Se non diventerete come i bambini…*

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Se non diventerete come i bambini…*
Se non diventerete come i bambini…*
«Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (Mt 18,1): con tale
domanda si apre il “discorso ecclesiale” del Vangelo secondo Matteo. Gesù ha appena annunziato la sua imminente
Passione, ed ecco che gli apostoli gli si avvicinano e gli manifestano la loro preoccupazione: noi che ti abbiamo seguito
lungo le strade della Palestina e siamo stati con te in questi
anni, quale posto avremo nel regno che stai per costituire?
Saremo i primi ministri? Incomprensione più sconcertante
non potrebbe esserci…!
Il Vangelo non ha paura di mettere in evidenza la fragilità
degli stessi discepoli, la loro difficoltà ad accettare l’idea di
un Messia debole e sofferente.
Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e
disse: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete
come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque
diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel
regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in
nome mio, accoglie me» (Mt 18,2-5).
La scena è molto viva, realistica. Ancor prima di parlare,
Gesù agisce. Chiama un bambino – evidentemente li aveva
sempre attorno – e lo mette in mezzo agli apostoli: gli assegna un posto centrale, importante, di tutto rilievo. Ecco la
sua risposta!
I piccoli sono i più grandi; gli ultimi sono i primi; a loro
*
Matteo 18,1-5.
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– e non ai sapienti di questo mondo – vengono rivelati i
misteri di Dio; a loro – e non ai potenti – viene aperto l’ingresso al regno dei cieli. Questo è lo stile, la mentalità che si
richiede alla Chiesa, ai cristiani di ogni tempo. Si tratta di
decidere, di fare un salto radicale, un vero e proprio capovolgimento, che è opera non di un momento, ma di un quotidiano e costante impegno.
Benché paradossale, il messaggio è chiarissimo, tuttavia
Gesù non si accontenta di aver compiuto quel gesto, si sofferma a spiegarlo, a chiarirlo. Quale paziente Maestro non si
stanca di ripetere una lezione tanto difficile per i discepoli
ancora bisognosi di cambiare mentalità.
«In verità – amen – vi dico…». Questo solenne inizio ci
fa subito comprendere che la parola di Gesù è carica di autorevolezza divina; è come un giuramento: «Io, che sono la
Verità, vi dico…», vi assicuro che quello che ho fatto e quello che sto per comunicarvi è una verità salda come una roccia: se l’accettate, porrete solide fondamenta alla vostra vita
di discepoli, altrimenti costruirete sulla sabbia. Ed ecco che
cosa dice: «Se non vi convertirete e non diventerete come i
bambini, non entrerete nel regno dei cieli»; se non rinunziate alla vostra logica mondana e non diventate semplici, non
siete adatti per il regno dei cieli… Quale rivoluzione rispetto agli dèi pagani ricchi e potenti, rispetto al “dio” dei filosofi lontano e irraggiungibile, rispetto alle divinità orientali
enigmatiche e disincarnate! Secondo Gesù, la conoscenza di
Dio – il grande problema che assilla l’uomo di tutti i tempi e
di tutte le culture – è possibile soltanto a chi vive in uno stato di infanzia spirituale, le cui caratteristiche principali sono
quelle proprie del bambino, ossia la semplicità, l’innocenza,
la totale dipendenza e lo spirito di fiducia. Il regno dei cieli
è per quelli che diventano così.
E Dio stesso ha voluto diventare così nello sconvolgente
mistero della sua incarnazione: «Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città
di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per
voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che gia4
ce in una mangiatoia» (Lc 2,10-12). «Niente di meraviglioso –
commenta il Santo Padre, Benedetto XVI – niente di straordinario, niente di magnifico viene dato come segno ai pastori. Vedranno soltanto un bambino avvolto in fasce che, come
tutti i bambini, ha bisogno delle cure materne; un bambino
che è nato in una stalla e perciò giace non in una culla, ma in
una mangiatoia. Il segno di Dio è il bambino nel suo bisogno
di aiuto e nella sua povertà. Il segno di Dio è la semplicità. Il
segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che egli si fa piccolo per noi»1. E noi, con lui, possiamo perciò sperare di
ritornare bambini, di ritrovare quella freschezza che le dure
vicende della vita o un sottile orgoglio spirituale sembrano
voler cancellare per sempre dal nostro cuore.
