Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
La scommessa era fare un film muto e in bianco e nero, che piacesse nell'era del 3D. Possibile? Ma sì,
visto che, tra l'altro, il 3D piace poco. E poi questo è un film muto che racconta della fine del cinema
muto. Un film semplice e colto: semplice come il 'vero' muto, fatto di gesti ampi, espressività accentuate
e narrazioni forti, ma anche colto, come ogni riproposizione 'postmoderna' del passato. The Artist è
un'allusione ai corsi e ricorsi del cinema mainstream, diviso tra un'anima tradizionalista e amante del
buon mestiere ed una innovativa ma frivola e commerciale. Che alla fine trovano un compromesso.
scheda tecnica
durata:
100 MINUTI
nazionalità:
FRANCIA
anno:
2011
regia:
MICHEL HAZANAVICIUS
sceneggiatura:
MICHEL HAZANAVICIUS
fotografia:
GUILLAUME SCHIFFMAN
montaggio:
ANNE-SOPHIE BION
colonna sonora:
LUDOVIC BOURCE
scenografia:
LAURENCE BENNETT, GREGORY S. HOOPER
costumi:
MARK BRIDGES
trucco:
CYDNEY CORNELL
distribuzione:
BIM
interpreti:
JEAN DUJARDIN (George Valentin), BÉRÉNICE BEJO (Peppy Miller), JOHN
GOODMAN (Al Zimmer), JAMES CROMWELL (Clifton), PENELOPE ANN MILLER (Doris), MISSI
PYLE (Constance).
premi:
Oscar:
Miglior film a Thomas Langmann
Migliore regia a Michel Hazanavicius
Miglior attore protagonista a Jean Dujardin
Migliori costumi a Mark Bridges
Miglior colonna sonora a Ludovic Bource
Michel Hazanavicius
Michel Hazanavicius (Parigi, 29 marzo 1967) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico
francese. Nato in una famiglia ebrea di origini lituane, Hazanavicius inizia la sua carriera lavorando per
la televisione, nel 1988 lavora per il canale televisivo Canal +, e successivamente approda alla
pubblicità, dirigendo spot pubblicitari. Nel 1993 dirige, insieme a Dominique Mézerette, il suo primo
lungometraggio, La Classe américaine, un film per la televisione composto interamente da riprese tratte
da vari film prodotti dalla Warner Bros., ri-montato e doppiato in francese.
Dopo aver diretto, nel 1997, il cortometraggio Echec au capitale, dirige Mes amis, interpretato dal
fratello, l'attore Serge Hazanavicius.
Nel 2004 collabora alla sceneggiatura del film Les Dalton, adattamento cinematografico del fumetto
Lucky Luke, concentrato principlamente sui personaggi dei quattro fratelli Dalton. Dopo sette anni torna
dietro la macchina da presa e nel 2006 scrive e dirige il suo secondo lungometraggio, OSS 117: Le
Caire, nid d'espions, una parodia dei film di spionaggio degli anni sessanta e in particolar modo
dell'agente OS 117, un popolare personaggio creato da Jean Bruce nel 1949. Nel 2009 ne dirige un
sequel, OSS 117: Rio ne répond plus.
Nel 2011 dirige The Artist, un film muto e in bianco e nero che si svolge a Hollywood alla vigilia del
"sonoro", presentato in concorso al Festival di Cannes 2011 e vincitore di numerosi premi
internazionali, tra cui il Directors Guild of America Award. Nel 2012 il film gli vale il premio come miglior
regista ai BAFTA 2012 e al premio Cesar come miglior regista francese, oltre che al Premio Oscar agli
Academy Awards come miglior regista. Hazanavicius è sposato con l'attrice Bérénice Bejo.
Aspetti tecnici e curiosità
Il film è stato girato a colori e solo successivamente stampato in bianco e nero. Per dargli un ulteriore
aspetto che ricordasse i film muti degli anni Venti è stato girato con un formato 'vecchio stile' (ratio
1,33:1) e con una frequenza più bassa di fotogrammi per secondo, solo 22 invece dei consueti 24. Le
riprese sono durate 35 giorni e si sono svolte interamente a Los Angeles. Le riprese nella casa di
Peppy Miller si sono svolte in quella che un tempo fu la residenza dell'attrice Mary Pickford.
Il budget del film è stato di circa 14 milioni di dollari, contro un incasso, al 1 marzo 2012, di oltre 33
milioni di dollari solo negli Stati Uniti e 77 nel mondo. Era dall'edizione del 1929 che un film muto non
vinceva l'Oscar. Quanto agli Oscar come miglior film dati a pellicole non americane, a parte numerosi
titoli britannici (si ricordi solo Il discorso del re, titolo anglo-australiano che ha vinto nel 2011), al
neozelandese Il signore degli anelli, uno dei film più premiati di tutti i tempi, nel 1988 fu vinto da
L'ultimo imperatore di Bertolucci, che era girato in inglese. Pare che la lingua inglese, sebbene non sia
prevista come vincolante dal regolamento per le nomination, sia stata finora imprescindibile per la
vittoria in questa categoria: anche in The Artist, infatti, le poche parole pronunciate sono in inglese.
