luigi viola casi di diritto penale 2012

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luigi viola casi di diritto penale 2012
LUIGI VIOLA
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CASI DI DIRITTO PENALE 2012
TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA
Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense, tenuto da
Luigi Viola su overlex.com
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LUIGI VIOLA, Avvocato (esercita la propria attività professionale tra Lecce, Roma e Milano),
docente di Diritto Processuale Civile presso l’Università degli Studi E-Campus sede di NovedrateComo, Specialista in Diritto civile. Direttore scientifico di Altalex Massimario e del Quotidiano
giuridico Overlex.com.
Direttore scientifico dell’Osservatorio Nazionale sul Processo Civile.
Docente in corsi di preparazione per l’esame di avvocato e per il concorso in magistratura ordinaria,
nonché in diversi Master (Roma, Milano, Reggio Calabria, Rimini, Ancona) accreditati dal C.N.F.
E’ docente di Diritto dei contratti presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno
(S.S.A.I.).
Relatore in vari convegni (in Roma presso la Camera dei Deputati, presso l'Università Gregoriana
Pontificia, presso il Campidoglio, presso il Parlamento Europeo, in Milano, in Bari, ecc.), anche
inerenti la formazione decentrata dei magistrati.
Ha scritto diversi libri e curato Trattati; tra le ultime opere si segnalano Il contratto (Cedam 2009),
Prescrizione e decadenza (Cedam 2009), Inadempimento delle obbligazioni (Cedam 2010), Codice
di procedura civile commentato (Cedam 2011), L’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c.
(Giuffrè 2011), La semplificazione dei riti civili (Cedam 2011), Le domande nuove inammissibili
nel processo civile (Giuffrè 2012), Il nuovo appello filtrato (Altalex 2012), La testimonianza nel
processo civile (Giuffrè 2012).
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INDICE
1) Concorso colposo in reato doloso…………………………………………pag.
5
2) Appropriazione indebita…………………………………………………...pag.
44
3) Diffamazione ed intervista…………………………………………………pag.
62
4) Concorso anomalo…………………………………………………………pag.
76
5) Coltivazione di piantine di marijuana……………………………………...pag.
96
6) Accesso abusivo a sistema informatico o telematico………………………pag.
129
7) Estorsione e più persone riunite…………………………………………....pag.
142
8) Tentativo e dolo eventuale…………………………………………………pag.
155
9) Consenso putativo………………………………………………………….pag.
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1)
Concorso colposo in reato doloso
Andrea è dirigente dell’ufficio di pronto intervento della città di Roma; Pasquale è un dipendente,
su cui Andrea si trova in una posizione gerarchicamente sovraordinata.
Ad Andrea arrivavano diverse segnalazioni su Pasquale inerenti la sua personalità, definita come
schizofrenica e bisognosa di accertamenti medici-psichiatrici.
La stessa polizia chiedeva ad Andrea di approfondire la situazione psichica in cui versava
Pasquale e, se del caso, di attivarsi per revocare il porto d’armi, di cui quest’ultimo disponeva;
Andrea non si attivava in alcun modo, lasciando trascorrere sei mesi.
Una sera, Pasquale - con la propria pistola - uccideva la moglie Sempronia.
Andrea si recava da un legale.
Il candidato, assunte le vesti del legale, premessi brevissimi cenni sul concorso di persone nel
reato, rediga motivato parere.
Possibile soluzione schematica
Il concorso di persone nel reato, ex art. 110 c.p., è integrato quando più persone pongono in essere
condotte, anche diverse, per il raggiungimento del medesimo risultato antigiuridico (reato);
l’elemento psicologico comune a tutti deve essere quello del dolo (sono ammesse gradazioni
diverse, come per il dolo eventuale e specifico).
Nel caso in esame non emerge un concorso di persone nel reato, ex art. 110 c.p., perché Andrea
non ha agito con dolo, ma (sembrerebbe) noncuranza e/o negligenza visto che ha lasciato
trascorrere dei mesi.
Può Andrea rispondere di concorso colposo in delitto doloso?
In senso negativo si dice:
-tale figura non è espressamente prevista da alcuna norma; il codice penale individua solo il
concorso doloso in reato doloso, ex art. 110 c.p. ed, al più, il concorso colposo in reato colposo, ex
art. 113 c.p., ma non il concorso colposo in reato doloso;
-non sarebbe possibile estendere la portata dell’art. 113 c.p. anche al concorso colposo in reato
doloso perché ciò costituirebbe un vulnus al principio di stretta legalità e divieto di analogia in
malam partem.
Tuttavia, si ritiene di optare per la tesi positiva, che comporterebbe per Andrea una condanna per
omicidio colposo, nella veste di concorso colposo in reato doloso; ciò in quanto:
-è vero che il concorso colposo in reato doloso non è previsto da alcuna norma, ma a livello
interpretativo è ammissibile: se il legislatore punisce una condotta meno grave come il c.d.
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concorso colposo in reato colposo, ex art. 113 c.p., a fortiori dovrebbe essere punito quello colposo
in doloso;
-non si tratterebbe di un’interpretazione per analogia in malam partem, ma interpretazione
estensiva, perché non si individua un caso non previsto, ma si dilata la portata della norma
Andrea, pertanto, potrà essere punito a titolo di concorso colposo in omicidio doloso.
La soluzione poteva essere anche di segno opposto (assoluzione); era sbagliato soffermarsi solo
sull’art. 328 c.p.
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E' ammissibile il "concorso colposo" nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose
indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purchè, in entrambi i casi, il reato del
partecipe sia previsto anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente
presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa.
Cassazione penale, Sez. IV, 20.9.2011, n. 34385
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Torino con la sentenza indicata in epigrafe confermava il giudizio di
responsabilità del dott. B.A. per il reato di duplice omicidio colposo e, riformando in melius il
trattamento sanzionatorio, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione oltre ad una
provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000,00 nei confronti di una sola delle parti
civili costituite, I.V., confermando nel resto la sentenza impugnata.
Il dott. B. era stato chiamato a rispondere del reato in questione in qualità di dirigente dell'ufficio di
Pronto Intervento della Questura di Torino, da cui dipendeva C.G., Ispettore Capo della Polizia di
Stato che nella notte tra il (OMISSIS) cagionava con la pistola d'ordinanza la morte della moglie
M.I. e del cognato M.M. M.:
A carico del dott. B. erano stati formulati i seguenti addebiti: a) aver omesso di trasmettere
all'ufficio Sanitario provinciale un rapporto informativo sul C. - per il quale il Servizio Centrale di
Sanità aveva disposto la sorveglianza medica periodica con cadenza semestrale (in quanto il C. era
stato riammesso in servizio a seguito di congedo per note ansiose in personalità da approfondire ed
in riferito disturbo del comportamento), parere richiesto il 18.9.2003 dall'Ufficio sanitario;
avere omesso di comunicare che il C. in data 3.10.2003 aveva colpito la moglie cagionandole una
ferita lacero contusa guaribile in sette giorni e di trasmettere i rapporti redatti a carico del C.; avere
omesso di provvedere ai sensi del D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, art. 48 e relativa circolare del
Ministero dell'Interno, che specificava potersi disporre il ritiro dell'arma in dotazione nel caso che si
configura con la messa in atto da parte del dipendente di comportamenti tali da far ritenere
oggettivamente pericolosa la detenzione dell'arma, nonostante il C. (che già era stato oggetto di
ritiro dell'arma nel novembre 2002 per aver minacciato di uccidere la moglie e sè stesso in caso di
separazione) avesse colpito M.I. il 3.10.2003 e nel corso della comunicazione telefonica al 113,
registrata mentre il C. percuoteva la moglie, avesse esplicitato propositi omicidiari e suicidiari.
La Corte di appello territoriale, nell'esaminare i motivi di impugnazione del difensore e
dell'imputato, confermava la penale responsabilità del B., corrispondendo agli specifici motivi di
impugnazione afferenti la contestata posizione di garanzia del B. rispetto al comportamento del
dipendente e gli addebiti di colpa omissiva ritenuti a suo carico.
In ordine alle censure di merito dedotte dall'appellante, sotto il primo profilo (posizione di
garanzia), la Corte osservava che chi è preposto alla guida di un certo servizio e si trova in
posizione di garanzia - che comporta un obbligo di vigilanza su chi, svolgendo quel servizio, corre
il rischio di deviare nel compiere i doveri di istituto - incorre in responsabilità a titolo di colpa nella
commissione di reato operata dal sottoposto verso cui sussisteva un obbligo di vigilanza, nel caso in
cui abbia omesso di esercitare un potere di intervento qualora, avvertito di certe anomalie di
comportamento foriere di pericoli per la incolumità altrui, ad ulteriori avvisaglie di comportamenti
anomali da parte dello stesso soggetto, non approfondisce adeguatamente lo stato delle cose per
intervenire con efficacia a parare i pericoli che si profilano.
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Evidenziava, sotto profilo della evitabilità dell'evento e sussistenza del nesso causale tra la colpa
contestata e l'evento che il dr. B., era venuto meno al dovere di trasmettere immediatamente - dopo
l'episodio del (OMISSIS) - il rapporto informativo semestrale a carico del C. al Servizio Operativo
Centrale di Sanità ed aveva affrontato superficialmente la situazione sia con riferimento all'episodio
del (OMISSIS) che a quello dell'(OMISSIS): con riferimento al primo fatto non aveva richiesto
copia delle relazioni circa gli accertamenti svolti per suo suggerimento dalla Squadra Mobile e con
riferimento al secondo aveva incaricato di seguire i fatti il suo vice e non aveva raccolto quelle
notizie di prima voce e di prima mano che avrebbero meglio orientato le sue determinazioni sul
dipendente che, come emergeva dalla registrazione della telefonata al 113 della M. si era reso
responsabile di una aggressione brutale e spietata, rendendosi successivamente irreperibile.
Sotto l'altro profilo (esigibilità di una condotta atta a prevenire l'evento), i giudici di appello, nel
passare in rassegna i singoli addebiti colposi evidenziati dalla sentenza di primo grado a carico del
dr B., rimarcavano che era nei poteri dell'imputato acquisire una adeguata conoscenza della
situazione raccogliendo l'esito degli incarichi di natura investigativa affidati a seguito del verificarsi
di entrambi gli episodi sopra indicati ed ascoltando le conversazioni registrate dal 113 il (OMISSIS)
al fine di operare con la dovuta tempestività ed efficacia gli interventi propri e di richiedere quelli di
altri organi amministrativi per ovviare al chiarissimo pericolo di atti violenti del marito nei
confronti della moglie. Ciò soprattutto tenuto conto che dai documenti emergeva con solare
evidenza che la ritrattazione della M. del 2 gennaio 2003 era frutto di pressioni psicologiche
difficilmente vincibili operate dal marito.
La Corte di appello rigettava, invece, l'appello proposto dal PM avverso il giudizio di assoluzione
pronunciato dal Tribunale con riferimento al reato di cui all'art. 328 c.p., comma 2, contestato al dr.
B. per la mancata stesura della relazione richiestagli il 18 settembre 2003 dall'Ufficio Sanitario
Provinciale, sul rilievo che, rappresentando il fatto del (OMISSIS) una reazione emotiva aggressiva
cioè un motivo di sospetta infermità, la mancata segnalazione dell'episodio rappresenterebbe
omissione di atto doveroso. Il giudicante affermava, in conformità al primo giudice, che nel
consultarsi del B. con i colleghi ed i medici sui modi con cui venire incontro alla drammatica
vicenda familiare, non era ravvisabile un volontario rifiuto di stesura del rapporto richiestogli ma
piuttosto una trascuratezza nel non aver preso conoscenza di prima mano dei fatti e di aver mancato,
per negligenza, di tempestività nel provvedere con i poteri di cui disponeva al fine di rendere
evitabile la tragedia.
Infine, quanto alle statuizioni civili, il giudice di appello, dato atto che tutte le parti civili costituite,
tranne I.V., pendente il giudizio di appello, avevano promosso azione civile nei confronti del B. e
che il procedimento risultava sospeso ex art. 75 cod. proc. pen., facendo riferimento all'art. 82 cod.
proc. pen. affermava in motivazione che la costituzione di parti civili (nel processo penale) si
intendeva revocata e quindi non occorreva provvedere sulle relative richieste.
Avverso la citata sentenza propongono ricorso per cassazione l'imputato e le parti civili costituite.
L'imputato articola due motivi ripercorrendo analiticamente la motivazione della sentenza
impugnata ed investendo i capi ed i punti della decisione gravata che asserisce fondata sulla
violazione dei principi in tema di causalità e di colpa.
Con il primo motivo lamenta la violazione di legge con riferimento al ritenuto nesso di causalità tra
la mancata trasmissione del rapporto informativo sulle condizioni del C. e gli eventi che si
realizzarono il (OMISSIS) dolendosi della ricostruzione operata in sentenza. In tal senso si
evidenzia che, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, l'episodio del novembre
del 2002- a seguito del quale il C. era stato temporaneamente privato dell'arma in dotazione e poi
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riammesso in servizio sotto vincolo di esame periodico- non era soggetto a rivalutazione da parte
del dr. B. in quanto le indagini erano state affidate ad un reparto della Polizia diverso da quello al
quale il C. operava.
L'addebito a carico del B. si traduceva, pertanto, nella mancata immediata trasmissione entro il
(OMISSIS) della segnalazione inerente il fatto del (OMISSIS) precedente, in cui il C. si era reso
responsabile di lesioni in danno della moglie, del quale l'imputato era stato informato. Trasmissione
che presupponeva,secondo il giudicante, l'accertamento tramite la Squadra Mobile dell'esatto
svolgimento dei fatti nella loro completezza, ancora in corso alla data del (OMISSIS), giacchè dopo
i fatti del (OMISSIS) era stato sospeso il giudizio in attesa degli esiti degli approfondimenti.
Sulla scia di tale ragionamento si sostiene, pertanto, che nessun addebito poteva essere mosso al
dott. B. per l'episodio del novembre 2002, per il quale il dirigente non poteva che attenersi al
giudizio già espresso dalla commissione medica ed a tale conclusione perviene il difensore anche
con riferimento all'episodio del (OMISSIS), per il quale si addebita al dirigente l'omesso
approfondimento dei fatti, anche sotto il profilo della mancata raccolta delle notizie di prima voce e
prima mano ricavabili dalla registrazione della telefonata al 113 in data (OMISSIS) con le
invocazioni di aiuto della moglie e le gravi minacce nei suoi confronti del C.. Con riferimento a tale
secondo episodio si sostiene che la sentenza impugnata non ha affrontato il giudizio contro fattuale
risolvendo la questione se l'acquisizione di quelle informazioni di prima mano e la trasmissione del
rapporto informativo da parte del C. avrebbero certamente impedito l'evento. Si sostiene, inoltre,
che il giudice di merito aveva annesso alla posizione di garanzia rivestita dall'imputato, che pure
aveva delegato per gli accertamenti successivi al (OMISSIS) il suo uomo più fidato, inviandolo al
Pronto Soccorso e ordinandogli di parlare con la vittima dell'aggressione, poteri esorbitanti, laddove
gli aveva addebitato come profilo di colpa l'omesso ascolto delle telefonate della donna alla
Questura.
Con il secondo motivo lamenta la violazione dei principi in tema di colpa e la manifesta illogicità
della sentenza. Premesso che l'addebito mosso al dr. B. è quello di non essersi adeguatamente
attivato nella raccolta di informazioni di prima mano in ordine ai due episodi che precedettero la
tragedia del (OMISSIS), con riferimento al primo episodio si evidenzia che i giudici di merito
avevano trascurato che: l'indagine svolta dalla Squadra Mobile non era sindacabile dal B., il quale
alla notizia delle dichiarazioni rilasciate dal figlio minore del C. era immediatamente intervenuto
sollecitando il suo vice al ritiro dell'arma in dotazione al dipendente; il C. era stato riammesso in
servizio a seguito di due distinti accertamenti, di merito e medico, insindacabili da parte
dell'imputato; la mancata acquisizione dei risultati di quelle indagini non era ascrivibile a
negligenza del prevenuto in quanto quegli accertamenti, parte integrante del fascicolo del C.,
escludevano l'esistenza del rischio specifico (di aggressione al bene della vita), come dimostrato
dalla riammissione in servizio del poliziotto, sia pure con obbligo di accertamento semestrale della
idoneità riconosciuta.
Nè era sostenibile una sottovalutazione del caso da parte dell'imputato che non avrebbe tenuto conto
dei pedinamenti e degli sms con minacce del C. nei confronti della M., mancando agli atti ogni
elemento da cui desumere che il B. era a conoscenza di tale situazione.
La censura si estende anche al giudizio di prevedibilità degli eventi delittuosi da parte dell'imputato
formulato dalla Corte territoriale. Si sostiene che il giudice di merito aveva illogicamente esteso il
principio di esigibilità ritenendo che sull'imputato gravassero doveri così estesi da comportare un
dovere di conoscenza assoluta ed una presunzione di competenza, quasi che la posizione di garanzia
giustificasse qualunque obbligo, anche al di fuori ed al di là di quelli previsti dalla legge. La censura
è rivolta in particolare all'affermazione della Corte secondo la quale "chi assume ruoli di direzione
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di persone con attitudini, livelli intellettivi, riflessi emotivi diversi, e diverse sensibilità e preferenze
sulle attività, specialmente poi nei ruoli correttivi di imposizione legale, sviluppa capacità di
adattamento, comprensione ed empatia, che generalmente mettono in grado di fronteggiare
iniziative e reazioni dei soggetti con cui un capostruttura ha contatti assidui". Infine, ci si duole
dell'addebito contestato al ricorrente di non avere immediatamente modificato il suo giudizio a
seguito dell'episodio del (OMISSIS), affrontando superficialmente la vicenda, senza acquisire di
prima mano e di prima voce quelle notizie che evidenziavano la gravità della condotta del C. e nel
non aver previsto l'evento nonostante la sua prevedibilità.
Sul punto si sostiene che il profilo di colpa contestato al ricorrente non è fondato sulla violazione di
un dovere, anche di conoscenza, individuato con precisione, incombente sull'imputato in quanto
collegato al suo ruolo ma su di una presunzione di competenze e capacità, che viene assunta essa
stessa a fonte del dovere che qui si assume violato.
Le parti civili costituite articolano un unico motivo con il quale lamentano violazione di legge della
sentenza nella parte in cui la Corte territoriale, senza alcuna pronuncia in dispositivo di esclusione o
revoca delle parti civile, in motivazione, richiamando l'art. 82 cod. proc. pen., afferma che la
costituzione di parte civile nel processo penale si intende revocata e che, pertanto, non vi è luogo a
provvedere sulle richieste dalle stesse formulate. Sul punto si fa presente che nel giudizio di primo
grado non veniva citato quale responsabile civile il Ministero dell'Interno e che la sentenza,
riconosciuta la penale responsabilità del dr. B. pronunciava condanna al risarcimento dei danni in
favore delle parti civili costituite da liquidarsi in separate sede con una provvisionale
immediatamente esecutiva nei confronti delle medesime.
Pendendo il giudizio di appello alcune parti civili ed odierni ricorrenti instauravano giudizio civile
nei confronti del B. e del Ministero dell'Interno, che in via preliminare chiedeva la sospensione del
procedimento civile ex art. 75 c.p.p., comma 3, e l'inammissibilità dell'azione civile per preclusione
derivante dal giudicato penale: il giudizio civile veniva sospeso.
Ciò premesso, si insta per l'annullamento della impugnata sentenza in ordine alla ritenuta revoca
tacita della costituzione di parte civile ed in ordine alle statuizioni civilistiche, sul rilievo della
mancanza di identità tra le due azioni, in quanto la causa civile era stata promossa per estendere
l'azione al responsabile civile non presente nel giudizio penale ed a richiedere nei confronti dei
convenuti la condanna nel quantum, oltre alle somme liquidate in sede di provvisionale penale;
nella ipotesi di conferma delle statuizioni civili della sentenza di primo grado, si afferma la
sopravvenuta carenza di interesse alla prosecuzione di questo giudizio.
E' stata depositata memoria difensiva nell'interesse dell'imputato con la quale, nuovamente
soffermandosi sul profilo della colpa addebitata al ricorrente, si sottolinea ancora una volta che i
dati probatori acquisiti dimostrerebbero che il dr. B. non era a conoscenza dei fatti a seguito dei
quali, secondo l'impostazione accusatoria si sarebbe dovuto attivare; che non fu negligente rispetto
ai doveri imposti dalla sua funzione nella acquisizione dei dati informative avendo delegato, dopo
l'episodio del (OMISSIS) il suo vice ad approfondire la situazione; che non sottovalutò quanto
appreso, sospendendo il giudizio nei confronti del B..
Motivi della decisione
I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla
ritenuta erroneità dell'affermato giudizio di responsabilità.
Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in
quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle
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questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di
diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa e di nesso di causalità.
Prima di affrontare le censure proposte va opportunamente chiarito che la fattispecie va inquadrata
nell'ambito del concorso colposo nel delitto doloso, sulla cui ammissibilità è orientata la recente
giurisprudenza di legittimità (v. da ultimo Sezione 4, 12 novembre 2008, Calabrò ed altro, rv.
242830 ed i completi riferimenti in essa contenuti). La citata sentenza ha chiarito che è'ammissibile
il "concorso colposo" nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di
cooperazione colposa, purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella
forma colposa (diversamente sarebbe violato il disposto dell'art. 42 c.p., comma 2, secondo il quale
nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso
con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge) e
nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa.
E' stato altresì precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità di concorso colposo nel reato
doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perchè, una volta
accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andrà verificata l'esistenza dei
presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.
In particolare, è necessario che il soggetto sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di
tutela o di protezione e che la regola cautelare dal medesimo inosservata sia diretta ad evitare anche
il rischio dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile per l'agente.
Il fondamento della responsabilità, ex art. 41 c.p., comma 2, deve, infatti, essere sempre correlato
non solo all'esistenza di un dovere giuridico di attivarsi per impedire che l'evento temuto si
verifichi, ma anche alla presenza di una condotta colposa, dotata di ruolo eziologico nella
spiegazione dell'evento lesivo.
La sentenza impugnata, pur non avendo affrontato esplicitamente questo tema - peraltro non
sollecitato neanche dalla difesa - si è implicitamente attenuta ai suddetti principi e, in questa
prospettiva, si è soffermata analiticamente sulla posizione di garante rivestita dal B., sulla quale ha
fondato l'obbligo di osservanza di determinate regole cautelari sullo stesso gravanti, la cui
violazione ha affermato integrare la colpa causalmente rilevante nella determinazione del tragico
evento "dolosamente" provocato dal C.G..
Ciò premesso, seguendo un ordine diverso rispetto a quello prospettato nel ricorso, si ritiene
opportuno partire dell'esame delle censure riguardanti l'esistenza della colpa perchè le doglianze
proposte con il ricorso sono incentrate soprattutto alla verifica se le violazioni di regole cautelari
ascritte all'imputato abbiano causalmente influito sul verificarsi degli eventi oggetto delle
imputazioni (la cd. causalità della colpa).
Si passerà poi all'esame delle censure afferenti la causalità della condotta dell'imputato.
Sotto il profilo dell'accertamento della colpevolezza la sentenza impugnata si sottrae a tutte le
censure proposte dal ricorrente.
Sul punto occorre innanzitutto sgomberare il thema decidendi da un equivoco in cui è incorso il
ricorrente sul contenuto dei profili di colpa contestati ed accertati. Si sostiene che l'addebito mosso
al dr. B. sarebbe solo quello di non essersi adeguatamente attivato nella raccolta di informazioni di
"prima mano" in ordine ai due episodi, che precedettero la tragedia del (OMISSIS). Ciò perchè la
Corte di merito, rigettando l'appello proposto dal PM, con riferimento al delitto di omissione di atti
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di ufficio ex art. 328 c.p., comma 2, aveva confermato la sentenza di assoluzione con la formula
perchè il fatto non costituisce reato, così escludendo - almeno così può ragionevolmente ricostruirsi
la tesi difensiva - la sussistenza a carico dell'imputato dell'obbligo giuridico di attivarsi per il ritiro
immediato dell'arma.
Tale tesi non è validamente sostenibile.
La formulazione e la finalità della norma di cui all'art. 328 c.p., comma 2, (trattasi di un reato
plurioffensivo, nel senso che tutela oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza
della pubblica amministrazione, anche il concorrente interesse del privato leso dall'omissione o dal
ritardo dell'atto amministrativo dovuto) inducono a ritenere che questa, diversamente da quella
prevista dall'art. 328 c.p., comma 1, è diretta a disciplinare esclusivamente i rapporti tra la pubblica
amministrazione ed i soggetti ad essa esterni, fornendo a questi ultimi uno specifico e puntuale
strumento di tutela.
Ne consegue la non riconducibilità a tale fattispecie della omissione (e/o) del ritardo degli atti
rilevanti esclusivamente all'interno dell'amministrazione. Tali condotte omissive potranno rilevare
sul piano disciplinare ovvero, ricorrendone le condizioni, potranno portare ad una responsabilità
penale per il reato di cui all'art. 328 c.p., comma 1.
L'assoluzione dal reato de quo non comporta, pertanto, l'asserita insussistenza della violazione della
norma cautelare che imponeva al dr. B. di attivarsi immediatamente per il ritiro dell'arma, come
imposto dalla normativa vigente all'epoca dei fatti.
Questo obbligo derivava, invece, dal tenore del D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, art. 48, comma 3
(approvazione del regolamento di servizio dell'amministrazione della Pubblica Sicurezza), secondo
il quale la tessera di riconoscimento deve essere ritirata in caso di sospensione dal servizio o
aspettativa per motivi di salute determinata da infermità neuro-psichiche.
Infatti, è pacifico - come sottolineato dal giudice di primo grado- perchè del resto non contestato da
nessuna delle parti, oltre che fondato sulle dichiarazioni dello stesso B., che il ritiro della tessera di
riconoscimento comporta necessariamente il ritiro dell'arma in dotazione; e che sospendere dal
servizio e ritirare l'arma - provvedimento che compete alla dirigenza dell'ufficio da cui dipende il
soggetto interessato - è atto inscindibile poichè l'arma è strumento di lavoro per lo stato giuridico di
appartenente alla Polizia di Stato. Tale obbligo è, del resto, espressamente indicato in due circolari
esplicative, aventi ad oggetto proprio il ritiro dell'arma, vigenti all'epoca dei fatti, emanate a seguito
di richieste di chiarimenti: la prima, in data 24 settembre 2001, proveniente dal Ministero
dell'Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale di Sanità e l'altra del 17
ottobre 2001, proveniente dall'Ufficio Sanitario provinciale.
In particolare, la seconda circolare ai punti 3 e 4 disciplina le ipotesi nelle quali è il dirigente a poter
disporre d'ufficio il ritiro dell'arma, senza previa sollecitazione del sanitario, al quale l'interessato
dovrà comunque essere inviato tempestivamente. Il già citato punto n. 3 prevede espressamente il
ritiro dell'arma, effettuato di propria iniziativa dal Dirigente dell'ufficio di appartenenza nei seguenti
casi: "comportamenti tali da far ritenere oggettivamente pericolosa la detenzione dell'arma
medesima, manifestazione di intense reazioni emotive non controllate, evidenti segni di alterato
stato di coscienza o di insufficiente coordinazione psicomotoria". L'altra ipotesi, che giustifica
l'attivazione di questo potere, è quella di cui al successivo n. 4: "il fatto che il dipendente sia
coinvolto in episodi considerati ad elevata valenza psicotraumatica".
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E' evidente che tali disposizioni sono tutte rivolte a tutelare dal rischio del verificarsi di eventi
dannosi, sempre correlato alla detenzione ed al porto di armi, e che le medesime norme implicano
l'osservanza delle regole di cautela da parte del titolare della posizione di garanzia, che, come tale, è
tenuto a rispettarle.
Non va del resto trascurato che, pure a fronte di determinazioni discrezionali del pubblico
funzionario circa l'adozione dell'atto (il ritiro dell'arma, nel caso in esame, non imposto dalla legge),
l'esercizio concreto degli interventi che rientrano nella sfera della discrezionalità amministrativa
merita di essere apprezzato secondo le regole generali di diligenza, di prudenza e di perizia, che
devono sempre ispirare il comportamento dell'agente (v. Sezione 4, 4 maggio 2010, Vollono ed
altro, rv. 248343).
Tale principio vale anche con riferimento agli altri profili di colpa addebitati al B., individuati
correttamente e legittimamente nelle seguenti condotte omissive: la omessa trasmissione all'ufficio
Sanitario provinciale di un rapporto informativo sul C., già richiesto il 18 settembre 2003; l'omessa
comunicazione che il C. in data (OMISSIS) aveva colpito la moglie cagionandole una ferita lacero
contusa guaribile in sette giorni nonchè l'omessa trasmissione dei rapporti redatti a carico del
dipendente.
Da quanto sopra esposto emerge la palese infondatezza della tesi del ricorrente secondo cui non era
imputabile al dr. B., sotto questo profilo, alcuna violazione di regole cautelari.
Ed emerge, altresì, l'infondatezza della censura secondo la quale i profili di colpa addebitati
all'imputato non sono collegati al ruolo dallo stesso concretamente svolto ma su astratte presunzioni
di competenze e capacità.
I giudici di merito sono, invece, partiti dall'assunto corretto della esistenza
garanzia in capo all'imputato, conseguente all'aver rivestito, all'epoca del
dirigente dell'ufficio di appartenenza del C., soggetto a sorveglianza, dopo un
nei confronti della moglie, verificatosi nel (OMISSIS), a seguito del quale
l'arma, restituitagli successivamente.
di una posizione di
fatto, la qualità di
episodio di violenza
gli era stata ritirata
Nell'esercizio delle funzioni indicate, che gli imponevano il controllo della situazione, certamente a
rischio, la discrezionalità del potere di valutazione del pubblico funzionario era vincolata
all'esigenza di assumere tutte quelle iniziative ed interventi idonei a prevenire i tragici eventi
verificatisi, che la procedura prevista per il ritiro dell'arma, sopra indicata, era proprio diretta ed
evitare.
Il rispetto delle regole di diligenza e di prudenza imponevano all'imputato di attivarsi al fine di
evitare il realizzarsi della situazione a rischio, ponendo in essere quei comportamenti, invece,
omessi: o provvedere egli stesso al ritiro dell'arma del C., essendo chiaramente ravvisabile nel
comportamento dell'Ispettore di Polizia del (OMISSIS) una di quelle situazioni di pericolo
esemplificate nelle circolari sopra indicate o attivare con urgenza, come era accaduto nel
(OMISSIS), la procedura medica che in quel caso aveva portato all'immediato ritiro dell'arma.
Non si tratta, pertanto, come sostenuto dal difensore, di una impostazione che conferisce ai doveri
di ufficio dell'imputato una dimensione astratta ed una estensione illimitata, estranei all'ambito delle
competenze proprie del ruolo ricoperto dal B., così vulnerando il carattere personale della
responsabilità penale ed il principio di colpevolezza.
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I giudici di merito hanno fondato, infatti, gli addebiti colposi non solo sulla affermata posizione di
garanzia, che indubbiamente rileva solo per rendere possibile l'imputazione del fatto quando si sia
in presenza di condotta omissiva, come nel caso in esame, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. ed opera
quindi sul piano del fatto, della tipicità oggettiva.
Affermata la posizione di garanzia, i giudici di merito, seguendo il corretto itinerario logicogiuridico che conduce alla responsabilità colpevole, hanno anche individuato, come sopra esposto,
le condotte concretamente colpose, dotate di ruolo eziologico nella spiegazione dell'evento lesivo.
L'apparato argomentativo sviluppato in proposito, a supporto dell'elemento soggettivo del reato, è
congruo in relazione a tutti profili di interesse, con particolare attenzione alla prevedibilità ed
evitabilità dell'evento dannoso verificatosi, con la conseguente esigibilità in concreto da parte del
prevenuto di una condotta atta a prevenirlo.
Le regole di condotta sopra enunciate, rispetto alle quali il B. è rimasto inadempiente, dovevano
ritenersi tanto più pregnanti - e qui si entra sul punto relativo alla prevedibilità ed evitabilità degli
eventi dannosi verificatisi, correttamente sviluppato dai giudici di merito - atteso che il C. era un
soggetto per cui era stato formalmente stabilito, in considerazione del precedente episodio di
violenza nei confronti della moglie, avvenuto nel (OMISSIS), che la sua salute mentale doveva
rimanere sotto controllo, prospettandosi l'ipotesi in cui fossero di fatto intervenuti comportamenti
sospetti; che tali sospetti si erano concretizzati in pericolo concreto quando nella serata del
(OMISSIS) il C. aveva picchiato la moglie rendendosi irreperibile alle ricerche dei colleghi e
superiori; che nei giorni successivi aveva reiterato i comportamenti minacciosi ed ossessivi verso il
coniuge ed i familiari.
Dunque la valutazione di prevedibilità degli eventi formulata dai giudici di merito appare condotta
con criteri di logicità e si sottrae a censure in questa sede, laddove è stato in particolare sottolineato
che la gravità delle manifestazioni di violenza potevano far presagire anche lo scatenarsi della furia
omicida del (OMISSIS).
Tale giudizio è formulato correttamente, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte
secondo la quale perchè l'agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in
violazione di una regola cautelare, ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione
avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può
essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto
dannoso.
Nel caso in esame non vi è dubbio che la normativa sopra richiamata in tema di ritiro delle armi è
preordinata proprio ad evitare la disponibilità delle armi da parte di persone prive di equilibrio
psichico, in considerazione dell'estrema pericolosità che ciò può comportare. Ed è sufficiente
ripercorrere la dettagliata storia, contenuta nelle sentenze di merito, delle reiterate violenze, anche
fisiche, subite dalla moglie del C. e del clima di paura e di soggezione psicologica in cui viveva la
donna, costretta negli ultimi tempi a rifugiarsi (inutilmente) nella casa della madre e a girare
scortata dai familiari, per trovare conferma della correttezza della valutazione sulla concreta
prevedibilità di una inesorabile progressione di eventi lesivi, quali quelli verificatisi.
Parimenti infondate sono altresì le censure che riguardano revitabilità dell'evento. In proposito è
stato correttamente sottolineato che, se dopo l'episodio del (OMISSIS), il B. avesse di iniziativa
provveduto al ritiro della pistola, come gli era consentito dalla pericolosa situazione venutasi a
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creare, o, comunque, il C. fosse stato rapidamente avviato alla commissione medica, la decisione
sull'arma non poteva essere dissimile da quella adottata nel novembre del 2002 e, pertanto, l'evento
hic et nunc verificatosi non si sarebbe realizzato.
Sotto questo profilo, è infatti, irrilevante che il C. avrebbe potuto attuare l'intenzione delittuosa con
mezzi diversi dalla pistola in dotazione, perchè questa condotta avrebbe realizzato un diverso
percorso causale, che non è quello che ha condotto all'evento in concreto verificatosi e che, in tale
situazione, assume il carattere di una congettura non realizzatasi.
L'apprezzamento di tali situazioni fattuali non potrebbero (nè possono) essere sindacate in questa
sede, visto l'ambito del giudizio di legittimità, non palesandosi del resto come ricostruite in termini
illogici o facendo richiamo a massime di esperienze incongrue o manifestamente inesatte.
Da questa premessa, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio
di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante
fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale
incontrovertibile:
l'omesso ritiro dell'arma e/o l'omessa trasmissione all'ufficio Sanitario provinciale di un rapporto
informativo sul C., già richiesto il 18 settembre 2003, con la comunicazione dell'episodio di
violenza del (OMISSIS), avevano rappresentato la premessa imprescindibile per la realizzazione
delle condizioni che avevano reso possibile gli eventi lesivi.
Le censure riguardanti la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito - e che possono
sintetizzarsi nelle giustificazioni fornite dal dr. B. sul ritardato inoltro alla commissione medica del
rapporto informativo sul C. e sull'omesso approfondimento dell'episodio del (OMISSIS) - sono
inammissibili nel giudizio di legittimità essendo dirette ad avvalorare mere congetture - peraltro già
compiutamente disattesa dalla Corte territoriale - e non ad evidenziare mancanza, manifesta
illogicità e contraddittorietà della motivazione.
In conclusione, le regole cautelari violate dall'imputato erano finalizzate anche ad evitare eventi del
tipo di quello in concreto verificatosi (cd. "concretizzazione del rischio"), con la conseguenza che,
anche sotto questo profilo, la responsabilità del ricorrente nella causazione dell'evento non può
essere esclusa.
Quanto al ricorso proposto dalle parti civili si espone quanto segue.
Torna utile sottolineare che la Corte territoriale, dato atto che tutte le parti civili costituite, tranne
I.V., pendente il giudizio di appello, avevano promosso azione civile nei confronti del B. e che il
procedimento risultava sospeso ex art. 75 cod. proc. pen., facendo riferimento all'art. 82 cod. proc.
pen. ha affermato in motivazione che la costituzione di parti civili (nel processo penale) si intendeva
revocata e quindi non occorreva provvedere sulle relative richieste.
Di tale statuizione, come risulta scritta in motivazione, non vi è però traccia nel dispositivo, che, nel
rigettare l'appello, si è limitata a confermare la sentenza impugnata in punto di responsabilità ed a
condannare l'imputato B. ad una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000 nei
confronti della sola parte civile I., ed alla rifusione delle spese di tutte le parti civili, confermando
nel resto la sentenza.
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La predetta sentenza di primo grado aveva condannato B. al risarcimento dei danni cagionati dal
reato alle parti civili costituite, da liquidarsi un separata sede, ed aveva assegnato alle medesime, ad
eccezione di I., provvisionali immediatamente esecutive, ivi indicate.
E' evidente, pertanto, la divergenza tra motivazione e dispositivo, che non può essere risolto in
questo caso facendo ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della decisione. Tale
procedimento interpretativo è consentito soltanto nei casi in cui la divergenza tra l'uno e l'altra sia
stata determinata da un errore materiale contenuto nel dispositivo e sia immediatamente
riconoscibile così da poter consentire il ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della
decisione.
La riconoscibilità deve infatti risultare con assoluta evidenza dalla lettura della stesso dispositivo
oppure dalla lettura della motivazione ma, in quest'ultimo caso, purchè sussistano elementi certi e
logici, come tali, univocamente interpretabili che consentano di ritenere errato il dispositivo, sia
pure in parte, per un errore materiale intervenuto nella redazione di tale documento.
Invero, intanto è consentito il ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della decisione
in quanto il contrasto tra dispositivo e motivazione sia evidente, potendosi escludere con assoluta
certezza che la motivazione sia stata strumentalmente rivolta a giustificare un errore od
un'omissione, intervenuti nel processo formativo della volontà.
In difetto della sicura ricorrenza dei presupposti sopra accennati, deve invece trovare applicazione il
consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui il contrasto tra dispositivo
e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza
dell'elemento decisionale su quello giustificativo (cfr., per utili riferimenti, Sezione 4, 4 ottobre
2006 - 4 novembre 2006 n. 36619, Maio, n.m.).
Del resto, va anche ricordato il principio in forza del quale nella sentenza dibattimentale, in caso di
difformità tra dispositivo e motivazione, prevale il primo sulla seconda, in quanto è il dispositivo
letto in udienza che costituisce l'atto con cui il giudice estrinseca la volontà della legge nel caso
concreto; e ciò diversamente dal caso della decisione camerale, dove ogni contrasto fra motivazione
e dispositivo comporta la prevalenza della prima sul secondo, in quanto, non vi è momento
distintivo tra dispositivo e motivazione, che nel loro insieme costituiscono la decisione (Sezione 5,
20 maggio 2004, Fattoruso, rv. 228709; nonchè, Sezione 4, 26 maggio 2006 - 28 luglio 2006 n.
26775, Spera, non massimata sul punto).
Applicando tali principi al caso in esame va rilevato che l'apprezzamento della reale determinazione
giudiziale impone di attribuire prevalenza al dispositivo, nella parte in cui ha confermato le
statuizioni civili non espressamente fatte oggetto di riforma, come del resto desumibile dalla
condanna dell'imputato alla rifusione delle spese di "continuata assistenza e rappresentanza delle
parti civili costituite in questo grado" e della "conferma nel resto" della sentenza di primo grado.
Va rilevato, del resto, per contrastare una diversa lettura, che difetta l'identità delle due azioni che
giustificherebbe l'applicazione del disposto dell'art. 82 cod. proc. pen. in quanto, come emerge dagli
atti la causa civile, questa è stata promossa per estendere l'azione al Ministero dell'Interno non
presente nel giudizio penale ed a richiedere nei confronti dei convenuti la condanna del quantum,
oltre alla somma liquidata in sede di provvisionale penale (v. Sezione 5, 7 ottobre 1998, Faraon ed
altro, rv. 213416).
L'intervenuta conferma delle statuizioni civili, desumibile dal dispositivo della sentenza impugnata,
comporta che le provvisionali, provvisoriamente esecutive, liquidate dal giudice di primo grado,
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non sono state travolte dalla Corte territoriale, prevalendo, per quanto sopra esposto, il dispositivo.
Rimane immutata, ovviamente, la pronuncia con riferimento alla provvisionale liquidata dalla Corte
territoriale in favore di I.V., in ordine alla quale non emerge alcuna discrasia tra dispositivo e
motivazione.
Le questioni proposte dalle parti civili risultano, pertanto, implicitamente superate da tale decisione,
con la conseguente declaratoria di assorbimento del ricorso.
Al rigetto del ricorso proposto consegue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite,
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso proposto da B.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
nonchè alla rifusione delle spese in favore di tutte le parti civili costituite e liquida le stesse in
complessivi Euro 6.500,00, oltre accessori come per legge; dichiara assorbito il ricorso delle parti
civili.
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Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la
condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell'evento secondo lo schema del
concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa, purché in
entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella
sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In
particolare è necessario che la regola cautelare violata sia diretta ad evitare anche il rischio
dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile per l'agente.
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 14-11-2007) 11-03-2008, n. 10795
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
1) La sentenza di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Bologna,
con sentenza 25 novembre 2005, ha condannato P.E., all'esito del giudizio abbreviato, alla pena
ritenuta di giustizia (con le conseguenti statuizioni civili a favore della parti civili) per il delitto di
omicidio colposo in danno di C.A. commesso in (OMISSIS). Il processo trae origine da una tragica
vicenda verificatasi, il giorno indicato, all'interno della comunità "(OMISSIS)", sita in (OMISSIS),
nella quale era ricoverato un paziente psicotico, M.G., che il giorno indicato aveva aggredito con un
coltello C. - educatore che prestava servizio presso la comunità - cagionandone la morte.
Al dott. P., medico psichiatra che svolgeva la sua attività terapeutica presso la comunità, era stato
addebitato di aver omesso di valutare adeguatamente i sintomi di aggressività manifestati da M.
(anche specifici nei confronti di C.), di aver ridotto - e poi sospeso - la somministrazione di una
terapia farmacologica di tipo neurolettico in modo tale da renderla inidonea a contenere la
pericolosità del paziente e di aver omesso di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio in
presenza di sintomi che rendevano necessaria tale iniziativa.
In particolare il primo giudice ha ritenuto che la condotta del medico fosse caratterizzata da colpa
per avere prima ridotto e poi sospeso la somministrazione del farmaco (Moditen) di tipo Mepot" che
gli veniva somministrato senza un'adeguata anamnesi e senza una corretta valutazione della
situazione di recrudescenza dei sintomi di aggressività che caratterizzavano il paziente; per non aver
commisurato la quantità e qualità delle visite alla situazione e non aver accompagnato la riduzione
della terapia con misure di supporto; per aver omesso di richiedere il t.s.o..
Ha ritenuto inoltre che queste condotte colpose si ponessero in rapporto di causalità con l'evento
verificatosi; in particolare la modifica del trattamento farmacologico aveva comportato un
aggravamento della patologia e una recrudescenza dell'aggressività del paziente.
2) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza 12 gennaio 2007, ha
confermato la sentenza di primo grado. Dopo aver respinto la richiesta di acquisizione di una
consulenza tecnica d'ufficio svolta in un giudizio civile e ritenuto inutilizzabile un parere pro
veritate di cui la difesa aveva chiesto l'acquisizione la Corte ha ripercorso i fatti che hanno dato
luogo al presente processo condividendo le valutazioni del primo giudice sulla natura colposa della
condotta dell'imputato per avere, il dott. P., prima ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica che
assumeva.
In particolare i giudici di secondo grado hanno condiviso il parere dei periti nominati dal primo
giudice i quali avevano rilevato che le linee guida internazionali prevedono la riduzione della
terapia solo dopo cinque anni di mancanza di episodi psicotici.
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Questi episodi si erano invece verificati in tempi recenti tanto che il precedente primario, dott. V.,
aveva raccomandato che non venisse ridotta la terapia somministrata a M..
Inoltre la riduzione era avvenuta in modo non conforme alle prescrizioni delle linee guida
conducendo così il paziente ad uno scompenso conclamato come risultava da vari episodi: il
paziente, in più occasioni, aveva lamentato la sparizione del suo danaro in banca, aveva manifestato
il timore di essere avvelenato, aveva affermato che il suo medico era morto, circostanza non vera); a
questo scompenso è stato ritenuto causalmente ricollegata la crisi che aveva condotto
all'aggressione dell'educatore da parte del paziente.
In conclusione la Corte ha ritenuto che qualora, a scompenso conclamato, il dott. P. avesse adottato
adeguate misure terapeutiche di pronta efficacia non vi sarebbe stata l'aggressione nei confronti
della persona offesa. Inoltre la Corte ha ritenuto che, oltre a queste condotte di natura commissiva,
ve ne fosse una di tipo omissivo, in rapporto di causalità con l'evento, costituita dall'omessa
richiesta del t.s.o. in una situazione che rendeva necessaria la richiesta medesima sia per l'esistenza
di una situazione di scompenso che per il rifiuto del paziente di assumere la terapia iniettiva.
La Corte di merito ha concluso ribadendo gli elementi di colpa già ricordati ed inoltre precisando,
ad ulteriore conferma dell'inadeguatezza della terapia, che il dott. P., quando si era reso conto della
modifica peggiorativa della situazione patologica, aveva introdotto nella terapia un farmaco
antipsicotico di pronto effetto ma in dose inadeguata rispetto alla gravità della situazione.
3) I motivi di ricorso. Contro la sentenza della Corte bolognese (nonchè contro l'ordinanza 12
gennaio 2007 che ha rigettato le richieste di cui ai primi due motivi di ricorso di cui infra) ha
proposto ricorso P.E. il quale ha dedotto i seguenti motivi d'impugnazione. a) Con il primo motivo
si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), con riferimento alla mancata
acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio disposta nell'ambito del giudizio civile avente il
medesimo oggetto e come parti gli eredi di C., la coop. (OMISSIS) e l'AUSL di (OMISSIS). La
richiesta è stata respinta dalla Corte di merito che non ha però considerato che si trattava in realtà di
un rito "riaperto" d'ufficio perchè il giudice, dopo aver disposto l'integrazione probatoria prevista
dall'art. 438 c.p.p., comma 5, aveva poi d'ufficio disposto una perizia.
Da ciò conseguiva, secondo il ricorrente, che doveva ritenersi riaperta anche per le parti la
possibilità di acquisire elementi di prova necessari per il giudizio e ciò aveva formato oggetto di un
motivo d'appello. I giudici di secondo grado, respingendo la richiesta ritenendola preclusa perchè si
era proceduto con il rito abbreviato, non hanno considerato che il rito abbreviato ha perso le
caratteristiche originarie di processo allo stato degli atti e ciò ha reso applicabile a tale rito l'intera
disciplina prevista dall'art. 603 c.p.p. ed in particolare le disposizioni previste dal comma 2 nel caso
di prove nuove sopravvenute dopo il giudizio di primo grado.
La Corte di merito non avrebbe inoltre tenuto conto della circostanza che il giudizio abbreviato era
stato dall'imputato subordinato all'integrazione probatoria; il che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, consente la rinnovazione dell'istruzione in appello e comunque non può escludere il
diritto alla controprova a favore dell'imputato anche nel giudizio di appello verificandosi, in caso
contrario, una grave lesione del diritto di difesa.
In ogni caso, secondo il ricorrente, è sempre consentito alla parte di sollecitare al giudice d'appello
l'esercizio dei poteri officiosi ai sensi dell'art. 603 c.p.p. e la mancanza di motivazione sul diniego di
esercitare questi poteri è censurabile in Cassazione. Per di più, secondo il ricorrente, la natura
documentale del documento di cui si era chiesta l'acquisizione non richiedeva neppure la riapertura
dell'istruzione dibattimentale per il combinato disposto dell'art. 441 c.p.p., comma 1 e art. 421
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c.p.p., comma 3. b) Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione e la
violazione dell'art. 121 c.p.p., per il diniego di acquisire al fascicolo un parere pro veritate espresso
da un esperto in materia psichiatrica che la Corte ha ritenuto non potersi acquisire considerandola
una consulenza tecnica di parte proveniente da persona che non rivestiva la qualità di consulente
tecnico.
Al di là della correttezza delle ragioni indicate dalla Corte nel ricorso si sottolinea che i difensori che avevano firmato il parere - avevano chiesto espressamente che l'elaborato venisse considerato
come memoria difensiva e a questa richiesta la Corte non ha fornito alcuna risposta. c) Con il terzo
motivo di ricorso si censura invece la sentenza impugnata per aver affermato che esisteva un
obbligo giuridico, per il dott. P., di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio nei confronti del
paziente M.G..
Il ricorrente precisa al contrario che il t.s.o. può essere richiesto solo in presenza di tre presupposti:
alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; mancata accettazione di tali
interventi da parte dell'infermo; impossibilità di adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere.
La proposta deve essere convalidata da un medico psichiatra e ulteriormente convalidata dal
sindaco. Infine il giudice tutelare nelle 48 ore successive deve verificare la correttezza del
provvedimento e decidere se confermarlo o farlo decadere.
Dall'esame di questa complessa procedura consegue, secondo il ricorrente, che la procedura è
finalizzata alla tutela del paziente e quindi sarebbe contrario a queste finalità far prevalere le
esigenze di tutela della collettività rispetto al principio della libertà di cura.
Nel caso di specie il dott. P. si è attenuto a questi principi perchè, nella visita del (OMISSIS)
(l'omicidio è avvenuto il (OMISSIS)), avendo constatato il peggioramento delle condizioni del
paziente, aveva ripristinato il trattamento farmacologico in precedenza ridotto e poi sospeso e, a
fronte del rifiuto della cura da parte del paziente, aveva raggiunto un accordo con il medesimo
perchè l'iniezione venisse effettuata dal medico di base. Cosa che era effettivamente avvenuta.
In definitiva: con l'assunzione volontaria della cura era venuto meno il presupposto del rifiuto della
cura. In ogni caso l'eventuale obbligo di richiedere il t.s.o. sarebbe spettato al medico che aveva
visitato per ultimo il paziente, cioè la dott. D., medico di base che aveva somministrato la terapia il
19 maggio.
D'altro canto la comunità (OMISSIS) era attrezzata per la sorveglianza e l'osservazione dei pazienti
avendo a sua disposizione educatori ed assistenti oltre ad uno psichiatra di turno (diverso dal dott. P.
che era lo psichiatra curante di M.). Difettava quindi, per l'adozione del t.s.o., l'impossibilità di
adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere. d) Con il quarto motivo di ricorso la
sentenza della Corte bolognese viene censurata sotto diversi profili riguardanti la causalità e la
colpa.
Sotto il primo profilo, ed in particolare relativamente all'esistenza di una posizione di garanzia, il
ricorrente evidenzia l'erroneità dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che ha
ritenuto irrilevante il titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato.
M. risultava infatti affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano
avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un medico psichiatra con l'incarico di
consulente diverso dal dott. P..
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Nell'ambito di questa organizzazione - la cui struttura e i cui compiti vengono descritti nel ricorso un gruppo di lavoro di cui faceva parte il dott. P. aveva il compito di migliorare le procedure di
lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.
Un altro errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata è costituito dall'affermazione che il
ricorrente aveva l'obbligo di informarsi degli episodi allarmanti che avevano caratterizzato la
condotta del paziente; con questa affermazione i giudici di merito non hanno tenuto conto della
circostanza già evidenziata che M. era affidato ad una struttura autonoma e autosufficiente e
l'intervento del consulente esterno, dott. P., rientrava nell'autonoma discrezionalità dei componenti
la struttura. In base al principio di affidamento l'imputato aveva ragione di ritenere che la condotta
della struttura nella trattazione del caso era corretta.
Nel medesimo motivo il ricorrente affronta il tema della colpa anche sotto il profilo della
prevedibilità dell'evento. In particolare si sottolinea nel ricorso che il paziente era in remissione da
oltre 15 anni; che il dott. P. non aveva affatto eliminato la terapia antipsicotica ma l'aveva soltanto
ridotta in una prospettiva di ridurre la sedazione cui M. era sottoposto da tempo. In realtà la
sentenza impugnata avrebbe tratto il giudizio di prevedibilità dell'evento in concreto verificatosi
dalla sola esistenza della malattia psicotica. e) Con il quinto ed ultimo motivo si denunziano invece
il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento all'affermata esistenza del rapporto
di causalità tra la condotta dell'imputato e il verificarsi dell'evento.
Secondo il ricorrente la Corte di merito, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di
legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla
causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e
scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento.
Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che la riduzione della terapia era avvenuta
somministrando per un certo periodo la metà del farmaco e che, nel periodo di sospensione, erano
ancora presenti gli effetti del farmaco, di tipo "depot" che ha tempi lunghissimi di eliminazione;
questo processo non si era certamente esaurito quando era stata ripristinata la posologia originaria.
La Corte non avrebbe poi preso in considerazione che al paziente veniva somministrato anche altro
farmaco antipsicotico idoneo a prolungare ulteriormente i tempi dell'eventuale scompenso da
sottodosaggio.
Se si tiene conto di queste circostanze e del fatto che anche la condotta ritenuta esigibile non
esclude il verificarsi di scompensi psicotici è da escludere, secondo il ricorrente, che il rapporto di
causalità tra condotta ed evento possa essere ritenuto esistente al di là di ogni ragionevole dubbio
tanto più che, come riconosce la sentenza impugnata, anche il trattamento antipsicotico ritenuto
corretto non esclude il rischio di ricadute ma lo riduce di due terzi.
Infine, quanto all'efficienza causale della mancata adozione del t.s.o., il ricorrente sottolinea che
questa iniziativa sarebbe stata illegittima e avrebbe potuto essere giustificata solo con la
consumazione di un falso costituito dall'attestazione di un fatto non veritiero e cioè l'esistenza di un
rifiuto del paziente di assumere la terapia.
4) Le memorie delle parti e il motivo nuovo. Con memoria datata 16 ottobre 2007 e
successivamente depositata il difensore del ricorrente ha prodotto copia dei seguenti atti (contenuti
nel fascicolo processuale) dei quali il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella sua
decisione:
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- il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento
nelle comunità del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in
capo al dott. P.;
- il verbale di sommarie informazioni di D.D. e stralcio delle dichiarazioni rese dal dott. P. sul punto
del t.s.o..
Il difensore della parte civile ha replicato con memoria depositata presso questa Corte con la quale
si ribadisce la correttezza della soluzione adottata dal giudice d'appello ed in particolare, con
riferimento ai vari motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si afferma:
- che l'eccezione sul diniego di acquisizione della consulenza tecnica disposta nel giudizio civile si
fonderebbe sulla possibilità di ipotizzare un terzo genere di rito abbreviato diverso sia da quello
ordinario che da quello condizionato mentre, sull'esercizio dei poteri officiosi, il giudice di appello
avrebbe motivato logicamente e adeguatamente;
- che analogamente corretta deve ritenersi la decisione di non ammettere la produzione del parere
tecnico trattandosi di consulenza tecnica svolta da chi non era stato nominato consulente tecnico.
Con ulteriore memoria, datata 30 ottobre 2007, i difensori dell'imputato hanno richiamato
ulteriormente - a fondamento della tesi che la L. n. 180 del 1978 esclude una visione custodialistica
a tutela della sicurezza delle persone essendo finalizzata esclusivamente alla tutela del malato - una
sentenza del 1990 della seconda sezione di questa Corte e un testo di dottrina sul reato omissivo
improprio che, secondo la tesi esposta nella memoria, potrebbe avere per oggetto esclusivamente
l'oggetto immediato dell'obbligo e non anche gli obblighi riflessi o accessori.
Con la medesima memoria si propone poi un motivo nuovo di ricorso per l'omessa valutazione, da
parte della Corte di merito, delle risultanze del registro della comunità che dimostrerebbe che le
manifestazioni di aggressività all'interno della comunità erano gravi e frequenti (e quelle di M. non
erano le più significative) e che al personale non medico della struttura era attribuito l'intero
compito socioriabilitativo mentre il dott. P. aveva solo compiti di consulenza.
La mancata completa informazione sulle manifestazioni dei pazienti, ed in particolare del M., non
consentivano dunque di ritenere prevedibile l'evento e di addebitarlo causalmente al ricorrente.
5) Le questioni processuali. L'acquisizione della consulenza tecnica svolta nel giudizio civile e del
parere pro veritate. Come si è già accennato il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, si duole
della mancata acquisizione di una consulenza tecnica svolta in un giudizio civile instaurato tra le
odierne parti civili, la comunità (OMISSIS) e l'Ausl territoriale competente.
La Corte d'Appello di Bologna ha respinto la richiesta - con ordinanza ritualmente impugnata
unitamente alla sentenza - sia perchè l'acquisizione dell'atto sarebbe incompatibile con il rito
abbreviato sia perchè si tratterebbe di atto non necessario per la decisione; occorre quindi valutare
la correttezza di questa decisione.
Va premesso in generale, sulla disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel
giudizio di appello di cui all'art. 603 c.p.p., che, se le nuove prove sono sopravvenute o sono state
scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede secondo le regole ordinarie (comma 2)
; nel caso di prove nuove o di richiesta di riassunzione di prove già acquisite dispone la
rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (comma 1).
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Al di fuori di questi due casi il giudice può disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione
dibattimentale - anche nel caso in cui le parti siano rimaste inerti o siano decadute - solo se la ritiene
assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella contenuta nell'art. 507 c.p.p.,
comma 1, per il giudizio di primo grado).
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel ritenere che questa iniziativa diretta al
completamento del quadro probatorio -in particolare per quanto attiene all'assoluta necessità (da
ritenere evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di Gloria, rv. 233391) sia fondata su una valutazione attribuita in via esclusiva al giudice di merito e da ritenere
insindacabile nel giudizio di legittimità ove sia logicamente e adeguatamente motivata la
valutazione sulla possibilità di decidere allo stato degli atti (in questo senso v. Cass., sez. 4, 19
febbraio 2004 n. 18660, Montanari, rv. 228353; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo, rv.
226977; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, Raviolo, rv. 222977).
E' anche orientamento uniforme di legittimità che, solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte
dopo la sentenza di primo grado, la mancata assunzione possa costituire violazione dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. d). mentre, negli altri casi previsti dall'art. 603 c.p.p., il vizio deducibile è
quello attinente alla motivazione previsto dalla lett. e) del medesimo articolo (v. Cass., sez. 2, 11
novembre 2005 n. 44313, Picone, rv. 232772; sez. 5, 21 dicembre 2000 n. 6924, Delfino, rv.
218279).
Questa disciplina va vista, per quanto riguarda il giudizio di appello nel rito abbreviato, in relazione
alle peculiarità del rito speciale.
E' noto che sull'ammissibilità e sui limiti dell'integrazione probatoria nel giudizio abbreviato in
grado di appello si erano formati orientamenti diversi nella giurisprudenza di legittimità:
per l'ammissibilità dell'integrazione si erano espresse Cass., sez. 5, 20 ottobre 1996 n. 2628,
Camerano; sez. 6, 24 novembre 1993 n. 1944, De Carolis; in senso opposto sez. 1, 2 novembre
1995 n. 3661, Abategiovanni; 24 febbraio 1994 n. 5168, Pepe; sez. 6, 28 ottobre 1992 n. 2987,
Nappo; sez. 1, 24 marzo 1992 n. 5440, Vallerà.
Il contrasto è stato risolto dalla sentenza delle sezioni unite 13 dicembre 1995 n. 930, Clarke, che,
pur escludendo ogni potere di iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova, ha
affermato che il giudice può disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per
l'accertamento dei fatti che formano oggetto della sua decisione.
Il principio affermato dalle sezioni unite è da ritenere attuale anche dopo la riforma del giudizio
abbreviato intervenuta nel 1999.
E' vero che, con questa riforma, è stato superato il precedente principio dell'immutabilità del
materiale probatorio ed è stata quindi consentita la richiesta condizionata del rito speciale
subordinata all'ammissione delle prove richieste. Ma è rimasto fermo il principio che la richiesta del
rito speciale, pur condizionata, comporta rinunzia all'assunzione di prove diverse da quelle alle
quali è stata subordinata la richiesta. Con la conseguenza che la scelta del giudizio abbreviato
comporta l'accettazione di ogni elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da
inutilizzabilità patologica) per cui deve ritenersi insindacabile, secondo i criteri indicati dalla citata
sentenza delle sezioni unite, la valutazione del giudice d'appello che abbia motivatamente ritenuto
che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai fini della decisione.
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Non ignora la Corte che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass.,
sez. 4, 20 dicembre 2005, Coniglio, rv.
233956; sez. 3, 2 marzo 2004 n. 15296, Simek, rv. 228535; contra Cass., sez. 6, 26 giugno 2003 n.
