luigi viola casi di diritto penale 2012
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luigi viola casi di diritto penale 2012
LUIGI VIOLA ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ CASI DI DIRITTO PENALE 2012 TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense, tenuto da Luigi Viola su overlex.com _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ Overlex.com editore © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 1 LUIGI VIOLA, Avvocato (esercita la propria attività professionale tra Lecce, Roma e Milano), docente di Diritto Processuale Civile presso l’Università degli Studi E-Campus sede di NovedrateComo, Specialista in Diritto civile. Direttore scientifico di Altalex Massimario e del Quotidiano giuridico Overlex.com. Direttore scientifico dell’Osservatorio Nazionale sul Processo Civile. Docente in corsi di preparazione per l’esame di avvocato e per il concorso in magistratura ordinaria, nonché in diversi Master (Roma, Milano, Reggio Calabria, Rimini, Ancona) accreditati dal C.N.F. E’ docente di Diritto dei contratti presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno (S.S.A.I.). Relatore in vari convegni (in Roma presso la Camera dei Deputati, presso l'Università Gregoriana Pontificia, presso il Campidoglio, presso il Parlamento Europeo, in Milano, in Bari, ecc.), anche inerenti la formazione decentrata dei magistrati. Ha scritto diversi libri e curato Trattati; tra le ultime opere si segnalano Il contratto (Cedam 2009), Prescrizione e decadenza (Cedam 2009), Inadempimento delle obbligazioni (Cedam 2010), Codice di procedura civile commentato (Cedam 2011), L’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. (Giuffrè 2011), La semplificazione dei riti civili (Cedam 2011), Le domande nuove inammissibili nel processo civile (Giuffrè 2012), Il nuovo appello filtrato (Altalex 2012), La testimonianza nel processo civile (Giuffrè 2012). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 2 INDICE 1) Concorso colposo in reato doloso…………………………………………pag. 5 2) Appropriazione indebita…………………………………………………...pag. 44 3) Diffamazione ed intervista…………………………………………………pag. 62 4) Concorso anomalo…………………………………………………………pag. 76 5) Coltivazione di piantine di marijuana……………………………………...pag. 96 6) Accesso abusivo a sistema informatico o telematico………………………pag. 129 7) Estorsione e più persone riunite…………………………………………....pag. 142 8) Tentativo e dolo eventuale…………………………………………………pag. 155 9) Consenso putativo………………………………………………………….pag. 160 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 3 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 4 1) Concorso colposo in reato doloso Andrea è dirigente dell’ufficio di pronto intervento della città di Roma; Pasquale è un dipendente, su cui Andrea si trova in una posizione gerarchicamente sovraordinata. Ad Andrea arrivavano diverse segnalazioni su Pasquale inerenti la sua personalità, definita come schizofrenica e bisognosa di accertamenti medici-psichiatrici. La stessa polizia chiedeva ad Andrea di approfondire la situazione psichica in cui versava Pasquale e, se del caso, di attivarsi per revocare il porto d’armi, di cui quest’ultimo disponeva; Andrea non si attivava in alcun modo, lasciando trascorrere sei mesi. Una sera, Pasquale - con la propria pistola - uccideva la moglie Sempronia. Andrea si recava da un legale. Il candidato, assunte le vesti del legale, premessi brevissimi cenni sul concorso di persone nel reato, rediga motivato parere. Possibile soluzione schematica Il concorso di persone nel reato, ex art. 110 c.p., è integrato quando più persone pongono in essere condotte, anche diverse, per il raggiungimento del medesimo risultato antigiuridico (reato); l’elemento psicologico comune a tutti deve essere quello del dolo (sono ammesse gradazioni diverse, come per il dolo eventuale e specifico). Nel caso in esame non emerge un concorso di persone nel reato, ex art. 110 c.p., perché Andrea non ha agito con dolo, ma (sembrerebbe) noncuranza e/o negligenza visto che ha lasciato trascorrere dei mesi. Può Andrea rispondere di concorso colposo in delitto doloso? In senso negativo si dice: -tale figura non è espressamente prevista da alcuna norma; il codice penale individua solo il concorso doloso in reato doloso, ex art. 110 c.p. ed, al più, il concorso colposo in reato colposo, ex art. 113 c.p., ma non il concorso colposo in reato doloso; -non sarebbe possibile estendere la portata dell’art. 113 c.p. anche al concorso colposo in reato doloso perché ciò costituirebbe un vulnus al principio di stretta legalità e divieto di analogia in malam partem. Tuttavia, si ritiene di optare per la tesi positiva, che comporterebbe per Andrea una condanna per omicidio colposo, nella veste di concorso colposo in reato doloso; ciò in quanto: -è vero che il concorso colposo in reato doloso non è previsto da alcuna norma, ma a livello interpretativo è ammissibile: se il legislatore punisce una condotta meno grave come il c.d. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 5 concorso colposo in reato colposo, ex art. 113 c.p., a fortiori dovrebbe essere punito quello colposo in doloso; -non si tratterebbe di un’interpretazione per analogia in malam partem, ma interpretazione estensiva, perché non si individua un caso non previsto, ma si dilata la portata della norma Andrea, pertanto, potrà essere punito a titolo di concorso colposo in omicidio doloso. La soluzione poteva essere anche di segno opposto (assoluzione); era sbagliato soffermarsi solo sull’art. 328 c.p. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 6 E' ammissibile il "concorso colposo" nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. Cassazione penale, Sez. IV, 20.9.2011, n. 34385 Svolgimento del processo La Corte di appello di Torino con la sentenza indicata in epigrafe confermava il giudizio di responsabilità del dott. B.A. per il reato di duplice omicidio colposo e, riformando in melius il trattamento sanzionatorio, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione oltre ad una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000,00 nei confronti di una sola delle parti civili costituite, I.V., confermando nel resto la sentenza impugnata. Il dott. B. era stato chiamato a rispondere del reato in questione in qualità di dirigente dell'ufficio di Pronto Intervento della Questura di Torino, da cui dipendeva C.G., Ispettore Capo della Polizia di Stato che nella notte tra il (OMISSIS) cagionava con la pistola d'ordinanza la morte della moglie M.I. e del cognato M.M. M.: A carico del dott. B. erano stati formulati i seguenti addebiti: a) aver omesso di trasmettere all'ufficio Sanitario provinciale un rapporto informativo sul C. - per il quale il Servizio Centrale di Sanità aveva disposto la sorveglianza medica periodica con cadenza semestrale (in quanto il C. era stato riammesso in servizio a seguito di congedo per note ansiose in personalità da approfondire ed in riferito disturbo del comportamento), parere richiesto il 18.9.2003 dall'Ufficio sanitario; avere omesso di comunicare che il C. in data 3.10.2003 aveva colpito la moglie cagionandole una ferita lacero contusa guaribile in sette giorni e di trasmettere i rapporti redatti a carico del C.; avere omesso di provvedere ai sensi del D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, art. 48 e relativa circolare del Ministero dell'Interno, che specificava potersi disporre il ritiro dell'arma in dotazione nel caso che si configura con la messa in atto da parte del dipendente di comportamenti tali da far ritenere oggettivamente pericolosa la detenzione dell'arma, nonostante il C. (che già era stato oggetto di ritiro dell'arma nel novembre 2002 per aver minacciato di uccidere la moglie e sè stesso in caso di separazione) avesse colpito M.I. il 3.10.2003 e nel corso della comunicazione telefonica al 113, registrata mentre il C. percuoteva la moglie, avesse esplicitato propositi omicidiari e suicidiari. La Corte di appello territoriale, nell'esaminare i motivi di impugnazione del difensore e dell'imputato, confermava la penale responsabilità del B., corrispondendo agli specifici motivi di impugnazione afferenti la contestata posizione di garanzia del B. rispetto al comportamento del dipendente e gli addebiti di colpa omissiva ritenuti a suo carico. In ordine alle censure di merito dedotte dall'appellante, sotto il primo profilo (posizione di garanzia), la Corte osservava che chi è preposto alla guida di un certo servizio e si trova in posizione di garanzia - che comporta un obbligo di vigilanza su chi, svolgendo quel servizio, corre il rischio di deviare nel compiere i doveri di istituto - incorre in responsabilità a titolo di colpa nella commissione di reato operata dal sottoposto verso cui sussisteva un obbligo di vigilanza, nel caso in cui abbia omesso di esercitare un potere di intervento qualora, avvertito di certe anomalie di comportamento foriere di pericoli per la incolumità altrui, ad ulteriori avvisaglie di comportamenti anomali da parte dello stesso soggetto, non approfondisce adeguatamente lo stato delle cose per intervenire con efficacia a parare i pericoli che si profilano. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 7 Evidenziava, sotto profilo della evitabilità dell'evento e sussistenza del nesso causale tra la colpa contestata e l'evento che il dr. B., era venuto meno al dovere di trasmettere immediatamente - dopo l'episodio del (OMISSIS) - il rapporto informativo semestrale a carico del C. al Servizio Operativo Centrale di Sanità ed aveva affrontato superficialmente la situazione sia con riferimento all'episodio del (OMISSIS) che a quello dell'(OMISSIS): con riferimento al primo fatto non aveva richiesto copia delle relazioni circa gli accertamenti svolti per suo suggerimento dalla Squadra Mobile e con riferimento al secondo aveva incaricato di seguire i fatti il suo vice e non aveva raccolto quelle notizie di prima voce e di prima mano che avrebbero meglio orientato le sue determinazioni sul dipendente che, come emergeva dalla registrazione della telefonata al 113 della M. si era reso responsabile di una aggressione brutale e spietata, rendendosi successivamente irreperibile. Sotto l'altro profilo (esigibilità di una condotta atta a prevenire l'evento), i giudici di appello, nel passare in rassegna i singoli addebiti colposi evidenziati dalla sentenza di primo grado a carico del dr B., rimarcavano che era nei poteri dell'imputato acquisire una adeguata conoscenza della situazione raccogliendo l'esito degli incarichi di natura investigativa affidati a seguito del verificarsi di entrambi gli episodi sopra indicati ed ascoltando le conversazioni registrate dal 113 il (OMISSIS) al fine di operare con la dovuta tempestività ed efficacia gli interventi propri e di richiedere quelli di altri organi amministrativi per ovviare al chiarissimo pericolo di atti violenti del marito nei confronti della moglie. Ciò soprattutto tenuto conto che dai documenti emergeva con solare evidenza che la ritrattazione della M. del 2 gennaio 2003 era frutto di pressioni psicologiche difficilmente vincibili operate dal marito. La Corte di appello rigettava, invece, l'appello proposto dal PM avverso il giudizio di assoluzione pronunciato dal Tribunale con riferimento al reato di cui all'art. 328 c.p., comma 2, contestato al dr. B. per la mancata stesura della relazione richiestagli il 18 settembre 2003 dall'Ufficio Sanitario Provinciale, sul rilievo che, rappresentando il fatto del (OMISSIS) una reazione emotiva aggressiva cioè un motivo di sospetta infermità, la mancata segnalazione dell'episodio rappresenterebbe omissione di atto doveroso. Il giudicante affermava, in conformità al primo giudice, che nel consultarsi del B. con i colleghi ed i medici sui modi con cui venire incontro alla drammatica vicenda familiare, non era ravvisabile un volontario rifiuto di stesura del rapporto richiestogli ma piuttosto una trascuratezza nel non aver preso conoscenza di prima mano dei fatti e di aver mancato, per negligenza, di tempestività nel provvedere con i poteri di cui disponeva al fine di rendere evitabile la tragedia. Infine, quanto alle statuizioni civili, il giudice di appello, dato atto che tutte le parti civili costituite, tranne I.V., pendente il giudizio di appello, avevano promosso azione civile nei confronti del B. e che il procedimento risultava sospeso ex art. 75 cod. proc. pen., facendo riferimento all'art. 82 cod. proc. pen. affermava in motivazione che la costituzione di parti civili (nel processo penale) si intendeva revocata e quindi non occorreva provvedere sulle relative richieste. Avverso la citata sentenza propongono ricorso per cassazione l'imputato e le parti civili costituite. L'imputato articola due motivi ripercorrendo analiticamente la motivazione della sentenza impugnata ed investendo i capi ed i punti della decisione gravata che asserisce fondata sulla violazione dei principi in tema di causalità e di colpa. Con il primo motivo lamenta la violazione di legge con riferimento al ritenuto nesso di causalità tra la mancata trasmissione del rapporto informativo sulle condizioni del C. e gli eventi che si realizzarono il (OMISSIS) dolendosi della ricostruzione operata in sentenza. In tal senso si evidenzia che, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, l'episodio del novembre del 2002- a seguito del quale il C. era stato temporaneamente privato dell'arma in dotazione e poi © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 8 riammesso in servizio sotto vincolo di esame periodico- non era soggetto a rivalutazione da parte del dr. B. in quanto le indagini erano state affidate ad un reparto della Polizia diverso da quello al quale il C. operava. L'addebito a carico del B. si traduceva, pertanto, nella mancata immediata trasmissione entro il (OMISSIS) della segnalazione inerente il fatto del (OMISSIS) precedente, in cui il C. si era reso responsabile di lesioni in danno della moglie, del quale l'imputato era stato informato. Trasmissione che presupponeva,secondo il giudicante, l'accertamento tramite la Squadra Mobile dell'esatto svolgimento dei fatti nella loro completezza, ancora in corso alla data del (OMISSIS), giacchè dopo i fatti del (OMISSIS) era stato sospeso il giudizio in attesa degli esiti degli approfondimenti. Sulla scia di tale ragionamento si sostiene, pertanto, che nessun addebito poteva essere mosso al dott. B. per l'episodio del novembre 2002, per il quale il dirigente non poteva che attenersi al giudizio già espresso dalla commissione medica ed a tale conclusione perviene il difensore anche con riferimento all'episodio del (OMISSIS), per il quale si addebita al dirigente l'omesso approfondimento dei fatti, anche sotto il profilo della mancata raccolta delle notizie di prima voce e prima mano ricavabili dalla registrazione della telefonata al 113 in data (OMISSIS) con le