliera e le ali del leggero velivolo erano rivestite da pannelli solari che
alimentavano il motore per il decollo. Una volta in aria, l’aereo poteva
passare dal volo motorizzato al volo a vela, a seconda delle istruzioni del
computer. Se un pilota aveva voglia di prendersela comoda e di lasciarsi
trasportare dalle correnti, poteva usare il motore solo per il decollo, e alcuni
voli potevano addirittura svolgersi senza emissioni di carbonio.
— Quell’aereo laggiù — disse Leale. — Oltre il sacco da boxe inutilizzato e i
manubri scintillanti con le maniglie nuove.
Artemis gemette. — Esatto, quell’aereo. Adesso potresti lasciar perdere i
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manubri e tirare via i blocchi sotto le ruote mentre io metto in moto? —
disse. — Lasciamo chiusa la porta finché non siamo pronti per il decollo.
— Ottimo piano — convenne Spinella. — Fammi dare un’occhiata
all’interno.
Corse dall’altra parte del fienile, lasciando per terra una serie di impronte di
fango, e aprì il portellone posteriore dell’aereo.
Il velivolo, che Artemis aveva battezzato Khufu dal nome del faraone per cui
gli antichi Egizi avevano costruito una chiatta solare, era un leggero
apparecchio sportivo radicalmente modificato dal ragazzo nel tentativo di
progettare un pratico aeromobile verde per il trasporto di passeggeri. Le ali
erano del cinquanta per cento più lunghe di prima, con montanti microfini
sopra e sotto. Ogni superficie, compresi i coprimozzo, era rivestita da
pannelli solari per ricaricare la batteria in volo. Dal manicotto di coda del
Khufu al lato del tetto del fienile rivolto a sud correva un cavo di
alimentazione, in modo che l’aereo avesse una carica sufficiente per il
decollo ogni volta che Artemis avesse desiderato fare un volo di prova.
La testa di Spinella emerse dal buio dell’abitacolo. — Tutto libero —
annunciò sottovoce, temendo che un rumore troppo forte potesse mettere
fine alla buona sorte.
— Ottimo — disse Artemis correndo al portellone, mentre già ripassava
dentro di sé la sequenza di messa in moto. — Leale, ti dispiace aprire la porta
non appena avvio il motore?
La guardia del corpo annuì, scalciando il cuneo bianco di legno da sotto la
ruota anteriore. Ne mancavano due.
Artemis salì a bordo e comprese all’istante che qualcosa non andava. —
Sento un odore. Il profumo di Juliet.
Si inginocchiò fra i sedili e strattonò il portello che chiudeva uno scomparto
sottostante. La cassetta era piena di spessi cavi e al centro c’era uno spazio
rettangolare dove ci sarebbe dovuto essere qualcosa a forma di scatola.
— La batteria? — chiese Spinella.
— Già.
— Perciò non possiamo decollare?
Artemis lasciò andare il portello con un tonfo. Ormai il rumore non aveva
più importanza. — Non possiamo decollare. Non possiamo fare niente.
Leale ficcò la testa nell’abitacolo. — Perché non ci mettiamo a fare rumore
tutti insieme? — Un’occhiata alla faccia di Artemis fu la risposta che gli
occorreva.
— Dunque è una trappola. A quanto pare, Juliet ti teneva d’occhio più da
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vicino di quanto non credessimo. — Estrasse la Sig Sauer dalla cintura. —
Va bene, Artemis, tu resta qui. Adesso tocca ai soldati.
Quindi la sua faccia si tese in un’espressione di sorpresa e di dolore mentre
un lampo di magia saettava dall’esterno dentro al fienile e gli avvolgeva la
testa e il tronco, fondendo in maniera definitiva ogni follicolo capillare sulla
testa della guardia del corpo e ricacciandolo nel retro dell’aereo, dove rimase
esanime.
— Era una trappola — confermò tetra Spinella. — E noi ci siamo cascati in
pieno.
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CAPITOLO 16 - UN COLPO DI AVVERTIMENTO
Bombarda Sterro non era morto, però aveva scoperto i limiti delle proprie
capacità digestive: era davvero possibile mangiare troppi conigli. Era disteso
sulla schiena, nel tunnel semicrollato, con lo stomaco teso come la buccia di
una pesca matura.
— Uuugh! — gemette, rilasciando una scarica di gas che lo scagliò in avanti
di tre metri. — Adesso va leggermente meglio.
Ci voleva un bel po’ per distogliere Bombarda dal cibo, ma dopo
quell’ultima abbuffata di coniglio con pelliccia e tutto, non credeva che
sarebbe riuscito a mettere gli occhi sopra un altro per almeno una settimana.
Però magari un bel leprotto. Con le carote, pensò.
Ma i conigli continuavano ad arrivare, con quel sibilo sinistro, e gli si
ficcavano giù per il gargarozzo come se non vedessero l’ora di farsi
maciullare la testa. Diavolo, perché non tutti i conigli erano altrettanto
spregiudicati? Avrebbero semplificato di molto la caccia.
Non sono stati i conigli in sé a restarmi sullo stomaco, si rese conto
Bombarda. Sono i Berserkr che hanno dentro.
Le anime dei guerrieri nordici non potevano trovarsi troppo a loro agio
all’interno del suo stomaco. Prima di tutto, aveva le braccia coperte di
tatuaggi runici in quanto i nani avevano un timor panico della possessione e,
in secondo luogo, da tempo immemorabile la saliva dei nani veniva usata per
tenere lontano gli spiriti. Perciò, non appena i loro ospiti conigli morivano,
gli spiriti dei guerrieri si trasferivano nell’aldilà a una velocità mai vista. Non
si dirigevano con calma verso la luce, no, piuttosto schizzavano ululando nel
cielo. L’ectoplasma lampeggiava sciaguattando nelle viscere di Bombarda, il
che gli provocava un gran bruciore di stomaco e gli ustionava dolorosamente
la curva inferiore della pancia.
Dopo forse un’altra decina di minuti di autocommiserazione e di graduale
sgonfiamento, Bombarda si sentì pronto a muoversi. Provò ad agitare mani e
piedi, e quando si fu assicurato che lo stomaco non reagisse con troppa
violenza, rotolò carponi.
Devo andarmene di qui, pensò. Lontano, lontano dalla superficie, prima che
Opal scateni il potere di Danu, se una cosa del genere esiste davvero.
Bombarda sapeva che se si fosse trovato nelle vicinanze quando fosse
accaduto qualcosa di terribile, la LEP avrebbe cercato di affibbiare a lui la
colpa di quel disastro.
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“Guardate, c’è Bombarda Sterro. Arrestiamolo e buttiamo via il chip di
accesso. Caso chiuso, Vostro Onore.”
D’accordo, magari non sarebbe andata proprio così, però era un fatto che
ogni volta che si levava un dito accusatore, in un modo o nell’altro la punta
finiva sempre per indicare dalla sua parte e, come aveva detto una volta il
suo avvocato: — Il tre o il quattro per cento delle volte il mio cliente non è al
cento per cento responsabile del crimine specifico del quale è stato accusato,
il che sta a indicare che esiste un numero significativo di casi in cui il
coinvolgimento del signor Bombarda nei suddetti incidenti è trascurabile,
seppure egli possa essere stato tecnicamente coinvolto in un’infrazione
attigua alla scena del crimine in una data lievemente differente da quella
riportata sul mandato d’arresto della LEP. — Una tesi, questa, che era rimasta
famosa e aveva fatto saltare tre mainframe analitici e lasciato perplessi gli
esperti per settimane.
Bombarda sorrise nel buio e i suoi denti luminosi illuminarono la galleria.
Avvocati. Tutti dovrebbero averne uno.
— Oh, be’ — disse ai vermi che si contorcevano sulle pareti. — È ora di
andare.
Addio, vecchi amici. Noi ci abbiamo provato, ma non si può vincere sempre.
La codardia è la chiave della sopravvivenza, Spinella. Non sei mai riuscita a
capirlo, disse fra sé.
Bombarda diede un gran sospiro che finì con un rutto fragoroso: sapeva che
stava solo cercando di imbrogliare se stesso.
Non posso scappare, pensò.
Perché lì era in gioco molto di più della sua vita, era in gioco la vita stessa.
Molta vita, che stava per essere spenta una volta per tutte da una folletta
impazzita.
Non intendo fare promesse eroiche, si consolò. Voglio solo dare una
sbirciatina alla Porta dei Berserkr per vedere in che guaio siamo. Forse
Artemis ha già recuperato la situazione e io potrò tornare nelle mie gallerie.
Magari portandomi dietro qualche capolavoro di valore inestimabile per
tenermi compagnia: non me lo meriterei, forse?
Man mano che Bombarda avanzava, il suo stomaco, ancora gonfio e sempre
impegnato a emettere strani rumori animali, sfiorava il pavimento del tunnel.
Mi rimane abbastanza energia per scavare per altri sei metri, si rese conto. Poi
basta, o le pareti del mio stomaco si romperanno.
Il nano appurò invece di non dover ingoiare neppure un boccone di argilla
del tunnel. Quando alzò lo sguardo, incrociò un paio di scintillanti occhi
159
rossi. E sotto quegli occhi c’erano affilate zanne che spuntavano dal buio e
una testa di riccioli irsuti tutto attorno.
— Rooozzo — disse il troll, e Bombarda scoppiò a ridere.
— Davvero? Dopo tutto quello che ho passato oggi!
— Rooozzo — ripeté il troll, avanzando minaccioso mentre stille di veleno
paralizzante gli gocciolavano dalle zanne.
Bombarda attraversò la fase della paura, poi quella del panico, e arrivò dritto
alla rabbia e all’indignazione. — Questa è casa mia, troll! — gridò
avanzando. — Io ci abito, qui. Credi davvero di poter catturare un nano? In
un tunnel?
In effetti, Rozzo la pensava proprio così e dunque accelerò, sebbene le pareti
del tunnel ostacolassero la sua andatura naturale.
Lui è molto più grosso di un coniglio, pensò Bombarda, e subito dopo i due
si scontrarono confondendosi in un’unica macchia di avorio, carne e grasso,
e producendo esattamente il rumore che ci si aspetterebbe di sentire quando
una leggera macchina da guerra urta un corpulento nano che soffre di
flatulenza.
Nel fienile, Artemis e Spinella erano in una situazione abbastanza disperata.
Gli rimanevano solo due proiettili in una pistola che Spinella riusciva a
malapena a sollevare e che Artemis non sapeva usare per colpire la porta del
fienile, nonostante lui fosse il più vicino.
Si acquattarono sul fondo dell’aereo, aspettando che fossero i guerrieri a
sferrare il loro attacco. Leale, privo di sensi, era riverso sui sedili posteriori
con il fumo che gli usciva letteralmente dagli orecchi, un sintomo che non era
mai stato diagnosticato come positivo da nessun professionista.
Spinella gli cullava la testa e gli premeva delicatamente i pollici nelle cavità
oculari, spremendo nel cranio della guardia del corpo l’ultima goccia di
magia.
— Sta bene — disse ansimando. — Però quel fulmine gli ha fermato il cuore
per un po’. Se non fosse stato per il Kevlar che ha in petto…
L’elfa non finì la frase, ma Artemis sapeva che per l’ennesima volta la sua
guardia del corpo era scampato alla morte per un soffio, e “ennesima” è il
limite assoluto di vite supplementari che l’universo fornisce a chiunque.
— Il suo cuore non sarà più lo stesso, Artemis. Basta scherzi. Resterà privo
di sensi per ore — disse l’elfa, controllando il portellone della fusoliera. — E
i Berserkr si stanno preparando a fare la loro mossa. Qual è il piano, Arty?
— Un piano ce l’avevo — rispose il ragazzo, stordito. — E non ha
funzionato.
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Spinella gli scrollò con violenza una spalla, e lui sapeva che il suo prossimo
passo sarebbe stato prenderlo a schiaffi in faccia. — Avanti, Fangosetto,
riscuotiti. Avrai tutto il tempo che ti serve per dubitare di te stesso più tardi.
Artemis annuì. Quello era il suo compito. Lui era il pianificatore.
— Benissimo. Spara un colpo di avvertimento. Non possono sapere quanti
proiettili ci restano, e potrebbe indurli a fermarsi, darmi un momento per
pensare.
Gli occhi di Spinella parlavano chiaro, e quello che dicevano era: “Un colpo
di avvertimento? Questo avrei potuto anche pensarlo da sola, genio!”
Ma non era quello il momento per prendere a calci la sicurezza già vacillante
di Artemis, perciò l’elfa prese la Sig Sauer di Leale e socchiuse un finestrino
appoggiando la canna sul telaio.
Questa pistola è così grossa e rigida, pensò. Nessuno potrebbe certo
biasimarmi se per sbaglio colpissi qualcosa.
Negli assedi, è normale mandare qualcuno in ricognizione, dove “mandare” è
un modo gentile di dire “sacrificare”. E i Berserkr avevano deciso di fare
proprio questo, ordinando a uno dei cani da caccia dei Fowl di andare a dare
un’annusata in giro. Il grosso segugio fece una corsetta sotto i raggi di luna
che filtravano dalla porta del fienile, con l’intento di nascondersi nel buio.
Non così in fretta, pensò Spinella, e sparò un proiettile solo che centrò il cane
su una scapola come un colpo di martello, rispedendolo all’esterno, dai suoi
compagni.
Oops, pensò l’elfa. Avevo mirato alla zampa.
Quando il velivolo ebbe finito di vibrare e l’eco dello sparo si fu spenta nella
testa di Artemis, il ragazzo chiese: — Colpo d’avvertimento, giusto?
Spinella si sentiva un po’ in colpa per il cane, ma se qualcuno di loro fosse
sopravvissuto, avrebbe potuto sbarazzarsi del rimorso con un po’ di terapia.
— Oh, li abbiamo avvertiti eccome. Ora hai il tuo minuto per pensare.
Il cane era uscito dal fienile molto più in fretta di quanto non ci fosse entrato.
Bellico e la sua cricca magica furono ben più che un po’ gelose quando
videro l’anima veleggiare via dal cadavere dell’animale con un rapido sorriso
prima di sparire in un lampo azzurro, diretta all’altro mondo.
— Non abbiamo bisogno di entrare — disse Kisch il pirata, richiudendo
piano la porta. — Basta che gli impediamo di uscire.
Bellico non era d’accordo. — L’ordine è di ucciderli, e da qui non possiamo
farlo, giusto? E magari c’è qualcosa là dentro, di cui la mia ospite, Juliet, non
sa nulla. Un altro tunnel oppure una mongolfiera. Perciò entriamo.
Opal era stata molto precisa quando Bellico le aveva dato le informazioni sul
161
Khufu.
— La mia ospite è la custode dei piccoli Fowl — aveva detto Bellico. —
Myles è un tipo molto curioso e ha seguito Artemis nel suo laboratorio in
collina. E Juliet ha seguito il ragazzo. Là dentro c’è un velivolo alimentato dal
sole. Forse è un qualche tipo di arma.
Opal aveva interrotto il suo incantesimo. — Artemis non ha altra scelta se
non andare a cercarlo. Prendi con te una squadra e togliete la batteria
dell’aereo, poi aspettate che arrivino al laboratorio. — Quindi aveva preso
Bellico per un braccio e le aveva affondato le unghie nella carne. Un fiotto di
energia era passato dal cuore al braccio di Opal, e da lì in quello di Bellico,
che provò un’improvvisa ondata di nausea e comprese che la magia era
veleno.
— Questa è magia nera e ti divorerà l’anima — le aveva detto Opal. — Devi
liberartene al più presto. Ce n’è a sufficienza per un lampo. Fattela bastare.
La Berserkr si era portata la mano davanti alla faccia, guardando la magia che
le si arrotolava attorno alle dita.
Un lampo, aveva pensato. Quanto basta per abbattere quello grosso.
Spinella camminava avanti e indietro attorno ad Artemis. Il ragazzo era
immerso in una delle sue riflessioni e odiava essere interrotto, ma sotto la
porta del fienile c’era movimento e si vedevano ombre spostarsi a zig zag alla
luce della luna, perciò il suo istinto di soldato le diceva che il loro rifugio
stava per essere violato.
