NAZISMO - Interpretazioni storiografiche “La storia del

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NAZISMO - Interpretazioni storiografiche “La storia del
NAZISMO - Interpretazioni storiografiche
“La storia del nazionalsocialismo è la storia della sua sottovalutazione”1
Come per il fascismo, anche per il nazismo interpretazione storiografica e riflessione politica sono strettamente
intrecciate. Inoltre, il giudizio sul n. chiama inevitabilmente in causa quello sulla sua espressione peggiore, i
campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei. Soprattutto nei primi anni dopo la seconda guerra
mondiale, pertanto, ha giocato un ruolo importante anche il senso di colpa del popolo tedesco, con il
conseguente tentativo di ridimensionare le responsabilità di varie componenti della società tedesca, focalizzando
l’attenzione soltanto sulla figura – demonizzata – di Hitler.
Il nazismo come degenerazione
Gli storici tedeschi che si ritrovarono a riflettere "a caldo" sul nazismo, subito dopo la sua caduta, ne sostennero
l'estraneità alla storia tedesca: il n. era per loro una degenerazione non certo solamente tedesca, bensì europea.
Tra i sostenitori di qs tesi ci furono
Friedrich MEINECKE (1862 – 1954), uno dei più grandi storici tedeschi, di orientamento liberale, il quale ne
La catastrofe della Germania (1948), affermò che tutti i precedenti citati per il n. (e in particolare quelli tipici
dell'età bismarckiana) da soli non bastavano a spiegare il n.: Meinecke ricordava il militarismo prussiano e
l’autoritarismo e la disciplina ferrea che caratterizzavano l’esercito tedesco; questi fattori erano importanti per
capire i motivi della decisione di Hindenburg di chiamare Hitler al potere. L’affermazione del nazismo, tuttavia,
aveva altre ragioni ed era
uno di quei grandi esempi della singolare e incalcolabile potenza della personalità della storia: in questo caso, della
personalità solamente demoniaca. Chi mai, all’infuori di essa, avrebbe potuto organizzare quel gruppo di delinquenti
che seppe avviluppare e dissanguare il popolo tedesco?
Questa tragica crisi non poteva che essere dovuta alla personalità "demoniaca" di Hitler. Il popolo si era fatto
irretire per il miraggio di una rivincita militare, per la speranza in un grande avvenire, mostrando così di non
aver perso una sua caratteristica tipica, quella ad evadere dalla realtà, a "smarrire la ragione". Ispirandosi a
quanto Croce aveva affermato a proposito del fascismo, Meinecke poneva quindi l'accento su fattori spirituali,
non economici o sociali.
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Gerhard RITTER (1888 – 1967), di orientamento liberale-conservatore, che era stato attivo nella Resistenza
antinazista ed era poi divenuto lo storico più importante della Germania del dopoguerra: in L'Europa e la
questione tedesca, 1948, sostenne con forza la tesi del nazismo come parentesi. Il n. non era un “prodotto
tedesco”, ma “la forma tedesca di un fenomeno europeo: quello di uno stato retto da un partito unico e da un
unico condottiero”. Le sue origini stavano nella crisi del liberalismo, nell’industrializzazione e nell’avvento dei
partiti di massa; l’attitudine dei tedeschi ad obbedire non aveva avuto alcun ruolo: Hitler era un imitatore di
Mussolini, non di Bismarck. Le radici ideologiche dell’antiparlamentarismo, del culto del capo e di una
concezione totalitaria del potere andavano cercate non in Germania, bensì in Francia, nella rivoluzione francese
e, ancor prima, in Rousseau.
Il nazismo come prodotto della storia tedesca
Gli storici non tedeschi (o i tedeschi emigrati all'estero) sostennero invece fin dai primi anni del dopoguerra una
tesi opposta, quella del n. come frutto di un lineare sviluppo della storia tedesca, di costanti di lungo periodo
dello "spirito tedesco". Il regime hitleriano era pertanto lo sbocco fatale delle tradizioni politiche e culturali
(autoritarismo, militarismo, razzismo) tipiche della precedente storia tedesca.
La tesi della continuità fu sostenuta tra gli altri dal giornalista americano e inviato speciale in Germania
William SHIRER (1904 – 1993), Storia del Terzo Reich, 1960. L’autoritarismo era, secondo Shirer, un aspetto
fondamentale della cultura e della religione tedesche fin dal Medioevo: Hitler e il nazismo non furono altro che
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Karl Dietrich BRACHER, Il nazionalsocialismo in Germania, in La storia, vol. IX, Torino, UTET, 1986.
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“la conseguenza logica della storia stessa della Germania”. Shirer sollevava inoltre la questione della
responsabilità di banchieri e industriali (non solo i più grandi, come i Krupp e il gruppo della IG Farben, ma
anche imprenditori molto piccoli, che avevano ricavato guadagni dal sistema dei lager), dell’esercito e del
popolo tedesco in generale, che non seppe ribellarsi neppure quando fu a conoscenza dei crimini di Hitler.