L’infanzia come età cronologica con la sua spontanea
gaiezza passa rapidamente; occorre acquisire un’infanzia spirituale che permanga, come ha detto Gesù stesso a Nicodemo: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto,
non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,4). E Nicodemo, pieno di stupore, soggiunge: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,5). La nascita nuova è una
purificazione della mente e del cuore, dei pensieri e dei sentimenti. Questo sarebbe stato impossibile all’uomo ferito dal
peccato, ma Dio l’ha reso possibile inviando il suo Figlio. Egli
non è venuto tra noi con potenza e con forza; è venuto come
un bambino inerme e bisognoso del nostro aiuto, per toccare
i nostri cuori. Con la sua piccolezza ci insegna ad amare la
piccolezza; con la sua povertà ci aiuta a scoprire la vera ricchezza. «Egli – dice ancora il Santo Padre – chiede il nostro
amore: perciò si fa bambino. Nient’altro vuole da noi se non
il nostro amore, mediante il quale impariamo spontaneamente ad entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua
volontà – impariamo a vivere con lui e a praticare con lui
anche l’umiltà della rinuncia che fa parte dell’essenza dell’a1
Omelia della notte di Natale 2006.
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more. Dio si è fatto piccolo affinché noi potessimo comprenderlo, accoglierlo, amarlo»2, seguirlo e imitarlo.
Si fa a tal punto piccolo come noi e con noi da poter dire:
«Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio,
accoglie me». L’identificazione con i bambini è piena, totale,
come quella con i poveri, i carcerati, i malati, con tutti i reietti (cfr. Mt 25,31-46). Gesù si trova bene con i piccoli, con gli
ultimi, perché c’è tra lui e loro sintonia di cuore: possono
solo vivere di abbandono fiducioso e di speranza.
Il vero cristiano, quando si trova a vivere in situazione di
piccolezza, di marginalità, persino di disprezzo, non la avverte come un peso, come una “cattiva sorte”, ma, al contrario,
ne sa trarre motivo di lieta esultanza, sa scoprire proprio lì la
gioia di essere figlio di Dio, oggetto della divina benedizione:
«In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra,
che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto» (Lc 10,21;
cfr. Mt 11,25).
Se il peccato di superbia – il voler essere autonomo e alla
pari con Dio – è stato alle origini e continua a essere per l’uomo causa di morte, la via dell’umiltà lo apre invece ai più
profondi misteri dell’amore, quelli che l’umana intelligenza
da sola non può scandagliare. Molto significativa è, in proposito, la vicenda spirituale di una grande mistica del trecento, la monaca Geltrude di Helfta. Entrata in monastero in
tenera età, riceve un’ottima educazione; è intelligente,
apprende le lettere, la musica, le arti. Diventa una giovane
brillante, educata, un “modello”: ma il suo cuore è triste, finché il Signore – che ella nel coro monastico pregava perfettamente, ma esteriormente – ha pietà di lei. In una buia sera
di gennaio, egli illumina il suo cuore e le fa percepire l’altissimo muro che la separa da lui. È l’ora della conversione: la
scienza umana crolla davanti all’esperienza della misericordia, e da quel momento Geltrude amerà definirsi “piccola
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Ibidem.
goccia” dell’Oceano infinito: «Che cosa sono io, o mio Dio,
amore del mio cuore? Come non rassomiglio a Te! Ecco, io
sono come una infinitesima goccia della tua bontà e Tu sei il
mare pieno di ogni dolcezza. O amore, dischiudi a me, così
piccola, le viscere della tua bontà. Riversa su di me le cateratte della tua clementissima paternità. Fa’ zampillare su di
me tutte le sorgenti dell’abisso della tua infinita misericordia.