— Artemis — disse in tono ansioso. — Artemis, hai niente?
Lui aprì gli occhi e si scostò un ciuffo di capelli scuri dalla fronte.
— Niente. Non c’è un piano razionale che possa salvare anche uno solo di
noi, se Opal riuscirà ad aprire la seconda serratura.
Spinella tornò al finestrino. — Be’, allora il primo che entra si beccherà un
altro colpo di avvertimento.
Bellico ordinò ai suoi arcieri di schierarsi in fila fuori dalla porta scorrevole
del fienile.
— Quando la porta si apre, sparate tutto quello che avete. E poi facciamo
irruzione. L’elfa avrà tempo per due colpi, non di più. E se qualcuno di noi
dovesse rimanere ucciso, be’, sarà una fortuna per lui.
I guerrieri cinesi, con i resti mummificati sigillati dentro i sepolcri di argilla
incantati, non potevano parlare, però annuirono rigidamente preparando i
loro enormi archi.
— Pirati — gridò Bellico. — Piazzatevi dietro gli arcieri.
— Non siamo pirati — ribatté stizzito Kisch Lorenz, grattandosi una gamba.
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— Abbiamo soltanto preso in prestito un corpo da pirata, non è vero,
compagni?
— Corpo di mille balene, capitano! — urlarono i suoi uomini.
— Lo ammetto, possono davvero sembrare un po’ pirateschi, ma è perché ti
prende dentro — confessò Lorenz un po’ imbarazzato. — Altri due giorni in
questo corpo e potrei guidare un brigantino tutto da solo.
— Capisco — disse Bellico. — Presto saremo riuniti ai nostri antenati. Il
nostro dovere sarà compiuto.
— Bau! — latrò con sentimento il cane restante senza riuscire a resistere al
bisogno del proprio ospite di annusare gli altri.
La Berserkr strinse le dita di Juliet attorno alla maniglia della porta,
valutandone il peso.
— Ancora un attacco glorioso, miei prodi guerrieri, e gli umani saranno
sconfitti per sempre. I nostri discendenti potranno vivere in pace in eterno.
Il momento vibrava per la violenza ormai prossima. Spinella sentiva che i
Berserkr si stavano preparando psicologicamente.
Tocca a me, si rese conto. Devo salvare tutti noi.
— Va bene, Artemis — sbottò secca. — Arrampichiamoci sui travetti. Forse i
guerrieri ci metteranno un po’ di tempo a trovarci, tempo che potrai occupare
a fare piani.
Il ragazzo sbirciò attraverso il portello, sopra la spalla dell’elfa. — Troppo
tardi — disse.
La porta del fienile scorreva su rotelline ben oliate e nel rettangolo di luce
apparvero le sagome di sei implacabili guerrieri d’argilla cinesi.
— Arcieri! — mormorò Spinella. — Pancia a terra.
Artemis sembrava intontito davanti al crollo totale dei suoi piani. Si era
comportato in maniera scontata. Da quando era diventato così prevedibile?
Spinella vide che le sue parole non penetravano nella testa dell’amico e si
rese conto che Artemis aveva due grossi punti deboli. Il primo: era impedito
non soltanto dalle articolazioni, ma anche da una mancanza di coordinazione
che avrebbe messo in imbarazzo un bambino di quattro anni. Il secondo:
faceva talmente affidamento sulla superiorità del proprio intelletto che
raramente preparava un piano B. Se il piano A avesse fatto cilecca, non
avrebbe avuto un’alternativa.
Come ora.
Spinella gli si scagliò addosso, si avvinghiò al tronco e lo atterrò nello stretto
corridoio. Un secondo dopo dall’esterno provenne l’ordine. — Fuoco!
Era la voce di Juliet. Che ordinava l’assassinio di suo fratello.
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Come i veterani di ogni guerra sanno fin troppo bene, il bisogno di guardare
lo strumento della propria morte è quasi travolgente. E Spinella avvertì quel
bisogno in quel momento preciso, e cioè di mettersi a sedere a guardare le
frecce che volavano verso il bersaglio. Però resistette, si costrinse a buttarsi
giù, schiacciando se stessa e Artemis nel corridoio contro l’acciaio ondulato.
Frecce lunghe un metro perforarono la fusoliera, facendo traballare l’aereo
sul carrello e conficcandosi nella tappezzeria dei sedili. Una arrivò talmente
vicina a Spinella che le passò perfino attraverso la spallina, inchiodandola al
sedile.
— D’Arvit! — esclamò l’elfa, liberandosi con uno strattone.
— Fuoco! — fu il comando dall’esterno, e all’istante l’aria fu satura di fischi.
Sembrano uccelli, pensò Spinella.
Ma non lo erano. Era una seconda raffica. Tutte le frecce centrarono il
velivolo, distruggendo i pannelli solari; una addirittura si infilò tra due
finestrini. L’aereo fu spinto di lato e si inclinò sull’ala di dritta.
E di nuovo l’ordine. — Fuoco. — Ma questa volta non ci fu nessun sibilo, si
udì solo un secco crepitio. Spinella cedette alla curiosità e si arrampicò sul
pavimento inclinato fino al finestrino per sbirciare all’esterno. Juliet stava
accendendo le frecce dei soldati di terracotta.
Oh, pensò l’elfa. Quel tipo di fuoco.
Bellico sbirciò all’interno del fienile e fu lieta di vedere il velivolo inclinato
su un fianco. La memoria della sua ospite le assicurò che quell’aereo aveva
davvero volato in cielo con l’energia del sole ad alimentare il suo motore, ma
la Berserkr trovava difficile crederci. Forse i sogni e i ricordi di quell’umana
si erano mescolati, e adesso a Bellico le fantasie apparivano realtà.
Prima uscirò da questo corpo, meglio sarà, pensò.
Arrotolò una matassa di fieno per farne una torcia e le diede fuoco con un
accendino trovato nella tasca della ragazza.
Questa macchina da fuoco però è reale, pensò. E nella meccanica non è poi
così lontana da un semplice acciarino.
Una torcia di fieno non avrebbe bruciato a lungo, ma quanto bastava per dar
fuoco alle frecce dei suoi guerrieri. Passò in rassegna la fila, toccando appena
le punte delle frecce, che erano state intrise di carburante da una tanica forata.
D’un tratto il cane alzò la testa liscia e lucente e abbaiò alla luna. Bellico stava
per chiedergli quale fosse il problema, quando anche lei avvertì qualcosa.
Ho paura, si rese conto. Perché mai dovrei aver paura di qualcosa quando
desidero la morte?
La Berserkr lasciò cadere la torcia che le bruciava le dita, ma nel secondo
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prima di calpestarne la brace morente, le parve di scorgere qualcosa di
familiare precipitarsi nel pascolo a est. Un’inconfondibile sagoma traballante.
No, pensò. Non è possibile.
— Ma è… — riuscì a dire indicando con un dito. — Può essere?
Il cane riuscì ad avvolgere le corde vocali attorno a una sola sillaba che non
si allontanava troppo dalla sua portata canina. — Troll! — latrò. —
Trooollll!
E non soltanto un troll, si rese conto Bellico. Un troll con il suo cavaliere.
Bombarda Sterro era avvinghiato alla nuca del troll con una manciata di
riccioli in ciascuna mano. Sotto di lui i muscoli delle spalle del troll si
tendevano e si rilasciavano a ogni ondeggiamento.
Ora, “ondeggiamento” magari non è proprio la parola più esatta, in quanto
implica una certa lenta goffaggine, ma mentre il troll effettivamente sembrava
barcollare, lo faceva a una velocità incredibile. E quella non era che una delle
numerose armi del considerevole arsenale di un troll. Se la vittima notava un
troll arrivare da lontano borbottando, pensava subito: Va bene, sì, vedo un
troll, ma sarà a un milione di chilometri di distanza, perciò ho ancora tutto il
tempo di finire di mangiare questa foglia, e subito… BAM!, era il troll a
mangiare la zampa posteriore della sua preda.
Bellico, però, aveva visto spesso la brigata di trollieri in azione e sapeva
esattamente a quale velocità potesse muoversi un troll.
— Arcieri! — urlò, sguainando la spada. — Nuovo bersaglio. Voltarsi,
voltarsi!
L’esercito di terracotta si incamminò scricchiolando con una pioggia di
polvere rossa che cadeva dalle giunture. Con lentezza, con una lentezza
dolorosa.
Non ce la faranno, si rese conto la Berserkr, e poi ebbe uno di quei momenti
in cui ci si attacca a tutto. Forse quel troll e il suo cavaliere stanno dalla
nostra parte.
Purtroppo per i guerrieri, il trolliere non stava affatto dalla loro parte, e il
troll faceva solo quello che gli veniva detto.
Quando emerse dall’ombra della notte al pallido bagliore lunare che
inondava il pascolo, Rozzo era effettivamente uno spettacolo spaventoso.
Anche per un troll era un esemplare enorme, alto più di due metri e mezzo,
con i riccioli che gli balzellavano sulla schiena aggiungendo l’illusione di un
altro mezzo metro. La fronte marcata era come un ariete di sfondamento su
un paio di occhi scintillanti nella notte. Da una mascella spuntavano due
zanne infide rivolte all’insù, con gocce di veleno luccicanti alle estremità
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appuntite. Un’irsuta sagoma umanoide dotata di muscoli e tendini e di mani
con la forza di sbriciolare piccole rocce e grosse teste.
Bombarda strattonava i riccioli di Rozzo, rispolverando per istinto una
tecnica di guida dei troll vecchia di secoli. Attorno al falò di sputo, suo
nonno gli aveva raccontato spesso storie sui grandi trollieri che
imperversavano per la campagna facendo quello che volevano visto che
nessuno riusciva anche solo a fermarli per discutere.
— Bei vecchi tempi — concludeva il nonno. — Noi nani eravamo re. Perfino
i demoni facevano dietrofront quando vedevano un nano scendere da una
collina a cavallo di un troll coperto di sudore.
Questi però non mi sembrano bei tempi, pensò Bombarda. Mi pare più la
fine del mondo.
Il nano decise per un approccio diretto, anziché cincischiare con tattiche da
combattimento, e guidò Rozzo dritto nella calca di Berserkr.
— Non tiriamoci indietro — gli urlò all’orecchio.
Bellico aveva un nodo alla gola.
Disperdetevi!, avrebbe voluto urlare alle sue truppe. Mettetevi al riparo!
Ma il troll si avvicinava, si avventava sui guerrieri di terracotta mulinando le
braccia massicce, mandandoli in frantumi e abbattendoli come soldatini
giocattolo. Quindi scalciò il cane nelle parti basse e colpì di striscio la stessa
Bellico, facendola volare in un barile d’acqua. Nel giro di qualche secondo,
diversi pirati furono ridotti a cibo per cani e, anche se Kisch Lorenz riuscì ad
affondare una spada nella coscia di Rozzo, il massiccio troll non arrestò la
propria avanzata: l’acciaio che gli sporgeva dalla gamba non sembrava
essergli d’impaccio.
Gli alluci di Bombarda localizzarono il fascio di nervi tra le costole di Rozzo,
e il nano li sfruttò per guidarlo nel fienile.
Io sono un trolliere, si rese conto con uno scatto d’orgoglio. Sono nato per
fare questo, e per rubare e per mangiare un sacco.
Bombarda decise che se avesse superato la notte, avrebbe trovato un modo
per combinare quei tre scopi.
Dentro il fienile, il velivolo stava in equilibrio su una ruota e sulla punta di
un’ala con frecce che ne trafiggevano la fusoliera. La faccia di Spinella era
premuta contro il vetro, con la bocca che disegnava un “oooh” di incredulità.
Non capisco perché sia così sorpresa, pensò Bombarda. Ormai dovrebbe
averci fatto il callo, a essere salvata da me.
Il nano udì il fragore delle truppe che si ricostituivano alle sue spalle e seppe
che era solo una questione di attimi prima che gli arcieri scagliassero una
166
salva contro il troll.
E per quanto la mia cavalcatura possa essere grande, perfino lui sarà
abbattuto da una mezza dozzina di frecce che gli trapassa gli organi vitali,
pensò.
Non c’era tempo di aprire il portello dell’aereo e di caricare i tre passeggeri,
perciò Bombarda diede uno strattone ai riccioli, affondò gli alluci e bisbigliò
qualcosa all’orecchio del troll, sperando che il suo messaggio arrivasse a
destinazione.
A bordo dell’aereo a pannelli solari, Spinella sfruttò i pochi momenti che
mancavano prima che si scatenasse quello che con ogni probabilità sarebbe
stato un inferno per pungolare un Artemis intontito nel sedile del passeggero.
Gli si sistemò a fianco agganciandosi la cintura.
— Sto volando? — chiese Artemis.
Spinella agitò i piedi. — Non arrivo ai pedali.
— Vedo.
Era una conversazione banale ma necessaria, dal momento che di lì a un
attimo sarebbe stata indispensabile l’abilità di pilota di Artemis.
Rozzo raddrizzò il velivolo a suon di spallate, poi si spostò nella parte
posteriore e lo sollevò verso la porta del fienile aperta. L’aereo avanzò
traballando sul carrello danneggiato, sobbalzando a ogni rotazione.
— Non avevo previsto nessuno di questi eventi — disse Artemis battendo i
denti, rivolto più a se stesso che al suo co-pilota. Spinella appoggiò entrambe
le mani sul cruscotto per puntellarsi in previsione dell’impatto con ciò contro
cui stavano rollando a tutta velocità.
— Wow! — esclamò, guardando frecce affondare nel muso e nelle ali. —
Non avevi previsto un nano a cavallo di un troll che avrebbe spinto il tuo
aereo lungo la rampa. Stai perdendo la mano, Artemis.
Il ragazzo cercò di riprendersi, ma il momento era troppo surreale. Vedeva i
Berserkr farsi sempre più grandi al di là della doppia cornice del parabrezza e
della porta del fienile e gli sembrava che fosse solo un film. Un film in 3D
molto realistico con poltroncine vibranti, ma comunque un film. Quella
sensazione di distacco, unita ai riflessi lenti del vecchio Artemis Fowl, rischiò
di costargli la vita mentre se ne stava seduto sognante e guardava la freccia di
un guerriero dirigersi contro la sua testa.
Per fortuna, i riflessi di Spinella erano straordinari, e riuscì a dare un pugno
su una spalla al ragazzo, spostandolo di lato ai limiti consentiti dalla cintura.
La freccia trapassò il parabrezza, aprendovi un buco sorprendentemente
piccolo, e si conficcò nel poggiatesta, esattamente nel punto in cui si sarebbe
167
trovata la faccia di Artemis.
D’un tratto, lui non ebbe più alcun problema a riprendersi.
— Posso tentare di avviare l’aereo — disse, manovrando gli interruttori sul
cruscotto. — Basta solo che riusciamo a sollevarci in volo.
— E non ci vuole coordinazione? — chiese Spinella.
— Sì, un tempismo alla frazione di secondo.
Spinella impallidì: fare affidamento sulla coordinazione di Artemis era come
fare affidamento sulla capacità di Bombarda di trattenersi davanti a una
tavola imbandita.
Il velivolo avanzò a fatica fra i guerrieri, decapitando un soldato di terracotta.
I pannelli solari sferragliarono incrinandosi e il carrello si deformò. Rozzo
continuava a spingere, ignorando varie ferite da cui ormai uscivano fiotti di
sangue.
Bellico radunò le sue truppe e si lanciò all’inseguimento, ma nessuno riusciva
a tenere il passo del troll tranne il cane avvinghiato alla schiena del nano, che
cercava di disarcionarlo. Bombarda era offeso che un cane volesse interferire
in quello che era probabilmente il tentativo di salvataggio più valoroso mai
compiuto a memoria di nano, perciò gli serrò la testa con un gomito e gridò
sul muso dell’animale: — E smettila, Fido! Oggi sono invincibile. Guardami,
sto cavalcando un troll! Quante altre volte ti è capitato di vedere una cosa del
genere? Nessuna, ecco quante! Ora, hai due secondi per mollare, oppure sarò
costretto a mangiarti.