I cani nel cinema
La fortuna dei cani nel cinema, confermata da serie televisive recenti come Il commissario Rex è
antica. Molti cani hanno accompagnato innumerevoli personaggi del cinema, da Charlot al signor
Umberto del film di Vittorio De Sica Umberto D. (1952), donando generalmente un tocco di simpatia, di
comicità o accentuando il dramma con una venatura tenera. Uno dei primi eroi a quattro zampe fu
proprio un cane francese, che recitò inizialmente nel cinema muto, dando origine a un personaggio che
ebbe poi numerosi altri interpreti: si tratta del celebre Rintintin o Rin Tin Tin, un pastore tedesco. Il
personaggio di Rin Tin Tin trae le proprie origini da un cane realmente esistito. Si dice infatti che Rin Tin
Tin fosse stato trovato da un soldato statunitense di nome Lee Duncan in un canile bombardato in
Francia, nella regione della Lorena, poco prima della fine della Prima Guerra Mondiale. Tornato a Los
Angeles, Lee addestrò Rin Tin Tin (ribattezzato "Rinty") a saltare ed esibirsi in diversi trucchi e fu
casualmente notato dal produttore cinematografico Darryl F. Zanuck. Rin Tin Tin divenne così un caneattore, interpretando numerosi film, a partire da Where The North Begins (1923), con la stella del
cinema muto Claire Adams.
I discendenti di Rin Tin Tin furono anch'essi addestrati da Duncan o dai suoi successori, e vennero a
formare una vera e propria dinastia di star, con ruoli televisivi e cinematografici. Quello più noto, il
pastore tedesco del telefilm Le avventure di Rin Tin Tin, era in effetti Rin Tin Tin IV, nato nel 1949; esso
è ora sepolto ad Asnières presso Parigi, nel giardino di una villa lungo la Senna, trasformato nel 1899 in
un cimitero per cani ed altri animali domestici. In Italia ebbero successo soprattutto i fumetti (anni
Trenta) e la serie televisiva Le avventure di Rint Tin Tin (realizzata negli Stati Uniti tra il 1954 ed il 1959
e trasmessa dalla Rai negli anni 60.
Negli anni Trenta c'era poi stato Asta, il cane presente nella serie di sei film inaugurata nel 1934 da
L'uomo ombra con William Powell e Mirna Loy. Asta era un Fox Terrier a pelo ruvido che nella realtà si
chiamava Skippy: il suo successo fu strepitoso e migliaia di cani furono battezzati con il suo nome. Tra
il 1934 e il 1947 Skippy interpretò in totale nove film. Negli anni Cinquanta seguì una serie televisiva
derivata dal ciclo dell'Uomo ombra, interpretata da suoi discendenti.
A Rin Tin Tin e Asta seguì Lassie, un cane talmente famoso che ancora oggi molti italiani usano il suo
nome per definire i cani appartenenti alla razza Collie. Lassie fu protagonista di decine di film, serie
televisive, cartoni animati, fumetti e romanzi, dal 1938 fino ai giorni nostri. Comparve per la prima volta
nel racconto di Eric Knight Lassie Come Home pubblicato sul “Saturday Evening Post” nel 1938.
Lassie è uno dei tre animali reali che hanno ottenuto una stella sull'Hollywood Walk of Fame – le altre
due star sono proprio Rin Tin Tin e Strongheart. Strongheart era il nome del personaggio interpretato
dal cane von Etzel Oeringen, un pastore tedesco che fu a sua volta tra le prime star canine del cinema.
Dopo essere stato addestrato in Germania come cane poliziotto, venne portato negli Stati Uniti dai
registi, marito e moglie, Laurence Trimble e Jane Murfin, che avevano già lavorato con successo con
Jean, una Border Collie. Strongheart apparve in diversi film, tra cui un adattamento del 1925 del
romanzo Zanna Bianca. Purtroppo, la gran parte dei suoi film andò perduta.
In anni più recenti arrivò alla popolarità il cane Tequila, un douge de Bordeaux protagonista insieme a
Jack Scalia della serie poliziesca statunitense Tequila e Bonetti. Peculiare di questo telefilm è il fatto
che gli spettatori sentano i pensieri del cane. Nel 2000 è uscito uno spin-off italiano, in cui il detective
Nick Bonetti si trasferisce a Roma, dove fa squadra con un nuovo Tequila e con la poliziotta Fabiana
Sasso (Alessia Marcuzzi). La razza di Tequila però è stata cambiata: è un incrocio tra un San Bernardo
e un golden retriever. Beethoven è il titolo di un film del 1992, nonché il nome del cane-personaggio,
interpretato da Chris, un San Bernardo di due anni addestrato da Karl Miller, uno dei più noti istruttori di
animali americani. Abbastanza noto è anche il cagnolino Marley, un vivace cucciolo di Labrador
Retriever. Io & Marley è l'autobiografia del giornalista americano John Grogan dedicata al suo cane:
negli Stati Uniti, il libro ha venduto tre milioni di copie e ne è derivato un film del 2008 diretto da David
Frankel, interpretato da Owen Wilson e Jennifer Aniston, oltre che dal simpatico cucciolo. Hachiko è il
nome del cane di razza giapponese Akita Inu protagonista di Hachiko - Il tuo migliore amico, un film del
2009 con Richard Gere, diretto da Lasse Hallström. Hachiko è interpretato da tre cani, Chico, Layla e
Forrest; ognuno di loro interpreta un diverso periodo della sua vita. C'è poi l'alano Sansone, in origine
Marmaduke; nato come striscia comica nel 1954 dal fumettista Brad Anderson, nel 2010 è diventato un
film che narra le vicende del cane pasticcione e dispettoso, doppiato da Owen Wilson, mentre in Italia
la voce è di Pupo. Ed eccoci finalmente a cane – il personaggio infatti non ha altro nome – , la parte
interpretata dal Jack Russel Uggie in The Artist. La mancanza di sonoro assicura a Uggie la possibilità
di spiccare con le sue numerose abilità, tra cui fare il morto, camminare sulle zampe posteriori,
nascondere il musetto tra le zampe, e bucare lo schermo con la sua espressività e vivacità, come nella
scena madre, in cui salva la vita al suo padrone.