invocazioni di aiuto della moglie e le gravi minacce nei suoi confronti del C.. Con riferimento a tale secondo episodio si sostiene che la sentenza impugnata non ha affrontato il giudizio contro fattuale risolvendo la questione se l'acquisizione di quelle informazioni di prima mano e la trasmissione del rapporto informativo da parte del C. avrebbero certamente impedito l'evento. Si sostiene, inoltre, che il giudice di merito aveva annesso alla posizione di garanzia rivestita dall'imputato, che pure aveva delegato per gli accertamenti successivi al (OMISSIS) il suo uomo più fidato, inviandolo al Pronto Soccorso e ordinandogli di parlare con la vittima dell'aggressione, poteri esorbitanti, laddove gli aveva addebitato come profilo di colpa l'omesso ascolto delle telefonate della donna alla Questura. Con il secondo motivo lamenta la violazione dei principi in tema di colpa e la manifesta illogicità della sentenza. Premesso che l'addebito mosso al dr. B. è quello di non essersi adeguatamente attivato nella raccolta di informazioni di prima mano in ordine ai due episodi che precedettero la tragedia del (OMISSIS), con riferimento al primo episodio si evidenzia che i giudici di merito avevano trascurato che: l'indagine svolta dalla Squadra Mobile non era sindacabile dal B., il quale alla notizia delle dichiarazioni rilasciate dal figlio minore del C. era immediatamente intervenuto sollecitando il suo vice al ritiro dell'arma in dotazione al dipendente; il C. era stato riammesso in servizio a seguito di due distinti accertamenti, di merito e medico, insindacabili da parte dell'imputato; la mancata acquisizione dei risultati di quelle indagini non era ascrivibile a negligenza del prevenuto in quanto quegli accertamenti, parte integrante del fascicolo del C., escludevano l'esistenza del rischio specifico (di aggressione al bene della vita), come dimostrato dalla riammissione in servizio del poliziotto, sia pure con obbligo di accertamento semestrale della idoneità riconosciuta. Nè era sostenibile una sottovalutazione del caso da parte dell'imputato che non avrebbe tenuto conto dei pedinamenti e degli sms con minacce del C. nei confronti della M., mancando agli atti ogni elemento da cui desumere che il B. era a conoscenza di tale situazione. La censura si estende anche al giudizio di prevedibilità degli eventi delittuosi da parte dell'imputato formulato dalla Corte territoriale. Si sostiene che il giudice di merito aveva illogicamente esteso il principio di esigibilità ritenendo che sull'imputato gravassero doveri così estesi da comportare un dovere di conoscenza assoluta ed una presunzione di competenza, quasi che la posizione di garanzia giustificasse qualunque obbligo, anche al di fuori ed al di là di quelli previsti dalla legge. La censura è rivolta in particolare all'affermazione della Corte secondo la quale "chi assume ruoli di direzione © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 9 di persone con attitudini, livelli intellettivi, riflessi emotivi diversi, e diverse sensibilità e preferenze sulle attività, specialmente poi nei ruoli correttivi di imposizione legale, sviluppa capacità di adattamento, comprensione ed empatia, che generalmente mettono in grado di fronteggiare iniziative e reazioni dei soggetti con cui un capostruttura ha contatti assidui". Infine, ci si duole dell'addebito contestato al ricorrente di non avere immediatamente modificato il suo giudizio a seguito dell'episodio del (OMISSIS), affrontando superficialmente la vicenda, senza acquisire di prima mano e di prima voce quelle notizie che evidenziavano la gravità della condotta del C. e nel non aver previsto l'evento nonostante la sua prevedibilità. Sul punto si sostiene che il profilo di colpa contestato al ricorrente non è fondato sulla violazione di un dovere, anche di conoscenza, individuato con precisione, incombente sull'imputato in quanto collegato al suo ruolo ma su di una presunzione di competenze e capacità, che viene assunta essa stessa a fonte del dovere che qui si assume violato. Le parti civili costituite articolano un unico motivo con il quale lamentano violazione di legge della sentenza nella parte in cui la Corte territoriale, senza alcuna pronuncia in dispositivo di esclusione o revoca delle parti civile, in motivazione, richiamando l'art. 82 cod. proc. pen., afferma che la costituzione di parte civile nel processo penale si intende revocata e che, pertanto, non vi è luogo a provvedere sulle richieste dalle stesse formulate. Sul punto si fa presente che nel giudizio di primo grado non veniva citato quale responsabile civile il Ministero dell'Interno e che la sentenza, riconosciuta la penale responsabilità del dr. B. pronunciava condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite da liquidarsi in separate sede con una provvisionale immediatamente esecutiva nei confronti delle medesime. Pendendo il giudizio di appello alcune parti civili ed odierni ricorrenti instauravano giudizio civile nei confronti del B. e del Ministero dell'Interno, che in via preliminare chiedeva la sospensione del procedimento civile ex art. 75 c.p.p., comma 3, e l'inammissibilità dell'azione civile per preclusione derivante dal giudicato penale: il giudizio civile veniva sospeso. Ciò premesso, si insta per l'annullamento della impugnata sentenza in ordine alla ritenuta revoca tacita della costituzione di parte civile ed in ordine alle statuizioni civilistiche, sul rilievo della mancanza di identità tra le due azioni, in quanto la causa civile era stata promossa per estendere l'azione al responsabile civile non presente nel giudizio penale ed a richiedere nei confronti dei convenuti la condanna nel quantum, oltre alle somme liquidate in sede di provvisionale penale; nella ipotesi di conferma delle statuizioni civili della sentenza di primo grado, si afferma la sopravvenuta carenza di interesse alla prosecuzione di questo giudizio. E' stata depositata memoria difensiva nell'interesse dell'imputato con la quale, nuovamente soffermandosi sul profilo della colpa addebitata al ricorrente, si sottolinea ancora una volta che i dati probatori acquisiti dimostrerebbero che il dr. B. non era a conoscenza dei fatti a seguito dei quali, secondo l'impostazione accusatoria si sarebbe dovuto attivare; che non fu negligente rispetto ai doveri imposti dalla sua funzione nella acquisizione dei dati informative avendo delegato, dopo l'episodio del (OMISSIS) il suo vice ad approfondire la situazione; che non sottovalutò quanto appreso, sospendendo il giudizio nei confronti del B.. Motivi della decisione I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell'affermato giudizio di responsabilità. Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 10 questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa e di nesso di causalità. Prima di affrontare le censure proposte va opportunamente chiarito che la fattispecie va inquadrata nell'ambito del concorso colposo nel delitto doloso, sulla cui ammissibilità è orientata la recente giurisprudenza di legittimità (v. da ultimo Sezione 4, 12 novembre 2008, Calabrò ed altro, rv. 242830 ed i completi riferimenti in essa contenuti). La citata sentenza ha chiarito che è'ammissibile il "concorso colposo" nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti, che nel caso di cooperazione colposa, purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa (diversamente sarebbe violato il disposto dell'art. 42 c.p., comma 2, secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge) e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. E' stato altresì precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perchè, una volta accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andrà verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento. In particolare, è necessario che il soggetto sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che la regola cautelare dal medesimo inosservata sia diretta ad evitare anche il rischio dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile per l'agente. Il fondamento della responsabilità, ex art. 41 c.p., comma 2, deve, infatti, essere sempre correlato non solo all'esistenza di un dovere giuridico di attivarsi per impedire che l'evento temuto si verifichi, ma anche alla presenza di una condotta colposa, dotata di ruolo eziologico nella spiegazione dell'evento lesivo. La sentenza impugnata, pur non avendo affrontato esplicitamente questo tema - peraltro non sollecitato neanche dalla difesa - si è implicitamente attenuta ai suddetti principi e, in questa prospettiva, si è soffermata analiticamente sulla posizione di garante rivestita dal B., sulla quale ha fondato l'obbligo di osservanza di determinate regole cautelari sullo stesso gravanti, la cui violazione ha affermato integrare la colpa causalmente rilevante nella determinazione del tragico evento "dolosamente" provocato dal C.G.. Ciò premesso, seguendo un ordine diverso rispetto a quello prospettato nel ricorso, si ritiene opportuno partire dell'esame delle censure riguardanti l'esistenza della colpa perchè le doglianze proposte con il ricorso sono incentrate soprattutto alla verifica se le violazioni di regole cautelari ascritte all'imputato abbiano causalmente influito sul verificarsi degli eventi oggetto delle imputazioni (la cd. causalità della colpa). Si passerà poi all'esame delle censure afferenti la causalità della condotta dell'imputato. Sotto il profilo dell'accertamento della colpevolezza la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure proposte dal ricorrente. Sul punto occorre innanzitutto sgomberare il thema decidendi da un equivoco in cui è incorso il ricorrente sul contenuto dei profili di colpa contestati ed accertati. Si sostiene che l'addebito mosso al dr. B. sarebbe solo quello di non essersi adeguatamente attivato nella raccolta di informazioni di "prima mano" in ordine ai due episodi, che precedettero la tragedia del (OMISSIS). Ciò perchè la Corte di merito, rigettando l'appello proposto dal PM, con riferimento al delitto di omissione di atti © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 11 di ufficio ex art. 328 c.p., comma 2, aveva confermato la sentenza di assoluzione con la formula perchè il fatto non costituisce reato, così escludendo - almeno così può ragionevolmente ricostruirsi la tesi difensiva - la sussistenza a carico dell'imputato dell'obbligo giuridico di attivarsi per il ritiro immediato dell'arma. Tale tesi non è validamente sostenibile. La formulazione e la finalità della norma di cui all'art. 328 c.p., comma 2, (trattasi di un reato plurioffensivo, nel senso che tutela oltre l'interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della pubblica amministrazione, anche il concorrente interesse del privato leso dall'omissione o dal ritardo dell'atto amministrativo dovuto) inducono a ritenere che questa, diversamente da quella prevista dall'art. 328 c.p., comma 1, è diretta a disciplinare esclusivamente i rapporti tra la pubblica amministrazione ed i soggetti ad essa esterni, fornendo a questi ultimi uno specifico e puntuale strumento di tutela. Ne consegue la non riconducibilità a tale fattispecie della omissione (e/o) del ritardo degli atti rilevanti esclusivamente all'interno dell'amministrazione. Tali condotte omissive potranno rilevare sul piano disciplinare ovvero, ricorrendone le condizioni, potranno portare ad una responsabilità penale per il reato di cui all'art. 328 c.p., comma 1. L'assoluzione dal reato de quo non comporta, pertanto, l'asserita insussistenza della violazione della norma cautelare che imponeva al dr. B. di attivarsi immediatamente per il ritiro dell'arma, come imposto dalla normativa vigente all'epoca dei fatti. Questo obbligo derivava, invece, dal tenore del D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, art. 48, comma 3 (approvazione del regolamento di servizio dell'amministrazione della Pubblica Sicurezza), secondo il quale la tessera di riconoscimento deve essere ritirata in caso di sospensione dal servizio o aspettativa per motivi di salute determinata da infermità neuro-psichiche. Infatti, è pacifico - come sottolineato dal giudice di primo grado- perchè del resto non contestato da nessuna delle parti, oltre che fondato sulle dichiarazioni dello stesso B., che il ritiro della tessera di riconoscimento comporta necessariamente il ritiro dell'arma in dotazione; e che sospendere dal servizio e ritirare l'arma - provvedimento che compete alla dirigenza dell'ufficio da cui dipende il soggetto interessato - è atto inscindibile poichè l'arma è strumento di lavoro per lo stato giuridico di appartenente alla Polizia di Stato. Tale obbligo è, del resto, espressamente indicato in due circolari esplicative, aventi ad oggetto proprio il ritiro dell'arma, vigenti all'epoca dei fatti, emanate a seguito di richieste di chiarimenti: la prima, in data 24 settembre 2001, proveniente dal Ministero dell'Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale di Sanità e l'altra del 17 ottobre 2001, proveniente dall'Ufficio Sanitario provinciale. In particolare, la seconda circolare ai punti 3 e 4 disciplina le ipotesi nelle quali è il dirigente a poter disporre d'ufficio il ritiro dell'arma, senza previa sollecitazione del sanitario, al quale l'interessato dovrà comunque essere inviato tempestivamente. Il già citato punto n. 3 prevede espressamente il ritiro dell'arma, effettuato di propria iniziativa dal Dirigente dell'ufficio di appartenenza nei seguenti casi: "comportamenti tali da far ritenere oggettivamente pericolosa la detenzione dell'arma medesima, manifestazione di intense reazioni emotive non controllate, evidenti segni di alterato stato di coscienza o di insufficiente coordinazione psicomotoria". L'altra ipotesi, che giustifica l'attivazione di questo potere, è quella di cui al successivo n. 4: "il fatto che il dipendente sia coinvolto in episodi considerati ad elevata valenza psicotraumatica". © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 12 E' evidente che tali disposizioni sono tutte rivolte a tutelare dal rischio del verificarsi di eventi dannosi, sempre correlato alla detenzione ed al porto di armi, e che le medesime norme implicano l'osservanza delle regole di cautela da parte del titolare della posizione di garanzia, che, come tale, è tenuto a rispettarle. Non va del resto trascurato che, pure a fronte di determinazioni discrezionali del pubblico funzionario circa l'adozione dell'atto (il ritiro dell'arma, nel caso in esame, non imposto dalla legge), l'esercizio concreto degli interventi che rientrano nella sfera della discrezionalità amministrativa merita di essere apprezzato secondo le regole generali di diligenza, di prudenza e di perizia, che devono sempre ispirare il comportamento dell'agente (v. Sezione 4, 4 maggio 2010, Vollono ed altro, rv. 248343). Tale principio vale anche con riferimento agli altri