I due secondi passarono. Il cane scosse la testa, rifiutando di cedere, perciò
Bombarda lo mangiò.
Che spreco tremendo, sputare mezzo cane, avrebbe detto in seguito al suo
compare nano evaso Barnet Enigma, proprietario del bar Il Pappagallo
Sbronzo di Miami. Però è difficile mantenere un aspetto eroico con il
posteriore di un bastardino che ti spunta dalla bocca.
Qualche secondo dopo che il cane vivo aveva avuto a che dire con
Bombarda faccia a faccia, il cane morto ebbe a che dire con il suo stomaco.
Forse fu l’anima del guerriero a provocare l’indigestione, o forse fu per via
di qualcosa che il cane aveva mangiato prima che qualcosa mangiasse lui, ma
in ogni caso, all’improvviso, Bombarda sentì un crampo alle viscere, come il
pugno di un gigante con indosso un guanto di maglia metallica.
— Devo limare un po’ il peso — borbottò a denti stretti.
Se Rozzo avesse capito che cosa stava per fare Bombarda Sterro, si sarebbe
messo a correre tutto attorno gridando come una fatina di due anni per
andare a seppellirsi sotto terra finché la tempesta non fosse passata, ma il troll
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non parlava nanesco, perciò seguì l’ultimo comando che gli era stato
impartito, e cioè: Giù per la collina.
L’aereo a pannelli solari prese velocità scendendo lungo la rampa con i
guerrieri alle calcagna.
— Non ce la faremo — disse Artemis, controllando la strumentazione di
bordo. — Il carrello è distrutto.
Davanti a loro, la fine della rampa curvava come il fondo di un trampolino
da sci. Se l’aereo fosse decollato con velocità insufficiente, sarebbe
semplicemente precipitato a capofitto nel lago, e si sarebbero ritrovati a fare il
bagno fianco a fianco con anatroccoli con ogni probabilità posseduti dai
guerrieri che li avrebbero uccisi a colpi di becco. Artemis era quasi venuto a
patti con l’idea di dover morire nel futuro immediato, ma non desiderava
affatto vedersi frantumare il cranio dal becco di un germano reale posseduto.
Anzi, la morte per becco di aggressivo uccello acquatico era appena schizzata
in cima alla lista dei suoi modi meno graditi di morire, frantumando il record
detenuto dalla morte per gas di nano che aveva tormentato i suoi sonni per
anni.
— Non le anatre — disse. — Per favore, non le anatre. Ero destinato a
vincere il Nobel.
Sentivano il trambusto sotto la fusoliera. Grugniti animali e metallo che si
stava accartocciando. Se l’aereo non fosse decollato subito, sarebbe caduto a
pezzi. Non era un apparecchio robusto, ed era molto spoglio per accrescere il
rapporto potenza-peso necessario per un volo sostenibile.
All’esterno, Bombarda si contorceva in preda a un dolore fortissimo. Sapeva
cosa stava per succedere. Il suo corpo stava per reagire a una combinazione
di stress, cattiva dieta e formazione di gas, sganciando all’istante un terzo del
suo peso.
Un nano yogi più disciplinato avrebbe saputo invocare quella procedura a
comando e l’avrebbe definita Disintossicazione Decennale, ma un nano
comune la conosce come Limare il Peso. E credete a me, non è una bella cosa
trovarsi sulla linea di tiro quando un nano sta per limare il peso.
L’aereo arrivò in fondo alla discesa con lo slancio minimo necessario per
lasciare la rampa.
Ammaraggio, pensò Artemis. Morte per becco di anatra.
E poi accadde qualcosa. Da un punto imprecisato arrivò una scarica di
energia. Fu come se l’indice di un gigante avesse scagliato l’aereo in aria. La
coda si alzò, e Artemis dovette darsi da fare con i pedali per tenerlo sotto
controllo.
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Che cos’è stato?, si chiese guardando perplesso i comandi finché Spinella
non gli diede un pugno alla spalla per la seconda volta in altrettanti minuti.
— Avviamento ad aria! — gli urlò.
Artemis schizzò a sedere diritto come un fuso. Avviamento ad aria! Ma certo,
si disse.
L’aereo aveva in dotazione un piccolo motore per sollevarlo, e subito dopo
subentravano i pannelli solari, ma senza batteria il motore non poteva
neppure girare, a meno che Artemis non avesse premuto l’acceleratore al
momento giusto prima che il velivolo incominciasse a perdere slancio.
Questo avrebbe potuto fargli guadagnare il tempo necessario per incrociare
una corrente per un paio di centinaia di metri, quanto bastava per superare il
lago e lasciarsi le frecce alle spalle.
Artemis aspettò finché non avvertì che l’aereo era al culmine dell’ascesa,
quindi diede gas fino in fondo.
Bellico e ciò che restava delle sue truppe si precipitarono a tutta velocità giù
per la rampa, scagliando contro l’aereo qualunque proiettile presente nel loro
arsenale. Era una situazione bizzarra, anche per uno spirito risorto che
occupava un corpo umano.
Sto inseguendo un aereo mentre viene spinto giù per una rampa da un nano a
cavallo di un troll, pensava. Incredibile.
E tuttavia era vero, e lei avrebbe fatto meglio a crederci, o la sua preda le
sarebbe sfuggita.
Non possono andare lontano, pensava.
A meno che l’apparecchio non fosse riuscito a volare proprio come doveva.
Non volerà. Abbiamo distrutto la batteria, si diceva. Quell’affare vola senza
bisogno di energia, una volta in aria. La mia ospite lo ha visto con i suoi
occhi.
Il suo buon senso le diceva che doveva fermarsi e lasciare che l’aereo
precipitasse in mezzo al lago. Se i passeggeri non fossero affogati, allora i
suoi arcieri avrebbero potuto colpirli mentre nuotavano. Ma il buon senso
non serviva a molto in una notte come quella, in cui sulla terra vagavano
guerrieri fantasma e i nani viaggiavano ancora una volta sul dorso dei troll,
perciò Bellico decise che doveva fare il possibile per impedire all’aereo di
decollare.
Accelerò il passo lasciando indietro gli altri Berserkr, sfruttando al massimo
le lunghe gambe umane, e si scagliò contro la parte centrale del troll,
afferrando ciuffi di pelo grigio in una mano e la spada da pirata nell’altra.
Rozzo ululò, ma continuò a spingere.
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Sto attaccando un troll, pensò lei. Con il mio corpo non ce la farei mai.
Bellico alzò lo sguardo fra un intrico di arti e scorse la luna piena brillare
sopra di loro. E sotto vide un nano in una situazione di grande disagio, che si
aggrappava al corpo dell’aereo, appiattendosi contro la fusoliera. — Va’! —
ordinò al troll. — Torna alla tua grotta.
Non va bene, pensò Bellico. Non va bene per niente.
L’aereo lasciò la rampa e si alzò in volo. In quello stesso istante, Rozzo
ubbidì al suo padrone e mollò la presa, spedendo se stesso e la Berserkr a
rimbalzare sul lago come sassolini, il che è assai più doloroso di quanto non
sembri. Rozzo aveva un mantello di pelo a proteggersi la pelle, ma Bellico
coprì quella distanza su un viso che avrebbe riportato ustioni dovute
all’acqua per diversi mesi.
A monte, Bombarda non riuscì più a trattenersi. Rilasciò un getto di grasso,
gas e cibo semidigerito che sollevò l’aereo di qualche altro metro, quanto
bastava per farlo librare in alto sopra il lago.
Bellico riemerse appena in tempo per farsi centrare in piena fronte da quello
che poteva essere un teschio di cane.
Non voglio pensarci, pensò, tornando a nuoto verso riva.
Artemis diede gas una seconda volta e il motore dell’aereo si avviò. L’elica
sul muso scoppiettò, diede uno strappo e poi incominciò a ruotare sempre
più veloce, finché le pale non disegnarono un cerchio continuo trasparente.
— Che cos’è successo? — chiese il ragazzo ad alta voce. — Che cos’è stato
quel rumore?
— Ci penserai dopo — gli disse Spinella. — Adesso pensa a pilotare l’aereo.
Non era una cattiva idea, dal momento che non erano ancora fuori dai guai.
Il motore girava, questo sì, ma nella batteria solare non c’era energia e a
quell’altezza potevano planare solo per un tempo limitato.
Artemis tirò indietro la cloche salendo a trenta metri e, man mano che sotto
di loro vedevano una fetta di mondo sempre più grande, l’ampiezza della
devastazione operata dal piano di Opal divenne evidente.
Le strade che portavano a Dublino erano illuminate dagli incendi dei motori
alimentati dai serbatoi di benzina e da materiali combustibili. La stessa
Dublino era al buio, tranne per macchie di luci arancioni nei punti in cui
erano stati rappezzati generatori o accesi falò. Artemis vide due grosse navi
entrate in collisione nel porto e un’altra spiaggiata come una balena. In città
c’erano troppi incendi per riuscire a contarli tutti, e il fumo si levava
raccogliendosi come una nuvola foriera di tempesta.
Opal progetta di ereditare questa nuova Terra, pensò Artemis. Non glielo
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permetterò.
E fu proprio grazie a quel pensiero che la sua mente tornò a concentrarsi e lo
spinse a ordire un piano che potesse fermare Opal Koboi una volta per tutte.
Sorvolarono il lago, ma il loro non fu un volo aggraziato, anzi, in effetti, fu
piuttosto una caduta prolungata. Artemis armeggiò con comandi che
sembravano non volerne sapere di ubbidire, mentre lui faticava per
mantenere la discesa il più graduale possibile.
Sorvolarono una fila di pini e si diressero alla Porta dei Berserkr dove Opal
Koboi trafficava avvolta in un’aura magica. Spinella sfruttò quel momento
per fare il punto della situazione delle forze nemiche.
Opal era circondata da un cerchio di guerrieri. C’erano pirati, soldati di
argilla e altri esseri assortiti. Le mura della proprietà erano pattugliate da altri
guerrieri: intravide per lo più animali: due volpi e perfino alcuni cervi che
trotterellavano sulla pietra annusando l’aria.
Non c’è modo di entrare, pensò Spinella. E il cielo incomincia a schiarire.
Opal si era data tempo fino all’alba per aprire la seconda serratura.
Forse non ci riuscirà e la luce del sole farà il lavoro per noi, pensò Spinella.
Ma era improbabile che Opal avesse sbagliato i calcoli: aveva passato troppo
tempo nella sua cella a studiare ogni dettaglio fino all’ossessione.
Non possiamo fare affidamento sugli elementi. Se vogliamo che il piano di
Opal fallisca, dobbiamo agire noi.
Al suo fianco, Artemis pensava la stessa cosa, con la sola differenza che nella
sua mente aveva già gettato le basi di un piano. Se in quel momento lo avesse
enunciato ad alta voce, Spinella ne sarebbe rimasta sorpresa. Non tanto per la
sua genialità – non si sarebbe aspettata niente di meno – quanto per la sua
generosità. Artemis Fowl pianificava di attaccare con l’unica arma che Opal
Koboi non lo avrebbe mai sospettato di possedere: l’umanità.
E per sganciare quel siluro a sorpresa, Artemis avrebbe dovuto sperare che
due persone fossero fedeli ai difetti della loro personalità.
Polledro avrebbe dovuto essere il paranoico di sempre.
E per il suo dilagante narcisismo, Opal Koboi non avrebbe dovuto
distruggere l’umanità senza lasciare in vita i suoi nemici a testimonianza della
sua gloria.
Alla fine, Spinella non riuscì più a rimanere a guardare i goffi tentativi di
Artemis di pilotare il velivolo.
— Dammi la cloche — gli ordinò. — Quando tocchiamo terra, apri
completamente i flap. Ci saranno addosso in un attimo.
Artemis cedette i comandi senza discutere. Non era il momento di fare a gara
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di chi fosse più macho. Spinella era senza dubbio dieci volte migliore di lui
come pilota, e anche parecchio più macho. Una volta l’aveva vista fare a
pugni con un elfo che si era complimentato per la sua pettinatura solo perché
aveva creduto che volesse essere sarcastico, dal momento che proprio quel
giorno si era tagliata i capelli a spazzola. Spinella non era una che avesse
molti appuntamenti.
L’elfa sfiorò la cloche con il palmo della mano, portando l’aereo sul vialetto
acciottolato della casa.
— Il viale è troppo corto — osservò Artemis.
Spinella si inginocchiò sul sedile per vedere meglio. — Non preoccuparti.
Probabilmente il carrello cederà comunque con l’impatto.
La bocca di Artemis si incurvò in quello che poteva essere un sorriso ironico
o una smorfia di terrore. — Grazie al cielo. E io che credevo che fossimo nei
pasticci.
Spinella battagliava con la cloche come se quella non volesse saperne di
bloccarsi. — Pasticci? Far atterrare un aereo malridotto è questione di routine
per noi, Fangosetto.
Artemis le scoccò un’occhiata e provò un’enorme ondata di affetto per lei.
Avrebbe voluto poter riavvolgere gli ultimi dieci secondi e studiare il nastro
in un momento meno stressante per poter valutare in maniera accurata
quanto fosse fiera e bella la sua migliore amica. Spinella non sembrava mai
tanto vitale come quando si trovava in equilibrio precario tra la vita e la
morte. I suoi occhi brillavano e la mente era acuta. Quando gli altri sarebbero
crollati, lei affrontava la situazione con un vigore che la faceva risplendere.
È davvero magica, pensò il ragazzo. Forse le sue qualità mi sono più evidenti
ora che ho deciso di sacrificare me stesso. E poi si rese conto di una cosa.
Non posso svelarle i miei piani. Se Spinella li conoscesse, cercherebbe di
fermarmi.
Era un dolore per Artemis che la sua ultima conversazione con Spinella
dovesse essere infarcita di bugie e informazioni fuorvianti.
Ma è per necessità, si giustificò.
Artemis Fowl, l’umano che un tempo mentiva senza preoccuparsene, fu
sorpreso di scoprire in quel momento che mentire per necessità non lo faceva
stare meglio.
— Ci siamo! — gridò Spinella sopra il fragore del vento. — Tieniti forte!
Artemis strinse la cintura di sicurezza. — Vai pure — rispose.
Appena in tempo. Il terreno parve corrergli incontro, offuscando la visuale e
coprendo il cielo. E poi, con un tremendo sferragliare, toccarono terra sotto
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una pioggia confusa di pietre. Dal parabrezza entrarono fiori in mazzi funerei,
e l’elica cedette con uno strido lancinante. Artemis sentì l’imbracatura
azzannargli le spalle, impedendogli di piegarsi a sinistra, il che fu un bene
perché la sua testa si sarebbe naturalmente inchiodata proprio dove una delle
pale dell’elica trapassò il suo sedile.
Il piccolo velivolo perse le ali nella sua scivolata lungo il viale e infine si
ribaltò fermandosi davanti ai gradini d’ingresso.
— Poteva andare molto peggio — osservò Spinella mentre sganciava la
cintura.
Davvero, pensò Artemis vedendo che il sangue sulla punta del suo naso
sembrava gocciolare all’insù.
Di colpo qualcosa che gli sembrava una gigantesca pesca arrabbiata scivolò
su quello che restava del parabrezza deformando il cristallo temprato e
fermandosi un po’ barcollante sull’ultimo scalino.
Bombarda ce l’ha fatta, pensò Artemis. Bene.
Bombarda strisciò letteralmente su per i gradini della casa, alla ricerca
disperata di cibo che andasse a prendere il posto dell’aria sparata via. — Ci
credi che le top model lo fanno tutti i mesi? — gemette.
Artemis aprì la porta con il telecomando, e il nano scomparve all’interno,
diretto alla cucina.
Toccò ad Artemis e a Spinella trascinare Leale su per gli scalini, il che, con la
guardia del corpo afflosciata ed esanime, equivaleva a trascinare un sacco
pieno di incudini. Erano arrivati al terzo scalino quando un pettirosso
insolitamente audace atterrò sulla faccia di Leale e si avvinghiò con i
minuscoli artigli al naso. Già di per sé la cosa sarebbe stata abbastanza
sorprendente, ma il biglietto che portava nel becco rendeva quella creatura
ancora più sinistra.