Uggie ha nove anni e non ha avuto sempre una vita facile. Il suo primo proprietario lo rifiutò per la sua
eccessiva vivacità. Divenne il cane di una fattoria: tutto bene fino al giorno in cui attaccò una capra. A
quel punto fu spedito in un canile. Il destino di Uggie sembrava segnato, ma a quel punto incontrò colui
che divenne il suo addestratore e nuovo “papà”: Omar von Muller. Omar lo ha addestrato e portato al
successo facendolo recitare prima in un film per home video e poi in una pellicola per il cinema, Come
l’acqua per gli elefanti. Notato da un’agenzia che si occupa di casting per cani, la sua carriera è
decollata fino ad arrivare sul set di The Artist. Nel 2011 è stata lanciata una campagna per fare
pressione sull'Academy Awards, affinché contravvenisse alle regole e gli assegnasse un Oscar
onorario. La campagna ha fallito il suo intento, ma Uggie ha ricevuto una menzione speciale al Prix
Lumière e il Palm Dog Award al Festival di Cannes del 2011. Il Palm Dog Award viene assegnato al
cane, reale o immaginario che sia, che ha recitato meglio nell’ultimo anno.
Uggie ha avuto due controfigure sul set di The Artist, Dash e Dude, ma alla fine non c'è stato bisogno di
usarle: Uggie ha fatto tutto da solo. Von Muller assicura che sa andare anche in skateboard e fare sci
d'acqua. “È molto intelligente e lavora sodo – dice von Muller – e la cosa più importante è che non ha
paura di nulla. Sul set i cani hanno spesso paura delle luci e dei rumori. Uggie riceve in ricompensa
delle salsicce, ma non lavora solo per quello: gli piace sul serio. Ora che sta per compiere dieci anni,
però, andrà in pensione. Il lavoro sul set è duro: d'ora in poi potrà fare solo lavoretti più leggeri”.
la … parola ai protagonisti
Intervista a Jean Dujardin e Bérénice Bejo
Baffo a parte, l’attore francese Jean Dujardin, 38 anni, dal vivo è brillante, esuberante e “charmant”
proprio come il divo del cinema muto che interpreta nella pellicola-rivelazione di questo festival, The
Artist di Michel Hazanavicius. Nel film divide la scena con la deliziosa Bérenénice Bejo (nel film Peppy
Miller, l’attrice che diventa la prima star “sonora”), francese nata in Argentina e moglie del regista. Che,
alla tavola rotonda dove incontriamo entrambi, scherza: “Per me e Michel Jean è stato come un figlio
sul set”. Battute a parte, a legare i tre ci deve essere comunque una certa alchimia, visto che hanno già
lavorato insieme, nel 2006 e nel 2009, per i due episodi di OSS 117, spymovie francese con
protagonista un James Bond maldestro e arrogante (Dujardin appunto). Star in patria ma pressoché
sconosciuto fuori, Dujardin dice di non covare alcuna ambizione hollywoodiana.
“Mi auguro che The Artist abbia successo anche all’estero, ma il mio obiettivo è rimanere a lavorare in
Francia, dove ho la possibilità di fare cose molto diverse. Ho diversi progetti in cantiere e inizierò a
girare un nuovo film proprio in questi giorni”.
Lo interrompe Bérenénice: “Parli così perché sei maschio!". E spiega: "Agli uomini viene data la
possibilità di interpretare ruoli diversi, dal cowboy all’esploratore, alla spia. Un'attrice, invece, può
aspirare solo a parti convenzionali come quelle di moglie, madre e amante. Ecco perché quando leggo i
copioni spesso mi chiedo: ‘Ma perché io devo fare la donna?’”. Essendo The Artist un film muto,
quando bisognava muovere la bocca per fingere di parlare che cosa vi dicevate in realtà? “Un sacco di
bla, bla, bla”, confessa Jean. “La cosa più difficile è stata riuscire a essere espressivo senza risultare
troppo teatrale”, racconta mimando la posa teatrale (con un gesto teatrale). Il suo modello? “Vittorio
Gassman. Adoro la grande commedia italiana, i miei film preferiti sono I mostri e Il sorpasso”.
Nei panni di Peppy, l’attrice Bérénice Bejo dà vita a una donna di successo, pronta a tutto pur di
prendersi cura del protagonista caduto in disgrazia: “Questo film è frutto di passione e perseveranza –
afferma l’attrice – quando lo abbiamo proposto per trovare i finanziamenti, abbiamo visto tante porte
chiudersi davanti a noi. È stata una genesi abbastanza dolorosa, e ci è voluto tanto tempo per portare
questo film alla luce”. E, a proposito della sua preparazione al ruolo, la Bejo continua: “Ho cominciato a
vedere diversi film: il primo film è stato ‘Nostro pane quotidiano’ di Murnau. Ho pensato tanto a Joan
Crawford e guardato diverse pellicole con Marlene Dietrich, il modo in cui recitava con gli occhi e
muovendo il suo corpo. In pratica, ho passato un anno della mia vita a studiare queste attrici”.
Intervista a Michel Hazanavicius.
Ha riscosso consensi anche nella sua proiezione stampa romana, The Artist. Il film muto del regista
Michel Hazanavicius, che si rifà esplicitamente agli anni '20 e cita Cantando sotto la pioggia, si prepara
a sbarcare anche nel nostro paese. Operazione cinefila e raffinata, filologicamente fedele al cinema
che vuole omaggiare ma anche sottilmente ironica, e soprattutto classica storia d'amore sullo sfondo
della storia del cinema, l'opera del regista francese è stata presentata ai giornalisti romani prima di un
incontro in cui lo stesso regista ha spiegato la genesi del suo singolare progetto, e i motivi che lo hanno
portato a realizzarlo.