Immergimi nella profondità del tuo amore e nell’oceano della tua tenerezza»3.
Proprio per questo Gesù è venuto nel mondo e si è fatto
piccolo: per rivelare, nell’umiltà, l’amore del Padre, per
donarci la gioia di sentirci creature piccole e povere, per renderci in lui figli di Dio e tra di noi fratelli. Non si tratta più
delle maestose teofanie dell’Antico Testamento, ma di una
presenza di bontà umile e semplice, di una consolazione e di
un ristoro offerti nella fatica del vivere quotidiano: «Venite a
me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che
sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre
anime» (Mt 11,28-29). La stessa fatica diventa leggera quando
è vissuta insieme con Gesù, inserita nel suo mistero di redenzione e sostenuta con la forza del suo amore: «Il mio giogo
infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 30), perché è
peso di amore.
Così egli ci insegna ad amare i piccoli, «ad amare i deboli. Ci insegna in questo modo il rispetto di fronte ai bambini.
Il Bambino di Betlemme dirige il nostro sguardo verso tutti i
bambini sofferenti ed abusati nel mondo, i nati come i non
nati. Verso i bambini che, come soldati, vengono introdotti
in un mondo di violenza; verso i bambini che devono mendicare; verso i bambini che soffrono la miseria e la fame; verso i bambini che non sperimentano nessun amore. In tutti
loro è il Bambino di Betlemme che ci chiama in causa; ci
chiama in causa il Dio che si è fatto piccolo»4.
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Exercitia, IV, 331-338.
BENEDETTO XVI, Omelia della Notte di Natale 2006.
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Il cuore del Padre celeste si commuove davanti al mistero della piccolezza: posa lo sguardo sui piccoli, paragona il
suo stesso Regno al più piccolo dei semi, a un pugnetto di lievito… Nel disegno di Dio tutto incomincia con la piccolezza
e procede nell’umiltà. È il suo stile inconfondibile.
Lo notiamo anzitutto nelle sue scelte per speciali vocazioni; la sua preferenza va ai piccoli. Per liberare Israele dalla schiavitù dell’Egitto sceglie un “piccolo”, Mosè, il bambino salvato dalle acque (cfr. Es 2); chiama Samuele, il figlio
ottenuto dalla preghiera di Anna e offerto al Signore in tenera infanzia, per inviarlo quale profeta in mezzo al popolo
(cfr. 1 Sam 1-3); e proprio a lui dà l’incarico di ungere un re
per Israele. Uno dopo l’altro i sette figli di Jesse, alti e
gagliardi, passano davanti agli occhi del profeta, ma ripetutamente egli dice: «Non è questo, non è questo…», finché gli
compare davanti il più piccolo, il “dimenticato” che era fuori a pascolare il gregge. Appena quel ragazzetto «fulvo, con
begli occhi e gentile di aspetto» si presenta, il profeta lo riconosce come l’eletto. Si alza e lo unge re (cfr. 1 Sam 16). Sarà
il grande re Davide, bellissima figura del vero Re, del Messia
atteso, che pure… deluderà ogni umana aspettativa. Tutti,
infatti, se lo immaginavano come un personaggio potente,
importante. Egli arriva come un povero, da una cittadina
disprezzata: «Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Al di là di ogni pregiudizio, proprio da Nazareth viene
Colui che è la Sapienza incarnata; viene in piccolezza e
povertà; vive nascostamente, ignorato, non frequenta le
scuole dei grandi rabbini, non compie gesta clamorose. Per
più di trent’anni lavora umilmente ed è conosciuto come “il
figlio del carpentiere”.