Artemis lasciò cadere il braccio di Leale. — Ha fatto in fretta — osservò. —
L’ego di Opal non perde tempo.
Spinella tirò il rotolo per aprirlo. — Te lo aspettavi?
— Sì. Non prenderti neppure la briga di leggerlo, Spinella. Le parole di Opal
non valgono la carta su cui sono scritte, e si vede benissimo che è carta da
poco.
L’elfa invece lesse il biglietto e a ogni parola le sue guance si arrossarono
sempre di più.
— Opal richiede il piacere della nostra compagnia per le grandi pulizie. Se ci
consegneremo, solo io e te, allora lascerà in vita i tuoi fratelli. E promette
anche di risparmiare Polledro, una volta che si dichiarerà imperatrice.
174
Appallottolò il biglietto e lo scagliò sulla testa del pettirosso. — Va’ a dire a
Opal che non se ne parla neanche.
L’uccello fischiò protervo e sbatté le ali in una maniera che parve un insulto.
— Vuoi vedertela con me, guerriero? — chiese l’elfa all’uccellino. — Perché
io magari me la sarò anche appena cavata da un disastro aereo, ma posso
ancora prenderti a calci le piume della coda.
Il pettirosso prese il volo con un trillo che sembrava una risatina di derisione
per fare ritorno dalla sua padrona.
— Sarà meglio che pensi a volare, Titti! — gli gridò dietro Spinella con uno
sfogo poco professionale che la fece sentire appena appena meglio. Una volta
che l’uccello fu scomparso oltre le cime degli alberi, tornò al suo compito.
— Dobbiamo sbrigarci — disse infilando il braccio sotto l’ascella della
guardia del corpo. — È tutto un trucco. Opal ci metterà alle calcagna altri
guerrieri. Probabilmente siamo controllati da… vermi… in questo momento.
Artemis non era d’accordo. — No. In questo momento la cosa più
importante è la porta. Opal non rischierà di perdere altri soldati per dare la
caccia a noi. Però dobbiamo sbrigarci lo stesso. Manca poco all’alba e ci
rimane tempo per un altro assalto soltanto.
— Perciò ignoriamo quel biglietto, giusto?
— Certo. Opal gioca con le nostre emozioni solo per la propria
soddisfazione, nient’altro. Vuole mettersi in una posizione di potere dal
punto di vista emotivo.
I gradini erano ricoperti da piccoli cristalli di ghiaccio che scintillavano sotto
la luna. Finalmente, Artemis e Spinella riuscirono a far superare la soglia a
Leale e a depositarlo su un tappeto, che poi trascinarono sotto le scale,
sistemandolo nella posizione più comoda possibile, con alcuni dei cuscini
che Angeline Fowl amava spargere qua e là sulle poltrone.
Spinella si raddrizzò con uno scricchiolio alla schiena. — Va bene. Abbiamo
dato scacco alla morte un’altra volta. E adesso che si fa, cervellone?
Aveva parlato con naturalezza, ma negli occhi, sgranati, era chiara la
disperazione. Erano così vicini a un disastro inimmaginabile che sembrava
che perfino Artemis, con la sua capacità di tirare miracolosi conigli fuori dal
cappello all’ultimo momento, non avrebbe potuto salvare l’umanità.
— Ho bisogno di pensare — disse lui semplicemente, imboccando di corsa le
scale. — Prenditi qualcosa da mangiare e magari fai un sonnellino. Ci vorrà
almeno un’ora e mezzo.
Spinella gli arrancò dietro, faticando su quei gradini a misura umana.
— Aspetta! Aspetta, ho detto! — gli gridò, salendo su un gradino più alto per
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guardarlo negli occhi. — Io ti conosco, Artemis. Ti piace tenere la tua carta
da genio stretta al petto fino all’ultimo. E finora ha sempre funzionato, ma
questa volta devi mettere al corrente anche me. Posso aiutarti. Perciò dimmi
la verità: hai un piano?
Il ragazzo sostenne lo sguardo dell’amica e le mentì spudoratamente. — No
— le disse. — Nessun piano.
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CAPITOLO 17 - L’ULTIMA LUCE
CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
La LEP aveva diversi operativi che lavoravano sotto copertura in parchi
umani a tema sparsi in tutto il mondo, perché gli umani non battono ciglio
alla vista di un nano o di un elfo, purché lo trovino di fianco a un ottovolante
o a un unicorno animatronico. Una volta, Polledro aveva visionato il nastro
di una ferrovia a Orlando, dove i teorici della cospirazione del Consiglio
erano certi fosse installata una base di addestramento per gruppi governativi
segreti di assassini del Popolo. In quella corsa particolare, i clienti salivano su
un trenino che entrava in una stazione sotterranea, una stazione prontamente
funestata da ogni possibile disastro naturale conosciuto a uomini o elfi. Prima
un terremoto aveva squassato il tunnel, poi un uragano aveva sollevato una
tempesta di detriti, quindi un’inondazione aveva rovesciato i vagoni e infine
veri e propri torrenti di lava avevano lambito i finestrini.
Quando Polledro era finalmente rientrato in ufficio, aveva guardato le strade
di Cantuccio dal quarto piano della Centrale e aveva pensato che la sua amata
città gli ricordava quella stazione di Orlando. Completamente devastata tanto
da diventare irriconoscibile.
Solo che per rimettere in sesto la mia città non basterà premere un pulsante,
si disse.
Polledro appoggiò la fronte contro il vetro freddo e osservò i servizi di
emergenza operare la loro magia.
I paramedici gremlin curavano i feriti scagliando rapidi lampi di magia dalle
manopole isolanti. Gli gnomi del fuoco tranciavano le travi con i laser
ronzanti, liberando la strada per le ambulanze, e i tecnici strutturali si
calavano a doppia corda da spuntoni di roccia tamponando le crepe con
schiuma elastica.
È buffo, pensò Polledro. Ho sempre pensato che sarebbero stati gli umani a
distruggerci. Il centauro appoggiò i polpastrelli sul vetro. No, non siamo
distrutti. Ci ricostruiremo.
Tutte le nuove tecnologie erano esplose, ma c’era ancora un mucchio di roba
antiquata che non era stata sottoposta a riciclaggio per via dei tagli al bilancio.
La maggior parte dei veicoli dei vigili del fuoco era operativa, e nessuno dei
generatori di supporto era stato sostituito negli ultimi cinque anni. Il
comandante
177
Grana Algonzo sovrintendeva un’operazione di pulizia su vasta scala mai
vista prima a Cantuccio.
Atlantide era stata colpita altrettanto gravemente, se non peggio.
Per lo meno, la cupola è stata puntellata. Se fosse implosa, il numero dei
morti sarebbe stato immenso. Non come quello degli umani, ma comunque
piuttosto alto, si disse il centauro.
E tutto perché una folletta psicotica voleva governare il mondo.
Moltissime famiglie hanno perso qualcuno oggi. Quanti del Popolo saranno
in ansia a questo punto?, si chiese.
I pensieri di Polledro si rivolsero poi a Spinella, bloccata in superficie,
impegnata ad affrontare la situazione senza il supporto della LEP.
Ammesso che sia viva. Se qualcuno di loro è vivo, rifletté.
Polledro non aveva modo di saperlo. Tutti i sistemi di comunicazione ad
ampio raggio erano fuori uso, dato che per la maggior parte erano agganciati
a satelliti umani ormai ridotti a rifiuti spaziali.
Il centauro cercò di trovare conforto nell’idea che con la sua amica ci fossero
Artemis e Leale. Se c’è qualcuno in grado di contrastare Opal, quello è
Artemis.
E poi pensò: Contrastare? Adesso incomincio a usare parole come
“contrastare”? A Opal piacerebbe. La fa sembrare una supercattiva.
Mayne gli trotterellò accanto. — Mak dak jiball, zio. Abbiamo qualcosa sugli
schermi del laboratorio.
Il nipote di Polledro parlava l’unicornese senza difficoltà; quello che gli
riusciva difficile, semmai, era andare dritto al punto.
— Sono schermi grandi, Mayne. C’è sempre qualcosa.
L’altro raspò con lo zoccolo anteriore. — Lo so, ma questa è una cosa
interessante.
— Davvero. Oggi di cose interessanti ne stanno succedendo un mucchio. Ti
dispiacerebbe specificare un po’ meglio?
Il nipote si accigliò. — “Specificare” significa identificare la specie di una
creatura. È questo che intendi?
— No, volevo dire se non puoi essere un po’ più specifico.
— A proposito di quale specie?
Polledro raspò a sua volta con uno zoccolo, graffiando le piastrelle. —
Dimmi solo che cosa c’è di così interessante sullo schermo. Abbiamo tutti da
fare oggi, Mayne.
— Hai bevuto simil-caffè per caso? — gli chiese il nipote. — Perché zia
Cavallina dice che dopo due tazze tendi a diventare un po’ troppo nervoso.
178
— Che cosa c’è sullo schermo? — tuonò Polledro in quello che pensava
fosse il suo tono severo, mentre nella realtà era piuttosto acuto.
Il nipote arretrò di qualche passo, poi si ricompose e si chiese come mai negli
altri suscitasse sempre quel genere di reazione.
— Ti ricordi quei Faro che avevi mandato a Casa Fowl?
— Certo che me li ricordo. Sono tutti morti. Io li mando, Artemis li trova. È
un giochetto che facciamo sempre fra di noi.
Mayne alzò un pollice oltre la spalla, a indicare lo schermo dove prima c’era
il riquadro bianco. — Be’, uno di quegli affarini è appena tornato in vita. Era
questo che cercavo di dirti.
Polledro misurò un calcio al nipote, ma il giovanotto era già trotterellato fuori
dalla sua portata.
CASA FOWL
Artemis chiuse a chiave la porta dello studio e lanciò una rapida occhiata alle
telecamere periferiche e ai sensori per accertarsi che fossero indenni, almeno
per il momento. Era come si aspettava: l’unica attività nella tenuta era a oltre
un chilometro di distanza, dove un tempo sorgeva la torre Martello, e ora la
Porta dei Berserkr sbucava dal cratere prodotto dall’impatto di Opal. Per
precauzione, regolò l’impianto di allarme su ASSEDIO, che disponeva di
deterrenti non in uso negli impianti domestici standard, per esempio vetri
delle finestre elettrificati e bombe lampo nelle serrature. D’altro canto, Casa
Fowl non era una casa standard da quando Artemis aveva deciso di tenere
prigioniera l’elfa rapita nella cantina.
Una volta accertatosi di essere al riparo da intrusioni, aprì un cassetto con la
combinazione nella scrivania e ne tirò fuori una scatola di piombo. Ne
picchiettò il coperchio con un’unghia e con soddisfazione sentì qualcosa
svolazzare all’interno.
Quindi è ancora viva, pensò.
Aprì la scatola e dentro, collegata a una batteria a tre volt, c’era una
minuscola libellula a biotelecamera. Uno dei giocattolini di Polledro, che di
solito venivano messi in corto nei consueti controlli anticimice di Artemis;
quella, però, aveva deciso di continuare ad alimentarla, nell’eventualità che
gli fosse servita una linea privata per mettersi in contatto con il centauro.
Aveva sperato di usarla per annunciare il successo del loro assalto alla Porta
dei Berserkr, ma adesso quell’insettino avrebbe trasmesso un messaggio ben
più cupo.
179
La mise sul piano della scrivania, dove la libellula svolazzò per un po’ tutto
attorno prima che il suo software di riconoscimento facciale identificasse
Artemis quale obiettivo primario e decidesse di concentrarsi su di lui. Le
minuscole lenti negli occhi vibrarono quasi impercettibilmente, e un paio di
microfoni a stelo si allungarono come le antenne di una formica.
Avvicinandosi, il ragazzo incominciò a parlare piano, in modo che nessuno
potesse sentirlo, anche se i suoi sensori gli garantivano che il suo era l’unico
essere vivente di massa significativa nel raggio di sei metri.
— Buongiorno, Polledro. So che in questo piccolo mutante non c’è neppure
un atomo di tecnologia Koboi, perciò in teoria può trasmettere, e io spero che
tu sia ancora vivo per ricevere. Qui le cose si sono messe male, amico mio,
molto male. Opal ha aperto la Porta dei Berserkr e sta lavorando alla seconda
serratura. Se ci riuscirà, si scatenerà un’ondata di magia terrestre codificata
che distruggerà completamente l’umanità. E questa, a mio parere, è una brutta
cosa. Per fermare questo imminente disastro, ho bisogno che tu mi mandi al
più presto un paio di cose in uno dei tuoi ovodroni da scavo. Non c’è tempo
da perdere con permessi e comitati, Polledro. Queste due cose devono
arrivare a Casa Fowl in meno di due ore, o sarà troppo tardi. Procurati quello
che mi serve.
Artemis si avvicinò ancora un po’ alla minuscola telecamera vivente e
bisbigliò con impazienza: — Due cose, Polledro. Due cose per salvare il
mondo.
E comunicò all’insettino ciò che gli occorreva e dove esattamente doveva
essere inviato.
CENTRALE DI POLIZIA, CANTUCCIO, STRATI INFERIORI
Il colore svanì dal viso di Polledro.
Koboi lavorava alla seconda serratura.
Era una catastrofe, anche se a Cantuccio c’erano molti membri del Popolo
che avrebbero ballato per la strada per festeggiare l’annientamento
dell’umanità, ma nessuno che avesse un po’ di sale in zucca poteva augurarsi
una cosa del genere.
Due cose.
La prima non era un problema. Era un giocattolo!
Credo di averne una sulla scrivania, pensò il centauro.
Ma la seconda. La seconda…
Questo sì che è un problema. Un problema grosso, si disse, preoccupato.
180
C’erano di mezzo questioni legali e questioni morali. Se ne avesse anche solo
fatto parola con il Consiglio, avrebbero preteso di nominare una task force e
costituire un sottocomitato.
Quello che Artemis chiedeva era tecnicamente possibile. In effetti, nella zona
di controllo aveva un prototipo di ovodrone da scavo. Non doveva fare altro
che programmare le coordinate giuste nel sistema di navigazione e il drone
avrebbe viaggiato fino in superficie. Costruito per prelevare i minatori dai
crolli, era in grado di sopportare pressioni enormi e di fare per tre volte il
giro del mondo in volo alla velocità del suono. Perciò il limite di tempo
fissato da Artemis non costituiva un problema.
Polledro si mordicchiò una nocca. Doveva fare quello che Artemis gli
chiedeva? Voleva farlo? Il centauro poteva continuare con quelle domande
finché non fosse scaduto il tempo, ma ce n’era una sola che contava: Mi fido
di Artemis?
Il centauro sentì qualcuno respirare dietro di sé e si rese conto che nella
stanza era entrato Mayne.
— Chi altro è stato qui dentro? — gli domandò.
Mayne sbuffò. — Qui dentro? Credi che gli alpha perdano tempo a
ciondolare in una stupida centrale quando là fuori c’è una bella crisi in atto?
Qui dentro non c’è stato nessuno, e nessuno ha visto questo video. Eccetto
me.
Polledro attraversò tutto l’ufficio. — D’accordo. Mayne, mio giovane amico,
che ne diresti di un impiego a tempo pieno?
Il nipote lo guardò con sospetto. — E che cosa dovrei fare?
Polledro prese dal cassetto la cosa numero uno e si diresse alla porta. — Il
solito — rispose. — Ciondolare in laboratorio e renderti inutile.
Mayne fece una copia del video di Artemis nel caso in cui fosse rimasto
implicato in un tradimento di qualche tipo.
— Potrei farlo — rispose.
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CAPITOLO 18 - L’ANIMA SOPRAVVISSUTA
CASA FOWL, NOVANTOTTO MINUTI DOPO
Artemis stava ultimando i preparativi nel suo studio: aggiornava il testamento
sforzandosi di tenere sotto controllo i propri sentimenti e soffocando un velo
grigio di tristezza che minacciava di offuscare la sua determinazione. Sapeva
che il dottor Argon gli avrebbe sconsigliato di reprimere le proprie emozioni,
cosa che a lungo termine gli avrebbe lasciato degli strascichi psicologici.
Ma non ci sarà un lungo termine, dottore, pensò ironico.