Com'è nata l'idea di un film di questo tipo?
L'idea è nata dalla mia grande voglia di girare un film muto, voglia che avevo già da 7-8 anni. E' stato
difficile reperire i fondi, molti mi dicevano che non era una cosa fattibile, ma a progetti del genere
bisogna crederci. A me piace molto il format del muto, perché è lo spettatore a inserire mentalmente il
suono e a ricreare il film: in questo caso, meno il regista fa, più lo spettatore ci mette di suo. E' un
cinema di narrazione pura, in cui si racconta una storia attraverso le immagini.
Qual è stata la reazione dei produttori, quando ha proposto loro questo progetto?
Credo che la persona più folle sia stata proprio il produttore Thomas Langmann ad accettare, credendo
nel film e mettendoci anche del denaro personale, dando fiducia ad un'idea che non era la sua.
Come ha lavorato con gli attori?
Loro sapevano che non volevo mimi, pantomime, clown, ecc.: ho chiesto loro di lavorare in modo del
tutto naturale, mettendosi nei panni di personaggi degli anni '20. Ci sono fondamentalmente due
tipologie di film muti: quelli con dei "clown", basati soprattutto sulla gestualità, come i film di Charlie
Chaplin e Buster Keaton, e quelli basati su una recitazione più tradizionale, come quelli di Erich von
Stroheim e del primo Alfred Hitchcock. Io volevo proprio un effetto di questo secondo tipo; inoltre, gli
attori hanno lavorato avendo sempre per sottofondo la musica, e questo li ha senz'altro aiutati; sono
attori strepitosi, comunque, ed è facile fare un film con interpreti di questa portata. Per questo film,
comunque, ho usato una frequenza a 22 fotogrammi al secondo anziché 24, velocizzando leggermente
le scene; nei film moderni si dice spesso "bello, ma dura un quarto d'ora di troppo", in questo modo ho
evitato questo rischio.
Il film è stato un grande successo internazionale, e potrebbe concorrere addirittura agli Oscar. Si
aspettava questo risultato?
Non mi aspettavo davvero che fosse in corsa per gli Oscar, ma devo dire che, quando giro un film, il
mio scopo è quello di sedurre il pubblico: a ciò che accade fuori dalla sala ci pensano produttori e
distributori. Quella di questo film, comunque, è stata una bella storia che nasce dal basso; tanti
presagivano che sarebbe stata una pellicola confinata ai circuiti d'essai, invece il suo successo è
cresciuto sempre più.
Recentemente, John Lasseter della Pixar ha detto che ciò che era vecchio può essere riscoperto e
diventare nuovo. Questo può valere anche per il muto?
Lasseter ha ragione, e la prova è che oggi il pubblico sta riscoprendo il valore del muto, la sua purezza
narrativa. Devo dire di aver adorato questo film, ma non so se ne rifarei un altro simile: per ora non è in
programma, ma in presenza di una bella storia, chissà.
Tutti i grandi registi moderni hanno girato in bianco e nero. Lei, per questo film, che tipo di bianco e
nero ha usato?
Orson Welles disse che il bianco e nero è il miglior amico degli attori, e aveva ragione: come per il
muto, il bianco e nero lascia allo spettatore più possibilità creative, è lui che deve aggiungere il colore. Il
bianco e nero, inoltre, elimina le imperfezioni della pelle, e il formato 1.33:1 esalta i primi piani: insieme
concorrono a un processo di divinizzazione dell'attore. In questo film ho usato molto i grigi, specie nelle
situazioni più negative per il protagonista; in quelle positive, invece, la fotografia è più contrastata.
Quanto ha tenuto conto di classici come Cantando sotto la pioggia e Il silenzio è d'oro nel girare il film?
Cantando sotto la pioggia l'ho visto varie volte e qualche richiamo nel mio film c'è, compreso il tip tap,
ma il tipo di storia in sé è diverso. Il silenzio è d'oro, invece, ammetto di non averlo mai visto.
Chaplin per anni si è rifiutato di fare film sonori, sostenendo che il cinema, col sonoro, avrebbe
guadagnato meno di quanto avrebbe perso. A 90 anni di distanza, pensa che quella fosse una
posizione esagerata?
Chaplin era talmente perfetto nel gestire i suoi personaggi, che era impensabile che Charlot potesse
parlare: era come se Picasso, a un certo punto, si fosse messo a fare fotografia. Non a caso, con
l'avvento del sonoro, il cinema di Chaplin ha continuato a vivere, ma il personaggio di Charlot no. Io
penso che con il sonoro abbiamo guadagnato, complessivamente, ma contemporaneamente si è persa
l'utopia di un linguaggio cinematografico puro, universale. E' un peccato che sia arrivato così presto: se
il sonoro avesse impiegato altri 10 anni ad arrivare, per un decennio avremmo visto tante opere
interessanti.
Come mai la scelta di inserire un attore a quattro zampe in un ruolo così importante?