Fanno riferimento alla storia tedesca precedente, per comprendere il n., anche Edmond VERMEIL, La
Germania contemporanea, 1956; e George L. MOSSE, Le origini culturali del Terzo Reich, 1968: l'A. parte
dagli anni '70 dell'Ottocento, ma sostiene che l'ideologia nazionale germanica era stata costruita nei primi
decenni del XIX secolo; fin da allora, infatti, c'erano strati della piccola e media borghesia ostili alla civiltà, cioè
ad un progresso materiale che li minacciava nel loro status; essi esaltavano invece la cultura, il popolo inteso
come Volk, come razza, definito da sangue e suolo, e odiavano l'ebreo perché incarnava appunto ai loro occhi
progresso e civiltà  «La rivoluzione nazista fu la rivoluzione borghese "ideale", in quanto "rivoluzione
dell'anima"», dice Mosse: una rivoluzione che, essendo ideologica, non minacciava nessun interesse economico,
anche perché aveva trovato un altro nemico, l'ebreo.
Le interpretazioni sociologiche e psicologiche
In anni successivi sono state elaborate interpretazioni del n. in una prospettiva di storia sociale, tenendo quindi
conto di economia, cultura, politica, mentalità ecc.
Queste letture del n. hanno un precedente: nel 1942 era infatti uscito il libro di Franz NEUMANN (1889 – 1954,
sociologo tedesco emigrato negli USA), dal titolo Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo (B. era
il mostro che in Hobbes incarnava il non-Stato). Secondo Neumann, il terrore nazista rese possibile l’instaurarsi
di un “capitalismo monopolistico totalitario”. Nella Germania nazista, inoltre, erano contemporaneamente
presenti quattro poteri: il partito, l'esercito, la burocrazia e l'industria, che facevano sì che lo Stato nazista fosse
piuttosto un coacervo disorganizzato, e non un "Leviatano" perfettamente funzionante. Il totalitarismo del
regime nazista era dunque notevolmente ridimensionato.
Gli storici si sono recentemente divisi proprio su questo punto: lo Stato nazista era paragonabile al Leviatano o
al Behemoth? I sostenitori della prima tesi sono detti oggi intenzionalisti, gli altri relativisti o funzionalisti.
Secondo gli intenzionalisti Hitler aveva un ben preciso progetto di sterminio fin dal '39; guerra e annientamento
degli ebrei erano interdipendenti, dice ad esempio Lucy Dawidowicz: la guerra avrebbe fornito, con la sua
violenza, la copertura necessaria per evitare giudizi morali. Le idee di Hitler sugli ebrei erano le stesse fin dal
1919.
Su posizioni intenzionaliste e polemico nei confronti di qualunque ricostruzione tendente a minimizzare le
peculiarità del n. è l’autorevole storico Karl Dietrich BRACHER (La dissoluzione della repubblica di Weimar,
1955), il primo tra gli storici tedeschi ad affrontare con rigore scientifico il n.. Egli considera il n. come
totalitarismo e ne delinea un quadro in cui emergono analogie e differenze rispetto al fascismo: sia il f. sia il n.
sono infatti visti come realizzazione di un progetto totalitario, come "intreccio di forme razionali e irrazionali,
burocratiche e ideologiche". Per comprendere il regime nazista, comunque, si deve, secondo Bracher,
riconoscere l’assoluta centralità della figura di Hitler e della sua ideologia.
L'interpretazione intenzionalista evidenzia dunque un alto grado di ostinazione, coerenza e logica.
I funzionalisti insistono invece sulla trasformazione graduale degli obiettivi dei nazisti, in base alle diverse
situazioni; tra gli altri, Martin BROSZAT e Hans MOMMSEN sostengono che non sarebbe stato possibile
imporre un simile programma a tutta la società tedesca fin dal '33. Hitler non era l'unico a decidere, perché
l'apparato nazista non era compatto, né un sistema rigido e chiuso e organizzato in modo teleologico; c'erano
divergenze e anche forti rivalità, quelle che Broszat ha chiamato "policrazia nazista". Hitler, che non era un
dittatore onnipotente, doveva solo cercare di garantire la coesione di questo sistema. Un conto era il mito del
Führer, un conto era la sua personale volontà, che contava molto meno. Secondo i funzionalisti la decisione di
sterminare gli ebrei in massa venne presa solo nell'autunno del '41, in seguito alle circostanze della guerra (la
prospettiva di una lunga guerra con i russi impediva di pensare di continuare a deportare all'Est gli ebrei, per i
quali si doveva dunque pensare ad un'altra soluzione) e fu conseguenza non solo di fanatismo ideologico, ma
anche del disordine e dell'anarchia della situazione. Tra i funzionalisti può essere collocato anche Raul
HILBERG, un politologo che scrive nel 1962 un’opera ancora oggi fondamentale, La distruzione degli ebrei
d’Europa, nella quale descrive – connettendole alle vicende belliche - le diverse fasi attraverso cui passò la
politica nazista nei confronti degli ebrei.