Dopo tante avventure, sentiva che avrebbe dovuto sapere che le cose non
vanno mai esattamente come previsto, eppure l’irrevocabilità di quel passo
che si sentiva costretto a compiere non smetteva di sorprenderlo, come pure
il fatto di essere disposto anche solo a contemplarlo.
Il ragazzo che ha rapito Spinella Tappo tanti anni fa non avrebbe mai preso
in considerazione l’idea di sacrificare se stesso, si disse.
Ma lui non era più quel ragazzo. Aveva ritrovato i suoi genitori e aveva dei
fratelli. E cari amici.
Un’altra cosa che Artemis non aveva previsto.
Guardò la propria mano tremare mentre firmava il testamento. Quanto
sarebbero state valide molte delle sue disposizioni nell’era che stava iniziando
non lo sapeva con sicurezza: il sistema bancario era danneggiato in maniera
quasi irreparabile, come pure le Borse mondiali, perciò addio azioni,
obbligazioni e titoli di stato.
Tutto quel tempo passato ad accumulare ricchezza, pensò. Che spreco.
E poi: Su, avanti. Non fare il sentimentale. L’oro ti piace quasi quanto a
Bombarda Sterro piace il pollo. E, se ne avessi la possibilità, probabilmente
rifaresti lo stesso.
Era vero. Artemis non credeva nelle conversioni sul letto di morte, erano
troppo opportunistiche. Un uomo deve essere quello che è e accettare
qualunque giudizio con coraggio.
Se esiste un san Pietro, non mi metterò a discutere con lui alle porte del
paradiso, promise al suo subconscio, per quanto sapesse bene che se la sua
teoria era corretta, il suo spirito rischiava di rimanere bloccato su quel livello
proprio come era successo ai Berserkr.
Potrei diventare un guardaspalle soprannaturale per Myles e Beckett.
Quell’idea gli diede un po’ di conforto e gli strappò un sorriso. Si rese conto
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di non avere paura, come se ciò che stava per fare fosse una simulazione in
un gioco di ruolo invece di un’azione reale. Ma tutto cambiò quando Artemis
sigillò il testamento in una busta che appoggiò alla lampada. Rimase a fissare
il documento avvertendo la definitività del momento.
Non si torna più indietro, disse fra sé.
E poi la paura si abbatté su di lui come una tonnellata, inchiodandolo alla
seggiola. Sentì un blocco di piombo solidificarsi nello stomaco e
all’improvviso gli parve di avere le membra inchiodate e di non poterle più
controllare. Fece molti respiri profondi solo per impedirsi di vomitare e a
poco a poco ritrovò la calma.
Avevo sempre immaginato che ci sarebbe stato tempo per gli addii. Un
momento per scambiare parole piene di significato con le persone cui voglio
bene, rifletté.
Ma non c’era più tempo per quello. C’era tempo solo per agire.
La paura era passata, e Artemis era ancora risoluto.
Posso farcela, si rese conto. Posso pensare con il cuore.
Spinse all’indietro la poltrona color sangue di bue, si diede una pacca sulle
ginocchia e si alzò per affrontare la prova.
Spinella si precipitò nello studio con occhi di fuoco. — Ho visto quello che è
uscito dalla cantina, Artemis.
— Ah — esclamò lui. — È arrivato l’ovodrone.
— Già, è arrivato. E io ci ho dato un’occhiatina dentro.
Il ragazzo sospirò. — Spinella, mi dispiace che tu abbia visto. Bombarda
avrebbe dovuto nasconderlo.
— Bombarda è anche amico mio, e gli avevo detto che avresti tentato uno dei
tuoi trucchi. Si stava scavando un tunnel per una fuga dell’ultimo minuto
quando il drone è arrivato con il pilota automatico. Bombarda pensa che sia
appunto uno dei tuoi trucchi.
— Spinella, non è come pensi.
— So che cosa stai tramando, l’ho capito.
— Sembra un po’ drastico, lo ammetto. Però è l’unico modo. Devo farlo.
— Ah, tu devi farlo! — strepitò Spinella, furiosa. — Artemis Fowl fa scelte
per tutti, come al solito.
— Forse, ma questa volta sono giustificato dalle circostanze.
L’elfa arrivò a tirar fuori la pistola. — No, scordatelo, Artemis. Non
succederà.
— Ma deve succedere. Forse con un po’ di tempo, e le giuste risorse, potrei
sviluppare una strategia alternativa…
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— Sviluppare una strategia alternativa? Non stiamo parlando di
un’acquisizione societaria, Artemis. È la tua vita. Hai intenzione di uscire là
fuori e farti ammazzare. E Leale?
Lui sospirò. Lo addolorava lasciare Leale privo di sensi, all’oscuro del suo
piano, soprattutto dato che sapeva bene che la sua fedele guardia del corpo
l’avrebbe considerato per sempre un proprio fallimento.
Danno collaterale. Proprio come me, pensò.
— No. Non posso dirglielo, e non lo farai neppure tu…
Spinella lo interruppe sventolandogli la pistola sotto il naso. — Non prendo
ordini da te, signor civile. Sono io l’ufficiale responsabile. E pongo il mio
veto a usare questa tattica.
Artemis si mise a sedere coprendosi la faccia con le mani. — Spinella, fra
trenta minuti sarà l’alba, e poi morirei comunque. E morirebbero pure Leale e
Juliet. La mia famiglia. Quasi tutti quelli a cui voglio bene moriranno.
Otterrai solo di assicurare la vittoria a Opal. Non salveresti nessuno.
Spinella andò al suo fianco e gli appoggiò delicatamente la mano sulla spalla.
Di colpo il ragazzo si rese conto che gli elfi hanno un odore caratteristico.
Erba e agrumi. Un tempo avrei archiviato questa informazione.
— Lo so che non ti piace, Spinella, amica mia, ma è un buon piano — disse.
Le dita dell’elfa risalirono sul collo di Artemis, procurandogli un lieve
pizzicore.
— Non mi piace, Arty — confermò. — Però è un buon piano.
Il tampone tranquillante impiegò un paio di secondi per fare effetto e poi
Artemis si trovò riverso sul tappeto afghano, con il naso affondato nelle fibre
di un disegno raffigurante un albero della vita. Il sonnifero gli annebbiava la
mente, e non riusciva a capire esattamente che cosa stesse succedendo.
— Mi dispiace — disse Spinella inginocchiandosi al suo fianco. — Opal è
una del Popolo, perciò il sacrificio tocca a me.
L’occhio sinistro di Artemis si rovesciò, e il ragazzo tentò debolmente di
agitare la mano.
— Non odiarmi per sempre, Arty, non potrei sopportarlo — bisbigliò l’elfa.
Gli prese la mano e gliela strinse forte. — Il soldato sono io, e questo è
lavoro da soldati.
— Hai ragione — disse Artemis con voce chiara. — Ma questo è il mio
piano, e con il dovuto rispetto, sono l’unico cui se ne può affidare
l’esecuzione.
Spinella era confusa: solo un attimo prima era stato sul punto di perdere i
sensi e adesso le faceva la lezione con il suo solito modo presuntuoso. Ma
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come?
L’elfa ritrasse la mano e vide un piccolo cerotto sul palmo.
Mi ha drogata!, si rese conto. Quell’infido Fangosetto mi ha drogata.
Artemis si alzò e portò Spinella al divano di pelle, dove la depose sui morbidi
cuscini.
— Temevo che Polledro potesse spifferare tutto, perciò mi sono fatto
un’iniezione di adrenalina per contrastare il tuo sedativo.
L’elfa combatteva contro la nebbia che le offuscava la mente. — Ma come
hai potuto… Come?
— A rigor di logica, non hai motivo di essere arrabbiata. Non ho fatto altro
che seguire il tuo esempio.
Gli occhi di Spinella si colmarono di lacrime che gocciolarono sulle guance,
mentre la verità la chiamava da lontano, al di là di un abisso caliginoso.
Vuole farlo davvero, pensò.
— No — riuscì a dire.
— Non c’è altro modo.
L’elfa sentì il vuoto della paura stringerle lo stomaco. — Ti prego, Arty —
farfugliò. — Lascia che io… — Ma non riuscì a dire altro.
Artemis fu lì lì per crollare, lei lo vedeva nei suoi occhi spaiati, uno da
umano e l’altro da elfo, ma poi si allontanò dal divano e respirò a fondo.
— No. Devo essere io, Spinella. Se la seconda serratura verrà aperta, morirò,
ma se il mio piano avrà successo, allora tutte le anime del Popolo all’interno
dell’aura magica verranno attirate nell’aldilà. Le anime del Popolo! La mia
anima è umana, Spinella, non capisci? Non intendo morire, e c’è una
possibilità che sopravviva. Una possibilità minima, è vero, ma pur sempre
una possibilità. — Si sfregò un occhio. — Come piano è ben lungi
dall’essere perfetto, ma non ci sono alternative.
Artemis sistemò qualche cuscino sotto il corpo dell’elfa. — Voglio che tu
sappia, mia cara amica, che senza di te non sarei diventato la persona che
sono oggi. — Si chinò su di lei e le bisbigliò: — Ero un ragazzo perverso e tu
mi hai messo a posto. Grazie.
Spinella si accorse di piangere perché aveva la vista offuscata, ma non
riusciva a sentire le lacrime sul viso.
— Opal aspetta te e me — sentì dire ad Artemis. — Ed è esattamente quello
che avrà.
“È una trappola!” avrebbe voluto gridare Spinella. “Ti stai infilando dritto in
una trappola.”
Ma anche se Artemis avesse potuto sentire i suoi pensieri, Spinella sapeva
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che non sarebbe riuscita a farlo tornare indietro. Proprio quando pensava che
il ragazzo avesse lasciato la stanza, lui rientrò nel suo campo visivo con
un’espressione pensierosa.
— So che riesci ancora a sentirmi, Spinella — le disse. — Perciò voglio
chiederti un ultimo favore. Se Opal dovesse avere la meglio su di me e io
non potessi uscire da quel cratere, voglio che tu dica a Polledro di nutrire il
bozzolo. — Si chinò su di lei e le diede un bacio in fronte. — E dagli questo
da parte mia.
Il giovane genio se ne andò, e l’elfa non riuscì neppure a voltare la testa per
guardarlo.
Opal sapeva che i ranghi dei suoi soldati erano decimati, ma non le
importava; era arrivata alla fase finale della seconda serratura della Porta dei
Berserkr. Nel suo organismo la soddisfazione lampeggiò con una vibrazione
che le fece schizzare scintille dalle punte degli orecchi.
— Mi serve un po’ di tranquillità — disse al guerriero che la proteggeva. —
Se si avvicina qualcuno, uccidilo. — Poi però si corresse: — Tranne l’umano
Fowl, e anche la sua amichetta capitano della LEP. Mi hai capito?
Oro, nel corpo di Beckett, aveva capito benissimo, ma avrebbe voluto che il
vincolo elfico gli lasciasse spazio per suggerire alla sua padrona di scordarsi
la vendetta personale. Tuttavia, le regole di Bruin Fadda erano esplicite:
ubbidienza totale a chi apre la porta.
“Dovremmo snidarli” avrebbe voluto dire. “Se riusciamo a catturare quei
pochi umani rimasti, allora non avremo bisogno di aprire la seconda
serratura.”
Opal si voltò e gli urlò in faccia, sputando schizzi di saliva. — Ho detto: mi
hai capito?
— Sì — rispose Oro. — Uccidere chiunque tranne Fowl e la femmina.
Opal gli picchiettò il grazioso nasino a patata. — Giusto, proprio così. A
mammina spiace avere alzato la voce. Mammina è stressata oltre ogni dire.
Non crederesti a quello che le cellule cerebrali di mammina stanno dando per
questa cosa.
Di’ “mammina” ancora una volta, pensò Oro, e vincolo o no…
Il massimo che il capo dei guerrieri poté fare contro la morsa del vincolo
elfico era accigliarsi leggermente e sopportare i crampi allo stomaco, ma il
suo cipiglio non ebbe effetto alcuno, dal momento che Opal gli aveva dato le
spalle ed era già tornata al suo lavoro con un’aura scintillante di magia nera
tutto attorno.
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L’ultimo cilindro nella serratura incantata di Bruin Fadda era lo stregone
stesso. Bruin aveva sepolto la propria anima nella roccia più o meno allo
stesso modo spirituale in cui i guerrieri erano stati conservati nel terreno.
Mentre Opal faceva scorrere le dita sulla superficie della roccia, sulla pietra
apparve il volto del druido, inciso in maniera approssimativa ma
riconoscibile.
— Chi mi risveglia dal mio sonno? — chiese con voce roca. — Chi mi
richiama dal ciglio dell’eternità?
Oh, avanti, pensò Opal. Chi mi richiama dal ciglio dell’eternità? Devo
proprio sopportare questa cacca di troll solo per spazzare via l’umanità?
— Sono io, Opal Koboi — disse però, stando al gioco. — Del casato dei
Koboi. Sovrana reale delle famiglie del Popolo.
— Salute a te, Opal Koboi — rispose Bruin. — È bello vedere la faccia di un
altro membro del Popolo. E così, non siamo ancora estinti.
— Non ancora, potente stregone, ma anche mentre stiamo parlando, gli
umani si avvicinano alla porta. Cantuccio è in pericolo. Dobbiamo aprire la
seconda serratura.
La roccia scricchiolò come una macina mentre Bruin si accigliava. — La
seconda serratura? È davvero una richiesta molto grave, la tua. Sei pronta ad
assumerti l’onere di questa azione?
Opal assunse l’espressione contrita che aveva sviluppato per le udienze per la
libertà sulla parola. — Lo farò, per il Popolo.
— Sei davvero coraggiosa, regina Opal. I folletti sono sempre stati nobili,
nonostante la statura.
Opal era pronta a lasciar correre l’osservazione sulla statura perché le piaceva
troppo come suonava “regina Opal”. E poi il tempo stringeva: dopo meno di
un’ora il sole sarebbe sorto e la luna sarebbe tramontata, e le probabilità di
mantenere quel piccolo esercito per un altro giorno, anche con gli umani
impegnati a correre in tondo, erano minime.
— Grazie, potente Bruin. E ora, è giunto il momento della tua risposta.
Il cipiglio dello stregone si accentuò. — Devo consultarmi. I miei guerrieri
sono con te?
Questo non lo aveva previsto. — Sì. Il capitano Oro è qui al mio fianco e
concorda pienamente con me.
— Desidero conferire con lui — rispose la faccia di pietra.
Certo che quel tipo incominciava davvero a darle sui nervi. Un attimo prima
era tutto un regina Opal di qua, regina Opal di là, e adesso desiderava
conferire con il suo vice?
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— Potente Bruin, non credo davvero che ci sia bisogno di un consulto con i
tuoi soldati. Il tempo stringe.
— Desidero conferire con lui! — tuonò Bruin, e i solchi segnati sulla sua
faccia si infiammarono di un potere che scosse Opal fin nel profondo.
Non è un problema, pensò. Oro è vincolato a me. Il mio volere è il suo
volere.
Oro fece un passo avanti. — Bruin, compagno. Ti credevo passato nell’altra
vita.
Il volto di pietra sorrise e parve avere il sole al posto dei denti. — Presto,
Oro Shaydova. La tua vecchia faccia mi piaceva più di questa giovane, anche
se riesco a scorgervi l’anima sotto.
— Un’anima che anela di essere liberata, Bruin. La luce chiama tutti noi.
Alcuni dei miei uomini hanno perso la testa, o ci sono vicini. Non dovevamo
rimanere sotto terra così a lungo.
— Il momento della liberazione è prossimo, amico mio. Il nostro lavoro è
quasi compiuto. E dunque dimmi, il Popolo è ancora minacciato?
— È così. La regina Opal dice il vero.
Bruin socchiuse gli occhi. — Ma sei sotto vincolo, vedo.
— Sì, Bruin. Sono alla mercé della regina.
Gli occhi di Bruin lampeggiarono bianchi nella roccia. — Io ti libero dal tuo
vincolo perché possiamo parlare sinceramente.
Così non va, pensò Opal.