Il cane non è un attore, ma aveva la caratteristica che gli piacevano le salsicce... è bastato quello per
farlo recitare! Mi piaceva perché lo trovavo un elemento simpatico, ma col tempo è diventato una vera e
propria star; inoltre, lui ha il potere di cambiare il protagonista, che in fondo è un egocentrico, un
egoista che alla lunga avrebbe potuto stancare lo spettatore. La fiducia che il cane ripone nel suo
padrone ci fa pensare che, forse, un po' di fiducia quest'uomo la merita, nonostante tutto. Inoltre, è
importante il particolare che il cane non parla, ma abbaia, comunica al di là del linguaggio e delle parole
e per questo diventa un elemento fondamentale del film: è stato un elemento non voluto, questo, ma è
stata una fortuna che ci sia capitato.
Cosa può dirci sul suo prossimo progetto?
Sarà un film a episodi intitolato Les infidèles, concepito come un omaggio al cinema italiano degli anni
'60 e a titoli come I mostri e I nuovi mostri. Degli episodi di cui si comporrà, io ne dirigerò uno.
Recensioni
Raffaele Meale. Cineclandestino
È un nome praticamente sconosciuto in Italia quello del quarantaquattrenne Michel Hazanavicius,
regista
del
sorprendente
L’Artiste/The
Artist,
selezionato
all’interno
del
concorso
della
sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes: nulla di nuovo, verrebbe da dire, vista e
considerata la pigrizia culturale che attanaglia il nostro paese, ma il dato si fa quantomeno sconcertante
se si pensa al fatto che il cinema francese ha sempre trovato una discreta cassa di risonanza anche al
di qua delle Alpi. Quali siano le motivazioni che abbiano spinto i distributori nazionali a non prestare mai
la benché minima attenzione al cinema di Hazanavicius, fatto sta che alla luce di The Artist l’augurio è
quello che vi sia modo di riparare da qui a breve tempo: formatosi nella televisione francese della fine
degli anni Ottanta, Hazanavicius ha trovato la definitiva consacrazione di critica e pubblico tra la metà
del decennio successivo e i primi anni del nuovo millennio, firmando tra l’altro la commedia ammazzaclassifica OSS 117: Le Caire, nid d'espions (2006), divertita presa in giro dei film di spionaggio con
protagonista James Bond. Il gioco con la storia stessa del cinema ritorna e si moltiplica proprio in
questo The Artist, omaggio di Hazanavicius all’Hollywood del muto e allo stesso tempo divertita
riflessione sull’evoluzione dello Studio System, sul traumatico e rivoluzionario passaggio dal muto al
sonoro, e via discorrendo.
Da quando nel 1927 The Jazz Singer di Alan Crosland si aprì con la celeberrima battuta “Aspettate un
momento, aspettate un momento, non avete ancora sentito niente”, primo vagito di un’arte che avrebbe
fatto della parola una delle sue armi più affilate, ci sono stati non pochi registi pronti a sperimentare
l’arte del muto: dal gramelot di Jacques Tati all’insubordinata anarchia demenziale di Silent Movie di
Mel Brooks, fino ad arrivare alla cupa filologia tragica di Aki Kaurismäki e del suo Juha e all’incursione
nella sci-fi ante-litteram del Dr. Plonk di Rolf de Heer, la storia del cinema ha sempre trovato spazio per
omaggi (spesso riusciti) alla preistoria della Settima Arte. Rientra in questa categoria anche il film di
Hazanavicius, accolto con un convinto e prolungato applauso al termine della proiezione stampa ma
già dopo poche ore ridimensionato da buona parte della critica: un vero peccato, perché in realtà
l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un’opera non solo divertente e innaffiata da una genialità
qua e là davvero deflagrante (si veda la sequenza della scoperta del rumore che possono produrre gli
oggetti o il gioco nel pre-finale sull’onomatopea bang!), ma anche in grado di lanciare uno sguardo
delicato e sincero verso l’evoluzione del sistema produttivo hollywoodiano. In una Hollywood che si
chiama ancora Hollywoodland – la celeberrima scritta che capeggia sulla collina perse il “land” nel 1949
– prende corpo la vicenda umana di George Valentin, una sorta di Douglas Fairbanks che domina i box
office nazionali con film di spionaggio come Georgia Affair, film d’azione, love story esotiche e storia di
cappa e spada: il suo successo sembra impossibile da scalfire, ma la vedette non sa che sta per
essere pugnalato alla schiena dal cinema stesso. Infatti, per niente affascinato dall’avvento del sonoro,
viene presto relegato in un angolo, reliquia del passato da ricordare con simpatia ma alla quale non
donare alcun credito per il presente. Solo una giovane lanciata sulla cresta dell’onda proprio dallo
sviluppo della nuova tecnologia, da sempre innamorata di Valentin, decide di prendersene cura…
Incastonato in una struttura immaginifica ricca, capace di maneggiare con cura e sicurezza non solo le
timbriche bicrome dell’epoca ma anche lo stesso formato di visione, The Artist non è però solo una
calligrafica riscoperta di un mondo estintosi più di ottant’anni fa, ma anche e soprattutto la messa in
scena di una vicenda umana divertente e straziante al medesimo tempo. I trucchi, le citazioni, gli
omaggi disseminati nel corso della pellicola sono solo il guscio entro il quale è adagiata una storia
coinvolgente e appassionante, prevedibile nella sua conclusione ma allo stesso tempo in grado di
rapire lo sguardo dello spettatore per irretirlo.
Impreziosito dalla presenza in scena di veri e propri mattatori come John Goodman (che torna a
interpretare il ruolo di un produttore a quasi venti anni di distanza dallo splendido e sottostimato
Matinée di Joe Dante), James Cromwell e Penelope Ann Miller, The Artist si regge completamente sulle
spalle di una coppia di eccellenti attori come Jean Dujardin, presenza fissa del cinema di Hazanavicius,
e Bérénice Bejom a sua volta già al lavoro con il regista al tempo di OSS 117: Le Caire, nid d'espions.