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Entrambe queste interpretazioni sono criticabili, quella intenzionalista perché elude la continuità del n. con la
storia precedente, quella funzionalista perché lo banalizza, quasi lo giustifica, relativizzando e chiamando in
causa le circostanze.
Dopo l’avvento del nazismo anche la psicoanalisi si interessò al “fascismo”, termine con il quale si intendevano
sia il fascismo sia il nazismo. Il primo fu l’austriaco, dal 1933 rifugiato negli Stati Uniti, Wilhelm REICH (1897
– 1957), che in Psicologia di massa del fascismo (1933) sosteneva che il fascismo non era una caratteristica
nazionale di questo o quel popolo, originata da un certo contesto storico o sociale, bensì la conseguenza della
repressione sessuale operata dalla famiglia “autoritaria” e dallo stato “autoritario”: l’individuo represso,
dominato inconsciamente dalla figura del padre, tende ad identificarsi con un Capo e ha un bisogno “infantile”
di obbedire. In questo modo il fascismo riuscì a sottomettere “l’uomo della strada, mediocre, soggiogato,
smanioso di sottomettersi all’autorità e allo stato” e esaltato dalle promesse di espansione dei confini tedeschi.
Il filosofo e psicoanalista tedesco Erich FROMM (1900 – 1980), rifugiatosi negli USA a partire dal 1934,
pubblicò nel 1941 Fuga dalla libertà, in cui sosteneva che il nazismo poteva essere analizzato tenendo presenti
le condizioni economiche e politiche in cui si era affermato, ma che non si poteva neppure prescindere dalle
condizioni psicologiche. La storia umana è in effetti caratterizzata, per Fromm, da un progressivo aumento della
libertà individuale (una tappa significativa fu ad esempio il Rinascimento), accompagnato però da una sempre
maggiore insicurezza, dovuta al disorientamento e all’isolamento connessi alla perdita di un’identità di gruppo
(di ceto, ad esempio, come quella che caratterizzava la società feudale). Società di massa, industrializzazione e
concorrenza economica hanno aumentato l’isolamento e l’ostilità tra gli individui, predisponendoli ad accettare,
come compensazione, la sottomissione ad un’autorità superiore, fuggendo quindi dalla libertà pur di “fondersi
con qualcuno o qualcosa al di fuori di sé, per acquistare la forza che manca al proprio essere”. Dopo la guerra,
però, la sicurezza, in Germania, non poteva più essere trovata nella monarchia, ormai crollata; dopo il ’29, poi, il
crollo economico e delle autorità divenne anche crollo della famiglia (i genitori non erano in grado di mantenere
i figli). La conseguenza fu che la piccola borghesia fu presa da “un desiderio cocente di sottomettersi” e
contemporaneamente da “una brama sempre più forte di dominio su quelli che erano inermi”. Hitler poté
rispondere a entrambe queste esigenze.
Il nazismo nell’ambito delle relazioni internazionali
Dal dibattito sul nazismo emerge con forza la centralità dell'Olocausto, che invece alcuni storici, i revisionisti,
hanno tentato di ridimensionare e quasi di giustificare.
Ci sono stati anche episodi - in genere censurati e ignorati dalla comunità degli storici - di autori che hanno
affermato di non credere alla verità dello sterminio degli ebrei ed hanno anzi tentato di dimostrarne l'inesistenza
per mezzo di argomentazioni non storiche e falsificazioni di documenti; tra questi, detti negazionisti, personaggi
di destra, come Robert Faurisson, ed altri di estrema sinistra, come Paul Rassinier. Su di essi cfr. Paul VIDALNAQUET, Gli assassini della memoria, 1987 (ed it 1993).
Il revisionismo fu lo spunto, nel 1986, per una accesa polemica in Germania2 (“Historikerstreit”), in seguito a
dichiarazioni di:
- Michael Stürmer: la memoria storica dei tedeschi non deve considerare il periodo nazista come tappa
determinante;
- Ernst NOLTE (allievo di Heidegger, filosofo, nato nel 1923): lo sterminio degli ebrei è una reazione ai crimini
staliniani, anzi, un crimine "anticipato" perché i tedeschi si sentivano potenziali vittime; tanto che si può
parlare di una "guerra civile europea", iniziata a causa della rivoluzione del'17, tra nazismo e bolscevismo;
chiarire la causa del nazismo può aiutare i tedeschi a far passare “un passato che non passa” e a liberarsi dal
senso di colpa;
- Andreas Hillgruber: gli Alleati hanno le stesse responsabilità dei tedeschi, perché volevano distruggerne la
nazione
Molti storici tedeschi hanno criticato queste tesi; Jürgen Habermas rispose loro che essi intendevano mettere
fine al senso di colpa, ma che in realtà facevano rinascere il nazionalismo tedesco.