37389, Crollo, rv. 226806; sez. 3, 13 febbraio 2003 n. 12853, Paccone, rv. 224865) la richiesta di
rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio abbreviato d'appello è consentita soltanto
all'imputato che abbia proposto la richiesta del rito speciale subordinandola all'integrazione
probatoria - mentre chi abbia richiesto l'abbreviato allo stato degli atti può limitari a sollecitare il
giudice all'esercizio dei poteri officiosi - ma, indipendentemente dalla soluzione sulla correttezza di
questo orientamento deve osservarsi che, nel caso in esame, la richiesta del rito abbreviato era stata
incondizionata nè può ritenersi, come ritiene il ricorrente, che l'integrazione probatoria disposta
d'ufficio dal giudice, valga a mutare la natura del giudizio in quella di abbreviato condizionato. Di
fatto l'imputato aveva infatti rinunziato all'integrazione probatoria e il provvedimento del giudice
non consente di ritenere mutata la natura del giudizio per quanto riguarda le condizioni cui il
medesimo è subordinato.
Il ricorrente fonda però la sua censura anche sulla circostanza che la prova di cui era stata chiesta
l'ammissione era una prova nuova sopravvenuta al giudizio di primo grado (la sentenza di primo
grado nel presente processo è stata pronunziata il 25 novembre 2006 mentre la consulenza tecnica
nel giudizio civile è stata depositata, secondo quanto riferisce il ricorrente, il 1 marzo 2006).
Orbene ritiene la Corte che, nel caso di prova sopravvenuta dopo la sentenza di primo grado
pronunziata nel giudizio abbreviato, la regola da applicare sia pur sempre quella di carattere
generale per l'ammissione delle prove nel giudizio abbreviato prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5;
cioè un potere di ammissione della prova da esercitarsi d'ufficio dal giudice quando ritenga di non
poter decidere allo stato degli atti e in relazione al quale la parte ha soltanto un potere sollecitatorio
(cfr. le già citate sentenze Carollo e Paccone).
Nel nostro caso il giudice di appello, con l'ordinanza impugnata - richiamando l'ampia discussione
avvenuta in primo grado e l'espletamento della perizia - ha, con motivazione incensurabile in questa
sede perchè logicamente motivata, escluso di non poter decidere il processo allo stato degli atti (cfr.,
per una soluzione analoga nel caso di giudizio abbreviato e di prova sopravvenuta, Cass., sez. 6, 18
dicembre 2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064; per l'estensione al giudizio abbreviato in appello
della regola prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5, v. inoltre Cass., sez. 5, 9 maggio 2006 n. 19388,
Biondo, rv. 234157).
Ma a non diversa conclusione dovrebbe pervenirsi ove volessero ritenersi integralmente applicabili
al giudizio abbreviato in appello le regole relative alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale
indicate nell'art. 603 c.p.p., già ricordato e, in particolare, la regola indicata nel comma 2. Il
richiamo all'art. 495 c.p.p., comma 1 - e dunque all'art. 190 c.p.p., comma 1, cui fa riferimento l'art.
495 c.p.p., comma 1 - non fa venir meno la correttezza della decisione perchè fondata su un
giudizio corrispondente a quello di manifesta superfluità della prova di cui era stata chiesta
l'ammissione.
Ad analoga soluzione deve pervenirsi in relazione al diniego di acquisizione del parere pro veritate.
Al di là della valutazione sul carattere di inammissibilità della nuova prova dedotta appare nella
sostanza corretta la decisione dei giudici d'appello. La possibilità per la parte di nominare consulenti
tecnici anche fuori dei casi di perizia (art. 233 c.p.p.) va infatti incontro alle medesime preclusioni
previste per le altre prove quando l'imputato abbia chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato,
condizionato o meno.
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In questo caso non si tratta poi di prova sopravvenuta e dunque - nell'ipotesi maggiormente
favorevole al ricorrente - i criteri di valutazione non possono che essere quelli previsti dall'art. 441
c.p.p., comma 5, in relazione ai quali la Corte di merito ha espresso un giudizio di completezza del
materiale probatorio nell'esame della censura precedentemente esaminata.
Va infine rilevato che la natura di consulenza tecnica del parere - che ne determina la preclusione
all'acquisizione - non può essere modificata con la semplice sottoscrizione dei difensori
evidentemente volta ad eludere il divieto di ulteriore integrazione del materiale probatorio.
6) Il concorso colposo nel delitto doloso. Malgrado il tema non sia stato sollevato con i motivi di
ricorso la sua rilevabilità d'ufficio (in quanto la risposta negativa sull'ammissibilità del concorso
colposo nel delitto doloso renderebbe immediatamente applicabile l'art. 129 c.p.p., comma 1) rende
necessario l'esame di questo aspetto della responsabilità sul quale esistono opinioni divergenti in
dottrina e in giurisprudenza.
In particolare non ignora la Corte che autorevoli orientamenti dottrinali si sono espressi
negativamente sulla possibilità che, nel nostro ordinamento, possa configurarsi una simile forma di
compartecipazione. I pilastri di questa posizione negativa sono sostanzialmente due: l'art. 42 c.p.,
comma 2 - che prevede la punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti dalla
legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel delitto doloso) - e l'art. 113 c.p., che
prevede la compartecipazione colposa solo nel caso di delitto colposo.
L'esame della giurisprudenza di legittimità consente di rilevare che la decisione più recente che
abbia affrontato il problema è orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso"
colposo nel reato doloso. Ci si riferisce a Cass., sez. 4, 9 ottobre 2002 n. 39680, Capecchi, rv.
223214, che si rifà a più risalenti precedenti (Cass., sez. 4, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv.
176499 e 4 novembre 1987 n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno ritenuto ammissibile il concorso
colposo in casi di incendio doloso sviluppatosi per la negligente sistemazione del materiale
infiammabile (lo stesso caso della sentenza Capecchi).
Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima sezione 4 (sentenza 11 ottobre
1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798), uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv.
187331) e uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv.
183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso colposo del notaio nel reato di
lottizzazione abusiva.
In realtà solo il primo precedente indicato può ritenersi contrario all'ammissibilità della forma di
partecipazione di cui stiamo parlando perchè il caso del concorso del notaio è caratterizzato dalla
circostanza che il reato di lottizzazione abusiva è ritenuto di natura dolosa; e come sarebbe possibile
configurare una partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa ? D'altro canto
l'orientamento espresso dalle sezioni unite si limita ad una mera enunciazione non motivata su
questo problema.
Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e accidentato al quale sarebbe
illusorio pretendere di dare risposte definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito
indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva.
Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in ricostruzioni teoriche, che la
premessa da cui questa Corte ritiene di dover partire è costituita dal riconosciuto superamento delle
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teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di natura concorsuale (ritenuto un
"dogma" da parte di un illustre Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilità del concorso colposo
nel delitto doloso). Le difficoltà di inquadramento teorico di queste forme di partecipazione
soggettiva eterogenea (i problemi si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto colposo)
si attenuano riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei casi in cui l'evento sia unico.
Esaminando le obiezioni alla tesi che ritiene ammissibile il concorso in precedenza indicate ritiene
invece la Corte che queste obiezioni (certamente serie) siano superabili. E' infatti proprio l'esame
congiunto delle due norme indicate (art. 42 c.p., comma 2 e art. 113 c.p.) che consente questa
risposta; la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo
perchè, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo
strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi
"in aggiunta" - rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l'aver previsto e voluto l'evento (sia
pure con la sola accettazione del suo verificarsi, nel caso di dolo eventuale). Insomma il dolo è
qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è stata riassunta nella
formula espressa da un illustre studioso della colpa che l'ha così sintetizzata: "non c'è dolo senza
colpa".
Se questa ricostruzione è plausibile la conseguenza è che non fosse necessario prevedere
espressamente l'applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso perchè se è prevista la
compartecipazione nell'ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell'ipotesi più ampia che la
prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura incrina
anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione dell'art. 42 c.p., comma 2: non si
tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha
disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse
anche il tema più generale.
E' poi da rilevare che la già ricordata sentenza Capecchi ha ritenuto superabile l'ostacolo della
previsione dell'art. 40 c.p., comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile:
questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal legislatore, non può che riguardare
esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa,
ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli artt. 110 e 113 c.p..
Fermo restando, come si è già accennato, che la partecipazione colposa può riguardare
esclusivamente un reato previsto anche nella forma colposa: diversamente sarebbe palesemente
violato il disposto dell'art. 42 c.p., comma 2.
A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci si trova in presenza di
concorso di cause colpose indipendenti ? Per natura e per definizione in questo caso non ci troviamo
in presenza di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono causalmente al verificarsi
dell'evento ma gli atteggiamenti soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della
consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella cooperazione colposa. In questi
casi la concezione che si fonda sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da
ritenersi errata perchè alcun legame esiste, sotto il profilo soggettivo, tra le varie condotte anche se
l'evento è unico.
Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti l'applicabilità delle regole sul concorso
di cause è espressamente prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., il cui comma 3, prevede
espressamente che questa disciplina si applichi anche quando la causa preesistente, simultanea o
sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui.
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Ma proprio perchè le condotte sono indipendenti le medesime andranno autonomamente valutate e
per ciascuna di esse andrà accertato se abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e
se la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti tipici della colpa. In questi casi,
proprio per l'indipendenza delle azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che
assume particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene irrilevante che uno o più dei
contributi causali possa avere carattere doloso perchè la disciplina sulla causalità contenuta nel
citato art. 41 c.p., riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non
esistono ostacoli insuperabili è agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di
cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso solo perchè l'agente è
consapevole dell'altrui condotta dolosa.
Il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della
condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla
compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non
quando questa consapevolezza esista ? Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che è
ammissibile il "concorso" colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti che
nel caso di cooperazione colposa e purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto
anche nella forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa.
Riconosciuta l'astratta ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso non è necessario
addentrarsi nell'ulteriore aspetto che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il
fatto "doloso" del terzo è stato compiuto da persona non imputabile.
Il riconoscimento della natura non dolosa della condotta della persona non imputabile sarebbe
infatti idoneo a rafforzare la possibilità di riconoscere la compartecipazione dell'estraneo.
Va però precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso
non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perchè, una volta
accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andrà verificata l'esistenza dei
presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.
Per la soluzione di questo complesso problema può intanto osservarsi che, nel caso in cui l'evento
dannoso si verifichi all'esito di una sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del
terzo è necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo dell'elemento soggettivo, se la regola
cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi, preposto
alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo all'assalitore di ledere l'integrità fisica della
persona protetta.
E' la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo di osservanza di determinate
regole cautelari la cui violazione integra la colpa.
Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia analoghi obblighi di tutela possono
discendere dall'esistenza di un potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni,
esplosivi; per es. il farmacista non può vendere un farmaco potenzialmente letale alla persona che sa
aver già tentato di avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non può lasciarla incustodita in un
luogo frequentato da bambini. I casi già indicati relativi alla creazione dei presupposti perchè si
sviluppi un incendio doloso si inquadra in questa categoria del controllo delle fonti di pericolo.
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Un utile strumento di verifica può poi essere quello che si rifà allo scopo della regola cautelare
violata dall'agente in colpa. Se la regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi dall'aggressione
dolosa dei loro beni è la tutela finalizzata di essi che rende configurabile la partecipazione
dell'agente in colpa.
I casi più complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola è stata predisposta non tanto per altri
fini ma in vista di decorsi causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che non sia
stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore di lavoro anche delle conseguenze di una
caduta (che non si sarebbe verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente cagionata
da un terzo ? E' ragionevole ritenere, in questi casi, che ciò che rileva è l'individuazione dell'evento
dannoso che la regola cautelare mira ad evitare : anche se questa regola è stata pensata in relazione
a percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole evitare è quello di caduta
indipendentemente dalle cause che l'hanno provocata. E così in tutte quelle situazioni nelle quali
l'evento volontariamente cagionato è della stessa natura di quello preso in considerazione nella
formazione della regola cautelare.
Diverso è ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca l'occasione perchè il terzo compia
l'atto doloso. In questo caso si torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilità
colposa del primo agente occorrerà che questi sia titolare di una posizione di garanzia o di un
obbligo di tutela o di protezione e che sia prevedibile l'atto doloso del terzo.
Il nostro caso può dunque essere risolto solo dopo che si accerti l'esistenza di una posizione di
garanzia del dott. P. in favore del paziente e l'ambito di questa posizione (se sia cioè prevista non
tanto per la tutela dei terzi quanto per evitare l'aggressione da parte del paziente anche ai beni di
terzi) oltre che della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso. Queste risposte potranno
quindi essere date solo dopo l'esame dei motivi di ricorso.
L'intreccio che presenta questo processo tra i temi della causalità e quelli della colpa rende
necessaria una trattazione dei medesimi per così dire "asimmetrica". Fermo restando che non è in
discussione la causalità "materiale" dell'evento e che all'imputato sono state contestate condotte
colpose omissive e commissive sembra opportuno procedere preliminarmente alla verifica
dell'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P. al fine di verificare se su di lui
incombesse l'obbligo giuridico di impedire l'evento. Successivamente, essendo in discussione la c.d.
"causalità della condotta" e la ed, "causalità della colpa", si procederà alla verifica della correttezza
logico giuridica della motivazione della sentenza impugnata sull'esistenza di una condotta
causalmente efficiente dell'imputato sul verificarsi dell'evento e sull'esistenza della violazione, da
parte sua, di regole cautelari che abbia avuto analoga efficacia su queste conseguenze della condotta
inosservante.
7) L'esistenza della posizione di garanzia. Si è già accennato che, all'interno del quarto motivo
dedicato ai temi della colpa il ricorrente contesta l'esistenza di una posizione di garanzia a lui
riferibile. Secondo il motivo di ricorso, infatti, sarebbe erronea l'affermazione, contenuta nella
sentenza impugnata, sull'irrilevanza del titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di
garanzia dell'imputato perchè il paziente risultava affidato ad una struttura dotata di operatori e
medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un
diverso medico psichiatra con l'incarico di consulente e il dott. P. aveva il solo compito, all'interno
del gruppo di lavoro di cui faceva parte, di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le
strutture territoriali.
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A conferma della sua tesi il ricorrente, con la memoria 16 ottobre 2007, ha prodotto il documento
della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità
del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P..
All'esame di queste censure vanno premesse alcune considerazioni.
Com'è noto l'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso dell'art. 40 c.p., secondo cui
non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa
riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento.
Il fondamento di questa disposizione è da ricercare nei principi solidaristici che impongono (oggi
anche in base alle norme contenute negli artt. 2 e 32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2) una tutela
rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli
adeguatamente - con l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di "garanti" della
salvaguardia dell'integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona; a questa
qualità, naturalmente, devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell'evento.
Diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe l'esigibilità della condotta (la madre risponde
di non aver nutrito l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non sapeva
nuotare).
Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di garanzia v'è contrasto tra le teorie che
ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla
di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri
sostanzialistici (ma esistono anche teorie c.d. "miste").
La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'art. 40 c.p., (che parla infatti di obbligo
"giuridico"), individua, quali fonti dell'obbligo in questione, la legge e il contratto (e su queste fonti
sostanzialmente non esistono divergenze; l'unica difformità di orientamento riguarda forse il caso
del contratto cui non partecipi il titolare del ben protetto) nonchè la precedente condotta illecita o
pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono
divergenti anche perchè, più in generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente
connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie).
Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principi di tassatività e
determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia determinata
soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri
esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei
necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba
essere direttamente fornito il garante purchè gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (anche
giudizialmente) che l'evento dannoso venga cagionato (per es. i poteri dei sindaci delle società su
cui peraltro esiste dissenso in dottrina).
La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la posizione di garanzia può avere una
fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non
scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria
determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il
corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire
l'evento (cfr.
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Cass., sez. 4, 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco; 21 maggio 1998
n. 8217, Fornari; 5 novembre 1983 n. 9176, Bruno).
Passando ad esaminare più specificamente il tema della responsabilità medica va osservato che una
posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l'instaurazione della relazione
terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa relazione si può instaurare su base contrattuale come avviene nel caso di paziente che si affidi al medico di fiducia - ma anche in base alla
normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in
strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge
un obbligo giuridico di impedire l'evento. E' invece stato escluso in dottrina che sorga una posizione
di garanzia "in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel
quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità o convivenza, ma al di fuori di uno
specifico conferimento di incarico professionale".
Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in contraddizione con una
causazione attiva dell'evento da parte del garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri
impeditivi che è obbligato ad esercitare (il medico che somministra erroneamente un medicinale al
quale il paziente a lui affidato è allergico - causalità attiva - è tenuto ai necessari interventi per
escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione).
V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due
categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione.
La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il
bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui
genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri
beni (per es., per i genitori, l'integrità sessuale dei minori).
Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione
può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale
(per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia
unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).
La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare
le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti
i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 c.c., - il
dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul
lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc..
Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all'esistenza di un "potere di
organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel
caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche
cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica
incolumità.
Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al dott. P. fosse
attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute psichica del paziente M..
Diversamente non si comprendono le ragioni per cui siano stati a lui attribuiti il trattamento del caso
di M. sotto il profilo psichiatrico, l'adeguamento e la modifica della terapia farmacologia, i colloqui
terapeutici con il paziente, la richiesta di intervento quando si manifestarono i sintomi di
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scompenso. Quale che fosse l'incarico formalmente attribuito al dott. P. all'interno della comunità
(OMISSIS) egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare la salute psichica del paziente ed ha
accettato di svolgere questo incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale che
la struttura (pubblica o privata che sia) gli ha conferito l'incarico e in un vincolo normativo
conseguente all'instaurazione di una relazione terapeutica con il paziente.
Non può dunque negarsi che il dott. P. fosse gravato di una posizione di garanzia in favore del
paziente M. sotto il profilo dell'instaurazione di un obbligo di protezione. Ciò che, del resto, è
ammesso nel ricorso nel quale (a p. 23) si ammette che in base all'organizzazione descritta il medico
psichiatra (il dott. P.) "era incaricato prevalentemente della gestione della terapia
psicofarmacologica dei casi"; e ciò vale ad istituire la posizione di garanzia indipendentemente dalla
circostanza, pure sottolineata nel ricorso, che gli aspetti sociali, relazionali, riabilitativi e
comunicativi erano appannaggio degli operatori non medici e non sanitari". 8) La cura del paziente
psichiatrico e il trattamento sanitario obbligatorio. Se dunque i giudici di merito hanno logicamente
accertato l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P., finalizzata alla protezione della
salute psichica del paziente M., va ora verificato se sia corretta la motivazione la motivazione della
sentenza impugnata in relazione ad una delle ipotesi di colpa contestate all'imputato: quella, di
natura omissiva, concernente la mancata richiesta del trattamento sanitario obbligatorio. Su questo
punto va preliminarmente osservato che la più parte delle considerazioni svolte nel ricorso è da
ritenere largamente condivisibile.
In particolare sono condivisibili le osservazioni che si riferiscono al grande valore innovativo della
L. 13 maggio 1978, n. 180 (accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) nel
trattamento delle "malattie mentali" (così la legge definisce le malattie di origine psichica).
A fronte di una disciplina previgente che prendeva in considerazione essenzialmente l'aspetto
custodiale per la tutela dei terzi da atti aggressivi (ma anche per una sorta di "discredito"
socialmente diffuso nei confronti del malato psichico da cui si sentivano colpite anche le famiglie
dei pazienti) la L. n. 180 del 1978, ha finalmente conferito a questa categoria di pazienti la stessa
dignità che hanno le persone affette da altre patologie e ha limitato il contenimento personale ai soli
casi di necessità in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della
malattia.
Queste finalità non potevano dunque che essere perseguite abolendo lo strumento principale
espressione della visione pressochè esclusivamente custodiale (il manicomio) per cercare di inserire
il malato in un ambiente sociale e familiare più adeguato alla tutela della sua persona con un
trattamento terapeutico che si è frequentemente dimostrato ben più efficace per il miglioramento
delle condizioni di salute. Uno degli strumenti di questa lodevolissima opera di reinserimento
sociale, che ha raggiunto in generale risultati molto apprezzabili, è proprio quello dell'inserimento
in comunità terapeutiche come quella in cui si è verificato il tragico episodio nella quale - come
risulta dalle sentenze di merito - anche M. sembrava avere raggiunto un accettabile equilibrio,
disponeva di spazi di autonomia (usciva regolarmente, utilizzava disponibilità di spesa ecc.).
Naturalmente il legislatore del 1978 non è stato così ingenuo da ritenere che bastasse abolire i
manicomi per eliminare la malattia mentale (visione che ancor oggi una lettura un po' caricaturale
della L. n. 180 del 1978, tende ad accreditare) e ha previsto la possibilità che nei confronti del
malato psichico potessero essere disposti accertamenti e trattamenti sanitari "obbligatori" ma nel
rispetto "della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione, compreso
per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura" (art. 1, comma 2).
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Per venire al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di cui si discute
nel presente processo si rileva che il medesimo può essere disposto "nei confronti delle persone
affette da malattie mentali (art. 2, comma 1) in presenza di questi presupposti: 1) che esistano
"alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici"; 2) che "gli stessi non
vengano accettati dall'infermo"; 3) che non sia possibile "adottare tempestive ed idonee misure
sanitarie extra ospedaliere".
Vano sarebbe però trovare nella L. n. 180 del 1978, una norma che confermi la tesi del ricorrente
secondo cui la tutela sanitaria obbligatoria prevista dal ricordato art. 2, sarebbe preordinata
esclusivamente alla tutela del malato e non anche dei terzi. E' vero che lo scopo primario delle cure
psichiatriche è quello di eliminare o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la
situazione di questi sia idonea a degenerare - anche con atti di auto o etero aggressività - il
trattamento obbligatorio presso strutture ospedaliere è diretto ad evitare tutte le conseguenze
negative che la sofferenza psichica cagiona.
E' del resto illusorio separare le conseguenze personali (che sole giustificherebbero il trattamento
secondo il ricorrente) da quelle verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressività non reca
danno solo al terzo aggredito ma anche all'aggressore. Emblematico è il caso che stiamo trattando: a
M. (vittima anche lui del suo disturbo psichico) nel processo conseguente all'uccisione
dell'operatore è stata applicata, a seguito del proscioglimento per mancanza di imputabilità, la
misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; e in questa struttura
contenitiva M., qualche anno dopo, è deceduto. Anche nei confronti di se stesso il suo gesto
omicida ha quindi avuto conseguenze personali gravissime.
Insomma il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia
si manifesti con atteggiamenti di aggressività verso terzi non diversamente contenibili. Del resto
non si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi
terapeutici se non le manifestazioni di aggressività nei confronti di se stessi o di terzi. Se non
esistono queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza psichica, è ben difficile
ipotizzare situazioni nelle quali sia necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliere.
Ciò premesso si osserva peraltro che il motivo di ricorso che stiamo esaminando è da ritenere
fondato sotto un diverso profilo. Abbiamo visto che uno dei tre presupposti perchè possa essere
disposto il trattamento sanitario obbligatorio è costituito dal rifiuto (mancata accettazione) delle
cure da parte del paziente. Ebbene, nel caso in esame questo requisito - in base alla ricostruzione
incensurabile dei fatti operata dai giudici di merito - non può ritenersi pienamente realizzato.
E' vero che tutto l'ultimo periodo della tragica vita di M. è stato costellato da continui atteggiamenti
di rifiuto delle terapie e da ripensamenti e assunzioni delle medesime ma è pur vero che, quanto
meno fino al 22 maggio 2000, il paziente risulta aver assunto la terapia sia pure accompagnando la
sua condotta con minacce di morte all'operatrice, rifiutando che gli venisse somministrata da altri
medici ma, alla fine, accettando la somministrazione da parte del suo medico personale.
Da tale ricostruzione operata dai giudici di merito non appare dunque realizzato il requisito della
mancata accettazione delle terapie da parte del paziente che avrebbe giustificato la richiesta di t.s.o.
e quindi questo elemento di colpa di natura omissiva non può essere addebitato all'imputato. Nè
questo ostacolo può essere superato, come ha fatto il giudice di primo grado, con il rilievo che
esisteva il forte dubbio che M. assumesse la terapia orale essendo, questa circostanza, comunque
rimasta a livello di congettura perchè indimostrata.
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9) Gli elementi di colpa consistenti nella riduzione e sospensione della terapia. Sono invece
infondate le censure che si riferiscono agli altri elementi di colpa ravvisati dai giudici di merito
nella condotta del dott. P.; condotta da sola sufficiente a fondare l'affermazione di responsabilità
perchè ad essa è causalmente ricollegabile l'evento verificatosi.
In sintesi l'elemento fondamentale di violazione delle leggi dell'arte medica psichiatrica è costituito
dalla drastica riduzione (alla metà) e, successivamente, dalla eliminazione della terapia
farmacologia in precedenza assunta da M.. Dalla sentenza impugnata emerge che il dott. P. prese in
carico il paziente negli ultimi mesi del 1999 (la data precisa non è stata accertata) e il primo
intervento documentato è del 1 ottobre 1999. Dopo alcuni mesi - il 16 marzo 2000 - il dott. P.
riduceva della metà il farmaco neurolettico (Moditen) di tipo "depot" (ad assorbimento graduale del
principio attivo, la flufenazina); avendo ritenuto che la riduzione non avesse avuto effetti negativi
l'imputato decideva quindi, il 24 aprile 2000, di sospendere la somministrazione del farmaco.
E' da sottolineare che la sentenza impugnata descrive vari episodi di scompenso psicotico
verificatisi dall'ottobre 1999 fino alla data di sospensione del trattamento farmacologico per cui
esente da alcuna illogicità deve ritenersi la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto
incongrua la scelta terapeutica del dott. P. peraltro sconsigliata dai precedenti medici che avevano
seguito il paziente proprio per l'elevato rischio di scompenso che la riduzione o sospensione
avrebbe comportato.
Ancor più grave è stata ritenuta la scelta di sospendere il trattamento il 24 aprile anche perchè due
degli episodi di scompenso ( M. aveva denunziato per due volte la sparizione dei suoi soldi in
banca) erano avvenuti dopo la riduzione e prima della sospensione della somministrazione del
farmaco (il 3 e l'11 aprile) e la Corte di merito riferisce che gli episodi erano stati portati a
conoscenza dell'imputato.
Dopo la sospensione del trattamento le condizioni del paziente peggioravano e, dopo vari episodi
significativi dello scompenso in atto, il dott. P. era costretto a ripristinare la terapia con la
somministrazione del farmaco neurolettico nella posologia originaria (peraltro con efficacia
immediata assai ridotta per le modalità di rilascio del principio attivo), introducendo anche un altro
farmaco ad efficacia più immediata, da assumere per via orale, nella specie risultato privo di
efficacia.
Il primo problema che si pone è quello di valutare l'adeguatezza della motivazione con cui i giudici
di merito hanno ritenuto imperita e imprudente (oltre che negligente per l'inadempimento degli
obblighi conoscitivi, come si dirà più avanti) la scelta dell'imputato di operare prima una riduzione
così drastica e successivamente l'eliminazione della terapia farmacologia in un paziente affetto da
una grave forma di "schizofrenia paranoide cronica in fase di parziale remissione" (è la diagnosi
postuma formulata dai consulenti tecnici dell'imputato).
A questo fine va premesso che non è (ovviamente) in discussione la libertà delle scelte terapeutiche
del medico che - in ciò appare corretto quanto si afferma nel ricorso - deve indirizzarle anzitutto al
miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli effetti collaterali della
somministrazione dei farmaci (nel caso di specie particolarmente pesanti in termini di sedazione e
di effetti parkinsoniani); ma questa condivisibile finalità deve essere perseguita con la gradualità e
l'attenzione richieste in relazione alla gravità della situazione patologica del paziente. E tenendo
conto che la richiesta del paziente può essere ricollegata, come nel caso di specie (così riferiscono le
sentenze di merito), ad un mancato riconoscimento della malattia da parte sua.
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E' quindi del tutto logico il percorso motivazionale dei giudici di merito che hanno ricostruito
(soprattutto la sentenza di primo grado) gli episodi della patologia di M. la cui prima manifestazione
di malattia risale addirittura al 1963 e la cui storia di sofferenza psichica comprende vari e lunghi
ricoveri in ospedale psichiatrico giudiziario e in ospedali psichiatrici con numerosissimi episodi di
delirio nonchè continue e gravi manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi, di intolleranza e
di episodi a sfondo persecutorio.
Legittima poteva quindi essere ritenuta la scelta di una progressiva riduzione della terapia
farmacologia ma altrettanto logica la valutazione dei giudici di merito i quali hanno motivatamente
condiviso il giudizio dei periti di ufficio i quali hanno sostenuto che, in un paziente affetto da una
patologia di così elevata gravità (che si caratterizza altresì, rispetto ad altre patologie di natura
psichica, per la maggior frequenza di episodi di aggressività) , non cosciente della sua patologia e
quindi con un atteggiamento di limitata accettazione (se non rifiuto) della terapia e con una forte
carica aggressiva la scelta della riduzione e soprattutto quella della eliminazione dei farmaci
neurolettici avrebbe potuto essere adottata in un paziente in remissione da almeno cinque anni.
Già di questa remissione era assai dubbia l'esistenza anche perchè, riferiscono i giudici di merito,
inspiegabilmente dall'epoca del ricovero del paziente nella comunità (OMISSIS) (avvenuto nel
(OMISSIS)) e fino al 1999 - non risulta alcuna annotazione nella cartella clinica di M.. E comunque
i periti d'ufficio hanno al contrario affermato che la situazione clinica di M., al momento della
modifica della terapia, non era quella di un soggetto in "remissione" sintomatologia ma, al
contrario, era da tempo un paziente sull'orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di
scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività nonchè di sintomi "positivi"".
Ma, anche ammesso che si fosse realizzata una certa stabilizzazione e che la patologia fosse
attualmente in fase di parziale remissione, la sentenza impugnata richiama, condividendola, la
valutazione dei periti i quali hanno ritenuto che - anche in presenza di una remissione duratura delle
manifestazioni più eclatanti della malattia - la modificazione della terapia avrebbe dovuto essere
attuata con una ben diversa gradualità. Tanto più che un significativo miglioramento delle
condizioni psichiche di M. era iniziato nel 1984 proprio quando era iniziata la terapia con la
somministrazione del farmaco Moditen depot.
In particolare, secondo il parere dei periti condiviso da entrambi i giudici di merito e fondato su
autorevoli studi svolti anche a livello internazionale (nella sentenza di primo grado vengono
riportate le linee guida dell'American Psychiatric Association che si esprimono in questo senso), la
riduzione del farmaco neurolettico non si deve effettuare per percentuali superiore al venti per cento
ogni volta e gli intervalli tra queste progressive riduzioni dovrebbero durare tra i tre e i sei mesi.
Regole di cautela macroscopicamente violate dal dott. P. che ha ridotto già inizialmente la terapia
della metà e l'ha poi sospesa integralmente dopo poco più di un mese senza quindi verificare gli
effetti per un periodo di tempo adeguato (anche in considerazione delle caratteristiche del farmaco a
lento rilascio che richiederebbe un periodo di osservazione particolarmente prolungato per
verificare gli effetti quando il farmaco ha ridotto i suoi effetti) e senza intensificare le visite come
richiesto dalle linee guida cui si è già accennato.
In conclusione, sull'esistenza della colpa costituita dalla grossolana violazione delle regole dell'arte
medica psichiatrica, la motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi adeguata ed esente da
vizi logici e giuridici e si sottrae conseguentemente alle censure del ricorrente.
9) La prevedibilità dell'evento. Strettamente collegato all'accertamento dell'esistenza dell'elemento
soggettivo del reato è l'argomento, proposto con il quarto motivo di ricorso, che riguarda la
prevedibilità dell'evento poi concretamente verificatosi. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata
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non avrebbe accertato la prevedibilità in concreto ma l'avrebbe ricollegata alla sola esistenza della
malattia psichica senza neppure tener conto della circostanza che questa malattia era in remissione
da oltre quindici anni.
Sul tema della prevedibilità dell'evento occorre fare qualche considerazione preliminare. La
prevedibilità dell'evento, riguardando l'elemento soggettivo e la sua esistenza, va accertata con
criteri ex ante (a differenza della causalità) e si fonda sul principio che non possa essere addebitato
all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe
dovuto avere, non poteva prevedere.
Sotto quest'ultimo profilo la prevedibilità dell'evento è certamente riferibile all'elemento soggettivo,
la colpa, perchè attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente psicologico)
che è tenuto a prendere in considerazione le conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da
questo angolo visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze
della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua
condizione.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di
responsabilità oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato
dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele, sembra evidente che il risultato non possa
essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perchè l'agente possa essere ritenuto
colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario che
non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista perchè non era prevedibile non v'è
responsabilità per colpa.
Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono
in dottrina, il dovere di riconoscere) ? Senza richiamare i termini del dibattito teorico che tende ad
escludere la natura esclusivamente psicologica della colpa per ricollegarla al mero elemento
oggettivo della violazione delle regole cautelari (natura normativa della colpa) - è necessario evitare
di adottare un criterio che faccia riferimento all'agente concreto per evitare di ricadere negli
orientamenti che riferiscono la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza
seguono comunemente il criterio della prevedibilità da parte dell'homo ejusdem professionis et
condicionis non diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per accertare il
rispetto delle regole cautelari.
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell'obbligo di diligenza altrimenti
astratto. Si è affermato che "basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del
dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle
note di concretezza a quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua
astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile
l'agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il
prodursi del fatto dannoso.
Alcuni Autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità, di "rappresentabilità" precisando
che "questo termine possiede una maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto
ad accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura antecedenti all'azione del
soggetto". Altri ancora parlano di "riconoscibilità" così esprimendosi: "la tipicità colposa risulta
configurabile allorchè la situazione concreta sia stata caratterizzata dalla presenza di elementi,
giuridici e fattuali.......che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche e conoscenze empiriche
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utilizzate dal giudice ai fini dell'imputazione dell'evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la
concreta realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato colposo").
La dottrina (e, in minor misura, la giurisprudenza che ha dedicato una minore attenzione a questi
temi) è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa
prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all'agente concreto, ha
caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.
Orbene nel nostro caso è sufficiente ripercorrere la storia clinica del paziente per trovare conferma
della correttezza della valutazione sulla circostanza che lo sfondo delirante e persecutorio che
caratterizzava la patologia di M. rendeva del tutto prevedibili manifestazioni eteroaggressive tanto
più in quanto, prima del fatto che ha dato origine al presente processo, numerose altre e in varie
epoche se ne erano verificate.
Anche perchè, dal momento in cui il ricorrente ha preso in carico il paziente e fino al momento
della riduzione della posologia del neurolettico sono almeno tre gli episodi sintomatici di una
situazione di possibile scompenso (tra questi uno in cui M., dopo un diverbio con un altro paziente,
tentò di nascondere un coltello temendo di essere aggredito). E si è già accennato ai due episodi di
natura delirante (la denunzia della sparizione dei soldi in banca) verificatisi tra la riduzione e la
sospensione della terapia neurolettica.
Se dunque è stato accertato nel giudizio di merito che la patologia da cui era affetto M. era idonea,
se incongruamente trattata - ed in particolare con una diminuzione e sospensione del trattamento
farmacologico in atto senza la gradualità richiesta - ad esasperare le manifestazioni di aggressività
nei confronti di terzi ne consegue che la prevedibilità dell'evento sia stata logicamente affermata
(seppur implicitamente dai giudici di appello i quali hanno peraltro richiamato la sentenza di primo
grado che ne tratta adeguatamente e qualifica come addirittura "imminente" la reazione violenta).
10) Il principio di affidamento e l'obbligo informativo del medico.
All'interno del quarto motivo il ricorrente propone poi una censura che si riferisce all'addebito dei
giudici di merito che hanno affermato l'obbligo per il medico psichiatra di documentarsi
adeguatamente prima di modificare il trattamento farmacologico facendosi esibire il diario tenuto
dagli operatori nonchè, dopo la modifica della terapia, di pretendere di essere informato di
qualunque evenienza negativa.
Il ricorrente afferma invece che questa concezione risponde ad una concezione gerarchica del
rapporto tra consulente e struttura e ad una logica custodialistica del trattamento della malattia
psichica non più ipotizzabile dopo la riforma del 1978. E proprio la struttura complessa della
comunità e la presenza di operatori attrezzati professionalmente non poteva che indurre il medico
psichiatra a fare affidamento sulla corretta condotta di coloro che operavano all'interno della
struttura.
In merito al richiamato principio di affidamento può intanto osservarsi che, in linea di massima,
ciascuno risponde per le conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, e nell'ambito
delle proprie conoscenze e specializzazioni; non risponde invece dell'eventuale violazione delle
regole cautelari da parte di altri partecipi della medesima attività o che agiscano nello stesso ambito
di attività (a meno che non gli sia attribuita una funzione di controllo dell'opera altrui); sul rispetto
delle regole da parte di queste persone l'agente deve poter confidare ("principio di affidamento") .
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Sono da ritenere superate quelle posizioni che tendevano a far ritenere prevedibili le altrui
inosservanze delle regole cautelari;
oggi prevalgono le opinioni dirette a ritenere prevedibili le violazioni solo nei casi in cui esistano
elementi sintomatici dell'esistenza o della probabile violazione della regola cautelare da parte del
terzo.
Solo se l'agente viene a conoscenza della violazione delle regole da parte di altri partecipi nella
medesima attività (per es. un'operazione chirurgica svolta in equipe) - o comunque si trova in una
situazione in cui diviene prevedibile l'altrui inosservanza della regola cautelare (che deve avere
caratteristiche di riconoscibilità) - ha l'obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Come è stato
affermato "le violazioni della diligenza altrui non sono oggetto del dovere di rappresentazione
gravante sul soggetto, purchè la situazione concreta non desse "occasione" per sospettare del
contrario".
Il principio di affidamento ha trovato una particolare elaborazione nell'ambito della circolazione
stradale nella quale ogni conducente può, e deve, fare affidamento sul rispetto delle regole da parte
degli altri conducenti; non esiste infatti un obbligo di prevedere le altrui imprudenze. Solo quando
percepisca (o divenga percepibile) la mancata osservanza delle regole da parte del terzo il
conducente ha l'obbligo a sua volta di porre in essere manovre di emergenza per evitare danni (per
es. chi si accorge per tempo che un veicolo marcia contro mano ha l'obbligo di fermarsi; il titolare
del diritto di precedenza ha l'obbligo di eseguire le manovre idonee ad evitare incidenti se
percepisce tempestivamente che altro conducente sfavorito non gli concede la precedenza).
Di maggior complessità è la soluzione di questi problemi nel caso di obblighi "divisi", cioè nei casi
nei quali una medesima attività è svolta in equipe da più soggetti. E' evidente che il concetto di
affidamento assume carattere diverso a seconda del tipo di attività svolta, delle specializzazioni,
competenze e capacità degli altri partecipi, delle modalità e difficoltà dell'attività intrapresa.
I componenti di una equipe chirurgica avranno un ben diverso livello di affidamento rispetto agli
automobilisti che si trovino a percorrere la medesima strada. Così ben diversa considerazione dovrà
avere l'eventuale condotta colposa da parte del capo equipe rispetto a quella dei chirurghi che si
trovino in posizione subordinata e l'attività dei partecipi ad un intervento chirurgico rispetto
all'attività degli specialisti (problema che si pone analogamente nel trattamento medico di patologie
che richiedono l'intervento di più specialisti). Ma non diverso sarà il criterio cui dovrà ispirarsi il
componente dell'equipe chirurgica che dovrà attivarsi nel caso in cui concretamente appaia, o sia
prevedibile, il comportamento scorretto, o comunque inosservante, di altro titolare dell'obbligo
diviso tanto più se rivesta una posizione di sovraordinazione gerarchica.
La semplice enunciazione dei principi che governano il principio di affidamento mostra come, nel
caso in esame, ci si trovi al di fuori di questa problematica relativa al principio di affidamento che
sarebbe invocabile solo se gli operatori della comunità (OMISSIS) avessero tenuto nascosti
all'imputato gli episodi di scompenso, o comunque significativi dell'aggravamento della patologia,
verificatisi.
Non solo questo "occultamento" delle informazioni non è stato accertato dai giudici di merito ma va
invece riaffermato il principio che il medico ha l'obbligo di assumere (dal paziente o, se ciò non è
possibile, da altre fonti informative affidabili) tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la
correttezza del trattamento medico chirurgico praticato al paziente. Obbligo che diviene ancor più
pregnante nel caso di una iniziativa terapeutica così delicata come la modifica del trattamento
farmacologico di un malato psichico grave che richiede necessariamente una conoscenza delle fasi
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pregresse della malattia che il medico (soprattutto perchè da poco tempo incaricato di seguire il
paziente) ha l'obbligo di acquisire; tanto più nei casi di malattie nei quali si verifica una scarsa o
nulla collaborazione del paziente.
Nel nostro caso i giudici di merito hanno invece accertato che il dott. P. aveva omesso
completamente di acquisire le conoscenze disponibili sul percorso patologico del paziente e di
sollecitare l'acquisizione delle informazioni necessarie (tra l'altro l'anamnesi pregressa competeva
proprio al dott. P. per cui è incongruo parlare di principio di affidamento). Questa mancata
acquisizione delle informazioni è stata peraltro ammessa dal medesimo imputato che ha dichiarato
che ignorava addirittura che il paziente fosse stato in passato ricoverato in ospedale psichiatrico
giudiziario.
A maggior ragione, dopo la modifica del trattamento, proprio per i rilevanti effetti negativi che tale
modifica era idonea a provocare, costituiva un obbligo del medico informarsi in modo continuativo
sull'evoluzione della malattia per verificare l'esistenza di questi effetti in conseguenza della
modificazione del trattamento. Certo, anche gli operatori della comunità avevano l'obbligo di
segnalare le manifestazioni anomale del paziente ma ciò non fa venir meno l'obbligo informativo
che grava primariamente sul medico.
Si aggiunga che, nel giudizio di merito (v. sentenza di 1 grado a p. 27 e 32), è stato accertato che il
dott. P. non provvedeva, nei rari incontri con gli operatori, all'acquisizione delle informazioni e
delle notizie utili per la valutazione dello stato della malattia nè risulta aver sollecitato le periodiche
verifiche che l'equipe avrebbe dovuto effettuare; e risulta anzi che le visite del dott. P. nei confronti
del M. sono sempre state "oltre che contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e
superficialità". Nè questa diligenza risulta essere aumentata nel periodo più delicato, quello
successivo alla diminuzione della posologia.
Insomma è da ritenere del tutto adeguata, con riferimento ai fatti incensurabilmente accertati nel
corso del giudizio di merito, la conclusione tratta dai giudici dall'esame di questa tragica vicenda
che non è quella, sostenuta nel ricorso, di una "concezione gerarchica del rapporto fra consulente e
struttura cui era affidato il paziente" ma di un rapporto terapeutico instaurato e condotto in modo
gravemente negligente (oltre che imperito e imprudente nella affrettata diminuzione e sospensione
della terapia) in particolare per la mancata assunzione di tutte le informazioni necessarie per trattare
il caso secondo le regole dell'arte medica psichiatrica anche se riduttivamente vista in un'ottica di
protezione esclusiva del paziente.
E' ovvio che se gli operatori della struttura - peraltro separatamente giudicati - hanno omesso di
trasmettere al medico psichiatra informazioni utili e necessarie per il trattamento della patologia
potranno rispondere per aver posto in essere concause dell'evento. Ma ciò potrebbe valere, al più, a
far ritenere che la condotta dell'imputato ha avuto efficacia concausale e non esclusiva sul
verificarsi dell'evento (che certamente - ma neppure il ricorrente lo sostiene - non è ricollegabile ad
una causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento).
11) Il rapporto di causalità. La descrizione dell'intero meccanismo causale. E' adesso possibile
riprendere il discorso sull'efficienza causale della condotta colposa dell'imputato sul verificarsi
dell'evento (c.d. "causalità della colpa"). E' evidente che la censura relativa all'esistenza della
posizione di garanzia in capo al dott. P. in precedenza esaminata ha un significato determinante in
relazione all'elemento di colpa riferito all'omessa richiesta di trattamento sanitario obbligatorio
configurabile come una condotta omissiva peraltro escluso come si è detto in precedenza.
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Ma il ricorrente imposta in termini di causalità omissiva anche il problema dell'efficienza causale
del mutamento della terapia farmacologia e deduce, nel quinto motivo di ricorso, la violazione
dell'art. 40 c.p., e il vizio di motivazione perchè la sentenza impugnata, in contrasto con i principi
affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a
fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale
in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento.
In merito a queste censure va preliminarmente esaminata la doglianza che si riferisce alla mancata
individuazione dell'intero e complesso meccanismo causale che ha condotto all'evento inseritosi
nella tragica vicenda dell'accoltellamento dell'operatore (in particolare difetterebbe, nel caso in
esame, secondo il ricorrente, l'accertamento che riguarda la concentrazione del principio attivo del
farmaco antipsicotico nel periodo immediatamente precedente il tragico fatto) perchè, da parte di
alcuni autori e in alcune decisioni, anche di legittimità, si afferma che, in questo caso, non potrebbe
ritenersi accertato il rapporto di causalità.
Si osserva, in contrario, che a questo dubbio aveva già dato una precisa risposta la giurisprudenza di
legittimità che, già con la sentenza Cass., sez. 4, 6 dicembre 1990, Bonetti e altri, aveva affrontato il
problema in questi termini confermando il ragionamento della Corte d'appello: "Come si vede, il
discorso della Corte è di esemplare linearità: è impossibile che il giudice, nell'accertare il rapporto
causale, venga a capo di tutti, conosca tutti i passaggi causali, tutte le fasi intermedie attraverso le
quali la causa produce il suo effetto, che proceda ad una spiegazione fondata su una serie continua
di eventi; è sufficiente che il giudice, adottando il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche,
universali o statistiche, "restando, cioè, vincolato a parametri oggettivi e impersonali forniti dalla
scienza" e, quindi, ripudiando il modello individualizzante, colga, metta in luce, uno o più
antecedenti che, secondo quelle leggi scientifiche, universali o statistiche, siano tali che senza lo
stesso o gli stessi l'evento, con alto grado di probabilità, con probabilità, cioè, logica o credibilità
razionale, non si sarebbe verificato;".
Più recentemente si è ancora affermato che il nesso di condizionamento deve ritenersi provato non
solo quando (caso improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha
dato luogo all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente
descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque
riconducibile alla condotta colposa dell'agente sia pure con condotte alternative; e purchè sia
possibile escludere l'efficienza causale di diversi meccanismi eziologici (in questo senso v. Cass. ,
sez. 4, 15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, in Giust. pen., 1996, 11, 445, che ha ritenuto irrilevante
l'indicazione di una delle cause alternative dell'evento qualora le conseguenze dell'una o dell'altra
soluzione siano identiche. Nello stesso senso, più di recente, si è espressa Cass., sez. 4, 17 aprile
2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588; contra Cass., sez. 4, 25 maggio 2005 n. 25233, Lucarelli, rv.
232013).
Una parola definitiva su questo punto è stata pronunziata dalla sentenza Franzese delle sezioni unite
che così si esprime: "poichè il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali
la causa produce il suo effetto, nè procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di
eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana
e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purchè
sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale".
Ciò che rileva, quindi, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se
queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) di indagati e
imputati; oppure che si possa comunque escludere che ne esistano di ragionevolmente ipotizzabili
che possano condurre all'esclusione del contributo causale da parte dell'agente.
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Queste conclusioni sono condivise anche dalla prevalente dottrina. Si è detto che "non si può
pretendere che il giudice spieghi l'intero meccanismo di produzione dell'evento, e non lo si può
pretendere perchè non è possibile conoscere esattamente tutte le "fasi intermedie" attraverso le quali
la causa "produce" l'effetto finale".
Ciò che rileva, lo si ribadisce, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e
verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose)
dell'agente.
Ma, prima di trarre le necessarie conclusioni da queste premesse, occorre affrontare il tema della
natura della causalità cui è stato ricondotto l'evento.
12) Causalità commissiva e causalità omissiva. Si è già accennato che il ricorrente imposta il tema
della causalità in termini di causalità omissiva: espressamente per quanto riguarda la mancata
richiesta del t.s.o.; implicitamente, come risulta dall'impostazione delle censure, per quanto riguarda
le condotte colpose riferibili al mutamento della terapia cui il paziente era sottoposto.
Anche su questo tema occorrono alcune riflessioni preliminari sulla distinzione tra causalità attiva
ed omissiva. Su questo problema va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità
commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto nella
seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però la distinzione in concreto tra le
due forme di causalità.
In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non solo) viene frequentemente ritenuta
omissiva una condotta che tale non è anche perchè sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui
riferire l'evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso
durante l'intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella
stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro
rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità.
E' peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e le componenti emissive della
colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella
corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito
ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non hanno violato un comando
penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di
accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza".
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che
rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui,
nell'ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha
introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi;
sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente
nel quadro clinico del paziente.
Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della
causalità nel caso in esame.
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Il dott. P. non ha violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua
attivazione ma ha violato il divieto di somministrare le terapie farmacologiche in modo incongruo
prima con una immotivata riduzione alla metà del farmaco neurolettico e poi addirittura
sospendendo, senza un adeguato periodo di osservazione, la terapia in tempi troppo ravvicinati e
senza un approfondito esame delle conseguenze della modifica terapeutica.
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può affermarsi che il medico abbia
introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si
badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria
dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore
causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se l'evento è da ritenere
causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di sostanziale certezza è evidente
che non è necessario porsi la domanda, che si pone il ricorrente, su che cosa sarebbe avvenuto se la
modifica terapeutica non fosse avvenuta;
domanda che trova la sua ragione nella circostanza che è statisticamente accertato che una certa
percentuale di scompensi nei pazienti psicotici avviene anche con il mantenimento della terapia.
Questa domanda sarebbe legittima se si trattasse di causalità omissiva: il medico che non ha
somministrato il farmaco salvifico risponde della morte del paziente se, in base al giudizio
controfattuale, può ritenersi, in termini di elevata credibilità razionale, che l'evento non si sarebbe
verificato se il medico avesse compiuto l'azione richiesta.
Ma, nel nostro caso, i giudici di merito hanno motivatamente ritenuto accertato, in termini di
sostanziale certezza, che la crisi si è scatenata a seguito del mutamento incongruo della terapia
farmacologia; dunque l'ipotesi formulata dal ricorrente costituisce una congettura priva di alcuna
conferma ed estranea all'evidenza probatoria del processo che anzi mostra l'esistenza di una
situazione di sostanziale compenso durata circa quindici anni pur con periodici episodi di rottura di
questa situazione di equilibrio.
Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come implicitamente richiede il ricorrente,
dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in essere la
medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale. Ma
chiedendosi se, ipotizzando non avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe
ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto il paziente allo scompenso conclamato
cui è riconducibile l'aggressione a C..
E su quale debba essere la risposta a questo quesito la Corte di merito ha fornito la motivata e non
illogica risposta cui si è più volte fatto cenno. E' infatti possibile che, se la terapia non fosse mutata,
si sarebbero potuti verificare in futuro altri episodi di scompenso; ma lo scompenso che si è in
concreto verificato è stato eziologicamente ricollegato - in base all'evidenza disponibile ed in
particolare agli accertamenti peritali - al mutamento terapeutico, si è manifestato come conseguenza
prevista e prevedibile di questo mutamento e non costituisce quindi uno degli episodi
statisticamente possibili di inefficacia del farmaco.
E quindi possibile dare una risposta al quesito formulato nel capitolo precedente: l'evento hic et
nunc verificatosi è causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di elevata
credibilità razionale e l'ipotesi alternativa formulata è fondata su una mera congettura che peraltro
neppure potrebbe essere presa in considerazione nel giudizio di legittimità.
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Ed è ora possibile dare anche una risposta al quesito posto in precedenza e relativo alla verifica
dell'esistenza dei presupposti di natura soggettiva per la verifica in concreto dell'ammissibilità del
concorso colposo nel delitto doloso: sull'imputato gravava una posizione di garanzia di protezione a
tutela del paziente e la regola cautelare violata dal dott. P. era finalizzata anche ad evitare eventi del
tipo di quello in concreto verificatosi. Con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la
responsabilità dell'agente nella causazione dell'evento non può essere esclusa.
14) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alle pronunzie sull'azione civile di cui al
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
La condanna altresì a rifondere alle parti civili le spese sostenute dalle medesime per il presente
grado di giudizio; spese che liquida in complessivi Euro 3.000,00 per la parte civile B.I. e in
complessivi Euro 3.600,00 per le parti civili B.M. e C.A.; oltre, per tutte le medesime parti civili,
I.V.A. e C.P.A. e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2008
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2) Appropriazione indebita
Tizio concludeva con la banca Alfa un contratto di mutuo.
Tizio lavorava presso il sig. DonDon come piastrellista; DonDon pagava regolarmente ogni mese
Tizio.
Tizio faceva presenta a DonDon che, a causa del mutuo posto in essere con Alfa, avrebbe dovuto
versare - in favore di questa - ogni mese euro 300,oo; per semplificare la movimentazione
economica, Tizio chiedeva a DonDon di trattenere i suddetti euro 300,oo dal proprio stipendio e
versarli in favore di Alfa.
DonDon accettava.
Dopo diversi mesi si scopriva che DonDon non aveva versato i suddetti euro 300,oo mensili in
favore di Alfa.
Il candidato rediga motivato, verificando l’applicabilità dell’art. 646 c.p., in tema di
appropriazione indebita.
Possibile soluzione schematica
In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto.
Successivamente il discorso andava inquadrato nell’ambito dell’art. 646 c.p.: il sig. DonDon ha
commesso il reato di appropriazione indebita?
In senso positivo depongono i rilievi che:
-DonDon si è appropriato del denaro di Tizio, tramite il mancato versamento in favore di Alfa;
-l’inciso “a qualsiasi titolo”, ex art. 646 c.p., sembra legittimare l’interprete a far rientrare anche
il denaro da erogare in favore di un terzo (Alfa).
Accogliendo tale ricostruzione, DonDon dovrebbe rispondere del reato di appropriazione indebita.
Si ritiene preferibile, tuttavia, optare per la tesi negativa (coerentemente con la recente
giurisprudenza) perché:
-l’art. 646 c.p. richiede l’appropriazione di denaro altrui, ma nel caso in esame il denaro non è
altrui, ma di DonDon stesso perché è uscito dal suo patrimonio;
-DonDon è solo un “debitore ceduto” verso Alfa, con la conseguenza che, al più, potrà rispondere
di inadempimento sul piano civile.
Alla luce degli esposti rilievi, pertanto, DonDon non potrà essere chiamato a rispondere del reato
di appropriazione indebita.
Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore
di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore
e da questo ceduta al terzo.
Cassazione penale, Sezioni Unite, 20.10.2011, n. 37954
Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza in data 11
febbraio 2009 del Tribunale di Lecce, sez. dist. di Galatina, nella parte in cui aveva dichiarato O.C.
responsabile del reato di cui all'art. 81 c.p., art. 61 c.p., comma 1, n. 11, e art. 646 c.p., commesso
da luglio a novembre dell'anno 2002, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti
all'aggravante, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di nove mesi di reclusione
e 600 Euro di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile. In parziale
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riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello riduceva l'ammontare dei danni liquidati
in favore della parte civile, che determinava in 6.000 Euro.
1.1. Stando alla contestazione, O.C., agendo in tempi diversi e in esecuzione di un medesimo
disegno criminoso quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, nei mesi di luglio, agosto,
settembre, ottobre e novembre dell'anno 2002, s'era appropriato denaro della dipendente U.S., per la
somma complessiva di 557,75 Euro, corrispondente agli importi mensili di 111,55 Euro fatti
figurare sulle buste paga come trattenuti per essere versati alla s.p.a. Fineco Banca Icq in
adempimento del contratto di cessione pro solvendo di una quota dello stipendio stipulato dalla U.
con l'istituto di credito, a seguito di prestito di denaro da questo erogatole, notificato al datore di
lavoro e da questo accettato (con "separato atto di benestare"). Non essendo stati gli importi mai
pagati, la Fineco aveva proceduto con decreto ingiuntivo nei confronti della U. e della Cedis.
1.2. La Corte disattendeva i rilievi dell'appellante, secondo cui difettava nella specie l'elemento
costitutivo della altruità del bene - denaro - oggetto di appropriazione, evocando i principi affermati
da Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, Li Calzi, Rv. 229634.
Affermava, in particolare, che a base delle argomentazioni svolte in tale sentenza stava la necessità
di distinguere il caso in cui il datore di lavoro opera quale sostituto d'imposta, rispetto a quelli in cui
egli sia "meramente responsabile per debito altrui". Solamente nelle prime ipotesi il datore di lavoro
poteva ritenersi "debitore in proprio" ed era personalmente e direttamente obbligato (verso lo Stato
o la Cassa edile) per le somme dovute, rispetto alle quali il lavoratore non aveva "titolarità attiva",
ma soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate: con la
conseguenza che l'omesso versamento di tali somme non integrava il reato di appropriazione
indebita. Negli altri casi di mera responsabilità per debito altrui, il denaro o la cosa mobile non
entravano a far parte "ab origine del patrimonio del possessore" e, pur confluendo nel patrimonio
dell'agente, restavano, per il vincolo di destinazione che li caratterizzava, "di proprietà diretta o
indiretta di altri": in deroga, come espressamente previsto dall'art. 646 c.p., ai principi del diritto
civile in tema di acquisto della proprietà di cose fungibili. Sicchè l'agente che dava alla cosa o al
denaro una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui lo possedeva o non restituiva
la cosa o il denaro a richiesta o alla scadenza, commetteva, come era avvenuto nel caso di specie, il
reato di appropriazione indebita.
2. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore, avvocato Angelo Roma,
che chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
Con unico motivo denunzia violazione della legge sostanziale, nonchè contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione, sostenendo che la fattispecie concreta non poteva integrare quella
astratta di appropriazione indebita. Difettava in particolare il requisito della "altruità" del denaro in
tesi appropriato, trattandosi di somme che il datore di lavoro doveva alla dipendente e oggetto, da
parte di questa, di cessione di credito.
Premette, in fatto, che nel caso in esame l'altruità del denaro oggetto di asserita appropriazione era
in concreto smentita anche dalla circostanza che, per il credito relativo alle trattenute operate sulla
retribuzione della U., la Fineco era stata ammessa con privilegio, trattandosi di crediti da lavoro
dipendente, al passivo del debitore ceduto, Cedis s.r.l. in amministrazione straordinaria.
Richiama quindi, a sostegno, la pronuncia delle Sezioni Unite Li Calzi, i cui contenuti sarebbero
stati equivocati dalla Corte d'appello. Le somme trattenute sullo stipendio non erano entrate ab
extrinseco a far parte del patrimonio del possessore (della Cedis s.r.l.), rimanendo connotate "da un
vincolo specifico di destinazione". Al contrario, la quota di stipendio ceduta dalla dipendente era
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sempre rimasta nella esclusiva disponibilità del possessore (debitore ceduto), confusa ab origine nel
suo patrimonio.
Nella situazione in esame era pienamente applicabile, perciò, il principio affermato dalla sentenza
Li Calzi, secondo cui il denaro trattenuto dal datore di lavoro sui compensi del dipendente in quanto
"destinato a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto idoneo a far
sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del
lavoratore)", "rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e
beni che lo compongono".
Il ricorso diffusamente argomenta, quindi, sulla necessità di conformare, il più possibile, la nozione
di cosa altrui valevole per il diritto penale ai concetti civilistici, pur con gli ovvi adattamenti
necessari per le ipotesi di cose fungibili. Proprio perciò detta nozione, con riferimento al denaro,
non poteva che essere ricondotta, secondo il criterio adottato dalle Sezioni Unite, al profilo del
trasferimento preliminare ed effettivo ("ab estrinseco") del possesso: solo la consegna del danaro ad
un terzo, affinchè ne faccia un determinato uso nell'interesse del tradens, consentendo di affermare
che dal punto di vista penale l'appartenenza del denaro a quest'ultimo non viene meno.
3. Con memoria ritualmente depositata a mezzo del difensore e rappresentante, avvocato Dario
Trevisi, la parte civile ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna dell'Imputato alla rifusione
delle spese del giudizio di cassazione.
Evidenzia, in sintesi, che la disomogeneità tra la fattispecie trattata dalle Sezioni unite nella citata
sentenza Li Calzi - che si era occupata di trattenute o ritenute ex lege - e quella in esame concernente un'ipotesi di trattenuta volontaria, in assenza della quale il lavoratore avrebbe percepito
la somma direttamente dal datore di lavoro - legittimava le diverse conclusioni cui era pervenuta la
Corte di appello di Lecce.
In relazione alla fattispecie al loro esame, le Sezioni Unite avevano evidenziato come l'importo
corrispondente alle somme trattenute ex lege, non soltanto non era mai stato versato al lavoratore,
ma "soprattutto" mai avrebbe potuto esserlo, "avendo il dipendente soltanto il diritto a percepire la
retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte", così ponendo l'accento sull'obbligo
proprio, incombente sul datore di lavoro, che differenziava le ipotesi allora esaminate da quelle in
cui il datore di lavoro funge da mero tramite per l'adempimento di un obbligo del lavoratore. Nel
caso in esame l'emissione di busta paga e la corresponsione della retribuzione decurtata della
somma trattenuta in forza della cessione del debito aveva comportato che tutta la retribuzione
doveva ritenersi già entrata a far parte del patrimonio del lavoratore pur essendo rimasta in parte
vincolata ad una specifica destinazione (si richiama a tale proposito a Sez. U, n. 27641 del
28/05/2003, Silvestri, Rv. 224609). Era inoltre evidente che allorchè la sentenza delle Sezioni Unite
Li Calzi aveva richiamato gli accordi economici, intendeva riferirsi ad accordi collettivi.