Senza dimenticare ovviamente il piccolo cagnolino che si accompagna fedelmente a George Valentin,
vero e proprio co-protagonista. Di fronte al rischio che The Artist rimanga incompreso viene da
chiedersi come sia possibile rimanere freddi o inerti di fronte al balletto in puro stile Astair/Rogers che
coinvolge i due protagonisti, o alla serie consecutiva di ciak che rappresenta anche un mirabile studio
della seduzione. Mistero…
Dario Zonta. L'Unità
Da quando è stato visto la prima volta a Cannes, The Artist ha fatto molto parlare di sé, tanto che cosa
incredibile solo a pensarci lo troveremo distribuito nelle nostre sale in un dei periodi più difficili per il
cinema che non sia «panettone». Vi chiederete la ragione di tanto scetticismo, eppure se sapeste di
che tipo di film stiamo parlando, sgranereste anche voi gli occhi! Come devono aver fatto tutti quei
produttori a cui l'astruso regista Michel Hazanavicius si è rivolto quando è andato a proporre un film
muto in bianco e nero che rispettasse il formato di allora (quello quadrato, 4:3) e che fosse girato in
modo accelerato, ovvero 22 fotogrammi al secondo. Non solo ma un film che si calasse nel sogno
dell'epoca d'oro del muto, anzi al suo liminare, raccontando la storia hollywoodiana di un divo del muto
che viene scalzato dall'avvento del sonoro e dalla nascita di una «stella», giovane e bella. Insomma,
non si tratterà mica e per davvero di un film muto come si facevano all'epoca? Ebbene sì. Il nostro
impavido, quanto furbo regista Hazanavicius ha voluto intendere proprio quello. Ora, qualche
produttore pazzo ancora c'è in giro per il mondo, e il signor Thomas Langmann è uno di quelli. Da vero
produttore ha capito che sotto c'era qualcosa. Così è stato. Hazanavicius ha fatto il film che voleva e la
macchina dell'informazione ha sposato il progetto. Il passaggio festivaliero di Cannes è stato a dir poco
determinante e ha contribuito a creare il «caso», l'evento, il film sorpresa del festival. Ce n'è sempre
uno. A Cannes non si parlava d'altro. Un film poetico, romantico, avvincente un film muto. La vittoria di
Jean Dujardin come miglior attore ha poi coronato un disegno partito da lontano. Vi raccontiamo tutta
questa bella favola per ben contestualizzare un film che altrimenti avrebbe il sapore di un puro esercizio
di stile. Non è così, almeno non solo. Al di là della trovata cinefila, c'è in The Artist un'opera degna di
questo nome, capace di emozionare con poco e niente. È evidente che si tratta di un'operazione
studiata a tavolino e sapientemente scritta, capace di catapultare sullo schermo un intero mondo ormai
disciolto fatto di mille citazioni dal Terrier a pelo ispido che fu famoso in L'uomo ombra, il suo nome era
Asta, a Viale del tramonto (tra i pochi film a raccontare per davvero la fine di un'epoca e l'inizio di
un'altra), da Douglas Fairbanks (a cui di certo si rifà l'estetica del protagonista) a Mary Pickford (sua è
la casa dove abita la protagonista Peppy) e poi ancora ci sono sapori di Quarto potere e le note,
superdichiarate, di Vertigo. Ma tutto questo non è solo un gioco di citazioni, bensì un'immersione
emozionale nella materia stessa con cui erano fatti i film. IL SILENZIO DELLE PAROLE Vogliamo a
questo punto restituirvi un'immagine, anzi una sensazione, alla fine un «suono»: In un film muto, infatti,
ci sono molti suoni, e sono quelli di una colonna sonora in grado di portare a fior di pelle (e di casse)
l'emozione costruita da una sapiente sceneggiatura, una grande sceneggiatura e da un furioso
montaggio. Rispettando le regole di allora, ogni tanto la colonna sonora scema, scende e si spegne
lasciando lo spazio alla sola scena, alla sola immagine. Il volto di un uomo radioso con i baffi alla
Fairbanks si volta di scatto, verso di noi, pronunciando - mute - alcune parole, forse d'amore. In
quell'attimo, in quel silenzio assoluto, si percepisce il respiro all'unisono della comunità silente degli
spettatori, di noi che guardiamo loro. È rarissimo ascoltare il «nostro» silenzio al cinema, e fosse solo
per questo The Artist è un'esperienza da non perdere.
Alberto De Felice. Cine-zone
Sarà bene non partire dalla convinzione che The Artist, piccolo fenomeno di questa fine d’anno, sia un
racconto tropologico dell’intero passaggio dal cinema muto al cinema sonoro: il periodo (1927-1933)
sarebbe troppo nevralgico, la pressione sul film sarebbe troppa, tutte le sfumature andrebbero perse (il
cinema muto non era tutto uguale, così come non lo è quello sonoro) e inevitabilmente il lavoro di
Michel Hazanavicius sarebbe un presuntuoso fallimento, salvato presso il pubblico (quel poco che è
riuscito a vederlo) e «certa critica» solo dalla sua gioiosa semplicioneria. (Quanto al pubblico: alla terza
settimana di programmazione è riuscito, per grazia di una presenza ostinata, a entrare fra i dieci film
più visti del weekend, essendo programmato in una settantina di sale.)