Il lungo e apparentemente insignificante tempo della vita
di Nazareth ha un valore che non dovrebbe tanto facilmente
sfuggire, è infatti il tempo della preparazione, della crescita
in “sapienza, virtù e grazia”, il tempo del silenzio in ascolto
del Padre. Quando poi giunge la sua “ora”, anche Gesù –
come tutti i chiamati – esce dalla sua casa; attraversa il suo
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deserto, affronta risolutamente le tentazioni, e poi entra nella scena del popolo di Israele. Ma il suo stile non è cambiato. Umile e povero, non ha dove posare il capo (cfr. Mt 8,20);
e quando la folla, attratta dal suo insegnamento e dalle sue
opere, vuole proclamarlo re, egli si sottrae, si nasconde.
Come un seme è il regno di Dio nel mondo, ma il seme è
Gesù stesso, e del seme egli accetta fino in fondo la logica:
morire per portare frutto: «In verità, in verità vi dico: se il
chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se
invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Gli apostoli capirono questo messaggio soltanto dopo, quando essi
pure seguirono il Maestro nel martirio. Anche la vita di ogni
cristiano, per essere autentica, deve sempre essere contrassegnata dalla piccolezza, dall’umiltà: nascondersi per crescere,
svuotarsi di sé per germogliare, donarsi per portare frutto.
Tale è stata anzitutto Maria, la donna attraverso la quale
il Figlio di Dio è entrato nel mondo. Piccola e umile, di lei il
Signore si è compiaciuto; su di lei ha posato il suo sguardo di
predilezione: ha guardato “la sua piccolezza”, il suo “essere
terra” e l’ha resa giardino fiorito, campo di grano che – come
ha scritto santa Caterina – ha procurato la farina per il Pane
disceso dal cielo5. Ella, perciò, ci può veramente insegnare ad
accogliere Gesù, a vivere questa pagina evangelica in cui il
Signore ci chiede di ritornare bambini, con quello sguardo
puro che non giudica dalle apparenze, ma sa scorgere i tesori nascosti in ogni creatura, anche nella più povera… Perché
è lì che nasce e cresce il regno di Dio, il regno della pace.
Esso non è fuori di noi; non deve essere instaurato dall’esterno con potenza, come pensavano gli stessi apostoli prima
di essere potentemente ricolmati del dono dello Spirito Santo. Il regno di Dio deve cominciare a crescere dentro di noi
per irradiarsi al di fuori di noi come amore diffusivo. È davvero un seme: il seme della fede che cresce nella terra dell’umiltà vera. Come riconoscerla? Non tanto dalla facile affer5
Cfr. Orazioni, XI.
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mazione: «Non valgo niente, sono un niente», quanto dalla
genuina gratitudine per ciò che riceviamo gratuitamente da
Dio. «Riconosci, o cristiano, la tua dignità»6, esortava san
Leone Magno; e san Bernardo, quasi facendogli eco: «Da
quello che il Signore giunse a fare per te, riconosci, o uomo,
quanto tu valga per lui, e capirai la sua bontà attraverso la
sua umanità. Come si è fatto piccolo incarnandosi, così si è
mostrato grande nella bontà; e mi è tanto più caro quanto
più per me si è abbassato. Grande è la bontà di Dio e grande prova di bontà egli ha dato congiungendo la divinità con
l’umanità»7.