4. La Seconda Sezione penale, investita del ricorso, lo ha rimesso alle Sezioni unite rilevando che,
pur dopo la sentenza Li Calzi, s'era obiettivamente manifestato un contrasto di giurisprudenza sul
punto oggetto di doglianza, relativo alla riconducibilità alla fattispecie di appropriazione indebita
della condotta del datore di lavoro che ometta di versare le somme di denaro trattenute sulla
retribuzione spettante al lavoratore in vista del versamento in favore di un soggetto creditore di
quest'ultimo. E richiama da un lato Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400, già citata
dal ricorrente; dall'altro Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv. 244737.
Motivi della decisione
1. La questione posta alle Sezioni Unite è così sintetizzabile:
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"se, in caso di cessione di parte della retribuzione dal lavoratore al suo creditore, integri il reato di
appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che ometta di versare la quota dovuta al
cessionario". 2. La sentenza impugnata ha ritenuto che costituiva appropriazione indebita la
condotta contestata all'imputato che, agendo quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, aveva
omesso di versare all'istituto finanziario cessionario di quota del credito da prestazioni lavorative
della dipendente U., in forza di atto negoziale notificato e accettato dal debitore, le somme di
denaro trattenute a tale titolo dalle retribuzioni erogate alla dipendente.
Il ricorso contesta tale assunto, sostenendo che il denaro corrispondente alle somme trattenute dal
datore di lavoro sullo stipendio della lavoratrice per far fronte al debito di costei, non poteva
considerarsi, ancora, di proprietà "altrui". Il datore di lavoro aveva in altri termini assunto soltanto
la veste di debitore (ceduto) verso un terzo ed era responsabile di mera inadempienza.
3. Deve rilevarsi che il reato, contestato come commesso da luglio a novembre 2002 e per il quale la
sentenza di primo grado è intervenuta il giorno 11 febbraio 2009, sarebbe ad oggi prescritto.
Il termine di sette anni e sei mesi, sospeso dal 23 gennaio al 15 maggio 2008 a causa di rinvio del
dibattimento per l'adesione dei difensori all'astensione di categoria, cadeva difatti il 23 aprile 2011.
La configurabilità del reato è però questione che deve essere comunque risolta a mente dell'art. 129
c.p., comma 2.
L'evidenza risultante dagli atti, cui si riferisce tale disposizione, concerne esclusivamente gli aspetti
della fattispecie concreta.
Postulata la rispondenza della contestazione agli atti del procedimento, la sussumibilità del fatto
nella fattispecie astratta è questione di diritto che, per quanto complessa, si risolve nella
individuazione del contenuto normativo del precetto penale. E' perciò premessa legale di ogni altra
decisione sul processo o sul fatto.
4. Con riguardo alla configurabilità del reato, sia la sentenza impugnata sia il ricorrente evocano, a
sostegno delle rispettive contrapposte tesi, Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li
Calzi, Rv. 229634, propugnando differenti interpretazioni dei principi affermati da tale sentenza in
tema di "altruità" delle somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione erogata ai
dipendenti.
Secondo la Sezione rimettente, nè l'una nè l'altra di tali letture divergenti, che riprendono pregressi
orientamenti, sarebbe implausibile, corrispondendo ciascuna a distinti orientamenti che si sono
manifestati nella giurisprudenza di legittimità anche dopo la sentenza Li Calzi.
5. Occorre dunque in premessa ricordare che il quesito esaminato dalla sentenza Li Calzi era se il
mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione
in vista del versamento alle Casse edili integrasse appropriazione indebita, ovvero configurasse
unicamente la violazione amministrativa prevista dal D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, art. 13, (che
aveva sostituito integralmente la L. 14 luglio 1959, n. 741, art. 8).
Le Sezioni Unite risolsero il dubbio nel senso che detta condotta poteva configurare esclusivamente
la violazione amministrativa.
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Osservarono in particolare che, "sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda
le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro trattenuto dal datore di lavoro al dipendente
rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo
compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme
trattenute, ed il datore di lavoro non perde la proprietà di tali somme, ma ha soltanto l'obbligo,
analogamente a quanto avviene per il sostituto d'imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di
Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni". 6. Come rileva
l'ordinanza di rimessione, prima della sentenza Li Calzi la giurisprudenza di questa Corte aveva
numerose volte affermato che le somme trattenute dal datore di lavoro sulle retribuzioni del
dipendente e destinate a terzi per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a
far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del
lavoratore, erano da considerare parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore quale
corrispettivo per la prestazione già resa. La circostanza che tali somme avessero una destinazione
precisa, non modificabile unilateralmente e vincolata al versamento da effettuare entro un termine
certo, a garanzia del terzo e del lavoratore, portava a ritenere che esse non "appartenessero" più al
datore di lavoro, che, si sosteneva, ne manteneva solo una disponibilità precaria. Da ciò si
desumeva che commettesse il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente
lasciasse trascorrere il termine per il versamento, manifestando con tale omissione la volontà di
appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente disponeva. La stessa ordinanza di
rimessione cita come espressioni di tale orientamento Sez. 2, n. 30075 del 27/06/2003, Vecchio, Rv.
226684; Sez. 2, n. 5785 dell'11/02/1999, Visentin, Rv. 213304; Sez. 2, n. 10683 del 12/05/1993,
Giallini, Rv. 196734, tutte relative a trattenute per contributi da versare alla Cassa edile.
6.1. In linea con detto orientamento si poneva il filone giurisprudenziale che aveva riguardo
all'omesso versamento di somme trattenute per contributi previdenziali e assicurativi e riteneva che
il mancato versamento di detti contributi, oltre il termine di scadenza previsto, integrasse il reato di
appropriazione indebita.
Aderivano tra le altre: Sez. 2, n. 463 del 27/02/1970, Marzano, Rv.
115348, che osservava come nell'effettuare le trattenute di dette somme il datore ne divenga il
depositario e altresì come i lavoratori siano tenuti a lasciare nelle mani del datore di lavoro le quote
di salario corrispondenti alla parte dei contributi assicurativi posta a loro carico, in forza di un
rapporto fiduciario insito al rapporto di lavoro; Sez. 2, n. 3528 del 27/09/1982, Magnelli, Rv.
158589, che escludeva, in particolare, l'assorbimento dell'appropriazione indebita nel reato di
omesso versamento di contributi previdenziali, affermando la ravvisabilità del concorso formale;
Sez. 2, n. 10339 del 30/03/1987, Ratini, Rv. 176762, sul presupposto che titolare di tali somme
dovesse ritenersi il dipendente dal momento del pagamento del salario o dello stipendio sino
all'effettivo versamento all'istituto previdenziale.
6.2. Il tema della natura appropriativa della condotta di omesso versamento delle ritenute
previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti,
era lambito anche da Sez. U, n. 27641 del 28/05/2003, Silvestri, a proposito della configurabilità
dell'art. 2, commi 1 e 1 bis, d.l.
12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 683, in assenza del
materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione.
La conclusione raggiunta, nel senso che il reato non è configurabile a carico del datore di lavoro nel
caso di mancata corresponsione della retribuzione ai dipendenti, veniva in tale decisione sostenuta,
oltre che sulla base del riferimento testale alle "ritenute operate", sui rilievi: "che il legislatore con il
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D.L. n. 463 del 1983, art. 2, ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei
contributi, ma il più grave fatto commissivo dell'appropriazione indebita da parte del datore di
lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti"; "che quindi l'obbligo di
versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla
quale le ritenute stesse debbono essere operate"; che, "ove così non fosse, la differenza di
trattamento tra le due fattispecie sarebbe del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di
legittimità costituzionale"; che al contrario "tale differenza di trattamento si giustifica perfettamente
se si considera che il legislatore ha chiaramente assimilato il mancato versamento delle ritenute
previdenziali e assicurative al delitto punito dall'art. 646 c.p., la cui pena edittale - non certamente
per un caso - è assolutamente identica a quella prevista dal D.L. n. 683 del 1983, art. 2, comma 1
bis".
A giustificazione di tale ultima asserzione, la sentenza Silvestri si limitava tuttavia a fare rimando
alle considerazioni di Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, relativa all'omesso versamento
di ritenute operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente, già sanzionato dalla L. 7 agosto 1982,
n. 516, art. 2, nella quale si concludeva nel senso che tale condotta non poteva trovare
inquadramento e sanzione nell'art. 646 c.p., ma si faceva richiamo, tra l'altro, agli argomenti del
Procuratore Generale (riportati in motivazione e dichiaratamente condivisi dal Collegio) il quale a
sua volta partiva dalla premessa che occorreva distinguere tra l'ipotesi del datore di lavoro debitore
in proprio verso l'amministrazione finanziaria, in relazione alla quale l'omesso pagamento non
costituiva appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità, e l'ipotesi del datore di
lavoro tenuto al pagamento di un debito altrui, come nel caso di quote di contributi previdenziali
trattenute sulla retribuzione, in cui il mancato versamento integrava invece appropriazione indebita.
Il riferimento alla "appropriazione indebita" ad opera del datore di lavoro delle somme prelevate
dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti per il pagamento di oneri previdenziali, contenuto nella
sentenza Silvestri, appare dunque estremamente indiretto, ed assume nell'economia della decisione
un valore meramente, per così dire, sostanziale, servendo al limitato fine di sostenere che la
condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, istituito dal D.L. n. 463
del 1983, art. 2, era in qualche modo strutturalmente "assimilabile" a quella prevista dall'art. 646
c.p..
La sentenza non affronta difatti il problema della utilità della disposizione speciale nè quello del
concorso o dell'assorbimento del reato di cui all'art. 646 c.p., per l'ipotesi in cui la medesima
condotta fosse stata da ritenere realmente sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
7. Tutti codesti orientamenti venivano, ad ogni buon conto, considerati nella sentenza Li Calzi.
7.1. A fini di chiarezza, è anzitutto da dire che, in relazione alla specifica questione posta al suo
esame, la sentenza individua la natura retributiva delle somme trattenute dal datore di lavoro per il
versamento alla Cassa edile, di cui si discuteva.
Evidenzia, in particolare, che il meccanismo previsto per il pagamento alla Cassa da parte del datore
di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad ottenere da questa la corresponsione delle somme
dovute - per ferie, festività e gratifiche natalizie - integra una delegazione di pagamento; la Cassa
non diviene obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì
solo con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme stesse; il lavoratore, dal suo canto,
può agire nei confronti del datore di lavoro per il pagamento delle somme dovute, essendo titolare
di un diritto di credito direttamente azionabile nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso il
versamento delle somme trattenute sulla retribuzione.
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Sottolinea, quindi, che alle Casse edili non poteva essere riconosciuta natura di enti di previdenza e
di assistenza, perchè con la locuzione "gestioni previdenziali ed assistenziali" il legislatore, come
pacificamente ammesso, intendeva riferirsi agli enti di previdenza ed assistenza all'epoca esistenti,
quali l'INPS, l'INAM, l'INAIL ed altre gestioni speciali autonome; perchè la trattenuta effettuata a
favore della Casse edili non ha natura "contributiva previdenziale o assistenziale", ma di salario
differito che trovava la sua legittimazione in un accordo contrattuale (sia pure recepito formalmente
in un atto avente forza di legge); perchè le Casse edili non svolgono funzioni previdenziali ed
assistenziali, ma di intermediazione tra datori di lavoro e lavoratori, secondo gli approdi consolidati
della giurisprudenza civile di legittimità. 7.2. Tentando, poi, di mettere ordine nella contraddittoria
elaborazione giurisprudenziale in materia di somme a vario titolo trattenute, la sentenza Li Calzi
osserva che le sentenze Visentin e Giallini quest'ultima citata con i riferimenti della sentenza
Vecchio, di cui ha per altro i medesimi contenuti; v. sopra, al par.
6 non sono condivisibili, perchè l'orientamento in esse seguito non è coerente con il principio
affermato per la fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore
dell'erario, in realtà analoga e in relazione alla quale era al contrario già costantemente esclusa la
configurabilità del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti sia nei
confronti dello Stato, proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla "altruità" delle
somme trattenute.
Rileva che, se la ragione per la quale è esclusa dalla costante giurisprudenza la "altruità" della
somma trattenuta per il versamento all'erario risiede nella liberazione del lavoratore dall'obbligo del
pagamento del tributo (Sez. 2, n. 10667 del 26/05/1983, Sdattrino, Rv. 161665; Sez. 2, n. 8780 del
26/05/1983, Francino, Rv. 160823; Sez. 2, n. 9037 del 26/05/1983, Montanari, Rv.
160912; Sez. 2, n. 10437 del 26/05/1983, Carion, Rv. 161553; Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001,
Romagnoli, Rv. 220359), a maggior ragione divrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel
caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile (e delle ritenute per contributi
previdenziali), atteso che anche in questo caso l'obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la
quota spettante al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro.
In realtà - prosegue la sentenza Li Calzi -, la posizione del datore di lavoro-sostituto d'imposta è
completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle
retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che
effettua le ritenute dei contributi previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si è in presenza di un
"accantonamento" di una somma determinata di denaro, finalizzata ad un fine determinato, da
versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite.
Siffatte ipotesi - rimarca la sentenza - sono accomunate dalla caratteristica dell'obbligo del datore di
lavoro di corrispondere al lavoratore (a retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate
("per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti
collettivi"), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che "il denaro oggetto
dell'appropriazione è rappresentato da una quota ideale del patrimonio del possessore, indistinta da
tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo". La somma trattenuta o ritenuta resta,
in altri termini, nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore, non soltanto perchè non
è mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perchè mai può esserlo, avendo il
dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte
dal datore di lavoro. Le "trattenute", perciò, si risolvono "in una operazione meramente contabile
diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad
una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della
corresponsione della retribuzione".
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Al contrario - conclude la sentenza Li Calzi - in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e
pacificamente ritenuti riconducibili all'appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui
l'agente si appropria, "non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore", ma vi entrano
"ad estrinseco", e con esso patrimonio non si confondono perchè connotati da una vincolo specifico
di destinazione; sicchè di tali beni può dirsi che restano di "proprietà" diretta od indiretta di altri, in
virtù della deroga - espressamente prevista dall'art. 646 c.p. - ai principi del diritto civile in tema di
acquisto della proprietà delle cose fungibili (Sez. 2, n. 2445 del 17/06/1977, Pomar, Rv. 137092).
8. Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza non sembra tuttavia - come segnala
l'ordinanza di rimessione - essersi del tutto sopito.
8.1. Da un lato si pongono, difatti, Sez. 2, n. 768 dell'11/11/2005, dep. 2006, D'Ecclesiis; Sez. 2, n.
16361 del 28/04/2006, Procaccini;
Sez. 2, n. 7182 del 25/01/2006, Aloise; Sez. 2, n. 43739 del 13/11/2007, Chiriatti; Sez. 2, n. 47646
del 05/12/2008, Geleardi;
Sez. 2, n. 5216 del 19/12/2008, dep. 2009, Rigoni; Sez. 2, n. 10057 del 24/02/2009, Trosini (tutte
non massimate); che richiamando la sentenza Li Calzi, hanno escluso la sussistenza
dell'appropriazione indebita contestata in fattispecie analoghe a quella oggetto di tale decisione;
Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400 (indicata nell'ordinanza di rimessione), che,
sempre richiamando la sentenza Li Calzi, ha escluso la sussistenza dell'altruità del denaro, e dunque
dell'appropriazione indebita, nell'ipotesi di mancato versamento delle quote associative spettanti al
sindacato di categoria al quale erano iscritti dipendenti dell'imputata, delegata dai lavoratori
interessati al versamento di tali quote trattenute sullo stipendio; nonchè Sez. 2, n. 20851 del
21/04/2009, Celona, Rv.
244806, che, sul presupposto che denaro altrui è quello che non fa parte ab origine del "patrimonio"
del possessore ma confluisce in esso con un vincolo di destinazione, come affermato dalla sentenza
Li Calzi, ha ritenuto che non integra il delitto di cui all'art. 646 c.p., la condotta di corresponsione
della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore rispetto a quella risultante dalla busta paga.
8.2. Dall'altro militano, invece, Sez. 2, n. 8023 del 07/02/2008, La Tona (non massimata) e Sez. 2,
n. 23034 del 18/04/2007, Altieri (non massimata), che, occupandosi di contestazioni relative,
rispettivamente, all'omesso versamento delle trattenute previdenziali ed assistenziali alla
competente gestione dell'I.N.P.S. e all'omesso versamento alla Cassa edile delle somme trattenute a
tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, hanno affermato sussistente il
delitto di appropriazione indebita, non facendo menzione delle Sezioni Unite Li Calzi, ma
rifacendosi invece direttamente agli orientamenti delle sentenze Vecchio, Visentin e Giallini (sopra,
par. 6); nonchè Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv, 244737, (segnalata dall'ordinanza
di rimessione) che ravvisa il delitto in questione nella condotta del datore di lavoro che omette di
accantonare, e di versare all'INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine rapporto
spettante al lavoratore, sull'assunto che i principi della sentenza Li Calzi, concernenti
l'accantonamento di trattenute non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, non
riguardavano la fattispecie in esame.
9. Alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza Li Calzi, è però evidente che
allorchè le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi
in essa affermati non si riferivano all'omesso versamento di somme trattenute in vista
dell'adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato
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quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla
stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti
retributivi, contributivi o d'imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili
della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto
di non configurabilità dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità degli importi
trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall'esterno nel patrimonio dell'obbligato con tale
vincolo di destinazione, ma in quello sin dall'origine comprese.
10. Tanto posto, ritiene il Collegio che non vi sono ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in
esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza Li Calzi.
La decisione, benchè riferita a fattispecie concreta concernente l'omesso versamento delle trattenute
destinate alla Cassa edile, s'attaglia indubbiamente alla situazione oggetto del giudizio a quo,
relativa alla cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente prò solvendo a favore
di un terzo.
La cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che
pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi
giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente
all'istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il
pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della
titolarità del credito ceduto - con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri - in capo all'ente
finanziatore contestualmente all'erogazione dell'anticipazione, indipendentemente dalla
notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato
la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione
all'eventuale atto del pagamento.
Nulla consente di distinguere perciò, come già rilevava la sentenza Li Calzi, l'omesso pagamento al
cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore,
dall'omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore. In relazione a un
inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al
patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e
separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili,
non essendo prevista - ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo - la costituzione, ex lege o
volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati
fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost. Sicchè non v'è modo di
configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita (su tale
conclusione in relazione al mancato pagamento delle retribuzioni pareva già convenire, peraltro,
anche Sez. U, Silvestri).
11. Il Collegio è consapevole delle critiche mosse a questa impostazione nella memoria della parte
civile e da quella parte della dottrina, e della giurisprudenza, che biasimano da un lato l'adozione di
criteri interpretativi assertivamente improntati a canoni troppo marcatamente civilistici, dall'altro la
perdita di vista delle ragioni di tutela proprie del diritto penale.
Tuttavia, la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell'altruità della res
fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale
cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s'ispira affatto pedissequamente agli schemi del
diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative
dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto
che rigide posizioni dommatiche.
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12. Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto,
un "termine" che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione "tecnica", dovrebbe
presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacchè il diritto richiede
certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più
possibile ai canoni della determinatezza e tassatività. Per accogliere ai fini penali una diversa
accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che
autorevole dottrina definisce "una giustificazione conveniente", per "segni certi", della diversa
accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull'interpretazione
delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e
nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle "finalità perseguite dall'incriminazione
e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca", come costantemente ricorda il
Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza
mediante il ricorso al criterio, altresì, dell'offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n.
5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n.
80 del 2004). Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e
quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni,
all'individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso
ramo del diritto.
Non può negarsi, all'inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnicogiuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un
significato tratto dal "linguaggio comune", fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri
fini. Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l'appunto tradizionalmente individuati
nell'uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di "possesso" e "detenzione", di "altruità" e
proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l'esatto equivalente
degli omonimi concetti propri del diritto civile.
Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d'altra
parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di
prevedibilità che, come efficacemente ricordato dall'Avvocato Generale nella requisitoria odierna
richiamando copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo (tra molte:
sentenze 5 aprile 2011, Sarigiannis c. Italia; 17 maggio 2010, Kononov c. Estonia; 3 novembre
2009, Sujagic c. Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per
l'ordinamento obiettivo: anche l'effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il
testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati.
12.1. li problema interpretativo di cui si è occupata la sentenza Li Calzi, che è ora riproposto alle
Sezioni Unite, concerne in particolare l'individuazione della portata normativa del termine "altrui"
impiegato nell'art. 646 c.p., per definire l'oggetto della "appropriazione" penalmente rilevante, posta
in essere dal "possessore", su denaro o bene fungibile.
Nella struttura della norma la condizione di "altruità" del bene si contrappone dunque a quella di
mero "possessore" dell'agente, che, appropriandosene, pone in essere, per usare una definizione
usuale, una interversione del possesso. La nozione di altruità non può per conseguenza prescindere,
in primo luogo, dalla nozione di possesso.
12.2. Ora, è osservazione unanime, in giurisprudenza e dottrina, che il termine "possesso" è
numerosissime volte adoperato nel codice penale con significato del tutto equivalente a quello di
"detenzione". La promiscuità dell'uso è particolarmente evidente in tutte le disposizioni che si
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riferiscono ad ipotesi di detenzione o possesso in sè illegali o sanzionati per la provenienza illecita
dei beni cui si riferiscono.
Parimenti, nell'ambito dei reati che hanno a specifico oggetto la tutela del patrimonio, pubblico o
privato che sia, il "possesso" non appare distinguibile, secondo l'esegesi oramai tradizionale, dalla
"detenzione", purchè autonoma. I due termini, correlati a quelli di "altruità" e di "patrimonio", lungi
dal connotare di significati civilisti le condotte cui si riferiscono, fungono così piuttosto da criteri
denotativi, e vanno letti in funzione della delimitazione in negativo, prima ancora che della
perimetrazione in positivo, delle condotte incriminate.
L'analisi del significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine
"altrui", riferito a bene fungibile posseduto da altri, richiede, per conseguenza, di considerare altresì
le linee di demarcazione tra le varie figure criminose che hanno ad oggetto la tutela del medesimo
bene, il patrimonio privato, e i profili di corrispondenza con le fattispecie, analoghe, che
concernono il patrimonio pubblico.
12.3. E' egualmente considerazione condivisa che come la sottrazione a chi autonomamente detiene
la cosa è elemento costitutivo del furto; così, specularmente, l'autonoma detenzione non derivante
da sottrazione integra il possesso rilevante per l'appropriazione indebita. Nella nozione di possesso
rilevante per l'appropriazione indebita possono rientrare vari casi di detenzione, ma, perchè resti
saldo il confine tra fattispecie, il minimo richiesto è che si tratti di detenzione in nome proprio e non
in nome altrui, ossia in virtù di un rapporto di dipendenza con il titolare del diritto (tra molte: Sez. 6,
n. 32543 del 10/05/2007, Varriano, Rv. 237175; Sez. 2, n. 4853 del 20/12/1993 Balzaretti, Rv.
197781).
E', d'altra parte, significativo (come puntualmente osserva Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Donti,
Rv. 246070) che in relazione al peculato, figura omologa all'appropriazione indebita nell'ambito dei
delitti contro la pubblica amministrazione, il legislatore, con la riforma del 1990, abbia affiancato
nell'art. 314 c.p., alla nozione di "possesso" quella di "disponibilità", così espressamente
riconducendo il rapporto dell'agente con la cosa nell'ambito "di un ampio potere autonomo, che gli
consenta di disporne, con obbligo tuttavia di rispettarne la destinazione", in linea con
l'interpretazione già consolidata in relazione ad entrambe le fattispecie appropriative.
12.4. Parallelamente, proprio la considerazione del denaro, che è bene fungibile per eccellenza,
come possibile oggetto dell'appropriazione di cosa altrui, rende palese che il legislatore non ha
inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile
dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per
specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a
confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, nè in relazione ad esso sono configurabili diritti
reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per
impiegarla in un certo modo, incombe sull'accipiente soltanto l'obbligo di rendere o di impiegare
l'equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso.
Il riferimento, nell'art. 646 c.p., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto
penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere
indiscriminatamente.
Deve per altro rammentarsi che se nel diritto civile proprietà e diritti reali consistono nella signoria
sulla cosa che si acquista nei modi stabiliti dalla legge, mentre il possesso è il potere sulla cosa che
si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale
(esercitabile direttamente o per mezzo di chi ha la detenzione), non suscettibile di trasferimento per
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atto tra vivi disgiuntamente dalla proprietà o dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio (Sez.
U, n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815), va da sè che tali nozioni legali interessano poco il diritto
penale patrimoniale in generale, e la fattispecie recata dall'art. 646 cod. pen. in particolare, che
guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o
derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle
cose.
Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l'autonomia dell'accezione con la quale le nozioni di "possesso" o
bene "altrui" sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano
una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l'ordine
economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal
considerare la relazione violata e, perciò, la diversità di natura, nell'ambito del diritto civile, dei
rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti.
12.5. Così, nonostante l'ampliamento della nozione di "altruità", nulla consente di ricondurre ad
essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile. Impedisce, al contrario, di
considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di
un'obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure "vincolata", la dazione a
un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l'inadempimento di una mera obbligazione
è già sanzionata penalmente - e più lievemente - dall'art. 641 cod. pen., ma esclusivamente
nell'ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo
stato d'insolvenza.
Efficace indicazione per una regolazione di confini proviene da Sez. 2, n. 7770 del 09/02/2010, Di
Bernardo (non massimata), laddove osserva che sarebbe irragionevole "assegnare ad una stessa
condotta materiale di interversione del possesso una portata differenziata a seconda della natura del
bene - fungibile o infungibile - quando è lo stesso testo normativo a parificare sotto questo profilo il
precetto, facendo espresso riferimento, quale oggetto della condotta appropriativa, al denaro o ad
altra cosa mobile altrui".
E' la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all'interprete di considerare il
denaro, al quale l'agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una
qualsiasi altra cosa mobile infungibile. Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio
dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli
sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento, ma non potrà essere
sottoposto ad azione di rivendicazione nè potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o
condotta appropriativa. Se l'inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o
destinarli nell'interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione
(espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità,
costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione,
appropriazione indebita rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p..
13. In conclusione, non può che essere ribadito che la regola della acquisizione per confusione del
denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di
altruità accolta nell'art. 646 c.p.; ma, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab
externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il
proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali,
retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la
configurazione del delitto di cui all'art. 646 c.p..
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Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui
che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un
impiego vincolato, se l'appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta.
Possono indicarsi, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come
mezzo per l'esecuzione di una qualche forma di mandato ovvero riscossi dal rappresentante per
conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o
pegno irregolare o - non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad
pompam, cose fungibili - in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l'impiego in
fondo patrimoniale separato.
Non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad
obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non
conferite e vincolate a tale scopo.
14. Deve affermarsi per conseguenza che "non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero
illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di
retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo". 15. L'Avvocato Generale, sulla scorta
di considerazioni sostanzialmente analoghe, ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia
annullata senza rinvio perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Ritiene il Collegio, in aderenza agli argomenti esposti e alla luce dell'imputazione formulata, che la
sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.
La formula "il fatto non è previsto dalla legge come reato" va riferita all'ipotesi della mancanza di
una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato. La formula "il fatto non sussiste"
va invece impiegata nel caso di difetto di un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato
contestato (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814).
L'adozione della prima formula dipende, perciò, dal tenore formale dell'addebito, dalla circostanza
cioè che con esso si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta
mai esistita, abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima. Mentre, quando il fatto storico,
così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, occorre adottare la
seconda.
Se, dunque, al ricorrente fosse stato formalmente addebitato d'essersi appropriato denaro proprio, si
sarebbe dovuto dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Poichè gli è stato contestato d'essersi appropriato denaro altrui ("di pertinenza della dipendente",
recita il capo d'imputazione), ma sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come
datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in
proprietà di questa, deve ritenersi che fa difetto nella fattispecie concreta l'elemento dell'altruità del
bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita.
Va dichiarato di conseguenza che il fatto-reato contestato non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Si verte nell'ipotesi di truffa quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al fine di
impossessarsi del bene e, quindi, l'impossessamento sia una conseguenza della condotta
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fraudolenta; al contrario, quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere
successivamente, al solo fine di coprire l'illecito già compiuto, allora si verte nelle diverse
ipotesi di peculato o appropriazione indebita.
Cassazione penale, Sez. II, 3.5.2011, n. 17106
Svolgimento del processo
p.1. Con sentenza del 5/06/2009, la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza pronunciata
in data 18/06/2007 con la quale il Tribunale della medesima città aveva ritenuto A.G. responsabile
dei reati di cui all'art. 640 c.p. e art. 61 c.p., n. 11, artt. 485 e 380 c.p.. p.2. Avverso la suddetta
sentenza, l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i
seguenti motivi:
p.2.1. VIOLAZIONE DELL'art. 157 c.p. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto di far
decorrere la prescrizione non dal momento in cui l'imputato aveva conseguito il profitto (ossia
all'inizio degli anni novanta) ma dal momento in cui le parti offese, scoperta la truffa, lo avevano
querelato (ossia in data 1/06/2004);
p.2.2. violazione dell'art. 485 c.p. per avere la Corte territoriale attribuito i crismi di scrittura privata
ad un documento sfornito di tale qualità in quanto il suddetto documento non conteneva una
manifestazione di volontà o l'attestazione della verità di uno o più fatti, non era conosciuto l'autore e
non era fornito di attitudine probatoria, contenendo solo un invito a ritirare non meglio specificati
mandati di pagamento. p.2.3. VIOLAZIONE dell'art. 380 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto
la configurabilità del suddetto reato non rilevando, invece, che, secondo la giurisprudenza
maggioritaria, era necessaria l'instaurazione di un procedimento innanzi all'autorità giudiziaria,
quale elemento costitutivo: il che non era mai avvenuto. In ogni caso, il reato avrebbe dovuto essere
dichiarato prescritto perchè la data di effettiva consumazione del reato "non può che coincidere con
lo spirare del termine ultimo per instaurare il procedimento innanzi all'A.G., verificatesi certamente
oltre dieci anni prima della sentenza impugnata (cinque anni dal collocamento a riposo)".
Motivi della decisione
p. 3. Nella sentenza impugnata, il fatto è descritto nei seguenti termini: " le parti civili, operatori
tecnici presso l'Ospedale (OMISSIS), agli inizi degli anni novanta, ritenendo di avere svolto
mansioni superiori nell'ambito del rapporto di lavoro con l'Ente, si rivolsero all'avv. Antonio Di
Rienzo per avviare un giudizio civile avente ad oggetto il relativo superiore inquadramento. Detto
legale accettava l'incarico e riceveva da ciascuna parte la somma di L. settecentomila quale acconto;
le parti sottoscrivevano regolare mandato. Dopo alcuni mesi, l'avvocato Di Rienzo convocava gli
indicati clienti e presentava loro l'avv. A.G., dicendo che aveva devoluto a questi l'incarico,
provvedendo a girargli gli acconti ricevuti; i clienti firmavano un nuovo mandato.
Il rapporto con i clienti si protrasse per circa dieci anni, sino a quando, l'avvocato A., incalzato dai
ricorrenti, comunicava loro che era stata emessa la sentenza e che questa era favorevole. Di tale
presunta sentenza le parti non avevano per lungo tempo notizia malgrado le continue e pressanti
richieste. A seguito di ulteriori pressioni dei clienti, l'avvocato A. si indusse ad andare con loro in
Pretura dove, a suo dire, il giudice avrebbe dovuto emettere "l'ordine alla ASL di pagare".
L'avvocato non fece entrare le parti e poco dopo uscì sventolando un foglio sul quale asseriva
esservi l'ordine di pagamento. Ormai insospettiti, i clienti chiedevano di partecipare con insistenza
personalmente alle successive attività necessarie alla riscossione, ma invano, perchè con vari
stratagemmi e scuse (una bomba nel Tribunale; impedimenti per motivi di salute etc.) il legale si
sottraeva sempre agli appuntamenti. Per alleggerire la pressione, essendo ormai trascorsi molti anni,
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il legale offriva a ciascuno un "acconto" di L. 3.500.000 ciascuno a condizione che gli avessero
"firmato una carta". I clienti rifiutavano la proposta. Ulteriori espedienti il legale poneva in essere
per tacitare i propri clienti fissando un appuntamento presso l'Istituto bancario ove, a suo dire,
avrebbero potuto riscuotere i mandati, sennonchè ancora una volta, l'appuntamento fu disdetto per
un presunto contrattempo. Però la parte lesa V. si informò dal direttore di banca ed apprese che non
vi era alcun mandato di pagamento. Le richieste da parte dei clienti diventavano sempre più
pressanti per vedere la sentenza. Vi furono altri appuntamenti andati a vuoto o scuse come l'assenza
della segretaria, fino a quando il legale esibì un fax presuntivamente proveniente dal San Paolo Imi
con il quale si comunicava che le somme erano state messe in pagamento il successivo (OMISSIS).
Le parti lese pretesero che l'avvocato li accompagnasse presso il Banco di Napoli sito nel Tribunale
a Castecapuano e, questa volta, mentre erano in fila, il legale confessava che non vi era alcun
mandato, che non vi era stato alcun giudizio e che anche il fax era fasullo".
La querela venne sporta in data 1/6/2004. p.3.1. Ritiene questa Corte che, sulla base dei (pacifici)
fatti così come descritti dalla Corte, non sia ravvisabile il reato di truffa per le ragioni di seguito
indicate.
La truffa, quanto all'elemento materiale, ruota intorno ai seguenti elementi costitutivi: 1) artifizi o
raggiri; 2) ingiusto profitto; 3) altrui danno.
Questi tre elementi, essendo la truffa un reato di natura istantanea normalmente vengono in
evidenza contemporaneamente: fanno eccezione alla suddetta regola le ipotesi in cui l'ingiusto
profitto venga conseguito in un momento successivo agli artifizi o raggiri (ad es. nel caso in cui gli
assegni fraudolentemente carpiti alla vittima del raggiro vengano posti all'incasso in un momento
successivo: ex plurimis Cass. 24/01/2002 Riv 226745) o in più momenti (ad es. nell'ipotesi di danno
agli istituti previdenziali, nel quale caso si parla di reato a consumazione prolungata o frazionata: ex
plurimis Cass. 11026/20% riv 231157).
E' incontestabile, però, che gli artifizi o raggiri debbono essere messi in atto dall'agente al momento
in cui perpetra la truffa ai danni della vittima proprio perchè il suddetto reato è caratterizzato da una
ben precisa modalità ossia l'elemento fraudolento (artifizi o raggiri) finalizzato ad indurre in errore
la parte lesa, come si desume, letteralmente dall'art. 640 c.p., comma 1 che esordisce stabilendo
"chiunque, con artifizi o raggiri inducendo taluno in errore ...". Il che significa che, ove l'agente si
impossessi di un bene altrui senza modalità fraudolente, la truffa non è giuridicamente
configurabile, nè può assumere rilievo alcuno la circostanza che, in un momento successivo,
l'agente faccia ricorso ad artifizi e raggiri finalizzati a coprire la propria precedente illecita condotta.
Infatti, non a caso, la giurisprudenza di questa Corte, in modo assolutamente costante, al fine di
differenziare i delitti di peculato e di appropriazione indebita dalla truffa, ha chiarito che si verte
nell'ipotesi di truffa quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al fine di impossessarsi del
bene e, quindi, l'impossessamento sia una conseguenza della condotta fraudolenta; al contrario,
quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere successivamente, al solo fine di coprire l'illecito
già compiuto, allora si verte nelle diverse ipotesi di peculato o appropriazione indebita (ex plurimis:
quanto all'appropriazione indebita: Cass. 740/1970 Rv. 117150 - Cass. 1899/1968 Rv. 109801 Cass. 1330/1966 Rv. 103332; quanto al peculato: Cass. 2384/1973 Rv. 123658 - Cass. 6753/1997
Rv. 211009 - Cass. 3039/1989 Rv. 183538 - Cass. 17320/2006 Rv. 234133 - Cass. 35852/2008 Rv.
241186).
Ora, all'imputato è addebitato il reato di truffa perchè: a) incassò a titolo di onorario somme di
denaro dai signori ...; b) pose in essere artifizi e raggiri consistiti "nell'avere incontrato più volte gli
stessi al fine di informarli in merito allo svolgimento ed all'esito della causa avviata sul loro
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mandato contro l'ASL Na/(OMISSIS) e nell'avergli fatto credere di avere effettivamente avviato e
curato detto procedimento, al quale egli non aveva mai dato corso".
Dunque, secondo l'ipotesi accusatoria, l'ingiusto profitto consistette nell'avere incassato gli acconti
per iniziare la causa che mai iniziò e gli artifizi e raggiri consistettero nell'aver tenuto una condotta
diretta a tranquillizzare i clienti che chiedevano conto dell'esito della causa. Sennonchè, applicando
gli enunciati principi di diritto alla concreta fattispecie, è del tutto evidente che: a) nessuna condotta
fraudolenta venne posta in essere dall'imputato nel momento in cui i clienti gli conferirono il
mandato professionale e gli pagarono un acconto: sul punto il capo d'imputazione nulla dice e la
stessa Corte tace non evidenziando alcunchè; b) la condotta fraudolenta venne posta in essere in un
momento successivo e cioè quando i clienti cominciarono a chiedere conto dell'esito della causa. Fu
allora, infatti, che l'imputato, per coprire la grave colpa professionale in cui era incorso, cominciò a
porre in essere artifizi e raggiri finalizzati a tranquillizzare i clienti ed a sviarli, cercando così di
rinviare l'inevitabile redde rationem. Ma, è del tutto evidente che, poichè quella condotta
fraudolenta venne posta in essere non nel momento iniziale e cioè per carpire il mandato
professionale e gli acconti (l'ingiusto profitto con altrui danno), ma in un momento successivo e fu
finalizzata al solo scopo di celare ai clienti il danno che era stato loro provocato dalla negligente
condotta (non avere iniziato la causa per la quale era stato conferito il mandato professionale), non è
ipotizzabile la truffa. Ciò è tanto vero che, come risulta dalla descrizione del fatto riportato nella
sentenza impugnata, l'imputato, pur di chiudere la questione offrì a ciascuna delle parti lese la
somma di L. 3.500.000. In altri conclusivi termini, la vicenda non ha alcun risvolto penalistico ma
va ritenuta solo come un episodio di inadempimento contrattuale del quale l'imputato non può che
rispondere solo in sede civilistica. Pertanto, la sentenza, in ordine al suddetto reato, va annullata
senza rinvio perchè il fatto non sussiste. p.4. Quanto al reato di cui all'art. 380 c.p., la Corte
territoriale ha ritenuto di seguire quella parte - minoritaria e risalente - della giurisprudenza secondo
la quale non occorre, per la configurabilità del suddetto reato, la pendenza di una causa:
"presupposto del reato di infedele patrocinio (art. 380 c.p., comma 1) è l'esercizio della difesa,
rappresentanza ed assistenza davanti all'autorità giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di
partecipazione professionale e non come estrinsecazione effettiva di attività processuale, per cui ad
integrare l'elemento oggettivo del delitto è sufficiente che l'esercente la professione forense si renda
infedele ai doveri connessi alla accettazione dell'incarico di difendere taluno dinanzi all'autorità
giudiziaria, indipendentemente dall'attuale svolgimento di un'attività processuale e finanche dalla
pendenza della lite, giacchè il pregiudizio in danno della parte può concretarsi nella dolosa
astensione dalla doverosa attività processuale": Cass. 856/2004 Rv. 230877.
Questa Corte, invece, in considerazione del tenore testuale della citata norma che individua la
condotta materiale punibile nei casi in cui il patrocinatore arreca nocumento "agli interessi della
parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all'Autorità Giudiziaria ...", ritiene di adeguarsi
alla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale "per la sussistenza del reato di patrocinio
infedele è necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento
nell'ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, anche se
la condotta non deve necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti processuali": Cass.
21160/2009 Rv. 244182 - Cass. 41370/2006 Rv. 235548 - Cass. 6382/2008 Rv. 239436. Di
conseguenza, anche per tale capo, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perchè il fatto
non sussiste. p.5. Infondata, invece, deve ritenersi la censura in ordine al reato di cui all'art. 485 c.p.
perchè, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte "ai fini della sussistenza del delitto di cui
all'art. 485 cod pen., nella nozione di scrittura privata devono essere ricompresi non solo quegli atti
che contengono dichiarazioni o manifestazioni di volontà idonee a costituire ovvero modificare
diritti e posizioni oggettive, ma altresì tutte le scritture formate dal privato che si riferiscono a
situazioni da cui possono derivare effetti giuridicamente rilevanti per un determinato soggetto":
Cass. 42578/2009 Rv. 244851. E, non vi è dubbio che il documento formato falsamente
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dall'imputato e consegnato ad una delle parti, contenente un preteso ordine di pagamento a loro
favore, integri la fattispecie di cui all'art. 485 c.p. proprio perchè quella scrittura si riferiva ad una
situazione (mandato di pagamento) da cui poteva derivare un effetto giuridicamente rilevante per le
parti. p.6. In conclusione, essendo addebitarle all'imputato il solo reato di cui all'art. 485 c.p., gli atti
vanno trasmessi ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la relativa determinazione
della pena.
P.Q.M.
ANNULLA senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui agli artt. 640 e 380 c.p.
perchè i fatti non sussistono RIGETTA nel resto e DISPONE trasmettersi gli atti ad altra sezione
della Corte di Appello di Napoli per la determinazione della pena in ordine al residuo reato di falsità
in scrittura privata.
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61
3)
Diffamazione ed intervista
Tartufello è parlamentare della Repubblica; un giorno, veniva intervistato da Tiberio, direttore
responsabile de “Il Tiberrinus”.
Tiberio riportava sul proprio giornale tra virgolette le dichiarazioni di Tartufello: “La procura di
Milano è alienata e disturbata mentalmente…è assassina e delinquente molto peggio dei mafiosi
che accusa”.
Quel numero del giornale vendeva tantissimo, ma Tiberio aveva paura di aver compiuto qualche
reato.
Tiberio si recava dal legale Michelina.
Il candidato, assunte le vesti di Michelina, rediga motivato parere.
Possibile soluzione schematica
All’inizio si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente il discorso andava inquadrato nell’ambito del reato di diffamazione ex art. 595
c.p.: Tiberio può essere chiamato a rispondere di tale reato?
Tartufello non è punibile in quanto parlamentare, ex art. 68 Cost.; tale circostanza non si trasmette
a Tiberio perché a carattere soggettivo (protegge solo i “membri del Parlamento”).
Il rapporto tra legittimo esercizio del diritto di informazione, ex art. 21 Cost., e reato di
diffamazione è perimetrato da tre criteri che, rispettati, rendono non punibile la condotta; questi
sono:
-verità, che nel caso in esame è rispettata perché Tiberio ha riportato quanto affermato da
Tartufello alla lettera;
-rilevanza sociale, che nel caso in esame sussiste perché di interesse della collettività;
-continenza delle forme, che sono rispettate nel senso che non vi è un attacco gratuito ed
ingiustificato, ma si riporta “tra virgolette” quanto affermato da altri.
Alla luce di tali rilievi, pertanto, si può ritenere che Tiberio non sarà punibile per il reato di
diffamazione a mezzo stampa.
La soluzione che afferma, nel caso in esame, il mancato rispetto del requisito della continenza delle
forme è comunque valida.
In tema di diffamazione a mezzo stampa, è scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca la
condotta del giornalista che riporti dichiarazioni lesive della reputazione di alcuni magistrati
della Procura della Repubblica rilasciate in sede di intervista da un autorevole parlamentare,
in quanto, ancorché la causa di non punibilità ex art. 68 Cost. non si comunichi dal
parlamentare al concorrente, deve, tuttavia, ritenersi operante, in tal caso, la causa di
giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen..
L'immunità assicurata ai membri del Parlamento che esprimano opinioni nell'esercizio delle
loro funzioni, che configura una mera causa di non punibilità, trova applicazione sempre
all'interno degli istituti parlamentari e, in presenza del cosiddetto nesso funzionale, anche
all'esterno, ancorché vertendosi in tema di diffamazione, non siano rispettati i tre parametri
che devono connotare l'esercizio del diritto di cronaca, il rispetto della verità, la rilevanza
sociale e la continenza.
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-11-2010) 25-01-2011, n. 2384
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il GUP presso il Tribunale di Roma ha emesso, in data 13.4.2010, ai sensi dell'art. 425 c.p.p.,
sentenza di NLP nei confronti di N. A. perchè il fatto a lei ascritto non costituisce reato e nei
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confronti di S.A., M.P., C. A., L.P., Lo.Ni., C.P. G., F.P., Bi.Lu., P.R., Ch.Gi.Ma., B.M. in ordine ai
reati loro relativamente ascritti perchè il fatto non sussiste.
N.A., all'epoca parlamentare di Alleanza Nazionale, è imputata di diffamazione aggravata e
continuata a mezzo stampa in danno di La.Al., procuratore della repubblica presso il Tribunale di
Vibo Valentia, per aver rilasciato più dichiarazioni all'agenzia ANSA, dichiarazioni, in ipotesi di
accusa, lesive della reputazione del predetto.
Sgherri, giornalista dell'ANSA, è imputato del medesimo reato, Ba. del delitto ex art. 57 c.p. in
relazione alla condotta di S., Co., giornalista del quotidiano (OMISSIS), è imputato di diffamazione
a mezzo stampa del La. e del reato ex art. 684 c.p. e art. 144 c.p.p. per aver pubblicato il contenuto
di intercettazioni telefoniche disposte nel corso di attività di indagine coordinate dalla Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Salerno, L. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta del
Co., F., giornalista della (OMISSIS) è imputato di diffamazione a mezzo stampa in danno del La.;
del medesimo reato (ma con riferimento ad altro articolo pubblicato sul medesimo giornale) è
imputato Lo., nonchè del reato ex art. 684 c.p. e art. 114 c.p.p. (come Co.), C. del delitto ex art. 57
c.p. in relazione alla condotta di Fr.e.Loprejato,. B., giornalista del (OMISSIS), è imputato di
diffamazione a mezzo stampa in danno del La., P. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla
condotta del Bi., Ch., giornalista del (OMISSIS), è imputato di diffamazione a mezzo stampa in
danno del La. e B. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta del Ch..
I fatti sono contestati come commessi nel (OMISSIS).
Il GUP ha ritenuto: a) che per N. fosse operante la insindacabilità ex art. 68 Cost. e L. n. 140 del
2003, art. 3, sussistendo il ed nesso funzionale tra la sua attività di parlamentare e le dichiarazioni
rilasciate all'ANSA (e "rilanciate" dagli altri giornali), b) che per i giornalisti fosse operante la
scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca, essendosi, in sintesi, gli stessi limitati a pubblicare
stralci delle dichiarazioni (e quindi sostanzialmente di un'intervista) della N., c) che
conseguentemente il delitto di omesso controllo da parte dei direttori delle relative testate
giornalistiche fosse insussistente, non essendosi verificato l'evento (il delitto di diffamazione) che,
con la loro condotta omissiva, essi non avrebbero impedito.
Tale decisione è impugnata (con "appello" riqualificato correttamente, nell'ordine di trasmissione,
ricorso) dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e con ricorso per Cassazione
dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma. Il Primo lamenta che le avventate
affermazioni della on. N. hanno certamente leso la reputazione e il decoro del Procuratore della
Repubblica presso il, Tribunale di Vibo Valentia.
La predetta, in quanto componete della Commissione parlamentare antimafia, non poteva ignorare
quali sono le sfere di competenza degli organi giudiziari in campo penale. Conseguentemente non si
può non ritenere che le sue immotivate accuse al La. siano state formulate in esecuzione di una
precisa volontà denigratoria.
Le affermazioni sono non rispondenti al vero.
La parlamentare aveva la possibilità e il dovere di documentarsi meglio. La esimente ex art. 68
Cost. non sussiste con riferimento ad affermazioni non rispondenti al vero. Inoltre, perchè possa
parlarsi di insidacabilità delle dichiarazioni extra moenia e quindi di nesso funzionale, è necessario,
non solo che tra la attività parlamentare e quella svolta fuori vi sia connessione, ma anche che le
esternazioni siano vicine nel tempo, cosa che nel caso in esame non si verifica, atteso che le
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dichiarazioni all'ANSA sono precedute da iniziative della on. N. che risalgono al 2003, al 2005 o al
febbraio 2006. Altre sono addirittura posteriori (maggio 2007).
Quanto ai giornalisti e ai direttori dei relativi quotidiani, non può farsi a meno di rilevare che essi
hanno pubblicato notizie false, assorbendo acriticamente le dichiarazioni della N., non
sottoponendole ad alcun controllo, assumendo, solo in apparenza, una posizione di neutralità ed
equidistanza, ma, in realtà, fungendo da vera a propria cassa di risonanza dei messaggi denigratori
che la parlamentare ha lanciato nei confronti del La.. Certo poi non si può parlare di diritto di critica
in quanto la critica deve pur trovare riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà
fattuale. Anche nel prosciogliere alcuni giornalisti dal reato ex art. 684 c.p. - art. 114 c.p.p. il GUP
ha violato la legge, confondendo il momento in cui il contenuto delle intercettazioni, in quanto reso
noto alla difesa, cessa di essere processualmente coperto, con il momento in cui esse possono essere
pubblicate sulla stampa.
Il Procuratore generale deduce violazione di legge in quanto il &UP sostiene che le esternazioni
della on. N. non sarebbero state dirette a screditare il La., per poi aggiungere che le stesse, a ogni
buon conto, sono "coperte" da collegamento funzionale con l'attività parlamentare della predetta. In
realtà, non possono farsi rientrare nella prerogativa della insindacabilità le dichiarazioni che
possano vantare un collegamento meramente soggettivo, in quanto semplicemente poste in essere
da un soggetto che è parlamentare. Le dichiarazioni della N. poi non rispondono alla obiettiva verità
dei fatti e dunque non possono neppure ricondursi al legittimo esercizio del diritto di critica. Il GUP
trascura di ricordare che le indagini gestite per competenza ex art. 11 c.p.p. dalla Procura
Repubblica Salerno sono state originate da una lunga e complessa attività di accertamento iniziata
proprio dalla Procura Repubblica Vibo Valentia e che dunque non si può accusare quel Procuratore
di inerzia o peggio di collusione con chicchessia. Stesse considerazioni devono essere fatte sui
giornalisti, i quali non possono invocare la scriminante del diritto di cronaca, atteso che il cronista
non può limitarsi a riportare le affermazioni del parlamentare, senza operare i doverosi riscontri e
accertamenti. Entrambi i ricorsi sono infondati e meritano rigetto.
L'art. 68 Cost. (e la L. n. 140 del 2003, art. 3) non introducono nell'ordinamento una causa di
giustificazione, ma una mera causa di non punibilità (ASN 200815323-RV 239481; ASN
200743090-RV 238494, contro ASN 200638944-235332). Dunque la insindacabilità parlamentare
trova applicazione sempre all'interno degli istituti parlamentari e, in presenza del c.d. nesso
funzionale, anche all'esterno, anche se, in tema di diffamazione, non vengono rispettati i tre
parametri che, per jus receptum, devono connotare l'esercizio del diritto di cronaca (e, con qualche
precisazione, anche di quello di critica): il rispetto della verità, la rilevanza sociale e la continenza.
Non è dunque esatta l'affermazione contenuta nel ricorso del Procuratore della Repubblica, in base
alla quale l'esimente ex art. 68 Cost. non si applica alle espressioni non rispondenti al vero.
E ciò non perchè il parlamentare abbia il diritto di mentire (nel nostro ordinamento tale "diritto" è
riconosciuto, entro certi limiti, solo all'imputato), ma perchè ha diritto di non esser perseguito anche
se ha mentito e se, mentendo, ha diffamato taluno;
sempre, si intende, che ciò abbia fatto nell'esercizio delle sue funzioni.
Per tale ragione, la causa di non punibilità predetta è stata accostata alla c.d. immunità giudiziale ex
art. 598 c.p., immunità strettamente funzionale al libero esercizio del diritto di difesa (come l'altra è
funzionale all'esercizio della attività parlamentare intra moenia e, in determinate condizioni, anche
extra moenia).
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Se dunque l'on. N. ha, nella sua denunzia, sovrapposto i ruoli di PM e di GIP, ciò è un fatto davvero
singolare, provenendo le affermazioni da una componete della Commissione antimafia, da una
persona la quale, dunque, dovrebbe avere ben presenti le distinzioni e le attribuzioni tra i vari uffici
giudiziari, ma, che si tratti di errore o di callida e dolosa "confusione" che ha generato discredito per
il Procuratore di Vibo Valentia, la cosa resta penalmente irrilevante, se "coperta" dal dispositivo
dell'art. 68 Cost..
Al proposito, il GUP ha ritenuto la sussistenza del c.d. nesso funzionale tra la attività svolta dalla N.
all'interno degli organismi parlamentari e quella veicolata verso l'esterno, anche attraverso interviste
rilasciate a più di un giornalista.
E' rimasto accertato in punto di fatto (non è negato neanche dai ricorrenti) che nel 2006 e negli anni
precedenti (come in quelli successivi) la predetta parlamentare si era occupata diffusamente delle
problematiche inerenti la gestione degli Uffici giudiziari in Calabria, anche in relazione all'arresto
di un magistrato, presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia, per sospette
collusioni con ambienti mafiosi.
Al proposto il GUP rileva che la N. lancia accuse piuttosto generalizzate sugli uffici giudiziari di
Vibo, addossando (con una qualche approssimazione "tecnica", evidentemente) alla Procura la
responsabilità di alcune archiviazioni e della quasi completata restituzione a un boss di ndrangheta
di un immobile sequestrato tempo prima.
Emerge dagli atti che la predetta parlamentare, in data 9.2.2006, aveva presentato interrogazione al
Ministro della Giustizia per conoscere per qual motivo fossero stati restituiti, un mese dopo il
sequestro, beni a un capomafia, in base a un "cavillo giuridico".
In altra occasione, la parlamentare espresse il suo sconcerto per il fatto che tale Ma.Pa.,
"personaggio" evidentemente di rilievo, era stato ricoverato, lasciando il carcere, in ospedale e
autorizzato a recarsi a visita odontoiatrica.
La N. poi accusa la Procura di Vibo di avere ottenuto scarsi risultati pratici e di non contrastare con
efficacia la ndrangheta, rilevando che la Procura di Catanzaro, "lavorando sugli stessi documenti"
archiviati da quella di Vibo, aveva fatto emergere fatti penalmente rilevanti.
Sulla base di tali elementi, il giudicante ha ritenuto, si diceva, la sussistenza del nesso funzionale tra
la attività intra e quella extra moenia della parlamentare predetta.
L'assunto, a ben vedere, non è efficacemente contrastato dagli impugnanti.
Il primo di essi, dopo la irrilevante notazione sulla non veridicità (rectius. non precisione) delle
dichiarazioni della N., aggiunge che la attività parlamentare "connessa" a quella extra parlamentare
sarebbe troppo risalente nel tempo (ma trattasi di valutazione manifestamente infondata, avendo,
come si è premesso, la N. da lungo tempo e, almeno, fino a tutto il 2007 insistito in Parlamento su
questi temi).
Il secondo rileva che proprio a seguito dell'input investigativo proveniente dalla Procura di Vibo,
altro ufficio del PM (quello di Salerno) era stato in grado di sviluppare concludenti indagini.
Conseguentemente, conclude, accusare il Procuratore calabrese di inerzia o collusione costituisce
attività diffamatoria.
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Il che, osserva questo Collegio, ben può esser vero, ma, in tal caso, per il motivo sopra anticipato
(operatività dell'art. 68 Cost.), senza alcuna conseguenza penale.
Quanto alla attività dei giornalisti, il giudicante ritiene correttamente che essa sia scriminata in base
al diritto di cronaca.
Riportare e diffondere attraverso i media le dichiarazioni di un'autorevole parlamentare su fatti di
indubbia rilevanza costituisce, in base all'arresto giurisprudenziale di cui SS.UU. sent. n. 37140 del
2001, ric. Galiero, RV 219651) esercizio, appunto, del diritto di cronaca.
Sostengono i ricorrenti che i giornalisti avrebbero svolto funzione di "cassa di risonanza" per le
denigratorie affermazioni provenienti dalla N., non avendo assunto la doverosa posizione di
neutralità che la giurisprudenza richiede.
Trattasi però di affermazione apodittica che i ricorrenti non ancorano ad alcun dato fattuale.
Dunque, se è pur vero che la causa di non punibilità ex art. 68 Cost. non si "comunica" dal
parlamentare al concorrente (e certo non al giornalista che diffonda sic et simpliciter la notizia
diffamatoria sui mezzi di informazione: cfr. ASN 200743090-RV 238494, oltre alla già ricordata
ASN 2OO815323-RV 239481), non di meno il "diffusore mediatico" deve ritenersi operante in
presenza di una causa di giustificazione (diritto di cronaca) se la pubblicazione della notizia avviene
con le modalità dell'intervista, come individuate dalla ricordata pronunzia delle SS.UU. Quanto al
reato ex art. 684 c.p. e art. 144 c.p.p., la relativa condotta deve ritenersi insussistente, se è vero,
come è vero, che i giornalisti appresero le notizie, non direttamente dalle fonti processuali, ma
indirettamente, attraverso la interrogazione parlamentare della N..
Poichè poi i delitti commessi col mezzo della stampa, rappresentano l'evento del delitto omissivo ex
art. 57 c.p., consegue che in assenza dei primi, non può ritenersi realizzato il secondo (tra le altre:
ASN 200319827-RV 224404).
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi.
L'immunità assicurata dall'art. 68 Cost. ai membri del Parlamento che esprimano opinioni
nell'esercizio delle loro funzioni non si estende al direttore del giornale che non abbia
impedito la pubblicazione della notizia diffamatoria coperta dalla detta immunità, la quale
non integra una causa di giustificazione estensibile al concorrente ma costituisce una causa
soggettiva di esclusione della punibilità della quale non può giovarsi il compartecipe privo
della medesima guarentigia.
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-03-2010) 08-04-2010, n. 13198
Svolgimento del processo
1 - Il 26.11.07 B.M. era stato assolto, ai sensi art. 530 c.p.p., comma 2, perchè il fatto non sussiste
dal Tribunale di Milano per il delitto di cui agli art. 57 e 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13.
Il delitto gli era imputato nei confronti dei magistrati C. G. e L.F.G., quale direttore responsabile de
" (OMISSIS)", per la pubblicazione in data (OMISSIS) di un articolo a firma di I.R. ( L.), dal titolo
" (OMISSIS)" e sottotitolo " (OMISSIS)Ultimo(OMISSIS)".
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Non si era invece proceduto contro I., parlamentare, ai sensi dell'art. 68 Cost., comma 1 per
decisione del Senato (e, come rammenta il ricorso, perchè di seguito la Corte Costituzionale con
ordinanza n. 253/07 dichiarava improcedibile il conflitto di attribuzione sollevato dal GIP).
2 - La Corte di appello, su impugnazione del Procuratore della Repubblica, del Procuratore
Generale e delle Parti Civili ha invece condannato B. alla pena sospesa di m. 4 ree. ed in solido con
la Società Europea Edizioni spa, responsabile civile, alla somma a titolo di riparazione di Euro
5.000 ed al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 50.0000 a favore di ciascuna Parte.
La sentenza, seguendo i dettagliati motivi di appello, ritiene anzitutto che il Tribunale abbia
erroneamente limitato la valutazione alla condotta dell'articolista, senza tener conto di quella del
direttore, che è colposa per inosservanza di legge. Ritiene quindi che lo stesso Tribunale non abbia
considerato l'intero articolo, scomponendolo in quattro episodi e delimitando l'analisi ad alcune
frasi, da cui ha tratto ragione di giustificazione dell'articolista, perciò scriminando il direttore.
Spiega che già il titolo supporta la tesi della situazione conflittuale tra magistrati e carabinieri.
Ricostruisce che l'articolo da corpo anzitutto ad un giudizio negativo sulle persone di L.F. e P. per il
silenzio (sei mesi) su un dossier consegnato a F. in partenza per (OMISSIS) dal cap. D.D. e sul
coinvolgimento di tutti i partiti politici in questo "caso dimenticato". E prosegue circa " D.M. B.
lasciato libero di colpire", a fronte del fatto che i militari che avevano ascoltato Ba. avevano
smontato la tesi di Bu. e della Procura sulle responsabilità di A., come riferito dall'infamato e
suicidato maresciallo L.A.. Quindi si occupa delle indagini nei tentati processi contro il col. D.D.,
fidato di F. ed il ten. C., collaboratore principale di Bo. (la cui vedova, quando lo incriminarono,
avrebbe detto: "è come se uccidessero P. per la seconda volta"), il col. M.G. che aveva intercettato
le telefonate di D.M. e persino il cap. D. C.S. ("(OMISSIS)"). Va avanti con "la storia dei 19 giorni
concessi a Cosa Nostra dagli uomini che catturarono il boss" che fa preciso riferimento al "giochino
che la Procura mette in scena da dieci anni: io ti iscrivo nel registro degl'indagati... tu resti
mascariato... ti tengo sulla graticola., e continua a sputtanarli", ma si tratta di "giocattolo rotto".