Varrà dunque anche la pena dir subito che con The Artist non si assiste a un disperato e sfaccettato
dramma sulle illusioni di un mondo, il loro rovinoso crollo vissuto sulle vite delle vecchie star perite in
una dolorosa dimenticanza. O meglio lo si fa, ma con un indefesso afflato vitale che, per il bene
dell’illusione, sacrifica lo strazio e favorisce il balletto. È solo così che si può gioire a piene mani di
quella che, guardandola molto modestamente come il film mi sembra chiedere, è la storia di una star di
prodotti d’avventura realizzati in catena (qualcosa di ben preciso, non tutto il cinema muto) che
s’innamora di una fan, viene travolto dal progresso e grazie all’amore di suddetta fan, diventata
starlette, impara a metter da parte l’orgoglio, abbracciando ragazza e futuro.
Il film, come alcuni spettatori impreparati apprenderanno con sgomento dopo qualche minuto, è per
l’appunto un film muto, in bianco e nero. O almeno fa finta di esserlo, e gioca a farlo sapendo che noi
sappiamo. Una delle sequenze più citate è l’incubo del protagonista George Valentin (Jean Dujardin), il
quale, dopo aver rigettato il sonoro come inevitabile prosieguo della sua carriera, si trova assediato dai
rumori degli oggetti, forza metallica del nuovo, in un tormento terribile in cui lui rimane ancora senza
parola. Nel finale, un numero di danza a due che difficilmente potrà non lasciarvi conquistati, la parola
prende un pacificato sopravvento; mentre la camera indietreggia, le voci del set si dichiarano.
The Artist è meglio visto in quanto spoof levigato che realizza con diletto una storia semplice, derivativa
e già detta (il filo con cui si gioca costantemente è ovviamente Cantando sotto la pioggia, che a sua
volta rimandava al vero John Gilbert, poi i due È nata una stella di Wellman e Cukor), piuttosto che
come onnicomprensiva e profondissima operazione storico-metatestuale. Non vuol tanto parlare al
conoscitore che si aspetta di essere stupefatto, quanto allo spettatore che, dimenticatosi ahi lui di
alcune emozioni basilari (più che d’epoca) della settima arte, può trovarsi ora a riviverle a nuovo.
Marco Valerio. Cinezapping
Siamo ad Hollywood, nel 1927. George Valentin (Jean Dujardin) è una star del cinema muto. Ma
l’avvento dei primi film sonori (proprio del 1927 è quello che universalmente viene riconosciuto come il
primo film sonoro della storia del cinema, cioè “Il cantante di Jazz” di Alan Crosland, con Al Jolson) e
l’incapacità di adattarsi alle nuove modalità cinematografiche saranno la causa di una profonda crisi
artistica e personale, di possibilità lavorative che si riducono sempre più, finché questo divo (uno dei
primi dello star system hollywoodiano) cadrà inevitabilmente nell’oblio. Diametralmente opposta è la
situazione per la giovane attrice Peppy Miller (Bérénice Bejo), star emergente che ha tutto un futuro
davanti a sé e che si prepara a diventare una delle prime celebrità del cinema sonoro. Un giorno
Valentin e la Miller si conoscono e questo incontro cambierà la vita ad entrambi. “ The Artist” di Michel
Hazanavicius è stato premiato all’ultimo festival di Cannes per la migliore interpretazione maschile,
molto applaudito sia dalla stampa che dal pubblico e salutato come una delle rivelazioni della kermesse
festivaliera.
Senz’altro si tratta di un prodotto originale e coraggioso. L’idea di fare un film completamente muto nel
2011 oltre che utopistica pareva sinceramente rischiosa; eppure Hazanavicius ha vinto la sua
scommessa realizzando un’opera che non è una semplice operazione nostalgica, ma una vera e
propria dichiarazione d’amore nei confronti del cinema, in modo particolare di quell’età della giovinezza
rappresentata dal cinema muto degli anni venti. The Artist è un film profondamente cinefilo, ma in cui il
gusto per la citazione e il gioco dei rimandi non risultano mai fini a se stessi, ma anzi complementari ad
una narrazione divertente e divertita, al contempo malinconica ma mai troppo indulgente verso un
tempo passato. Anzi The Artist è una ricerca del tempo (cinematografico) perduto, ma al tempo stesso
è emblema di un cinema che per essere veramente nuovo e convincente deve cercare di ritrovare la
spontaneità e l’ingenuità delle proprie origini, senza farsi cannibalizzare dalla spettacolarità vuota o
dall’isterico divismo. E non è un caso che Hazanavicius scelga per protagonisti due attori
sostanzialmente sconosciuti al grande pubblico, circondati da splendidi (e talvolta dimenticati)
caratteristi come John Goodman o James Cromwell o Malcolm McDowell, tutt’e tre coinvolti in gustosi
camei. La scommessa di The Artist è vinta anche perché tutta l’operazione si basa su una ricostruzione
quasi filologica della realtà estetico filmica del periodo: l’abbondanza di chiaroscuri che caratterizzano
la fotografia, l’uso della musica come collante narrativo e come esplicitazione emotiva, le didascalie che
compaiono sporadicamente segnalando solo i passaggi narrativi e le battute più importanti lasciando al
labiale e alla mimica degli attori il compito di esprimere concetti e sentimenti.