Si è risposto, tra l'altro, che non c'è comunque paragone tra lo sterminio degli ebrei e altri crimini: il primo – in
quanto industria della morte - aveva peculiarità finora irripetute.
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Cfr. il manuale di storia, pp. 266 ss. (testi di Nolte e Kocka).
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Inoltre, in risposta a Nolte, si può osservare che in realtà nel Mein Kampf gli attacchi agli ebrei prevalgono di
gran lunga su quelli ai comunisti, e che la teoria dello spazio vitale ad est è una diretta conseguenza degli
espansionismi ottocenteschi, non certo della rivoluzione del '17. Ancora nel bunker di Berlino, prima di
uccidersi, Hitler raccomandò a chi gli sarebbe sopravvissuto di “mantenere rigorosamente le leggi razziali e di
opporre una resistenza inesorabile all’avvelenatore di tutti i popoli, il giudaismo internazionale”.
In realtà, all’origine dei totalitarismi novecenteschi gli storici ritrovano non tanto il 1917, quanto il 1914: la
Grande guerra, una catastrofe per la società europea3. Si pensi anche soltanto alle conseguenze del trattato di
Versailles: nel 1961 uno storico inglese, Alan John Percival TAYLOR, si spinse a ricondurre le origini della
seconda guerra mondiale alla conferenza di pace del 1919, e non all’aggressività tedesca, dato che Hitler si era
comportato come il leader di una qualunque grande potenza che è stata danneggiata nei propri interessi vitali da
altri stati. Taylor fu accusato di filonazismo, ma in realtà egli voleva soltanto far riflettere sull’importanza della
politica di potenza, accanto a quella delle ideologie. Il punto di vista di Taylor, inoltre, permette di chiarire un
fatto su cui Nolte non si sofferma: il patto Molotov – Ribbentropp e la spartizione della Polonia, comprensibili
appunto sulla base di una politica di difesa dei rispettivi interessi.
È stato notato, infine, che non è molto produttivo, per capire la storia, sostituire alla demonizzazione del
nazismo quella dello stalinismo (Salvadori).
La questione delle responsabilità
Tra gli studi che hanno suscitato più discussioni c'è quello di Daniel GOLDHAGEN, I volonterosi carnefici di
Hitler, uscito nel 1997 negli USA.
L'autore - che si è occupato di aspetti trascurati dalla storiografia, come le fucilazioni di massa nell'Europa
dell'est ad opera delle Einsatzgruppen - intende dimostrare che furono tedeschi "comuni", non SS fanatiche,
quelli che appoggiarono con entusiasmo Hitler e la sua politica di sterminio (le Einsatzgruppen, ad esempio,
erano formate da membri della polizia, quindi da persone normali; tra essi, quelli che si rifiutarono di eseguire
gli ordini non subirono alcuna conseguenza, anche perché al loro posto c'era sempre qualche esaltato che
chiedeva di poter uccidere); ciò fu possibile, secondo Goldhagen, perché l'antisemitismo era radicato e diffuso
in tutti gli strati sociali della Germania. L'autore di questo libro rifiuta di parlare di "colpa collettiva" (che
sarebbe quasi una giustificazione), ma pone l'accento su responsabilità che non possono essere nascoste.
Sulla responsabilità degli individui sotto una dittatura ha riflettuto anche Hannah ARENDT, soprattutto dopo
aver assistito, a Gerusalemme, al processo al criminale nazista Adolf Eichmann, responsabile della deportazione
degli ebrei e dell’organizzazione dei campi. Ne La banalità del male (1963), in cui raccontava e commentava il
processo, Arendt descriveva Eichmann come un uomo incapace di pensare e di valutare, che aveva aderito al
nazismo con superficialità, spinto soltanto dalla volontà di inserirsi in un gruppo e di obbedire a qualcuno: il
male da lui compiuto non era “radicale”, non proveniva da un individuo mostruoso o demoniaco; era invece
“banale”, pur avendo avuto delle conseguenze estreme e terribili. Eichmann sembrava mancare non di
intelligenza, ma di pensiero e di senso critico; al processo si era difeso sfuggendo alle proprie responsabilità e
sostenendo che aveva soltanto obbedito ai superiori, ma non per questo Arendt lo giudicava meno responsabile.
(a cura di Elisa Strumia – giugno 2005)
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Cfr. scheda sul totalitarismo.
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