Le spalle di Oro si accasciarono e fu come se ognuno dei suoi anni si
scrivesse sulla faccia di Beckett.
— Adesso gli umani hanno armi — disse Oro, ed era strano vedere quelle
parole uscire da una bocca piena di denti da latte. — Mi sembrano
miracolose. Nella memoria di questo piccoletto ho visto che, se non li
sconfiggeremo al più presto, si uccideranno tra loro a migliaia. Distruggono
la Terra e hanno annientato diverse migliaia di specie.
La faccia di pietra mostrò turbamento. — Non sono cambiati?
— Sono solo più efficienti di prima, tutto qua.
— Devo aprire la seconda serratura?
Oro si sfregò gli occhi. — A questo non posso rispondere al posto tuo. È
vero che la regina Opal ha vanificato i loro tentativi, ma già stanno unendo le
forze contro di noi. La porta è stata presa d’assalto due volte, con due dei
nostri fra gli aggressori. Un’elfa e un nano, entrambi astuti avversari.
La faccia di pietra sospirò e dalla sua bocca sgorgò una luce bianca. — Ci
sono sempre stati traditori.
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— Non possiamo resistere ancora a lungo — ammise Oro. — Alcuni dei miei
uomini sono già stati chiamati al fianco di Danu. Il mondo è precipitato nel
caos, e se domani gli umani attaccheranno la porta non ci sarà più nessuno a
difenderla. Con le loro nuove armi, forse troveranno il modo di smantellare
la seconda serratura.
Opal gongolava di gioia e se avesse potuto applaudire senza sembrare poco
regale, lo avrebbe fatto. Oro stava convincendo quel rozzo idiota meglio di
quanto non avrebbe potuto fare lei.
— Senza la luce del sole, il Popolo avvizzisce e muore — intervenne con
solennità. — Presto scompariremo del tutto. La sofferenza è il nostro rituale
quotidiano. Dobbiamo riemergere.
Oro non poté che essere d’accordo. — Esatto, dobbiamo riemergere.
Bruin rimuginò per un lungo momento, e mentre pensava i suoi lineamenti di
pietra stridettero.
— Molto bene — disse alla fine. — Aprirò la serratura, ma la scelta ultima
spetterà a te, regina Opal. Quando si avvisterà la fine, allora tu dovrai
scegliere. La tua anima ne sopporterà le conseguenze come già fa la mia.
Sì, sì, sì, pensò Opal che quasi non riusciva a nascondere l’impazienza e
l’entusiasmo.
— Sono preparata a questa responsabilità — disse gravemente. E anche se
non poteva vederlo, alle sue spalle Oro sbuffò, fin troppo consapevole che la
folletta non aveva a cuore gli interessi del Popolo. Però le sue motivazioni
non contavano, dal momento che il risultato finale, l’estinzione dell’umanità,
sarebbe stato lo stesso.
D’un tratto i lineamenti di Bruin furono sommersi in una pozza di magma
ribollente che si riversò sulla roccia, rivelando due impronte incavate di
mani: la chiave originale di Opal e una nuova, scintillante di un cupo color
rosso sangue.
— Fa’ una scelta disinteressata — la ammonì la voce di Bruin dal profondo
della roccia. — La prudenza chiuderà completamente la porta, liberando le
anime e distruggendo la via per sempre. La disperazione evocherà il potere di
Danu e cancellerà gli umani dalla faccia della Terra. Il Popolo non sarà più
confinato nel sottosuolo.
Vada per l’impronta B, pensò felice Opal. Ho sempre trovato che la
disperazione sia uno stimolo meraviglioso.
Ora che finalmente era arrivato il punto culminante, Opal si interruppe per
assaporarlo per un eccitante momento.
— Questa volta è impossibile che io perda — disse a Oro. — Mammina
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premerà il pulsante grosso.
Oro avrebbe premuto il pulsante lui stesso solo per impedire a Opal di
continuare a definirsi “mammina”, ma purtroppo solo chi aveva aperto la
porta poteva attivare la seconda serratura.
La folletta agitò le dita. — Ci siamo. Mammina è pronta.
E poi, una voce parlò dal bordo del cratere: — L’umano si arrende. E ha
portato l’elfa con sé.
Finora, Opal non si era resa conto che quel momento non era del tutto
perfetto. Ma adesso lo sarebbe stato.
— Portateli da me — ordinò. — Voglio che assistano anche loro.
Artemis Fowl trascinava una figura incappucciata, con i talloni che
scavavano solchi nel terreno. Quando raggiunsero il cratere che si era aperto
all’arrivo di Opal, uno dei pirati gli diede uno spintone che lo fece rotolare
giù per la discesa, procurandogli escoriazioni alla faccia a ogni giravolta. La
seconda figura ruzzolò al suo fianco, e quando i due raggiunsero la base della
Porta dei Berserkr sembravano quasi coordinati: una coppia lacera e
sconfitta. La seconda figura atterrò a faccia in su: era Spinella Tappo. Ed era
evidente che non era venuta di sua volontà.
— Oh, povera me — ridacchiò Opal dietro il pugno. — Poveri cari, come
siete patetici. — La folletta era orgogliosa di se stessa perché dentro di sé
trovava compassione per gli altri.
Mi dispiace davvero per queste persone, si rese conto. Buon per me.
Ma poi Opal ricordò come Artemis Fowl e Spinella Tappo fossero i
responsabili degli anni che aveva passato in una cella di massimo isolamento
e di ciò che era stata costretta a fare per poter evadere, e la sua compassione
evaporò come rugiada al sole.
— Aiutali ad alzarsi — ordinò Oro a Juliet che, accovacciata, era impegnata a
mangiare un coniglio.
— No! — strillò Opal. — Perquisisci il Fangosetto in cerca di armi e poi falli
strisciare ai miei piedi. Voglio che il ragazzo implori per l’umanità. Voglio
vederlo con le ginocchia insanguinate e lacrime di disperazione sulla faccia.
Gli spiriti del Popolo avvertirono che la fine era vicina e che presto le loro
anime sarebbero state finalmente sciolte dall’obbligo e avrebbero ottenuto la
pace, perciò si radunarono alla base della Porta dei Berserkr nei corpi presi in
prestito, formando un cerchio magico serrato. Osservarono Artemis
trascinare faticosamente Spinella su per i gradini, la schiena curva per la
fatica.
Vorrei poterlo vedere in faccia, pensò Opal. Vedere quanto gli costa.
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Il corpo di Spinella sbatteva floscio sugli scalini, e una gamba penzolava oltre
il bordo della torre. Sembrava piccola e fragile e aveva il respiro irregolare.
Opal si concesse di immaginare quello che Fowl doveva essere stato costretto
a fare all’elfa per sottometterla.
Li ho messi l’uno contro l’altra, pensò. La vittoria suprema. E lo hanno fatto
per niente, gli sciocchi.
Artemis raggiunse la sommità e lasciò cadere l’amica come un sacco di
patate. Si voltò verso Opal, con l’odio scritto a caratteri cubitali sui suoi
lineamenti normalmente impassibili.
— Eccoci qui, Sua Maestà — disse con disprezzo. — Mi arrendo, come mi è
stato ordinato, e ho costretto Spinella a fare altrettanto.
— E io sono lieta di vederti, Artemis. Davvero lieta. Questo rende tutto
semplicemente perfetto.
Artemis appoggiò i gomiti sulle ginocchia, ansimando, con il sangue che gli
colava dal naso. — Spinella ha detto che non avresti mai mantenuto la
parola, ma io le ho assicurato che c’era per lo meno una possibilità, e che
finché c’era una possibilità non avevamo altra scelta. Lei non era d’accordo,
e io sono stato costretto a somministrare sedativi alla mia amica più cara. —
Artemis guardò la folletta dritto negli occhi. — C’è una possibilità, Opal?
La folletta fece una risata stridula. — Una possibilità? Oh, cielo, certo che no.
Non c’è mai stata. Ti voglio bene, Artemis, sei troppo divertente. — Agitò le
dita con una danza di scintille.
Il colore svanì dal volto di Artemis. Le sue mani tremavano per la fatica e la
rabbia. — Non ti importa delle vite che prenderai?
— Non voglio uccidere proprio tutti. Ma affinché io possa avere il comando
totale, qualcuno dovrà scomparire: gli umani o il Popolo. Ho scelto il tuo
gruppo perché nel sottosuolo ho già un bel po’ di sostegno. Esiste un sito
Internet segreto, e ti sorprenderebbe conoscere alcuni dei nomi registrati.
I guerrieri restanti alzarono gli occhi dal cratere, ondeggiando piano e
borbottando preghiere alla dea Danu. Due pirati si accasciarono
all’improvviso con uno sbatacchiare di ossa.
— I miei bambini vengono meno — disse Opal. — È ora che mammina li
mandi in cielo. Bellico, fa’ arretrare un po’ quel genietto molesto. È
improbabile che Artemis Fowl lanci davvero un attacco fisico, ma bisogna
riconoscere che ha il dono di mandare all’aria i miei piani migliori.
Juliet ricacciò Artemis a terra. Sul suo viso non c’era alcuna emozione;
semplicemente, non poteva fare altro.
— Devo uccidere il Fangosetto? — chiese impassibile.
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— Assolutamente no — rispose Opal. — Voglio che veda. Voglio che provi
la disperazione suprema.
Artemis cercò di mettersi in ginocchio. — Gli umani non sono una minaccia
per te, Opal. Per la maggior parte non sanno neppure che il Popolo esiste.
— Oh, adesso lo sanno. I nostri navettiporti sono tutti spalancati e privi dei
loro scudi. Ho rivelato ai Fangosi la nostra esistenza, perciò adesso non ho
altra scelta se non eliminarli. È una questione di logica.
Juliet piazzò un piede sulla schiena di Artemis, schiacciandolo a terra. — È
pericoloso, mia regina. E se l’elfa traditrice si sveglia, potrebbe farti del male.
Opal indicò i soldati di terracotta. — Tu blocca l’elfa e di’ a quelle statue
mobili che tengano fermo il ragazzo. Mammina vorrebbe fare una piccola
esibizione. Lo so, è un cliché, ma da oggi in poi probabilmente in pubblico
dovrò essere regale e altruista.
Juliet sollevò Spinella per la collottola, sorreggendola senza difficoltà. Due
guerrieri cinesi immobilizzarono Artemis in una morsa di argilla cotta,
lasciandogli libertà di movimento solo alle mani e ai piedi.
Non può fare niente, pensò Opal soddisfatta.
— Portateli qui — ordinò. — Voglio che entrambi mi guardino mentre
ripulisco il pianeta.
Artemis si divincolò inutilmente, ma la testa di Spinella ciondolava nel
cappuccio, e questo infastidì leggermente Opal, che avrebbe preferito vedere
l’elfa ben sveglia e terrorizzata.
La folletta si sistemò vicino alla predella rialzata, tamburellando con le dita
sulla pietra come una pianista. Mentre parlava, lavorava alla Porta dei
Berserkr e affondava le dita nella pietra, che si scioglieva al suo tocco.
— Un tempo gli umani avevano la magia — incominciò. Forse avrebbe
dovuto imbavagliare la boccaccia tagliente di Artemis, nel caso avesse voluto
rovinarle l’euforia del momento con qualcuno dei suoi commenti sarcastici.
Anche se, a giudicare dall’espressione vacua sulla faccia del Fangosetto,
aveva esaurito tutto il sarcasmo.
— È così. Gli umani padroneggiavano la magia bene quasi quanto i demoni.
Ecco perché Bruin Fadda ha gettato tutti quegli incantesimi su questa
serratura. Ha pensato che se un umano fosse diventato abbastanza potente da
decifrare gli incantesimi, allora per il bene del Popolo non gli restava altra
scelta se non scatenare il potere di Danu. — Opal sorrise affettuosamente
rivolta alla Porta dei Berserkr. — Adesso sembra facile, come un gioco da
ragazzi — continuò. — Solo due impronte di mani su un piano di pietra. Ma i
calcoli che non ho dovuto fare! Polledro non ci sarebbe mai riuscito, te lo
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garantisco. Quel ridicolo centauro non ha idea di che cosa ci sia voluto per
risolvere questo enigma: rune incantate in diverse dimensioni, fisica
quantistica, matematica magica. Dubito che esistano quattro persone al
mondo che sarebbero riuscite a riportare in vita quel vecchio sciocco di
Bruin. E ho dovuto farlo tutto a mente, senza schermi o carta. Una parte per
via telepatica, attraverso il mio alter ego più giovane. Quando è morta non ho
neppure perso i miei ricordi, e invece avevo creduto di sì. Strano, no?
Artemis non rispose. Si era ripiegato in un silenzio imbronciato e offeso.
— E così, ecco come funziona — continuò Opal allegra, come se stesse
spiegando un problema di matematica a un gruppo di bambini dell’asilo. —
Se scelgo la prima impronta, allora chiudo la porta per sempre e tutti gli
spiriti del Popolo all’interno del cerchio vengono liberati, tranne il mio
ovviamente, perché io sono protetta dalla magia nera. Invece, se scelgo
quella spaventosa mano rossa, allora si scatena il potere di Danu, ma solo
sugli umani. È un peccato che da qui non riusciremo a vedere granché, però
per lo meno io potrò vederti morire e immaginare l’effetto magico su tutti gli
altri.
Con uno strattone Artemis liberò un braccio dalla morsa del guerriero di
argilla strappandogli la manica e uno strato di carne. Prima che chiunque
avesse modo di reagire, posò la mano sulla prima serratura della Porta dei
Berserkr.
Ovviamente non successe nulla. Soltanto Opal latrò una risata. — Non
capisci, stupido ragazzo. Solo io posso scegliere. Non tu, non quel patetico
centauro Polledro, non la tua amichetta elfa. Solo Opal Koboi. Qui sta il
punto. Chi apre la serratura controlla la porta. È codificato fino nel mio
DNA. — La faccia di Opal diventò paonazza per la presunzione, e il mento
appuntito incominciò a tremolare. — Io sono il messia. E io verserò il sangue
perché il Popolo possa venerarmi. Costruirò il mio tempio attorno a questa
stupida porta che non conduce da nessuna parte, e allora si organizzeranno
visite guidate perché le scolaresche imparino tutto su di me.
Ad Artemis rimaneva un solo briciolo di disprezzo. — Avrei potuto chiuderla
— borbottò. — Se solo avessi avuto un paio di minuti.
Opal rimase sconcertata. — Tu avresti… Tu avresti potuto chiuderla? Ma
non mi stavi ascoltando? Non l’ho spiegato in maniera abbastanza chiara?
Nessuno può chiuderla al di fuori di me.
Artemis non sembrava impressionato. — Avrei potuto scoprire come fare.
Mi sarebbe bastata un’altra ora, anche solo dieci minuti. Spinella è un
membro del Popolo, ha la magia. Avrei potuto usare la sua mano e il mio
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cervello. So che avrei potuto farcela. Quanto può essere difficile, se ci sei
riuscita tu? Non sei neppure intelligente quanto Polledro!
— Polledro! — strillò Opal. — Polledro è un buffone! Perde tempo a
giocherellare con i suoi aggeggi, quando ci sono intere dimensioni ancora
inesplorate.
— Ti chiedo scusa, Spinella — disse Artemis con tono formale. — Mi avevi
avvertito e non ti ho voluto dare ascolto. Tu eri la nostra sola possibilità, e io
ti ho ingannata.
Opal era furiosa. Girò attorno ai guerrieri cinesi e raggiunse Juliet, che teneva
Spinella con la testa ancora penzoloni. — Tu sei convinto che questa ridicola
cosa sarebbe mai riuscita a ottenere quello che ho ottenuto io?
— Questa è il capitano Spinella Tappo della Libera Eroica Polizia — ribatté
Artemis. — Mostrale un po’ di rispetto. Ti ha già battuta in passato.
— Ma questo non è il passato — esplose Opal. — Questo è adesso. La fine
dei giorni per l’umanità. — Afferrò la mano di Spinella e l’abbatté nell’area
dell’impronta sulla Porta dei Berserkr. — Oh, ma guarda un po’! La porta
non si chiude. Qui Spinella Tappo non ha alcun potere. — Opal se ne uscì in
una risata crudele. — Oh, povera piccola Spinella. Pensa, se solo la tua mano
potesse attivare la porta, allora le tue sofferenze cesserebbero subito.