Soltanto in un terreno ben scavato con solchi profondi
di umiltà e di gratitudine, il seme della grazia potrà crescere in modo sorprendente, veramente a dismisura. Lo dimostra la vita dei santi. Quando era ancora una ragazzina,
Teresa di Lisieux già nutriva grandi ambizioni: «Scelgo tutto!… I miei desideri toccano l’infinito… Essere tua sposa,
esser carmelitana, essere madre delle anime, questo
dovrebbe bastarmi… ma non è così. Mi sento la vocazione
di guerriero, di sacerdote, di apostolo, di dottore, di martire… Vorrei illuminare le anime come i profeti…»8. Il
Signore però le fa capire che il centro della questione è
altrove. «I miei desideri di essere tutto, di abbracciare tutte le vocazioni, erano ricchezze che potevano anche rendermi ingiusta… O Gesù, com’è felice il tuo uccellino di
essere debole e piccolo!… Che cosa farebbe se fosse grande? Mai troverebbe l’audacia di comparire alla tua presenza»9. Ciò che piace al Signore è proprio questa piccolezza
accettata, questa povertà offerta, dalla quale nasce il coraggio, perché tutto si spera dal Signore.
Un bel racconto dei Chassidim dice riguardo a Mosè:
«Chiesero a Rabbi Berditschew: “Perché Mosè, che nella sua
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8
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Discorso 1 per il Natale, 2.
Discorso 1 per l’Epifania, 1-2.
Storia di un’anima, Milano, Ancora, 1985, pp. 236-237.
Ivi, pp. 240-245.
grande umiltà aveva pregato Dio di mandare un altro al
Faraone, non si rifiutò neppure un attimo di ricevere le tavole della legge?”. Il rabbi rispose: “Aveva visto che le grandi
montagne erano comparse davanti a Dio, e ciascuna aveva
implorato la grazia di essere quella su cui sarebbe avvenuta
la rivelazione, ma Dio aveva scelto il piccolo monte Sinai.
Perciò quando si vide scelto, non esitò a dire di sì»10: sapeva
di essere anche lui, come il Sinai, il più piccolo di tutti.
Qui è la vera umiltà: sapere che non abbiamo una nostra
grandezza, dei nostri meriti: tutto ci è donato gratuitamente
dal Signore per il suo amorevolissimo piano di salvezza. Ma
se è vero che tutto dipende da lui, è anche vero che da parte
nostra non deve essergli opposta resistenza. Se egli ci sceglie
e ci chiama, non dobbiamo ostacolarlo con i nostri dubbi e
le nostre esitazioni, ma dire a noi stessi con semplicità: «Da
solo nulla posso; con il Signore, tutto».
Dio ama “giocare” con i bambini, con la piccolezza.
Anche la struttura dell’universo lo dimostra. Gli scienziati
scandagliano i segreti del cosmo e scoprono particelle sempre più piccole, dotate di un incalcolabile potenziale di energia, ma non giungono mai a “comprendere” il mistero della
vita. Si giunge, invece, a stupirsi, a rimanere in silenziosa
contemplazione: «Se cercate Dio – dice un bel verso di
Gibran – guardatevi intorno: lo vedrete sorridere nei fiori e
negli occhi dei bambini».
Con il desiderio che il fascino dell’infanzia rifiorisca in
tanti cuori profanati, suscitando la nostalgia della purezza e
il più delicato rispetto verso i bambini, anche verso quel
bambino che ancora sopravvive, nascosto, in ciascuno di noi,
umilmente preghiamo:
Gesù, Figlio del Dio Altissimo,
Tu che solo sei grande,
che cosa ti spinse a farti piccolo
10
MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Parma, Guanda, 1992, p. 198.
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rivestendoti della nostra umana carne
se non l’umile, folle, smisurato Amore?
Nato dal grembo della Vergine,
da Colei che piacque al Padre per la sua ignara piccolezza,
Tu sei cresciuto bambino in mezzo a noi.
Rivelaci il tuo dolcissimo segreto,
insegnaci l’arte della santa gioia
che hai promesso agli umili e ai semplici,
perché ci sia dato di entrare nel Regno dei Cieli,
là dove gli ultimi sono i primi
e i piccoli sono i veri grandi.
Gesù, Figlio dell’Eterno Padre,
Primogenito di una moltitudine di fratelli,
infondi in noi il tuo spirito filiale
per chiamare tutti insieme
con cuore gioioso di bambini: Abbà, Padre!
Amen.
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