profili di colpa addebitati al B., individuati correttamente e legittimamente nelle seguenti condotte omissive: la omessa trasmissione all'ufficio Sanitario provinciale di un rapporto informativo sul C., già richiesto il 18 settembre 2003; l'omessa comunicazione che il C. in data (OMISSIS) aveva colpito la moglie cagionandole una ferita lacero contusa guaribile in sette giorni nonchè l'omessa trasmissione dei rapporti redatti a carico del dipendente. Da quanto sopra esposto emerge la palese infondatezza della tesi del ricorrente secondo cui non era imputabile al dr. B., sotto questo profilo, alcuna violazione di regole cautelari. Ed emerge, altresì, l'infondatezza della censura secondo la quale i profili di colpa addebitati all'imputato non sono collegati al ruolo dallo stesso concretamente svolto ma su astratte presunzioni di competenze e capacità. I giudici di merito sono, invece, partiti dall'assunto corretto della esistenza garanzia in capo all'imputato, conseguente all'aver rivestito, all'epoca del dirigente dell'ufficio di appartenenza del C., soggetto a sorveglianza, dopo un nei confronti della moglie, verificatosi nel (OMISSIS), a seguito del quale l'arma, restituitagli successivamente. di una posizione di fatto, la qualità di episodio di violenza gli era stata ritirata Nell'esercizio delle funzioni indicate, che gli imponevano il controllo della situazione, certamente a rischio, la discrezionalità del potere di valutazione del pubblico funzionario era vincolata all'esigenza di assumere tutte quelle iniziative ed interventi idonei a prevenire i tragici eventi verificatisi, che la procedura prevista per il ritiro dell'arma, sopra indicata, era proprio diretta ed evitare. Il rispetto delle regole di diligenza e di prudenza imponevano all'imputato di attivarsi al fine di evitare il realizzarsi della situazione a rischio, ponendo in essere quei comportamenti, invece, omessi: o provvedere egli stesso al ritiro dell'arma del C., essendo chiaramente ravvisabile nel comportamento dell'Ispettore di Polizia del (OMISSIS) una di quelle situazioni di pericolo esemplificate nelle circolari sopra indicate o attivare con urgenza, come era accaduto nel (OMISSIS), la procedura medica che in quel caso aveva portato all'immediato ritiro dell'arma. Non si tratta, pertanto, come sostenuto dal difensore, di una impostazione che conferisce ai doveri di ufficio dell'imputato una dimensione astratta ed una estensione illimitata, estranei all'ambito delle competenze proprie del ruolo ricoperto dal B., così vulnerando il carattere personale della responsabilità penale ed il principio di colpevolezza. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 13 I giudici di merito hanno fondato, infatti, gli addebiti colposi non solo sulla affermata posizione di garanzia, che indubbiamente rileva solo per rendere possibile l'imputazione del fatto quando si sia in presenza di condotta omissiva, come nel caso in esame, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p. ed opera quindi sul piano del fatto, della tipicità oggettiva. Affermata la posizione di garanzia, i giudici di merito, seguendo il corretto itinerario logicogiuridico che conduce alla responsabilità colpevole, hanno anche individuato, come sopra esposto, le condotte concretamente colpose, dotate di ruolo eziologico nella spiegazione dell'evento lesivo. L'apparato argomentativo sviluppato in proposito, a supporto dell'elemento soggettivo del reato, è congruo in relazione a tutti profili di interesse, con particolare attenzione alla prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso verificatosi, con la conseguente esigibilità in concreto da parte del prevenuto di una condotta atta a prevenirlo. Le regole di condotta sopra enunciate, rispetto alle quali il B. è rimasto inadempiente, dovevano ritenersi tanto più pregnanti - e qui si entra sul punto relativo alla prevedibilità ed evitabilità degli eventi dannosi verificatisi, correttamente sviluppato dai giudici di merito - atteso che il C. era un soggetto per cui era stato formalmente stabilito, in considerazione del precedente episodio di violenza nei confronti della moglie, avvenuto nel (OMISSIS), che la sua salute mentale doveva rimanere sotto controllo, prospettandosi l'ipotesi in cui fossero di fatto intervenuti comportamenti sospetti; che tali sospetti si erano concretizzati in pericolo concreto quando nella serata del (OMISSIS) il C. aveva picchiato la moglie rendendosi irreperibile alle ricerche dei colleghi e superiori; che nei giorni successivi aveva reiterato i comportamenti minacciosi ed ossessivi verso il coniuge ed i familiari. Dunque la valutazione di prevedibilità degli eventi formulata dai giudici di merito appare condotta con criteri di logicità e si sottrae a censure in questa sede, laddove è stato in particolare sottolineato che la gravità delle manifestazioni di violenza potevano far presagire anche lo scatenarsi della furia omicida del (OMISSIS). Tale giudizio è formulato correttamente, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale perchè l'agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare, ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento. Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso. Nel caso in esame non vi è dubbio che la normativa sopra richiamata in tema di ritiro delle armi è preordinata proprio ad evitare la disponibilità delle armi da parte di persone prive di equilibrio psichico, in considerazione dell'estrema pericolosità che ciò può comportare. Ed è sufficiente ripercorrere la dettagliata storia, contenuta nelle sentenze di merito, delle reiterate violenze, anche fisiche, subite dalla moglie del C. e del clima di paura e di soggezione psicologica in cui viveva la donna, costretta negli ultimi tempi a rifugiarsi (inutilmente) nella casa della madre e a girare scortata dai familiari, per trovare conferma della correttezza della valutazione sulla concreta prevedibilità di una inesorabile progressione di eventi lesivi, quali quelli verificatisi. Parimenti infondate sono altresì le censure che riguardano revitabilità dell'evento. In proposito è stato correttamente sottolineato che, se dopo l'episodio del (OMISSIS), il B. avesse di iniziativa provveduto al ritiro della pistola, come gli era consentito dalla pericolosa situazione venutasi a © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 14 creare, o, comunque, il C. fosse stato rapidamente avviato alla commissione medica, la decisione sull'arma non poteva essere dissimile da quella adottata nel novembre del 2002 e, pertanto, l'evento hic et nunc verificatosi non si sarebbe realizzato. Sotto questo profilo, è infatti, irrilevante che il C. avrebbe potuto attuare l'intenzione delittuosa con mezzi diversi dalla pistola in dotazione, perchè questa condotta avrebbe realizzato un diverso percorso causale, che non è quello che ha condotto all'evento in concreto verificatosi e che, in tale situazione, assume il carattere di una congettura non realizzatasi. L'apprezzamento di tali situazioni fattuali non potrebbero (nè possono) essere sindacate in questa sede, visto l'ambito del giudizio di legittimità, non palesandosi del resto come ricostruite in termini illogici o facendo richiamo a massime di esperienze incongrue o manifestamente inesatte. Da questa premessa, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile: l'omesso ritiro dell'arma e/o l'omessa trasmissione all'ufficio Sanitario provinciale di un rapporto informativo sul C., già richiesto il 18 settembre 2003, con la comunicazione dell'episodio di violenza del (OMISSIS), avevano rappresentato la premessa imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile gli eventi lesivi. Le censure riguardanti la ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito - e che possono sintetizzarsi nelle giustificazioni fornite dal dr. B. sul ritardato inoltro alla commissione medica del rapporto informativo sul C. e sull'omesso approfondimento dell'episodio del (OMISSIS) - sono inammissibili nel giudizio di legittimità essendo dirette ad avvalorare mere congetture - peraltro già compiutamente disattesa dalla Corte territoriale - e non ad evidenziare mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. In conclusione, le regole cautelari violate dall'imputato erano finalizzate anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi (cd. "concretizzazione del rischio"), con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità del ricorrente nella causazione dell'evento non può essere esclusa. Quanto al ricorso proposto dalle parti civili si espone quanto segue. Torna utile sottolineare che la Corte territoriale, dato atto che tutte le parti civili costituite, tranne I.V., pendente il giudizio di appello, avevano promosso azione civile nei confronti del B. e che il procedimento risultava sospeso ex art. 75 cod. proc. pen., facendo riferimento all'art. 82 cod. proc. pen. ha affermato in motivazione che la costituzione di parti civili (nel processo penale) si intendeva revocata e quindi non occorreva provvedere sulle relative richieste. Di tale statuizione, come risulta scritta in motivazione, non vi è però traccia nel dispositivo, che, nel rigettare l'appello, si è limitata a confermare la sentenza impugnata in punto di responsabilità ed a condannare l'imputato B. ad una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 10.000 nei confronti della sola parte civile I., ed alla rifusione delle spese di tutte le parti civili, confermando nel resto la sentenza. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 15 La predetta sentenza di primo grado aveva condannato B. al risarcimento dei danni cagionati dal reato alle parti civili costituite, da liquidarsi un separata sede, ed aveva assegnato alle medesime, ad eccezione di I., provvisionali immediatamente esecutive, ivi indicate. E' evidente, pertanto, la divergenza tra motivazione e dispositivo, che non può essere risolto in questo caso facendo ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della decisione. Tale procedimento interpretativo è consentito soltanto nei casi in cui la divergenza tra l'uno e l'altra sia stata determinata da un errore materiale contenuto nel dispositivo e sia immediatamente riconoscibile così da poter consentire il ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della decisione. La riconoscibilità deve infatti risultare con assoluta evidenza dalla lettura della stesso dispositivo oppure dalla lettura della motivazione ma, in quest'ultimo caso, purchè sussistano elementi certi e logici, come tali, univocamente interpretabili che consentano di ritenere errato il dispositivo, sia pure in parte, per un errore materiale intervenuto nella redazione di tale documento. Invero, intanto è consentito il ricorso alla motivazione per chiarire l'effettiva portata della decisione in quanto il contrasto tra dispositivo e motivazione sia evidente, potendosi escludere con assoluta certezza che la motivazione sia stata strumentalmente rivolta a giustificare un errore od un'omissione, intervenuti nel processo formativo della volontà. In difetto della sicura ricorrenza dei presupposti sopra accennati, deve invece trovare applicazione il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza dell'elemento decisionale su quello giustificativo (cfr., per utili riferimenti, Sezione 4, 4 ottobre 2006 - 4 novembre 2006 n. 36619, Maio, n.m.). Del resto, va anche ricordato il principio in forza del quale nella sentenza dibattimentale, in caso di difformità tra dispositivo e motivazione, prevale il primo sulla seconda, in quanto è il dispositivo letto in udienza che costituisce l'atto con cui il giudice estrinseca la volontà della legge nel caso concreto; e ciò diversamente dal caso della decisione camerale, dove ogni contrasto fra motivazione e dispositivo comporta la prevalenza della prima sul secondo, in quanto, non vi è momento distintivo tra dispositivo e motivazione, che nel loro insieme costituiscono la decisione (Sezione 5, 20 maggio 2004, Fattoruso, rv. 228709; nonchè, Sezione 4, 26 maggio 2006 - 28 luglio 2006 n. 26775, Spera, non massimata sul punto). Applicando tali principi al caso in esame va rilevato che l'apprezzamento della reale determinazione giudiziale impone di attribuire prevalenza al dispositivo, nella parte in cui ha confermato le statuizioni civili non espressamente fatte oggetto di riforma, come del resto desumibile dalla condanna dell'imputato alla rifusione delle spese di "continuata assistenza e rappresentanza delle parti civili costituite in questo grado" e della "conferma nel resto" della sentenza di primo grado. Va rilevato, del resto, per contrastare una diversa lettura, che difetta l'identità delle due azioni che giustificherebbe l'applicazione del disposto dell'art. 82 cod. proc. pen. in quanto, come emerge dagli atti la causa civile, questa è stata promossa per estendere l'azione al Ministero dell'Interno non presente nel giudizio penale ed a richiedere nei confronti dei convenuti la condanna del quantum, oltre alla somma liquidata in sede di provvisionale penale (v. Sezione 5, 7 ottobre 1998, Faraon ed altro, rv. 213416). L'intervenuta conferma delle statuizioni civili, desumibile dal dispositivo della sentenza impugnata, comporta che le provvisionali, provvisoriamente esecutive, liquidate dal giudice di primo grado, © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 16 non sono state travolte dalla Corte territoriale, prevalendo, per quanto sopra esposto, il dispositivo. Rimane immutata, ovviamente, la pronuncia con riferimento alla provvisionale liquidata dalla Corte territoriale in favore di I.V., in ordine alla quale non emerge alcuna discrasia tra dispositivo e motivazione. Le questioni proposte dalle parti civili risultano, pertanto, implicitamente superate da tale decisione, con la conseguente declaratoria di assorbimento del ricorso. Al rigetto del ricorso proposto consegue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso proposto da B.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese in favore di tutte le parti civili costituite e liquida le stesse in complessivi Euro 6.500,00, oltre accessori come per legge; dichiara assorbito il ricorso delle parti civili. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 17 Il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell'evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa, purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare è necessario che la regola cautelare violata sia diretta ad evitare anche il rischio dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile per l'agente. Cass. pen. Sez. IV, (ud. 14-11-2007) 11-03-2008, n. 10795 Svolgimento del processo - Motivi della decisione OSSERVA 1) La sentenza di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Bologna, con sentenza 25 novembre 2005, ha condannato P.E., all'esito del giudizio abbreviato, alla pena ritenuta di giustizia (con le conseguenti statuizioni civili a favore della parti civili) per il delitto di omicidio colposo in danno di C.A. commesso in (OMISSIS). Il processo trae origine da una tragica vicenda verificatasi, il giorno indicato, all'interno della comunità "(OMISSIS)", sita in (OMISSIS), nella quale era ricoverato un paziente psicotico, M.G., che il giorno indicato aveva aggredito con un coltello C. - educatore che prestava servizio presso la comunità - cagionandone la morte. Al dott. P., medico psichiatra che svolgeva la sua attività terapeutica presso la comunità, era stato addebitato di aver omesso di valutare adeguatamente i sintomi di aggressività manifestati da M. (anche specifici nei confronti di C.), di aver ridotto - e poi sospeso - la somministrazione di una terapia farmacologica di tipo neurolettico in modo tale da renderla inidonea a contenere la pericolosità del paziente e di aver omesso di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio in presenza di sintomi che rendevano necessaria tale iniziativa. In particolare il primo giudice ha ritenuto che la condotta del medico fosse caratterizzata da colpa per avere prima ridotto e poi sospeso la somministrazione del farmaco (Moditen) di tipo Mepot" che gli veniva somministrato senza un'adeguata anamnesi e senza una corretta valutazione della situazione di recrudescenza dei sintomi di aggressività che caratterizzavano il paziente; per non aver commisurato la quantità e qualità delle visite alla situazione e non aver accompagnato la riduzione della terapia con misure di supporto; per aver omesso di richiedere il t.s.o.. Ha ritenuto inoltre che queste condotte colpose si ponessero in rapporto di causalità con l'evento verificatosi; in particolare la modifica del trattamento farmacologico aveva comportato un aggravamento della patologia e una recrudescenza dell'aggressività del paziente. 2) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza 12 gennaio 2007, ha confermato la sentenza di primo grado. Dopo aver respinto la richiesta di acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio svolta in un giudizio civile e ritenuto inutilizzabile un parere pro veritate di cui la difesa aveva chiesto l'acquisizione la Corte ha ripercorso i fatti che hanno dato luogo al presente processo condividendo le valutazioni del primo giudice sulla natura colposa della condotta dell'imputato per avere, il dott. P., prima ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica che assumeva. In particolare i giudici di secondo grado hanno condiviso il parere dei periti nominati dal primo giudice i quali avevano rilevato che le linee guida internazionali prevedono la riduzione della terapia solo dopo cinque anni di mancanza di episodi psicotici. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 18 Questi episodi si erano invece verificati in tempi recenti tanto che il precedente primario, dott. V., aveva raccomandato che non venisse ridotta la terapia somministrata a M.. Inoltre la riduzione era avvenuta in modo non conforme alle prescrizioni delle linee guida conducendo così il paziente ad uno scompenso conclamato come risultava da vari episodi: il paziente, in più occasioni, aveva lamentato la sparizione del suo danaro in banca, aveva manifestato il timore di essere avvelenato, aveva affermato che il suo medico era morto, circostanza non vera); a questo scompenso è stato ritenuto causalmente ricollegata la crisi che aveva condotto all'aggressione dell'educatore da parte del paziente. In conclusione la Corte ha ritenuto che qualora, a scompenso conclamato, il dott. P. avesse adottato adeguate misure terapeutiche di pronta efficacia non vi sarebbe stata l'aggressione nei confronti della persona offesa. Inoltre la Corte ha ritenuto che, oltre a queste condotte di natura commissiva, ve ne fosse una di tipo omissivo, in rapporto di causalità con l'evento, costituita dall'omessa richiesta del t.s.o. in una situazione che rendeva necessaria la richiesta medesima sia per l'esistenza di una situazione di scompenso che per il rifiuto del paziente di assumere la terapia iniettiva. La Corte di merito ha concluso ribadendo gli elementi di colpa già ricordati ed inoltre precisando, ad ulteriore conferma dell'inadeguatezza della terapia, che il dott. P., quando si era reso conto della modifica peggiorativa della situazione patologica, aveva introdotto nella terapia un farmaco antipsicotico di pronto effetto ma in dose inadeguata rispetto alla gravità della situazione. 3) I motivi di ricorso. Contro la sentenza della Corte bolognese (nonchè contro l'ordinanza 12 gennaio 2007 che ha rigettato le richieste di cui ai primi due motivi di ricorso di cui infra) ha proposto ricorso P.E. il quale ha dedotto i seguenti motivi d'impugnazione. a) Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), con riferimento alla mancata acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio disposta nell'ambito del giudizio civile avente il medesimo oggetto e come parti gli eredi di C., la coop. (OMISSIS) e l'AUSL di (OMISSIS). La richiesta è stata respinta dalla Corte di merito che non ha però considerato che si trattava in realtà di un rito "riaperto" d'ufficio perchè il giudice, dopo aver disposto l'integrazione probatoria prevista dall'art. 438 c.p.p., comma 5, aveva poi d'ufficio disposto una perizia. Da ciò conseguiva, secondo il ricorrente, che doveva ritenersi riaperta anche per le parti la possibilità di acquisire elementi di prova necessari per il giudizio e ciò aveva formato oggetto di un motivo d'appello. I giudici di secondo grado, respingendo la richiesta ritenendola preclusa perchè si era proceduto con il rito abbreviato, non hanno considerato che il rito abbreviato ha perso le caratteristiche originarie di processo allo stato degli atti e ciò ha reso applicabile a tale rito l'intera disciplina prevista dall'art. 603 c.p.p. ed in particolare le disposizioni previste dal comma 2 nel caso di prove nuove sopravvenute dopo il giudizio di primo grado. La Corte di merito non avrebbe inoltre tenuto conto della circostanza che il giudizio abbreviato era stato dall'imputato subordinato all'integrazione probatoria; il che, secondo la giurisprudenza di legittimità, consente la rinnovazione dell'istruzione in appello e comunque non può escludere il diritto alla controprova a favore dell'imputato anche nel giudizio di appello verificandosi, in caso contrario, una grave lesione del diritto di difesa. In ogni caso, secondo il ricorrente, è sempre consentito alla parte di sollecitare al giudice d'appello l'esercizio dei poteri officiosi ai sensi dell'art. 603 c.p.p. e la mancanza di motivazione sul diniego di esercitare questi poteri è censurabile in Cassazione. Per di più, secondo il ricorrente, la natura documentale del documento di cui si era chiesta l'acquisizione non richiedeva neppure la riapertura dell'istruzione dibattimentale per il combinato disposto dell'art. 441 c.p.p., comma 1 e art. 421 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 19 c.p.p., comma 3. b) Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 121 c.p.p., per il diniego di acquisire al fascicolo un parere pro veritate espresso da un esperto in materia psichiatrica che la Corte ha ritenuto non potersi acquisire considerandola una consulenza tecnica di parte proveniente da persona che non rivestiva la qualità di consulente tecnico. Al di là della correttezza delle ragioni indicate dalla Corte nel ricorso si sottolinea che i difensori che avevano firmato il parere - avevano chiesto espressamente che l'elaborato venisse considerato come memoria difensiva e a questa richiesta la Corte non ha fornito alcuna risposta. c) Con il terzo motivo di ricorso si censura invece la sentenza impugnata per aver affermato che esisteva un obbligo giuridico, per il dott. P., di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio nei confronti del paziente M.G.. Il ricorrente precisa al contrario che il t.s.o. può essere richiesto solo in presenza di tre presupposti: alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; mancata accettazione di tali interventi da parte dell'infermo; impossibilità di adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere. La proposta deve essere convalidata da un medico psichiatra e ulteriormente convalidata dal sindaco. Infine il giudice tutelare nelle 48 ore successive deve verificare la correttezza del provvedimento e decidere se confermarlo o farlo decadere. Dall'esame di questa complessa procedura consegue, secondo il ricorrente, che la procedura è finalizzata alla tutela del paziente e quindi sarebbe contrario a queste finalità far prevalere le esigenze di tutela della collettività rispetto al principio della libertà di cura. Nel caso di specie il dott. P. si è attenuto a questi principi perchè, nella visita del (OMISSIS) (l'omicidio è avvenuto il (OMISSIS)), avendo constatato il peggioramento delle condizioni del paziente, aveva ripristinato il trattamento farmacologico in precedenza ridotto e poi sospeso e, a fronte del rifiuto della cura da parte del paziente, aveva raggiunto un accordo con il medesimo perchè l'iniezione venisse effettuata dal medico di base. Cosa che era effettivamente avvenuta. In definitiva: con l'assunzione volontaria della cura era venuto meno il presupposto del rifiuto della cura. In ogni caso l'eventuale obbligo di richiedere il t.s.o. sarebbe spettato al medico che aveva visitato per ultimo il paziente, cioè la dott. D., medico di base che aveva somministrato la terapia il 19 maggio. D'altro canto la comunità (OMISSIS) era attrezzata per la sorveglianza e l'osservazione dei pazienti avendo a sua disposizione educatori ed assistenti oltre ad uno psichiatra di turno (diverso dal dott. P. che era lo psichiatra curante di M.). Difettava quindi, per l'adozione del t.s.o., l'impossibilità di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere. d) Con il quarto motivo di ricorso la sentenza della Corte bolognese viene censurata sotto diversi profili riguardanti la causalità e la colpa. Sotto il primo profilo, ed in particolare relativamente all'esistenza di una posizione di garanzia, il ricorrente evidenzia l'erroneità dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che ha ritenuto irrilevante il titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato. M. risultava infatti affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un medico psichiatra con l'incarico di consulente diverso dal dott. P.. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 20 Nell'ambito di questa organizzazione - la cui struttura e i cui compiti vengono descritti nel ricorso un gruppo di lavoro di cui faceva parte il dott. P. aveva il compito di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali. Un altro errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata è costituito dall'affermazione che il ricorrente aveva l'obbligo di informarsi degli episodi allarmanti che avevano caratterizzato la condotta del paziente; con questa affermazione i giudici di merito non hanno tenuto conto della circostanza già evidenziata che M. era affidato ad una struttura autonoma e autosufficiente e l'intervento del consulente esterno, dott. P., rientrava nell'autonoma discrezionalità dei componenti la struttura. In base al principio di affidamento l'imputato aveva ragione di ritenere che la condotta della struttura nella trattazione del caso era corretta. Nel medesimo motivo il ricorrente affronta il tema della colpa anche sotto il profilo della prevedibilità dell'evento. In particolare si sottolinea nel ricorso che il paziente era in remissione da oltre 15 anni; che il dott. P. non aveva affatto eliminato la terapia antipsicotica ma l'aveva soltanto ridotta in una prospettiva di ridurre la sedazione cui M. era sottoposto da tempo. In realtà la sentenza impugnata avrebbe tratto il giudizio di prevedibilità dell'evento in concreto verificatosi dalla sola esistenza della malattia psicotica. e) Con il quinto ed ultimo motivo si denunziano invece il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento all'affermata esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell'imputato e il verificarsi dell'evento. Secondo il ricorrente la Corte di merito, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento. Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che la riduzione della terapia era avvenuta somministrando per un certo periodo la metà del farmaco e che, nel periodo di sospensione, erano ancora presenti gli effetti del farmaco, di tipo "depot" che ha tempi lunghissimi di eliminazione; questo processo non si era certamente esaurito quando era stata ripristinata la posologia originaria. La Corte non avrebbe poi preso in considerazione che al paziente veniva somministrato anche altro farmaco antipsicotico idoneo a prolungare ulteriormente i tempi dell'eventuale scompenso da sottodosaggio. Se si tiene conto di queste circostanze e del fatto che anche la condotta ritenuta esigibile non esclude il verificarsi di scompensi psicotici è da escludere, secondo il ricorrente, che il rapporto di causalità tra condotta ed evento possa essere ritenuto esistente al di là di ogni ragionevole dubbio tanto più che, come riconosce la sentenza impugnata, anche il trattamento antipsicotico ritenuto corretto non esclude il rischio di ricadute ma lo riduce di due terzi. Infine, quanto all'efficienza causale della mancata adozione del t.s.o., il ricorrente sottolinea che questa iniziativa sarebbe stata illegittima e avrebbe potuto essere giustificata solo con la consumazione di un falso costituito dall'attestazione di un fatto non veritiero e cioè l'esistenza di un rifiuto del paziente di assumere la terapia. 