04_Il deserto dei Tartari, un romanzo a lieto fine

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04_Il deserto dei Tartari, un romanzo a lieto fine
Lucia Bellaspiga
Il deserto dei Tartari,
un romanzo a lieto fine
Una rilettura del capolavoro
di Dino Buzzati
A Ileana Gialdi Ferragni
Racconta Buzzati che, ogni volta che muore una persona cara, nel nostro giardino personale cresce una
gobba di terra. «Naturalmente mi domando anche se
in qualche giardino sorgerà un giorno una gobba che
mi riguarda, magari una gobbettina di secondo o terzo
ordine, appena un’increspatura nel prato […]. Eppure
una persona quella sera inciamperà nella gobbetta e inciamperà anche la notte successiva e ogni volta penserà, perdonate la mia speranza, con un filo di rimpianto
penserà a un certo tipo che si chiamava Dino Buzzati».
Insieme ci commuovevamo su queste parole. Oggi nel
mio giardino siete uno accanto all’altra. E tu di sicuro
batti ancora le mani per la contentezza.
Introduzione
Un libro da leggere due volte
Ciò che abbellisce il deserto
è che nasconde un pozzo in qualche luogo.
Antoine de Saint-Exupéry
L’ufficiale Giovanni Drogo, appena nominato sottotenente, viene comandato alla Fortezza Bastiani, un inaccessibile e remoto avamposto
militare, dove una nutrita guarnigione ha il compito di sorvegliare la
frontiera desertica che separa l’impero da una misteriosa popolazione:
i Tartari. Trascorrerà alla Fortezza tutta la sua vita nella attesa vana di
una minaccia che si concretizzerà proprio nel momento in cui, anziano, stanco e malato, dovrà abbandonare per sempre la guarnigione.
Proprio quando i Tartari finalmente avranno attaccato l’impero.
Wikipedia, la nota enciclopedia popolare on line, propone in
questi termini la trama del film Il deserto dei Tartari, diretto per
il grande schermo da Valerio Zurlini nel 1976, e noi qui la citiamo
soltanto perché rappresenta bene l’opinione corrente, quel sentito
dire che nel pensiero della gente fa del romanzo buzzatiano un’opera disperata, caratterizzata da un finale drammatico e tetro. Un
finale – lo vedremo – ben diverso da quello originale concepito
dallo scrittore. Eppure il bel film di Zurlini è una delle poche
trasposizioni cinematografiche da sempre considerate opera di
successo e lettura fedele del libro cui si ispira. C’è da chiedersi
allora se sia stato il film a diffondere una distorta concezione del
romanzo di Buzzati, o se invece il regista Zurlini abbia interpretato
l’impressione generale che, a una lettura superficiale, condannava
da sempre Il deserto alla nomea di libro senza speranza. Forse la
verità è biunivoca.
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Fatto sta che anche recentissime trasposizioni teatrali ripercorrono la stessa strada proponendo un finale negativo. Basta citare
un lungo monologo intitolato Il deserto dei Tartari, portato sulle
scene dall’attore Woody Neri secondo l’adattamento di Maura Pettorruso e la regia di Carmen Giordano per Trentospettacoli (http://
www.youtube.com/watch?v=8m79cNKMZPg): un’ora e dieci minuti
di teatro suggestivo, fedele al testo di Buzzati, capace di ricreare
atmosfere e scegliere le pagine irrinunciabili… fino a un’ora e nove
minuti. Il tutto infatti prende una piega inaspettata proprio all’ultimo minuto, quando improvvisamente la trama teatrale supera un
bivio invisibile e si allontana dallo spirito del romanzo: «Forse lei
non sa, dottore, ma io sono venuto qui per uno sbaglio», pronuncia
un Drogo sofferente, quasi farfugliante, riprendendo il tema iniziale del romanzo, quando decenni prima un Drogo ancora giovane
e insipiente pensava di restare pochi mesi alla Fortezza Bastiani e
poi finalmente tornarsene in città.
L’opera teatrale in questione, dunque, si chiude con il tema
dell’errore e su questo terribile inganno si spegne l’unica lampadina presente sulla scena, resta solo un buio ineluttabile e nero.