Proprio per quanto concerne il versante recitativo sono da registrare le più piacevoli sorprese: recitare
come i grandi divi del muto senza scadere nel macchiettismo, nella caricatura o nell’imitazione
spersonalizzata era la prova cui erano chiamati Jean Dujardin e Bérénice Bejo. Prova superata a pieni
voti, grazie a due performance che valorizzano, come è ovvio, l’espressività facciale e sono comunque
in grado di coinvolgere lo spettatore a livello empatico, di divertirlo e di emozionarlo in maniera assai
sorprendente. Purtroppo, soprattutto nella parte centrale, il film sembra perdersi per strada, smarrire le
proprie coordinate tematiche e arrancare in un plot tutto sommato prevedibile e in alcuni punti un po’
furbo (come nella presenza a volte ridondante di un cagnolino che ispira sicuramente simpatia), salvo
salvarsi in un finale convincente e azzeccatissimo, tanto quanto lo strepitoso quarto d’ora iniziale. In
sostanza quindi “The Artist” non è il capolavoro osannato con entusiasmo oltr’Alpe, ma è comunque un
ottimo film, tanto sperimentale e curioso, quanto avvincente ed emozionante per tutti coloro che amano
la settima arte. Da vedere.
Daniela Catelli. Coming Soon
Era dai tempi de L'ultima follia di Mel Brooks, se non andiamo errati, che il cinema muto non arrivava
sul grande schermo. Ma se quel film – godibilissimo - si iscriveva di diritto nel registro parodistico e
farsesco tipico dell'autore, The Artist sembra nascere da una vera e propria necessità. Quello che
colpisce immediatamente, vedendolo, sono la straordinaria passione, la cultura cinematografica e la
cura per il dettaglio che lo animano e gli hanno dato vita contro tutto e tutti. Basterebbe questo a farcelo
amare: non c'è alcuna presunzione in quest'impresa, ma la volontà di rendere omaggio a un cinema
venerato, che ha formato generazione di registi e spettatori, fatto da autori europei con capitali del
nuovo mondo in quella che diventerà la culla e la mecca della settima arte, Hollywoodland (come
ancora recitava il celebre cartello sulle colline di Los Angeles). Un luogo che diventa fin da subito
fabbrica di sogni, emozioni, vite alternative, che crea stelle e mostri, capace di accogliere a braccia
aperte gli artisti in fuga dall'Europa in fiamme, ma al tempo stesso di trattare i suoi divi a contratto come
polli di allevamento. Un luogo pieno di luci e ombre, reso alla perfezione dalla formula - muto + bianco
e nero - scelta da Hazanavicius.
L'idea vincente del film dunque non è quella di prendere una forma antiquata per far recitare gli attori in
modo esagerato e giocare a fare il cinema muto, ma quella di mandare volti, corpi e paesaggi in un
viaggio a ritroso nella macchina del tempo, di trasformarli col trucco, le scene e i costumi per poi
inserirli nelle vere location della storia (Peppy vive nella casa che fu di Mary Pickford!) con i veri oggetti
di scena e la musica sul set. Poi basta chiedere agli interpreti una recitazione il più naturale possibile, e
il gioco è (quasi) fatto.
Dalla geniale idea di velocizzare leggermente le riprese a quella di sfumare il bianco e nero in una
gamma infinita di grigi, a seconda dello stato d'animo del protagonista, The Artist è un film talmente
pieno di brillanti intuizioni da essere forse, in certi momenti, anche “troppo” perfetto. Può essere questo
l'unico difetto di una pellicola che riprende anche i generi del cinema classico hollywoodiano – non solo
di quello muto - nella sua struttura narrativa: ecco il melò, la love-story, la caduta dopo l'irresistibile
ascesa, il dramma, lo scintillante luccichio del musical. C'è davvero di tutto dentro The Artist: Quarto
potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto
di Billy Wilder (la parabola della star che non si rassegna, accompagnato dal fedele autista che firma
anche gli autografi per lui e gli resta accanto nella disgrazia) e – anche se è il richiamo più ovvio e forse
meno voluto – E' nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. Ma
ci sono anche Lubitsch, Murnau, i film di King Vidor, i numeri di tip tap di una grande coppia danzante
come Fred Astaire e Eleanor Powell.
E il protagonista, col fedele cagnolino che lo accompagna sempre, è un incrocio tra William Powell, il
John Gilbert messo in crisi dal sonoro, Douglas Fairbanks ed Errol Flynn: bello di una bellezza in
apparenza inscalfibile dalla vita, il volto trasfigurato da un eterno, sfavillante sorriso, sempre pronto a
giocare coi fan. Una star talmente convinta della propria invincibilità da rifiutarsi di cambiare, un uomo
che preferisce assaporare fino in fondo la propria caduta in disgrazia invece di rimboccarsi le maniche,
o di accettare l'amore disinteressato di una ragazza più giovane. A dargli corpo, fascino, sguardo, è un
incredibile attore chiamato Jean Dujardin, che ha iniziato la propria carriera facendo il buffone nei vari
Zelig d'oltralpe, e che dimostra qui un'espressività e un carisma assolutamente all'altezza dei suoi
modelli. Lo affianca la moglie del regista, Bérénice Béjo, bellissima e vivace “maschietta”, che sembra
uscita da uno dei racconti più scintillanti di Francis Scott Fitzgerald. E sono perfetti anche gli attori
“secondari”, da John Goodman a James Cromwell. A tutto questo Hazanavicius aggiunge le belle
musiche di Ludovic Bource e un concetto di regia davvero moderno: senza spoilerare niente, diremo
che il film non è interamente muto, e l'uso che il regista fa del sonoro è – ancora una volta – di
un'intelligenza non comune. Come i grandi film che Hollywood non sa più darci, con il loro carico di
emozione pura e glamour assoluto, The Artist compie il suo miracolo lasciando lo spettatore contento e
stupito, con la voglia, probabilmente, di rivederlo ancora una volta. In mancanza della voce lo sguardo
torna protagonista e il cinema, “che è diventato piccolo” come diceva Gloria Swanson, riacquista le sue
giuste dimensioni.