— Potremmo farlo — borbottò Artemis, ma i suoi occhi erano quasi chiusi e
sembrava che avesse perso la fiducia in se stesso. La mano libera
tamburellava un ritmo distratto sulla pietra. Finalmente la mente dell’umano
aveva capito.
— Ridicolo — disse Opal, ritrovando la calma. — E pensare che me ne sto
qui a farmi confondere dalle tue ciance. Tu mi irriti, Artemis, e quando sarai
morto sarò contenta.
Mentre Opal inveiva contro Spinella, erano accadute due cose.
La prima fu che la folletta ebbe una serie di pensieri: Certo che la mano di
Spinella sembra davvero piccola.
Opal si rese conto di non avere esaminato attentamente l’elfa da quando era
apparsa sul bordo del cratere. Era sempre rimasta distesa, oppure Artemis ne
aveva riparato il corpo con il proprio.
Ma la sua faccia. Ho visto la faccia. Era decisamente lei, pensò.
La seconda cosa che era accaduta fu che la mano in questione, ancora
appoggiata sulla Porta dei Berserkr, incominciò a strisciare spasmodicamente
verso l’impronta, a tastoni con i polpastrelli.
Opal tirò indietro il cappuccio di Spinella per guardare meglio: vista da
vicino, la faccia crepitava.
194
Una maschera. Una maschera programmabile giocattolo. Come quella che ha
usato Pip…, comprese.
— No! — gridò. — No, non lo permetterò!
Le strappò via la maschera da sotto il mento, e ovviamente dietro non c’era
Spinella. Opal riconobbe il proprio viso clonato e ne rimase fulminata, come
presa alla sprovvista da un colpo violento.
— Sono io! — ansimò, quindi scoppiò in una risatina isterica. — E solo io
posso chiudere la porta!
Seguirono due secondi di sbalordita immobilità da parte di Opal, e questo
permise alle dita di Nopal di disporsi alla perfezione sull’impronta, che
diventò verde e irradiò una luce calda. Dalla pietra si levò odore d’estate e un
canto di uccellini.
Artemis ridacchiò, mettendo in mostra i denti sporchi di sangue. — Ora sì
che sarai “irritata”, suppongo.
La folletta scagliò una maligna pulsazione magica direttamente nel tronco del
clone, strappandolo dalla presa di Juliet e facendolo rotolare via dalla porta,
ma tutto ciò che ottenne con la sua brutalità fu di far sì che la luce eterea
fluisse ancora più in fretta. I raggi color smeraldo salirono a spirale verso
l’alto in uno stretto vortice, poi si allargarono formando una semisfera
attorno al cerchio magico. Con un sospiro di sollievo, i guerrieri immersero
la faccia in quel bagliore verde erba.
— Finalmente è finita, Opal — le disse Artemis. — Il tuo piano è fallito. Tu
sei finita.
La luce era invasa da esseri che sorridevano e facevano gesti. Erano scene di
tempi passati, membri del Popolo vissuti in quella stessa valle.
Opal non cedette tanto facilmente e si riprese. — No. Ho ancora il potere.
Forse perderò quegli sciocchi Berserkr, ma la mia magia mi proteggerà. Ci
sono altri del Popolo da gabbare, e la prossima volta non riuscirai a
fermarmi.
Rifilò un ceffone a Oro per distoglierlo dalla luce. — Assicurati che il clone
sia morto — gli ordinò. — La magia potrebbe non prendere una creatura
senz’anima. Se necessario, finiscila, e fallo subito.
Oro si accigliò. — Ma lei è una di noi.
— E che me ne importa?
— Ma è finita, maestà. Stiamo andando via.
— Fa’ come ti dico, schiavo. Può essere il tuo ultimo atto prima della tua
ascesa. E poi con te avrò finito.
— Ma è innocente. È una folletta indifesa.
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Quell’argomentazione mandò Opal su tutte le furie. — Innocente? E a me che
cosa importa? Ho ucciso un migliaio di membri del Popolo innocenti e ne
ucciderò dieci volte tanti, se lo riterrò necessario. Fa’ come ti dico.
Oro estrasse il pugnale, che nella sua mano parve grosso come una spada. —
No, Opal. Bruin mi ha liberato dal mio vincolo. Non ucciderai altri del
Popolo.
E con efficienza militare, affondò il pugnale nel cuore di Opal con un solo
colpo. La minuscola folletta si accasciò mentre ancora parlava. E continuò a
parlare finché il suo cervello non morì, pronunciando frasi al vetriolo, ancora
incapace di credere che per lei fosse finita. Morì guardando con odio feroce
la faccia di Artemis.
Lui avrebbe voluto ricambiare quell’odio, ma tutto ciò che provava era
tristezza per quella vita sprecata.
Qualcosa che poteva essere uno spirito, o una scura ombra contorta,
lampeggiò per un attimo alle spalle di Opal come un ladro in fuga, e subito si
dissolse nella luce magica.
Tutto questo tempo. Tutto questo combattere, e non vince nessuno. Che
tragedia, pensò il ragazzo.
La luce brillò ancora più luminosa. Dall’aura si staccarono frammenti che
diventarono liquidi rapprendendosi poi attorno ai guerrieri all’interno del
cerchio. Alcuni lasciarono il proprio corpo con facilità, come liberandosi di
una vecchia giacca; altri vennero strappati arto dopo arto e salirono in cielo
con uno scatto. Oro lasciò cadere il pugnale, disgustato dal gesto che aveva
dovuto compiere, quindi abbandonò il corpo di Beckett in un lampo di fuoco
verde.
“Finalmente” disse forse, anche se Artemis non ne era sicuro. Ai suoi lati, i
soldati di argilla si disintegrarono mentre gli spiriti dei guerrieri li liberavano,
e Artemis cadde a terra, faccia a faccia con Nopal.
Il clone aveva gli occhi insolitamente luminosi e quello che poteva essere un
sorriso sulla faccia. Parve concentrarsi sul ragazzo per un momento, poi la
luce nei suoi occhi si spense. Alla fine era serena e, a differenza degli altri del
Popolo, dal suo corpo non si staccò nessuna anima.
Non saresti mai dovuta esistere, pensò Artemis, e poi i suoi pensieri si
rivolsero alla propria salvezza: Devo sfuggire alla magia il più in fretta
possibile.
Le probabilità erano a suo favore, lo sapeva, ma quella non era una garanzia
sufficiente. Era sopravvissuto contro ogni speranza tante di quelle volte negli
ultimi anni che sapeva che le statistiche non sempre contano.
196
Gli venne fatto di pensare che, in quanto umano, poteva semplicemente
scagliarsi contro le pareti di quella semisfera magica, attraversarle e
sopravvivere.
Con tutto il mio genio, mi salverò con un semplice salto, si disse. Si rialzò a
fatica e si diresse verso il bordo della torre. Non erano più di tre metri:
difficile, ma non impossibile. Che cosa non darei per un bel paio di ali di
colibrì di Polledro, adesso, pensò.
Attraverso il liquido verde, Artemis vide Spinella e Leale correre verso il
cratere.
State indietro, amici, pensò. Arrivo.
E saltò. Fu contento che Leale fosse presente per assistere al suo tentativo,
perché fu quasi atletico. Da quell’altezza, gli parve quasi di volare.
Spinella sfrecciava giù per il pendio, per una volta lasciando indietro Leale.
Dalla forma della bocca Artemis vide che stava gridando il suo nome. Le sue
mani toccarono la pellicola della bolla magica e ci passarono attraverso, e per
lui fu un sollievo enorme.
Ha funzionato. Ora tutto sarà diverso. Un mondo nuovo con umani e Popolo
che vivono insieme. Potrei fare l’ambasciatore. A quel punto l’incantesimo lo
catturò come un insetto in un barattolo, e Artemis scivolò all’interno
dell’aura magica come se fosse fatta di vetro.
Spinella si precipitò giù per il fianco della collina tendendo una mano verso
la luce magica.
— Sta’ indietro! — le urlò Artemis, e la sua voce non era del tutto
sincronizzata con le labbra. — Questo incantesimo ti ucciderà.
L’elfa non rallentò, e il ragazzo comprese che voleva tentare un salvataggio.
Non capisce, pensò.
— Leale! — urlò. — Fermala!
La guardia del corpo stese le robuste braccia e avvolse Spinella in un saldo
abbraccio. L’elfa tentò ogni manovra da manuale per liberarsi, ma non c’era
modo di sfuggire a una presa del genere.
— Leale, ti prego. Non è giusto. Doveva toccare a me.
— Aspetta. Aspetta, Spinella. Artemis ha un piano. — Cercò di guardare
attraverso la cupola verde. — Qual è il tuo piano, Artemis?
Tutto ciò che il ragazzo poté fare fu scrollare le spalle con un sorriso.
Spinella smise di divincolarsi. — La magia non dovrebbe avere effetti su un
umano. Perché non ti ha ancora liberato?
Lui avvertì la magia scorrere sul suo corpo in cerca di qualcosa. E lo trovò,
nell’orbita di uno dei suoi occhi.
197
— Ho un occhio di elfo, uno dei tuoi, ricordi? — replicò Artemis,
indicandosi l’iride castana. — Avevo creduto che i miei geni umani
avrebbero avuto la meglio, ma questa è una magia percettiva. Un potere
intelligente.
— Vado a prendere il defibrillatore — disse Leale. — Forse sarà rimasta
ancora una scintilla.
— No — lo fermò il giovane Fowl. — Sarà troppo tardi.
Adesso gli occhi di Spinella erano ridotti a due fessure e un pallore mortale si
era diffuso sulla sua pelle. Era nauseata e distrutta.
— Tu lo sapevi. Perché, Artemis? Perché lo hai fatto?
Lui non rispose. Spinella lo conosceva abbastanza bene ormai, più avanti
avrebbe capito le sue motivazioni. Gli rimanevano pochi secondi e c’erano
cose più urgenti da dire.
— Leale, non è stata colpa tua. Ti ho imbrogliato. In fondo, io sono un genio
tattico e tu eri privo di sensi. Voglio che tu lo tenga bene a mente, nel caso in
cui…
— Nel caso in cui cosa? — urlò la guardia del corpo dall’altra parte di quella
luce viscosa.
Di nuovo, Artemis non rispose. In un modo o nell’altro, Leale lo avrebbe
scoperto.
— Ti ricordi quello che ti avevo detto? — disse poi toccandosi la fronte.
— Me lo ricordo — rispose Spinella. — Però…
Non c’era più tempo per le domande. La nebbia verde fu risucchiata dentro
la Porta dei Berserkr come aspirata da una macchina del vuoto. Per un attimo
Artemis rimase in piedi, incolume, e Leale lasciò cadere Spinella per correre
al fianco del suo protetto, ma poi l’occhio da elfa di Artemis brillò di luce
verde e quando l’eurasiatico prese fra le sue braccia il ragazzo, Artemis Fowl
era già privo di vita.
Spinella si lasciò cadere sulle ginocchia e vide il corpo contorto di Opal
Koboi vicino alla serratura. I resti della magia nera le avevano consumato la
pelle in diversi punti, mettendo in mostra il bagliore d’avorio del suo cranio.
In quel momento quella vista non le fece il benché minimo effetto, anche se
gli occhi sbarrati della folletta l’avrebbero perseguitata nei suoi sogni per il
resto della vita.
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CAPITOLO 19 - LE ROSE
SEI MESI DOPO
Il mondo era molto resistente, e così a poco a poco si riaggiustò. Una volta
passato lo sbalordimento iniziale della devastazione, si levò un’ondata di
opportunismo e qualcuno, vale a dire la maggior parte della gente, cercò di
sfruttare l’accaduto.
Persone un tempo derise come eco-hippy New Age venivano adesso salutate
come salvatrici dell’umanità, mentre si incominciava a capire che i loro
metodi tradizionali di caccia e agricoltura avrebbero potuto sfamare le
famiglie per tutto l’inverno. Guaritori, predicatori e sciamani agitavano i
pugni attorno ai falò e il loro seguito si ingrossava.
Accaddero un milione di cose che avrebbero cambiato il modo di vivere
dell’umanità sulla Terra, ma forse i due eventi principali verificatisi dopo il
Grande Crollo Tecnologico furono la consapevolezza che tutto poteva essere
rimesso a posto e la scoperta del Popolo.
Dopo i primi mesi di panico, un fanatico della Lanterna Verde a Sydney
riuscì a rimettere in sesto Internet, scoprendo che anche se la maggior parte
dei componenti della sua antenna erano esplosi, lui sapeva ancora come
ripararla. A poco a poco, l’era moderna tornò a prendere il sopravvento
mentre le reti della telefonia mobile venivano rimontate da dilettanti e i
bambini si occupavano delle stazioni televisive. Ci fu un ritorno in grande
stile della radio, e alcune delle vecchie voci di velluto degli anni Settanta
vennero richiamate in servizio dai vari ricoveri per infilare CD in disk drive
all’antica. L’acqua diventò il nuovo oro, e il petrolio scese al terzo posto
nell’elenco dei combustibili dopo l’energia solare e quella eolica.
In tutto il mondo si verificarono centinaia di avvistamenti di strane forme di
vita che potevano essere creature magiche o alieni. Ovunque, un attimo
prima quelle creature non c’erano e un attimo dopo si sentiva un crepitio o
uno scoppio e improvvisamente apparivano stazioni di osservazione con
dentro degli ometti. Piccole macchine volanti piovvero dal cielo e sottomarini
inutilizzabili vennero in superficie al largo di un centinaio di grandi città.
Il problema era che tutti quei macchinari si autodistruggevano e che esseri
magici o alieni presi in custodia svanivano inspiegabilmente nel corso delle
settimane successive. L’umanità sapeva di non essere sola sul pianeta, ma
non sapeva dove trovare quelle strane creature. E considerando che l’umanità
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non era neppure ancora riuscita a esplorare i vari oceani, ci sarebbero volute
diverse centinaia di anni prima che sviluppasse la capacità di sondare sotto la
crosta terrestre.
E così le storie vennero gonfiate finché nessuno ci credette più, e l’unico
video sopravvissuto non era convincente neppure la metà di un programma
per bambini.
La gente sapeva quello che aveva visto e ci avrebbe creduto fino alla morte,
ma presto gli psichiatri incominciarono ad attribuire gli avvistamenti di
creature magiche alle varie allucinazioni post-traumatiche di massa che già
contavano dinosauri, supereroi e mostri come quello di Loch Ness.
TENUTA DEI FOWL
L’Irlanda era tornata a essere una vera isola. Le comunità si ritirarono in se
stesse e incominciarono a coltivare alimenti da consumare direttamente
anziché risucchiarne meccanicamente gli elementi nutritivi, imbottirli di
additivi e poi spedirli in altri continenti. Molti ricchi proprietari terrieri
donarono volontariamente i propri campi inutilizzati a gente affamata e
rabbiosa che brandiva attrezzi acuminati.
I genitori di Artemis erano riusciti a tornare a casa da Londra, dove si
trovavano quando il mondo era crollato, e poco dopo il funerale di Artemis
la tenuta dei Fowl era stata suddivisa in più di cinquecento lotti singoli in cui
la gente poteva coltivare quello che voleva tra i frutti e le verdure consentiti
dal clima irlandese.
La cerimonia funebre in sé fu semplice e privata, alla presenza delle sole
famiglie Fowl e Leale. Il corpo di Artemis fu seppellito nel pascolo sul
confine settentrionale in cui il ragazzo aveva passato tanto tempo a trafficare
con il suo aereo a pannelli solari. Leale non vi partecipò perché rifiutava
ostinatamente di credere alle prove fornitegli dai suoi stessi occhi.
Artemis non è scomparso, ripeteva ostinatamente. Questa non è la fine dei
giochi.
Juliet o Angeline Fowl si fermavano di frequente al suo dojo per una
chiacchierata, ma lui non voleva lasciarsi convincere.
E questo fu il motivo per cui la guardia del corpo non diede il benché
minimo segno di sorpresa quando una mattina all’alba il capitano Spinella
Tappo si presentò alla porta del suo alloggio.