Non a caso le recensioni dello spettacolo, di per sé positive proprio grazie alla suggestiva realizzazione, si lasciano però deviare
dall’interpretazione dell’adattamento e attribuiscono a Buzzati una
filosofia che invece non gli appartiene: «Lo stesso tenente cercherà
di commisurarsi e illudersi dell’errore di esser lì: è l’ossessione
portante di tutto lo spettacolo, e forse dell’omonimo romanzo del
milanese Dino Buzzati, in cui nel “sono qui per uno sbaglio” congelerà ogni tentativo di luce da parte del tenente, compagno solo
dello spegnere e accendere le lampadine della stanza/tomba», scrive nell’aprile del 2013 Mauro Racanati in «Pensieri di cartapesta»,
portale web di critica teatrale, quando la pièce va in scena al Teatro
Argot di Roma. E ancora negli stessi giorni Maria Pia Monteduro
in «Paneacquaculture.net», scrive che «alla fine, sconfitta crudele,
forse stanno veramente arrivando dei nemici, ma ormai Drogo
è morente, dimenticato da tutti i suoi stessi commilitoni, e non
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può partecipare all’attacco: egli assapora così l’amaro gusto della
sconfitta di una vita, della resa di fronte a un destino beffardo e
spietato». Fine. La critica non nota alcuna discrepanza col testo
buzzatiano, insomma, anzi, giudica la pièce «un’operazione teatrale
ben riuscita», il che può essere (non stiamo discutendo di questo),
ma perlomeno come «rielaborazione liberamente tratta da». Nemmeno le recensioni sui grandi quotidiani nazionali notano nulla,
soffermandosi tutti a sottolineare soltanto l’ardua sfida di portare
sulla scena un romanzo immobile e privo di trama come Il deserto
dei Tartari e l’efficacia scabra ed essenziale del risultato.
Persino uno scrittore cristiano che si definisce amante di Buzzati, come Vittorio Messori, descrive il romanzo come un «libro,
in effetti, disperato». Lo sostiene sul quotidiano «Avvenire» il 31
gennaio del 2007, in un articolo intitolato infatti Il Deserto senza
Dio. E prosegue: «La vita non ha significato, il solo modo di attraversarla è affidarsi, senza riflettere e senza porsi dei perché, a una
regola astratta e inflessibile. Il tenente Drogo è un monaco, ma di
una religione senza Dio, i regolamenti militari sono le regole del
suo Ordine, la Fortezza è il suo monastero. Ma tutto questo non ha
alcun significato, come sa bene il prima giovane, poi maturo, infine
vecchio ufficiale». Messori, dunque, proprio come il pluripremiato
film di Zurlini e la pièce di Pettorruso/Giordano, coglie perfettamente le atmosfere che attraversano il romanzo, ma si ferma prima di individuarne il significato ultimo, comprende il non-senso
dell’attesa dei Tartari ma non la rivelazione finale, l’illuminazione
che nell’ultima pagina fa sorridere Drogo e lo rende un vincente.
Troncare il finale cui l’intero libro tende fin dalla prima riga significa tradirne l’obiettivo. A una lettura attenta e non aprioristica
è infatti evidente che l’autore scrive il romanzo con un progetto
preciso che lui ha chiaro fin dall’inizio e prende forma man mano,
costruisce di capitolo in capitolo proprio quel finale che ci rivelerà
solo in ultimo, direi in extremis, sorprendendo noi e insieme Drogo, in contemporanea. Il senso di centinaia di pagine (e di decenni
di attesa nella Fortezza Bastiani) è tutto lì, nel sorriso vittorioso di
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Drogo: censurato questo, crolla il romanzo e il motivo per cui fu
scritto. Sarebbe come seguire tutto l’impianto dei Promessi sposi
senza il trionfo del bene sul male, o percorrere la struttura rigorosissima della Divina Commedia senza il «riveder le stelle».