Ne desume che, operando una ricostruzione dal '91, l'articolo formula gravissime accuse contro C. e
L.F., distorcendo i rapporti tra carabinieri e procura di Palermo, narrati come "una guerra ai
carabinieri che non è mai finita", dimostrata dalla "persecuzione del generale M.M.". Ed attribuisce
ai magistrati il deviazionismo dai doveri istituzionali (riferisce di 44 nomi di politici ed imprenditori
non disturbati, di dossier scremati e di "stracci rimasti", di "cani attaccati" al collaboratore di
giustizia D.M., lasciato a commettere omicidi), tant'è che, rivolgendosi al Ministro della Giustizia,
al Governo, al Parlamento, al CSM, di "intervenire per far cessare questa vergogna e per liberarci
per sempre da questi professionisti dell'antimafia".
Rileva quindi che esso è corredato da una fotografia, del Generale M. fuori di edificio con l'insegna
"Comando Generale della Guardia di Finanza", con didascalia a fini evocativi di altra Arma, che
riprende l'accusa di guerra ai carabinieri con intento suggestivo.
In questa luce, ritiene superato il confine di continenza, per la scorrettezza delle espressioni usate,
quindi lo sconfinamento nel riferire opinioni ed operane ricostruzioni che trascendono nella gratuità
aggressione della sfera morale altrui. Rimarca che il Tribunale ha travisato l'effettiva valenza del
tenore espressamente allusivo con accostamenti immotivati anzitutto circa la vicenda del dossier
mafia - appalti con la "quasi Incriminazione" del gen. M. e del col. D.D. da parte di C.,
sottolineando che, disposta in proposito archiviazione, le indagini erano riaperte dopo la morte di F.
da Bo.Pa. che si riuniva segretamente nella caserma con i due ufficiali. L'accostamento vuoi far
intendere quasi la condanna a morte dei magistrati della procura nei confronti dello stesso Bo. (pure
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già il Tribunale rilevava C. sopraggiunto nel '93 e l'interrogatorio di M. connesso alla ritardata
perquisizione del covo di R.). Il termine "suicidato" riferito al m.llo L. fa passare per assassini i
magistrati ed è congiunto al rilievo che, poichè escono subito dalle carceri i mafiosi che si pentono,
"di questo passo... finirà che nelle carceri ci saranno più carabinieri che delinquenti". L'asserto che
D.M.B. lasciato libero di "ricostruire la cosca", sicuro d'impunità, perchè aveva "i cani attaccati",
cioè i magistrati, si sposa con l'espressione riferita da S. "è provato" ( D.M. aveva accusato A.), per
dimostrare la condotta deviata dei magistrati.
Ciò posto, rileva che l'articolo ripropone vicende già trattate da J., eletto nel 2201, nel (OMISSIS) "
(OMISSIS)", già oggetto di numerosi giudizi, definiti con sentenze irrevocabili di condanna,
prodotte ed utilizzate quali parametri di riferimento. Ed infine si sofferma sulla vicenda dei
procedimenti contro il ten. C. ed il ten. col. Me., per rimarcare, anche a stregua di documenti
prodotti dalla p.c. L.F. in giudizio, una confusione del Tribunale sui tempi e la intempestività di
comunicazioni relative a confidenze di S. e sull'episodio relativo alla cattura di R. con il perchè del
procedimento contro M. e D.C. per il ritardo nella perquisizione (v. sopra). Sottolinea che
l'espressione usata in proposito, "giochino rotto", induce il lettore a sospettare un fine oscuro e
gravemente diffamatorio, in quanto lascia intendere disonestà intellettuale ed istituzionale.
Esclude rilievo all'obiezione difensiva che nella specie il direttore non poteva esercitare il contrito
sull'operato di un parlamentare, perchè è alla sua veste di giornalista che bisogna por mente. E
sottolinea le ragioni di colpa di B., che doveva bene essere avvertito circa il personaggio e le
condanne da lui riportate. Infine opera le quantificazioni e ritiene estensibile la riparazione
pecuniaria di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 12 per ragioni storico - sistematiche al direttore
responsabile.
3 - Il ricorso (Avv. Lo Giudice) denuncia: 1 - ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a,
l'esercizio di une potestà riservata dalla legge ad organi legislativi (la definitività della decisione del
Senato, rimarcata nell'ordinanza della Corti Costituzionale n. 253/57 d'improcedibilità del conflitto,
impone dichiararsi non doversi procedere anche nei confronti dell'imputato); - art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. b, violazione art. 68 Cost. e L. n. 140 del 2003, art. 3; art. 59, 51 e 57 c.p. e L. n. 47
del 1948, art. 13 in ordine alla sussistenza del reato di omesso controllo (la Corte d'appello non
poteva pronunciarsi contro B., concludendo che "non esiste il diritto di offendere", data la
connessione dell'opinione all'esercizio della funzione parlamentare - 7. Cass., Sez. 5^, n. 38944/06,
Sgarbi - che fa venir meno l'illiceità del reato presupposto che costituisce l'evento, sicchè non può
ritenersi l'omesso controllo); vizio di motivazione sotto i tre profili previsti nella lett. e; 2 - art. 606
c.p.p., comma 1, lett. b, in relaz. art. 68 e art. 3 Cost. e L. n. 140 del 2003, violazione artt. 51, 57 e
59 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 per erronea esclusione della sussistenza della scriminante anche
sotto il profilo dell'esercizio del diritto di cronaca, posto che, la L. n. 140 del 2003, art. 3 in
attuazione del disposto costituzionale ha specificato l'insindacabilità (ispezione, divulgazione,
critica, denuncia politica connessa alla funzione anche fuori del parlamento). Inoltre la sentenza si
contraddice, in quanto pur ritenendo non consentita una censura preventiva del direttore
responsabile, si appoggia alle caratteristiche del personaggio (pg. 46), che appunto esercitava la sua
funzione extra moenia; 3 - violazione delle norme penali suindicate e vizio di motivazione, in
relazione all'esercizio del diritto di cronaca e critica - violazione art. 27 Cost. - travisamento dei
fatti. La sentenza non spiega perchè il contenuto dell'articolo sia da ritenersi falso, perchè si ritenga
omesso il controllo, perchè sarebbero diffamatori titoli e sottotitoli ed il risalto dell'articolo (dato in
sè neutro) dovrebbe intendersi sintomo di illiceità. Difatti non si rapporta alle emergenze
documentali ampiamente visitate nella sentenza di 1 grado (il motivo trascrive i brani rilevanti della
stessa sentenza circa dossier D. D. ed indagine mafia - appalti; processo A. e suicidio del
maresciallo dei Carabinieri L.A.; ritardato arresto di D.M.B.; arresto di R.T. in data 15.1.93 e
perquisizione ritardata di diciannove giorni del suo covo).
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Per tal via la sentenza riformata ha dimostrato anzitutto che i procedimenti sono stati effettivamente
instaurati ed ha concluso che la presa di posizione di I. è ancorata a fatti di storia processuale.
Inoltre è gratuita la valutazione d'incontinenza (v. gli accostamenti stigmatizzati, di cui il motivo
offre diversa lettura, e la sostenuta "allusività", concetto non riconoscibile, di titoli ed immagini)
mentre non tiene conto che al ruolo ed ai maggiori poteri del criticato corrispondono maggiori
responsabilità e quindi assoggettamento a penetrante attività di controllo dei cittadini, anche
attraverso il diritto di critica (Cass. Sez. 5^ n. 11662/07, I.), sino a travisare che il titolo incentrato
sulla parola "scontri" non è per nulla evocativo del "deviazionismo dai doveri istituzionali" che vi
legge la Corte); 4 - violazione artt. 187, 521 e 533 c.p.p., perchè la sentenza esorbita dai fatti che si
riferiscono all'imputazione per giungere a ritenere quasi un vilipendio delle istituzioni,
incentrandosi sul titolo la cui lettura fa leva sul metro irriconoscibile del lettore frettoloso, senza por
mente al dovere di dimostrare l'omesso controllo ogni ragionevole dubbio; 5 - violazione artt. 62
bis, 69, 132 e 133 c.p., erronea applicazione della pena e del bilanciamento delle circostanze - vizio
di motivazione (l'omessa considerazione della natura dell'articolo ha condotto all'eccesso nella
scelta della pena detentiva, travisando, la diffusione dell'opinione legittima del parlamentare, pur
prima riconosciuta e travisando la natura colposa in rapporto anche al giudizio di equivalenza); 6 violazione artt. 57 e 185 c.p., artt. 1123, 1227, 2059 e 2043 c.c., L. n. 47 del 1948, 12 - vizio di
motivazione in ordine alla liquidazione del danno ed alla riparazione pecuniaria, per omessa
motivazione sulla quantificazione del danno non patrimoniale (cfr. Cass., S.U. civili, n. 26972/08),
peraltro da rapportarsi alla specifica condotta dell'imputato (colposa) mentre la riparazione (Cass.
pen., Sez. 5^, n. 1188/02 e Cass. Sez. 3^, civile n. 17385/07, è meramente accessoria al reato di
diffamazione a mezzo stampa e non concerne perciò il direttore r. ed il responsabile civile).
4 - Al ricorso le P.C. (Avv. prof. C. Smuraglia) hanno fatto seguire memoria di replica.
Motivi della decisione
1 - Il 1 motivo di ricorso è infondato.
Anzitutto, deducendo ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, travisa che la Delib. del Senato,
divenuta definitiva per decisione della Corte Costituzionale, giusto l'art. 68 Cost., comma 1 e L. n.
140 del 2003, art. 3 ha escluso bensì che il suo membro I., che aveva redatto l'articolo, potesse
essere chiamato a rispondere, affermandone l'opinione espressa nell'esercizio di funzione
parlamentare, ma non che potessero esserlo altri, che non erano membri del parlamento.
Pertanto il Giudice di appello, pronunciandosi nei confronti del ricorrente B., direttore del
quotidiano che aveva pubblicato l'articolo, cui non si riferiva e non poteva riferirsi la preclusione,
non hai all'evidenza esercitato una potestà riservata dalla legge al Senato della Repubblica.
Argomentando oltre, il ricorso fa riferimento a sentenza di questa Corte, n. 38944/06, che aveva
ritenuto l'esimente di cui all'art. 68 Cost. estensibile al direttore di una trasmissione televisiva,
imputato di concorso nel reato di diffamazione commesso da un parlamentare.
Ma perciò, deducendo il mancato rispetto della legge, sì rifa a principio non condivisibile.
Va premesso che le funzioni parlamentari si esercitano mediante manifestazioni di pensiero che,
vite a scelte politiche, rispondono all'interesse collettivo. Per questa ragione l'art. 68 riserva, come
elevato, l'esenzione alla persona munita della qualità di parlamentare per le sole opinioni espresse
ed i voti dati nell'esercizio delle sue funzioni. E l'esenzione ha natura processuale. Il suo
fondamento sostanziale, difatti, non concerne il tenore dell'opinione. Ma è ispiralo alla necessità di
sottrarre le determinazioni dei parlamentari al condizionamento implicato dal processo per l'offesa
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arrecata al diritto dei singoli. Come tale non si correla alle modalità di esercizio della libertà di
manifestazione di pensiero, riconosciuto a "tutti" dall'art. 21, perciò anche al parlamentane quale
cittadino.
La libertà di manifestazione invece non preclude il processo, perchè trova limite inderogabile nel
rispetto del diritto del singolo, che può agire in giudizio per la sua tutela (art. 24). E se l'offesa
dipende dal fatto costitutivo di reato, il pubblico ministero è tenuto per Costituzione (art. 112) ad
esercitare l'azione penale. Ne segue che il parlamentare, che non risulti aver espresso opinione
nell'esercizio immediatamente riconoscibile della sua funzione, può essere convenuto o imputato.
Proprio per questa ragione la L. n. 140 del 2003 attuativa dell'art. 68 Cost. attribuisce a ciascuna
Camera parlamentare il riconoscimento che l'Opinione risulta espressa da un proprio membro
nell'esercizio della sua funzione, ed all'uopo prevede ambiti funzionali anche fuori del Parlamento
("extra moenia", come ritenuto dal Senato nella specie). Ma non autorizza perciò la stessa camera a
deliberare l'esenzione di persone che non ne siano membri, meno che al giudizio sull'offensività
dell'opinione o a ravvisare, secondo legge comune, una causa di non punibilità. Tanto spetta al
giudice che, se la Camera lo travisa, può sollevare conflitto di attribuzione.
Conclusivamente la delibera di esenzione da responsabilità del parlamentare non è estensibile a
soggetto diverso e non esclude il reato o la punibilità, cosa che solo il giudice che applica la legge
che concerne l'esercizio della manifestazione di pensiero da parte di tutti può stabilire. tanto
premesso, l'analisi delle norme penali dimostra irrilevante che a B., quale direttore responsabile,
non sia stata attribuita ai sensi dell'art. 110 c.p. l'azione atipica di contributo doloso all'offesa
cagionata, azione che sarebbe stata comunque sua, ancorchè concorrente con quella tipica
dell'autore dell'articolo, perchè assorbente dell'omissione qualificata da cui è scaturito l'evento.
Difatti, il fatto di non aver impedito la pubblicazione dell'articolo offensivo integra per sè, ai sensi
dell'art. 40 cpv. c.p., l'estremo obiettivo di reato autonomo (come riconosce infine il ricorso).
Ha la questione non si pone già in caso di concorso perchè, si è detto, seppure la disposizione
dell'art. 68 Cost. ha un fondamento sostanziale nell'interesse collettivo, come ria rammentato la
Corte Costituzionale (v. citazione nella sentenza di questa Corte di cui oltre), si connette alla qualità
di chi esercita una funzione parlamentare. Pertanto l'esenzione cui all'art. 68 Cost. non si comunica
ai sensi dell'art. 119 cpv. c.p. ai concorrenti, perchè non è oggettiva, ma soggettiva (comma 1),
sicchè non esclude il disvalore del fatto, ma solo la responsabilità del parlamentare, In sintesi, per
quanto interessa, l'esenzione di cui all'art. 68 Cost., è sicuramente esclusa nel caso dell'art. 57 c.p.,
come puntualmente già spiegato in sentenza di questa Corte (Sez. 5^, n. 15323/08, P.C. Rutelli in
proc. Cervi), che si pone in contrasto con quella citata dal ricorso.
2 - Il ricorso trascina l'errore sull'esenzione, nei motivi che concernono la motivazione, con
travisamento di due aspetti che esigono distinte premesse.
La prima è quasi ovvia. Pur condividendo l'opinione di una parte politica e persino qualificandosi
organo di stampa di un partito, che serva ai suoi parlamentari per esprimere opinioni virtualmente
traducibili in leggi dello Stato, qualsiasi quotidiano non diviene strumento legale della funzione
istituzionale, ma resta libero mezzo di diffusione di notizie ed opinioni.
Perciò è evidente che altro è la divulgazione a mezzo stampa della notizia dell'opinione
pubblicamente espressa da un parlamentare, altro la pubblicazione della stessa opinione offerta al
quotidiano, intervistato o autore dell'articolo che sia. In quest'ultimo caso, se l'articolo non si
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contiene nei limiti del rispetto dei diritti delle persone, benchè l'autore dell'opinione sia poi esentato
dal processo, il direttore responsabile risponde della pubblicazione.
L'altra concerne il controllo del metodo adottato dal Giudice nelle sue valutazioni.
Svolgendo minuta analisi (v.r.), la sentenza spiega che l'articolo opera una complessa
rappresentazione di fatti avvenuti in lungo arco di tempo che, attribuiti a persone determinate,
costituiscono premessa per giudizi sulle loro qualità, culminanti in attribuzione di assoluto
disvalore.
La motivazione da all'uopo conto dei dati e dei criteri adottati per valutarli (art. 192 c.p.p.).
La censura di motivazione è manifestamente infondata circa l'offensività dei riferimenti
dell'articolo, al di là di alcune sottolineature che fanno grazia del senso che il Giudice ha tratto dal
contesto. Il tema ammissibile si confina dunque nella verifica del rispetto dei limiti della
scriminante dell'esercizio del diritto, di cronaca o critica che sia. E va anzitutto rammentato che essa
è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il
loro rilievo per l'interesse pubblico ed infine la continenza nel darne notizia o commentarli.
La questione a prima vista si complica nel caso di commistione delle notizie con i commenti.
La cronaca ha per fine l'informazione, perciò consiste nella mera comunicazione delle notizie. Ma
se il giornalista, pur nell'intento di darne compiuta rappresentazione, opera una propria
ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione. Se
poi l'insieme sfocia in giudizi espressi, è all'evidenza impossibile confinare l'articolo nella cronaca.
E la commistione tra cronaca e critica pone l'autore dell'articolo sul piano dello storiografo.
In tal caso, il controllo sul rispetto dei limiti nell'esercizio del diritto, se da un lato richiede il
riferimento al parametro di veridicità della cronaca, per stabilire se l'articolista abbia operato
corretta premessa per le sue valutazioni, dall'altro implica quello di continenza ed interesse sul
metro delle valutazioni che sono il fine dell'articolo. Tanto spiega, senza bisogno di particolari
riferimenti giurisprudenziali, la riconoscibilità dell'adozione da parte del giudice chiamato a
decidere del criterio di allusività, per la censura d'incompiutezza delle premesse dei fatti, intorno ai
quali risulta espressa opinione. E spiega anche quella del criterio di strumentale accostamento delle
notizie, se i fatti non risultino per sè legate in termini storici. Spiega finalmente la necessità di
interpretare le parole adottate in senso traslato (v. oltre) con riferimento al contesto espositivo.
Questo metodo è in effetti speculare a quello che implicitamente la legge richiede al direttore
responsabile, per decidere la pubblicazione di un articolo del peso di quello in discorso. Perciò ne
dimostra la colpa, se il mancato impedimento perciò rilevato dimostra il suo gratuito affidamento.
Tanto premesso la censura del rilievo in motivazione dell'affidamento nella specie operato dal
direttore all'articolista parlamentare travisa che, definendo I. "personaggio", vuoi dirlo all'evidenza
già noto anche e proprio per l'opinione che esprimeva nell'articolo.
Olfatti la sentenza spiega che B. avrebbe dovuto porre attenzione alla complessità dell'articolo di
chiara valenza polemica che si apprestava a pubblicare, viepiù che I. aveva già divulgati lo stesso
tema e che le divulgazione era già oggetto di processo. Nè poteva apoditticamente escluderne
l'offensività, per la qualità di parlamentare intanto assunta dell'autore.
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Il motivo perciò giunge ad offrire paradossalmente sostegno alla sentenza. Se difatti la qualità
assunti avrebbe potuto esentare l'autore dell'articolo de un processo, l'aggio su tale qualifica da parte
del direttore responsabile della pubblicazione, men che offrirgli analoga esenzione, ha proprio
consentito al giudice di ritenerne logicamente grave l'inosservanza dei suoi obblighi di legge.
Il 3 motivo è inammissibile, anzitutto perchè manifestamente infondato.
Sull'erronea premessa del motivo precedente, travisa che il riferimento all'instaurazione incontestata
di procedimenti da parte dei magistrati, tra cui i querelanti (peraltro con sottolineate imprecisioni di
persone e tempi), proprio per le allusioni o gli accostamenti, risulta al Giudice di merito diretta a
prospettare un loro "disegno", cui le loro singole operazioni giudiziarie sarebbero strumentali.
Nè tanto si può escludere, offrendo nel ricorso specifici contenuti all'interpretazione del Giudice d
legittimità secondo diverso criterio, o confinando il loro tenore nell'esercizio del diritto di cronaca,
se è dimostrato evidente già dai titoli e dal contesto cui la sentenza dedica particolare attenzione.
Proprio attraverso specifici rilievi, metodologicamente irreprensibili, checchè abbia ritenuto il
Tribunale, la sentenza dimostra l'esposizione dei fatti strumentale alla qualificazione come
"giochino" e "giocattolo rotto" l'operato dei magistrati (e v. l'analisi del testo per dimostrare il senso
accentuativo dei traslati anche dialettali), sino a giungere ad accusarli di "deviazionismo dai doveri
istituzionali". Ha desunto quest'ultima grave accusa proprio dall'offerta nell'articolo di espressioni
metaforiche che, per definizione, richiedono attribuzioni di significato, tant'è che il ricorso ne
propone di proprie, senza perciò stesso dimostrare erronee quelle della sentenza, che lo ha fatto,
attribuendo significato riconoscibile alle parole ed alle immagini. Nè si vede come porre in
discussione la valutazione del Giudice di merito di attribuzione a magistrati di Palermo, tra cui i
querelanti che perciò esentavano una funzione istituzionale, di un disegno articolalo della "guerra"
contro l'Arma dei Carabinieri, cioè contro una diversa istituzione. All'evidenza il disvalore
complessivo di questo giudizio si riflette sulle qualità delle persone in rapporto al compito loro
affidato dalla legge. Ed il limite del diritto di critica è ampiamente superato per diritto vivente,
senza nessuna necessità di riferimenti giurisprudenziali, benchè risulti costume diffuso nelle
manifestazioni di opinioni politiche, con travisamento che persino in quello specifico contesto in cui
la polemica consente una dilatazione di continenza, è in ogni caso inibito pervenire ad un giudizio
che involga apoditticamente le qualità delle persone.
3 - In questa luce, a riprova, il 4 motivo risulta anch'esso paradossale, prima che accademico.
Afferma che l'articolo non investe l'istituzione della Magistratura, sottolineando che i procedimenti
cui si riferisce l'articolo riguardano fatti determinati, attribuiti all'iniziativa di singoli magistrati
contro appartenenti all'Arma, sicchè cade in errore la sentenza nel motivare in termini di
"vilipendio".
Ma travisa che il Giudice rileva che già la titolazione da corpo alla "guerra all'Arma" da parte della
Magistratura, laddove l'articolo concerne organi personalmente impegnati in un compito di rilievo
assoluto, al pari degl'indagati che avevano operato nello stesso settore. Travisa inoltre che il
pubblico ministero ha il dovere costituzionale di esercitare l'azione penale contro chi si sia, senza
che ciò significhi guerra di una istituzione contro altra, per quanto rappresentativo possa essere lui
da un lato ed il carabiniere indagato, altrimenti per sè degno di rispetto e gratitudine, dall'altro. Il
che rende evidente che la sentenza stigmatizza l'articolo perchè strumentalizza le operazioni di
taluni magistrati nei confronti di taluni carabinieri, allo scopo di sostenere una guerra tra istituzioni.
Di qui anche l'incensurabilità della valutazione circa l'attribuzione ai primi di "deviazionismo".
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Il senso logico è lo stesso. La sentenza spiega in effetti che l'autore dell'articolo mirava ad attribuire
ad altri un intento politico, significato dall'invito finale ad organi supremi d'intervenire.
All'uopo ha attribuito disvalore di illegalità alle scelte dei magistrati in singole vicende,
significando strumentale il loro contrasto con l'operato di carabinieri, già collaboratori fidati di due
magistrati simbolo, che si erano occupati di mafia sino al sacrificio personale. L'articolo, perciò
sostiene un disegno inaccettabile dei magistrati. E per farlo, questo qui interessa, offende
all'evidenza le qualità dei singoli, necessarie per l'esercizio della funzione volta all'osservanza della
legge.
Orbene, poichè questa opinione politica divulgata dal quotidiano è dimostrata per lettera e
collegamenti delle parole, non serve a censurare la motivazione una replica concettuale, ma solo
dimostrarne l'evidente illogicità. Diversamente si offre una lettura alternativa, inibita in questa sede.
La sentenza spiega che l'articolo dimostra un obiettivo politico del giornalista parlamentare esentato
dal processo. E per farlo attribuisce ai magistrati un opposto obiettivo della stessa natura, con parole
ed accostamenti di cui spiega il senso, attraverso rilievi per nulla gratuiti. Quest'ultima attribuzione
accentua dunque in misura assoluta incontestabile le singole, già offensive dell'onore e decoro di chi
svolge la funzione di magistrato. Ed il rilievo datole non risulta affatto illogico.
Il direttore aveva quindi l'obbligo di impedirne la pubblicazione.
4 - Passando al trattamento sanzionatorio, la sentenza riassume gli indici adottati per sceglierlo e
determinarlo quale frutto delle dettagliate valutazioni già svolte. E la sintesi risulta ineccepibile, per
la evidente riconoscibilità dei criteri adottati.
Anzi, come si è premesso nel rispondere al secondo motivo, lo stesso ricorso paradossalmente offre
conferma della loro corretta adozione.
Il senso della sentenza, si ripete, è che l'imputato ha travisato il suo obbligo di legge, operando
avallo apodittico dell'opera del giornalista politico. Ed il motivo in esame insiste su questo aspetto,
travisando che proprio perciò la sentenza ha risposto in senso inverso. Il fatto che l'autore fosse un
parlamentare, cioè portatore di opinione politica che a-vrebbe potuto essere esentata da
responsabilità, ma già sottoposto a processo per fatto analogo commesso quando ancora privo della
qualità, avrebbe dovuto allarmare il direttore responsabile quali che fossero le sue idee personali.
Invece ha offerto sussidio al senso dell'articolo anche con titoli ed immagini, del tutto incurante
delle implicazioni per la reputazione dei singoli. Oltre è merito.
5 - L'ultimo motivo fa riferimento alle S.U. civili in materia di danno non patrimoniale.
Quello liquidato è rapportato agli stessi precisi indici di gravità della condotta del direttore
responsabile già, si ripete, illustrati nella motivazione resa nel contesto e qui incontrovertibili. Si
tratta di danno da reato d'opinione rapportato all'enormità del tema ed alle implicazioni della
contrapposizione degli offesi all'immagine di colleghi uccisi nell'adempimento degli stessi compiti,
divenuti simboli nell'opinione corrente. Di qui la gravità dell'attribuzione agli occhi dei lettori e
perciò l'entità del danno esistenziale di ciascuno, che si rapporta ad un metro immediatamente
riconoscibile.
E non si vede cos'altro avrebbe dovuto aggiungere la sentenza sul punto, posto che ha proprio
spiegato nelle pagine precedenti il perchè delle sue determinazioni sugli effetti della condanna.
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Infine la riparazione patrimoniale, confinata in termini incontestati, può essere aggiunta al danno
non patrimoniale come affermato in sentenza. E', difatti, erroneo il riferimento di principio del
ricorso. Esso confonde che l'evento di reato è proprio la diffamazione, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p.,
ancorchè l'art. 57 c.p. qualifichi in sede penale l'obbligo del direttore responsabile per sè (cioè la
condotta Emissiva), quale che sia l'evento derivato dalla pubblicazione. Ciò è tanto vero che
inversamente se si esclude l'evento non impedito, il direttore responsabile non è punibile a titolo
proprio.
L'autonomia del reato non esclude dunque l'applicabilità dell'art. 12 L. sulla stampa, come
rammenta diversa sentenza di questa Corte, Sez. 5^ n. 15114/02, allo stato incontrovertita nelle sue
argomentazioni, posto che la consecutiva Sez. 5^ n. 9297/09 si occupa di un caso di mancata
individuazione dell'autore dell'articolo e che le sentenze menzionate dal ricorso a proprio suffragio,
civili o penali; si fermano alla lettera dell'art. 12, senza operare interpretazioni logiche e di sistema.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del processo, nonchè alla
rifusione delle spese delle Parti Civili che liquida in Euro 3000 complessivi, oltre spese ed accessori
come per legge.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010
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75
4)
Concorso anomalo
Tizio decideva, con Caio e Sempronio, di “gambizzare” Francesco, colpevole di aver intrattenuto
rapporti sessuali con un altro uomo; l’accordo prevedeva che:
-Tizio avrebbe dovuto procurare una pistola;
-Caio, che non aveva mai utilizzato una pistola nella sua vita, avrebbe dovuto sparare Francesco
alle gambe;
-Sempronio avrebbe dovuto studiare le abitudini di Francesco e decidere il luogo ove porre in
essere il fatto.
Tutto veniva eseguito come da accordi e con le rispettive ripartizioni dei ruoli, solo che Caio
uccideva Francesco, sparando un colpo di pistola all’altezza del petto.
Tizio si recava da un legale.
Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., rediga motivato
parere.
Possibile soluzione schematica
In premessa si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente bisognava accennare (brevi cenni) al concorso anomalo ex art. 116 c.p., che si
realizza quando:
-più soggetti si accordano per compiere un certo reato;
-uno (taluno) dei concorrenti vuole un reato diverso da quello concretizzato;
-il reato diverso è comunque conseguenza della condotta, attiva oppure omissiva, del concorrente
anomalo.
In tali casi, anche il concorrente anomalo ne risponde, purchè l’evento diverso sia un logico
sviluppo (prevedibile) di quello accordato.
Nel caso in esame, sussiste concorso anomalo ex art. 116 c.p., relativamente alla condotta di Tizio?
Si poteva rispondere negativamente perché:
-sussiste un accordo per la commissione di un reato, così emergendo una fattispecie concorsuale;
-Tizio accetta il rischio che Caio uccida, così rendendo predicabile il dolo eventuale; l’accettazione
del rischio emerge dal rilievo che Caio non ha “mai utilizzato una pistola nella sua vita”:
procurando un’arma (pistola) ad un soggetto che non l’ha mai utilizzata, con l’accordo di
utilizzarla, comporta l’accettazione del rischio di un evento diverso rispetto a quello programmato;
-l’accettazione del rischio, da parte di Tizio, si traduce in una volontarietà, seppur indiretta (dolo
indiretto), di uccidere Sempronio; non vi è solo un prevedibile sviluppo della condotta, ma
l’accettazione cosciente di un probabile sviluppo.
Se, pertanto, Tizio agisce con dolo eventuale, allora il fatto sarà inquadrabile sotto lo schema
dell’art. 110 c.p. che prevede una sorta di simmetria degli elementi psicologici dei concorrenti
(diversamente dall’art. 116 c.p. che prevede un’asimmetria), con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1
c.p. (circostanze aggravanti comuni).
Era sconsigliabile immaginare un omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. perché:
- normalmente, in tale ultimo caso, si realizzano le lesioni (o percosse) che, poi, causalmente
determinano la morte, così che si realizza il segmento causale condotta-lesioni-morte, mentre nel
caso in esame sembra emergere il solo segmento condotta-morte;
- inoltre, nella preterintenzione non si vuole la morte, neanche nella forma di dolo eventuale,
diversamente dal caso de quo.
L'espressa adesione del concorrente ad un'impresa criminosa, consistente nella produzione di
un evento gravemente lesivo (la "gambizzazione" della vittima) mediante il necessario e
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concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo
all'uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come
esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o
per garantirsi la via di fuga.
Determinando l'aggressione con uso di siffatte armi, già di per sè, l'evidente gravissimo
pericolo per la vita della persona, il concorrente deve rispondere a titolo di concorso pieno per
l'effettivo verificarsi di ogni evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale,
oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, sebbene esso sia concretamente dovuto alla
scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di
fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di
accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso.
Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 18-12-2008) 09-01-2009, n. 337
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. - I.L., quale mandante, e A.A., quale esecutore materiale (con An.Al., deceduto), in concorso con
B.M., in appoggio logistico (con C.N., giudicato separatamente) per i sopralluoghi e per
l'avvistamento della vittima, e con S.E., addetto (con S. A. e T.F., le cui posizioni non rilevano) alla
custodia delle armi del gruppo criminale, incaricato prima del recupero dell'arma da utilizzare per il
delitto e poi della custodia del giubbotto antiproiettile indossato dall' A. nell'agguato, sono imputati
dell'omicidio e dei connessi reati in materia di armi in danno di F.A., attinto da tre colpi di pistola
cal.
9x21, di cui uno mortale al torace, nel corso di un agguato eseguito in (OMISSIS).
L'omicidio è stato contestato come aggravato dal numero delle persone, dalla premeditazione, dai
motivi abietti e dalla circostanza del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con riguardo all'intento di
vendicare l'affronto subito da I., capo di un gruppo camorristico operante nel territorio di
(OMISSIS), il cui prestigio criminale sarebbe stato leso dal fatto che Ca.Pe.St. aveva interrotto una
relazione sentimentale con lui per instaurarne un'altra con F..
Inoltre, I. è stato chiamato a rispondere (con S. A. e T. e, per una pistola cal. 7,65, anche con S.E.)
dei delitti di detenzione, porto e ricettazione di numerose armi, commessi al fine di agevolare le
attività del gruppo criminale a lui facente capo, e dei reati di violenza privata e lesioni personali,
aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, in danno della Ca. per costringerla ad interrompere la
relazione con F., intimandole di lasciare il comune di (OMISSIS) attesa la sua posizione di referente
malavitoso in quella località.
Secondo l'accusa, l'azione di fuoco era stata ideata e organizzata da I., che aveva manifestato e più
volte ribadito l'intenzione, nei giorni immediatamente precedenti l'agguato, di far eliminare prima la
donna e poi il rivale da uomini del suo gruppo;
An., alla guida di una motocicletta precedentemente rubata, aveva accompagnato sul luogo del
delitto A., il quale aveva esploso i colpi di pistola contro F., mentre B. e C., a loro volta, si
trovavano a bordo di un'autovettura in appoggio ai primi.
L'ipotesi accusatoria trovava conferma, innanzi tutto, nelle propalazioni di S.E., nipote di I., e in
quelle di C.. Il primo ammetteva di avere consegnato al fratello A., il giorno dell'omicidio, una
pistola cal. 7,65 da tempo detenuta per conto dello zio e un giubbotto antiproiettile ricevuto poco
dopo le ore 12 di quel giorno da A., dal quale s'era rifiutato di ricevere un'altra pistola
sospettandone l'uso delittuoso pregresso: dichiarazioni, queste, confermate da A. e T.. Il C., dopo
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avere precisato che obiettivo della spedizione punitiva organizzata da I. erano inizialmente la Ca. e
poi F. e che solo la mattina del (OMISSIS) gli era stato comunicato il mutamento dell'originario
progetto di "gambizzazione" in deliberazione omicidiaria, ammetteva di avere partecipato, con B. e
An., alle operazioni di ricerca della vittima fin dal giorno (OMISSIS), di essere stato costretto in
quell'occasione a disfarsi della pistola cal. 9x21 dopo essere stati intercettati da una pattuglia di
Carabinieri, di avere il giorno successivo svolto con B. il ruolo di "staffetta", mentre A., a bordo di
una motocicletta guidata da An., eseguiva il delitto facendo fuoco con la medesima pistola cal. 9x21
che era stata nel frattempo recuperata da S.E. su incarico dello zio.
B., attinto dalla chiamata in correità di C., corroborata dalle dichiarazioni dei collaboratori P. e Co.,
ammetteva di essersi recato la sera del (OMISSIS) a casa di I. per prendere ordini insieme a C., di
essere stato in compagnia di An. e C. il (OMISSIS) all'atto dell'incontro con la pattuglia dei
Carabinieri e in compagnia di C. la mattina dell'omicidio.
I. confessava di essere stato il mandante dell'azione di fuoco, ma ribadiva (anche nel giudizio di
appello) che obiettivo era la "gambizzazione" della vittima, mentre la morte sarebbe sopravvenuta
per un errore dell'esecutore materiale.
Siffatte dichiarazioni, parzialmente confessorie ed etero - accusatorie, erano altresì riscontrate dalle
deposizioni de relato dei collaboratori P. e Co., i quali riferivano delle confidenze ricevute da A. e
B..
2. - Alla stregua delle suddette prove dichiarative, ritenute intrinsecamente attendibili, oltre che
riscontrate reciprocamente e dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali, la Corte d'assise di
Salerno, con sentenza del 14/12/2006, affermava la responsabilità di: - I. e A. per i delitti loro
ascritti, esclusi per il secondo i reati attinenti alle armi diverse dalla pistola cal.
9x21 utilizzata per l'omicidio, e, ritenuta la continuazione, li condannava ciascuno alla pena
dell'ergastolo, oltre l'isolamento diurno per la durata di un anno; - S.E. e B. per i delitti loro ascritti,
limitatamente, quanto alle armi, alla pistola cal. 9x21 e per il S. anche della pistola cal. 7,65, e,
ritenuta la continuazione, con le attenuanti generiche prevalenti sulla contestate aggravanti diverse
da quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, li condannava ciascuno alla pena di anni venti di
reclusione.
I giudici di primo grado definivano l'omicidio "doloso", sotto la forma del dolo alternativo o
eventuale, per essersi i protagonisti indifferentemente rappresentato o per avere quantomeno
accettato il rischio che l'utilizzo dell'arma da fuoco potesse determinare la morte anzichè il
ferimento di F., e "premeditato", ravvisando altresì gli estremi dell'aggravante dei "motivi abietti" e
di quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, quest'ultima sia per l'omicidio sia per i delitti concernenti
le armi e, per il solo I., anche per i reati di violenza privata e lesioni in danno della Ca.; a I. e A.
venivano infine negate le attenuanti generiche.
3. - Nel corso del processo d'appello anche A. confessava la sua partecipazione alla fase esecutiva
del delitto, dichiarando: di avere avuto da I. l'incarico di gambizzare F. per punirlo della relazione
amorosa instaurata con la sua ex fidanzata;
di avere ricevuto la pistola e il giubbotto antiproiettile la stessa mattina e di essersi recato sul luogo
dell'agguato a bordo della moto guidata da An.; di essere stato avvisato da C. circa la presenza in
officina della vittima e di avere sparato in direzione della stessa tre o quattro colpi in ripetizione,
mirando fra le gambe e l'inguine; di avere riconsegnato il giubbotto a S. E., che s'era rifiutato di
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ricevere la pistola, e di essersi disfatto di questa in autostrada dopo avere telefonato a I., il quale non
aveva in seguito commentato l'esecuzione dell'incarico;
aggiungendo che "quando ho sparato mi sono reso conto che potevo uccidere F. ma non mi sono
fermato".
La Corte di assise d'appello di Salerno, con sentenza del 30/10/2007, condivideva integralmente,
sulla base di una valutazione di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle suddette propalazioni
confessorie ed etero-accusatorie, la ricostruzione probatoria della vicenda omicidiaria offerta dalla
motivazione della sentenza di primo grado, quanto al contesto camorristico e alla causale, ai ruoli di
I. come mandante e di A. come esecutore materiale, alla partecipazione di B. alla fase preparatoria e
a quella esecutiva in veste di "staffetta" e di S.E., che s'era prestato al recupero, la sera prima del
delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell'arma alla
"gambizzazione" di F., e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile indossato da A. il
giorno del delitto.
La Corte distrettuale confermava quindi la condanna all'ergastolo per I. e A., sul rilievo della natura
almeno eventuale del dolo omicidiario, della sussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei
motivi abietti, della immeritevolezza delle attenuanti generiche. Ritenuta peraltro l'incompatibilità
dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 con l'imputazione omicidiaria aggravata ex art.
577 c.p., nn. 3 e 4, astrattamente punibile con l'ergastolo, e riconosciuta a S. la diminuente di cui
all'art. 116 c.p., comma 2 per essere il più grave delitto omicidiario diverso dal ferimento
progettato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena per S. in anni 10
di reclusione e per B. in anni 14 e mesi 6 di reclusione.
4. - Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale presso
la Corte d'appello di Salerno che tutti gli imputati.
Il P.G., con due distinti motivi, ha dedotto: - la violazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sul
rilievo che l'interpretazione privilegiata dalla Corte distrettuale condurrebbe a palesi disparità di
trattamento, tant'è che, come conseguenza immediata, proprio all'esito del presente processo,
potrebbero fruire dell'indulto elargito con L. n. 241 del 2006 B. e S., riconosciuti colpevoli di
omicidio pluriaggravato ma con l'esclusione dell'aggravante ostativa, e non T., riconosciuto
colpevole dei meno gravi delitti di detenzione, porto abusivo di armi e favoreggiamento, con
l'aggravante ostativa; - la violazione dell'art. 116 c.p. e la contraddittorietà della motivazione,
sull'assunto che, in base alla stessa ricostruzione dei fatti operata in sentenza, si sarebbe dovuto
ritenere, nella condotta del S., quanto meno il dolo eventuale, data la consapevole accettatozie, da
parte sua, del rischio che la prospettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima
designata.
A. ha denunciato: - la violazione e l'erronea interpretazione degli artt. 110 e 575 c.p., nonchè la
mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'animus nefandi,
siccome basata sull'incerta ricostruzione della dinamica della sparatoria, trascurandosi la circostanza
che i collaboratori di giustizia avevano riferito che l'omicidio era stato frutto di un errore
nell'esecuzione dell'attentato, sicchè l'azione doveva inquadrarsi nel paradigma preterintenzionale
dell'art. 584 c.p.; - la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione circa il riconoscimento
delle aggravanti della premeditazione e di quelle di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e art. 61 c.p.,
n. 1, poichè la causale del delitto era riconducibile a un movente personale e passionale di I. e
l'aggravante cd. mafiosa era incompatibile con la pena dell'ergastolo; - la mancanza e l'illogicità
della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche e al complessivo trattamento
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sanzionatorio, non avendo la Corte territoriale considerato la genesi dell'episodio e il valore della
confessione.
I. ha dedotto gli stessi vizi denunciati nel ricorso proposto, a firma del medesimo difensore,
nell'interesse di A., lamentando, in particolare, che l'azione doveva inquadrarsi nel paradigma
dell'art. 584 c.p.p. ovvero che andava applicata la diminuente dell'art. 116 c.p..
S. ha lamentato l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 116 e 379 c.p., nonchè la
manifesta illogicità della motivazione, sull'assunto che, pure ammessa l'adesione all'originaria
condotta finalizzata al ferimento della vittima, non avrebbe potuto rispondere del più grave fatto
omicidiario commesso da altri il giorno successivo, trattandosi di un'azione autonoma del gruppo,
frutto di una nuova deliberazione cui egli era rimasto estraneo, mentre la condotta successiva di
ricezione dall' A. del giubbotto antiproiettile rilevava solo come favoreggiamento reale.
B.M. ha denunciato: - la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per non
essergli stata riconosciuta la diminuente di cui all'art. 116 c.p., pur risultando che egli si sarebbe
limitato ad "accompagnare con la macchina C. per l'avvistamento del bersaglio da eliminare",
condotta connivente, questa, non punibile e comunque da ritenere di minore rilevanza rispetto a
quella del S., cui invece detta diminuente era stata riconosciuta; - la violazione dell'art. 192 c.p.p.,
comma 3, per essere stata indebitamente ritenuta l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, in
realtà contraddittorie e non riscontrate di C..
5. - La quinta Sezione, con ordinanza in data 1/7-25/9/2008, sul rilievo dell'esistenza di un risalente
contrasto giurisprudenziale a proposito della circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991,
art. 7 (secondo alcune pronunce, la condizione per l'applicabilità di detta circostanza, costituita dal
fatto che si tratti di delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, manca per il solo fatto che il
delitto sia astrattamente punibile con tale pena, a nulla rilevando che questa, di fatto, non venga
applicata;
per altre pronunce, invece, la condizione è soddisfatta quando, pur essendo astrattamente prevista,
per il delitto del quale si accerti la colpevolezza, la pena dell'ergastolo, questa non venga di fatto
applicata, per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti o dell'esclusione di circostanze
aggravanti), ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato per
l'odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO 1. - Osserva innanzi tutto il Collegio che i ricorsi degli imputati non
pongono seriamente in discussione la ricostruzione probatoria della vicenda criminosa, offerta dalla
motivazione della sentenza impugnata alla luce delle dichiarazioni parzialmente confessorie ed
etero-accusatorie, reciprocamente coerenti e riscontrate dalle ammissioni di C. e dalle testimonianze
indirette dei collaboratori di giustizia, oltre che dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali,
quanto: - al contesto di criminalità organizzata e alla causale dettata dal risentimento di I., capo di
un gruppo camorristico, nei confronti di F. a causa della relazione sentimentale da questi intrapresa
con la sua donna nel territorio sottoposto all'egemonia del gruppo; - agli specifici ruoli di I. come
mandante e di A. come esecutore materiale; - alla partecipazione di B. sia alla fase preparatoria che
a quella esecutiva in funzione di supporto logistico e in veste di "staffetta" per i sopralluoghi e per
l'avvistamento della vittima; - alla partecipazione di S.E., prestatosi all'immediato recupero, la sera
prima del delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell'arma
alla "gambizzazione" di F., e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile a tal fine indossato
da A. il giorno del delitto.
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Si tratta di doglianze che riproducono, senza introdurre significativi elementi di novità, il dissenso,
già prospettato nelle precedenti fasi, su valutazioni squisitamente fattuali e attinenti alla capacità
persuasiva delle fonti dichiarative, laddove entrambe le Corti di merito, analiticamente
soffermandosi sulla posizione degli imputati ed enucleando gli elementi probatori a loro carico,
hanno adeguatamente valorizzato con puntuale e logico apparato argomentativo, ai fini
dell'identificazione delle singole condotte di partecipazione all'agguato omicidiario, il convergente
contenuto accusatorio dei dati suindicati.
E tale conclusione non è sindacabile in sede di legittimità perchè essa, oltre che saldamente ancorata
alle risultanze del quadro probatorio ed aderente ai principi di diritto enunciati da questa Corte in
tema di valutazione delle stesse ex art. 192 c.p.p., appare sorretta da puntuale e razionale
giustificazione, avendo il giudice di merito dato conto, senza contraddizioni o salti logici, delle
scelte eseguite e del privilegio accordato a taluni elementi probatori rispetto ad altri, mentre i
ricorrenti si limitano sostanzialmente a sollecitare una non consentita rilettura del materiale
investigativo.
2. - Ciò posto, vanno preliminarmente presi in esame i motivi di ricorso con i quali, da un lato, A., I.
e B. hanno denunziato violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine
all'affermata sussistenza del dolo omicidiario, contestando la correttezza dell'apprezzamento
giudiziale che ha escluso, per l'imputazione di omicidio, sia l'ipotesi preterintenzionale sia - con
riguardo a I. e B. - la figura del concorso anomalo, e dall'altro S. ha dedotto che la condotta
susseguente all'agguato, consistente nella ricezione da A. del giubbotto antiproiettile da lui
indossato al momento dell'esecuzione del crimine, rilevava solo come favoreggiamento reale.
Strettamente correlato a siffatte doglianze si palesa, inoltre, l'opposto motivo di gravame con il
quale il P.G. ricorrente ha prospettato la violazione dell'art. 116 c.p. e la contraddittorietà della
motivazione, con riguardo alla specifica posizione del S., sul rilievo che, in base alla ricostruzione
dei fatti effettuata in sentenza, si sarebbe dovuto configurare, nella condotta di quest'ultimo, il dolo
omicidiario nella forma eventuale.
2.1. - Ritiene il Collegio che sia privo di pregio l'assunto degli imputati, secondo cui l'asserita
responsabilità concorsuale in ordine alla partecipazione alla preordinata spedizione punitiva, che
doveva esitare nella mera "gambizzazione" della vittima, non era sufficiente per sostenere che gli
organizzatori e i partecipi si erano anche prefigurata l'uccisione della vittima come evento altamente
probabile ed accettato, addebitabile invece solo ad un errore nell'esecuzione del crimine da parte
dell'esecutore materiale, in violazione del concordato mandato di lesioni, e che, per contro, sia
fondata l'opposta censura del P.G. per il quale la fattispecie omicidiaria sarebbe ascrivibile anche al
S. a titolo di dolo eventuale, data la consapevole accettazione, da parte sua, del rischio che la
progettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima designata.
Ed invero, la Corte distrettuale, alla luce dei rilievi tecnici, delle consulenze medico-legale e
balistica e delle parziali ma significative ammissioni dei protagonisti, ha innanzi tutto ricostruito le
concrete modalità della vicenda criminosa e adeguatamente motivato circa il dolo omicidiario e non
meramente lesivo, di natura diretta e alternativa o al più eventuale, dello sparatore. La reiterazione e
la direzione dei colpi, esplosi a distanza ravvicinata, dal basso verso l'alto e contro organi vitali
quali il torace e l'addome, denotavano la diretta ed univoca volontà di colpire la vittima con esito
mortale, configurandosi quindi l'omicidio come "doloso", sotto la forma del dolo alternativo o
almeno eventuale, per essersi l'esecutore indifferentemente rappresentato o per avere accettato il
rischio che l'utilizzo dell'arma da fuoco potesse determinare la morte, anzichè il ferimento di F.. I
descritti elementi fattuali, valutati globalmente siccome parametri sintomatici dell'animus necandi
in base a consolidate regole d'esperienza, risultavano sicuramente idonei a fare inferire come certo o
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altamente probabile il verificarsi dell'evento mortale o lesivo e comunque evidente, nella situazione
concreta al momento di esecuzione della condotta, l'accettazione del correlativo rischio da parte di
A..
Quanto all'affermata, piena, responsabilità concorsuale ai sensi dell'art. 110 c.p., e non a titolo di
concorso anomalo ex art. 116 c.p., di I. e B., la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del
principio giurisprudenziale (v. Cass., Sez. 1^, 7/3/2003 n. 12610, Benigno), per il quale l'espressa
adesione del concorrente ad un'impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento
gravemente lesivo (la "gambizzazione" della vittima) mediante il necessario e concordato impiego
di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all'uso cruento e illimitato
delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per
fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga.
Determinando l'aggressione con uso di siffatte armi, già di per sè, l'evidente gravissimo pericolo per
la vita della persona, il concorrente deve rispondere a titolo di concorso pieno per l'effettivo
verificarsi di ogni evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale, oggetto dei già
preventivati e prevedibili sviluppi, sebbene esso sia concretamente dovuto alla scelta esecutiva dello
sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri
comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come
suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso.
La Corte distrettuale, dopo avere valutato con prudente e puntuale apprezzamento i dati fattuali
della vicenda delittuosa, con specifico riferimento alla causale e all'indole violenta e prevaricatoria
di I., capo di un gruppo camorristico, già rivelata dalle pregresse manifestazioni di sopraffazione nei
confronti della donna, minacciata, picchiata e costretta ad allontanarsi dal comune di residenza,
all'elevata pericolosità dei protagonisti, associati alla medesima consorteria criminale, al deliberato
intento che il corpo della vittima fosse attinto da colpi esplosi con micidiali armi da sparo,
all'eventualità non remota di una reazione pure armata della vittima o di altre persone (com'era
dimostrato, nella specie, dalla circostanza che lo sparatore era munito di un giubbotto antiproiettile)
e al contesto camorristico dell'agguato, è pervenuta, con linee argomentative logicamente
coordinate, alla conclusione che i concorrenti, nel prevedere e volere l'uso delle armi per
"gambizzare" la vittima, pure in mancanza di prova certa circa un'effettiva deliberazione
omicidiaria, abbiano comunque accettato il rischio che le gravi lesioni programmate potessero
trasmodare nell'uccisione della stessa.
L'ineccepibilità di siffatte argomentazioni rende incensurabile in sede di legittimità raffermata
sussistenza rispetto all'evento omicidiario (accanto al dolo diretto e alternativo o eventuale dello
sparatore) del dolo eventuale di concorso nella condotta dei complici, in ordine al medesimo delitto
di cui agli artt. 110 e 575 c.p..
2.2. - E però, le medesime ragioni logico-giuridiche, per le quali vanno disattese le doglianze degli
imputati riguardanti la qualificazione giuridica del fatto sub specie di omicidio preterintenzionale
ovvero di concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., convergono viceversa, a ben vedere, nel senso
della piena fondatezza del ricorso del P.G., quanto alla contraddittorietà del riconoscimento della
figura del concorso anomalo a favore di S., il quale pure aveva prestato la sua adesione, fin dai
giorni precedenti, all'azione finalizzata alla ricerca e al ferimento della vittima, mediante condotte di
significativo rilievo per la concreta realizzazione del crimine, sotto il duplice profilo, prima, della
predisposizione dei mezzi e, poi, dell'assicurazione dell'impunità, consistenti: nell'immediato
recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per la fase esecutiva da A., nella
consapevolezza della destinazione dell'arma alla "gambizzazione" di F. secondo gli ordini ricevuti
dallo zio;
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nella custodia del giubbotto antiproiettile indossato da A. il giorno del delitto e da questi ricevuto,
subito dopo l'esecuzione del crimine, per occultarlo.
Apparendo dunque configurabile per S. la consapevole rappresentazione e accettazione del rischio
che la progettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima, la sentenza impugnata va
annullata con rinvio per nuovo esame sul punto.
3. - Anche i motivi di ricorso, invero non specifici, degli imputati, riguardanti raffermata
sussistenza, in concreto, delle circostanze aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti e di
quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, o, per converso, il diniego delle attenuanti generiche,
risultano infondati, perchè il giudice di merito, con adeguato apparato argomentativo, ha
correttamente esplicitato le ragioni in fatto e in diritto che giustificavano la scelta giudiziale.
3.1. - Quanto al diniego delle attenuanti generiche per I. e A., rilievo preponderante è stato attribuito
dalle Corti di merito agli elementi della estrema gravità e riprovevolezza del fatto circostanziato nei
termini suindicati, dell'elevata intensità del dolo e della particolare capacità a delinquere desumibile
dai motivi dell'azione diretta all'eliminazione di una giovane vita, con argomentazioni dunque
adeguate e ineccepibili in sede di sindacato di legittimità. 3.2. - Premesso che elementi costitutivi
della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito
criminoso e l'attuazione di esso - elemento di natura cronologica -, tale da consentire una ponderata
riflessione circa l'opportunità del recesso, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza
soluzioni di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine - elemento di natura
ideologica -, osserva il Collegio che le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata
non meritano le anzidette censure, poichè risultano in essa adeguatamente e rigorosamente
apprezzate le ragioni della concreta individuazione di entrambi gli elementi, reciprocamente
integrantisi nell'accurata ricostruzione dei fatti.
I giudici del merito, nel quadro complessivo di una macchinazione del delitto, hanno prima
collocato temporalmente l'insorgenza del proposito criminoso e la predisposizione dei mezzi e delle
modalità esecutive dell'impresa nei giorni precedenti l'agguato omicidiario, così identificando
un'apprezzabile durata dell'intervallo intercorso fra determinazione e attuazione del proposito, ai
fini della riflessione e del recesso; quindi, hanno tratto da dati estrinseci - quali la descritta causale,
l'anticipata manifestazione e la ferma persistenza del proposito criminoso, la predisposizione di
armi da sparo, la progressiva ricerca dell'occasione propizia per l'agguato senza soluzione di
continuità - gli elementi sintomatici per la corretta identificazione del dolo di premeditazione, in
capo sia al mandante sia agli altri concorrenti, i quali hanno, tutti, consapevolmente condiviso e
prestato incondizionata adesione al comune progetto di "gambizzare" o uccidere F..
3.3. - L'aggravante dei motivi abietti ex art. 61 c.p., n. 1, contestata per il delitto omicidiario
assieme a quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, è stata ravvisata dai giudici di merito nel
proposito vendicativo del capo di un gruppo camorristico (ma recepito, consapevolmente condiviso
e fatto proprio da tutti i protagonisti della vicenda criminosa, a lui legati da vincoli familiari o
malavitosi) nei confronti dell'uomo che aveva osato portargli via la donna, avendo egli perduto, a
seguito del fermo rifiuto di questa di soggiacere alla sua volontà, insieme con il prestigio criminale,
il totale dominio fino ad allora esercitato sulla persona e sulla vita della stessa, la quale, interrotta la
relazione sentimentale con lui, ne aveva instaurato un'altra con la giovane vittima.
Orbene, ritiene il Collegio che, alla luce del comune sentire, debba reputarsi vile e spregevole un
siffatto crimine, commesso per mero spirito punitivo, dettato da intolleranza per la libertà di
autodeterminazione della donna con la quale si era instaurata una relazione amorosa, considerata
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invece come res di propria appartenenza e di cui non si è accettata l'autonomia delle scelte di vita
(v., per un caso analogo, Cass., Sez. 1^, 22/9/1997, P.M. in proc. Scarola, rv. 208773; v. anche, arg.
a contrario, Cass., Sez. 5^, 22/9/2006 n. 35368, P.M. in proc. Abate, rv. 235008).
3.4. - E, poichè la causale omicidiaria, oltre all'intento vendicativo e punitivo, risiedeva anche nella
finalità di riaffermare il ruolo e il prestigio del capo della consorteria camorristica locale insieme
con la forza intimidatoria di questa, messi in discussione dall'affronto subito da un semplice
operaio, che non intendeva riconoscerne la superiorità, nonostante gli avvertimenti e le pressioni, e
che per questo andava eliminato con gesto eclatante e dimostrativo, è stata contestata a carico degli
imputati anche la speciale aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per l'omicidio (oltre che per i
reati concernenti le armi, attesa la finalità agevolativa che il possesso delle stesse svolgeva per la
realizzazione delle attività illecite del clan camorristico, e per i reati di violenza privata e lesioni in
danno di Ca.Pe.
S., addebitati al solo I.).
Orbene, mentre l'aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 è "speciale" tanto per la
materia considerata quanto per l'effetto di aumento della pena, la circostanza di cui all'art. 61 c.p., n.
1 è, di contro, un'aggravante "comune", genericamente riferibile a tutti quei motivi che per il
particolare grado di perversità (abietti) o per la sproporzione tra movente e azione criminosa (futili)
denotano "una particolare capacità a delinquere del colpevole" (Rel. min. al progetto del codice
penale, p. 109): nè la natura e la struttura della previsione aggravatrice vengono meno a causa degli
effetti speciali sulla determinazione della pena che conseguono allorchè essa è richiamata per il
delitto di omicidio dall'art. 577 c.p., comma 1, n. 4.
A causa della latitudine della nozione di motivo abietto alcune decisioni di questa Corte hanno
ritenuto che l'aggravante comune sia configurabile quando il movente dell'azione consista nella
finalità di favorire o consolidare un'associazione di matrice mafiosa (Cass., Sez. 1^, 20/01/2000 n.
2884, P.G. in proc. Ferrara, rv. 215504; Sez. 2^, 10/11/2000 n. 13151, Gianfreda, rv. 218598; Sez.
2^, 8/7/2004 n. 44624, Alcamo, rv. 230243; Sez. 1^, 21/2/2007 n. 236284, Messina, rv.
236284). E pero, condividendosi l'assunto teorico esposto nella più recente e lucida giurisprudenza
di legittimità sul tema (Cass., Sez. 5^, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, rv. 235300; Sez. 1^, 6/11/2007 n.
1797/08, Comis, rv. 238642), deve convenirsi che in tanto non vi è materia, in astratto, per un
concorso apparente di norme tra le due circostanze aggravanti, in quanto il motivo abietto venga, in
concreto, riferito ad una ragione che non sia interamente sussumibile nel paradigma dell'ipotesi
speciale, trovando altrimenti applicazione la sola disposizione particolare che regola l'aggravamento
dei delitti commessi con il motivo, tra i tanti abietti, riconducibile al fine di agevolare associazioni
mafiose, in cui resta "assorbita" l'aggravante comune. E ciò per effetto dell'esplicita clausola di
riserva contenuta nel primo alinea dell'art. 61 c.p., che, siccome espressione del principio di
specialità, è fatta salva, mediante il richiamo all'art. 15, anche dall'art. 68 c.p., comma 1 nel caso di
circostanze complesse.
Tornando alla situazione in esame e considerato che in relazione all'omicidio la circostanza del
motivo abietto, nei termini fattuali della contestazione e dell'accertamento giudiziale, risulta
autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio
e del predominio sul territorio del gruppo camorristico locale, ritiene il Collegio che la sentenza
impugnata sia fornita di adeguata e logica motivazione ed abbia fatto buon governo del cennato
principio di specialità sul punto che la duplice ragione aggravatrice, con riferimento sia all'art. 61
c.p., n. 1 sia al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, non presenta sostanza unitaria.
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4. - Con riguardo alla statuizione della Corte distrettuale che ha escluso, per S. e B., l'aggravante di
cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ritenuta incompatibile con l'imputazione omicidiaria aggravata ex
art. 577 c.p., nn. 3 e 4, siccome astrattamente punibile con l'ergastolo, ed al conseguente motivo di
ricorso del P.G. sul punto, è necessario premettere che il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 conv. in L. n.
203 del 1991, introduttivo della circostanza aggravante del cd. "metodo mafioso" e della cd.
"agevolazione mafiosa", dispone, al primo comma, che "per i delitti punibili con pena diversa
dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di
agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso art., la pena è aumentata da un terzo alla
metà" e, al comma successivo (interpolato dalla L. n. 34 del 2003, art. 5, comma 1), che "le
circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p., concorrenti con
l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa
e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla
predetta aggravante".
In ordine al quadro normativo, va anche rilevato che la formulazione del testo del D.L. n. 152 del
1991, art. 7 si muove sulla falsariga di quanto già sancito dal D.L. n. 625 del 1979, art. 1 conv. in L.
n. 15 del 1980 (modificato dalla L. n. 34 del 2003, art. 5, comma 1), per i reati commessi "per
finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale", ed è stata riprodotta, in modo
non dissimile, nelle successive previsioni aggravatici: - del D.L. n. 419 del 1991, art. 7, comma 4,
conv. in L. n. 172 del 1992, per i delitti di cui all'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), nn. 1-6, aggravati
ex art. 111 c.p.p. e art. 112 c.p.p., comma 1, nn. 3 e 4; - del D.L. n. 122 del 1993, art. 3 conv. in L.
n. 205 del 1993, per i reati commessi "per finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale,
razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti
o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità"; - della L. n. 146 del 2006, art. 4 in tema di
"crimine organizzato transnazionale".
La circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che si
atteggia in due forme alternative, l'una a carattere oggettivo, consistente nell'impiego del metodo
mafioso nella commissione del singolo reato, e l'altra, di natura soggettiva, costituita dallo scopo di
agevolare, con il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione di tipo mafioso (Cass., Sez. Un.,
28/3/2001 n. 10, Gnalli, rv. 218377), da luogo, quindi, per i delitti punibili con pena diversa
dall'ergastolo, a un aumento della pena non inferiore a un terzo e non superiore alla metà.
Aumento che, peraltro, non può essere bilanciato dal concorso di circostanze attenuanti, poichè
l'eventuale comparazione, non esclusa dalla norma, può sfociare solo in una valutazione di
subvalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti, a meno che il giudice (secondo la lettura offerta
da C. Cost., nn. 38 e 194 del 1985, della non dissimile disposizione del D.L. n. 625 del 1979, art. 1,
comma 3) non ritenga di adottare il criterio meramente aritmetico, determinando, con distinte e
successive operazioni, le diminuzioni proporzionali della pena per le eventuali attenuanti, ma
all'esito dell'aumento dipendente dalla speciale aggravante.
5. - Orbene, le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito "se la circostanza aggravante
prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, sia applicabile ai delitti
punibili in astratto con la pena dell'ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva
diversa dall'ergastolo", quesito in ordine al quale si sono contrapposte in passato due linee
interpretative.
Secondo un primo orientamento (Cass., Sez. 1^, 14/5/2002 n. 28418, Erra, rv. 222119, e - ma
trattasi di obiter dictum - Sez. 1^, 7/3/2003 n. 12610, cit., rv. 224084), decisamente minoritario e, in
realtà, non più riproposto nella più recente giurisprudenza di legittimità, la suddetta aggravante non
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è applicabile ai delitti per i quali sia prevista in astratto la pena edittale dell'ergastolo, a nulla
rilevando l'entità della sanzione inflitta in concreto.
L'opposto, nettamente prevalente e più recente orientamento (Cass., Sez. 1^, 10/1/2002 n. 20499,
Ferraioli, rv. 221443; Sez. 1^, 17/1/2006 n. 5651, La Fratta, rv. 234054; Sez. 1^, 22/12/2006 n.
1811/07, P.G. in proc. Masciopinto; Sez. 5^, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, cit.; Sez. 1^, 21/11/2007
n. 46598, Centonza, rv. 238933; Sez. 1^, 4/3/2008 n. 14623, Abbrescia, rv. 240115; Sez. 2^,
13/3/2008 n. 13492, Angelino, rv. 239759; Sez. 5^, 16/5/2008 n. 32555, De Gregorio), sostiene,
invece, che l'aggravante può essere validamente contestata anche con riferimento ad un delitto
astrattamente punibile con l'ergastolo, fermo restando che essa potrà in concreto operare solo se, di
fatto, venga inflitta una pena detentiva diversa dall'ergastolo.
Le Sezioni Unite ritengono di condividere le ragioni che giustificano quest'ultimo indirizzo
interpretativo.
5.1. - Il punto di partenza del ragionamento che postula la soluzione condivisa dalle Sezioni Unite
muove da un'attenta lettura delle linee logico-sistematiche, che connotano e dentro le quali s'iscrive
- per i profili giuridici di rilievo sia sostanziale sia processuale - la ratio aggravatrice della norma di
cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
Occorre premettere che, attesa la centralità e la proiezione funzionale dell'atto imputativo nel
processo penale, il fatto storico, quale emerge dagli atti e dalle fonti di prova, va contestato dalla
pubblica accusa nella sua interezza, a tutela del contraddittorio e del pieno rispetto del diritto di
difesa.
Nè sembra esservi una plausibile ragione, una volta che ricorrano "metodo mafioso" o
"agevolazione mafiosa", perchè "i fatti" secondari che si riferiscono alla suddetta aggravante e che
assolvono la funzione di integrane la fattispecie criminosa tipica, non vengano contestati e non
diventino anch'essi "oggetto di prova" ai sensi dell'art. 187 c.p.p., sol perchè il delitto cui accedono
(come, nella specie, l'omicidio commesso con premeditazione o per motivi abietti ex art. 577 c.p.,
comma 1, nn. 3 e 4) sia astrattamente sanzionato, indipendentemente da essi, con la pena edittale
dell'ergastolo, finendo altrimenti l'atto contestativo di parte per avere un'influenza decisiva sulla
determinazione della pena e sulla relativa potestà discrezionale del giudice. Conclusione, questa, cui
era già pacificamente pervenuta la giurisprudenza di legittimità a proposito dell'archetipo costituito
dalla speciale aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale,
prevista dal D.L. n. 625 del 1979, art. 1 (Cass., Sez. 1, 2/12/1985 n. 965/1986, P.G. in proc.
Fernoni, rv. 171675).
Neppure potrebbe obiettarsi l'inutilità del riferimento nell'imputazione ad un'aggravante che non
determina alcun incremento del trattamento sanzionatorio, giacchè questa caratteristica hanno, ai
sensi dell'art. 72 c.p., tutte le aggravanti, comuni o non, contestate per reati già puniti con l'ergastolo
o così punibili per effetto di aggravanti diverse.
Va sottolineato, d'altro canto, che il riconoscimento dell'attenuante speciale della dissociazione
attuosa di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, da cui consegue (come da quella prevista dal D.L. n.
625 del 1979, art. 4) la sterilizzazione dell'aggravante dell'alt. 7 e la sostituzione della pena
dell'ergastolo con quella della reclusione da dodici a venti anni, presuppone necessariamente che il
fatto storico sia contestato nella sua interezza e sia valutato dal giudice nella sua portata
complessiva.
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5.2. - Mette conto soprattutto di rimarcare che la pretesa di far coincidere la remo d'irrigidimento
sanzionatorio del D.L. n. 152 del 1991 con il solo effetto dell'aumento di pena istituito dall'art. 7
tradirebbe l'intento del legislatore, che era apertamente quello di privilegiare una strategia
trasversale e complessiva di contrasto al fenomeno delle criminalità organizzata, assai più ampia e
articolata (ufficialmente annunziata nella relazione al D.D.L. 5367/C sulla conversione in legge del
D.L. n. 5, primo della serie conclusasi con il D.L. n. 152) e destinata a dispiegare una serie più
cospicua di effetti giuridici, ben oltre il momento applicativo della pena nel giudizio di cognizione,
mediante l'instaurazione di un regime processuale differenziato e di meccanismi di esecuzione della
pena in termini di più severa effettività.
L'aggravante ad effetto speciale in esame viene, infatti, ad incidere sempre, pure in difetto di
incremento della pena dell'ergastolo:
- sia sul versante delle indagini, in ordine all'attribuzione delle funzioni di pubblico ministero
all'ufficio di Procura distrettuale e di quelle di giudice per le indagini preliminari al G.i.p.
distrettuale (art. 51 c.p., comma 3-bis e art. 328 c.p.p., comma 1- bis), ai termini di durata delle
indagini preliminari, alla loro proroga e divieto di sospensione nel periodo feriale (art. 407 c.p.p.,
comma 2, lett. a, n. 3 e art. 406 c.p.p., comma 5 bis, D.L. n. 306 del 1992, art. 21 bis), ai criteri di
scelta e ai termini di durata massima della custodia cautelare (art. 275 c.p.p., comma 3, art. 303
c.p.p., comma 1, lett. a, n. 3 e lett. B, n. 3-bis, e art. 304 c.p.p., comma 2), al regime delle
intercettazioni (D.L. n. 152 del 1991, art. 13 e art. 295 c.p.p., comma 3-bis);
- sia sul terreno del dibattimento, per le particolari regole di acquisizione della prova dichiarativa
(art. 190-bis c.p.p., comma 1, art. 146-bis c.p.p. e art. 147-bis disp. att. c.p.p.);
- sia sugli effetti patrimoniali della condanna, attesa l'ipotesi particolare di confisca prevista dal
D.L. n. 306 del 1992, art. 12- sexies;
- sia, infine, sull'esecuzione della pena detentiva, quanto al divieto di sospensione della stessa (art.
656 c.p.p., comma 9, lett. a), al trattamento penitenziario differenziato (L. n. 354 del 1975, art. 4bis, comma 1, art. 21, comma 1, art. 30-ter, comma 4, art. 41- bis, art. 47-ter, art. 50, comma 2, art.
58-ter, art. 58-quater;
D.P.R. n. 230 del 2000, art. 37, comma 8, e art. 39, comma 2) ed all'esclusione dai benefici della
sospensione condizionata dell'esecuzione - cd. "indultino" - (L. n. 207 del 2003, art. 1, comma 3,
lett. a) e dell'indulto (L. n. 241 del 2006, art. 1, comma 2, lett. D).
5.3. - Deve pertanto convenirsi con la citata e più recente giurisprudenza, la quale avverte che il
D.L. n. 152 del 1991, art. 7, comma 1, nel prevedere che la pena sia aumentata da un terzo alla metà
per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, non esclude affatto, con riguardo ai reati puniti
con la pena perpetua (come nel caso di specie di omicidio commesso con premeditazione e per
motivi abietti), la contestabilità e l'operatività della speciale aggravante ad altri fini, ben potendosi
anzi conseguire l'effetto aggravatorio nell'ipotesi di esclusione, all'esito del giudizio di cognizione,
delle circostanze aggravanti comportanti l'ergastolo. La prescrizione de qua, al di là dell'ambiguità
lessicale del termine "punibili" è semplicemente diretta, in sostanza, a quantificare l'aumento di
pena applicabile alla pena detentiva temporanea, concretamente irrogata in presenza dell'aggravante
speciale, incremento che non è ovviamente ipotizzarle allorchè la pena inflitta in concreto sia invece
quella dell'ergastolo.
Tra l'altro, l'opposta opzione interpretativa, nel senso del divieto di contestazione e di
considerazione dell'aggravante speciale per i reati astrattamente punibili con la pena edittale
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perpetua, renderebbe possibili talune conseguenze prive di logica razionalità e, com'è stato avvertito
dalla più attenta giurisprudenza, seri problemi di legittimità costituzionale della disciplina
normativa per violazione del principio di eguaglianza: - sia sotto il profilo che per delitti aggravati
dalla circostanza in esame, punibili con pena diversa dall'ergastolo, potrebbero essere irrogate
sanzioni più gravi rispetto a quelle inflitte, in concreto, per delitti pure ontologicamente aggravati
dalla medesima circostanza ed astrattamente puniti con l'ergastolo in forza di altre circostanze, che
non sopravvivano tuttavia alla differente qualificazione giuridica del fatto o al giudizio di
bilanciamento con le attenuanti; - sia perchè potrebbero dispiegarsi effetti preclusivi
ingiustificatamente differenziati quanto all'accesso ai vari benefici in sede di esecuzione della pena
e di trattamento penitenziario.
5.4. - Le precedenti riflessioni convergono dunque univocamente nel senso che "la circostanza
aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, è applicabile ai
delitti astrattamente punibili con la pena edittale dell'ergastolo, quando venga inflitta, in concreto,
una pena detentiva diversa dall'ergastolo". Occorre inoltre precisare che "anche nel caso in cui
venga inflitta in concreto la pena dell'ergastolo, l'aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art.
7, pur rimanendo inerte nella determinazione della pena, va tuttavia contestata e presa in
considerazione dal giudice nel suo significato di disvalore del fatto, sì da esplicare la sua efficacia ai
fini diversi dalla determinazione della pena". 6. - Ciò posto, poichè, nella specie, la Corte
distrettuale non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto suindicato, risulta fondato il
relativo motivo di ricorso del P.G. riguardante le posizioni di S. e B..
La sentenza impugnata va dunque annullata anche per questo profilo, con rinvio per nuovo esame
sul punto ad altra sezione della Corte di Assise di appello di Salerno.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.E. e B.M., limitatamente all'esclusione
dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e, quanto al S., al riconoscimento della
diminuente di cui all'art. 116 c.p., comma 2, e rinvia per nuovo giudizio sui suddetti punto ad altra
sezione della Corte di Assise di appello si Salerno.
Rigetta i ricorsi degli imputati che condanna, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2009
Sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 cod. pen., in ordine al reato
più grave e diverso da quello voluto qualora vi sia la volontà di partecipare con altri alla
realizzazione di un determinato fatto criminoso ed esista un nesso causale nonchè psicologico
tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l'evento diverso, nel senso
che quest'ultimo deve essere oggetto di possibile rappresentazione in quanto logico sviluppo,
secondo l'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, di quello concordato, senza
peraltro che l'agente abbia effettivamente previsto ed accettato il relativo rischio, poichè in tal
caso ricorrerebbe l'ipotesi di concorso ex art. 110 cod. pen.; inoltre, la prognosi postuma sulla
prevedibilità del diverso reato commesso dal concorrente va effettuata in concreto, valutando
la personalità dell'imputato e le circostanze ambientali nelle quali si è svolta l'azione.
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-10-2011, n. 38525
Svolgimento del processo
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Con sentenza in data 14 dicembre 2010, la Corte d'assise di appello di Catanzaro, in parziale
riforma della sentenza della Corte d'assise di Cosenza del 20 dicembre 2009, riconosciute a G.E.
betta le attenuanti generiche prevalenti rideterminava in anni tre di reclusione ed Euro 600,00 di
multa la pena inflitta alla medesima per il reato di concorso in rapina aggravata. Confermava nel
resto l'impugnata sentenza, che aveva condannato - fra gli altri - P.A.D. alla pena di anni sei di
reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. Il fatto si riferiva ad una rapina in abitazione, commessa in
San Donato di Ninea il 4/7/2007, nel corso della quale una donna anziana. F.P., era stata percossa
da uno dei rapinatori, perdendo la vita a seguito delle lesioni subite.
La Corte territoriale, in particolare, respingeva le censure mosse con l'atto d'appello congiunto da
P.A.D. e G.E., in punto di affidabilità delle dichiarazioni rese dal coimputato S. (giudicato
separatamente) che risultavano riscontrate dal tenore delle conversazioni intercettate in carcere fra
P. e la sua compagna G..
Avverso tale sentenza propongono ricorso congiunto P.A. D. e G.E. per mezzo dei comuni difensori
di fiducia, sollevando tre motivi di gravame.
Con il primo motivo deducono violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all'art. 192
cod. proc. pen. e artt. 110 e 628 cod. pen..
Al riguardo, rilevato che l'accusa si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni del correo S.V., la
difesa ricorrente si duole che la che Corte d'assise d'appello abbia fatto malgoverno dei principi che
regolano la formazione della prova stabiliti dall'art. 192 cod. proc. pen., comma 3, in ordine a
credibilità del dichiarante;
intrinseca consistenza delle dichiarazioni;
riscontri esterni individualizzanti.
La difesa ricorrente dubita della credibilità del dichiarante nonchè sulla genesi e sulle ragioni della
collaborazione dello S.. Deduce l'intrinseca inconsistenza delle dichiarazioni di costui, richiamando
specificamente una parte delle dichiarazioni rese dal dichiarante in contraddittorio e caratterizzante
da una sequenza di non ricordo. Contesta inoltre che possono avere valore di riscontri esterni
individualizzanti i contatti telefonici e l'intercettazione ambientale in carcere. In particolare la difesa
riporta alcuni brani della conversazione ambientale intercettata in carcere per contestare
l'interpretazione fornita dalla corte territoriale. Quanto alla posizione della G., la difesa ricorrente
eccepisce che dalle stesse dichiarazioni accusatorie dello S. emerge che la stessa si è semplicemente
limitata ad assistere alle due riunioni senza partecipare alla discussione, tantomeno alla
preparazione del delitto. Per tali ragioni il Tribunale del riesame aveva disposto la scarcerazione
della G. per l'insussistenza del quadro di gravità indiziaria.
Con il secondo motivo la difesa ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione in
relazione all'art. 125 cod. proc. pen. e art. 116 cod. pen..
In particolare eccepisce che i coniugi P. e G. non dovrebbero rispondere di concorso nel reato di
rapina aggravata, essendosi limitati a programmare un'azione che doveva consistere in un furto. Nel
caso di specie non sussisteva la prevedibilità in concreto che il furto si sarebbe potuto trasformare in
rapina, essendosi verificata, pertanto, l'ipotesi del concorso anomalo.
Infine con il terzo motivo la difesa ricorrente si duole del mancato riconoscimento alla G. delle
attenuanti generiche con criterio di prevalenza.
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89
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Secondo l'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, ripetutamente ribadito nella successiva
giurisprudenza:
"In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto
dell'art. 192 c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità
del dichiarante (confitente e accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue
condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla
genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e
complici; in secondo luogo deve verificare l'intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle
dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della
coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.
L'esame del giudice deve esser compiuto seguendo l'indicato ordine logico perchè non si può
procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli "altri elementi di prova che
ne confermano l'attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla
chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa" (Sez. U, Sentenza n.
1653 del 21/10/1992 Ud. (dep. 22/02/1993) Rv. 192465, imp. Marino).
Nel caso di specie, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa ricorrente, la sentenza della Corte
d'Assise d'appello si è conformata ai principi di diritto sopra enunciati ed ha specificamente respinto
le contestazioni sollevate dagli imputati con i motivi d'appello, tanto in ordine alla credibilità del
dichiarante, quanto in ordine alla intrinseca consistenza della sua dichiarazione, quanto alla
sussistenza di riscontri esterni. In particolare la Corte territoriale prende in esame il comportamento
del coimputato S., rilevando che costui ha reso piena ammissione del proprio ruolo (di basista)
rivestito nella rapina, ed osservando che il legittimo arresto operato dai Carabinieri, per possesso di
sostanze stupefacenti, costituisce l'elemento prodromico che ha spinto il coimputato alla
collaborazione. La Corte, inoltre, verifica anche la coerenza interna del narrato dello S., sia con
osservazioni dirette, sia con riferimento alla motivazione della sentenza (passata in giudicato) della
Corte d'Assise d'appello del 5/5/2009, pronunziata nel troncone del procedimento a carico dei
coimputati S. e C. (fol. 21, 22, 23). Infine la Corte prende in esame la sussistenza di riscontri esterni
individualizzanti, valorizzando le conversazioni captate in carcere fra il P. e la G.. Le contestazioni
della difesa ricorrente che propone una diversa lettura degli esiti delle intercettazioni, non possono
trovare ingresso in questa sede in quanto censure in fatto. Infatti: "In tema di intercettazioni di
conversazioni o comunicazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati,
anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di
merito e si sottrae al giudizio di legittimità se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime
di esperienza utilizzate" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 17619 del 08/01/2008 Cc. (dep. 30/04/2008) Rv.
239724). Nel caso di specie, la Corte ha specificamente esaminato i risultati delle intercettazioni
ambientali, fornendone un'interpretazione coerente e priva di vizi logico-giuridici (fol. da 23 a 27).
Infine la Corte ha specificamente preso in esame la posizione della G., rigettando la tesi della mera
connivenza e richiamando gli elementi processuali dai quali si desume un ruolo attivo della stessa.
Alla luce di tali osservazioni deve essere respinto il primo motivo di ricorso.
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa ricorrente invoca la
sussistenza del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., occorre rilevare che in punto di diritto è pacifico
che:
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"Sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 cod. pen., in ordine al reato più
grave e diverso da quello voluto qualora vi sia la volontà di partecipare con altri alla realizzazione
di un determinato fatto criminoso ed esista un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del
soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l'evento diverso, nel senso che quest'ultimo deve
essere oggetto di possibile rappresentazione in quanto logico sviluppo, secondo l'ordinario svolgersi
e concatenarsi dei fatti umani, di quello concordato, senza peraltro che l'agente abbia effettivamente
previsto ed accettato il relativo rischio, poichè in tal caso ricorrerebbe l'ipotesi di concorso ex art.
110 cod. pen.; inoltre, la prognosi postuma sulla prevedibilità del diverso reato commesso dal
concorrente va effettuata in concreto, valutando la personalità dell'imputato e le circostanze
ambientali nelle quali si è svolta l'azione" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 39339 del 08/07/2009 Ud.
(dep. 09/10/2009) Rv. 245152). Nel caso di specie la censura sollevata dalla difesa ricorrente, per
pretesa violazione dell'art. 116 c.p., è inammissibile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3, in quanto
trattasi di una violazione di legge non dedotta, in modo specifico, con i motivi d'appello con i quali
è stata richiesta, in via subordinata, "l'applicazione dell'art. 116 c.p." senza alcuna specificazione nè
delle ragioni della richiesta, nè del reato meno grave applicabile alla fattispecie. Va, comunque,
rilevato che i due ricorrenti hanno beneficiato della mancata incriminazione per il reato più grave
(l'omicidio della Falcone) proprio in applicazione dei principi di cui all'art. 116 c.p. che escludono
la responsabilità del concorrente per il reato diverso commesso da taluno dei concorrenti in
mancanza di un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il
reato meno grave e l'evento diverso.
Infine è inammissibile anche il terzo motivo di ricorso in punto di mancato riconoscimento delle
attenuanti generiche prevalenti alla G., dal momento che la sentenza impugnata sul punto ha accolto
parzialmente l'appello, riducendo il trattamento sanzionatorio in virtù della concessione delle
attenuanti generiche con criterio di equivalenza. Il riconoscimento dell'equivalenza delle generiche,
assorbe la motivazione sulla non concessa prevalenza.
Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, gli imputati che lo
hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato,
materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario ex art. 110
cod. pen., se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto
diverso e più grave, mentre configura il concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., nel caso in cui
l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto
rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta facendo uso, in
relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-11-2011) 01-02-2012, n. 4330
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza deliberata il 26 maggio 2011 e depositata il successivo 30 maggio, il Tribunale di
Bologna, costituito ai sensi dell'art. 309 c.p.p., ha confermato l'ordinanza di custodia cautelare in
carcere nei confronti di C.S., emessa il 5 maggio 2011 dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Bologna, per il delitti di concorso in tentata rapina impropria (capo A), lesioni e tentato
omicidio (capo B), tentata rapina propria (capo C) e ricettazione (capo O).
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I giudici della misura cautelare hanno ritenuto la sussistenza a carico del C. di gravi indizi di
partecipazione a tutti i reati suddetti, sulla base della seguente ricostruzione dei fatti: nelle prime ore
del (OMISSIS), un commando di quattro persone, di cui due non ancora identificate, le quali erano
giunte sul posto utilizzando un veicolo di provenienza delittuosa, aveva tentato di commettere un
furto nell'area di servizio autostradale (OMISSIS), lungo la carreggiata sud dell'autostrada A/14; i
malviventi, utilizzando un cacciavite e un piede di porco, avevano forzato il lucchetto posto sul
cancello posteriore e la porta di accesso, sul retro, all'ufficio del punto di ristoro "(OMISSIS)", dove
era ubicata la cassaforte, provvedendo altresì al taglio dei fili di alimentazione del sistema di
allarme e alla forzatura anche della finestra all'ufficio, con accesso in esso a volto coperto da una
maglia, previa deviazione dell'obiettivo di una telecamera ivi installata per evitare di essere ripresi;
sorpresi dagli operatori di polizia in servizio di vigilanza, intervenuti per impedire che il reato fosse
portato ad ulteriori conseguenze, i malviventi, al fine di assicurarsi l'impunità, avevano reagito con
violenza e minaccia nei confronti dell'ispettore capo, Ca.Ma., spingendolo a terra e procurandogli
lesioni della durata di cinque giorni con un cacciavite impugnato dal C.; colpendo, inoltre, in varie
parti del corpo, gli agenti scelti, S.G. e N. G., ai quali procuravano lesioni della durata di dieci
giorni, con il piede di porco brandito da L.A.; tentando, infine, di impossessarsi con la forza della
pistola di ordinanza dell'agente S., azione materialmente eseguita dal L., il quale puntava l'arma
contro l'altro agente, N., azionando ripetutamente il grilletto della pistola senza esito, essendo stata
attivata la "sicura", e pertanto compiva, secondo la contestazione cautelare, atti idonei
inequivocabilmente diretti a cagionare la morte del predetto pubblico ufficiale nell'esercizio e a
causa delle sue funzioni.
Secondo il Tribunale del riesame, il C., pur avendo dichiarato di essere rimasto all'esterno dei locali
assaltati con funzione di palo, doveva ritenersi raggiunto da gravi indizi di colpevolezza di concorso
ordinario in tutti i delitti ipotizzati (rapina impropria aggravata di cui al capo a); lesioni e tentato
omicidio di cui al capo b); tentata rapina della pistola di ordinanza dell'agente S. di cui al capo c); e
ricettazione di cui al capo d), per avere materialmente partecipato all'azione violenta intesa a
guadagnare l'impunità, impugnando il cacciavite e colpendo l'ispettore capo Ca. al fine di sfuggire
all'ammanettamento, e, quanto al più grave fatto di tentato omicidio dell'agente N., trattandosi di
evento non imprevedibile nè del tutto svincolato dal delitto di rapina, che determina pur sempre un
grave pericolo per la vita del rapinato portato, per impulso naturale, a resistere alla violenza e
minaccia e a sperimentare qualsiasi mezzo per sottrarsi ad essa, sicchè l'omicidio o il tentato
omicidio deve ritenersi legato alla rapina da un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un
evento che rientra, secondo l'id quod plerumque accidit, nell'ordinario sviluppo della condotta
delittuosa (citata sentenza di questa Corte n. 9273 del 1995, Rv. 202419).
In merito alle emergenze cautelari, il Tribunale ha ribadito la ricorrenza dell'esigenza di speciale
prevenzione di cui all'art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c), essendo il C., cittadino albanese come il L.,
privo di fissa dimora e di attività lavorativa, in Italia, da ritenersi inserito in ambienti delinquenziali
dediti alla perpetrazione di delitti contro il patrimonio, aggiungendo che lo stesso non aveva
mostrato alcun segno di resipiscenza nè fornito alcuna indicazione utile al rintraccio dei complici
datisi alla fuga, donde la necessità di una misura contentiva, idonea a prevenire il concreto pericolo
di commissione di ulteriori delitti della stessa specie, e l'adeguatezza a tal fine della sola cautela di
massimo rigore.
2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il C., tramite il difensore,
avvocato Alessandro Cristofori del foro di Bologna, il quale lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. b) c) ed e), in relazione agli artt. 272, 273, 274, 275, 292 e 125 c.p.p. e agli artt. 110
e 116 c.p., la contradaittorietà e la manifesta illogicità della motivazione dell'ordinanza, implicante
altresì il vizio di erronea applicazione della legge sostanziale in punto di concorso di persone nel
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reato, per la ritenuta partecipazione del C. al delitto di tentato omicidio dell'agente N. (capo B) e al
tentativo di rapina della pistola di ordinanza dell'agente S. (capo C), sebbene posti in essere dal solo
L..
Al riguardo il ricorrente denuncia, innanzitutto, una carenza investigativa per non essere state rese
disponibili le videoriprese del fatto (i fotogrammi della telecamera ubicata nell'area di servizio
interessata dall'azione criminosa restano in memoria, secondo quanto emerso nel corso delle
indagini, per sole 72 ore, dopo le quali sono automaticamente cancellati), dalle quali avrebbe potuto
desumersi la costante presenza del C. all'esterno degli uffici dell'area di servizio, in funzione di
palo, e il probabile esaurimento della sua condotta criminosa prima che il L., introdottosi con altro
correo all'interno degli uffici, sottraesse la pistola di ordinanza all'agente S. e la puntasse contro
l'agente N., senza omettere di sottolineare che anche quest'ultimo segmento dell'azione criminosa
resterebbe avvolto nell'incertezza, non potendosi escludere che, nella colluttazione tra i malviventi e
gli operatori di polizia, la pistola fosse stata innanzitutto puntata contro lo stesso L., il quale ne
avrebbe deviato la direzione per meri scopi difensivi.
Ad avviso del ricorrente, sarebbe, comunque, contraddittoria e illogica la motivazione e palese la
violazione della legge sostanziale in tema di reato concorsuale, laddove il Tribunale del riesame
sostiene che l'accordo tra più persone finalizzato alla commissione di un furto, con l'impiego di
strumenti idonei soltanto al detto scopo (cacciavite e piede di porco), dovrebbe includere la
previsione e l'accettazione del rischio, da parte di ciascun concorrente, di una degenerazione
violenta dell'azione fino alla commissione di delitti contro la persona, come l'omicidio o il tentato
omicidio, da imputare anche a coloro che non li hanno materialmente commessi a titolo di concorso
ordinario o, secondo l'apertura, non priva di contraddizione, che si legge nell'ordinanza del giudice
per le indagini preliminari, a titolo di concorso anomalo di colui o coloro che vollero il fatto meno
grave.
In sintesi, i giudici della misura cautelare avrebbero teorizzato una responsabilità penale di tipo
oggettivo, estranea al nostro ordinamento giuridico, come evidenziato proprio dall'esempio addotto
dal Tribunale per avallare la principale tesi sostenuta del concorso (ordinario) del C. nei più gravi
delitti posti in essere dal L., ipotizzando il caso in cui i partecipanti al mancato furto si fossero
allontanati a bordo dell'unica autovettura con la quale erano arrivati sul posto e l'autista, nel
tentativo di guadagnare la fuga e l'impunità, avesse investito uno o più degli agenti di polizia
inseguitori, uccidendolo o compiendo manovra idonea a tal fine. Nell'ipotesi suddetta, ad avviso del
Tribunale, non si sarebbe dubitato della responsabilità concorsuale di tutti i trasportati sul veicolo
investitore, già concorrenti nel tentativo di furto, per i più gravi delitti di omicidio o di tentato
omicidio dei verbalizzanti, e ciò suffragherebbe la tesi del concorso criminoso di tutti i partecipanti
nei reati (più gravi) materialmente eseguiti solo da alcuni di essi.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è infondato.
Come già affermato da questa Corte in numerosi precedenti, la responsabilità del compartecipe per
il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente,
integra il concorso ordinario (art. 110 c.p.), se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di
commissione del delitto diverso e più grave; mentre configura il concorso anomalo (art. 116 c.p.),
nel caso in cui l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto
rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta facendo uso, in
relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza (c.f.r., tra le molte, Sez. 6,
n. 7388 del 13/01/2005, dep. 25/02/2005, Lauro).
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La responsabilità concorsuale resta esclusa, quindi, soltanto quando il reato diverso e più grave si
presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non
collegabili in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestata l'azione di taluno dei correi nel
reato originario, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il
nesso di causalità (c.f.r., tra le molte, Sez. 1, n. 7576 del 22/06/1993, dep. 03/08/1993, Rv. 194786).
Coerentemente con l'interpretazione di cui sopra, la giurisprudenza ha ritenuto il nesso di
compartecipazione nel caso di furto trasmodato in rapina impropria, affermandosi che non può
considerarsi atipico e imprevedibile l'uso della violenza per assicurarsi la cosa sottratta o per
garantirsi l'impunità (Sez. 2, n. 5352 del 09/11/1982, dep. 06/06/1983, Tabanelli, Rv. 159390;
precedenti conformi: Rv. 152493 Rv. 151871 Rv. 146590; massime successive conformi: Rv.
161598 Rv. 167299 Rv. 177606).
Nel caso in esame, contrariamente all'assunto del ricorrente, il Tribunale del riesame e, prima
ancora, il Giudice per le indagini preliminari, cui il primo si è uniformato, hanno fatto buon governo
dei principi suddetti, evidenziando, da un lato, che il C. ha materialmente partecipato alla rapina
impropria in cui è degenerata l'originaria azione furtiva concordata, utilizzando un cacciavite contro
uno dei sopraggiunti verbalizzanti per assicurarsi l'impunità; e, dall'altro lato, che l'ulteriore più
grave delitto di tentato omicidio materialmente posto in essere dal solo L., impossessatosi della
pistola di uno degli ufficiali di polizia che tentò di utilizzare contro un altro verbalizzante, non
riuscendo a colpirlo solo perchè l'arma era munita di chiusura di sicurezza, si innestò in un contesto
di condivisa violenta reazione all'intervento della polizia (da ritenersi del tutto prevedibile a presidio
di un esercizio di pubblico ristoro ubicato lungo un'arteria autostradale di intenso scorrimento), con
deliberata accettazione da parte di tutti, incluso il C., non lesinante l'uso del cacciavite contro chi
tentava di ammanettarlo, del rischio di ferire anche mortalmente i verbalizzanti antagonisti sia
direttamente, sia per l'azione violenta di altro concorrente, come di fatto avvenuto con arresto,
fortunatamente, del fatto allo stadio del tentativo.
Quanto alla pur denunciata carenza investigativa a causa dell'automatica cancellazione delle
immagini riprese dalla telecamera in funzione sul luogo del fatto, si tratta di una censura del tutto
generica, rinviante ad una ipotizzata alternativa dinamica del fatto rispetto a quella che ha trovato
puntuale e convergente fondamento nelle dichiarazioni dei verbalizzanti e negli altri elementi
acquisiti nel corso delle indagini.
4. Non sussistendo, quindi, il vizio di motivazione e la violazione di legge denunciati, in tema di
concorso di persone nel fatto diverso e più grave rispetto a quello originariamente convenuto, il
ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi
dell'art. 606 c.p.p..
La cancelleria provvederà alle comunicazioni previste dall'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'Istituto
penitenziario, ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter
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5)
Coltivazione di piantine di marijuana
Andrea coltivava presso la sua abitazione di via Dante, in Bari, una piantina di marijuana; ogni
tanto, fumava “uno spinello”, utilizzando le foglie della suddetta pianta.
L’uso era esclusivamente personale e la coltivazione non imprenditoriale, ma domestica.
Donatello di professione avvocato, vicino di casa di Andrea, venuto a sapere ciò, lo avvertiva del
rischio che la sua condotta potesse essere qualificata come reato.
Andrea si recava dal legale Marco.
Il candidato, assunte le vesti di Marco, rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Andrea.
Possibile soluzione schematica
In premessa si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente il parere andava inquadrato nell’ambito del d.p.r. 309/1990: Andrea è punibile ex
art. 73 del d.p.r. 309/1990?
Per i fautori della tesi negativa, la condotta di Andrea rientra in quella prevista all’art. 75 con la
conseguenza di integrare, al più, illecito amministrativo perché:
-vi è detenzione;
-diversamente opinando, si arriverebbe all’absurdum per cui chi compra droga per uso personale
non è punibile, mentre chi la produce per uso personale è punibile;
-diversamente opinando, si avrebbe una sanzione penale per un pericolo di pericolo, così
vulnerando l’art. 27 Cost. e l’art. 49 c.p.
E’ preferibile optare per la tesi positiva, con la conseguenza di qualificare come responsabile
Andrea ex art. 73 perché:
-non è detenzione, ma produzione;
-in tema di salute, ex art. 32 Cost., si giustificherebbe un’anticipazione della tutela, pur punendo la
condotta che ponga in essere un pericolo di pericolo.
Alla luce di tali rilievi, pertanto, Andrea dovrà rispondere del reato ex art. 73 d.p.r. 309/1990.
Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di
piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la
destinazione del prodotto ad uso personale.
Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 24-04-2008) 10-07-2008, n. 28606
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Savona, con sentenza del 9 novembre 2006, ha
dichiarato non luogo a procedere nei confronti di V.D., "perchè il fatto non sussiste" in ordine
(anche) al delitto di cui:
- al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, perchè, in assenza della prescritta autorizzazione,
coltivava n. 6 piante di cannabis indica (sostanza stupefacente rientrante nella tabella 2 di cui al
citato D.P.R., art. 14) - acc. in (OMISSIS), disponendo la confisca e la distruzione delle piantine
putrefatte in sequestro.
Ha osservato quel giudice che la consulenza tecnica tossicologica del P.M. non era riuscita a
quantificare il principio attivo e la quantità della sostanza stupefacente sequestrata, in quanto le
piantine erano state poste in sei sacchetti di cellophane ed erano pervenute allo stesso consulente
tecnico completamente putrefatte, residuandone solo alcune foglie essiccate nelle parti fuoriuscite
dai sacchetti da cui si era potuto desumere la presenza di principi di canapa indiana (marijuana).
L'impossibilità di determinare il peso a secco della sostanza attiva e, in relazione ad esso, di
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96
valutare il contenuto di THC non consentiva di "pervenire ad una dichiarazione di responsabilità di
illecita detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente", e detta carenza probatoria appariva
non colmabile nell'eventuale futuro dibattimento.
Avverso tale sentenza di proscioglimento, pronunciata ai sensi dell'art. 425 c.p.p., ha proposto
ricorso per Cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di
Genova, il quale lamenta:
- motivazione erronea;
- inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve
tener conto nell'applicazione della legge penale ex artt. 606 e 608 c.p.p.: in particolare, del D.P.R. n.
309 del 1990, art. 73 e art. 14 della tabella 2 allegata.
Prospetta il P.G. ricorrente che, in relazione alla coltivazione illegale di piante da cui possono
ricavarsi sostanze stupefacenti, la totale assenza od insufficienza di principio attivo nelle sostanze
sequestrate è irrilevante e, per aversi responsabilità penale, è sufficiente che le piante siano
astrattamente idonee a produrre quantitativi non minimali di stupefacenti. Irrilevante deve altresì
considerarsi l'eventuale destinazione del raccolto all'uso personale, essendo configurabile il reato
anche in presenza della coltivazione di una sola piantina.
Nella fattispecie in esame il G.U.P. avrebbe comunque dovuto disporre procedersi al futuro
dibattimento, poichè il quadro probatorio offerto a sostegno dell'accusa formulata non era inficiato
da insanabile contraddittorietà degli elementi emersi nè dalla loro conclamata insufficienza a
confortare l'accusa: la prospettazione di insufficienza probatoria, peraltro, non risultava in alcun
modo specificata, essendo stata argomentata unicamente attraverso una rassegna di massime
giurisprudenziali.
A seguito dell'udienza camerale del 7 febbraio 2008, nel corso della quale il pubblico ministero
aveva concluso per il rigetto del ricorso, il Collegio della 4, Sezione di questa Corte Suprema, con
ordinanza depositata il 7 marzo 2008, ha rilevato la permanenza di un contrasto giurisprudenziale in
ordine alla questione relativa alla configurabilità del delitto contestato all'imputato e
conseguentemente ha trasmesso il ricorso al Primo Presidente, a norma dell'art. 618 c.p.p..
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione
l'odierna camera di consiglio.
1. La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire "se la
condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente
rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale". 2. In
relazione a tale questione esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. 2.1
L'orientamento prevalente ritiene che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze
stupefacenti sia penalmente illecita, quale che sia la destinazione del raccolto.
La destinazione ad uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perchè difetta il nesso di
immediatezza della coltivazione con l'uso personale, sia perchè non può determinarsi a priori la
potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (vedi Cass., Sez. 4, 23.3.2006, n. 10138,
Colantoni).
In tal senso - all'esito del referendum abrogativo del 1993 - si è pronunciata, per la prima volta, la
Sez. 4 con la sentenza 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale
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"l'attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall'uso che il coltivatore intende fare della
sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del
tutto distinte e il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993,
n. 171 in applicazione dell'esito del referendum, non fa alcun riferimento all'attività di coltivazione"
(principio ribadito dalla stessa Sez. 6, con le sentenze 5.1.1997, n. 100, Garcea e 5.4.2000, n. 4209,
P.G. in proc. Reile).
Ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano la quantità e
qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile,
poichè la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a
produrre l'agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (Cass., Sez. 4,
29.9.2004, n. 46529, Aspri ed altro).
La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono
al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della
pena (vedi Cass.: Sez. 4, 6.2.2004, n. 4836, Felsini e Sez. 6, 9.6.2004, n. 31472, De Rimini).
Ancora la 4 Sezione, con la sentenza 5.2.2001, n. 4928, Croce, ha osservato che il differente
trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di
maggiore pericolosità ed offensività insita nell'essere la coltivazione, la produzione e la
fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorchè non qualificate da
una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove
disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio
nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità.
Il legislatore - delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell'impiego dello
stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che
sono menzionate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (le quali, se connotate dal fine di uso personale
della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) - non ha voluto sottrarre alla generale
disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di
colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle
sostanze, indipendentemente dall'accertamento dell'esclusività della destinazione all'uso personale
che alle stesse venga data, per l'immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e
propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie.
Alla stregua delle considerazioni anzidetto è stata disattesa la tesi della equiparabilità della c.d.
"coltivazione domestica" alla detenzione per uso personale, poichè le due condotte sono
"ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità" ed è stato affermato che, stante la
natura di reato di pericolo del correlato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purchè idonea
alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite
da sanzioni di natura amministrativa, indicate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75.
Tali affermazioni sono state comunque "temperate" - tenuto conto delle considerazioni svolte dalla
giurisprudenza costituzionale, di cui si darà conto di seguito -dalla specificazione che, ove la
sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene
giuridico tutelato, ben può il giudice di merito escludere l'offensività in concreto e ritenere la
condotta non punibile (così Cass., Sez. 4: 13.4.2001, n. 15688, Vicini;
7.11.2002, n. 37253, Cantini; 30.5.2003, n. 23842, Morrone; 6.2.2004, n. 4836, Felsini; 8.3.2006, n.
8142, P.G. in proc. Fanfani; nonchè Sez. 6, 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto).
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Sempre la 4 Sezione, con la sentenza 10.6.2005, n. 22037, Gallob, ha rilevato che, pure alla stregua
del letterale disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, non è dato distinguere tra una coltivazione
"di tipo tecnico-agrario" ed una coltivazione "domestica". Viene osservato, al riguardo, che è vero
che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 27 fa riferimento anche alle "particelle catastali" ed alla
"superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione", ed i successivi artt. 28, 29 e 30
richiamano, oltre che le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle "coltivazioni autorizzate"
e le eccedenze di produzione "sulle quantità consentite", le sanzioni in caso di mancata
autorizzazione;
tali prescrizioni, però, riguardano la "autorizzazione alla coltivazione" e sono indicative, cioè, dei
requisiti richiesti per ottenere detta autorizzazione. Del tutto configgente con la ratio normativa
sarebbe la conclusione che, in mancanza della prescritta autorizzazione, concedibile solo in
presenza dei requisiti indicati dalla legge, sarebbe in ogni caso consentita la coltivazione di piante di
sostanze stupefacenti, quale che sia la loro quantità, purchè non messe a dimora in un terreno
identificabile nelle sue particelle catastali e secondo le altre prescrizioni al riguardo indicate dalla
legge.
L'orientamento maggioritario, di cui si è dato conto dianzi, è stato ribadito - successivamente
all'entrata in vigore dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n.
272) - dalla Sez. 4, con le sentenze 7.12.2006, n. 40295, Quaquero ed altro; 10.1.2008, n. 871,
Costa e dalla Sez. 6, con le sentenze 23.3.2007, n. 12328, P.G. in proc. Fiorillo; 24.5.2007, n.
20426, Casciano; 28.9.2007, n. 35796, Franchellucci).
2.2 Un diverso (e minoritario) orientamento, affermatosi nella giurisprudenza più recente, ritiene, al
contrario, che la c.d.
"coltivazione domestica" non integri gli estremi della fattispecie tipica della "coltivazione" oggetto
di incriminazione nell'ambito del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, ma costituisca species
del più ampio genus (di chiusura) della "detersione", di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, successivo
art. 75, comma 1, risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all'esclusivo uso
personale, e ciò anche alla luce del regime normativo introdotto dalla L. n. 49 del 2006.
La prima affermazione di principio in tal senso si rinviene in Cass. Sez. 6, 30.5.1994, n. 6347,
Polisena, secondo la quale "una volta abrogato il divieto dell'uso personale di sostanze stupefacenti
... ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella
destinazione della sostanza al consumo personale, l'esigenza di evitare irragionevoli disparità di
trattamento per condotte caratterizzate dal medesimo fine e quindi di interpretare il D.P.R. n. 309
del 1990, art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere
tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso
un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del citato D.P.R. n.
309 del 1990, art. 75, comma 1, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto
la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta" (principio
affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana).
Nel medesimo senso si pose Cass. Sez. 6, 13.9.1994, n. 3353, Gabriele, caratterizzata inoltre dal
tentativo di precisare la nozione normativa di "coltivazione". Tale decisione ritenne la manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, come
modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del
tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso
personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante
coltivazione domestica, osservando che l'ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, la
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disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione
(preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali
destinati alla custodia del prodotto ecc), quali si evincono dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 27 e 28.
Così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e psicotrope penalmente rilevante, considerata la
diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per
procurarsi la droga -qualunque sia il fine cui essa è rivolta - sì ritenne ragionevole la diversità della
disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dal
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l'illiceità penale delle
condotte, quando la droga sia destinata all'uso personale.
L'orientamento, dopo l'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995, fu
abbandonato per oltre un decennio, ed è stato solo recentemente riproposto, successivamente
all'entrata in vigore della L. n. 49 del 2006, da Cass., Sez. 6, 10.5.2007, n. 17983, Notaro, le cui
argomentazioni sono state richiamate da quattro successive decisioni conformi della stessa Sezione
(3.8.2007, n. 31968, P.M. inproc. Satta; 31.10.2007, n. 40362, P.G. in proc. Mantovani; 6.11.2007,
n. 40712, Nicolotti ed altro; 19.11.2007, n. 42650, P.G. in proc. Piersanti).
La sentenza n. 17983/07, Notaro, nel riepilogare l'evoluzione storica della normativa del settore, ha
evidenziato che, nell'originaria formulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 sanzionava come
illecito amministrativo la condotta di chiunque, per farne uso personale, "importava, acquistava o
comunque deteneva" sostanze stupefacenti, senza menzionare la condotta di coltivazione, in quanto
quella normativa ricollegava la destinazione all'uso personale al non superamento della "dose media
giornaliera", dato quantitativo ontologicamente incompatibile con il concetto di coltivazione. Una
volta espunto però, dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, all'esito del referendum abrogativo del 1993,
il riferimento alla "dose media giornaliera", deve ritenersi possibile far rientrare la coltivazione c.d.
domestica (per il solo consumo personale) nell'ambito della detenzione pura e semplice
riconducibile all'espressione "comunque detiene" tuttora presente nella vigente previsione di cui al
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1.
L'analisi storicizzata dell'espressione "o comunque detiene" conduce a ritenere che essa si riferisca
ad un comportamento descrittivo formulato in termini di sintesi, dato che tutte le condotte previste
dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 sembrano comunque presupporre una forma di detenzione.
Il D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convenite dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, ha adottato un modello
repressivo apparentemente in grado di sottrarre la coltivazione dal regime di chi comunque detiene
sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella 1, prevista dall'art. 14 opportunamente
"rimodernata" con la previsione alla lettera a), n. 6, fra l'altro, proprio della cannabis indica, e dei
prodotti da essa ottenuti, nonchè dei tetraidrocannabinoli, dei loro analoghi naturali, delle sostanze
ottenute per sintesi o semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto
farmaco-tossicologico; v. anche il n. 7 della stessa lettera a); ma ciò non deve far trascurare che il
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, reiterando l'espressione "o comunque detiene", consente
di ricomprendere nel lessico di genere anche la coltivazione, come sintesi di tutte le condotte
richiamate dall'art. 73 nel suo integrale contesto, ben potendosi ritenere compatibile con l'attuale
regime una coltivazione che "per le altre circostanze dell'azione", appare destinata ad un uso non
esclusivamente personale. D'altro canto - sempre secondo la sentenza Notaro - il regime
dell'equiparazione quoad poenam della repressione delle attività illecite concernenti gli stupefacenti
(vedi il richiamo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 all'art. 14) conduce ad escludere che un
legislatore (non tanto razionale, quanto) ragionevole possa aver previsto la pena da anni sei di
reclusione ed Euro 26.000,00 di multa ad anni venti di reclusione ed Euro 260.000,00 di multa nella
compresenza delle circostanze richieste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, per la
configurazione dei "fatti di lieve entità", da un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa ad anni
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sei di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa per la coltivazione di un numero circoscritto di piante
di marijuana (dotate di effetto drogante) per chi non intenda fare commercio del risultato della
coltivazione, ma coltivi la cannabis per uso personale (consumo voluttuario o curativo, studio, etc).
Viene ripresa la distinzione tra la nozione di "coltivazione c.d. domestica" e quella di "coltivazione
in senso tecnico" (che si afferma dover assumere rilievo anche a seguito della L. n. 49 del 2006): la
prima configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria
abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti. Tale condotta rientrerebbe nel più ampio genus
della detenzione, con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto
all'uso personale della sostanza, essa risulterebbe depenalizzata.
Un solido fondamento di tale assunto viene individuato nella disciplina amministrativa
complementare (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 e segg.) che regola le procedure per il rilascio
dell'autorizzazione ministeriale alla "coltivazione" e le modalità con le quali tale attività può essere
lecitamente svolta: il concetto tecnico-giuridico di "coltivazione" di piante contenenti principi attivi
di sostanze stupefacenti penalmente rilevante comprenderebbe soltanto la coltivazione in senso
tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la
disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la
presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti, laddove, al contrario, la coltivazione c.d.
domestica rientrerebbe nell'ambito della nozione di "detenzione".
Rileva ancora la sentenza n. 17983/07 che la conclusione contraria - che fa ricadere in ogni caso le
condotte di "coltivazione" nell'area del penalmente rilevante, negando l'autonomo rilievo della
nozione di detenzione-coltivazione - non fa che trasferire un dato di inferenza probatoria (quale è
quello della destinazione della sostanza stupefacente) nella ratio del precetto, "tanto da assegnare al
contesto di scoperta forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie". Ed infatti, sul
presupposto che la detenzione per uso personale è penalmente irrilevante, il tema probatorio
costituito dall'uso personale finisce col coincidere con la stessa struttura della norma, nel senso che,
una volta accertato l'uso personale, la sua forza esimente è affidata al contesto in cui il fatto è
accertato. Nel caso in cui il prodotto della coltivazione sia stato già raccolto, viene meno il pericolo
astratto della condotta di coltivazione, fino a consentire l'utilizzazione di strumenti di verifica del
pericolo effettivo, e se, invece, la coltivazione è ancora in corso, tale accertamento resta precluso,
perchè del tutto irrilevante ai fini dell'identificazione dell'ipotesi di reato e della sua punibilità. Se
poi solo una parte di quanto coltivato è stato raccolto, per questa sola parte cessa il pericolo del
pericolo ed è possibile verificare, con il pericolo concreto, anche il pericolo astratto per la salute,
secondo un canone del tutto inidoneo a discriminare la detenzione per il consumo personale
dall'esito della coltivazione, come tale non punibile, dalla detenzione-coltivazione di quanto ancora
non raccolto, come tale punibile. L'irragionevolezza di siffatte conseguenze finirebbe col dipendere
dalla scelta di affidare la definizione del fatto al momento in cui si apprende la notitia criminis". 3.
La Corte Costituzionale, con la decisione n. 443 del 1994, dichiarò inammissibile la questione di
legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 28, 72, 73 e 75, come modificati dal
D.P.R. n. 171 del 1993 (che aveva recepito l'esito della precedente consultazione referendaria,
sopprimendo il riferimento al concetto di "dose media giornaliera" quale parametro fisso ed
inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all'uso
personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di
ragionevolezza della norma penale incriminatrice, nella parte in cui le disposizioni anzidette non
escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze
stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale proprio.
Rilevò in quell'occasione il Giudice delle leggi che il remittente anche quella volta il G.I.P. del
Tribunale di Savona aveva del tutto omesso la previa verifica della possibilità di una esegesi
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adeguatrice delle norme impugnate, non essendosi posto il problema "se, proprio alla luce, e nel
quadro del riferito ius superveniens, l'operata depenalizzazione della condotta di chi ... comunque
detiene sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica (le sostanze in
oggetto per il fine indicato) quale previste dalla normativa denunciata); ciò "afortiori quando, come
nella specie, i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso
della interpretazione conforme al precetto costituzionale".
Venne suggerita così la possibilità di ritenere che le condotte di coltivazione per uso personale
potessero essere sottratte, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il
medesimo fine, alla sfera dell'illiceità penale.
Questa Corte di Cassazione, però, solo qualche mese dopo tale decisione - con le sentenze della 4
Sezione 4.12.1993, n. 11138, Gagliardi e 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli - ritenne di non
adeguarsi a tale interpretazione adeguatrice, argomentando essenzialmente sulla natura di reato di
pericolo della "coltivazione" e sulla non assimilabilità della coltivazione stessa alla "detenzione",
così contrastando le aperture che avevano invece caratterizzato la giurisprudenza di merito.
Venne dunque riproposta la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art.
75, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, sollevata in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost.,
e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995 - alla luce dell'interpretazione restrittiva
fornita da questa Corte di legittimità - ne dichiarò l'infondatezza.
La Consulta ritenne la questione non fondata, evidenziando l'insussistenza della denunciata
disparità di trattamento in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa di
"coltivazione", prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, con alcuna di quelle allegate dal giudice
remittente come tertia comparationis ed argomentò, in particolare, che "la detenzione, l'acquisto e
l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate
immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno
rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente
antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorchè valutata sempre in termini di
illiceità, l'ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale,
venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contingente aggravamento delle conseguenze
delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell'assuntore ove ogni condotta immediatamente
antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale. Invece, nel caso della coltivazione
manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento
di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare
comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Per
altro verso la scelta della non criminalizzazione del consumo in sè (che rappresenta una nota
costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor
rigore) implica necessariamente anche, in qualche misura, la non rilevanza penale di comportamenti
immediatamente precedenti, essendo di norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta
l'importazione) l'antecedente ultimo dell'assunzione. La linea di confine di queste condotte che, per
il fatto di approssimarsi all'area di non illiceità penale (quella del consumo), si giovano di riflesso di
una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata prima dalla modica quantità, poi dalla dose
media giornaliera, infine dall'uso personale; ma si tratta pur sempre di una sorta di cintura protettiva
del nucleo centrale (id est il consumo) per evitare il rischio che l'assunzione di sostanze stupefacenti
- che il legislatore ha ritenuto da ultimo di contrastare appunto con la comminatoria di sanzioni solo
amministrative per le condotte ritenute più immediatamente antecedenti - possa indirettamente
risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. La coltivazione invece è esterna a quest'area
contigua al consumo e ciò già di per sè rende ragione sufficiente di una disciplina differenziata. Nè
va taciuto che la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini
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diversi nelle situazioni qui comparate. Infatti nella detenzione, acquisto ed importazione il
quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi
attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della
destinazione della sostanza. Invece, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con
sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della
coltivazione in atto, sicchè anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine
estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad
uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò
ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perchè - come ha rilevato la stessa
giurisprudenza della Corte di Cassazione - l'attività produttiva è destinata ad accrescere
indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle
sostanze stupefacenti estraibili".
La sentenza n. 360 del 1995 evidenziò altresì che la persistente illiceità penale della coltivazione,
anche qualora univocamente destinata all'uso personale ed indipendentemente dalla quantità di
principio attivo prodotto, resisteva anche alla verifica condotta (ex artt. 25 e 27 Cost.) alla stregua
del principio di offensività, rilevando che "la verifica del rispetto del principio dell'offensività come
limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente
condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale,
depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili.
Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella
di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può
valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto
di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni
di spaccio di droga; tanto più che - come già rilevato - l'attività produttiva è destinata ad accrescere
indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo,
connotato dalla necessaria offensività proprio perchè non è irragionevole la valutazione prognostica
- sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto. E - come già
questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991; ma cfr.
anche sentenza n. 62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di offensività la
configurazione di reati di pericolo presunto; nè nella specie è irragionevole od arbitraria la
valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla
condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell'offensività specifica della singola condotta in
concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico
tutelato (come nel caso - prospettato dal giudice rimettente - della coltivazione in atto, e senza
previsione di ulteriori sviluppi, di un'unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della
sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare
un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella
astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima
implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado
minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella
figura del reato impossibile (art. 49 c.p.).
La mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione
di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze
n. 133 del 1992 en. 333 del 1991 già citate)".
Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di "coltivazione" anche in
relazione alla coltivazione domestica di un'unica pianta, la Corte costituzionale precisò che
"costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario, la
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identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro
profilo, incide anch'essa sulla linea di confine del penalmente illecito".
Alle valutazioni svolte nella sentenza n. 360 del 1995 si sono poi riportate le successive decisioni in
tema (ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996), in difetto di argomenti nuovi o di nuovi profili di
censura.
Con la sentenza n. 296 del 1996, la Corte costituzionale ha avuto ancora modo di evidenziare che
dal novero delle condotte contemplate dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, il successivo art. 75 ne
estrapola tre - l'importazione, l'acquisto e la detenzione - per riferirle ad una finalità specifica
dell'agente, che è quella di farne uso personale. Per effetto dell'esito referendario "le tre condotte
contemplate dal citato D.P.R. art. 75, ove finalizzate all'uso personale, sono state interamente
attratte nell'area dell'illecito amministrativo, divenendo estranee all'area del penalmente rilevante; in
tal modo è risultata anche in parte modificata la stessa strategia di (confermato) contrasto della
diffusione della droga nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente (e anche del
tossicofilo) rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative - significative
peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti - ma
non anche di sanzione penale. Ciò però non sulla base soggettiva dell'autore della condotta, quasi si
trattasse di una immunità personale, bensì sulla base oggettiva della condotta stessa (quale
specificata nell'art. 75 nelle tre ipotesi suddette) e dell'elemento teleologico (della destinazione della
droga ad uso personale). In tal modo - come questa Corte ha già puntualizzato (sentenza n. 360 del
1995) - ne risulta tracciata una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che
l'assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione
penale. In quest'area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di
norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta l'importazione) l'antecedente ultimo dell'assunzione;
ed è l'elemento teleologico della destinazione della droga all'uso personale ad assicurare (secondo
l'id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza. Ove invece non ricorra l'elemento
oggettivo (di una delle tre condotte tipizzate nell'art. 75 cit.) o quello teleologico (appena ricordato)
si ricade nell'area dell'illecito penale. Ciò anche nell'ipotesi di una condotta, quale quella della
coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi di sostanze stupefacenti al fine di
fare uso personale delle stesse, che si approssima notevolmente a tale cintura protettiva, ma ne
rimane pur sempre all'esterno, mancando la puntuale e rigorosa identificazione di uno dei due
requisiti prescritti: condotta questa la cui perdurante rilevanza penale è stata ritenuta proprio per tale
ragione non illegittima da questa Corte nella citata sentenza n. 360 del 1995". 4. Tenuto conto delle
argomentazioni del Giudice delle leggi dianzi compendiate ed a fronte dei due orientamenti della
giurisprudenza di legittimità dianzi illustrati, ritengono queste Sezioni Unite di affermare il
principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non
autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando
sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni:
a) Devono ribadirsi anzitutto gli argomenti svolti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 360
del 1995, con riferimento alla mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l'uso
personale ed alla impossibilità di determinare "ex ante " la potenzialità della sostanza drogante
ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni
in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione.
Non appaiono condivisibili, in proposito, le riflessioni della sentenza Notaro (n. 17983/07), che
considerano "improprie" le argomentazioni anzidette, perchè perverrebbero "ad una scelta
ermeneutica ... sulla base di un assetto interpretativo non proprio corrispondente agli effettivi
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risultati cui era giunta la giurisprudenza ordinaria", per di più in contrasto con le conclusioni della
stessa giurisprudenza costituzionale "in tema di differenza tra reati di pericolo astratto e reati di
pericolo concreto".
La Corte Costituzionale, infatti - come si è illustrato dianzi, al paragrafo 3 - tenne ben presente, al
momento della decisione, sia la esistenza di un orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere
la coltivazione per uso personale depenalizzata all'esito del referendum del 1993 ed assoggettabile
pertanto alle sole sanzioni amministrative, sia la diversa interpretazione restrittiva privilegiata da
questa Corte di Cassazione.
Quanto poi alla valutazione della esposizione a pericolo degli interessi oggetto di tutela, la
giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i reati di pericolo presunto non sono
astrattamente incompatibili con il principio di offensività.
La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza,
rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole
"anticipazione" della tutela penale e dalla valutazione di un "pericolo del pericolo", cioè del
pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi
tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti.
In tale prospettiva, anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della "salute individuale"
costituisca, all'esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte
ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte
Costituzionale, alle esigenze di tutela della "salute collettiva" connesse alla valorizzazione del
"pericolo di spaccio" derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l'aumento dei
quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli
stupefacenti fuori del controllo dell'autorità. La "salute collettiva" è bene giuridico primario che,
anche secondo l'elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la
protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto.
Questa Corte Suprema, inoltre, a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 21.9.1998, Kremi), ha rilevato
che i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dal D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73 sono individuabili, oltre che nella salute pubblica, anche nella sicurezza e
nell'ordine pubblico (in tal senso si è pure espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n.
333/1991), nonchè nella salvaguardia delle giovani generazioni, e può sicuramente affermarsi che
l'implemento del mercato degli stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l'ordine
pubblico e di allarme sociale. b) Va evidenziato poi che la condotta di "coltivazione", anche dopo
l'intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nel novellato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,
comma 1 bis, nè nell'art. 75, comma 1, ma solo nell'art. 73, comma 1.
Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale,
quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo
ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti.