4) Le memorie delle parti e il motivo nuovo. Con memoria datata 16 ottobre 2007 e successivamente depositata il difensore del ricorrente ha prodotto copia dei seguenti atti (contenuti nel fascicolo processuale) dei quali il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella sua decisione: © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 21 - il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P.; - il verbale di sommarie informazioni di D.D. e stralcio delle dichiarazioni rese dal dott. P. sul punto del t.s.o.. Il difensore della parte civile ha replicato con memoria depositata presso questa Corte con la quale si ribadisce la correttezza della soluzione adottata dal giudice d'appello ed in particolare, con riferimento ai vari motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si afferma: - che l'eccezione sul diniego di acquisizione della consulenza tecnica disposta nel giudizio civile si fonderebbe sulla possibilità di ipotizzare un terzo genere di rito abbreviato diverso sia da quello ordinario che da quello condizionato mentre, sull'esercizio dei poteri officiosi, il giudice di appello avrebbe motivato logicamente e adeguatamente; - che analogamente corretta deve ritenersi la decisione di non ammettere la produzione del parere tecnico trattandosi di consulenza tecnica svolta da chi non era stato nominato consulente tecnico. Con ulteriore memoria, datata 30 ottobre 2007, i difensori dell'imputato hanno richiamato ulteriormente - a fondamento della tesi che la L. n. 180 del 1978 esclude una visione custodialistica a tutela della sicurezza delle persone essendo finalizzata esclusivamente alla tutela del malato - una sentenza del 1990 della seconda sezione di questa Corte e un testo di dottrina sul reato omissivo improprio che, secondo la tesi esposta nella memoria, potrebbe avere per oggetto esclusivamente l'oggetto immediato dell'obbligo e non anche gli obblighi riflessi o accessori. Con la medesima memoria si propone poi un motivo nuovo di ricorso per l'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, delle risultanze del registro della comunità che dimostrerebbe che le manifestazioni di aggressività all'interno della comunità erano gravi e frequenti (e quelle di M. non erano le più significative) e che al personale non medico della struttura era attribuito l'intero compito socioriabilitativo mentre il dott. P. aveva solo compiti di consulenza. La mancata completa informazione sulle manifestazioni dei pazienti, ed in particolare del M., non consentivano dunque di ritenere prevedibile l'evento e di addebitarlo causalmente al ricorrente. 5) Le questioni processuali. L'acquisizione della consulenza tecnica svolta nel giudizio civile e del parere pro veritate. Come si è già accennato il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, si duole della mancata acquisizione di una consulenza tecnica svolta in un giudizio civile instaurato tra le odierne parti civili, la comunità (OMISSIS) e l'Ausl territoriale competente. La Corte d'Appello di Bologna ha respinto la richiesta - con ordinanza ritualmente impugnata unitamente alla sentenza - sia perchè l'acquisizione dell'atto sarebbe incompatibile con il rito abbreviato sia perchè si tratterebbe di atto non necessario per la decisione; occorre quindi valutare la correttezza di questa decisione. Va premesso in generale, sulla disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello di cui all'art. 603 c.p.p., che, se le nuove prove sono sopravvenute o sono state scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede secondo le regole ordinarie (comma 2) ; nel caso di prove nuove o di richiesta di riassunzione di prove già acquisite dispone la rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (comma 1). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 22 Al di fuori di questi due casi il giudice può disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale - anche nel caso in cui le parti siano rimaste inerti o siano decadute - solo se la ritiene assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella contenuta nell'art. 507 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo grado). La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel ritenere che questa iniziativa diretta al completamento del quadro probatorio -in particolare per quanto attiene all'assoluta necessità (da ritenere evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di Gloria, rv. 233391) sia fondata su una valutazione attribuita in via esclusiva al giudice di merito e da ritenere insindacabile nel giudizio di legittimità ove sia logicamente e adeguatamente motivata la valutazione sulla possibilità di decidere allo stato degli atti (in questo senso v. Cass., sez. 4, 19 febbraio 2004 n. 18660, Montanari, rv. 228353; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo, rv. 226977; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, Raviolo, rv. 222977). E' anche orientamento uniforme di legittimità che, solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado, la mancata assunzione possa costituire violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d). mentre, negli altri casi previsti dall'art. 603 c.p.p., il vizio deducibile è quello attinente alla motivazione previsto dalla lett. e) del medesimo articolo (v. Cass., sez. 2, 11 novembre 2005 n. 44313, Picone, rv. 232772; sez. 5, 21 dicembre 2000 n. 6924, Delfino, rv. 218279). Questa disciplina va vista, per quanto riguarda il giudizio di appello nel rito abbreviato, in relazione alle peculiarità del rito speciale. E' noto che sull'ammissibilità e sui limiti dell'integrazione probatoria nel giudizio abbreviato in grado di appello si erano formati orientamenti diversi nella giurisprudenza di legittimità: per l'ammissibilità dell'integrazione si erano espresse Cass., sez. 5, 20 ottobre 1996 n. 2628, Camerano; sez. 6, 24 novembre 1993 n. 1944, De Carolis; in senso opposto sez. 1, 2 novembre 1995 n. 3661, Abategiovanni; 24 febbraio 1994 n. 5168, Pepe; sez. 6, 28 ottobre 1992 n. 2987, Nappo; sez. 1, 24 marzo 1992 n. 5440, Vallerà. Il contrasto è stato risolto dalla sentenza delle sezioni unite 13 dicembre 1995 n. 930, Clarke, che, pur escludendo ogni potere di iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova, ha affermato che il giudice può disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della sua decisione. Il principio affermato dalle sezioni unite è da ritenere attuale anche dopo la riforma del giudizio abbreviato intervenuta nel 1999. E' vero che, con questa riforma, è stato superato il precedente principio dell'immutabilità del materiale probatorio ed è stata quindi consentita la richiesta condizionata del rito speciale subordinata all'ammissione delle prove richieste. Ma è rimasto fermo il principio che la richiesta del rito speciale, pur condizionata, comporta rinunzia all'assunzione di prove diverse da quelle alle quali è stata subordinata la richiesta. Con la conseguenza che la scelta del giudizio abbreviato comporta l'accettazione di ogni elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da inutilizzabilità patologica) per cui deve ritenersi insindacabile, secondo i criteri indicati dalla citata sentenza delle sezioni unite, la valutazione del giudice d'appello che abbia motivatamente ritenuto che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai fini della decisione. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 23 Non ignora la Corte che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. 4, 20 dicembre 2005, Coniglio, rv. 233956; sez. 3, 2 marzo 2004 n. 15296, Simek, rv. 228535; contra Cass., sez. 6, 26 giugno 2003 n. 37389, Crollo, rv. 226806; sez. 3, 13 febbraio 2003 n. 12853, Paccone, rv. 224865) la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio abbreviato d'appello è consentita soltanto all'imputato che abbia proposto la richiesta del rito speciale subordinandola all'integrazione probatoria - mentre chi abbia richiesto l'abbreviato allo stato degli atti può limitari a sollecitare il giudice all'esercizio dei poteri officiosi - ma, indipendentemente dalla soluzione sulla correttezza di questo orientamento deve osservarsi che, nel caso in esame, la richiesta del rito abbreviato era stata incondizionata nè può ritenersi, come ritiene il ricorrente, che l'integrazione probatoria disposta d'ufficio dal giudice, valga a mutare la natura del giudizio in quella di abbreviato condizionato. Di fatto l'imputato aveva infatti rinunziato all'integrazione probatoria e il provvedimento del giudice non consente di ritenere mutata la natura del giudizio per quanto riguarda le condizioni cui il medesimo è subordinato. Il ricorrente fonda però la sua censura anche sulla circostanza che la prova di cui era stata chiesta l'ammissione era una prova nuova sopravvenuta al giudizio di primo grado (la sentenza di primo grado nel presente processo è stata pronunziata il 25 novembre 2006 mentre la consulenza tecnica nel giudizio civile è stata depositata, secondo quanto riferisce il ricorrente, il 1 marzo 2006). Orbene ritiene la Corte che, nel caso di prova sopravvenuta dopo la sentenza di primo grado pronunziata nel giudizio abbreviato, la regola da applicare sia pur sempre quella di carattere generale per l'ammissione delle prove nel giudizio abbreviato prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5; cioè un potere di ammissione della prova da esercitarsi d'ufficio dal giudice quando ritenga di non poter decidere allo stato degli atti e in relazione al quale la parte ha soltanto un potere sollecitatorio (cfr. le già citate sentenze Carollo e Paccone). Nel nostro caso il giudice di appello, con l'ordinanza impugnata - richiamando l'ampia discussione avvenuta in primo grado e l'espletamento della perizia - ha, con motivazione incensurabile in questa sede perchè logicamente motivata, escluso di non poter decidere il processo allo stato degli atti (cfr., per una soluzione analoga nel caso di giudizio abbreviato e di prova sopravvenuta, Cass., sez. 6, 18 dicembre 2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064; per l'estensione al giudizio abbreviato in appello della regola prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5, v. inoltre Cass., sez. 5, 9 maggio 2006 n. 19388, Biondo, rv. 234157). Ma a non diversa conclusione dovrebbe pervenirsi ove volessero ritenersi integralmente applicabili al giudizio abbreviato in appello le regole relative alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale indicate nell'art. 603 c.p.p., già ricordato e, in particolare, la regola indicata nel comma 2. Il richiamo all'art. 495 c.p.p., comma 1 - e dunque all'art. 190 c.p.p., comma 1, cui fa riferimento l'art. 495 c.p.p., comma 1 - non fa venir meno la correttezza della decisione perchè fondata su un giudizio corrispondente a quello di manifesta superfluità della prova di cui era stata chiesta l'ammissione. Ad analoga soluzione deve pervenirsi in relazione al diniego di acquisizione del parere pro veritate. Al di là della valutazione sul carattere di inammissibilità della nuova prova dedotta appare nella sostanza corretta la decisione dei giudici d'appello. La possibilità per la parte di nominare consulenti tecnici anche fuori dei casi di perizia (art. 233 c.p.p.) va infatti incontro alle medesime preclusioni previste per le altre prove quando l'imputato abbia chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, condizionato o meno. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 24 In questo caso non si tratta poi di prova sopravvenuta e dunque - nell'ipotesi maggiormente favorevole al ricorrente - i criteri di valutazione non possono che essere quelli previsti dall'art. 441 c.p.p., comma 5, in relazione ai quali la Corte di merito ha espresso un giudizio di completezza del materiale probatorio nell'esame della censura precedentemente esaminata. Va infine rilevato che la natura di consulenza tecnica del parere - che ne determina la preclusione all'acquisizione - non può essere modificata con la semplice sottoscrizione dei difensori evidentemente volta ad eludere il divieto di ulteriore integrazione del materiale probatorio. 6) Il concorso colposo nel delitto doloso. Malgrado il tema non sia stato sollevato con i motivi di ricorso la sua rilevabilità d'ufficio (in quanto la risposta negativa sull'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso renderebbe immediatamente applicabile l'art. 129 c.p.p., comma 1) rende necessario l'esame di questo aspetto della responsabilità sul quale esistono opinioni divergenti in dottrina e in giurisprudenza. In particolare non ignora la Corte che autorevoli orientamenti dottrinali si sono espressi negativamente sulla possibilità che, nel nostro ordinamento, possa configurarsi una simile forma di compartecipazione. I pilastri di questa posizione negativa sono sostanzialmente due: l'art. 42 c.p., comma 2 - che prevede la punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti dalla legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel delitto doloso) - e l'art. 113 c.p., che prevede la compartecipazione colposa solo nel caso di delitto colposo. L'esame della giurisprudenza di legittimità consente di rilevare che la decisione più recente che abbia affrontato il problema è orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso" colposo nel reato doloso. Ci si riferisce a Cass., sez. 4, 9 ottobre 2002 n. 39680, Capecchi, rv. 223214, che si rifà a più risalenti precedenti (Cass., sez. 4, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv. 176499 e 4 novembre 1987 n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno ritenuto ammissibile il concorso colposo in casi di incendio doloso sviluppatosi per la negligente sistemazione del materiale infiammabile (lo stesso caso della sentenza Capecchi). Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima sezione 4 (sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798), uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv. 187331) e uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv. 183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso colposo del notaio nel reato di lottizzazione abusiva. In realtà solo il primo precedente indicato può ritenersi contrario all'ammissibilità della forma di partecipazione di cui stiamo parlando perchè il caso del concorso del notaio è caratterizzato dalla circostanza che il reato di lottizzazione abusiva è ritenuto di natura dolosa; e come sarebbe possibile configurare una partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa ? D'altro canto l'orientamento espresso dalle sezioni unite si limita ad una mera enunciazione non motivata su questo problema. Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e accidentato al quale sarebbe illusorio pretendere di dare risposte definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva. Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in ricostruzioni teoriche, che la premessa da cui questa Corte ritiene di dover partire è costituita dal riconosciuto superamento delle © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 25 teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di natura concorsuale (ritenuto un "dogma" da parte di un illustre Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso). Le difficoltà di inquadramento teorico di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea (i problemi si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto colposo) si attenuano riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei casi in cui l'evento sia unico. Esaminando le obiezioni alla tesi che ritiene ammissibile il concorso in precedenza indicate ritiene invece la Corte che queste obiezioni (certamente serie) siano superabili. E' infatti proprio l'esame congiunto delle due norme indicate (art. 42 c.p., comma 2 e art. 113 c.p.) che consente questa risposta; la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perchè, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi "in aggiunta" - rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l'aver previsto e voluto l'evento (sia pure con la sola accettazione del suo verificarsi, nel caso di dolo eventuale). Insomma il dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della colpa che l'ha così sintetizzata: "non c'è dolo senza colpa". Se questa ricostruzione è plausibile la conseguenza è che non fosse necessario prevedere espressamente l'applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso perchè se è prevista la compartecipazione nell'ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell'ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura incrina anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione dell'art. 42 c.p., comma 2: non si tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse anche il tema più generale. E' poi da rilevare che la già ricordata sentenza Capecchi ha ritenuto superabile l'ostacolo della previsione dell'art. 40 c.p., comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile: questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal legislatore, non può che riguardare esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa, ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli artt. 110 e 113 c.p.. Fermo restando, come si è già accennato, che la partecipazione colposa può riguardare esclusivamente un reato previsto anche nella forma colposa: diversamente sarebbe palesemente violato il disposto dell'art. 42 c.p., comma 2. A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci si trova in presenza di concorso di cause colpose indipendenti ? Per natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si fonda sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da ritenersi errata perchè alcun legame esiste, sotto il profilo soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento è unico. Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti l'applicabilità delle regole sul concorso di cause è espressamente prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., il cui comma 3, prevede espressamente che questa disciplina si applichi anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 26 Ma proprio perchè le condotte sono indipendenti le medesime andranno autonomamente valutate e per ciascuna di esse andrà accertato se abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e se la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti tipici della colpa. In questi casi, proprio per l'indipendenza delle azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che assume particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere carattere doloso perchè la disciplina sulla causalità contenuta nel citato art. 41 c.p., riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi. E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non esistono ostacoli insuperabili è agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso solo perchè l'agente è consapevole dell'altrui condotta dolosa. Il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non quando questa consapevolezza esista ? Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che è ammissibile il "concorso" colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti che nel caso di cooperazione colposa e purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa. Riconosciuta l'astratta ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso non è necessario addentrarsi nell'ulteriore aspetto che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il fatto "doloso" del terzo è stato compiuto da persona non imputabile. Il riconoscimento della natura non dolosa della condotta della persona non imputabile sarebbe infatti idoneo a rafforzare la possibilità di riconoscere la compartecipazione dell'estraneo. Va però precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perchè, una volta accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andrà verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento. Per la soluzione di questo complesso problema può intanto osservarsi che, nel caso in cui l'evento dannoso si verifichi all'esito di una sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del terzo è necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo dell'elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi, preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo all'assalitore di ledere l'integrità fisica della persona protetta. E' la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione integra la colpa. Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia analoghi obblighi di tutela possono discendere dall'esistenza di un potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni, esplosivi; per es. il farmacista non può vendere un farmaco potenzialmente letale alla persona che sa aver già tentato di avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non può lasciarla incustodita in un luogo frequentato da bambini. I casi già indicati relativi alla creazione dei presupposti perchè si sviluppi un incendio doloso si inquadra in questa categoria del controllo delle fonti di pericolo. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 27 Un utile strumento di verifica può poi essere quello che si rifà allo scopo della regola cautelare violata dall'agente in colpa. Se la regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi dall'aggressione dolosa dei loro beni è la tutela finalizzata di essi che rende configurabile la partecipazione dell'agente in colpa. I casi più complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola è stata predisposta non tanto per altri fini ma in vista di decorsi causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che non sia stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore di lavoro anche delle conseguenze di una caduta (che non si sarebbe verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente cagionata da un terzo ? E' ragionevole ritenere, in questi casi, che ciò che rileva è l'individuazione dell'evento dannoso che la regola cautelare mira ad evitare : anche se questa regola è stata pensata in relazione a percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole evitare è quello di caduta indipendentemente dalle cause che l'hanno provocata. E così in tutte quelle situazioni nelle quali l'evento volontariamente cagionato è della stessa natura di quello preso in considerazione nella formazione della regola cautelare. Diverso è ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca l'occasione perchè il terzo compia l'atto doloso. In questo caso si torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilità colposa del primo agente occorrerà che questi sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che sia prevedibile l'atto doloso del terzo. Il nostro caso può dunque essere risolto solo dopo che si accerti l'esistenza di una posizione di garanzia del dott. P. in favore del paziente e l'ambito di questa posizione (se sia cioè prevista non tanto per la tutela dei terzi quanto per evitare l'aggressione da parte del paziente anche ai beni di terzi) oltre che della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso. Queste risposte potranno quindi essere date solo dopo l'esame dei motivi di ricorso. L'intreccio che presenta questo processo tra i temi della causalità e quelli della colpa rende necessaria una trattazione dei medesimi per così dire "asimmetrica". Fermo restando che non è in discussione la causalità "materiale" dell'evento e che all'imputato sono state contestate condotte colpose omissive e commissive sembra opportuno procedere preliminarmente alla verifica dell'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P. al fine di verificare se su di lui incombesse l'obbligo giuridico di impedire l'evento. Successivamente, essendo in discussione la c.d. "causalità della condotta" e la ed, "causalità della colpa", si procederà alla verifica della correttezza logico giuridica della motivazione della sentenza impugnata sull'esistenza di una condotta causalmente efficiente dell'imputato sul verificarsi dell'evento e sull'esistenza della violazione, da parte sua, di regole cautelari che abbia avuto analoga efficacia su queste conseguenze della condotta inosservante. 7) L'esistenza della posizione di garanzia. Si è già accennato che, all'interno del quarto motivo dedicato ai temi della colpa il ricorrente contesta l'esistenza di una posizione di garanzia a lui riferibile. Secondo il motivo di ricorso, infatti, sarebbe erronea l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, sull'irrilevanza del titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato perchè il paziente risultava affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un diverso medico psichiatra con l'incarico di consulente e il dott. P. aveva il solo compito, all'interno del gruppo di lavoro di cui faceva parte, di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 28 A conferma della sua tesi il ricorrente, con la memoria 16 ottobre 2007, ha prodotto il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P.. All'esame di queste censure vanno premesse alcune considerazioni. Com'è noto l'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso dell'art. 40 c.p., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento. Il fondamento di questa disposizione è da ricercare nei principi solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli artt. 2 e 32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente - con l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di "garanti" della salvaguardia dell'integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona; a questa qualità, naturalmente, devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell'evento. Diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe l'esigibilità della condotta (la madre risponde di non aver nutrito l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non sapeva nuotare). Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di garanzia v'è contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma esistono anche teorie c.d. "miste"). La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'art. 40 c.p., (che parla infatti di obbligo "giuridico"), individua, quali fonti dell'obbligo in questione, la legge e il contratto (e su queste fonti sostanzialmente non esistono divergenze; l'unica difformità di orientamento riguarda forse il caso del contratto cui non partecipi il titolare del ben protetto) nonchè la precedente condotta illecita o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono divergenti anche perchè, più in generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie). Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principi di tassatività e determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia determinata soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante purchè gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (anche giudizialmente) che l'evento dannoso venga cagionato (per es. i poteri dei sindaci delle società su cui peraltro esiste dissenso in dottrina). La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 29 Cass., sez. 4, 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari; 5 novembre 1983 n. 9176, Bruno). Passando ad esaminare più specificamente il tema della responsabilità medica va osservato che una posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l'instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa relazione si può instaurare su base contrattuale come avviene nel caso di paziente che si affidi al medico di fiducia - ma anche in base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento. E' invece stato escluso in dottrina che sorga una posizione di garanzia "in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di incarico professionale". Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in contraddizione con una causazione attiva dell'evento da parte del garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri impeditivi che è obbligato ad esercitare (il medico che somministra erroneamente un medicinale al quale il paziente a lui affidato è allergico - causalità attiva - è tenuto ai necessari interventi per escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione). V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione. La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l'integrità sessuale dei minori). Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza). La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 c.c., - il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc.. Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all'esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumità. Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al dott. P. fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute psichica del paziente M.. Diversamente non si comprendono le ragioni per cui siano stati a lui attribuiti il trattamento del caso di M. sotto il profilo psichiatrico, l'adeguamento e la modifica della terapia farmacologia, i colloqui terapeutici con il paziente, la richiesta di intervento quando si manifestarono i sintomi di © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 30 scompenso. Quale che fosse l'incarico formalmente attribuito al dott. P. all'interno della comunità (OMISSIS) egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare la salute psichica del paziente ed ha accettato di svolgere questo incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale che la struttura (pubblica o privata che sia) gli ha conferito l'incarico e in un vincolo normativo conseguente all'instaurazione di una relazione terapeutica con il paziente. Non può dunque negarsi che il dott. P. fosse gravato di una posizione di garanzia in favore del paziente M. sotto il profilo dell'instaurazione di un obbligo di protezione. Ciò che, del resto, è ammesso nel ricorso nel quale (a p. 23) si ammette che in base all'organizzazione descritta il medico psichiatra (il dott. P.) "era incaricato prevalentemente della gestione della terapia psicofarmacologica dei casi"; e ciò vale ad istituire la posizione di garanzia indipendentemente dalla circostanza, pure sottolineata nel ricorso, che gli aspetti sociali, relazionali, riabilitativi e comunicativi erano appannaggio degli operatori non medici e non sanitari". 