Anche lo studioso di Buzzati più famoso in Francia, Yves Panafieu, proprio di recente ha riproposto una lettura del romanzo
in chiave negativa, dovuta a un’interpretazione quanto meno
discutibile dell’intera opera, vista addirittura come denuncia
antifascista1. Insomma, poiché l’intento di Buzzati sarebbe stato
quello di stigmatizzare il regime, rappresentato dalla Fortezza
Bastiani, ne consegue che ogni cosa che avviene sui suoi spalti è di
per sé negativa, violenta, fallimentare. E a Drogo – secondo questa
lettura, direi per nulla buzzatiana –, divorato dall’entità Fortezza/
Fascismo, non resta che il fallimento. Secondo Panafieu, infatti, Il
deserto dei Tartari, «sotto il camuffamento della a-temporalità e
della spazialità irriconoscibile, ci ha intelligentemente restituito la
dinamica e il significato letale che il militarismo fascista si portava
dentro». E per questo Drogo non ha altra prospettiva se non una
morte «che, tutto sommato, è un fallimento». Lo stesso Panafieu
ammette però che, stranamente, nella lunga intervista che fece a
Buzzati nel 1971 (poi sbobinata e divenuta un libro fondamentale
pubblicato nel 1973 da Mondadori, Dino Buzzati: un autoritratto)
non riuscì «a ottenere da Buzzati questo genere di confidenza»,
nonostante si fosse raccontato a 360 gradi, in ogni più intima piega
e con sincerità persino cruda…
Ancora più di recente il critico e giornalista Piero Dorfles, nel
saggio pubblicato da Garzanti I cento libri che rendono più ricca
la nostra vita – una accattivante rassegna dei romanzi della letteratura mondiale «che sono entrati a far parte dell’immaginario
letterario collettivo» e «permettono di stabilire un contatto con
Vedi, anche per le citazioni successive, Yves Panafieu, La letteratura come riflesso
della storia nazionale: Nievo e Buzzati, in «P.R.I.S.M.I - Revue d’études italiennes», n. 12, a cura di Cristina Vignali, Éditions Chemins de Tr@averse, 2014.
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gli altri lettori perché rappresentano un patrimonio comune ineludibile» – annovera tra questi Il deserto dei Tartari, del quale
sottolinea: «Come spesso accade per i grandi libri, l’intreccio non
rende la complessità del romanzo, che consiste piuttosto nel clima
di sospensione, di attesa». Il Deserto, insomma, è «un romanzo
di formazione, che presenta il percorso del protagonista», nota
giustamente Dorfles. Solo che nel percorso di Drogo si avventura
senza arrivare fino in fondo e anche per lui la storia sfocerà nella
«amarezza dei suoi ultimi istanti»: «Quando finalmente all’orizzonte si profila l’armata dei nemici, con cannoni e carriaggi, per
Drogo è troppo tardi. Vecchio, stanco, malato, non è più in grado
di combattere. Viene allontanato, non vedrà mai i tartari che
attraversano il deserto per assaltare la Fortezza, e morirà solo e
abbandonato in una misera locanda, sulla strada del ritorno». Così
Dorfles descrive il finale. Quella di Drogo sarebbe quindi la storia
di un fallimento senza appello, «l’inutile e velleitaria attesa di un
evento esterno, che […] dia significato a un’esistenza che è vuota
perché noi, da soli, non siamo riusciti a riempirla; col rischio che, se
e quando l’evento si debba verificare veramente, sia troppo tardi».
Beninteso, esistono anche critiche de Il deserto dei Tartari approfondite e lucide (la stessa Wikipedia sottolinea il fatto che nel
film Drogo muore «disperato e pieno di rimpianti», mentre nel
libro è «riappacificato con la sua storia, della quale ha finalmente
trovato un senso anche ultraterreno»), ma la vulgata resta tuttora
quella del romanzo pessimista e, come abbiamo visto, in questa
rientrano anche noti scrittori.
Ecco perché proponiamo questa rilettura passo passo, accompagnati dallo stesso Buzzati, parlando poco noi e citando sempre lui,
in modo da chiudere una volta per tutte la querelle e dimostrare
che Drogo non è un perdente ma un vincente, secondo una scaletta
limpida nella testa di Buzzati dalla prima riga: la rivelazione che
divampa solo nell’ultima pagina balena qua e là lungo tutto il romanzo, senza mai mostrarsi del tutto ma facendosi presagire. Per
questo, Il deserto è un libro da leggere due volte: la prima per non
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capire nulla fino all’epilogo e lasciarsi sorprendere (l’effetto che
Buzzati ricercava), la seconda per ricucire le trame e riconoscere
a ritroso le tante premonizioni. La vicenda è circolare e alla fine
tutto torna.
In queste pagine cercheremo di rivelare la ferrea impalcatura –
fatta di rimandi, simmetrie, volute ripetizioni – con cui Buzzati
costruisce un impianto in cui nulla è lasciato al caso, nemmeno la
cadenza dei sorrisi, calcolati, inseriti laddove servono e a uno scopo
ogni volta diverso. Percorreremo i passaggi fondamentali, e soprattutto sottolineeremo le frequenti analogie con tanti racconti scritti
lungo tutta la sua vita, per dimostrare che il messaggio eroico de
Il deserto trova corrispondenza e conferma in tanto altro Buzzati,
con coerenza, anche a decenni di distanza.
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