— Be’, era ora — la salutò, prendendo la giacca dall’appendiabiti. — Artemis
vi lascia istruzioni e voialtri impiegate metà anno per capirci qualcosa.
200
Spinella gli corse dietro. — Le istruzioni di Artemis non erano esattamente
semplici da seguire. E, com’era prevedibile, erano del tutto illegali.
In cortile, nel bagliore arancione del mattino, si delineava una porta e sulla
soglia c’era Polledro, dall’aria decisamente nervosa.
— Che cosa credi che possa attirare meno sospetti? — domandò Leale. —
Un velivolo dall’aspetto alieno che atterra nel cortile di una casa di campagna
oppure una porta fluttuante con un centauro sulla soglia?
Polledro scalpitò sulla passerella, trascinandosi dietro un trolley sospeso a
mezz’aria. La porta della navetta si chiuse e scomparve dallo spettro visibile
con uno sfrigolio.
— Possiamo procedere, per favore? — chiese. — Tutto quello che stiamo
facendo qui viola le leggi del Popolo e forse è pure immorale. Cavallina
pensa che io sia alla cerimonia di Bombarda. Il Consiglio gli ha davvero
conferito una medaglia, riuscite a crederci? Quel nanetto cleptomane è
riuscito a convincere tutti di avere praticamente salvato il pianeta da solo. E
ha firmato un contratto per un libro. In ogni modo, odio mentire a mia
moglie. Se mi fermo a pensare a questa cosa per più di dieci secondi, potrei
cambiare idea.
Spinella assunse il controllo del trolley. — Non cambierai idea. Ci siamo
spinti troppo in là per tornarcene a casa a mani vuote.
— Ehi, dicevo così tanto per dire — si scusò Polledro.
Negli occhi dell’elfa si poteva leggere una fredda determinazione, che non
avrebbe ammesso obiezioni. Era un’espressione che aveva avuto
praticamente di continuo negli ultimi sei mesi, da quando era tornata a casa
dopo gli eventi della Porta dei Berserkr. La prima cosa che aveva fatto era
stata andare a cercare Polledro alla Centrale.
— Ho un messaggio per te da parte di Artemis — gli aveva detto non appena
si era liberata dall’abbraccio soffocante del centauro.
— Davvero? E che cos’ha detto?
— Ha detto qualcosa a proposito di un bozzolo. Che dovevi nutrirlo.
Quelle parole avevano avuto sul centauro un effetto potente. Era trotterellato
alla porta e l’aveva chiusa a chiave alle spalle dell’elfa. Poi aveva effettuato
un controllo anticimice con una bacchetta che portava sempre con sé.
Spinella sapeva che quella parola doveva avere un significato per il suo
amico.
— Di che bozzolo si tratta, Polledro? E perché ad Artemis interessa tanto?
Il centauro l’aveva presa per le spalle e l’aveva messa a sedere su una
seggiola. — Perché ad Artemis interessa? Tempo presente? Il nostro amico è
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morto, Spinella. Non dovremmo lasciarlo andare?
L’elfa l’aveva respinto ed era balzata in piedi. — Lasciarlo andare? Artemis
non mi ha lasciata andare quando ero nel Limbo. Non ha lasciato andare
Leale a Londra. Non ha lasciato andare l’intera città di Cantuccio durante la
rivolta dei goblin. E adesso dimmi, che cos’è questo bozzolo?
Così Polledro glielo disse, e l’abbozzo di idea di Artemis apparve chiaro,
anche se occorrevano altre informazioni.
— C’era qualcos’altro? — chiese il centauro. — Ha detto o fatto qualcosa
d’altro?
Spinella scosse mestamente la testa. — No. Era diventato un po’
sentimentale, il che era insolito per lui, però era comprensibile. Mi ha detto di
darti un bacio.
Si alzò in punta di piedi e baciò Polledro sulla fronte. — Per ogni evenienza,
immagino.
D’un tratto il centauro era parso sconvolto, quasi sopraffatto, ma aveva
tossito per superare quel momento di debolezza.
— Ha detto: «Bacia Polledro». Queste parole precise?
— No — aveva risposto Spinella ripensandoci. — Mi ha baciata, e poi ha
detto: «Dagli questo da parte mia».
Il centauro aveva fatto un gran sorriso, aveva ridacchiato e poi l’aveva
trascinata in giro per il laboratorio.
— Dobbiamo esaminare la tua fronte al microscopio elettronico — aveva
detto.
Mentre si dirigevano verso la Porta dei Berserkr, Spinella spiegò a Leale la
loro interpretazione del piano di Artemis. Polledro trotterellava davanti ai
due, borbottando calcoli fra sé con un occhio pronto a rilevare la presenza di
umani mattinieri.
— Il bozzolo era quello che Opal aveva usato per sviluppare il suo clone. Era
stato consegnato a Polledro che avrebbe dovuto distruggerlo.
— Ma lui non lo aveva fatto — indovinò Leale.
— No. E Artemis lo sapeva, perché si era introdotto nei registri del
riciclaggio della LEP.
— Perciò Artemis voleva che Polledro sviluppasse un clone? Anche un
vecchio soldato come me sa che ti serve del DNA per farlo.
Spinella si diede una pacca sulla fronte. — Ecco perché mi ha baciato. Nella
saliva c’era DNA sufficiente perché Polledro potesse ricavarne un esercito,
ma agli scanner aeroportuali è sembrato una traccia naturale.
— Un genio fino all’ultimo — commentò Leale. Poi però si fece scuro in
202
volto. — Ma i cloni non sono povere creature vuote? Nopal era al limite della
sopravvivenza.
Polledro si fermò sull’orlo del cratere per spiegare. — Sì, è così, perché non
hanno un’anima. È qui che entra in gioco la magia. Quando la prima
serratura della Porta dei Berserkr è stata chiusa, tutti gli spiriti del Popolo
all’interno del cerchio magico sono stati liberati dai loro corpi, ma è possibile
che Artemis avesse sufficiente umanità dentro di sé e abbastanza forza di
volontà da rimanere in questo regno anche dopo la morte del suo corpo
fisico. In questo momento il suo spirito potrebbe fluttuare liberamente come
un ectoplasma, un organismo etereo.
Leale rischiò di inciampare. — Stai dicendo che Artemis è un fantasma? —
Si voltò verso Spinella in cerca di una risposta diretta. — Sta davvero
dicendo che Artemis è un fantasma?
Spinella guidò il trolley giù per la discesa. — I Berserkr sono rimasti
fantasmi per diecimila anni. Ecco perché l’incantesimo ha funzionato. Se loro
sono durati così a lungo, è possibile che Artemis sia riuscito a resistere per
sei mesi.
— Possibile? — ribatté Leale. — È tutto quello che abbiamo?
Polledro indicò un punto vicino alla torre. — “Possibile” è essere ottimisti. Io
direi piuttosto “a malapena concepibile”.
Spinella sganciò i fermi di un contenitore refrigerato sul trolley. — Sì, be’,
l’“a malapena concepibile” è proprio la specialità di Artemis Fowl.
Leale sollevò il coperchio, e, per quanto se lo aspettasse, ciò che vide lo
lasciò senza fiato. Dentro una tenda di plastica trasparente annebbiata dal suo
fiato c’era il clone di Artemis.
— Artemis — disse. — È proprio lui.
— Ho dovuto lavorare nella serra — spiegò Polledro, sganciando il clone dai
sistemi di sopravvivenza. — E non avevo accesso al mio laboratorio, perciò
ora sul piede sinistro ha sei dita, però, per essere un lavoro rabberciato, direi
che ci somiglia abbastanza. Non avrei mai creduto che lo avrei detto, ma
Opal aveva sviluppato una buona tecnica.
— E lui… Adesso ha quindici anni, giusto?
Polledro nascose la faccia dietro un fascio di sondini per l’alimentazione. —
In realtà, i tempi mi sono scappati un po’ di mano, perciò è un po’ più
vecchio. Però non preoccuparti, gli ho fatto una trasformazione completa.
Contrazione della pelle, levigatura delle ossa, iniezioni di midollo… Gli ho
perfino lubrificato il cervello. Credimi, neppure sua madre noterebbe la
differenza.
203
Si sfregò le mani e cambiò argomento. — Su, al lavoro. Fatemi vedere dov’è
morto Artemis.
— Laggiù — indicò Spinella. — Vicino…
Era stata lì lì per dire “alla torre”, ma nel vedere le rose incredibili che
crescevano in fitti cespugli proprio nel punto in cui Artemis era crollato le
rimase il fiato in gola.
Le rose della tenuta dei Fowl erano un qualcosa di sensazionale con la loro
fioritura in una spirale perfetta ai piedi della torre rotonda, dove non erano
mai state piantate. I loro insoliti petali arancione brunito le rendevano visibili
anche dagli altri appezzamenti, e a Juliet era stato affidato il compito di far sì
che nessuno degli abitanti del paese ne cogliesse anche un solo stelo.
A causa delle recenti voci sull’esistenza del Popolo, i lavoranti dei lotti
avevano preso a chiamare quei fiori “rose delle fate”, un nome più adatto di
quanto non sospettassero.
Leale portava il clone nella plastica e d’un tratto ricordò una notte di alcuni
anni prima, quando in un prato aveva avuto fra le braccia qualcun altro, con
l’erba alta che frusciava nella scia di Artemis.
Solo che quella volta trasportavo Spinella, pensò.
Polledro lo riscosse dai suoi pensieri. — Leale, devi sistemare il corpo fra le
rose, al centro della spirale. Senza un sistema di sopravvivenza, abbiamo solo
pochi minuti prima che la degenerazione abbia inizio.
Leale depositò delicatamente il clone all’interno della spirale su un tratto
morbido privo di spine.
L’elfa si inginocchiò per aprire lo zip della tenda. Scostò i lembi e liberò il
nuovo corpo di Artemis rivestito di un camice ospedaliero. Il clone aveva il
respiro affrettato e la fronte imperlata di sudore.
Polledro si mosse rapido attorno, raddrizzandone gli arti e rovesciando la
testa all’indietro per liberare le vie respiratorie. — Queste rose sono un segno
— osservò. — Qui ci sono dei residui magici. Scommetto che questa
formazione riprende all’incirca il disegno della runa originale di Bruin Fadda.
— Affidi tutte le tue speranze a un’aiuola in mezzo a un prato?
— No, certo che no, Leale. La magia di Bruin Fadda era potente, e una
persona con la forza di volontà di Artemis potrebbe tranquillamente resistere
un paio di mesi.
Leale si teneva la testa fra le mani. — E se non funziona, Spinella? Se ho
lasciato morire Artemis?
Spinella si voltò di scatto e vide che Leale era sottoposto a un’altissima
tensione emotiva. Si era nascosto dietro un rifiuto della realtà per sei mesi, e
204
se Artemis non fosse tornato indietro, si sarebbe rimproverato per sempre.
Se non funziona, Leale potrebbe non riprendersi mai, si rese conto.
— Certo che funzionerà! — lo rassicurò. — Ora, basta ciance e via con la
resurrezione. Quanto tempo abbiamo, Polledro?
— Staccato dal sistema, il clone può sopravvivere forse per quindici minuti.
Leale sapeva che l’ora delle obiezioni era finita. Avrebbe fatto tutto il
necessario per garantire a quel piano una possibilità di successo.
— Molto bene, Spinella — disse riscuotendosi. — Io che cosa devo fare?
L’elfa si accovacciò a un metro di distanza dal clone, con le dita strette
attorno agli steli di rosa, incurante delle spine che le trafiggevano la pelle. —
Non ci resta che aspettare. O compare oppure lo abbiamo perso per sempre.
E credo che perderemmo anche qualcosa di noi, pensò Leale.
Aspettarono, ma non accadde niente fuori dal normale. Gli uccellini
cantavano, il cespuglio frusciava e il vento portava attraverso i prati il rumore
di un trattore. Spinella, agitata, strappava i fiori, e mentre lei si preoccupava
Leale fissava il volto del clone e intanto ricordava episodi del passato insieme
al suo capo.
Non c’è mai stato nessuno come Artemis Fowl, pensò. Anche se con tutti i
suoi intrallazzi non mi ha mai facilitato il lavoro. Leale sorrise. Gli ho sempre
guardato le spalle, per quanto fossero piccole in confronto alle mie.
— Spinella — mormorò. — Non viene…
E poi il vento cambiò, e di colpo Leale sentì il profumo delle rose. L’elfa si
alzò esitante. — Sta succedendo qualcosa. Credo che stia succedendo
qualcosa.
La brezza sollevò un paio di petali e li spinse in alto nel cielo. Molti altri se ne
staccarono dai fiori mentre il vento sembrava lambire la curva della spirale
arancione, spogliando in fretta tutti i fiori. I petali si levarono come farfalle,
svolazzando scintillanti, così numerosi da riempire il cielo e oscurare il sole.
— Artemis! — gridò Leale. — Segui la mia voce.
Ce l’ha fatta? È arrivato il momento più grande di Artemis Fowl?, si chiese.
I petali volteggiarono con un rumore simile a un coro di sospiri e
improvvisamente piombarono a terra come sassi. Il clone non si era mosso.
Spinella avanzò lentamente, come se stesse imparando a usare le gambe, poi
si lasciò cadere sulle ginocchia e strinse una mano del clone. — Artemis —
disse, e la sua voce era come una preghiera. — Artemis, ti prego.
Ancora niente. Adesso neanche più il respiro.
Leale non aveva tempo per le sue solite maniere impeccabili e scostò l’elfa.
— Scusami, capitano. Questa è la mia area di competenza.
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Si inginocchiò accanto al pallido clone e cercò il battito con il palmo. Niente.
Gli rovesciò la testa all’indietro, gli pizzicò il naso e gli fece la respirazione
bocca a bocca.
Avvertì un battito debole sotto la mano e si lasciò cadere all’indietro. —
Spinella. Credo… credo che abbia funzionato.
L’elfa strisciò sul tappeto di petali. — Artemis — disse. — Artemis, torna da
noi.
Ci furono altri due respiri, poi molti altri irregolari, quindi gli occhi del
ragazzo si aprirono. Entrambi di un azzurro sorprendente. Inizialmente erano
sbarrati per lo shock, ma poi le palpebre incominciarono a sbattere piano
come le ali di una falena in trappola.
— Sta’ calmo — gli disse Spinella. — Sei al sicuro.
Artemis si accigliò, cercando di mettere a fuoco. Era chiaro che le sue facoltà
non erano ritornate completamente e che non ricordava ancora le persone
curve su di lui.
— State indietro — disse. — Non sapete con che cosa avete a che fare.
Spinella gli prese una mano. — Noi ti conosciamo, Artemis. E tu conosci noi.
Cerca di ricordare.
Lui cercò di farlo, concentrandosi finché alcune nuvole non incominciarono
a diradarsi.
— V-voi — chiese un po’ esitante. — Voi siete miei amici?
Spinella pianse di sollievo. — Sì, siamo tuoi amici. Adesso dobbiamo
portarti dentro, prima che arrivi la gente del posto e veda l’erede da poco
scomparso scortato da appartenenti al Popolo.
Leale aiutò Artemis a rialzarsi, anche se era ovviamente malfermo.
— Oh, avanti — borbottò Polledro offrendo l’ampio dorso. — Solo per
questa volta.
Leale sollevò Artemis, lo sistemò sulla schiena del centauro e lo tenne fermo
con l’enorme mano.
— Mi hai fatto preoccupare, Arty — gli disse. — E i tuoi genitori sono
distrutti. Aspetta solo che ti vedano.
Mentre attraversavano i campi, Spinella indicò alcuni punti in cui avevano
vissuto insieme esperienze significative, sperando di stimolare così la
memoria dell’amico.
— Spiegatemi — disse il ragazzo con la voce ancora debole. — In che modo
vi conosco?
E così Spinella incominciò la sua storia: — È iniziato tutto a Ho Chi Min,
un’estate. Il caldo era soffocante. Inutile dirlo, Artemis Fowl non sarebbe
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stato disposto a sopportare un disagio tale se non fosse stato in gioco
qualcosa di straordinariamente importante. Importante per il suo piano…
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