Imprescindibile è, al riguardo, il rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, tenuto
conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso
inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di
ampliamento e dilatazione ovvero per contro riduttivi. Deve essere pertanto circoscritta al
legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di
controllo da adottare. c) E' agevole ricavare dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (ed in claris non fit
interpretatio) l'esclusione dal regime dell'uso personale di tutte le altre condotte previste dal citato
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D.P.R., art. 73, ad eccezione dell'importazione, acquisto o comunque della detenzione; vale a dire le
condotte di chiunque "coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi
titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi
scopo".
Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l'assoggettabilità alle sanzioni anche penali
stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, "coltiva le piante indicate
nell'art. 36". d) Arbitraria deve ritenersi la distinzione tra "coltivazione in senso tecnico-agrario"
ovvero "imprenditoriale" e "coltivazione domestica" ed essa non è legittimata dal dato letterale della
norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale.
Il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 (sotto il capo "Della coltivazione e produzioni vietate") pone il
divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella 1 di cui all'art. 14 (fra le
quali è annoverata anche la cannabis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare
"istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle
piante ... per scopi scientifici, sperimentali e didattici". Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque
forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella 1 - non necessariamente
connotata (poichè la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle
caratteristiche proprie della coltivazione "tecnico-agraria" - fatta eccezione soltanto per quella "per
scopi scientifici, sperimentali e didattici" assentibile con autorizzazione in favore di "istituti
universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca".
Il fatto che nel D.P.R. n. 309 del 1990, successivi artt. 27, 29 e 30 siano previste norme particolari
per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua
preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la
raccolta dei prodotti) non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non
abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che
l'autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di
questi elementi, sicchè mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso
personale. e) Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto
alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se
mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da
meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.
La coltivazione, inoltre, presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo ad un processo produttivo
astrattamente capace di "autoalimentarsi" attraverso la riproduzione dei vegetali. Con tali
affermazioni non si opera "una confusione del fine nella struttura del precetto penale" nè si accentra
l'esame sul profilo teleologia), per poi pervenire, proprio attraverso di esso, alla ricostruzione
strutturale della coltivazione (come viene contestato nella sentenza Notaro), ma si da
esclusivamente conto della ratio del diverso trattamento sanzionatorio, in un contesto normativo nel
quale neppure appaiono condivisibili le considerazioni svolte nella sentenza medesima circa la
"indeterminatezza della natura dell'offesa".
Nel caso, poi, in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del
prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza
penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile "assorbimento" nella fattispecie
amministrativa dell'illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale.
5. Residua un'ultima notazione circa la necessità, in ogni caso, della verifica - demandata al giudice
del merito - dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata.
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Il principio di offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum
crimen sine iniuria") - secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani,
"rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di
prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in
pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e
dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo
affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in
pericolo il bene o l'interesse tutelato" (così testualmente Corte Cost. n. 265/05 e, in senso conforme,
vedi pure le decisioni nn. 360/95,263/00,519/00,354/02).
Nella specie la Corte Costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha
ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze
stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della
fattispecie criminosa astratta.
In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice
verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente
inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva.
La condotta è "inoffensiva" soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in
grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa), sicchè, con riferimento allo
specifico caso in esame, la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla
coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
6. Il ricorso del P.G., per tutte le argomentazioni dianzi svolte, deve essere accolto e la sentenza
impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuova deliberazione al Tribunale di Savona ai sensi
dell'art. 623 c.p.p., lett. d).
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 608, 611 c.p.p. e art. 623 c.p.p., lett.
d), annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Savona per nuova deliberazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2008
Anche in tema di sostanza stupefacenti, la mera aderenza del fatto alla norma di per sè non
integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene
giuridico protetto dalla norma : non solo quindi "nullum crimen sine lege" ma anche "nullum
crimen sine iniuria".
Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 17-02-2011) 28-06-2011, n. 25674
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 22/10/2009 il G.U.P. del Tribunale di Paola, in sede di udienza preliminare,
dichiarava non luogo a procedere nei confronti di M.G. per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 73, per la coltivazione di una piantina di canapa indiana (acc. in Scalea - CS - il
26/10/2008).
Osservava il giudice di merito che sebbene la giurisprudenza di legittimità avesse stabilito il
principio della punibilità della coltivazione di sostanza stupefacente, anche se domestica, pur
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sempre la condotta tipica doveva essere connotata dalla offensività. Nel caso di specie, la
coltivazione di una sola piantina non era idonea porre in pericolo il bene della salute pubblica o
della sicurezza pubblica, con la conseguente non configurabìlità del delitto contestato.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale preso la Corte di Appello di
Catanzaro, lamentando la erronea applicazione della legge penale, in quanto la inoffensività della
condotta è delimitata alle sole ipotesi di inidoneità della sostanza a determinare un effetto
stupefacente, nel caso di specie, invece, presente secondo quanto accertato attraverso analisi gascromotografiche.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
3.1. Va premesso che questa Corte di legittimità ha statuito di recente che la coltivazione di
stupefacenti, sia essa svolta a livello industriale o domestico, costituisce reato anche quando sia
realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (cfr.
Cass. Sez. U, Sentenza n. 28605 del 24/04/2008 Ud. (dep. 10/07/2008), Di Salvia, Rv. 239920).
Ciò premesso, la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che "Ai fini della
punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze
stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità
della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 28605
del 24/04/2008 Ud. (dep. 10/07/2008), Di Salvia, Rv. 239921; Cass. Conforme, Sez. U. 24 aprile
2008, Valletta; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 1222 del 28/10/2008 Ud. (dep. 14/01/2009), Nicoletti, Rv.
242371).
3.2. In tema di principio di offensività, va osservato che esso può essere riguardato da due punti di
vista: come criterio guida per il legislatore e come ausilio per l'interprete nella valutazione della
tipicità di una determinata condotta.
Dal primo punto di vista, la necessaria "frammentarietà" del diritto penale comporta che il
legislatore si determini a configurare come reato un fatto quale estrema ratio, e cioè solo quando per
la tutela di interessi non contingenti ritenga "ragionevole" il sacrificio della libertà individuale
immanente alla sanzione penale (principio di legalità sostanziale). Nella selezione di fatti costituenti
reato il legislatore deve essere guidato dalla valutazione del valore del bene giuridico che si intende
tutelare, ma anche da finalità immediate determinate dal contesto storico e sociale.
Tale potere del legislatore è discrezionale e quindi insindacabile, con l'unico limite, come detto,
della manifesta irragionevolezza:
invero la violazione di tale limite potrebbe portare a configurare una illegittimità costituzionale
della norma per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione.
Ma l'aspetto che qui maggiormente interessa è il principio di "necessaria" offensività del reato,
come criterio guida per l'interprete onde valutare la tipicità della condotta.
Come è noto, si ha "tipicità" del fatto, quando questo corrisponde perfettamente alla fattispecie
astratta prevista dalla norma incriminatrice.
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Secondo la più attenta dottrina e giurisprudenza, la mera aderenza del fatto alla norma di per sè non
integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene
giuridico protetto dalla norma : non solo quindi "nullum crimen sine lege" ma anche "nullum
crimen sine iniuria".
Secondo i sostenitori della "concezione realistica", la previsione del reato non mira a punire la mera
disobbedienza alla norma, ma la condotta effettivamente lesiva del bene protetto: in tale ottica il
reato non può che essere un "fatto tipico offensivo". Il principio di offensività deve ritenersi essere
stato costituzionalizzato nel nostro ordinamento. A riprova di ciò vi sono gli artt. 25 e 27 Cost. che
distinguono tra pene e misure di sicurezza, le prime dirette a colpire fatti offensivi, le seconde, la
mera pericolosità del soggetto. Ancora, significativo in tale ottica. E l'art. 13 Cost. che consente il
sacrificio della libertà (connesso alla pena) solo in presenza della necessità di tutela di un concreto
interesse.
La necessaria offensività del reato si desume, inoltre, dalla disposizione di cui all'art. 49 c.p.,
comma 2 che prevede la non punibilità del reato impossibile. Tale norma, lungi dall'essere un
inutile duplicato dell'art. 56 c.p. (laddove non prevede la punibilità del tentativo inidoneo), ha una
sua propria autonomia se interpretata nel senso di ritenere non punibili quelle condotte solo
apparentemente consumate e quindi aderenti al tipo, ma in realtà totalmente deficitarie di lesività
secondo una valutazione effettuata "ex post".
Dell'esistenza del detto principio vi è traccia sia nella giurisprudenza costituzionale che in quella
ordinaria.
Con la sentenza n. 62 del 26/3/1986 la Corte Costituzionale, dichiarando non fondata una questione
relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi, affrontò per la prima volta la problematica della
offensività e della sua "costituzionalizzazione". Il giudice delle leggi ebbe ad osservare che spetta al
giudice individuare il bene od i beni tutelati attraverso l'incriminazione d'una determinata fattispecie
tipica, nonchè determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni
in discussione, è fuori del penalmente rilevante. Inoltre, ribadendo che non era compito della Corte
prendere posizione sul significato, nel sistema, del reato impossibile e se cioè esso, nella forma
dell'inidoneità dell'azione, costituisse il rovescio degli atti idonei di cui all'art. 56 c.p. oppure fosse
espressione di un principio generale integratore del principio di tipicità formale di cui all'art. 1 c.p.,
sottolineava che l'art. 49 c.p., comma 2, non poteva non giovare all'interprete al fine di determinare
in concreto, la soglia del penalmente rilevante.
Con altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha precisato che diversa dal principio della offensività,
come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore penale ordinario, è la
offensività specifica della singola condotta in concreto accertata.
Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la
riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile
connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in
concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in
difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La
mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione di
costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (Corte Cost.
360 del 14/5/1995).
La giurisprudenza di merito e di legittimità, sebbene timidamente, hanno fatto appello al difetto di
offensività per ritenere non punibile, a titolo esemplificativo, il tentato omicidio attraverso colpi
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sparati alla vittima protetta da un vetro antiproiettile (Cass. 1^, 8527/1989, rv. 181564); la cessione
di stupefacente con un principio attivo di scarsa capacità drogante (Cass. 4^, 601/1997, rv. 208011;
Cass. 4^, 1222/2008, Rv. 242371); l'abuso d'ufficio, nel caso in cui esso incideva su un rapporto di
lavoro oramai estinto (Cass. 6^, 8406/1997, rv. 208852); la violazione di norme tributarie
determinata da irregolarità del tutto sporadica e casuale (Cass. 3^, 845U999, rv. 212305); il falso
innocuo (Cass. 5^, 7875/1987, rv.
176302); il furto di merce di modesto valore (Trib. di Roma 2/5/2000). Peraltro, con molta cautela,
il principio di offensività si va facendo strada anche nel diritto positivo: l'art. 27 del processo penale
minorile, stabilisce che "Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la
occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo
procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenza
educative del minorenne".
Ancora, il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 (Giudice di pace), prevede la possibilità dell'archiviazione
del procedimento nei casi di particolare tenuità. Secondo la disposizione, "Il fatto è di particolare
tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato,
nonchè la sua occasionala e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione
penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle
esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o
dell'imputato".
L'apertura mostrata dal legislatore verso la problematica dell'offensività appare destinata in futuro
ad innovare tutto il sistema penale.
3.3. Ciò detto e venendo al caso di specie, è da ritenere che il giudice di merito abbia fatto buon
governo dei principi illustrati, laddove ha riconosciuto a fronte delle oggetti ve circostanze del fatto
e della modestia dell'attività posta in essere (coltivazione domestica di una piantina posta in un
piccolo lo vaso sul terrazzo di casa, contenete un principio attivo di mg. 16), una condotta del tutto
inoffensiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice. L'infondatezza del ricorso ne
impone il rigetto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
L'aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2,
non è di norma ravvisante quando la quantità sta inferiore a 2.000 volte il valore massimo in
milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11
aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale
quantità sia superata.
Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 24-05-2012) 20-09-2012, n. 36258
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Teramo, con sentenza del 25 marzo 2010 condannò B.G. alla pena di anni nove di
reclusione ed Euro 35.000 di multa (oltre alle pene accessorie previste dalla legge e al pagamento
delle spese processuali e di custodia cautelare), riconoscendolo colpevole del delitto di cui all'art.
110 cod. pen., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), e art. 80, comma 2, perchè, in
concorso con G.A. (separatamente giudicato), deteneva, al fine di cedere a terzi, ingente quantità di
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110
sostanza stupefacente di tipo eroina (complessivi kg. 14,165), suddivisa in 26 panetti, confezionati
sottovuoto e in due involucri di cellophane.
1.1. Tale sostanza era stata rinvenuta, in data (OMISSIS), in (OMISSIS), nell'officina-rimessaggio
del B., ove il G., secondo i giudici del merito, col consenso del primo e avvalendosi di
strumentazione ivi esistente e appositamente predisposta da entrambi, l'aveva portata, allo scopo di
impacchettarla e, quindi, di occultarla all'interno di una cassettiera e di una mietitrebbia, presenti nei
suddetto locale.
1.2. A B. fu contestata la recidiva semplice.
2. La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza del 3 novembre 2010, in parziale riforma della
pronunzia di primo grado, ha escluso l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma
2, rideterminando la pena in anni sei di reclusione ed Euro 26.000 di multa; ha rigettato nel resto gli
appelli proposti dall'imputato e dal Procuratore generale.
In particolare, la Corte d'appello ha osservato che "non ricorre l'aggravante dell'ingente quantità, di
cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, in considerazione della modestia della percentuale
di principio attivo accertato in esito alle analisi di laboratorio dell'ARTA. Alla stregua di tale
percentuale, infatti, il quantitativo di sostanza risulta pari a circa 17 grammi. Va in proposito
richiamato quanto precisato dalla Suprema Corte, Sezione Quinta (recte, Sesta), con la sentenza
numero 20119 del 26/5/2010 e, cioè, che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di
droghe pesanti (in particolare, tra le più diffuse, eroina e cocaina) (quelli) che, presentando un
valore medio di purezza per tipo di sostanza, siano al di sotto dei 2 chilogrammi".
3. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e il Procuratore generale
presso la Corte di appello.
3.1. Il B. con il primo motivo deduce violazione di legge, per asserita insussistenza del ritenuto
concorso ex art. 110 cod. pen. nel reato commesso dal G., poichè nulla starebbe a provare che egli
abbia dato un contributo causale alla detenzione illecita addebitata al coimputato e neanche che egli
fosse consapevole del confezionamento, nella sua officina, di panetti di eroina ad opera del G.. A
tutto concedere, il fatto avrebbe dovuto essere qualificato ex art. 379 cod. pen..
Con il secondo motivo, deduce, ancora, violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento
delle attenuanti generiche, atteso che, in proposito, è stato indebitamente valorizzato un remoto
precedente e si è erroneamente ritenuto reticente il comportamento processuale dell'imputato.
3.2. Il Procuratore generale deduce, a sua volta, violazione di legge e contraddittorietà della
motivazione per travisamento del fatto, sostenendo che la Corte di appello ha equivocato sugli esiti
delle analisi eseguite, dalle quali era in realtà emerso che il principio attivo di sostanza drogante,
nelle diverse confezioni di eroina cadute in sequestro, variava tra il 13% e il 17%, ammontando, sul
totale degli oltre 14 chilogrammi di eroina sequestrati, a "circa due chilogrammi o più". La Corte
abruzzese, dunque, aveva erroneamente ritenuto che la sostanza caduta in sequestro consistesse in
soli 17 grammi, avendo confuso il dato percentuale con il principio attivo.
D'altronde, la medesima Corte di appello, nell'ambito del separato procedimento a carico del
coimputato ( G.), aveva riconosciuto che il quantitativo di eroina in oggetto era ingente, ritenendo,
in quella occasione, la sussistenza dell'aggravante contestata.
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Conseguentemente, una volta verificato l'esatto quantitativo di principio attivo nella sostanza
rinvenuta e sequestrata, avrebbe dovuto essere riconosciuta la corretta contestazione dell'aggravante
de qua, sia in relazione alla sua idoneità a soddisfare le esigenze di un numero elevato di
tossicodipendenti (indipendentemente dalla situazione del mercato locale e dalla sua possibile
saturazione, secondo un orientamento giurisprudenziale, che il ricorrente qualifica come
maggioritario), sia in relazione alla "soglia limite", suggerita dal diverso orientamento in proposito
formatosi.
4. La Quarta Sezione penale della Corte di cassazione, cui i ricorsi sono stati assegnati, ha rilevato
l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla questione sollevata dal Procuratore
generale ricorrente, vale a dire sui presupposti in relazione ai quali può essere ritenuta sussistente la
contestata aggravante di cui all'art. 80 del testo unico 9 ottobre 1990, n. 309.
Per tale ragione, con ordinanza in data 11 ottobre 2011, ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, ai
sensi dell'art. 618 cod. proc. pen..
Secondo la predetta ordinanza, la sentenza della Corte di appello contiene un evidente lapsus calami
nella parte in cui indica in 17 grammi il peso complessivo dello stupefacente. Invero, si osserva che,
nella fase di merito, l'imputazione ha sempre riguardato un quantitativo di eroina intorno ai 14
chilogrammi, con un principio attivo medio, come anticipato, del 13-14% e con "punte" fino al 17%
e oltre. Si tratterebbe quindi di un mero errore materiale, in quanto la Corte territoriale avrebbe
riportato la percentuale di principio attivo invece del peso complessivo della sostanza; tuttavia, sulla
base delle argomentazioni sviluppate, si rileva che il giudice di appello ha "ragionato" sul corretto
dato ponderale.
La questione relativa ai criteri in base ai quali ritenere, ovvero escludere, l'esistenza dell'aggravante
in oggetto, ha poi osservato la predetta Sezione, rimane comunque aperta e non può che essere
risolta, considerato il contrasto permanente, dalle Sezioni Unite.
Si osserva al riguardo che la Corte di cassazione si è, per un apprezzabile periodo di tempo,
orientata nel senso della sussistenza dell'aggravante nei casi in cui i quantitativi di sostanza
stupefacente si presentavano idonei al consumo da parte di un numero elevato di fruitori e alla
conseguente saturazione di una rilevante porzione del mercato clandestino.
Si rileva peraltro come si sia affermato, accanto alla opinione sopra sintetizzata, un diverso
indirizzo, in base al quale, pur senza far riferimento al mercato e alla sua eventuale saturazione,
l'aggravante in questione deve ritenersi ricorrente ogni qualvolta il quantitativo di sostanza
stupefacente, pur non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un
pericolo effettivo per la salute pubblica, atteso che esso può soddisfare le "esigenze" di un numero
elevato (anche se non determinabile) di consumatori. Al proposito, si è osservato che il riferimento
al mercato, oltre ad essere arbitrario, è anche di impossibile riscontro, dal momento che, com'è
ovvio, trattasi di mercato clandestino, che, appunto in quanto tale, si sottrae ad ogni tipo di
censimento e controllo.
Si osserva ancora nella ordinanza che, con la sentenza n. 17 del 2000, ricorrente Primavera, le
Sezioni Unite della Corte di cassazione ebbero a stabilire che la circostanza aggravante speciale
dell'ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80,
comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre
ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori
massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante
numero di tossicodipendenti, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà
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sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare
specificamente la ricorrenza di tale circostanza (Rv. 216666).
Per la pronunzia sopra riportata, ciò che rileva è che la quantità di sostanza stupefacente superi
notevolmente, "con accento di eccezionalità", la quantità usualmente trattata in transazioni del
genere. Si tratta allora di accertare che detta sostanza sia oggettivamente di notevole quantità, vale a
dire molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo, che,
per essere riferito a quantità, rimane sostanzialmente indeterminabile, in quanto ampliabile
all'infinito.
L'ordinanza di rimessione ha, al proposito, osservato che il principio sopra enucleato ha trovato
applicazione nelle successive pronunzie del giudice di legittimità, sottolineando che, tuttavia, in
seno alla Sesta Sezione penale, si è venuto - col tempo - delineando un divergente orientamento, in
base al quale la nozione di ingente quantità deve far riferimento ad un valore ponderale eccezionale,
rispetto alle usuali transazioni del mercato clandestino. In base ai dati di comune esperienza,
conoscibili e valutabili proprio dalla Corte di cassazione, in ragione del fatto che essa è da ritenere
"terminale di confluenza" dei moltissimi casi che si verificano e si accertano su tutto il territorio
nazionale, la predetta Sezione è giunta alla conclusione che non possono definirsi ingenti i
quantitativi delle cosiddette "droghe pesanti" - eroina e cocaina in primis - che, presentando un
valore medio di purezza, siano al di sotto dei 2 kg e quantitativi di "droghe leggere" - in particolare
hashish e marijuana - che, sempre in considerazione della percentuale media di principio attivo, non
superino i 50 kg.
Tale opinione, tuttavia, osserva la Quarta Sezione, è stata criticata in altre pronunzie, coeve e
successive, le quali hanno rilevato come la individuazione di precisi parametri quantitativi, per
individuare il carattere ingente della sostanza stupefacente "trattata", costituisca attribuzione
esclusiva del legislatore, il quale, però, non ha ritenuto di fornire alcuna precisa e specifica
indicazione sul punto. E' pur vero, d'altra parte - si fa notare - che anche altre ipotesi criminose sono
state costruite dal legislatore con l'utilizzo di espressioni verbali generiche, espressioni relative a
una maggiore o minore gravità dell'illecito.
Ebbene, in tali casi, la giurisprudenza di legittimità non ha ritenuto necessario fissare un tetto
quantitativo, espresso in precisi termini numerici; la giurisprudenza di merito, per parte sua, risulta
aver elaborato parametri idonei all'individuazione delle fattispecie circostanziate, sulla base dei
giudizi di fatto, che, appunto, attengono al merito. La logicità di tali criteri ha costituito, nei casi
sopra indicati, oggetto del vaglio del giudice di legittimità.
5. Con decreto in data 3 novembre 2011, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni
Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2012 e disponendo la
trasmissione degli atti all'Ufficio del Massimario penale per la redazione della consueta relazione
illustrativa.
Alla data sopra indicata, in considerazione dell'astensione dalle udienze dei difensori, la trattazione
è stata rinviata al 24 maggio 2012.
Motivi della decisione
1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: "Se,
per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati
concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba far ricorso al criterio quantitativo,
con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri
indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute
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pubblica, derivante dallo smercio di un elevato quantitativo, e la potenzialità di soddisfare I
numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili".
2. Prima di affrontare la predetta questione, è necessario esaminare il ricorso dell'imputato, essendo
evidente che, se esso dovesse rilevarsi fondato in riferimento alla prima censura proposta dal B. (il
quale - si ripete - ha sostenuto, in via principale, l'insussistenza dei presupposti in base ai quali fu
ritenuto il suo concorso nel delitto per il quale il G. ha già riportato condanna), non vi sarebbe
possibilità, nè ragione, di affrontare la questione rimessa alle Sezioni Unite.
2.1. La prima censura proposta dall'imputato, peraltro, è infondata.
Si legge nella sentenza impugnata (e il dato è pacifico, non risultando essere mai stato contestato)
che nell'officina-rimessaggio del B. fu rinvenuta la sostanza stupefacente di cui al capo di
imputazione, suddivisa in 26 panetti, confezionati sotto vuoto e avvolti in due involucri di
cellophane.
2.2. Con il ricorso, il difensore dell'imputato sostiene che il solo fatto che il locale nel quale la droga
era stata occultata fosse di proprietà del B. non costituisce certo circostanza sufficiente perchè sia
ritenuto il suo concorso nel reato in questione.
Il ricorrente invero ricorda che "affinchè si possa contestare il concorso di persona nel reato è
necessario dimostrare l'apporto di ciascun concorrente alla determinazione dell'evento. Tale
apporto, per altro, deve configurarsi in termini di funzionalità, utilità o maggiore sicurezza rispetto
al risultato finale".
3. In realtà, il presupposto dal quale muove la critica del ricorrente non corrisponde a quanto
ritenuto ed esposto dalla Corte abruzzese. I giudici di appello, infatti, non hanno affermato la
sussistenza degli estremi del concorso del B. nel reato (già) addebitato al G. per il solo fatto che il
primo era il proprietario del locale nel quale la droga era occultata, ma hanno considerato: a) le
modalità di tale occultamento, b) la presenza nella rimessa-officina di strumentazione utilizzabile
per il confezionamento "sotto vuoto", c) il fatto che sarebbe stato illogico che G. avesse, senza il
consenso del B., nascosto una così rilevante quantità di eroina (avente un controvalore tutt'altro che
trascurabile) in un luogo, nel quale - per stessa ammissione dell'imputato e per quel che si è sforzata
di provare la sua difesa - avevano accesso più persone. Proprio tale ultima circostanza è
particolarmente valorizzata dal giudice di secondo grado, il quale afferma che certamente il G. non
avrebbe corso il rischio di perdere il controllo della "merce", nascosta in un luogo di pertinenza di
altri e, per di più (secondo quanto si sosteneva nell'atto di appello e si sostiene nel ricorso) invito
domino, anzi, addirittura, all'insaputa del proprietario del locale.
Il rischio, secondo la Corte di merito, era notevolmente accresciuto, appunto, dal fatto che la
rimessa-officina era frequentata anche da terze persone, di talchè era stato necessario individuare e
utilizzare "nascondigli" (la cassettiera, la mietitrebbia) all'interno del predetto locale.
Sulla base di tale presupposto fattuale e sviluppando un iter argomentativo tutt'altro che illogico, la
Corte territoriale ha correttamente applicato l'istituto di cui all'art. 110 cod. pen., ritenendo che B.
non fosse nè inconsapevole, nè indifferente in relazione all'occultamento dell'eroina nel suo locale,
ma anzi fosse consenziente e avesse, all'uopo, messo a disposizione la rimessa-officina.
La conclusione cui motivatamente è giunto il giudice di secondo grado non lascia spazio alla
alternativa qualificazione giuridica della condotta del B. ai sensi dell'art. 379 cod. pen.. Invero il
principio in base al quale il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto
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di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, costituisce
giurisprudenza consolidata (cfr. Sez. 6, n. 4927 del 17/12/2003, dep. 2004, Domenighini, Rv.
227986; Sez. 4, n. 12915 del 08/03/2006, Billeci, Rv. 233724); ciò in quanto, nei reati permanenti,
qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo
che sia diversamente previsto - in un concorso, quanto meno a carattere morale.
Il principio, per altro, è stato più volte ribadito proprio in relazione a fattispecie nelle quali il
contributo ascritto all'imputato era consistito nella messa a disposizione di locali utilizzati da terzi
per traffici illeciti di sostanze stupefacenti (cfr. Sez. 6, n. 37170 del 15/04/2008, Cona, Rv. 241209:
fattispecie in cui l'imputato aveva messo a disposizione i locali della propria officina per le attività
di spaccio posta in essere da un congiunto;
Sez. 6, n. 35744 del 03/06/2010, Petrassi, Rv. 248586: fattispecie in cui era stato messo a
disposizione un magazzino perchè vi fosse custodita droga; Sez. 4, n. 13784 del 24/03/2011,
Improta, Rv.
250135: fattispecie in cui il locale era stato messo a disposizione dello spacciatore perchè si
incontrasse con l'acquirente).
4. La seconda censura del ricorso B. è inammissibile per genericità e perchè, sostanzialmente,
articolata in fatto. La pur sintetica motivazione che, in ordine al diniego delle attenuanti di cui
all'art. 62 bis cod. pen., sviluppa la sentenza di appello, fa perno su due presupposti: la esistenza di
precedenti penali (all'imputato, come premesso, è stata contestata la recidiva) e il "censurabile
comportamento processuale, improntato a reticenza e ambiguità".
Orbene, quanto ai precedenti, il ricorrente si limita ad affermare che in realtà vi è un unico
precedente e, per di più, "datato", ma neanche chiarisce a quando risalga e a quale reato si riferisca;
quanto alla condotta processuale, con il ricorso si assume che il B. si è limitato a riferire quel che
sapeva; ciò potrebbe costituire, a tutto concedere, replica alla accusa di reticenza, replica, in sè, non
infondata, atteso che l'imputato non è obbligato a un comportamento collaborativo, ma non certo al
più grave addebito di aver tenuto una condotta processuale ambigua, atteso che il pieno esercizio
del diritto di difesa, se faculta, appunto l'imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo
autorizza, per ciò solo, a tenere atteggiamenti processualmente "obliqui" e fuorvianti, in violazione
del fondamentale principio di lealtà processuale, che deve comunque improntare la condotta di tutti
i soggetti del procedimento (cfr. Sez. 5, n. 15547 del 19/03/2008, Aceto, Rv. 239489) e la cui
violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice del merito.
5. Tanto premesso e definito, è necessario ora passare a esaminare l'unica censura nella quale si
sostanzia il ricorso del Procuratore generale, censura che costituisce, poi, la ragione per la quale
sono state investite queste Sezioni Unite.
5.1. Va innanzitutto ricordato che, dal capo di imputazione, si evince che la circostanza aggravante
di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, è stata contestata in considerazione del
quantitativo totale di eroina tratta in sequestro, pari a poco più di chilogrammi 14; in secondo luogo,
va osservato come si ricavi, dalla sentenza di primo grado, che detta circostanza aggravante è stata
ritenuta in relazione al quantitativo di principio attivo contenuto nella sostanza in questione (dalle
analisi tecniche esperite è emerso che l'eroina sequestrata era "pura" in percentuale mediamente
variabile tra poco più del 13% e il 14%, con "punte" del 17,84% nei 28 panetti nei quali essa era
suddivisa, e quindi pari a circa kg. 2); in terzo luogo, va ribadito che, tuttavia, dalla sentenza
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d'appello, sembra comprendersi che l'aggravante sia stata esclusa sul presupposto che il quantitativo
di principio attivo nella droga tratta in sequestro corrispondesse nel complesso a soli 17 grammi.
5.2. In merito, l'ordinanza di rimessione della Sezione Quarta ritiene tale ultimo riferimento frutto di
un "mero refuso", attinente alla sola "espressione grafica", in quanto la stessa sentenza fa
riferimento alla "modestia di percentuale di principio attivo accertato". D'altra parte, osserva sempre
la sezione rimettente, se la Corte di merito avesse inteso effettivamente far riferimento a un
quantitativo di soli 17 grammi di principio attivo, non avrebbe avuto senso il richiamo della
giurisprudenza di legittimità (in particolare alla sentenza della Sezione Sesta n. 20119 del
26/05/2010), che affronta il problema in relazione a fattispecie in cui le quantità (e le percentuali)
erano di ben altro livello.
L'affermazione merita di essere condivisa, dovendosi il detto quantitativo e la detta percentuale di
principio attivo assumere come dati fattuali certi e immodificabili, conseguenti ad accertamento di
merito, che lo stesso imputato ricorrente (e, prima, appellante) non risulta aver mai contestato.
6. La Quarta Sezione, nell'ordinanza più volte ricordata, compie un sintetico excursus della
giurisprudenza di legittimità, relativa ai criteri utilizzati per la determinazione del concetto di
"ingente quantità", prendendo le mosse da quelle sentenze che fanno esplicito riferimento alla
capacità delle quantità trattate di saturare, in un determinato momento, il mercato clandestino ("un
apprezzabile area di spaccio", cfr. Sez. 4, n. 7204 del 22/05/1997, Franzoni, Rv.
208535 e altre), per ricordare di seguito come il "profilo mercantilistico" fosse stato poi
abbandonato (segnatamente dalla ricordata sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000 e da
quelle delle sezioni semplici che ad essa si erano allineate), per concludere, quindi, facendo
riferimento all'orientamento emerso nell'ambito della Sesta Sezione a far tempo dal 2010. Tale
orientamento ha inteso ancorare la predetta espressione ("ingente quantità") a un dato numerico,
variabile a seconda si tratti di "droghe pesanti", ovvero di "droghe leggere", nel senso che, al di
sotto della soglia individuata, non potrebbe mai ritenersi sussistente l'aggravante in questione.
Per vero, l'ordinanza di rimessione coglie aspetti problematici in entrambe le soluzioni proposte
dalla giurisprudenza di legittimità.
Con riferimento alla prima, in quanto il richiamo al mercato sembra essere stato, in realtà,
reintrodotto dalla perifrasi - utilizzata dalla stessa sentenza Primavera e dalle caudatarie - con la
quale si fa riferimento alle "transazioni del genere nell'ambito territoriale nel quale il giudice di fatto
opera"; con riferimento alla seconda, perchè, come affermato da Sez. 4, n. 2451 del 03/06/2010,
Iberdemaj, Rv. 247823 (e dalle altre pronunzie della medesima sezione che vengono singolarmente
ricordate), non sarebbe consentito al giudice, nel silenzio del legislatore, "fissare predeterminati
limiti quantitativi minimi, al fine di ritenere configurabile la circostanza aggravante in questione".
In tali termini (e con le predette implicazioni), la Sezione rimettente ha individuato il contrasto di
giurisprudenza, per la cui soluzione sono state investite le Sezioni Unite.
7. Per affrontare il problema "alla radice", conviene innanzitutto completare il quadro relativo alle
contrapposte pronunzie giurisprudenziali che, sul tema, si sono susseguite.
7.1. Come correttamente osservato nell'ordinanza di rimessione, a un originario (e risalente)
orientamento, che faceva riferimento alla saturazione del mercato (oltre alla ricordata sentenza
Franzoni del 1997, può essere citata, tra le altre, Sez. 6 n. 8287 del 09/05/1996, Amato, Rv.
205929), ha fatto seguito, nel 2000, la sentenza delle Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000,
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Primavera, che, pretermettendo (almeno in apparenza) il riferimento al mercato, ha sottolineato che,
perchè possa parlarsi di quantità "ingente" di stupefacente, è necessario che "la quantità di sostanza
tossica, oggetto della specifica indagine nel dato procedimento, superi notevolmente, con accento di
eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere, nell'ambito territoriale nel
quale il giudice del fatto opera".
A tale pronunzia fanno esplicito riferimento non poche sentenze successive a far tempo dalla
sentenza n. 44518 del 2003 della Sezione Quarta (ud. 24/09/2003, Grado, Rv. 226817), per la quale
la circostanza aggravante della quantità ingente deve ritenersi sussistente quando il quantitativo, pur
non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un pericolo per la salute
pubblica, ovvero per un rilevante, ancorchè indefinito, numero di tossicodipendenti e, pertanto,
allorchè sia idoneo a soddisfare le esigenze di un numero molto elevato di tossicodipendenti, senza
ulteriore riferimento al mercato e alla eventuale sua saturazione.
Con argomenti analoghi motiva la medesima Sezione, con le sentenze, n. 45427 del 09/10/2003,
Bouzarriah, Rv. 226246, n. 30075 del 21/06/2006, De Angelis, Rv. 235180, n. 12186 del
27/11/2003, dep. 2004, Duro, Rv. 227908, n. 11510 del 02/12/2003, dep. 2004, Esposito, Rv.
228029, n. 47891 del 28/09/2004, Mauro, Rv. 230570, n. 43372 del 15/05/2007, Hillalj, Rv.
238295, n. 36585 del 18/06/2009, ric. Venturini, Rv. 244986 (ed altre non massimate).
Per parte sua, la Sezione Sesta assumeva posizioni analoghe, con le sentenze n. 7254 del
19/10/2004, dep. 2005, Cusumano, Rv. 231313, n. 10834 del 23/01/2008, Sartori, Rv. 239210, n.
1870 del 16/10/2008, dep. 2009, Grieco, Rv. 242637.
Episodicamente anche altre sezioni (Sez. 5, n. 39205 del 09/07/2008, Di Pasquale ed altri, Rv.
241694; Sez. 2, n. 4824 del 12/01/2011, Baruffaci, Rv. 249628), esprimevano simili concetti.
7.2. Ha rilevato, tuttavia, puntualmente, sempre l'ordinanza di rimessione che, a far tempo dal 2010,
la Sezione Sesta ha affermato ripetutamente il principio in base al quale, con riferimento alle così
dette "droghe pesanti", non può definirsi ingente un quantitativo inferiore a 2 chilogrammi e, con
riferimento alle così dette "droghe leggere", a 50 chilogrammi; ciò facendo riferimento a una
percentuale media di principio attivo.
Il rilievo corrisponde al vero, atteso che effettivamente la recente giurisprudenza della Sesta
Sezione ha manifestato l'esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità a un parametro
improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi. Ciò in quanto, diversamente opinando,
dovrebbe sospettarsi, secondo detta Sezione, la esistenza di un insanabile contrasto tra l'aggravante
in questione e il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità, presidiato
dall'art. 25 Cost., comma 2.
Dunque, muovendo dal dictum della sentenza Primavera (e, pertanto, abbandonando anche essa il
criterio della saturazione del mercato, in quanto del tutto assente dalla lettera della norma e
comunque, di fatto, indefinibile), questo "nuovo" orientamento (Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010,
Castrogiovanni, Rv. 243374) ha voluto chiarire che, "ai fini di un'applicazione giurisprudenziale
che non presti il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non (addirittura) di casuale
arbitrarietà, occorra meglio definire l'ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di
riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza
prodottasi successivamente all'accennata sentenza delle Sezioni unite, pur prestandovi formalmente
adesione, presenta talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati quali-quantitativi e di
realtà territoriali in tutto assimilabili".
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Si è, conseguentemente, osservato che il riferimento all'ambito territoriale (pur presente nella stessa
sentenza delle Sezioni Unite, come metro di valutazione della eventuale esuberanza del dato
ponderale rispetto alle "usuali transazioni"), ha uno scarso valore ermenuetico. Ciò in quanto il
mercato della droga ha caratteri globali e, normalmente, non riceve significativi connotati da una
determinata area territoriale.
Dunque, "poichè l'aggravante in questione esprime l'esigenza di reprimere più severamente fatti di
accresciuto pericolo per la salute pubblica in relazione al rilevante numero di tossicofili cui un
determinato quantitativo di droga è potenzialmente destinato, ciò che conta è, appunto, il numero di
fruitori finali e non l'area dove essi insistono".
Facendo ricorso alle medesime espressioni della sentenza Primavera, la predetta pronunzia
aggiunge che, dovendosi porre l'ipotesi aggravata dalla quantità in posizione di marcata eccezione
rispetto alle "usuali transazioni del mercato clandestino", ciò che rileva in assoluto è il valore
ponderale, considerato in relazione al grado di purezza della sostanza tossica, e, quindi, delle dosi
singole (aventi effetti stupefacenti) da essa ricavabili.
Per la Sezione Sesta, non è dubbio poi che ci si debba riferire, non alle transazioni relative alla
vendita al dettaglio e nemmeno a quelle che si verificano tra il pusher e il suo fornitore, ma a quelle
relative ai quantitativi importati. E tali quantitativi ben possono essere valutati proprio dal giudice
di legittimità - si intende, una volta avuto per certo il dato numerico, come emerso nel giudizio di
merito - dal momento che la Corte di cassazione "è sede privilegiata, in quanto terminale di
confluenza di una rappresentazione casistica generale".
Forte, dunque, della propria esperienza nel presente momento storico, la Sezione Sesta ha ritenuto,
come si anticipava, di poter individuare quale "ingente quantità" il valore ponderale (considerato in
relazione alla qualità della sostanza e specificato in ragione del grado di purezza, e, quindi, delle
dosi singole aventi effetti stupefacenti) superiore a 2 kilogrammi per le "droghe pesanti" e a 50
chilogrammi per le "droghe leggere".
Le sentenze della medesima Sezione n. 27128 del 25/05/2011, D'Antonio, Rv. 250736; n. 34382 del
21/06/2011, Romano, non massimata, n. 12404 del 14/01/2011, Laratta, Rv. 249635, hanno
consolidato tale orientamento giurisprudenziale (nel medesimo senso anche Sez. 1, n. 30288 del
08/06/2011, Rexhepi, Rv. 250798).
Da ultimo, la Sesta Sezione ha, ancora una volta, confermato la sua opinione (sent. n. 31351 del
19/05/2011, Turi, Rv. 250545), chiarendo, ribadendo e specificando che "il carattere ingente del
quantitativo, e cioè la sua eccezionale dimensione rispetto alle usuali transazioni, può certamente
essere suscettibile di essere, di volta in volta, confrontato dal giudice di merito con la corrente realtà
del mercato; ma, stando a dati di comune esperienza, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di
cassazione, sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica
generale, deve ritenersi che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe leggere
(...) oramai parificate dal punto di vista sanzionatorio alle così dette droghe pesanti, che,
presentando una percentuale di principio attivo corrispondente ai valori medi propri di tale sostanza,
siano inferiori ai cinquanta chilogrammi" (nel caso in esame si trattava di hashish).
La sentenza da ultimo citata mostra, per altro, di non ignorare le critiche che al filone interpretativo
che essa condivide e corrobora erano state mosse (critiche, come anticipato, in base alle quali non
sarebbe consentito alla Corte di cassazione predeterminare i limiti quantitativi che consentono di
ritenere configurabile la circostanza aggravante de qua, cfr. la già citata sentenza della Sezione
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Quarta, Iberdemaj, nonchè la sentenza, sempre della stessa Sezione n. 9927 del 01/02/2011,
Ardizzone, Rv. 249076, della quale amplius infra.
A tali critiche, invero, si replica da parte della Sesta Sezione osservando che le soglie indicate (2
chilogrammi, 50 chilogrammi) non devono intendersi alla stregua di "valori assoluti o immutabili",
rappresentando esse, viceversa, semplici parametri indicativi, tratti, come più volte chiarito, dalla
casistica apprezzata dalla Corte di legittimità, sulla base dei dati provenienti dalla esperienza
processuale; parametri, per altro, che ben possono essere ritenuti non confacenti al caso di specie, a
patto, però, che il giudice di merito offra specifica indicazione dei criteri di riferimento cui ha inteso
aderire.
7.3. A tale orientamento ha inteso, appunto, esplicitamente "reagire" proprio la Sezione Quarta (e,
come si dirà, episodicamente anche la Quinta), che, con la già (più volte) ricordata sentenza n.
24571 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823, e, ancora più marcatamente, con la citata sentenza n.
9927 del 2011, Ardizzone, ha affermato che "in tema di reati concernenti il traffico illecito di
sostanze stupefacenti, non è consentito predeterminare i limiti quantitativi minimi che consentono
di ritenere configurabile la circostanza aggravante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80,
comma 2".
Ancor più di recente, la Quinta Sezione, per parte sua (sent. n. 36360 del 14/07/2011, Amato, non
massimata), rifacendosi proprio a tale ultima pronunzia, ha ribadito la impossibilità/illegittimità di
fissare soglie aritmeticamente determinate.
8. Tale essendo lo stato della giurisprudenza, appare opportuno, allo scopo di avvicinarsi alla
soluzione del problema, in vista della composizione del contrasto, prendere le mosse da un'analisi
del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non trascurando le conseguenze che la sua
applicazione comporta.
8.1. L'art. 80, comma 2, rappresenta una circostanza aggravante ad effetto speciale, che comporta,
per le condotte incriminate dall'art. 73 del citato D.P.R., aventi ad oggetto quantitativi "ingenti" di
droga, un inasprimento della pena edittale, dalla metà a due terzi.
La pena poi è di anni 30 di reclusione, se le sostanze stupefacenti o psicotrope, oltre ad essere in
quantità ingente, siano anche adulterate o commiste ad altre, in modo che ne risulti accentuata la
potenzialità lesiva.
Al proposito, è utile osservare che, già per lè ipotesi "ordinarie" (quelle non riconducibili all'art. 73,
comma 5 che, come è noto, prevede i casi attenuati del fatto di "lieve entità"), il legislatore ha
approntato un quadro sanzionatorio di estrema severità. Invero, la pena detentiva va da 6 a 20 anni
di reclusione e quella pecuniaria da Euro 26.000 a Euro 260.000 di multa.
Dunque, anche in caso si ritenga insussistente l'aggravante de qua, il giudicante ha a sua
disposizione una gamma sanzionatoria, che, non solo gli consente, come è ovvio, di graduare la
pena secondo i noti criteri di cui all'art. 133 cod. pen., ma che gli conferisce il potere - ricorrendone
ovviamente i presupposti oggettivi e soggettivi - di fornire una risposta repressiva in termini
quantitativamente molto elevati. Il limite massimo della pena edittale per il reato di cui all'art. 73
della vigente legge sugli stupefacenti, invero, si allinea a quelli previsti per alcuni tra i più gravi
delitti.
Se si fa riferimento al caso in esame, poi, non si può non rilevare che il B. è stato condannato, come
ricordato, alla pena di anni nove di reclusione in primo grado. E' allora agevole osservare che, anche
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senza la contestazione dell'aggravante di cui al comma secondo dell'art. 80, la pena inflitta avrebbe
potuto, almeno in astratto, essere egualmente determinata nella misura ritenuta in concreto, atteso
che - come anticipato - il massimo edittale è di gran lunga superiore.
Non basta: l'aggravante in questione comporta conseguenze (ovviamente sfavorevoli per il soggetto
che se la veda riconoscere) con riferimento all'ampliamento dei termini di custodia cautelare,
all'ampliamento dei termini di durata massima delle indagini preliminari, all'inasprimento del
trattamento penitenziario.
Inoltre, per le ipotesi aggravate ai sensi della ricordata norma, è stata prevista l'esclusione
dall'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241.
E' allora evidente che il legislatore ha voluto riservare l'applicazione della aggravante in questione
ai casi di estrema gravità, individuati come tali dalla elevata quantità della sostanza stupefacente
trattata. In questi termini, è assolutamente da condividere la statuizione della sentenza Primavera, in
base alla quale, come anticipato, l'aggravante in questione ricorre tutte le volte in cui il quantitativo
"pur non raggiungendo valori massimi", consenta, tuttavia, di determinare una notevole impennata
nei consumi, raggiungendo quindi un cospicuo numero di sub-fornitori, prima, e una folta massa di
consumatori, in fine. La figura criminale che, attraverso tale previsione, il legislatore individua è
quindi quella del "grossista": non necessariamente, insomma, l'importatore in grado di movimentare
quantità rilevantissime di sostanza stupefacente (e quindi di eseguire pagamenti per importi
altrettanto "impegnativi"), ma certo neanche lo spacciatore di medio livello, in grado di acquistare,
stoccare e smerciare quantità pur ragguardevoli di droga, ma non certo "ingenti" (vocabolo di
incerta etimologia, ma che sembra abbia attinenza con la radice verbale che indica accrescimento,
aumento, incremento).
8.2. Ciò detto, tuttavia, è manifesto che nessun progresso in termini di (maggiore) determinazione
dei concetto espresso dalla norma è stato fatto. Espressioni come quantità "considerevoli, rilevanti,
cospicue", o, appunto, "ingenti", sono tutte sostanzialmente indefinite, perchè relative, mutevoli,
sfuggenti, sottoposte all'interpretazione soggettiva e all'esperienza contingente.
D'altronde, il riferimento al mercato, che l'originario orientamento aveva effettuato, nel tentativo di
ricercare un aggancio oggettivo al dato normativo, è stato, come si è visto, per tempo, e
opportunamente, abbandonato per le ragioni che si sono sopra accennate: trattandosi di un mercato
illegale, e quindi clandestino, nessuna credibile rilevazione della dinamica domanda-offerta è
possibile. A ciò si deve aggiungere che, se si fa riferimento, come è inevitabile, "ai mercati",
piuttosto che "al mercato" (atteso che in una determinata zona la saturazione può avvenire in tempi
diversi - e quindi con quantità diverse - rispetto a un'altra), si rischia di violare il principio
costituzionale di eguaglianza, finendo per attribuire rilevanza, in termini di aggravante, a una
circostanza in un determinato contesto e non in un altro. E ciò, si badi bene, in presenza di
un'aggravante che è costruita sul solo dato quantitativo (e che quindi non dovrebbe essere
diversamente declinata ratione loci). A differenza, infatti, dell'attenuante di cui al D.P.R., art. 73,
comma 5, più volte citata, che, per delineare i fatti "di lieve entità", invita il giudice a prendere in
esame, oltre alla quantità dello stupefacente trattato, vari altri parametri (i mezzi adoperati, le
modalità della condotta, le circostanze che l'hanno accompagnata, la qualità dello stupefacente),
l'aggravante di cui all'art. 80, comma 2 del medesimo corpus normativo fa riferimento solo alla
quantità ("ingente") della sostanza. Naturalmente la quantità va valutata in riferimento al principio
attivo, non al materiale inerte di cui la sostanza risulti essere anche composta; ma il giudice non può
e non deve far riferimento a nessun altro parametro, se non a quello (estrinseco e oggettivo) della
"ingente" quantità.
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9. L'esame delle sentenze di merito, oggetto di ricorso per cassazione con riferimento all'aggravante
di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 (esame condotto dall'Ufficio del Massimario di
questa Corte in relazione al periodo successivo al manifestarsi del contrasto, vale a dire a far tempo
dal 2011), offre un quadro quanto mai "variegato" circa il concetto di quantità ingente, come
ritenuto dai giudicanti di primo e secondo grado.
9.1. Quanto alle "droghe pesanti", si va dai 100 chilogrammi di cocaina, ritenuti quantità ingente
dall'autorità giudiziaria milanese, ai 15 grammi, ritenuti integrare l'aggravante de qua dall'autorità
giudiziaria napoletana (in tale ultimo caso, questa Corte, annullando sul punto, ha escluso
l'aggravante in questione);
dai 767 grammi, sequestrati a Foggia e ritenuti quantità ingente, ai 512 grammi, sequestrati a
Taranto, giudicati quantità non ingente.
9.2. Analogo divario è stato segnalato per l'eroina (dai 106 grammi, ritenuti quantità ingente
dall'autorità giudiziaria catanese, con conseguente annullamento con rinvio da parte della Corte di
cassazione, ai 45,270 chilogrammi sequestrati a Milano).
9.3. Con riferimento all'hashish, la valutazione spesso è effettuata in relazione alle dosi
confezionate (es. 12.532 dosi, giudicate quantità ingente dall'autorità giudiziaria di Santa Maria
Capua Vetere, giudizio che è passato indenne al vaglio di questa Corte), ma anche al valore
ponderale, con frequenti annullamenti - con o senza rinvio - in relazione alla ritenuta aggravante (7
chilogrammi a Bologna, 6 chilogrammi a Paola, 600 grammi a Enna ecc).
9.4. Quanto alla marijuana, potendo essa essere prodotta in Italia, il più delle volte, i sequestri
hanno riguardato le piantagioni, più che il "prodotto finito", con la conseguenza che, data la
notevole estensione degli appezzamenti di terreno coltivati, la quantità ingente è quasi sempre stata
ritenuta.
10. Quelli sommariamente esposti sono dati ovviamente parziali e, peraltro, selezionati in base alla
iniziativa della parte che ha deciso di proporre ricorso per cassazione e di sottoporre, in tal modo, al
giudice di legittimità la valutazione che, in termini di "ingente quantità", aveva effettuato il giudice
del merito.
Si tratta, tuttavia, di dati significativi in ordine alla questione che in questa sede deve essere
affrontata, in quanto evidenziano, come anticipato, la estrema differenziazione e la conseguente
mutevolezza delle decisioni dei giudici di merito.
Di talchè si giunge alla - apparentemente paradossale - conclusione in base alla quale la sussistenza
dell'aggravante (e l'aggravamento della pena) dipendono dalla concorrenza di una circostanza
oggettiva, molto soggettivamente interpretata, però, in quanto essa è rimasta concettualmente
incerta e quantitativamente fluttuante. E ciò, naturalmente, rappresenta, sotto altro verso, ancora una
volta, insidia al principio costituzionale di eguaglianza (non pochi ricorrenti si sono lamentati della
disparità di trattamento, in quanto, dovendo rispondere del medesimo fatto, ma essendo stati
giudicati separatamente, alcuni si sono visti ascrivere la circostanza aggravante della "ingente
quantità", che viceversa per altri è stata esclusa. E tale sembrerebbe, per altro, essere il caso del B.
nei confronti del coindagato G., atteso che, per il primo, in appello, è stata eliminata la aggravante,
che, viceversa, come sostiene il ricorrente Procuratore generale, è stata addebitata definitivamente
al secondo).
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11. E' allora da chiedersi se non si sia in presenza di una previsione normativa priva di quel livello
di determinatezza e tassatività che, trattandosi di disposizione sanzionatola penale, deve
necessariamente sussistere perchè sia superato il giudizio di compatibilità costituzionale. E' chiaro
infatti che un sospetto di tal genere imporrebbe di investire della questione il Giudice delle leggi.
11.1. Ebbene, proprio la Quarta Sezione, con la sentenza n. 40792 del 10/07/2008, Tsiripidis, Rv.
241366, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità - sollevata con
riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, art. 25, comma 2, art. 111 Cost., comma 6, - della aggravante
di cui al D.P.R. 309 del 1990, art. 80, comma 2, a cagione della sua pretesa indeterminatezza.
Ha osservato la Quarta Sezione che il presupposto di operatività della aggravante, per quanto
ampio, non può "ritenersi indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare l'introduzione di
parametri legali precostituiti, i quali impedirebbero al giudice di apprezzare in concreto la gravità
del fatto e quindi rideterminare la pena in termini di coerente proporzionalità rispetto al suo
effettivo profilo e alla personalità dell'autore".
11.2. L'ordinamento, d'altronde, conosce altre ipotesi in cui disposizioni penali evocano il concetto
di "ingente quantità".
Il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 53 bis, sostituito dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 260, in
tema di traffico illecito di rifiuti, prevede la condotta di chi "cede, riceve, trasporta, esporta,
importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti". Ebbene, anche a
proposito di tale normativa, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, dep.
2008, ric. Patrone, Rv. 238558) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale della norma sopra ricordata, per pretesa violazione dell'art. 25 Cost., sul presupposto
dell'asserita indeterminatezza del concetto di ingente quantità di rifiuti. La Sezione Terza, al
contrario, ha ritenuto senz'altro possibile definire l'ambito applicativo della disposizione, tenuto
conto che tale nozione, in un contesto che consideri anche le finalità della norma, va riferita al
quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se
queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta.
Nè diversamente si è orientata la medesima Sezione in tema di pedopornografia, in relazione al
dettato degli artt. 600 ter e 600 - quater cod. pen., i quali fanno riferimento alla detenzione di
materiale (pedopornografico, appunto) in "ingente quantità". E, infatti, con la sentenza n. 17211 del
31/03/2011, R., Rv. 250152, la predetta Sezione ha chiarito, a proposito della nota locuzione, che il
suo uso "rappresenta l'espressione di una legittima scelta del legislatore di riservare al giudicante il
potere di considerare un fatto aggravato o attenuato in relazione agli innumerevoli, e mai
predeterminabili, casi della vita. Come, però, accade abitualmente, di fronte all'uso, di siffatti
termini di respiro, che rimandano alla valutazione dell'interprete, la difficoltà risiede nella
individuazione di parametri che - senza avere la pretesa di contenere numericamente entro "gabbie"
precostituite i concetti da definire - ne delimitino, tuttavia i confini. Orbene, nel perseguire tale
obiettivo, con riferimento alla fattispecie che occupa (detenzione di materiale pedopornografico) si
può cominciare con l'osservare che l'apprezzamento come ingente, del quantitativo di materiale
posseduto, è da ritenersi correlato al dato numerico delle immagini contenute nei supporti più vari".
11.3. Per completezza, va chiarito che, in merito a tali posizioni, non sempre la dottrina si è
mostrata consenziente, giungendo - per vero - a dubitare della compatibilità di tali norme (e di tali
interpretazioni) con il principio di legalità, sotto lo specifico profilo della tassatività e
determinatezza della figura criminosa, come descritta dalla littera legis.
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Si è, anzi, sostenuto da parte di taluni Autori, che l'indeterminatezza normativa del legislatore
costringe il giudice a una inevitabile "tautologia interpretativa" (in quanto egli, con parole diverse,
non fa che riprodurre il testo della norma, senza apportare alcun contributo chiarificatore), con la
conseguenza che precetti penali così aspecificamente formulati finiscono con l'entrare in conflitto
anche con l'art. 54 Cost.,, comma 1, poichè non è possibile osservare leggi che non siano chiare e
comprensibili nel loro contenuto.
12. Orbene, è noto che il principio di determinatezza trova il suo fondamento costituzionale nell'art.
25, comma 2, e art. 13 Cost., comma 2 (ma esso risulta desumibile, negli stessi termini, dal testo
dell'art. 7 della CEDU, in quanto espressione del più ampio principio di legalità).
Al proposito, la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 364 del 1988 e n. 185 del 1992) ha
chiarito che la (sufficiente) determinatezza della fattispecie penale è certamente funzionale tanto al
principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia penale
(evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell'individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò
che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione individuale, perchè consente al
destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze (giuridico-penali, appunto) del proprio
agire.
Sulla base di tali premesse, tuttavia, non è stato ritenuto dal Giudice delle leggi incompatibile con il
principio di determinatezza l'utilizzo, nella formula descrittiva dell'illecito penale, di espressioni
sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti "elastici" (Corte cost,
sentenze n. 247 del 1989, n. 34 del 1995, n. 5 del 2004 e n. 395 del 2005), ed è stata così negata
l'indeterminatezza di talune fattispecie sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto ha
ritenuto la Corte che competa all'interprete rendere certe e determinate quelle fattispecie che, in
astratto, possono apparire prive di contorni sicuri e definiti (Corte cost,. sent. n. 247 del 1997 e n. 69
del 1999).
Il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà
fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò va fatto
attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale.
12.1. Al proposito, altra dottrina sembra aver assunto una posizione di non netta chiusura,
pretendendo rigida determinatezza della norma descrittiva della condotta penalmente vietata,
ovvero aggravatrice dell'illecito e concedendo, però, una qualche possibilità di formulazione "più
elastica" quando si tratti di attenuare la dimensione offensiva o mitigare le conseguenze
sanzionatorie.
Altri Autori hanno mostrato ancora maggiore apertura, attribuendo decisamente al giudice il poteredovere di specificare la portata della norma, quando il dato letterale faccia riferimento a una realtà
quantitativa, ponderale o temporale non predeterminabile in termini di certezza, ma comunque
sufficientemente circoscrivibile, sulla base delle conoscenze condivise e delle massime di
esperienza (si fa l'esempio del danno patrimoniale di rilevante gravità, di cui all'art. 61 cod. pen., n.
7, o di speciale tenuità, di cui all'art. 62 cod. pen., n. 4).
13. Va al riguardo osservato che il condivisibile criterio del riferimento alle conoscenze condivise e
alle (comuni) massime di esperienza non esclude affatto che quali valori di riferimento si assumano
anche grandezze numeriche, che hanno la peculiarità di esprimere - nella loro astrattezza - parametri
valutativi generali e quindi generalmente applicabili.
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D'altronde, la giurisprudenza precedentemente citata (cfr. Sez. 3, n. 17211 del 2011 in tema di
pedopornografia), con riferimento ai testi normativi - diversi da quelli sugli stupefacenti - che anche
fanno ricorso ad espressioni "elastiche", pur assumendo che ricorrere a valori numerici
costringerebbe il ragionamento del giudice entro inaccettabili "gabbie" (così testualmente), non
rifugge, poi, da esemplificazioni di natura, appunto, numerica. Così detta sentenza, a proposto della
detenzione di materiale pedopornografico, esclude che possa parlarsi di ingente quantità quando la
detenzione sia relativa a decine, ma anche a centinaia, di immagini e giunge alla conclusione che
"diverso è il caso di chi superi, più o meno ampiamente, tali indicazioni di massima".
14. La soluzione va allora ricercata all'interno del sistema che, in tema di stupefacenti, la vigente
legislazione ha approntato.
14.1. Detta normativa contempla, come è noto (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 13, comma 1, e art. 14
come modificati e integrati prima dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49, e successivamente dalla L. 15 marzo 2010, n. 38), che le sostanze stupefacenti e
psicotrope siano iscritte in due tabelle.
La prima tabella comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e
sostanze psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno
funzione farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Si tratta, appunto, di farmaci.
Dette tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di
variarne la collocazione o di provvedere a eventuali cancellazioni.
L'aggiornamento pertanto interviene (con decreto ministeriale) tutte le volte in cui una "nuova
sostanza" diventa oggetto di abuso o quando qualche "nuova droga" viene messa in circolazione sul
mercato clandestino o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione
stupefacente o psicotropa. Naturalmente una stessa sostanza (es. la morfina) può trovarsi in
entrambe le tabelle, perchè, pur essendo un farmaco utile per lenire il dolore, essa è idonea a
provocare tossicodipendenza.
Le tabelle in questione, poi (ed è ciò che in questa sede rileva), indicano, tra l'altro, i cd. "limitisoglia", cioè i limiti quantitativi massimi previsti, oltre i quali le condotte descritte nel D.P.R. n. 309
del 1990, art. 73, comma 1-bis, sono considerate di regola penalmente rilevanti e, quindi,
potenzialmente assoggetta bili al trattamento sanzionatorio previsto dai comma 1 del medesimo
articolo (reclusione da sei a venti anni e multa da 26.000 a 260.000 Euro).
Tali limiti, dunque, costituiscono il discrimine tendenziale fra "uso personale", che non comporta
sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse.
Va peraltro precisato che tanto il possesso quanto l'uso di droghe costituiscono, comunque, condotte
riprovate e vietate dall'ordinamento, il quale, tuttavia - per quel che si è appena detto - non sempre
reagisce con la minaccia e la applicazione di sanzione penale.
In sintesi: proprio per il dettato dell'art. 73, comma 1 bis, lett. a), del più volte ricordato D.P.R. n.
309 del 1990 e per il rinvio che esso adotta alla apposita tabella, acquistano rilievo dirimente le
"soglie", al di sotto delle quali il possesso delle predette sostanze si presume per uso esclusivamente
personale (sempre che, per altre circostanze sintomatiche, quali le modalità di presentazione, il
confezionamento frazionato o altro, la presunzione sia ritenuta non operativa).
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In scala di crescente gravità, viene in considerazione la ipotesi della lieve entità, di cui al dell'art.
73, comma 5; le ipotesi "ordinarie" sono quelle residuali di cui all'art. 73; mentre la risposta
repressiva più forte è riservata alle ipotesi aggravate di cui ai quattro commi dell'art. 80.
14.2. Orbene è da osservare che il ricordato D.L. n. 272 del 2005, introducendo criteri tabellari, ha
dato primario risalto proprio al dato quantitativo, in relazione alle dosi ricavabili. Come suggerisce
parte della dottrina, esso può offrire al giudice nuovi elementi di apprezzamento per valutare la
ricorrenza dell'aggravante in discussione.
Invero, proprio dai riferimento al "sistema tabellare" e dal rilievo (diretto e riflesso) che esso ha nel
sistema, si può e si deve trarre la conclusione che è necessario individuare un parametro numerico
anche per la determinazione del concetto di ingente quantità.
Infatti, se il legislatore ha positivamente determinato la soglia - quantitativa, appunto - di punibilità
(dunque un limite "verso il basso"), consegue che l'interprete ha il compito di individuare una soglia
al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze
stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità (un limite, quindi, "verso l'alto").
Dunque, il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi dell'art. 73, comma 1 bis, lett.
a) la soglia al di sotto della quale si presume l'uso personale, sia per la individuazione dell'ipotesi
lieve di cui all'art. 73, comma 5 (unitamente ad altri dati, parimenti valutabili da parte del giudice),
sia per la configurabilità dell'ipotesi aggravata di cui al dell'art. 80, comma 2.
Va precisato che la giurisprudenza (cfr. Sez. 6, n. 48434 del 20/11/2008, Puleo, Rv. 242139) ha
interpretato la tabella attuativa nel senso che i limiti quantitativi in essa previsti riguardano il
principio attivo e dunque le dosi utilmente realizzabili; e lo stesso criterio interpretativo (la
incidenza del principio attivo), ovviamente, deve essere adottato per determinare l'ingente quantità
di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2. Infatti, poichè i beni oggetto di tutela penale da
parte delle fattispecie incriminatrici ex artt. 73 e 74 D.P.R. citato sono tanto la salute dei singoli
quanto la sicurezza pubblica (cfr. Corte cost, sent. n. 333 del 1991; Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998,
Kremi, Rv. 211073; Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920), consegue che la ratio
della severissima punizione prevista con riferimento alla condotta descritta dall'art. 80, comma 2, va
ricercata nel fatto che una quantità "ingente" di sostanza stupefacente (tale considerata con
riferimento al principio attivo), consentendo il confezionamento di un numero davvero rilevante di
dosi, determina un "allagamento della piazza di spaccio", con le ovvie ricadute, appunto, tanto in
termini di illecito e iperbolico arricchimento di chi tale traffico gestisce ai più alti livelli (e si tratta
ovviamente di soggetti non estranei alla criminalità organizzata), quanto con riferimento all'ordine
pubblico e alla salute dei consociati.
Già la sentenza delle Sezioni Unite Primavera, d'altra parte, aveva evidenziato come la "elevazione
del livello di offerta" e il conseguente "calo del prezzo di scambio" costituissero ovvi fattori
moltiplicatori della diffusione delle droghe.
15. I valori numerici, per tutto quel che si è detto, in quanto "misuratori di grandezza", costituiscono
necessariamente l'oggetto dell'attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunziarsi sulla
conformità di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza.
15.1. Avendo allora come riferimento e punto di partenza il valore- soglia previsto dalle predette
tabelle (in quanto "unità di misura" rapportabile al singolo cliente-consumatore), è conseguente
stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti, come risultante
a questa Corte di legittimità in relazione ai casi sottoposti al suo esame ("casi" riferibili all'intero
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territorio nazionale), una soglia, ponderalmente determinata, al di sotto della quale non possa di
regola parlarsi di quantità "ingente".
Non si tratta invero di usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo
legislatore, ma di compiere una operazione puramente ricognitiva, che, sulla base dei dati
concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari (dati frutto di
nozioni tossicologiche ed empiriche: cfr.
Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejial, Rv. 240526), individui, sviluppando detti dati, una "soglia
verso l'alto", al di sopra della quale possa essere ravvisata la aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del
1990, art. 80, comma 2.
15.2. Ebbene, sulla base dei dati affluiti a questa Corte, si può affermare che, avendo riferimento
alle singole sostanze indicate nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, non può certo ritenersi
"ingente", un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valoresoglia (espresso in mg nella tabella).
Si tratta di un "moltiplicatore" desumibile proprio con riferimento alla casistica scaturente dalla
indagine condotta dall'Ufficio del Massimario di questa Corte, sul "materiale giudiziario" a sua
disposizione.
Invero su di un totale di 65 casi esaminati, in relazione alla così dette "droghe pesanti", in 21
occasioni sono stati eseguiti sequestri (o comunque è stato accertato il possesso) di quantitativi
superiori ai 10 chilogrammi. Con riferimento ai residui casi, la "maggioranza relativa" riguarda
sequestri inferiori ai 2 chilogrammi.
Discorso analogo può esser fatto con riferimento alle "droghe leggere", avendo come discrimen il
quantitativo di 50 chilogrammi.
E' allora evidente che se, come richiede la sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000, per
integrare il requisito della "ingente quantità", è necessario che la dimensione ponderale della
sostanza stupefacente presenti "accenti di eccezionalità", detta eccezionalità non potrà che essere
valutata se non come "strappo" a un criterio di (relativa) regolarità. Ora, avendo presente il
quantitativo, numericamente espresso in milligrammi, indicato nella tabella più volte menzionata,
ovvero il così detto valore-soglia (750 per la cocaina, 250 per l'eroina, 1000 per l'hashish ecc.) e
considerando che il grado di "purezza" delle sostanze cadute in sequestro ed esaminate dai
consulenti tossicologici - come riportato nelle sentenze di merito prese in considerazione (cfr. supra,
i punti da 9.1 a 9.4) - è pari a oltre il 50% per la cocaina, al 25% per la eroina, al 5% per l'hashish tanto per circoscrivere l'analisi alle più diffuse sostanze droganti - appaiono condivisibili, in via di
prima approssimazione, i criteri indicati dalla Sesta Sezione di questa Corte con le sentenze emesse
a far tempo dal 2010.
La conclusione, in ultima analisi, finisce per corrispondere a quei criteri di ragionevolezza, di
proporzionalità e di equità, che proprio la più volte ricordata sentenza Primavera, di queste Sezioni
unite, ebbe, a suo tempo, a indicare.
15.3. Più correttamente, tuttavia, per quel che si è anticipato, piuttosto che far riferimento al valore
ponderale globale, appare opportuno riferirsi, appunto, alle dosi-soglia, individuando, come si
diceva, in 2000 il limite al di sotto del quale non potrà essere di norma contestata l'aggravante della
ingente quantità, atteso che a tale limite corrispondono, in linea di massima, i valori ponderali
individuati come "medi" (rectius: non eccezionali) dalla giurisprudenza di merito.
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15.4. Indubbiamente, non si tratta di una rigorosa valutazione statistica, per la buona ed evidente
ragione - più volte ribadita - che i numeri sul traffico di sostanze stupefacenti sono numeri oscuri; si
tratta, viceversa, di una valutazione operata su dati processuali (essendo, peraltro, la verità
processuale l'unica conoscibile dal giudice), che, tuttavia, pur con inevitabili margini di
approssimazione, possono e devono essere assunti.
La soglia così stabilita, come si è chiarito, definisce tendenzialmente il limite quantitativo minimo,
nel senso che, al di sotto di essa, la "ingente quantità" non potrà essere di regola ritenuta; al di
sopra, viceversa, deve comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice del merito.
In altre parole, i parametri sopra enucleati non determinano - di per sè e automaticamente - se
superati, la configurabilità dell'aggravante. Essi, invero, valgono solo in negativo, nel senso che, al
di sotto degli accennati valori quantitativi, l'aggravante (D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 80, comma
2) deve ritenersi in via di massima non sussistente.
16. Pertanto, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, si deve enunciare il
seguente principio di diritto:
"L'aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, non è
di norma ravvisante quando la quantità sta inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi
(valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, ferma
restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata".
17. In conseguenza di tutto quanto premesso, mentre il ricorso dell'imputato va rigettato, con
conseguente condanna del B. al pagamento delle spese del procedimento, il ricorso del Procuratore
generale deve essere accolto, disponendosi, per l'effetto, l'annullamento con rinvio ad altro giudice
di appello, da individuare nella Corte di appello di Perugia, che farà applicazione del principio
sopra enunciato.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente
al punto concernente l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, e rinvia per
nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia.
Rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
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6)
Accesso abusivo a sistema informatico o telematico
Tizio è maresciallo dei carabinieri presso la stazione Ostia.
Una sera, Tizio tornava a casa un po’ triste perché era venuto a sapere che sua moglie Marzia si
incontrava di nascosto con l’idraulico Piero.
Così, dalla propria abitazione in via Sibari a Roma, Tizio accedeva alla banca dati riservata ai
carabinieri per cercare notizie su Piero; in effetti, Tizio, al suddetto fine, dopo l’accesso, utilizzava
la banca dati per circa due ore.
Il candidato rediga motivato parere circa la condotta posta in essere da Tizio in relazione al reato
ex art. 615 ter c.p.
Possibile soluzione schematica
In premessa si poteva schematizzare il fatto; successivamente bisognava chiedersi: la condotta
posta in essere da Tizio può essere inquadrata nell’ambito del disposto dell’art. 615 ter c.p.?
In favore della tesi negativa depongono i rilievi che:
-l’inciso “abusivamente” richiede una condotta in contrasto con la volontà del disponente
dell’account; quando viene utilizzata una banca dati di cui è stato dato l’account, si manifesta una
volontà implicita a permetterne sempre l’utilizzo; pertanto, la condotta di Tizio non è abusiva
perché non contrasta con la volontà di chi conferisce l’account, che anzi al contrario ha
preventivamente accettato implicitamente tale utilizzo;
-l’inciso “abusivamente” andrebbe decodificato nel senso di “accesso non autorizzato”, mentre nel
caso in esame è autorizzato, visto che Tizio ha legittimamente accesso alla banca dati.
Accogliendo tale ricostruzione, Tizio non potrebbe essere punito per il reato ex art. 615 ter c.p.
Tuttavia, si ritiene di privilegiare l’orientamento che condanna Tizio: l’art. 615 ter c.p. è
applicabile nel caso in esame per le seguenti ragioni:
-l’accesso è abusivo quando il bene (nel caso in esame la banca dati) viene utilizzata in modo non
conforme alle ragioni per cui è legittimato l’accesso; in pratica: l’accesso è abusivo perché non
finalizzato a realizzare gli scopi per cui tale accesso è stato legittimato; abusività, dunque, va
parametrata alle modalità di utilizzo, ovvero al quommodo più che all’an; non è un accesso
autorizzato.
-per analogia, poi, l’accesso abusivo è simile alla violazione di domicilio di cui all’art. 615 c.p., ed
in quest’ultimo caso è punita l’abusività, intesa come esercizio disfunzionale del potere (abuso di
potere).
Ne segue che Tizio potrà essere chiamato a rispondere del reato ex art. 615 ter c.p.
Integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico
protetto, prevista dall'art. 615-ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel
sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti
risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne
oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del resto, gli scopi e
le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema.
Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 7.2.2012, n. 4694
...omissis...
Motivi della decisione
1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente; "se
integri la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la
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condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi
o finalità estranei a quelli peri quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita". 2. Il quesito inerisce
alla fattispecie criminosa, introdotta dalla L. 23 dicembre 1993, n. 547 e prevista dall'art. 615-ter
cod. pen., che sanziona (comma 1) il fatto di "Chiunque abusivamente si introduce in un sistema
informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero ivi si mantiene contro la volontà
espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo".
Le condotte punite da tale norma, a dolo generico, consistono pertanto: a) nell'introdursi
abusivamente in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza: da intendersi
come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da
lontano (attività tipica dell'hacker) sia da vicino (da persona, cioè, che si trova a dirette contatto
dell'elaboratore);
b) nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione: da
intendersi come il persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata o casuale,
continuando ad accadere alla conoscenza del dati nonostante il divieto, anche tacito, del titolare del
sistema. Ipotesi tipica è quella in cui l'accesso di un soggetto sia autorizzato per il compimento di
operazioni determinate e per il relativo tempo necessario (ad esempio, l'esecuzione di uno specifico
lavoro ovvero l'installazione di un nuovo programma) ed il soggetto medesimo, compiuta
l'operazione espressamente consentita, si intrattenga nel sistema per la presa di conoscenza, non
autorizzata, dei dati.
3. La controversia interpretativa che ha portato alla rimessione dei ricorsi in oggetto alle Sezioni
Unite si incentra sulla configurabilità del reato nel caso in cui un soggetto, legittimamente ammesso
ad un sistema informatico o telematico, vi operi per conseguire finalità illecite.
Sul punto si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.
3.1 Un primo orientamento ritiene che il reato di cui ai primo comma dell'art. 615-ter cod. pen.,
possa essere integrato anche dalla condotta del soggetto che, pure essendo abilitato ad accedere al
sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati
protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione
dell'archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle
consentite.
Tale orientamento si fonda sostanzialmente sulla considerazione che la norma in esame punisce non
soltanto l'abusiva introduzione nei sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di
legittimazione) ma cinetici l'abusiva permanenza in esso contro la volontà di chi ha il diritto di
escluderla: volontà contraria tacita in caso di perseguimento di una finalità illecita incompatibile
con le ragioni per le quali l'autorizzazione all'accesso sia stata concessa.
L'opzione esegetici in oggetto è stata motivata anzitutto sulla base della ravvisata analogia con la
fattispecie della violazione di domicilio, considerandosi che entrambi gli illeciti sono caratterizzati
dalla manifestazione di una volontà contraria a quella, anche tacita, di chi ha diritto di ammettere ed
escludere l'accesso e di consentire la permanenza (nei sistema informatico alla stessa stregua che
nel domicilio).
Se il titolo di legittimazione all'accesso viene utilizzato dall'agente per finalità diverse da quelle
consentite, dovrebbe ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà
dei titolare del diritto di esclusione. Pertanto commette reato anche chi, dopo essere; entrato
legittimamente in un sistema, continui ad operare o a servirsi di esso oltre i limiti prefissati dal
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titolare; in tale Ipotesi ciò che si punisce è l'uso dell'elaboratore avvenuto con modalità non
consentite, più che l'accesso ad esso.
In questo senso ha argomentato, per la prima volta la Quinta Sezione, con la sentenza n. 12732 del
07/11/2000, Zara, concernente una vicenda in cui un soggetto, essendo autorizzato solo all'accesi"
"per controllare la funzionalità del programma informatico", si era indebitamente avvalso di tale
autorizzazione "per copiare i dati in quel programma inseriti", rilevando che; "il delitto di
violazione di domicilio è stato notoriamente il modello di questa nuova fattispecie penale, tanto da
indurre molti a individuarvi, talora anche criticamente, la tutela di un domicilio informatica".
Analoghe considerazioni sono state svolte dalla Seconda Sezione, con la sentenza n. 30663 del
04/05/2006, Grimoldi, ed ulteriormente sviluppate dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 37322
del 08/07/2008, Bassani, dove è stato posto in evidenza che "la norma in esame tutela, secondo la
più accreditata dottrina, motti beni giuridici ed interessi eterogenei, quali il diritto alla riservatezza,
diritti di carattere patrimoniale, come il diritto all'uso indisturbato dell'elaboratore per perseguire
fini di carattere economico e produttivo, interessi pubblici rilevanti, come quelli di carattere
militare, sanitario nonchè quelli inerenti all'ordine pubblico ed alla sicurezza, che potrebbero essere
compromessi da intrusioni o manomissioni non autorizzate. Tra i beni e gli interessi tutelati non vi è
alcun dubbio ... che particolare rilievo assume la tutela del diritto alla riservatezza e, quindi, la
protezione del domicilio informatico, visto quale estensione del domicilio materiale. Tanto si
desume dalla lettera della norma che non si limita soltanto a tutelare i contenuti personalissimi dei
dati raccolti nei sistemi informatici, ma prevede uno ius excludendi alios quale che sia il contenuto
dei dati .... D'altro canto il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è stato collocato dalla L.
23 dicembre 1993, n. 547, che ha introdotto nel codice penale i cd. computer's crimes, nella sezione
concernente i delitti contro la inviolabilità del domicilio e nella relazione al disegno di legge i
sistemi informatici sono stati disfiniti un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto
interessato, garantite dall'art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e
tradizionali dagli artt. 614 e 615 cod. pen.".
La sentenza n. 37322 del 2008 ha ribadito che "la violazione dei dispositivi di protezione del
sistema informatico non assume rilevanza di per sè, perchè non si tratta di un illecito caratterizzato
dalla effrazione dei sistemi protettivi, bensì solo come manifestazione di una volontà contraria a
quella di chi del sistema legittimamente dispone. ... L'accesso al sistema è consentito dal titolare per
determinate finalità, cosicchè se il titolo di legittimazione all'accesso viene dall'agente utilizzato per
finalità diverse da quelle consentite non vi è dubbio che si configuri il delitto in discussione,
dovendosi ritenere che il permanere nel sistema per scopi diversi da quelli previsti avvenga contro
la volontà, che può, per disposizione di legge, anche essere tacita, del titolare del diritto di
esclusione".
L'orientamento in oggetto ha trovato successivamente accoglimento in ulteriori pronunzie della
Quinta Sezione:
La sentenza n. 13006 del 13/02/2009, Russo, ha applicato il principio ad una fattispecie relativa
all'indebita acquisizione, con la complicità di appartenenti alla Polizia di Stato, di notizie riservate
tratte dalla banca-dati del sistema telematico di informazione interforze del Ministero dell'Interno,
per l'utilizzo in attività di investigazione privata di agenzie facenti capo agli stessi indagati o alle
Quali essi collaboravano.
La sentenza n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Matassich, ha ribadito l'orientamento in relazione
alla copiatura, da parte di dipendenti, dei files presenti nella memoria del computer della azienda
ovi essi prestavano lavoro.
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Lei sentenza n. 19463 del 16/02/2010, Jovanovic, ha ravvisato la configurabilità del reato di cui
all'art. 615-ter cod. pen. per "il pubblico ufficiale che, pur avendo titolo e formale legittimazione per
accedere ad un sistema informatico o telematico, vi si introduca su altrui istigazione criminosa nel
contesto di un accordo di corruzione propria". In tal caso già l'accesso del pubblico ufficiale - che,
in seno ad un reato plurisoggettivo finalizzato alla commissione di atti contrari ai doveri d'ufficio
(art. 319 cod. pen.), diventi la longa manus del promotore del disegno delittuoso - è stato ritenuto in
sè "abusivo" e integrativo della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 615-ter cod. pen., in quanto
"effettuato al di fuori dei compiti d'ufficio e preordinato all'adempimento dell'illecito accordo con il
terzo, indipendentemente dalla permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di
escluderlo".
Secondo tale pronuncia, "tanto sposta l'attenzione dal momento della permanenza nel sistema
contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo, a quello dell'accesso ed è lo stesso atto di accesso
a qualificarsi come integrativo del reato, a prescindere dal prosieguo della condotta".
La sentenza n. 39620 del 22/09/2010, dep. 2010, Lesce, ha ritenuto integrato il delitto di accesso
abusivo ad un sistema informatico o telematico dalla "condotta di colui che, in qualità di agente
della Polstrada, addetto al terminale del centro operativo sezionale, effettui un'interrogazione al
CED banca dati del Ministero dell'Interno, relativa ad una vettura, usando la sua password e
l'artifizio della richiesta di un organo di Polizia in realtà inesistente, necessaria per accedere a tale
informazione" (per accedere alla banca dati del Ministero dell'Interno è necessario, infatti, che
l'operatore utilizzi una password che lo abiliti alla richiesta e che indichi l'organo di Polizia
Giudiziaria richiedente;
laddove nella fattispecie concreta l'imputato aveva indicato un organo richiedente, che, invece, non
aveva richiesto assolutamente nulla ed aveva altresì omesso di annotare la fittizia operazione
sull'apposito registro della sala operativa, documento destinato a provare i fatti e le attività del
servizio).
3.2 Un altro orientamento - del tutto difforme - esclude in ogni caso che il reato di cui all'art. 615ter cod. pen. sia integrato dalla condotta del soggetto il quale, avendo titolo per accedere al sistema,
se ne avvalga per finalità estranee a quelle di ufficio, ferma restando la sua responsabilità per i
diversi reati eventualmente configurabili, ove le suddette finalità vengano poi effettivamente
realizzate.
A sostegno di tale interpretazione, si osserva anzitutto che la sussistenza della volontà contraria
dell'avente diritto, cui fa riferimento la norma incriminatrice, deve essere verificata esclusivamente
con riguardo al risultato immediato della condotta posta in essere dall'agente con l'accesso al
sistema informatico e con il mantenersi al suo interno, e non con riferimento a fatti successivi (l'uso
illecito dei dati) che, anche se già previsti, potranno di fatto realizzarsi solo in conseguenza di nuovi
e diversi atti di volizione da parte dell'agente.
Un ulteriore argomento viene tratto dalla formula normativa "abusivamente si introduce", la quale,
per la sua ambiguità, potrebbe dare luogo ad imprevedibili e pericolose dilatazioni della fattispecie
penale se non fosse intesa nel senso di "accesso non autorizzato", secondo la più corretta
espressione di cui alla cd.
"lista minima" della Raccomandazione R(89)9 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa,
sulla criminalità informatica, approvata il 13 settembre 1989 ed attuata in Italia con la L. n. 547 del
1993, e, quindi, della locuzione "accesso senza diritto" (access ... without right) impiegata nell'art. 2
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della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica (cyber crime) fatta a
Budapest il 23 novembre 2001 e ratificata con la L. 18 marzo 2008, n. 48. Peraltro, come per ogni
norma me rappresenta la trasposizione o l'attuazione di disposizioni sovranazionali, anche per l'art.
615-ter cod. pen. va privilegiata, tra più possibili letture, quella di senso più conforme a tali
disposizioni.
Questo orientamento è stato illustrato dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 2534 del 20/12/2007,
dep. 2008, Migliazzo, ove si è affermato che "non integra il reato di accesso abusivo ad un sistema
informatico (art. 615-ter cod. pen.) la condotta di coloro che, in qualità rispettivamente di ispettore
della Polizia di Stato e di appartenente all'Arma dei Carabinieri, si introducano nel sistema
denominato S.D.I. (banca dati interforze degli organi di polizia), considerato che si tratta di soggetti
autorizzati all'accesso e, in virtù del medesimo titolo, a prendere cognizione dei dati riservati
contenuti nel sistema, anche se i dati acquisiti siano stati trasmessi ad una agenzia investigativa,
condotta quest'ultima ipoteticamente sanzionarle per altro e diverso titolo di reato" (nella fattispecie
è stata considerata altresì ininfluente fa circostanza che detto uso fosse stato già previsto dall'agente
all'atto dell'acquisizione e ne avesse costituito la motivazione esclusiva).
Secondo le argomentazioni svolte nella sentenza Migliazzo, "se dovesse ritenersi che, ai fini della
consumazione del reato, basti l'intenzione, da parte del soggetto autorizzato all'accesso al sistema
informatico ed alla conoscenza dei dati ivi contenuti, di fare peni un uso illecito di tali dati, ne
deriverebbe l'aberrante conseguenza che il reato non sarebbe escluso neppure se poi quell'uso, di
fatto, magari per un ripensamento da parte del medesimo soggetto agente, non vi fosse più stato".
L'interpretazione restrittiva del contenuto della norma è stata poi ulteriormente sviluppata dalla
Quinta Sezione con la sentenza n. 26797 del 29/05/2008, Scimia (ove è stato escluso che dovesse
rispondere del reato in questione un funzionario di cancelleria il quale, legittimato in forza della sua
qualifica ad accedere al sistema informatico dell'amministrazione giudiziaria, lo aveva fatto allo
scopo di acquisire notizie riservate che aveva poi indebitamente rivelate a terzi con i quali era in
previo accordo; condotta, questa, ritenuta integratrice del solo reato di rivelazione di segreto
d'ufficio, previsto dall'art. 326 cod. pen.).
In tale decisione è stato escluso che l'imputato avesse effettuato un accesso non consentito o si fosse
indebitamente trattenuto, oltre modi o tempi permessi, nei registri informatizzati
dell'amministrazione della giustizia, poichè l'interrogazione era stata effettuata con lei utilizzazione
della chiave logica (o password) legittimamente in suo possesso. E' stato altresì evidenziato che non
solo non esiste norma o disposizione interna organizzativa che inibisca al cancelliere addetto alla
singoli sezione di consultane i dati del registro generale e le assegnazioni ai diversi uffici (giacchè
nessuna limitazione di tal genere è prevista per la lettura dei dati ad opera degli utilizzatori del
sistema), ma una inibizione siffatta sarebbe contraria ad ogni buona regola organizzativa, attese le
necessità di consultazione di un ufficio giudiziario.
Alle stesse conclusioni è pervenuta pure la Sesia Sezione, con la sentenza n. 39290 del 08/10/2008,
Peparalo, secondo cui "nella fattispecie di cui all'art. 615-ter cod. pen. sono delineate due diverse
condotte integratici del delitto; la prima consiste nel fatto di "chi abusivamente si introduce in un
sistema informatico o telematico protetto da misura di sicurezza", la seconda nel fatto di chi "vi si
mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo". La qualificazione di
abusività va intesa in senso oggettivo, con riferimento al momento dell'accesso ed alle modalità
utilizzate dall'autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza (chiavi fisiche o
elettroniche, password, etc.) apprestate dal titolare dello ius exdudendi, al fine di selezionare gli
ammessi al sistema ed impedire accessi indiscriminati. Il reato è integrato dall'accesso non
autorizzato nel sistema informatico, ciò che di per sè mette a rischio la riservatezza del domicilio
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informatico, indipendentemente dallo scopo che si propone l'autore dell'accesso abusivo. La finalità
dell'accesso, se illecita, integrerà eventualmente un diverso titolo di reato. Non può, pertanto,
condividersi l'interpretazione della norma che individua l'abusività della condotta nel fatto del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, abilitato ad accedere al sistema
informatico, usi tale facoltà per finalità estranee "all'ufficio e, quindi, non rispetti le condizioni alle
quali era subordinato l'accesso. Tale lettura della norma finisce con l'intrecciare le due condotte
descritte dall'art. 615-ter cod. pen., che sono differenti e alternative, disgiuntamente considerate dal
legislatore. Sarebbe stata pleonastica la descrizione della seconda condotta se la prima fosse
integrata anche da chi usa la legittimazione all'accesso per fini diversi da quelli a cui è stato
legittimato dal titolare del sistema".
L'indirizzo in esame è stato seguito poi dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 40078 del
25/06/2009, Genchi.
4. A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi delineato, queste Sezioni Unite ritengono
che la questione di diritto controversa non debba essere riguardata sotto il profilo delle finalità
perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto
di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza (per così dire "fisica")
dell'agente in esso. Ciò significa che la volontà contraria dell'avente diritto deve essere verificata
solo con riferimento al risultato immediato detta condotta posta in essere, non già ai fatti successivi.
Rilevante deve ritenersi, perciò, il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema
informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi
ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal
titolane del sistema (nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione
delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di
contratti individuali di lavoro) sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente
diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito.
In questi casi è proprio il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel sistema che risulta
violato: il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha
ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le
operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall'autorizzazione ricevuta.
Il dissenso tacito del dominus loci non viene desunto dalla finalità (quale che sia) che anima la
condotta dell'agente, bensì dall'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all'uso
del sistema. Irrilevanti devono considerarsi gli eventuali fatti successivi: questi, se seguiranno"
saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro
titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 cod.
pen.).
Ne deriva che, nei casi in cui l'agente compia sul sistema un'operazione pienamente assentita
dall'autorizzazione ricevuta, ed agisca nei limiti di questa, il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen.
non è configurabile, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito; sicchè qualora l'attività
autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici, e l'operatore la esegua nei limiti e
nelle forme consentiti dal titolare dello ius exdudendi, il delitto in esame non può essere individuato
anche se degli stessi dati egli si dovesse poi servire per finalità illecite.
Il giudizio circa l'esistenza del dissenso del dominus iodi deve assumere come parametro la
sussistenza o meno di un'obiettiva violazione, da parte dell'agente, delle prescrizioni impartite dal
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dominus stesso circa l'uso del sistema e non può essere formulato unicamente in base alla direzione
finalistica della condotta, soggettivamente intesa.
Vengono in rilievo, al riguardo, quelle disposizioni che regolano l'accesso al sistema e che
stabiliscono per quali attività e per quanto tempo la permanenza si può protrarre, da prendere
necessariamente in considerazione, mentre devono ritenersi irrilevanti, ai fini della configurazione
della fattispecie, eventuali disposizioni sull'impiego successivo dei dati.
5. Va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale "integra la fattispecie
criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che,
pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni
impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo,
invece, per la configurazione del resto, gli scopi e te finalità che soggettivamente hanno motivato
l'ingresso al sistema". 6. Alla stregua di tale principio deve essere esaminata, dunque, la vicenda
oggetto del processo, caratterizzata - secondo gli accertamenti di fritto e le acquisizioni
dibattimentali - dalla circostanza che il maresciallo S. era stato autorizzato ad accedere al sistema
informatico interforze ed a consultare lo stesso soltanto per ragioni "di tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati", con espresso divieto di stampare il
risultato delle interrogazioni "se non nei casi di effettiva necessità e comunque previa
autorizzazione da parte del comandante diretto".
Trattasi di prescrizioni disciplinanti l'accesso ed il mantenimento dell'interno del sistema che, in
quanto non osservate dall'imputato, hanno reso abusiva l'attività di consultazione esercitata in
concreto, prescindendosi dal successivo uso indebito dei dati acquisiti e dalla predeterminazione di
una finalità siffatta.
La condotta è stata posta in essere con la consapevolezza della contrarietà alle disposizioni ricevute
e, quindi, del carattere invito domino dell'accesso e della permanenza fisica nel sistema, e ciò
integra ad evidenza il dolo generico richiesto dalla norma, che non prevede alcuna finalità speciale
nè lo scopo di trarre profitto, per sè o per altri, ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto.
Le doglianze riferite, nei ricorso del S., alla configurabilità del delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen.
devono essere conseguentemente rigettate, perchè infondate.
7. Infondate sono altresì le questioni svolte nei tre ricorsi con riferimento alla ravvisabilità, rispetto
alla fattispecie concreta, del reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio:
reato del quale viene prospettata l'esclusione sotto i profili sia della mancanza di un pericolo
effettivo per gli interessi protetti dalla norma incriminatrice, sia della mancanza di prova del dolo.
La giurisprudenza di Questa Corte, che il Collegio condivide e ribadisce, configura il delitto di cui
all'art. 326 cod. pen. quale reato di pericolo effettiva (e non meramente presunto) per gli interessi
tutelati, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sè e per sè, ma in quanto
suscettibile di produrre nocumento, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, a mozzo della
notizia da tenere segreta. Ne consegue che il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della
notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a
persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la
realizzazione dei fini istituzionali connessi di segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorchè
estranei di meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali
ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini
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dell'apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del 06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del
20/03/2009, C).
Le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art. 326 cod. pen. per inoffensività del fatto risultano
comunque limitate a casi assai circoscritti, essendo stato evidenziato dada giurisprudenza di
legittimità che:
- il reato di rivelazioni di segreti di ufficio si configura anche quando il fatto coperto dal segreto sia
già conosciuto in un ambito limitato di persone e la condotta dell'agente abbia avuto l'effetto di
diffonderlo in un ambito più vasto (Sez. 6: n. 929 del 05/12/1997, dep. 1998, Colandrea; Sez. 6, n.
35647 del 17/05/2004, Vietti);
- gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice in oggetto si intendono lesi allorchè la
divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio alla pubblica
amministrazione o ad un terzo (Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposto; Sez. 1, n. 1265 del
29/11/2006, dep. 2007, Bria; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli);
- quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in
relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa
l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato
la valutazione circa l'esistenza del pencolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del
segreto (Sez. 6, n. 42726 dell'11/10/2005, De Carolis);
- integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte
dell'extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria,
realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore (Sez. 6,
n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto).
Ora, nella fattispecie in esame non risulti dimostrato che il C. e lo stesso M. avessero conoscenza
del contenuto specifico ed integrale delle informative redatte da ufficiali della polizia giudiziaria in
relazione ai comportamenti posti in essere da quest'ultimo considerati illeciti; e, in relazione ai fatti
divulgati, poichè l'obbligo del segreto è precipuamente previsto dalla legge, non può sorgere
questione circa l'esistenza o la potenzialità di produrre nocumento, a mezzo della notizia da tenere
segreta, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, proprio perchè la fonte normativa ha già
effettuato la valutazione circa l'esistenza di un pericolo siffatto, ritenendola conseguente già alla
mera violazione dell'obbligo del segreto.
Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all'art. 326 cod. pen. è punibile a titolo
di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la
notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità
della condotte e senza che possa aver alcun valore esimente l'eventuale errore sui limiti dei propri e
degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie (vedi Sez. 6, n. 2183 del 13/01/1999, Curia; Sez.
6, n. 9331 dell'11/02/2002, Fortunato).
La sussistenza di lai e volontà consapevole, nella vicenda in esame;, risulta adeguatamente illustrata
dai giudici del merito.
Segue il rigetto integrale dei gravami proposti da C.G. e T.A..
8. Priva di fondamento deve ritenersi pure I eccezione svolta nel ricorso dell'imputato S., con cui ai
prospetta l'erronea applicazione dell'art. 599 c.p.p., comma 2, (dalla quale si fa discendere la
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conseguente nullità del giudizio e della sentenza impugnata), a cagione della pretesa illegittimità del
diniego del differimento dell'udienza camerale davanti alla Corte di appello, chiesto dal ricorrente
per infermità documentata da certificato medico.
L'art. 599 c.p.p., comma 2, dispone che, per il giudizio camerale d'appello avverso la sentenza
pronunciata con il rito abbreviato, il legittimo impedimento dell'imputato comporta il rinvio
dell'udienza soltanto allorchè l'imputato stesso abbia manifestato in qualsiasi modo la volontà di
comparire (cfr. Sez. U, n, 35399 del 24/6/2010, F.).
La giurisprudenza di questa Corte è divisa in ordine alla individuazione delle modalità attraverso
cui tale volontà può essere legittimamente manifestata.
A fronte, però, di un indirizzo interpretativo secondo il quale "nel giudizio di appello contro la
sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato non trova applicazione l'istituto dulia
contumacia dell'imputato, sicchè il legittimo impedimento dello stesso impone il rinvio dell'udienza
solo se egli abbia direttamente e tempestivamente manifestato la volontà di comparire, non essendo
sufficiente a tale fine la mera istanza di rinvio avanzata dal difensore allegante l'impedimento" (così
da ultimo, Sez. 2, n. 8040 del 09/02/2010, Fiorito), il Collegio ritiene maggiormente conforme al
compiuto esercizio dei diritti della difesa il diverso orientamento secondo il quale "la richiesta di
partecipazione da parte dell'imputato di cui all'art. 599 c.p.p., comma 2, può essere tratta anche da
facta concludentia (quale la produzione, da parte del difensore, di una certificazione medica
attestante l'impedimento a comparire dell'imputato con espressa istanza di rinvio) da cui possa
desumersi la inequivoca manifestazione della volontà dell'imputato medesimo di comparire
all'udienza camerale" (vedi Sez. 6, n. 1320 del 14/10/1996, Surace; Sez. 6, n. 43201
dell'11/10/2004, Viti; Sez. 6, n. 2811 del 18/12/2006, dep. 2007, Ramelli).
Quanto ai poteri valutativi del giudici rispetto alle ragioni di salute documentate in un certificato
medico prodotto a sostegno della richiesta di rinvio dell'udienza, le Sezioni Unite - con la sentenza
n. 36635 del 27/09/2005, Gagliardi - si sono pronunciate nel senso che "in tema di impedimento a
comparire dell'imputato, il giudice, nel disattendere un certificato medico ai fini della dichiarazione
di contumacia, deve attenersi alla natura dell'infermità e valutarne il carattere impeditivo, potendo
pervenire ad un giudizio negativo circa l'assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con
adeguata valutazione del referto, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l'imputato".
Con riferimento a tale necessaria valutazione, comunque, va ribadito che:
- "il legittimo impedimento a comparire dell'imputato, oltre che grave e assoluto, deve presentare il
carattere dell'attualità e cioè deve sussistere in relazione all'udienza per la quale egli è stato citato, in
quanto l'impossibilità a presenziare alla stessa deve risultare dagli elementi addotti, come non
altrimenti superabile" (così Sez. 5, n. 3392 del 14/12/2004, dep. 2005, Curaba;
Sez. 4, n. 5901 del 15/03/1995, Maciocchi);
- "il giudice di merito non ha alcun obbligo di disporre accertamenti fiscali per accertare
l'impedimento dell'imputato a comparire al dibattimento, al fine di completare la insufficiente
documentazione prodotta, purchè dia ragione del suo convincimento di non assolutezza
dell'impedimento con motivazione logica e corretta" (Sez. 1, n. 6241 del 02/04/1990, Sforza).
Dopo la citata pronunzia delle Sezioni Unite, inoltre, è stato ribadita la legittimità del
provvedimento di diniego della richiesta di rinvio per impedimento dell'imputato a comparire, in
ipotesi di produzione di un certificato medico che si limiti:
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- ad attestare l'infermità (nella specie, faringo-tracheite) con esiti febbrili e la prognosi, senza
indicare il grado della febbre, essenziale alla valutazione della fondatezza, serietà e gravità
dell'impedimento (Sez. 6, n. 20811 del 12/05/2010, dep. 3/6/2010, S.);
- ad attestare l'infermità di per sè non invalidante (nella specie, colica renale) e la prognosi, senza
nulla affermare in ordine alla determinazione dell'impossibilità fisica assoluta di comparire (Sez. 6,
n. 24398 de4 26/02/2008, De Macceis).
Ora, nella fattispecie in esame, all'udienza del 19 maggio 2009, risulta presentato certificato medico
riferito al S., redatto il precedente 15 maggio ed attestante che l'imputato era affetto da "cistite
emorragica febbrile" e necessitava "di giorni sei di riposo e cure".
Alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte (di cui si è dato conto dianzi),
pertanto, deve considerarsi assolutamente corretta la decisione del giudice di merito che ha rigettato
l'istanza di rinvio sui rilievi due: a) il certificato era stato redatto quattro giorni prima dell'udienza;
b) in esso non era indicato il grado febbrile; c) nulla veniva affermato in ordine alla determinazione
dell'impossibilità fisica assoluta di comparire, attestandosi esclusivamente la necessità "di riposo e
cure". 9. L'unico motivo di ricorso che deve ritenersi fondato è quello riferito al trattamento
sanzionatorio nell'atto di gravarne proposto nell'interesse del S., ove (sta pure con diversa
doglianza) si prospetta che le condotte indicate nel comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen. non
integrano fattispecie delittuose distinte ed autonome rispetto a quelle descritte nel comma 1,
costituendo invece ipotesi aggravate finalizzate ad innalzare la sanzione da applicare a quei soggetti
che in ragione della loro funzione - e purchè non legittimati ab initio - sono facilitati ad attingere
informazioni sensibili.
9.1. Va rilevato, sul punto, che la sezione 5, con la sentenza n. 1727 del 30/09/2008, dep. 2009,
Ramano, ha differenziato nettamente la portata applicativa delle fattispecie rispettivamente
contemplate dal comma 1 e dal comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen., affermando che "l'accesso
abusivo ad un sistema informatico (art. 615- ter c.p., comma 1) e l'accesso commesso da un
pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei
doveri o con abuso della qualità di operatore del sistema (art. 615-ter, comma 2, n. 1) configurano
due distinte ipotesi di reato, l'applicabilità di una delle quali esclude l'altra secondo il principio di
specialità; concernendo il comma 1 l'accesso abusivo ovvero l'intrusione da parte di colui che non
sia in alcun modo abilitato, mentre il comma 2 - non costituisce una mera aggravante - ma concerne
il caso in cui soggetti abilitati all'accesso abusino di detta abilitazione".
Tale impostazione risulta ribadita, sempre dalla Quinta Sezione, nella recente sentenza n. 24583 del
18/01/2011, Tosinvest, secondo la quale il comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen. non costituisce
un'aggravante del fatto descritto nel comma 1, ma un'ipotesi diversa di reato, perchè la disposizione
si riferisce evidentemente a soggetti ordinariamente abilitati ad entrare nei sistema, il cui accesso
sarebbe, pertanto, di regola legittimo, ma diviene penalmente rilevante quando i predetti abbiano
fatto abuso di tale loro abilitazione.
9.2 Le pronunzie anzidette non sono condivise da questo Collegio sulla base delle seguenti
considerazioni:
a) "circostanze del risata" sono quegli elementi che, non richiesti per l'esistenza del reato stesso,
laddove sussistono incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando modifiche
quantitative o qualitative all'entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in rapporto di
species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti demeriti della
fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole dottrina, "una
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specificazione, un particolare modo d'essere, una variante di intensità di corrispondenti elementi
generali";
b) il problema, in materia, è quello di individuare un criterio per identificare le disposizioni
normative che prevedono appunto "circostanze" in senso tecnico e quelle che, invece, prevedono
elementi costitutivi della fattispecie, e queste Sezioni Unite - con la sentenza n. 26351 del
10/07/2002, Fedi (che ha individuato nel reato previsto dall'art. 640-bis cod. pen. semplicemente
una figura aggravata del delitto di truffa) - hanno ritenuto che l'unico criterio idoneo a distinguere te
norme che prevedono circostanze da quelle che prevedono elementi costitutivi della fattispecie è il
criterio strutturale della descrizione del precetto penale;
c) nei casi previsti dall'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, non vi è immutazione degli elementi
essenziali delle condotte illecite descritte dal comma 1, in quanto il riferimento è pur sempre a quei
fatti-reato, i quali vengono soltanto integrati da qualità peculiari dei soggetti attivi delle condotte,
con specificazioni meramente dipendenti dalle fattispecie di base.
La configurata aggravante si riferisce a soggetti che possono legittimamente contattare il sistema
informatico (secondo le prescrizioni e le limitazioni imposte dal dominus loci), stante il
collegamento funzionale con lo stesso per ragioni inerenti i propri compiti professionali, ma che
accedono ad esso e vi si trattengono in violazione dei doveri inerenti allo loro funzione nonchè dei
limiti dell'uso legittimo loro riconosciuti.
Il più rigoroso trattamento sanzionatorio e la procedibilità di ufficio trovano evidente giustificazione
nel momento abusivo della qualità soggettiva, che rende più agevole per l'agente la realizzazione
della condotta tipica.
9.3 Deve affermarsi pertanto l'ulteriore principio di diritto (conforme peraltro al concorde
orientamento della dottrina) secondo il quale "l'ipotesi dell'abuso delle qualità specificate dall'art.
615-ter c.p., comma 2, n. 1, costituisce una circostanza aggravante delle condotte illecite descritte al
comma 1 e non un'ipotesi autonoma di reato". 9.4 Nella vicenda in esame la responsabilità del S. è
stata ravvisata in ordine al delitto di cui all'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, e comma 3, sicchè la
Corte di merito avrebbe dovuto operare il giudizio di bilanciamento delle riconosciute attenuanti
genetiche con le due circostanze aggravanti (ex art. 69 cod. pen.).
Non può dubitarsi infatti - alla stregua dei principi fissati da queste Sezioni Unite con la già
ricordata sentenza n. 26351 del 2002 - della natura meramente aggravabile anche dell'ipotesi
prevista dai terzo comma (non costituente oggetto del ricorso), che, senza modificare gli elementi
essenziali del fatto-reato, introduce una sanzione più rigorosa per la particolare rilevanza pubblica
del sistema riconosciuta dal legislatore in connessione ai dati ed alle informazioni peculiari in esso
contenute.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, nei confronti di S.G., li mi talmente
al trattamento sanzionatorio", con rinvio, per una nuova effettuazione del giudizio di comparazione
tra le circostanze e per la determinazione della pena, ad altra sezione della Corte di appello di
Roma.
10. Al rigetto integrale dei ricorsi del C. e della T. segue la condanna degli stessi al pagamento delle
spese processuali.
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Tutti i ricorrenti, infine, devono essere condannati, con vincolo solidale, alla rifusione delle spese di
parte civile del presente grado di giudizio, che si ritiene di liquidare, in relazione all'attività
processuale svolta, in Euro 3.000,00 oltre accessori.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, nei confronti di S.G. limitatamente al trattamento sanzionatorio, e
rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Rigetta il ricorso dei S. nel resto.
Rigetta i ricorsi di C.G. e T.A., che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna in solido i tre ricorrenti alla rifusione delle spese di parte civile del presente grado, che
liquida in Euro 3.000,00 oltre accessori.
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141
7)
Estorsione e più persone riunite
Tizio, imprenditore, si trovava in una situazione grave di carenza di liquidità.
Caio telefonava a Tizio offrendogli un prestito pari ad euro 100.000,oo; altresì, Caio precisava che
in caso di rifiuto dell’offerta, tramite le sue influenze politiche-sociali, avrebbe fatto fallire subito
Tizio; diversamente, in caso di accettazione, Caio avrebbe avuto subito la somma di denaro
suddetta di euro 100.000,oo, così evitando il fallimento, ma si sarebbe dovuto impegnare a
restituire la somma – a distanza di un anno – al tasso di interesse del 25%.
Tizio accettava la proposta di Caio.
Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di estorsione, rediga motivato parere sulla questione
giuridica posta con specifico riferimento alla possibile sussistenza dell’aggravante delle persone
riunite ex artt. 629-628 comma 3 n. 1 c.p., tenendo presente che Tizio aveva avuto la percezione che
la proposta fosse provenuta da più persone.
Possibile soluzione schematica
Il reato di estorsione è posto a presidio del patrimonio; si realizza tramite la modalità della
violenza o minaccia, che costringe altri a fare oppure omettere qualche cosa; ne deve derivare un
ingiusto profitto con conseguenziale altrui danno.
Nel caso in esame sussistono tutti gli elementi costitutivi dell’estorsione di cui all’art. 629 c.p.; vi è
spazio applicativo anche per l’aggravante delle persone riunite ex artt. 629-628 comma 3 n. 1 c.p.?
Il fatto che Tizio abbia avuto la percezione che la proposta fosse provenuta da più persone riunite,
è giuridicamente rilevante ai fini dell’applicazione della suddetta aggravante?
Per parte della dottrina e giurisprudenza, sarebbe possibile applicare la suddetta aggravante
perché:
-la ratio sottesa alla stessa è quella di punire di più, laddove l’agente abbia fatto leva sulla forza
intimidatrice del numero di persone; in effetti, quando si minaccia una sorta di “influenza politicasociale” la vittima crede che vi sia una struttura organizzata o, quantomeno, che la minaccia non
provenga solo da un soggetto;
-diversamente opinando si confonderebbe l’aggravante circostanziale de qua, con il reato
concorsuale perché solo nel secondo caso è richiesta una condotta oggettiva, mentre nel primo
sarebbe sufficiente “il percepito”.
Accogliendo tale ricostruzione, Caio si vedrebbe applicata l’aggravante delle persone riunite.
Tuttavia, è preferibile optare per la tesi (letterale) che ritiene inapplicabile al caso l’aggravante
suddetta, in conformità alla giurisprudenza a Sezioni Unite perché:
-la nozione di riunione presuppone una contestualità ed oggettività;
-all’art. 628 comma 3 n. 1 c.p. è scritto che la violenza o minaccia …deve essere commessa da più
persone riunite; se deve essere commessa, allora non vi è spazio per ciò che la vittima percepisce,
ma solo per la condotta oggettiva;
-la differenza con il concorso di persone sussiste, in quanto in quest’ultimo la condotta può anche
non essere contestuale, diversamente da quanto pretende la riunione;
-ragioni sistematiche lo impongono; in altri casi di “persone riunite” come agli artt. 609 octies –
339 -385 c.p. si è fatto riferimento alla condotta oggettiva e non al percepito;
-l’art. 12 delle preleggi predica la supremazia dell’interpretazione letterale.
Pertanto, alla luce di quanto poc’anzi affermato, si può ritenere che Caio non dovrà subire
l’applicazione dell’aggravante delle persone riunite.
Per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per
il delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel
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luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia.
Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 5.6.2012, n. 21837
1. Le sentenze di primo e secondo grado.
1.1. B.D., che era stato dichiarato fallito e non poteva emettere assegni, aveva comprato da A.G.
diversi assegni post-datati (alcuni a firma Bo. ed altri G.), anche di conti correnti estinti, per
ottenere immediato credito con la negoziazione degli stessi, con l'impegno di coprire gli importi
degli assegni entro fa data di scadenza onde evitarne il protesto.
Un assegno a firma Bo. veniva protestato per la mancata tempestiva copertura del B.; A., allora,
avanzava pretese economiche per il danno causato dal protesto.
Iniziavano a questo punto gravi minacce -quella di spaccare le ossa a B. ed ai suoi familiari e di
demandare l'incombente a persone ben più pericolose - poste in essere direttamente da A. G. o
tramite C.G., che costringevano la parte offesa a versare all' A. denaro - circa quindici milioni -, a
sottoscrivere effetti cambiari anche a nome dei figli, a comprare nuovi assegni ed a consegnare,
sempre all' A., un furgone Fiat Fiorino.
1.2. Per tali fatti, qualificati come violazione dell'art. 110 - in concorso tra loro e con R.R.,
separatamente giudicata -, art. 81 cpv. c.p. e art. 629 c.p., commi 1 e 2, A.G. veniva condannato alla
pena di sette anni di reclusione e tre milioni di multa e C.G., riconosciute le attenuanti generiche
equivalenti alla aggravante contestata, a quella di cinque anni di reclusione e due milioni di multa
dal Tribunale di Piacenza con sentenza emessa il 20 aprile 2001. 1.3. La Corte di appello di
Bologna, con sentenza del 16 luglio 2010, rigettava la impugnazione dell' A., che aveva chiesto la
derubricazione del delitto di estorsione in quello di cui all'art. 393 cod. pen. sul presupposto della
insussistenza dell'ingiusto profitto e del danno del B., avendo l' A. soltanto preteso la restituzione
del denaro necessario per la copertura degli assegni, che il B. si era impegnato a versare.
Negava, inoltre, la Corte territoriale che fosse ravvisante un danno per l' A. per il protesto degli
assegni, non essendo esso imputato il protestato.
La Corte di merito, poi, nel rigettare il relativo motivo di gravame, riteneva sussistente l'aggravante
- contestata con il semplice riferimento all'art. 629 c.p., comma 2 - di cui all'art. 628 c.p., comma 3,
n. 1, così come richiamata dall'art. 629 c.p., aderendo all'orientamento giurisprudenziale affermativo
della configurabilità dell'aggravante anche in ipotesi di estorsione esercitata in via mediata, senza
necessità della presenza dei correi sul luogo dell'esecuzione, essendo sufficiente la conoscenza, in
capo alla persona offesa, della provenienza della violenza o minaccia da più persone; e tale era il
caso di specie perchè il B. si era trovato di fronte a due diversi soggetti, l' A. ed il C., che in
momenti diversi lo avevano minacciato per il medesimo fine.
Negata, infine, l'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 4, la Corte felsinea rigettava anche le
doglianze concernenti la eccessività del trattamento sanzionatorio.
1.4. Quanto a C.G. la Corte di merito rigettava i motivi concernenti la pretesa assenza del concorso
nel reato contestato all' A., o la minima partecipazione, basati sul presupposto della irrilevanza
dell'apporto causale fornito dall'imputato alla determinazione dell'evento.
Rigettava, poi, gli altri motivi di appello di C.G., analoghi a quelli proposti da A.G..
2. I ricorsi.
Avverso la decisione di secondo grado proponevano ricorso per cassazione A.G. e C.G..
2.1. A.G., tramite il difensore di fiducia, formulava i seguenti motivi. a) Erronea applicazione
dell'art. 629 c.p., comma 1, nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla ritenuta sussistenza dell'ingiusto profitto e del danno altrui, dal momento che il
ricorrente, come già sostenuto in sede di appello, si era limitato a chiedere a B. le somme necessarie
per la copertura degli assegni, che il B. si era impegnato a versare prima della scadenza degli stessi.
Inoltre l' A. aveva provveduto al deposito di somme di danaro per evitare il protesto degli assegni,
subendo in tal modo un danno economico. b) Violazione dell'art. 522 c.p.p., comma 2, ed illogica
motivazione in ordine alla correlazione tra accusa e decisione per mancanza della contestazione
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della circostanza aggravante delle più persone riunite, non essendo a tal fine sufficienti nè il mero
richiamo, nella imputazione, dell'art. 629 c.p., comma 2, riferito, infatti, nella sua complessiva
conformazione, a più aggravanti nè la menzione di un generico concorso con altri imputati. c)
Erronea applicazione dell'art. 629 c.p., comma 2, in relazione all'art. 628 c.p., comma 3, n. 1,
nonchè illogica motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante delle più
persone riunite, avendo ritenuto la Corte di appello non necessaria, ai fini della suddetta aggravante,
la contemporanea presenza dei correi nel luogo di esecuzione della violenza o minaccia, essendo
sufficiente che il soggetto passivo venga a conoscenza della provenienza di queste condotte da più
persone.
Così facendo la Corte aveva indebitamente equiparato tale aggravante al mero concorso di persone
nel reato e non aveva considerato che il precedente giurisprudenziale richiamato (Sez. 2, n. 10007
del 16/05/1983, Restuccia, Rv. 161363) aveva affrontato il problema relativo alla sussistenza
dell'aggravante nel caso in cui la violenza o la minaccia siano state esercitate in via mediata, ovvero
senza un contatto diretto tra soggetto attivo del reato e persona offesa, ad esempio tramite telefono o
mediante scritti (vedi anche Sez. 2, n. 5575 del 10/01/1980, Quagliariello, Rv. 145174, pure
richiamata dal ricorrente). Infine l' A. a sostegno del motivo richiamava altra decisione della
Suprema Corte (Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149) che, riproponendo un
antico contrasto giurisprudenziale, aveva ritenuto che per la sussistenza dell'aggravante in
discussione fosse necessaria la presenza simultanea di non meno di due persone nel luogo e nel
momento in cui si realizzavano la violenza o la minaccia.
2.2. C.G., tramite il difensore di fiducia, formulava i seguenti motivi. a) Erronea applicazione della
legge penale - art. 629 c.p., comma 1, in riferimento all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), - e
mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto, non potendosi ravvisare nel caso di
specie gli elementi costitutivi del delitto di estorsione con riferimento sia alla idoneità della
minaccia posta in essere nei confronti della vittima, sia alla sussistenza dell'ingiusto profitto, perchè
gli imputati intendevano conseguire ciò che era stato liberamente pattuito con la persona offesa, sia,
infine, alla sussistenza del danno, avendo lo stesso B. riferito di avere pagato la provvista per un
unico assegno, in funzione, tra l'altro, di ricevere credito e forniture per la propria attività
commerciale. b) Erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 110 c.p. e mancanza o
manifesta illogicità della motivazione sul punto, posto che da nessun elemento poteva evincersi che
C. sapesse che l' A. stesse agendo nei confronti del B. per conseguire un ingiusto profitto, nonchè
vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato, posto che in una
sola occasione il ricorrente avrebbe profferito minacce nei confronti della parte lesa. c) Erronea
applicazione della legge penale con riferimento all'art. 629 c.p., comma 2, ed alla ritenuta
aggravante delle più persone riunite, sostanzialmente per le stesse ragioni poste a fondamento
dell'analogo motivo di impugnazione dell' A.. d) Inosservanza di norme processuali in riferimento
alla mancata correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza ai sensi degli artt. 604, 522 e
521 c.p.p., non potendosi ritenere corretta la contestazione della aggravante delle più persone riunite
con il semplice generico riferimento all'art. 629 c.p.p., comma 2 e la descrizione della sola
fattispecie di concorso.
3. L'ordinanza di rimessione.
Con ordinanza in data 8 novembre 2011 la Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato
assegnato, rilevato che in ordine alla questione delle condizioni necessarie per la configurabilità
della circostanza aggravante delle più persone riunite sussisteva contrasto giurisprudenziale, ha
rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente richiama, in primo luogo, l'orientamento - che ritiene più convincente perchè
maggiormente aderente al dettato normativo - secondo cui la circostanza aggravante in questione
non può identificarsi con una generica ipotesi di concorso nel reato, ma richiede la simultanea
presenza di non meno di due persone nel luogo e nel momento di realizzazione della violenza o
minaccia, solo in tal modo realizzandosi gli effetti fisici e psichici di maggiore pressione sulla
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vittima, tali da ridurre significativamente la forza di reazione (Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010,
Cuccaro, Rv. 248733;
Sez. 2, n. 24367 dell'11/06/2010, Scysci, Rv. 247865; Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola,
Rv. 244149).
Tale orientamento appare, però, contrastato da altro indirizzo, secondo cui, ai fini dell'aggravante, è
sufficiente che il soggetto passivo percepisca la minaccia come proveniente da più persone, avendo
tale fatto, per se stesso, maggiore effetto intimidatorio (Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio,
Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi, Rv. 245146; Sez. 2, n. 16657 del
31/03/2008, Di Bella, Rv. 239779; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv. 238485).
Il Primo Presidente, con decreto in data 13 dicembre 2011, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e
fissava per la discussione l'odierna udienza pubblica.
motivi della decisione
1. La questione controversa.
1.1. Le Sezioni Unite sono chiamate a stabilire "se per la sussistenza della circostanza aggravante
speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, sia necessaria la simultanea
presenza di non meno di due persone nel luogo e ai momento in cui si realizzano la violenza o la
minaccia, oppure sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepisca che la violenza o la
minaccia provengano da più persone". 1.2. L'art. 629 cod. pen., così come modificato prima dalla L.
14 ottobre 1974, n. 497, art. 4 e poi dal D.L. 31 dicembre 1991, n. 419, art. 8, convertito dalla L. 18
febbraio 1992, n. 172, dopo avere descritto nel primo comma la fattispecie astratta del delitto di
estorsione ("Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere
qualche cosa, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione
da cinque a dieci anni e con la multa da Euro 516 a Euro 2.065"), ha stabilito, nel secondo comma,
quale risulta dall'ultima modifica apportata con il D.L. n. 419 del 1991, art. 8, convertito dalla L. n.
172 del 1992, che "La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro
3.098, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente".
Questo rinvio è da intendere fatto all'art. 628, comma 3, dato che con la successiva L. 15 luglio
2009, n. 94, all'articolo in questione è stato aggiunto un nuovo ultimo comma.
L'art. 628 c.p., dopo avere descritto nei primi due commi le fattispecie della rapina propria ed
impropria, prevede al terzo comma, al quale rinvia, come si è detto, l'art. 629 c.p., comma 2,
numerose circostanze aggravanti, e tra esse, per quel che qui interessa, quella, considerata
nell'ambito del n. 1), della violenza o minaccia "commessa ... da più persone riunite". 1.3. In ordine
alla interpretazione della espressione "più persone riunite" si è determinato un contrasto nella
giurisprudenza di legittimità assai risalente, che sembrava sostanzialmente superato e che, invece, si
è di recente riproposto.
Secondo un primo indirizzo, la circostanza aggravante delle "più persone riunite" richiede
necessariamente che almeno due persone siano simultaneamente presenti nel luogo e nel momento
in cui si realizza l'azione di violenza o minaccia (ex multis, iniziando dalle più risalenti, Sez. 2, n.
1121 del 24/06/1966, Di Grazia, Rv.
103546; Sez. 1, n. 1128 del 19/10/1966, Marcadini, Rv. 103186; Sez. 6, n. 299 del 14/02/1967,
Pastorino, Rv. 104354; Sez. 1, n. 2964 del 01/12/1981, Samà, Rv. 152840; Sez. 6, n. 1041 del
15/04/1983, Piastroni, Rv. 159341; Sez. 2, n. 12958 del 26/03/1987, Reali, Rv.
177288; Sez. 2, n. 41578 del 22/11/2006, Massimi, Rv. 235386; Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008,
Crotti, Rv. 240011; Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, Cuccaro, Rv. 248733; vedi anche Sez. 5, n.
13566 del 09/03/2011, Fulle, Rv. 250169, che ha precisato che la circostanza aggravante del reato
di furto di cui all'art. 625 c.p., n. 5, consistente nel fatto "commesso da tre o più persone", non
postula affatto, a differenza di quanto previsto dall'art. 628 c.p., comma 3, n. 1, la simultanea
presenza dei correi sul luogo del fatto).
Tale interpretazione sembra fondarsi sulla esigenza di differenziare il concetto di "persone riunite"
da quello del concorso di più persone nel reato e sulla considerazione che la maggiore intimidazione
e la minore possibilità di difesa derivanti dalla riunione di più persone, che costituirebbero la ratio
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del previsto inasprimento di pena, sarebbero effettivamente sussistenti quando la "riunione" sia nota
alla vittima e sussista al momento in cui si esplica la violenza o la minaccia (vedi Sez. 6, n. 26093
del 06/05/2004, Tomasoni, Rv, 229745 e Sez. 2, n. 28378 del 14/05/2004, Orsini, Rv. 229593).
Quindi, secondo tale impostazione, l'aggravante non sarebbe ravvisabile allorquando il reato sia
commesso mediante minacce formulate da singole persone in momenti successivi (Sez. 2, n. 6662
del 19/02/1981, Latella, Rv. 149657), ovvero nel caso di interventi successivi di ciascuno dei correi
(Sez. 2, n. 8514 dell'11/02/1983, Stefanelli, Rv. 160741), ovvero in caso di minaccia esercitata per
mezzo di uno scritto o per telefono.
La diversa opzione interpretativa, che ritiene sufficiente la mera percezione da parte della vittima di
una minaccia proveniente da più persone finirebbe, inoltre, per fare inammissibilmente coincidere
l'aggravante in discussione con il concorso di persone nel reato (così Sez. 2, n. 25614 del
22/04/2009, Limatola, Rv. 244149 e Sez. 2, n. 24367 del'11/06/2010, Scisci, Rv. 247865; nonchè
Sez. 2, n. 36474 del 22/09/2011, Tei, Rv. 251163, che ha sottolineato, con riferimento, però, al
delitto di rapina, che il quid pluris richiesto dall'aggravante rispetto al semplice concorso
consisterebbe nella simultanea presenza di una pluralità di persone nel luogo e nel momento di
consumazione del delitto).
Non sarebbe, peraltro, necessario che la violenza e la minaccia siano materialmente commesse da
tutti i compartecipi presenti, dal momento che la sola presenza renderebbe maggiore l'effetto
intimidatorio e renderebbe legittimo l'aggravamento di pena (Sez. 2, n. 14458 del 10/07/1986, Axo,
Rv. 174709).
1.4. Secondo altro indirizzo, certamente oggi maggioritario, l'aggravante in discussione sarebbe
ravvisabile quando il soggetto passivo abbia avuto la "sensazione" o la "percezione" o la
"conoscenza" che l'azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la
simultanea presenza delle stesse.
Siffatto indirizzo si è inizialmente formato per la fattispecie di estorsione cd. "a distanza", ovvero
con minacce commesse a mezzo lettera o telefonata (ex multis Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, Di
Bella, Rv. 239779; Sez. 2, n. 40208 del 22/11/2006, Bevilacqua, Rv.
235591; Sez. 2, n. 2539 del 22/12/1987, La Spada, Rv. 177691; Sez. 2, n. 10082 dei 26/01/1987,
Franciosa, Rv. 176729, che ha equiparato il mezzo della lettera o del telefono al nuncius) e
successivamente è stato riferito anche ad ipotesi di estorsione "diretta" (ex multis Sez. 6, n. 197 del
15/12/2011, dep. 2012, Cava, Rv. 251491; Sez. 6, n. 32412 del 16/07/2010, Longo, Rv. 248286;
Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio, Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi,
Rv. 245146; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv.238485).
Cosicchè l'aggravante sarebbe ravvisabile anche quando le minacce siano espresse non
contestualmente, ma in tempi e luoghi diversi, da più persone, ovvero da una sola persona anche per
conto di altra o di altre, perchè la maggiore intensità della intimidazione si riscontrerebbe anche
quando i compartecipi non agiscano simultaneamente, ma separatamente e in tempi diversi in
esecuzione del programma criminoso deliberato.
Insomma l'espressione "più persone riunite" postulerebbe la partecipazione all'azione criminosa di
una pluralità di soggetti associati, ma non anche la compresenza fisica dei correi e del destinatario
della violenza o della minaccia; in caso contrario si circoscriverebbe in modo rilevante l'ambito di
applicazione dell'aggravante senza che nessun elemento letterale e sistematico possa giustificarlo
(vedi Sez. 1, n. 1840 del 07/08/1984, Guzzi, Rv.
165530; Sez. 3, n. 9824 del 12/08/1987, Gaglioli, Rv. 176656).
1.5. Anche la Dottrina appare divisa tra chi, con impostazione più rigorosa, ritiene di circoscrivere
l'aggravante ai soli casi di simultanea e contestuale presenza dei correi sul luogo del delitto ovvero
sul luogo ove si eserciti la violenza o la minaccia e chi.
Invece, propugna una impostazione che allarga il campo di applicazione della aggravante in
discussione anche ai casi di compartecipazione dei correi non contestuale sul luogo di esecuzione
del delitto purchè conosciuta o percepita dalla parte offesa.
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I fautori del primo indirizzo - necessità della contestuale presenza di più persone - individua la ratio
dell'aggravante delle "più persone riunite" nel maggiore effetto intimidatorio, con correlativa
minore possibilità di difesa della vittima, prodotto dalla simultanea presenza di più malviventi,
risultando maggiore l'incidenza della violenza o minaccia esercitata contemporaneamente da più
persone sulla libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
L'indirizzo contrario, che in verità sembra essenzialmente riferito alla ipotesi di estorsione cd.
"mediata" o "indiretta", ha in proposito sottolineato che l'effetto intimidatorio è maggiore anche
quando, pur non essendovi contemporanea presenza, la vittima "percepisca" che la violenza o la
minaccia siano esercitate da più persone.
2. La soluzione del contrasto.
2.1. Il contrasto giurisprudenziale segnalato deve essere risolto nel senso che per integrare
l'aggravante speciale delle "più persone riunite" nel delitto di estorsione è necessaria la
contemporanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o la
minaccia, poichè a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità
nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di
analogia in malam partem in materia penale, e quella logico-sistematica.
Come si è già osservato, il secondo comma dell'art. 629 cod. pen. stabilisce che la pena è della
reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 3.098 "se concorre taluna delle
circostanze indicate nell'ultimo capoverso attuale comma 3 dell'articolo precedente".
L'art. 628 cod. pen., che disciplina il delitto di rapina, al comma 3, tra le tante aggravanti indicate,
prevede un aumento di pena se la violenza o minaccia è "commessa ... da più persone riunite".
Orbene, secondo una corretta interpretazione letterale, imposta dall'art. 12 preleggi, in base alla
quale è necessario in primo luogo tenere conto nella interpretazione delle norme del significato
lessicale delle parole utilizzate dal legislatore, il verbo "riunire", nella sua comune accezione,
significa "unire, radunare più cose o persone nello stesso luogo", ed il sostantivo "riunione" indica
"il riunirsi di più persone nello stesso luogo allo scopo di.."; il dato semantico, quindi, non appare di
dubbia interpretazione, volendosi con il termine "riunite" indicare la compresenza in un luogo
determinato di più persone, ovvero di almeno due persone.
Se si esamina poi la struttura delle due norme in discussione -art. 628 e 629 c.p., - si può notare
come il legislatore abbia voluto precisare che ricorre l'aggravante "se la violenza o minaccia è
commessa ... da più persone riunite"; sicchè il termine "riunione" risulta direttamente collegato alla
modalità commissiva della condotta violenta o minacciosa, che è connotata da una evidente
maggiore gravità quando venga esercitata simultaneamente da più persone; si vuoi dire cioè che,
come è stato osservato da una parte della dottrina, il legislatore ha conferito alla compresenza dei
concorrenti nel locus commissi delicti un maggior disvalore penale in virtù dell'apporto causale
fornito nella esecuzione del reato e della rafforzata vis compulsiva esercitata sulla vittima.
In tal modo il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in
modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perchè la fattispecie circostanziale
contiene l'elemento specializzante della "riunione" riferito alla sola fase della esecuzione del reato e,
più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece,
il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa,
ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva.
Resta così delineata la differenza tra la ipotesi di concorso di più persone nel delitto di estorsione e
quella aggravata delle "più persone riunite" nel luogo e nel momento ove venga esercitata la
violenza o la minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non potendosi la circostanza
aggravante identificare con una generica ipotesi di concorso di persone nel reato (Sez. 2, n. 25614
del 22/04/2009, Limitalola, Rv. 244149), confusione talvolta operata, come si è già rilevato, dalla
giurisprudenza sia di merito che di legittimità.
Ulteriore conseguenza della soluzione prospettata è che quando i concorrenti nel reato siano più di
cinque è configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, e che tale aggravante è
compatibile con quella delle più persone riunite, essendo sufficiente ad integrare tale aggravante
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anche la contemporanea presenza nella fase esecutiva del reato di sole due persone (vedi Sez. U, n.
20 del 07/07/1984, Dantini, Rv. 165423, che a proposito del delitto di banda armata, ha ritenuto
applicabile l'aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, essendo sufficiente a realizzare la suddetta
figura criminosa l'apporto di due soli soggetti).
2.2. La soluzione proposta è confortata anche dalla interpretazione logico-sistematica della norma e,
quindi, dalla ratio della stessa.
I fautori di entrambe le tesi rinvengono la ratio del notevole inasprimento delle pene previste per la
fattispecie del reato-base del delitto di estorsione nel maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla
partecipazione al delitto di più persone e nella minorata possibilità di difesa della vittima, violentata
o minacciata da più persone.
Si deve condividere siffatta impostazione perchè se si esaminano anche le altre ipotesi di
aggravamento previste dall'art. 628 c.p., comma 3 - violenza o minaccia commessa con armi, o da
persona travisata, o da più persone riunite; posta in essere da persone che fanno parte
dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen.;
violenza che consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere ed agire - si comprende come
tutte siano riconducibili ad una identica logica, avendo voluto il legislatore sanzionare più
gravemente le condotte che creino maggiore intimidazione e riducano le possibilità di difesa della
vittima.
Se è vero che la ratio dell'aggravamento di pena consiste nel maggiore effetto intimidatorio e nella
minorata difesa della vittima, è pure vero, però, che essa è ravvisabile soltanto, quanto alla
aggravante delle più persone riunite, nella compresenza nel luogo e nel momento in cui si eserciti la
violenza o la minaccia di più soggetti agenti; soltanto in tal caso. Infatti, la vittima, trovandosi di
fronte non ad un singolo, ma ad un gruppo, sarà più intimidita ed incapace di reagire efficacemente.
Si è obiettato (vedi Sez. 2, n. 13779 del 30/07/1978, Olivieri, Rv.
140372), che la ragione dell'aggravamento di pena andrebbe ravvisata nella maggiore pericolosità
intrinseca del fatto commesso da più persone; ma l'obiezione non è fondata perchè quella indicata la maggiore oggettiva pericolosità dell'azione criminosa posta in essere da più persone - è
esattamente la ratio dell'aggravamento di pena previsto dall'art. 112 c.p., n. 1, norma che prevede un
inasprimento delle pene quando i concorrenti nel reato siano cinque o più persone; sicchè con tale
impostazione si ritornerebbe a sovrapporre il concorso di persone nel reato alla aggravante delle
"più persone riunite", dimenticando l'elemento specializzante della "riunione" e tradendo il tenore
letterale della norma e la volontà del legislatore.
Si è rilevato, però, che pur riconoscendo che la ratio della disposizione debba essere rinvenuta nei
maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla partecipazione di più persone, si dovrebbe riconoscere
che un tale effetto può verificarsi anche nei casi di compartecipazione non contestuale purchè
conosciuta o percepita dalla persona offesa.
Si tratta dell'indirizzo fino ad oggi maggioritario in giurisprudenza che sostiene la configurabilità
dell'aggravante anche nel caso in cui il soggetto passivo abbia avuto la "sensazione" o la
"percezione" o la "conoscenza" che l'azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che
sia necessaria la simultanea presenza delle stesse.
Un tale indirizzo, che, come si è già messo in evidenza, aveva avuto origine per affrontare i casi di
cd. estorsione mediata o indiretta, non può essere seguito, non solo perchè confligge con il tenore
letterale della norma, come si è già detto, ma anche perchè I concetti di "sensazione" e "percezione"
sono opinabili, del tutto evanescenti e privi di qualsiasi oggettività, mentre per la "conoscenza" non
si comprende quale possa essere il livello di essa necessario per integrare l'aggravante in
discussione.
La giurisprudenza ha tentato di precisare siffatti concetti sostenendo, ad esempio, che la
"sensazione" deve essere "netta e sicura" (vedi Sez. 2, n. 10082 del 26/01/1987, Franciosa, Rv
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176729), ma la genericità di tali precisazioni toglie qualsiasi oggettività ai presupposti dell'indirizzo
tuttora maggioritario.
In definitiva, quindi, la ratio del sensibile aggravamento di pena previsto dall'art. 629 c.p., comma
2, rispetto alla fattispecie del reato-base, nel caso di condotta estorsiva realizzata da più persone,
risiede, come è stato autorevolmente osservato, nel dato oggettivo del contributo causale,
determinato dal maggiore effetto intimidatorio della violenza o minaccia posta in essere, fornito alla
realizzazione del delitto dalla simultanea presenza nel luogo e nel momento della esecuzione della
violenza e minaccia dei concorrenti e non quello soggettivo della mera percezione della
provenienza della condotta da parte di più persone.
Da quanto detto discende che nel caso di cd. estorsione mediata, ovvero delle minacce fatte a mezzo
lettera o telefono, l'aggravante delle più persone riunite sarà ravvisabile nel caso in cui la lettera sia
firmata da due o più persone o se alla telefonata minatoria partecipino più persone, ma non anche
nel caso in cui la parte offesa abbia la sensazione che colui che abbia spedito la lettera minatoria o
abbia fatto la telefonata minacciosa sia in collegamento con altre persone.
Per le stesse ragioni non sarà ravvisabile l'aggravante in discussione quando le minacce o le
violenze nei confronti della parte offesa siano poste in essere da diversi coimputati non
contestualmente, ma da soli in momenti successivi.
In tale situazione, infatti, sarà ravvisabile un concorso di persone nel reato, ed, eventualmente,
l'aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, nel caso i concorrenti siano cinque o più, ma non
l'aggravante delle più persone riunite che, come si è detto, ha una ratio del tutto diversa.
2.3. Le conclusioni raggiunte sono confortate anche dalla elaborazione giurisprudenziale
sviluppatasi nella interpretazione della identica espressione "più persone riunite" utilizzata dal
legislatore in altre norme penali.
E' del tutto evidente, infatti, che, per ovvie ragioni di ragionevolezza ed uguaglianza, oltre che di
certezza del diritto, appare opportuno che per espressioni identiche vi siano tendenzialmente
analoghe interpretazioni; in ogni caso è, comunque, necessario tenere nella debita considerazione il
significato attribuito alla espressione "più persone riunite" in altre fattispecie incriminatici che ad
essa fanno ricorso come elemento costitutivo di autonome figure criminose ovvero come elemento
circostanziale speciale.
Tali considerazioni sono ancora più vere con riferimento all'art. 628 cod. pen. perchè, come si è già
detto, l'art. 629 c.p., comma 2, si limita a disporre, con mero rinvio, l'aggravamento della pena se
concorre taluna delle circostanze di cui all'articolo precedente.
Ebbene in tema di rapina la giurisprudenza e la dottrina hanno concordemente e costantemente
ritenuto che l'aggravante delle più persone riunite rileva per la simultanea presenza di una pluralità
di soggetti - non meno di due persone - nel luogo e nel momento in cui la violenza e la minaccia si
realizzano (tra le tante Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, Rv. 240011; Sez. U, n. 3394 del
23/03/1992, Ferletti).
E' certo vero che tra le due fattispecie - rapina ed estorsione - vi sono non irrilevanti differenze,
come la giurisprudenza e la dottrina non hanno mancato di porre in evidenza, dal momento che
nella rapina la volontà del soggetto passivo resta sostanzialmente soppressa, mentre nella
estorsione, pure in condizioni di libertà gravemente menomata, il soggetto passivo ha la possibilità
di scegliere tra il danno minacciato e la richiesta degli aggressori, ma è pure vero che proprio perchè
entrambe le fattispecie sono poste a tutela dello stesso bene giuridico e sono caratterizzate dalla
medesima modalità realizzativa - violenza o minaccia -nella prassi giudiziaria non sempre risulta
agevole individuare una netta linea di demarcazione tra le due ipotesi di reato.
In ogni caso le pur esistenti differenze tra i due reati non legittimano una interpretazione differente
della stessa espressione, dal momento che l'unico argomento, del tutto opinabile e, quindi, per nulla
decisivo, che legittimerebbe la differente interpretazione della locuzione "più persone riunite",
consisterebbe nella maggiore efficacia della coazione nella rapina e nel maggiore distacco
temporale tra violenza e minaccia e conseguimento del profitto nella estorsione; la pratica
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giudiziaria contempla, infatti, in tema di estorsione numerosi casi di foltissima coazione psicologica
e di immediato adeguarsi del soggetto passivo alle richieste dell'estorsore.
2.4. Con la L. 15 febbraio 1996, n. 66, art. 9, è stato introdotto nel codice penale l'art. 609-octtes
che punisce la violenza sessuale di gruppo ed al comma 1 ne fornisce una definizione specificando
che "La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad
atti di violenza sessuale di cui all'art. 609-bis".
Orbene la interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che è stata fornita della espressione "più
persone riunite" contenuta in tale norma conforta le conclusioni alle quali si è pervenuti
nell'esaminare la questione controversa.
Infatti si è affermato che, pur non essendo richiesto che tutti i componenti del gruppo compiano atti
di violenza sessuale, è sufficiente e necessario che essi siano presenti sul luogo ove la vittima è
trattenuta ed al momento in cui gli atti di violenza sessuale sono compiuti da uno di loro, perchè
costui trae forza dalla presenza del gruppo (tra le tante, Sez. 3, n. 6464 del 05/04/2000, Giannuzzi,
Rv. 216978; e la necessità della simultanea effettiva presenza delle più persone nel luogo e nel
momento di consumazione dell'illecito è stata ribadita anche da Sez. 3, n. 15089 dell'11/03/2010,
Rossi, Rv. 246614).
Si è, quindi, ritenuto che la espressione "più persone riunite" definisce una situazione differente dal
mero concorso eventuale e individua un reato necessariamente plurisoggettlvo il cui quid pluris
rispetto al concorso ex art. 110 cod. pen. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della
commissione della violenza i partecipanti siano presenti.
2.5. Nello stesso senso è stata interpretata la locuzione "più persone riunite" utilizzata dal legislatore
in altre fattispecie circostanziali; si intende fare riferimento agli artt. 339 e 385 c.p., che prevedono
alcune circostanze aggravanti speciali per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione e contro
l'amministrazione della giustizia commessi con violenza o minaccia da più persone riunite.
In entrambe tali ipotesi, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è richiesta per la configurazione
delle rispettive aggravanti la simultanea presenza sul luogo del reato di due o più persone.
2.6. In conclusione anche le interpretazioni della locuzione in discussione utilizzata in altre
fattispecie conferma la ragionevolezza dell'indirizzo interpretativo proposto e delle conclusioni
raggiunte.
3. Tanto premesso in punto di diritto, bisogna osservare che nel caso di specie, per quanto risulta
dalla ricostruzione della vicenda operata dai giudici del merito, è rimasto accertato che A. G. e C.G.
hanno minacciato B.D., per costringerlo a versare danaro ed a consegnare un furgoncino all' A.,
oltre che ad acquistare assegni ed a firmare cambiali, in concorso tra loro ed in momenti successivi;
cosicchè non vi è mai stata la loro contemporanea presenza nel luogo e nel momento in cui
venivano profferite le minacce nei confronti della parte offesa.
Ciò comporta, tenuto conto della soluzione adottata per la questione controversa, la necessità di
escludere l'aggravante delle più persone riunite, previo annullamento sul punto della sentenza
impugnata.
4. Gli altri motivi di ricorso.
4.1. La violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen..
I ricorrenti A. e C. - il primo con il secondo motivo ed il secondo con il quarto motivo di ricorso hanno dedotto il difetto di correlazione tra quanto contestato e quanto ritenuto dal giudice per
mancanza della contestazione della circostanza aggravante delle più persone riunite.
In verità una tale questione sarebbe pregiudiziale rispetto alla trattazione della questione
controversa, anche se strettamente connessa ad essa.
In effetti nel capo di imputazione è stato contestato il concorso nel delitto ai due imputati ed è stato
richiamato l'art. 629 c.p., comma 2 che, come è noto, rinvia alle aggravanti previste dall'art. 628
c.p., comma 3, tra le quali al n. 1 è prevista anche quella delle più persone riunite.
E' del tutto evidente che sia il pubblico ministero nella formulazione del capo di imputazione, sia i
giudici del merito hanno ritenuto corretta la contestazione perchè, aderendo all'indirizzo
maggioritario, hanno ritenuto sussistente l'aggravante delle "più persone riunite" in tutte le ipotesi di
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concorso nel reato di estorsione di due o più persone; in base a tale impostazione potrebbe, infatti,
ritenersi sufficiente, dopo la contestazione del concorso nel reato, il semplice richiamo alla norma di
legge che prevede l'aggravamento di pena.
E' certo vero che, anche nell'ottica indicata, la contestazione avrebbe dovuto essere più precisa, non
sembrando sufficienti nè il mero richiamo, nella imputazione, dell'art. 629 c.p., comma 2, riferito,
infatti, a più aggravanti, nè la menzione di un generico concorso con altri, ma è pure vero che la
lettura congiunta dei due richiami consentiva agli imputati di comprendere i termini dell'accusa.
Inoltre bisogna ricordare che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, il principio di
correlazione tra accusa e decisione può ritenersi rispettato quando l'imputato sia posto nelle
condizioni di espletare pienamente la difesa anche, con specifico riferimento al caso di specie, sugli
elementi di fatto integranti l'aggravante (Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027);
e non vi è dubbio che nel caso di specie ai due ricorrenti nel corso del dibattimento siano stati
indicati tutti gli elementi di fatto posti a fondamento della aggravante, tanto è vero che hanno
dispiegato le loro difese essenzialmente sui problema della insussistenza della aggravante, avendo
l'accertamento fattuale escluso la contemporanea presenza dei due imputati nel luogo e nel
momento in cui venivano profferite le minacce nei confronti del B..
Naturalmente, in base alla soluzione adottata, con la quale si è escluso che il mero concorso di
persone nel reato di estorsione possa integrare l'aggravante delle più persone riunite, la
contestazione appare certamente carente; tuttavia la esclusione della aggravante in discussione
rende superfluo soffermarsi ulteriormente sulla dedotta insufficienza della contestazione.
4.2. La erronea applicazione dell'art. 110 cod. pen. ed il vizio di motivazione sulla sussistenza
dell'elemento psicologico del reato.
Con il secondo motivo di impugnazione C.G. ha lamentato, come già visto, l'erronea applicazione
dell'art. 110 cod. pen., posto che da nessun elemento potrebbe evincersi che C. sapesse dell'agire
dell' A. nei confronti del B., nonchè la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza
dell'elemento psicologico del reato.
Pur volendo prescindere dal fatto che si tratta di censure che, pur formalmente denunciando la
violazione di legge ed il vizio di motivazione, sembra che mettano in discussione la ricostruzione
dei fatti operata dai giudici di merito, con conseguente inammissibilità delle stesse, va detto che le
doglianze sono comunque infondate.
Ed infatti, con motivazione che non merita censura alcuna essendo immune da manifeste illogicità,
peraltro nemmeno messe in evidenza dal ricorrente, la Corte di merito ha rilevato come C. fosse
intervenuto nella operazione dopo una prima serie di gravi minacce da parte dell' A., facendo
presente di operare a nome di costui ed invitando il B. a "sistemare il danno" mediante
l'effettuazione di una congrua rimessa di denaro. Ritenuta non soddisfacente la somma
consegnatagli, lo stesso C. aveva poi riferito al B. di volere desistere, per il momento, dallo
"spaccargli le ossa", come dettogli dall' A.; e la Corte di merito ha poi posto in evidenza che a tale
minaccia erano seguiti sette od otto incontri tra C. e B. per la ricezione di acconti sul debito finale
con l' A..
4.3. La contraddittoria e illogica motivazione circa l'ingiusto profitto e l'altrui danno.
4.3.1. Con il primo motivo di ricorso A.G. ha, come si è già detto, lamentato la contraddittoria e
illogica motivazione in ordine alla sussistenza dell'ingiusto profitto e dell'altrui danno, essendosi
limitato a richiedere al B. le somme necessarie per la copertura degli assegni, che la parte offesa si
era impegnato a versare prima della scadenza degli stessi.
4.3.2. A sua volta C.G., con il primo motivo di impugnazione, ha dedotto la erronea applicazione
dell'art. 629 cod. pen. ed il vizio di motivazione: ha osservato il ricorrente che la minaccia posta in
essere nei confronti del B. era inidonea, che non era ravvisabile un ingiusto profitto dal momento
che i ricorrenti intendevano conseguire ciò che era stato liberamente pattuito e che il danno era
insussistente.
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4.3.3. Anche in questo caso, se formalmente sono stati dedotti la violazione di legge - art. 629 cod.
pen. - ed il vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza e della manifesta illogicità della
stessa, in sostanza i ricorrenti hanno contestato le ricostruzione dei fatti e le vantazioni di merito
compiute dai giudici dei primi due gradi di giurisdizione, riproponendo, peraltro, tutte le questioni
che erano già state sottoposte al vaglio della Corte di appello e motivatamente disattese.
Sotto tale profilo i motivi presentano evidenti profili di inammissibilità, non essendo consentito
richiedere alla Suprema Corte la rivalutazione del materiale probatorio.
In ogni caso, con più specifico riferimento al dedotto vizio di motivazione, va detto che la
motivazione che sorregge le valutazioni dei due giudici di merito (le decisioni sono conformi e le
due motivazioni si integrano) è immune da manifeste illogicità. 4.3.4. La Corte di merito ha, infatti,
ritenuto che l'avvenuto protesto dei titoli emessi da terzi e consegnati dall' A. al B. non potesse
avere arrecato alcun danno all' A., che non era stato protestato; pertanto l' A. ottenendo, con
minacce, che non ha negato di avere profferito, il pagamento di varie somme di denaro e la
consegna di un furgoncino, ebbe a conseguire un ingiusto profitto. Inoltre la Corte felsinea ha
chiarito che il "commercio di assegni", concretante, all'epoca dei fatti, illecito penale, e,
successivamente, illecito amministrativo, posto alla base dei rapporti intervenuti tra l' A. ed il B. (il
primo aveva consegnato al secondo assegni post-datati e scoperti, che questi utilizzava per ottenere
liquidità, ripagando l' A. del tantundem oltre che del compenso per l'interessamento e la "cessione")
non avrebbe consentito all'imputato di esperire alcun rimedio giurisdizionale.
Si tratta di motivazione del tutto congrua ed immune da manifeste illogicità, che non merita alcuna
censura sotto il profilo della legittimità. 4.3.5. Le considerazioni svolte rendono evidente
l'infondatezza anche dell'analogo motivo di ricorso di C.G. essendo, nel caso di specie, ravvisabile,
come si è già detto, sia l'ingiusto profitto conseguito dall' A. sia il danno subito dal B..
Quanto alla pretesa inidoneità delle minacce poste in essere nei confronti della vittima sarà
sufficiente ricordare il contenuto delle stesse - già in precedenza riportato - che era certamente tale
da intimorire e coartare la volontà del soggetto passivo, ed il ripetersi delle "visite" minacciose.
Del resto il giudizio sulla idoneità della minaccia è una tipica valutazione di merito, che i giudici dei
primi due gradi hanno correttamente compiuto tenendo conto della personalità degli agenti, del tipo
di minacce rivolte alla persona offesa, della ripetitività delle stesse, della ingiustizia della pretesa e
delle condizioni di difficoltà della vittima (vedi Sez. 6, n. 3298 del 26/01/1999, Savian, Rv.
212945).
Anche su tale aspetto, pertanto, la sentenza impugnata non merita alcuna censura in punto
legittimità. 5. Conclusioni.
5.1. In conclusione, sulla questione oggetto del contrasto di giurisprudenza deve essere enunciato il
seguente principio di diritto: "per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più
persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno
di due persone nel luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia". 5.2.
L'affermazione di tale principio comporta che nel caso di specie debba essere esclusa la circostanza
aggravante delle più persone riunite perchè, come si è posto in evidenza, le violenze e le minacce in
danno della parte lesa B. non furono poste in essere dai ricorrenti C. ed A. contemporaneamente
presenti in un unico contesto.
Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata sul punto.
5.3. La mancata indicazione, per quanto riguarda l' A., sia nella sentenza di primo grado che in
quella di appello, delle modalità di determinazione della pena e, quindi, della entità dell'aumento
determinato dal riconoscimento dell'aggravante in discussione, e la necessità, per quel che concerne
C., di provvedere ad una riduzione della pena per effetto del riconoscimento delle attenuanti
generiche, che erano state ritenute equivalenti alla esclusa aggravante delle più persone riunite non
consentono di disporre l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 620
c.p.p., lett. l) con conseguente determinazione delle pene da parte della Corte di Cassazione.
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5.4. In conclusione; la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla circostanza
aggravante delle più persone riunite, circostanza che deve essere esclusa; gli atti vanno rinviati per
la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
I ricorsi debbono essere rigettati nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante delle più persone riunite,
che esclude, e rinvia per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di
Bologna.
Rigetta nel resto i ricorsi.
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154
8)
Tentativo e dolo eventuale
Francesco e Francesca decidevano di entrare, di nascosto, presso un convento di francescani, per
picchiare alcuni di questi; una volta entrati nel convento, i due venivano fermati dai francescani
Leopoldo e Michelangelo: Francesco e Francesca li picchiavano con spranghe, accettando il
rischio della loro morte.
Leopoldo e Michelangelo venivano lasciati in una pozza si sangue, ma non morivano.
Il candidato rediga motivato parere circa la condotta posta in essere da Francesco e Francesca,
verificando la sussistenza del reato di tentato omicidio.
Possibile soluzione schematica
In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto.
Successivamente bisognava chiedersi: Francesco e Francesca possono rispondere del reato di
tentato omicidio?
Si deve rispondere negativamente perché:
-il tentativo ex art. 56 c.p. richiede l’unidirezionalità della condotta e dell’elemento psicologico
(atti diretti in modo non equivoco), che è incompatibile con il dolo eventuale fisiologicamente
equivoco;
-diversamente opinando si finirebbe per costruire una fattispecie tramite analogia in malam
partem, vietata dall’ordinamento.
Pertanto, Francesco e Francesca al più risponderanno di lesioni dolose o altro reato, ma non di
tentato omicidio.
Era possibile anche ipotizzare un tentato omicidio rilevando che gli agenti hanno agito con dolo
alternativo (nella soluzione schematica si è, tuttavia, omessa tale soluzione in quanto è
espressamente scritto che Francesco e Francesca agivano “accettando il rischio”).
Il tentativo non è compatibile con il dolo eventuale
Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-03-2012) 13-04-2012, n. 14034
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1 - Con sentenza in data 25.3/23.6.2011 la corte di appello di Torino, in parziale riforma della
pregressa sentenza, in abbreviato, del gup del tribunale di Ivrea datata 1.10.2009, condannava, tra
gli altri, S.E. e B.F. alle pene, il primo, di anni nove e mesi due di reclusione, il secondo di anni
nove e mesi quattro di reclusione per i delitti, in continuazione, di tentato omicidio, rapina, lesioni
personali aggravate, così riqualificati i fatti da tentato omicidio plurimo ritenuti in primo grado, e
furto.
2 - In breve i fatti come ricostruiti dai giudici di merito: i due imputati, insieme ad altri due correi,
V.V.I., alias P.I. e B.G. il (OMISSIS) si introducevano, travisati, nel convento dei frati minori
francescani di Nostra Signora di Belmonte, in (OMISSIS), si munivano di pesanti bastoni reperiti in
un deposito - attrezzi del convento e, dividendosi i compiti, aggredivano, ognuno per frate, i quattro
religiosi, M.G. di anni 86, Ba.Gi. di anni 81, G.B. di anni 76 e Ba.Se. di anni 49, colpendoli al capo
ed al torace, specie il V. accanendosi contro quest'ultimo tanto da cagionargli gravi danni cerebrali
che imponevano un immediato intervento chirurgico che valse a salvargli la vita. Quindi si
impossessavano di due carte di credito e di una somma imprecisata, allontanandosi dalla scena del
delitto dopo aver legato ed imbavagliato i frati tranne Ba.Se.. lasciato agonizzante a testa in giù in
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155
una pozza di sangue. Tutti gli imputati, tranne il V., si erano resi responsabili nei mesi precedenti di
furti ai danni del convento: precisamente di quattro il, B.F., di tre lo S., di due il B. G..
Nel corso del giudizio S. ed i due fratelli B. rendevano ampia confessione al P.M. In esito alle
indagini, le imputazioni come poco sopra indicate, modificata solo quella di tentato omicidio
inizialmente contestato a tutti gli imputati ai danni di tutte le persone lese, in lesioni aggravate ai
danni di M., Ba. e G. e confermando il delitto di tentato omicidio per tutti ma solo ai danni di B.S..
Con riferimento a quest' ultimo delitto, per la cui configurazione si rivolgono le critiche più diffuse
dei due ricorrenti, i giudici dell'appello, premesso che l'azione dell'autore materiale, il V. V.I.,
doveva ritenersi sorretta dal dolo intenzionale, per le caratteristiche della condotta lesiva, reiterata,
sorretta da violenza inaudita, mirata a zone corporee vitali, attuata con uno strumento micidiale per
peso e solidità, hanno ritenuto, in base ad un duplice criterio di ragione, di attribuirne la
responsabilità anche agli altri correi in forza dell'accettazione,da parte loro, del rischio che l'azione
potessi trasmodare in evento letale. E,su questo versante hanno ritenuto di attribuire il tentativo di
omicidio ai concorrenti morali del fatto a titolo di dolo eventuale: perchè l'azione omicidiaria era
collegata da un rapporto di regolarità causale con quella preordinata e realizzata al fine di cagionare
le lesioni, immobilizzare i frati per impossessarsi dei valori rinvenuti nel convento e perchè con
riferimento al solo padre B. vi erano motivi di rancore e di risentimento da parte dello S. che
proprio B. aveva allontanato dal convento, dove aveva in precedenza lavorato, per via delle sue
pretese economiche e per via di presunti pregressi rapporti intimi intessuti tra lo S., B. ed altri due
frati.
3 - Le ragioni di doglianza dei due ricorrenti, pur contenuti in due rispettivi atti di impugnazione,
sono peraltro comuni: la prima contesta, in prima battuta, in radice ed in diritto che sia possibile
attribuire il tentativo di omicidio ai concorrenti morali che agiscono con dolo eventuale,
rappresentandosi cioè in positivo la possibilità che l'azione diretta a ledere tracimi nella volontà di
uccidere. In seconda battuta i ricorrenti deducono che al più si potrebbe solo ritenere che a
caratterizzare la loro azione in relazione all'evento morte fosse solo la rappresentazione, ma in
negativo, della possibile causazione dell'evento più grave con la conseguente applicazione
dell'attenuante di cui all'art. 116 cpv. c.p..
La seconda ragione sorregge il comune tentativo di indurre questa Corte a riconoscere la manifesta
illogicità della motivazione in merito alla determinazione della pena, la cui riduzione dovrebbe
collegarsi al riconoscimento della ingiustificata equivalenza,e non della prevalenza, delle attenuanti
generiche sulle aggravanti contestate, ingiustificata per via della confessione tempestiva dei due
imputati e per la contraddittorietà del medesimo trattamento a loro riservato, in punto di giudizio di
equivalenza dell'attenuante, con quello riconosciuto all'autore materiale del tentato omicidio che si
era indotto alla confessione solo nel corso dello svolgimento del giudizio abbreviato.
4 - I due ricorsi non sono fondati e pertanto vanno respinti.
Deve subito rimarcarsi una incongruenza, anche se non influente sul dispositivo di condanna nel
discorso giustificativo giudiziale in ordine alla ritenuta responsabilità dei due imputati per il delitto
di tentato omicidio ai danni i B.S.. Invero costituisce regola iuris ormai consolidata l'incompatibilità
del tentativo con il dolo eventuale, elemento soggettivo del reato, quest'ultimo, che ricorre
allorquando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta
possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta ciononostante, agisca
accettando il rischio di cagionarla (v., per tutte, Sez. 1, 31.3/2.7.2010, Vismarq, Rv. 247707). Ne
consegue che il dolo eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto è
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156
ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo, che
presuppone il dolo diretto.
Ora una tale conclusione non può registrare eccezioni una volta che l'attribuibilità del delitto tentato
venga collegata al concorrente morale, dal momento che anch'egli deve rappresentarsi l'idoneità e
l'inequivocità degli atti propri della autore materiale del delitto.
Ne consegue che è erronea l'affermazione di diritto contenuta nella sentenza che ripete una risalente
massima, anch'essa erronea, che recita testualmente: "perche il concorrente morale risponda del
delitto di tentato omicidio, non è necessario, come per l'esecutore materiale, che l'evento-morte sia
stato da lui voluto con dolo diretto, ma è sufficiente che sia stato voluto con dolo eventuale:
il che significa che il concorrente morale deve aver concorso all'azione dell'esecutore materiale non
soltanto prevedendo in concreto l'evento-morte come possibile conseguenza dell'azione concordata,
ma addirittura accettandone il rischio di accadimento, pur di realizzare l'azione concordata (Sez. 1,
12.6/8.7.10991 Ventura Rv. 187758).
Senonchè dalla lettura della sentenza impugnata si trae con particolare chiarezza che l'effettiva
situazione psicologica dei concorrenti doveva correttamente inquadrarsi nel dolo diretto o
alternativo che sia. In tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi come dolo diretto, e non
meramente eventuale , quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo,
che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente,
l'uno o l'altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente
ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo
diretto ed è compatibile con il tentativo. I giudici dell'appello hanno richiamato in proposito, quale
referente per la decisione de qua, la massima giurisprudenziale alla cui stregua il 1' omicidio ad
opera di uno dei concorrenti in seguito alla rapina a mano armata deve ritenersi legato alla rapina da
"un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra secondo l'id quod
plerumque accidit nell' ordinario sviluppo della condotta di rapina". Hanno aggiunto poi che la
morte del religioso non poteva non essere contemplata ed accettata nella particolare situazione di
fatto come possibilità non remota o straordinaria, ma come possibilità costituente prevedibile
sviluppo della azione concordata. Ed hanno infine concluso che tutti i concorrenti, accettandone la
possibilità di accadimento - morte - "ne hanno preventivamente approvato la verificazione". Il che
costituisce l'esplicitazione chiara di una rappresentazione in positivo della figura del dolo
alternativo che in tanto sussiste in quanto l'agente si rappresenta, accettandoli, e vuole
indifferentemente l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e
volontaria, sicchè già al momento della realizzazione del fatto di reato egli deve prevederli
entrambi. Vi è allora piena compatibilità tra tentativo penalmente punibile e dolo alternativo, poichè
la sostanziale equivalenza dell'uno e dell'altro evento, che l'agente si rappresenta indifferentemente,
entrambi come eziologicamente collegabili alla sua condotta o a quella altrui, alla quale concorre,
comporta che questa forma di dolo è diretta, atteso che ciascuno degli eventi è ugualmente voluto
dal reo.
5- Inammissibile invece la seconda ragione di doglianza: i giudici di merito hanno valutato, per
ritenere solo equivalenti le attenuanti generiche, pur concesse, la gravità dei fatti, le modalità
cruente delle rispettive condotte, pervenendo ad una valutazione, che ha tenuto conto del numero
dei reati satelliti di furto attribuiti, in maggior e o minore misura, ai singoli imputati, e che si sottrae
come tale al sindacato che tende a soppesare, sul piano squisitamente di merito, la maggior
correttezza o meno del discorso giustificativo.
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157
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che li hanno
proposti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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159
9)
Consenso putativo
Tizio è titolare dello studio legale-commerciale Tizio&Partners.
Tizia è segretaria presso il suddetto studio.
Una sera, Tizio restava in studio fino a tarda ora, insieme alla segretaria Tizia.
Quella sera, Tizia indossava una gonna cortissima che lasciava intravedere calze autoreggenti.
Tizio chiedeva a Tizia se fosse fidanzata e questa rispondeva che era un periodo in cui cercava solo
“avventure”.
Tizio, allora, interpretava la risposta di Tizia come consenso e si avvicinava per baciarla; la
fermava per la testa e baciava con la lingua.
Tizia si ribellava e scappava via dallo studio.
La mattina seguente, Tizio si recava dal suo collega avvocato Sempronio.
Il candidato, assunte le vesti di Sempronio, premessi brevi cenni sul c.d. consenso putativo, rediga
motivato parere sulla questione giuridica proposta.
Possibile soluzione schematica
Il caso proposto impone di premettere brevi cenni sul consenso putativo:
-l’art. 50 c.p. afferma la non punibilità dell’agente, laddove la vittima abbia prestato il consenso;
-il consenso putativo nasce da una lettura combinata dell’art. 50 con l’art. 59 c.p.;
-è predicabile solo laddove emerga che l’agente ritenga di aver agire con il consenso della vittima;
se l’errore è determinato da colpa, allora può sorgere una responsabilità per reato colposo se
prevista.
E’ applicabile al caso in esame la figura del consenso putativo?
Si ritiene di rispondere negativamente perché:
-la risposta data da Tizia era equivoca, e nel dubbio Tizio avrebbe dovuto astenersi;
-Tizio ha posto in essere una condotta violenza, in quanto fermava la testa di Tizia;
-il bacio con la lingua senza consenso è configurabile come violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p.
Pertanto, Tizio ben potrà essere accusato del reato di violenza sessuale.
L'esimente putativa del consenso dell'avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza
sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e
l'errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un in errore inescusabile sulla legge penale.
Cassazione penale, Sez. III, 10.3.2011, n. 17210
Svolgimento del processo
Il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza del
23 febbraio del 2009, dichiarava non doversi procedere nei confronti di I.V., in ordine al delitto
ascrittogli, con la formula "perchè il fatto non costituisce reato".
Al predetto si era addebitato il delitto di cui all'art. 61 c.p., n. 11, artt. 81 cpv. e 609 bis c.p. perchè,
con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, aveva costretto M.A. a subire atti
sessuali consistiti nell'afferrarla per le spalle, immobilizzarla, stringerle il collo e baciarla sulla
bocca, palpandola ed accarezzandola in varie parti del corpo contro la volontà della stessa nonchè
per avere tentato di avere un rapporto sessuale con la stessa non riuscendo nell'intento per la
reazione della donna. Fatto commesso con abuso della relazione professionale in (OMISSIS).
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160
La contestazione ha preso origine dalla denuncia sporta dalla M. il 6.5.2008 ai CC della stazione di
Villa Literno nel corso della quale la giovane aveva raccontato che da circa due settimane
collaborava, come "volontaria", presso la biblioteca comunale di Villa Literno, della quale era
responsabile lo I., amico del padre, e con il quale i rapporti erano sempre stati educati. Il
pomeriggio del (OMISSIS), verso le ore 18,00, aveva iniziato il proprio turno trovando lo I. intento
a lavorare al computer. Il predetto aveva cominciato a parlarle invitandola a pranzo con una certa
insistenza, raccomandandole di non raccontare niente a nessuno e proponendole di recarsi a
prenderla direttamente all'uscita dell'università di Napoli. Essa, prima aveva informato lo I. che non
v'era nulla di male ad andare a pranzo con colleghi di lavoro e poi, avendo rilevato che la
conversazione stava prendendo una piega che non le piaceva, aveva invitato lo I. a riprendere il
lavoro. Invece, dopo pochi minuti, l'imputato si era avvicinato e, con veemenza, le aveva afferrato il
collo dalle spalle facendo forza con il braccio ed era così riuscito ad immobilizzarla e a baciarla
lascivamente sulle labbra con la lingua. In preda al panico, aveva reagito strattonando ed
allontanando l'imputato al quale rivolgeva la seguente frase ": sei scemo?" Lo I. aveva replicato
dicendo:
"cosa mai è un bacio". La denunciante aveva precisato di aver preso il telefono cellulare ed essere
fuggita per raggiungere il suo fidanzato e poi sporgere denuncia. La M. aveva aggiunto che era la
prima volta che lo I. aveva manifestato "effusioni sessuali" e che all'episodio non avevano assistito
testi oculari.
Nell'immediatezza erano sentiti il fidanzato della M., U. G. ed i genitori della stessa, i quali,
sostanzialmente riferivano l'episodio da loro appreso dalla giovane. Sulla scorta di tali elementi, i
CC procedevano all'arresto in flagranza dello I..
Acquisite le chiavi della biblioteca, i militari verificavano, sia che v'era ancora il giubbotto lasciato
dalla denunciarne nella fuga, sia che la presenza della giovane quel pomeriggio risultava dal
registro.
Nell'interrogatorio di garanzia l'imputato ammetteva di avere baciato la M., spiegando che in varie
occasioni la giovane gli aveva proposto di offrirle il pranzo e che in un'altra circostanza gli aveva
chiesto di scriverle una dedica su un suo biglietto da visita, condotte queste che lo avevano indotto a
ritenere che potesse baciarla senza urtare la sua suscettibilità. Spiegava, pertanto, la sua sorpresa nel
vedersi allontanare dalla giovane quando l'aveva baciata e precisava che, dopo il rifiuto della
ragazza, non aveva insistito nè aveva tentato di trattenerla. Negava sia di averla palpeggiata che di
avere tentato di avere un rapporto sessuale.
Il GIP non convalidava l'arresto e rigettava la richiesta di misura cautelare personale ritenendo che
non ricorressero gravi indizi di colpevolezza.
Tanto premesso in fatto, il giudice a fondamento del proscioglimento, dopo avere premesso che la
valutazione doveva essere limitata alla condotta del bacio, posto che le altre condotte contestate al
prevenuto nel capo di imputazione non erano mai state denunciate dalla parte offesa, ha osservato
che le dichiarazioni rese dallo I. sia sulle modalità dell'approccio, ossia senza ricorrere alla violenza,
sia sulla convinzione del consenso della M., erano assolutamente credibili in ragione del
comportamento successivo al rifiuto tenuto dallo stesso imputato, il quale non ha nè tentato un
nuovo approccio, nè ha impedito alla giovane di allontanarsi, nè ha rivolto alla stessa minacce o
avvertimenti. Ha aggiunto che tale comportamento emergeva, non solo da quanto riferito dallo
stesso imputato, ma anche da quanto raccontato agli investigatori dalla denunciate; che la condotta
tenuta dall'imputato dopo il bacio rendeva verosimile e credibile che lo stesso non avesse posto in
essere alcuna violenza nei confronti della giovane per costringerla a subire il bacio e rendeva
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plausibile la convinzione in ordine al consenso della vittima. Ha conclusivamente osservato che
trattatasi di errore che escludeva la punibilità dello I. non essendo alla sua condotta sotteso il dolo
generico inteso come coscienza e volontà di coartare o indurre la vittima a subire un atto sessuale e
che non aveva alcun rilievo l'indagine sulla colposità o meno di tale errore non essendo prevista
accanto alla violenza sessuale dolosa una corrispondente fattispecie colposa.
Avverso la sentenza ha proposto appello il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa
Maria Capua Vetere denunciando contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova,
posto che la dichiarazione della persona offesa era pienamente credibile e che immotivatamente il
giudice aveva escluso la configurabilità del reato.
Motivi della decisione
Il ricorso va accolto.
Anzitutto va precisato che, secondo autorevole dottrina e la giurisprudenza (Cass. 21 gennaio 1982,
Maglione RV 152899) non rientrano nella scriminante invocata dal tribunale i casi in cui la
mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie (artt. 614 o 609 bis c.p.)
perchè in tali casi l'errore sul dissenso ossia su un elemento costitutivo della fattispecie spesso si
risolve in errore sulla legge penale, che non può essere invocato a norma dell'art. 5 c.p.. Quindi il
tribunale per escludere il reato non avrebbe potuto richiamare la possibile sussistenza di un
consenso putativo o presunto.
In ogni caso, anche a volere ammettere in questa materia la ricorribilità di un consenso putativo o
presunto, si deve trattare comunque di casi in cui si possa ragionevolmente presumere che il titolare
del diritto, se avesse potuto, avrebbe espresso il proprio consenso. D'altra parte l'esimente putativa
(nella specie consenso dell'avente diritto) può trovare applicazione solo quando sussista un'obiettiva
situazione - non creata dallo stesso soggetto attivo del reato - che possa ragionevolmente indurre in
errore tale soggetto sull'esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della
scriminante.
Nella fattispecie la motivazione del tribunale su tale punto è alquanto lacunosa, in quanto dalle
dichiarazioni rese dalla parte offesa non emerge in maniera palese la sussistenza di un possibile
errore sul consenso della vittima. Invero la parte lesa, allorchè aveva intuito le intenzioni dello I., lo
aveva invitato a pensare al lavoro, come risulta dalla ricostruzione del fatto contenuta nella stessa
sentenza. L'invito della ragazza a pensare solo al lavoro non si concilia con l'esistenza di un
consenso ancorchè putativo o erroneamente supposto. Gli elementi indicati dal tribunale per
giustificare la sussistenza di un consenso reale o putativo non trovano quindi puntuale riscontro
nelle dichiarazioni della parte lesa richiamate nella stessa sentenza.
Per le considerazioni dianzi esposte nella fattispecie era doverosa la verifica dibattimentale anche in
base alla nuova regola di giudizio introdotta con la L. n. 479 del 1999. Pertanto la sentenza
impugnata va annullata con rinvio al tribunale di Santa Maria Capua Vetere per un nuovo esame.
La liquidazione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile va rimessa al giudice del
rinvio.
P.Q.M.
La Corte letto l'art. 623 c.p.p. annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Santa Maria
Capua Vetere cui demanda la liquidazione delle spese tra le parti.
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162
Tentato bacio come violenza sessuale.
Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 10-05-2012) 19-07-2012, n. 29152
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Roma in data 4 novembre 2011 ha rigettato l'appello proposto avverso l'ordinanza
con la quale il G.I.P. presso il Tribunale di Velletri in data 29 luglio 2011 ha respinto la richiesta di
sostituzione con la misura degli arresti domiciliari di quella della custodia in carcere disposta, a far
data dal 17 maggio 2011, nei confronti di U.G., indagato per i delitti di violenza sessuale continuata
e stalking in danno di D.M., in (OMISSIS) (condotta perdurante), per avere posto in essere varie
condotte vessatorie dopo l'interruzione della relazione extraconiugale da parte di costei, nonchè di
averne sessualmente abusato. Il Tribunale aveva ritenuto che gli atti allegati dalla difesa all'esito di
indagini difensive (verbali di sommarie informazioni testimoniali di D.L.A.), non offrivano nuovi
elementi di valutazione in punto di esigenze cautelari.
2. L'indagato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, precisando di avere
già inoltrato richiesta di sostituzione della misura custodiale, respinta dal G.I.P. in data 2 luglio
2011, reiezione confermata dal Tribunale della libertà di Roma con ordinanza del 6 ottobre 2011, ed
ha chiesto l'annullamento per provvedimento per i seguenti motivi: 1) Contraddittorietà manifesta
della motivazione, travisamento del fatto, in quanto era stato considerato sussistente la violenza
sessuale (capo b), fatto la cui esistenza doveva ritenersi esclusa sulla base delle risultanze
processuali, che venivano indicate in dettaglio nel ricorso.
2) Violazione degli artt. 152 e 612 bis c.p. e art. 273 c.p.p., comma 2: il Tribunale avrebbe
confermato la misura sulla base di fatti configuranti il reato di atti persecutori contenuti in una
querela successivamente rimessa; il Tribunale, in sede di riesame, aveva limitato l'annullamento ad
un solo fatto di violenza sessuale, mentre avrebbe dovuto comprendervi tutti gli episodi rientranti
nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 612 bis c.p., commessi fino alla data della querela che era stata
rimessa. 3) Violazione di legge, in quanto il Pubblico Ministero avrebbe dovuto immediatamente
richiedere l'archiviazione per i fatti narrati nella querela oggetto di rimessione, per cui gli atti di
indagine non erano utilizzabili nella valutazione del Tribunale, che invece ha basato la decisione
sugli elementi di cui alla querela del 7 giugno 2010, rimessa in data 11 giugno 2010;
4) Violazione di legge per inosservanza dell'art. 273 c.p.p., attesa l'insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza: non sarebbe vero che l'indagato ha ricattato la D. e la teste C. ha reso dichiarazioni su
suggestione della D. stessa, mentre non sarebbe stato dato rilievo al fatto che la D.L.A. aveva
riferito con chiarezza l'episodio del mercato, per cui emergerebbe l'inattendibilità della D. e le
ragioni di astio della stessa nei confronti di esso indagato. 5) Violazione degli artt. 62 e 191 c.p.p., e
art. 350 c.p.p., comma 6, con riferimento all'utilizzazione, da parte dei giudici del riesame, di
dichiarazioni che si assumono da lui rese ai Carabinieri il 7 giugno 2010. 6) Violazione di legge, in
quanto nell'informazione di garanzia conseguente al sequestro di alcune fotografie ritraenti la
persona offesa non erano stati indicati gli estremi dei fatti per cui si procedeva, con conseguente
nullità del sequestro. 7) Illogicità della motivazione del provvedimento impugnato laddove,
riconosciuta la improcedibilità di uno dei reati rubricati al capo b) dell'imputazione, non aveva
analogamente delimitato l'ambito dell'imputazione di cui al precedente capo a). 8) Violazione
dell'art. 274 c.p.p. ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle esigenze
cautelari, in quanto il Tribunale avrebbe fornito motivazione apparente, senza indicare gli elementi
posti a fondamento della prognosi di recidivale avrebbe indicato quali tra le condotte oggetto di
imputazione possano essere reiterate ed avrebbe illogicamente considerato la presunta "sistematica
persecuzione", che è elemento costitutivo del reato di cui all'art. 612 bis c.p., quale dato
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163
significativo per l'applicazione della misura. 9) Violazione dell'art. 274 c.p.p., lett. c), in quanto il
Tribunale non avrebbe evidenziato gli elementi dai quali deduceva la pericolosità dell'indagato. 10)
Violazione dell'art. 274 c.p.p., lett. a), rilevando la insussistenza del pericolo di inquinamento
probatorio. 11) Inosservanza dell'art. 612 bis c.p., Violazione della clausola di sussidiarietà, in
quanto il reato di violenza sessuale dovrebbe essere espunto dall'imputazione di stalking. 12)
Manifesta contraddittorietà della motivazione e travisamento del fatto, quanto alla insussistenza del
grave e perdurante stato di pericolo e del fondato timore per la propria incolumità in capo alla
querelante.
13) Violazione dell'art. 192 c.p.p., contraddittorietà della motivazione, travisamento del fatto quanto
all'attendibilità della persona offesa, in particolare il Tribunale non avrebbe dato considerazione alle
dichiarazioni rese dalla teste D.L., intima amica della D., che avrebbero invece dovuto indurre il
Tribunale a dubitare della sincerità della persona offesa, le cui dichiarazioni vengono esaminate nel
dettaglio nell'articolato motivo di ricorso. 14) Inosservanza dell'art. 275 c.p.p. In considerazione
della palese sproporzione della misura applicata rispetto alle esigenze cautelari, implicitamente
riconosciuta dalla stesa persona offesa che richiedeva l'applicazione della meno afflittiva cautela del
divieto di avvicinamento ai luoghi dalla stessa frequentati. 15) Violazione di legge in relazione
all'art. 275, e art. 1 c.p.p. per la mancata valutazione di adeguatezza rispetto al fatto della misura
cautelare applicata. 16) Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 272 e art. 275 c.p.p., comma
2, in quanto, poichè l' U. ha chiesto il rito abbreviato con conseguente sconto di pena, ed alla
violenza sessuale (tentativo di bacio) dovrebbe essere riconosciuta la diminuente del fatto di lieve
entità, che lo stesso è incensurato, è ragionevole ipotizzare che la pena finale non dovrà essere
scontata.
Motivi della decisione
1. Osserva la Corte che il ricorso è manifestamente infondato.
Innanzitutto, per quanto riguarda i limiti di sindacabilità in questa sede dei provvedimenti "de
liberiate", si deve ricordare che la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli
elementi materiali e fattuali delle vicende dei giudizi a quibus, ivi compreso lo spessore degli indizi,
nè di rivalutazione delle condizioni soggettive dell'indagato in relazione alle esigenze cautelari ed
alla adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito
esclusivo dei giudici del merito. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all'esame del
contenuto dell'atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno
determinato e, dall'altro, l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni
rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr, da ultimo, Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep.
4/1/2012, Siciliano, Rv. 251760).
Inoltre è stato precisato che il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza emessa in sede di appello
cautelare è proponibile solo per violazione di legge, per cui non possono essere dedotti con tale
mezzo di impugnazione vizi della motivazione, quali la mancanza o la manifesta illogicità della
motivazione, separatamente previste come motivo di ricorso dall'art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr. Sez. 1,
n. 40827 del 27/10/2010, Madio, Rv. 248468).
In particolare, il controllo di legittimità in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle
misure non può infatti riguardare l'apprezzamento del giudice di merito sulle condizioni soggettive
dell'imputato, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la
motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze
esaminate (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 1769 del 23/3/1995, dep. 28/4/1995, Ciraolo, Rv. 201177).
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164
2. Il Tribunale della libertà di Roma, dopo avere sintetizzato la vicenda, ha tenuto conto dei
provvedimenti già assunti (la conferma dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta con
ordinanza del 7 giugno 2011 e la reiezione dell'appello avverso la richiesta di sostituzione già
avanzata al G.i.P. in precedenza, di cui all'ordinanza in data 6 ottobre 2011), ed ha concentrato la
propria attenzione sulla istanza di revoca o sostituzione della misura che l'indagato aveva presentato
al G.I.P. In data 22 luglio 2011, con la quale aveva allegato le dichiarazioni rese da D.L. A., istanza
respinta dal G.I.P. con il provvedimento sottoposto all'esame del Tribunale quale giudice di appello.
I giudici dell'appello cautelare, esaminando nel dettaglio le dichiarazioni testimoniali allegate
dall'indagato sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, hanno ritenuto che il
contenuto delle stesse, lungi da rappresentare "elemento nuovo" in grado di scardinare il quadro di
gravità indiziaria, non potesse neppure mettere in dubbio i presupposti applicativi della misura
cautelare, che erano stati ritenuti nella consistenza della gravità indiziaria e nella sussistenza delle
esigenze cautelari già nelle precedenti ordinanze relative allo stesso procedimento e che dovevano
essere del pari confermati. Quanto alla proporzionalità ed adeguatezza della misura della custodia in
carcere, i giudici dei Tribunale hanno confermato il giudizio di esclusiva idoneità di tale restrizione
a soddisfare le sussistenti esigenze cautelari, che non potevano dirsi scalfite od attenuate, per i
motivi esposti in dettaglio nel corpus motivazionale dell'ordinanza, dalla circostanza che fosse stato
emesso decreto di giudizio immediato (poi convertito su istanza dell'imputato in giudizio
abbreviato, come dallo stesso evidenziato nel ricorso).
3. Orbene non si ravvisa, dalla motivazione dell'ordinanza del Tribunale di Roma, alcuna carente
esplicazione circa il permanere dei presupposti di applicazione della misura cautelare della custodia
cautelare in carcere, avendo i giudici dell'appello cautelare esaminato le dichiarazioni della teste
D.L., offerte quale elemento di rivalutazione sia della gravità indiziaria che del diverso atteggiarsi
delle esigenze cautelari.
Di fatti quasi tutti i motivi di ricorso dell' U., risultano inammissibili in quanto non fanno altro che
riproporre questioni già oggetto del giudizio di riesame dei 7 giugno 2011, avverso l'ordinanza
generica di applicazione della misura cautelare, questioni risolte in tale sede ed ormai coperte da
giudicato cautelare, giusta sentenza di questa Corte, Sez. 3, n. 187 dell'1/12/2011, depositata il
10/1/2012, che ebbe a dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione avverso tale ordinanza.
Infatti è stato chiarito che "l'effetto preclusivo di un precedente giudizio cautelare viene meno
soltanto in presenza di un successivo, apprezzabile, mutamento del fatto; ne consegue che, in difetto
di nuove acquisizioni probatorie che implichino un mutamento della situazione di fatto sulla quale
la decisione era fondata, le questioni dedotte a sostegno di una richiesta di revoca presentata
dall'interessato restano precluse" (in tal senso Sez. 5, n. 17986 del 9/1/2009, dep. 30/4/2009,
Massone Brega, Rv. 243974).
4. Altri motivi risultano del pari inammissibili, proprio perchè volti a sollecitare una diversa
valutazione dei dati acquisiti al processo, propria del giudizio di merito, ovvero a considerare
diversamente le stesse esigenze cautelari al fine di ottenere una valutazione più favorevole in
relazione ai requisiti dell'adeguatezza e proporzionalità delle stesse. Tale giudizio, come già
evidenziato, non è consentito in questa sede di legittimità.
Nel caso si specie, invece, questo Collegio osserva che l'ordinanza oggetto della presente
impugnazione è sorretta da logica e corretta argomentazione motivazionale circa le ragioni
giuridicamente significative che hanno sorretto la decisione.
6. Nè possono in questa sede essere esaminati i profili prognostici circa la futura sanzione che potrà
essere comminata all'imputato all'esito del giudizio di merito e per quanto attiene alla irrilevanza
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sotto il profilo della sussistenza delle esigenze cautelari della conclusione delle indagini preliminari,
l'ordinanza impugnata ha fornito esaustiva risposta alla censura, facendo corretto richiamo alla
giurisprudenza di legittimità. Per cui anche tali restanti motivi di ricorso risultano manifestamente
Infondati.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dei ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p. e della somma di Euro mille in favore
della cassa delle ammende. Inoltre la Corte dispone che copia del presente provvedimento sia
trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende. La Corte dispone inoltre che copia
del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a
norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p..
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