8) La cura del paziente psichiatrico e il trattamento sanitario obbligatorio. Se dunque i giudici di merito hanno logicamente accertato l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P., finalizzata alla protezione della salute psichica del paziente M., va ora verificato se sia corretta la motivazione la motivazione della sentenza impugnata in relazione ad una delle ipotesi di colpa contestate all'imputato: quella, di natura omissiva, concernente la mancata richiesta del trattamento sanitario obbligatorio. Su questo punto va preliminarmente osservato che la più parte delle considerazioni svolte nel ricorso è da ritenere largamente condivisibile. In particolare sono condivisibili le osservazioni che si riferiscono al grande valore innovativo della L. 13 maggio 1978, n. 180 (accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) nel trattamento delle "malattie mentali" (così la legge definisce le malattie di origine psichica). A fronte di una disciplina previgente che prendeva in considerazione essenzialmente l'aspetto custodiale per la tutela dei terzi da atti aggressivi (ma anche per una sorta di "discredito" socialmente diffuso nei confronti del malato psichico da cui si sentivano colpite anche le famiglie dei pazienti) la L. n. 180 del 1978, ha finalmente conferito a questa categoria di pazienti la stessa dignità che hanno le persone affette da altre patologie e ha limitato il contenimento personale ai soli casi di necessità in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della malattia. Queste finalità non potevano dunque che essere perseguite abolendo lo strumento principale espressione della visione pressochè esclusivamente custodiale (il manicomio) per cercare di inserire il malato in un ambiente sociale e familiare più adeguato alla tutela della sua persona con un trattamento terapeutico che si è frequentemente dimostrato ben più efficace per il miglioramento delle condizioni di salute. Uno degli strumenti di questa lodevolissima opera di reinserimento sociale, che ha raggiunto in generale risultati molto apprezzabili, è proprio quello dell'inserimento in comunità terapeutiche come quella in cui si è verificato il tragico episodio nella quale - come risulta dalle sentenze di merito - anche M. sembrava avere raggiunto un accettabile equilibrio, disponeva di spazi di autonomia (usciva regolarmente, utilizzava disponibilità di spesa ecc.). Naturalmente il legislatore del 1978 non è stato così ingenuo da ritenere che bastasse abolire i manicomi per eliminare la malattia mentale (visione che ancor oggi una lettura un po' caricaturale della L. n. 180 del 1978, tende ad accreditare) e ha previsto la possibilità che nei confronti del malato psichico potessero essere disposti accertamenti e trattamenti sanitari "obbligatori" ma nel rispetto "della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura" (art. 1, comma 2). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 31 Per venire al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di cui si discute nel presente processo si rileva che il medesimo può essere disposto "nei confronti delle persone affette da malattie mentali (art. 2, comma 1) in presenza di questi presupposti: 1) che esistano "alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici"; 2) che "gli stessi non vengano accettati dall'infermo"; 3) che non sia possibile "adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere". Vano sarebbe però trovare nella L. n. 180 del 1978, una norma che confermi la tesi del ricorrente secondo cui la tutela sanitaria obbligatoria prevista dal ricordato art. 2, sarebbe preordinata esclusivamente alla tutela del malato e non anche dei terzi. E' vero che lo scopo primario delle cure psichiatriche è quello di eliminare o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la situazione di questi sia idonea a degenerare - anche con atti di auto o etero aggressività - il trattamento obbligatorio presso strutture ospedaliere è diretto ad evitare tutte le conseguenze negative che la sofferenza psichica cagiona. E' del resto illusorio separare le conseguenze personali (che sole giustificherebbero il trattamento secondo il ricorrente) da quelle verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressività non reca danno solo al terzo aggredito ma anche all'aggressore. Emblematico è il caso che stiamo trattando: a M. (vittima anche lui del suo disturbo psichico) nel processo conseguente all'uccisione dell'operatore è stata applicata, a seguito del proscioglimento per mancanza di imputabilità, la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; e in questa struttura contenitiva M., qualche anno dopo, è deceduto. Anche nei confronti di se stesso il suo gesto omicida ha quindi avuto conseguenze personali gravissime. Insomma il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di aggressività verso terzi non diversamente contenibili. Del resto non si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici se non le manifestazioni di aggressività nei confronti di se stessi o di terzi. Se non esistono queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza psichica, è ben difficile ipotizzare situazioni nelle quali sia necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliere. Ciò premesso si osserva peraltro che il motivo di ricorso che stiamo esaminando è da ritenere fondato sotto un diverso profilo. Abbiamo visto che uno dei tre presupposti perchè possa essere disposto il trattamento sanitario obbligatorio è costituito dal rifiuto (mancata accettazione) delle cure da parte del paziente. Ebbene, nel caso in esame questo requisito - in base alla ricostruzione incensurabile dei fatti operata dai giudici di merito - non può ritenersi pienamente realizzato. E' vero che tutto l'ultimo periodo della tragica vita di M. è stato costellato da continui atteggiamenti di rifiuto delle terapie e da ripensamenti e assunzioni delle medesime ma è pur vero che, quanto meno fino al 22 maggio 2000, il paziente risulta aver assunto la terapia sia pure accompagnando la sua condotta con minacce di morte all'operatrice, rifiutando che gli venisse somministrata da altri medici ma, alla fine, accettando la somministrazione da parte del suo medico personale. Da tale ricostruzione operata dai giudici di merito non appare dunque realizzato il requisito della mancata accettazione delle terapie da parte del paziente che avrebbe giustificato la richiesta di t.s.o. e quindi questo elemento di colpa di natura omissiva non può essere addebitato all'imputato. Nè questo ostacolo può essere superato, come ha fatto il giudice di primo grado, con il rilievo che esisteva il forte dubbio che M. assumesse la terapia orale essendo, questa circostanza, comunque rimasta a livello di congettura perchè indimostrata. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 32 9) Gli elementi di colpa consistenti nella riduzione e sospensione della terapia. Sono invece infondate le censure che si riferiscono agli altri elementi di colpa ravvisati dai giudici di merito nella condotta del dott. P.; condotta da sola sufficiente a fondare l'affermazione di responsabilità perchè ad essa è causalmente ricollegabile l'evento verificatosi. In sintesi l'elemento fondamentale di violazione delle leggi dell'arte medica psichiatrica è costituito dalla drastica riduzione (alla metà) e, successivamente, dalla eliminazione della terapia farmacologia in precedenza assunta da M.. Dalla sentenza impugnata emerge che il dott. P. prese in carico il paziente negli ultimi mesi del 1999 (la data precisa non è stata accertata) e il primo intervento documentato è del 1 ottobre 1999. Dopo alcuni mesi - il 16 marzo 2000 - il dott. P. riduceva della metà il farmaco neurolettico (Moditen) di tipo "depot" (ad assorbimento graduale del principio attivo, la flufenazina); avendo ritenuto che la riduzione non avesse avuto effetti negativi l'imputato decideva quindi, il 24 aprile 2000, di sospendere la somministrazione del farmaco. E' da sottolineare che la sentenza impugnata descrive vari episodi di scompenso psicotico verificatisi dall'ottobre 1999 fino alla data di sospensione del trattamento farmacologico per cui esente da alcuna illogicità deve ritenersi la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto incongrua la scelta terapeutica del dott. P. peraltro sconsigliata dai precedenti medici che avevano seguito il paziente proprio per l'elevato rischio di scompenso che la riduzione o sospensione avrebbe comportato. Ancor più grave è stata ritenuta la scelta di sospendere il trattamento il 24 aprile anche perchè due degli episodi di scompenso ( M. aveva denunziato per due volte la sparizione dei suoi soldi in banca) erano avvenuti dopo la riduzione e prima della sospensione della somministrazione del farmaco (il 3 e l'11 aprile) e la Corte di merito riferisce che gli episodi erano stati portati a conoscenza dell'imputato. Dopo la sospensione del trattamento le condizioni del paziente peggioravano e, dopo vari episodi significativi dello scompenso in atto, il dott. P. era costretto a ripristinare la terapia con la somministrazione del farmaco neurolettico nella posologia originaria (peraltro con efficacia immediata assai ridotta per le modalità di rilascio del principio attivo), introducendo anche un altro farmaco ad efficacia più immediata, da assumere per via orale, nella specie risultato privo di efficacia. Il primo problema che si pone è quello di valutare l'adeguatezza della motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto imperita e imprudente (oltre che negligente per l'inadempimento degli obblighi conoscitivi, come si dirà più avanti) la scelta dell'imputato di operare prima una riduzione così drastica e successivamente l'eliminazione della terapia farmacologia in un paziente affetto da una grave forma di "schizofrenia paranoide cronica in fase di parziale remissione" (è la diagnosi postuma formulata dai consulenti tecnici dell'imputato). A questo fine va premesso che non è (ovviamente) in discussione la libertà delle scelte terapeutiche del medico che - in ciò appare corretto quanto si afferma nel ricorso - deve indirizzarle anzitutto al miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli effetti collaterali della somministrazione dei farmaci (nel caso di specie particolarmente pesanti in termini di sedazione e di effetti parkinsoniani); ma questa condivisibile finalità deve essere perseguita con la gradualità e l'attenzione richieste in relazione alla gravità della situazione patologica del paziente. E tenendo conto che la richiesta del paziente può essere ricollegata, come nel caso di specie (così riferiscono le sentenze di merito), ad un mancato riconoscimento della malattia da parte sua. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 33 E' quindi del tutto logico il percorso motivazionale dei giudici di merito che hanno ricostruito (soprattutto la sentenza di primo grado) gli episodi della patologia di M. la cui prima manifestazione di malattia risale addirittura al 1963 e la cui storia di sofferenza psichica comprende vari e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico giudiziario e in ospedali psichiatrici con numerosissimi episodi di delirio nonchè continue e gravi manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi, di intolleranza e di episodi a sfondo persecutorio. Legittima poteva quindi essere ritenuta la scelta di una progressiva riduzione della terapia farmacologia ma altrettanto logica la valutazione dei giudici di merito i quali hanno motivatamente condiviso il giudizio dei periti di ufficio i quali hanno sostenuto che, in un paziente affetto da una patologia di così elevata gravità (che si caratterizza altresì, rispetto ad altre patologie di natura psichica, per la maggior frequenza di episodi di aggressività) , non cosciente della sua patologia e quindi con un atteggiamento di limitata accettazione (se non rifiuto) della terapia e con una forte carica aggressiva la scelta della riduzione e soprattutto quella della eliminazione dei farmaci neurolettici avrebbe potuto essere adottata in un paziente in remissione da almeno cinque anni. Già di questa remissione era assai dubbia l'esistenza anche perchè, riferiscono i giudici di merito, inspiegabilmente dall'epoca del ricovero del paziente nella comunità (OMISSIS) (avvenuto nel (OMISSIS)) e fino al 1999 - non risulta alcuna annotazione nella cartella clinica di M.. E comunque i periti d'ufficio hanno al contrario affermato che la situazione clinica di M., al momento della modifica della terapia, non era quella di un soggetto in "remissione" sintomatologia ma, al contrario, era da tempo un paziente sull'orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività nonchè di sintomi "positivi"". Ma, anche ammesso che si fosse realizzata una certa stabilizzazione e che la patologia fosse attualmente in fase di parziale remissione, la sentenza impugnata richiama, condividendola, la valutazione dei periti i quali hanno ritenuto che - anche in presenza di una remissione duratura delle manifestazioni più eclatanti della malattia - la modificazione della terapia avrebbe dovuto essere attuata con una ben diversa gradualità. Tanto più che un significativo miglioramento delle condizioni psichiche di M. era iniziato nel 1984 proprio quando era iniziata la terapia con la somministrazione del farmaco Moditen depot. In particolare, secondo il parere dei periti condiviso da entrambi i giudici di merito e fondato su autorevoli studi svolti anche a livello internazionale (nella sentenza di primo grado vengono riportate le linee guida dell'American Psychiatric Association che si esprimono in questo senso), la riduzione del farmaco neurolettico non si deve effettuare per percentuali superiore al venti per cento ogni volta e gli intervalli tra queste progressive riduzioni dovrebbero durare tra i tre e i sei mesi. Regole di cautela macroscopicamente violate dal dott. P. che ha ridotto già inizialmente la terapia della metà e l'ha poi sospesa integralmente dopo poco più di un mese senza quindi verificare gli effetti per un periodo di tempo adeguato (anche in considerazione delle caratteristiche del farmaco a lento rilascio che richiederebbe un periodo di osservazione particolarmente prolungato per verificare gli effetti quando il farmaco ha ridotto i suoi effetti) e senza intensificare le visite come richiesto dalle linee guida cui si è già accennato. In conclusione, sull'esistenza della colpa costituita dalla grossolana violazione delle regole dell'arte medica psichiatrica, la motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi adeguata ed esente da vizi logici e giuridici e si sottrae conseguentemente alle censure del ricorrente. 9) La prevedibilità dell'evento. Strettamente collegato all'accertamento dell'esistenza dell'elemento soggettivo del reato è l'argomento, proposto con il quarto motivo di ricorso, che riguarda la prevedibilità dell'evento poi concretamente verificatosi. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 34 non avrebbe accertato la prevedibilità in concreto ma l'avrebbe ricollegata alla sola esistenza della malattia psichica senza neppure tener conto della circostanza che questa malattia era in remissione da oltre quindici anni. Sul tema della prevedibilità dell'evento occorre fare qualche considerazione preliminare. La prevedibilità dell'evento, riguardando l'elemento soggettivo e la sua esistenza, va accertata con criteri ex ante (a differenza della causalità) e si fonda sul principio che non possa essere addebitato all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere. Sotto quest'ultimo profilo la prevedibilità dell'evento è certamente riferibile all'elemento soggettivo, la colpa, perchè attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente psicologico) che è tenuto a prendere in considerazione le conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da questo angolo visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione. Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele, sembra evidente che il risultato non possa essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perchè l'agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento. Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista perchè non era prevedibile non v'è responsabilità per colpa. Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) ? Senza richiamare i termini del dibattito teorico che tende ad escludere la natura esclusivamente psicologica della colpa per ricollegarla al mero elemento oggettivo della violazione delle regole cautelari (natura normativa della colpa) - è necessario evitare di adottare un criterio che faccia riferimento all'agente concreto per evitare di ricadere negli orientamenti che riferiscono la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità da parte dell'homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari. Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell'obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è affermato che "basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso. Alcuni Autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità, di "rappresentabilità" precisando che "questo termine possiede una maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto ad accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura antecedenti all'azione del soggetto". Altri ancora parlano di "riconoscibilità" così esprimendosi: "la tipicità colposa risulta configurabile allorchè la situazione concreta sia stata caratterizzata dalla presenza di elementi, giuridici e fattuali.......che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche e conoscenze empiriche © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 35 utilizzate dal giudice ai fini dell'imputazione dell'evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la concreta realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato colposo"). La dottrina (e, in minor misura, la giurisprudenza che ha dedicato una minore attenzione a questi temi) è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all'agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza. Orbene nel nostro caso è sufficiente ripercorrere la storia clinica del paziente per trovare conferma della correttezza della valutazione sulla circostanza che lo sfondo delirante e persecutorio che caratterizzava la patologia di M. rendeva del tutto prevedibili manifestazioni eteroaggressive tanto più in quanto, prima del fatto che ha dato origine al presente processo, numerose altre e in varie epoche se ne erano verificate. Anche perchè, dal momento in cui il ricorrente ha preso in carico il paziente e fino al momento della riduzione della posologia del neurolettico sono almeno tre gli episodi sintomatici di una situazione di possibile scompenso (tra questi uno in cui M., dopo un diverbio con un altro paziente, tentò di nascondere un coltello temendo di essere aggredito). E si è già accennato ai due episodi di natura delirante (la denunzia della sparizione dei soldi in banca) verificatisi tra la riduzione e la sospensione della terapia neurolettica. Se dunque è stato accertato nel giudizio di merito che la patologia da cui era affetto M. era idonea, se incongruamente trattata - ed in particolare con una diminuzione e sospensione del trattamento farmacologico in atto senza la gradualità richiesta - ad esasperare le manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi ne consegue che la prevedibilità dell'evento sia stata logicamente affermata (seppur implicitamente dai giudici di appello i quali hanno peraltro richiamato la sentenza di primo grado che ne tratta adeguatamente e qualifica come addirittura "imminente" la reazione violenta). 10) Il principio di affidamento e l'obbligo informativo del medico. All'interno del quarto motivo il ricorrente propone poi una censura che si riferisce all'addebito dei giudici di merito che hanno affermato l'obbligo per il medico psichiatra di documentarsi adeguatamente prima di modificare il trattamento farmacologico facendosi esibire il diario tenuto dagli operatori nonchè, dopo la modifica della terapia, di pretendere di essere informato di qualunque evenienza negativa. Il ricorrente afferma invece che questa concezione risponde ad una concezione gerarchica del rapporto tra consulente e struttura e ad una logica custodialistica del trattamento della malattia psichica non più ipotizzabile dopo la riforma del 1978. E proprio la struttura complessa della comunità e la presenza di operatori attrezzati professionalmente non poteva che indurre il medico psichiatra a fare affidamento sulla corretta condotta di coloro che operavano all'interno della struttura. In merito al richiamato principio di affidamento può intanto osservarsi che, in linea di massima, ciascuno risponde per le conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, e nell'ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni; non risponde invece dell'eventuale violazione delle regole cautelari da parte di altri partecipi della medesima attività o che agiscano nello stesso ambito di attività (a meno che non gli sia attribuita una funzione di controllo dell'opera altrui); sul rispetto delle regole da parte di queste persone l'agente deve poter confidare ("principio di affidamento") . © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 36 Sono da ritenere superate quelle posizioni che tendevano a far ritenere prevedibili le altrui inosservanze delle regole cautelari; oggi prevalgono le opinioni dirette a ritenere prevedibili le violazioni solo nei casi in cui esistano elementi sintomatici dell'esistenza o della probabile violazione della regola cautelare da parte del terzo. Solo se l'agente viene a conoscenza della violazione delle regole da parte di altri partecipi nella medesima attività (per es. un'operazione chirurgica svolta in equipe) - o comunque si trova in una situazione in cui diviene prevedibile l'altrui inosservanza della regola cautelare (che deve avere caratteristiche di riconoscibilità) - ha l'obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Come è stato affermato "le violazioni della diligenza altrui non sono oggetto del dovere di rappresentazione gravante sul soggetto, purchè la situazione concreta non desse "occasione" per sospettare del contrario". Il principio di affidamento ha trovato una particolare elaborazione nell'ambito della circolazione stradale nella quale ogni conducente può, e deve, fare affidamento sul rispetto delle regole da parte degli altri conducenti; non esiste infatti un obbligo di prevedere le altrui imprudenze. Solo quando percepisca (o divenga percepibile) la mancata osservanza delle regole da parte del terzo il conducente ha l'obbligo a sua volta di porre in essere manovre di emergenza per evitare danni (per es. chi si accorge per tempo che un veicolo marcia contro mano ha l'obbligo di fermarsi; il titolare del diritto di precedenza ha l'obbligo di eseguire le manovre idonee ad evitare incidenti se percepisce tempestivamente che altro conducente sfavorito non gli concede la precedenza). Di maggior complessità è la soluzione di questi problemi nel caso di obblighi "divisi", cioè nei casi nei quali una medesima attività è svolta in equipe da più soggetti. E' evidente che il concetto di affidamento assume carattere diverso a seconda del tipo di attività svolta, delle specializzazioni, competenze e capacità degli altri partecipi, delle modalità e difficoltà dell'attività intrapresa. I componenti di una equipe chirurgica avranno un ben diverso livello di affidamento rispetto agli automobilisti che si trovino a percorrere la medesima strada. Così ben diversa considerazione dovrà avere l'eventuale condotta colposa da parte del capo equipe rispetto a quella dei chirurghi che si trovino in posizione subordinata e l'attività dei partecipi ad un intervento chirurgico rispetto all'attività degli specialisti (problema che si pone analogamente nel trattamento medico di patologie che richiedono l'intervento di più specialisti). Ma non diverso sarà il criterio cui dovrà ispirarsi il componente dell'equipe chirurgica che dovrà attivarsi nel caso in cui concretamente appaia, o sia prevedibile, il comportamento scorretto, o comunque inosservante, di altro titolare dell'obbligo diviso tanto più se rivesta una posizione di sovraordinazione gerarchica. La semplice enunciazione dei principi che governano il principio di affidamento mostra come, nel caso in esame, ci si trovi al di fuori di questa problematica relativa al principio di affidamento che sarebbe invocabile solo se gli operatori della comunità (OMISSIS) avessero tenuto nascosti all'imputato gli episodi di scompenso, o comunque significativi dell'aggravamento della patologia, verificatisi. Non solo questo "occultamento" delle informazioni non è stato accertato dai giudici di merito ma va invece riaffermato il principio che il medico ha l'obbligo di assumere (dal paziente o, se ciò non è possibile, da altre fonti informative affidabili) tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del trattamento medico chirurgico praticato al paziente. Obbligo che diviene ancor più pregnante nel caso di una iniziativa terapeutica così delicata come la modifica del trattamento farmacologico di un malato psichico grave che richiede necessariamente una conoscenza delle fasi © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 37 pregresse della malattia che il medico (soprattutto perchè da poco tempo incaricato di seguire il paziente) ha l'obbligo di acquisire; tanto più nei casi di malattie nei quali si verifica una scarsa o nulla collaborazione del paziente. Nel nostro caso i giudici di merito hanno invece accertato che il dott. P. aveva omesso completamente di acquisire le conoscenze disponibili sul percorso patologico del paziente e di sollecitare l'acquisizione delle informazioni necessarie (tra l'altro l'anamnesi pregressa competeva proprio al dott. P. per cui è incongruo parlare di principio di affidamento). Questa mancata acquisizione delle informazioni è stata peraltro ammessa dal medesimo imputato che ha dichiarato che ignorava addirittura che il paziente fosse stato in passato ricoverato in ospedale psichiatrico giudiziario. A maggior ragione, dopo la modifica del trattamento, proprio per i rilevanti effetti negativi che tale modifica era idonea a provocare, costituiva un obbligo del medico informarsi in modo continuativo sull'evoluzione della malattia per verificare l'esistenza di questi effetti in conseguenza della modificazione del trattamento. Certo, anche gli operatori della comunità avevano l'obbligo di segnalare le manifestazioni anomale del paziente ma ciò non fa venir meno l'obbligo informativo che grava primariamente sul medico. Si aggiunga che, nel giudizio di merito (v. sentenza di 1 grado a p. 27 e 32), è stato accertato che il dott. P. non provvedeva, nei rari incontri con gli operatori, all'acquisizione delle informazioni e delle notizie utili per la valutazione dello stato della malattia nè risulta aver sollecitato le periodiche verifiche che l'equipe avrebbe dovuto effettuare; e risulta anzi che le visite del dott. P. nei confronti del M. sono sempre state "oltre che contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e superficialità". Nè questa diligenza risulta essere aumentata nel periodo più delicato, quello successivo alla diminuzione della posologia. Insomma è da ritenere del tutto adeguata, con riferimento ai fatti incensurabilmente accertati nel corso del giudizio di merito, la conclusione tratta dai giudici dall'esame di questa tragica vicenda che non è quella, sostenuta nel ricorso, di una "concezione gerarchica del rapporto fra consulente e struttura cui era affidato il paziente" ma di un rapporto terapeutico instaurato e condotto in modo gravemente negligente (oltre che imperito e imprudente nella affrettata diminuzione e sospensione della terapia) in particolare per la mancata assunzione di tutte le informazioni necessarie per trattare il caso secondo le regole dell'arte medica psichiatrica anche se riduttivamente vista in un'ottica di protezione esclusiva del paziente. E' ovvio che se gli operatori della struttura - peraltro separatamente giudicati - hanno omesso di trasmettere al medico psichiatra informazioni utili e necessarie per il trattamento della patologia potranno rispondere per aver posto in essere concause dell'evento. Ma ciò potrebbe valere, al più, a far ritenere che la condotta dell'imputato ha avuto efficacia concausale e non esclusiva sul verificarsi dell'evento (che certamente - ma neppure il ricorrente lo sostiene - non è ricollegabile ad una causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento). 11) Il rapporto di causalità. La descrizione dell'intero meccanismo causale. E' adesso possibile riprendere il discorso sull'efficienza causale della condotta colposa dell'imputato sul verificarsi dell'evento (c.d. "causalità della colpa"). E' evidente che la censura relativa all'esistenza della posizione di garanzia in capo al dott. P. in precedenza esaminata ha un significato determinante in relazione all'elemento di colpa riferito all'omessa richiesta di trattamento sanitario obbligatorio configurabile come una condotta omissiva peraltro escluso come si è detto in precedenza. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 38 Ma il ricorrente imposta in termini di causalità omissiva anche il problema dell'efficienza causale del mutamento della terapia farmacologia e deduce, nel quinto motivo di ricorso, la violazione dell'art. 40 c.p., e il vizio di motivazione perchè la sentenza impugnata, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento. In merito a queste censure va preliminarmente esaminata la doglianza che si riferisce alla mancata individuazione dell'intero e complesso meccanismo causale che ha condotto all'evento inseritosi nella tragica vicenda dell'accoltellamento dell'operatore (in particolare difetterebbe, nel caso in esame, secondo il ricorrente, l'accertamento che riguarda la concentrazione del principio attivo del farmaco antipsicotico nel periodo immediatamente precedente il tragico fatto) perchè, da parte di alcuni autori e in alcune decisioni, anche di legittimità, si afferma che, in questo caso, non potrebbe ritenersi accertato il rapporto di causalità. Si osserva, in contrario, che a questo dubbio aveva già dato una precisa risposta la giurisprudenza di legittimità che, già con la sentenza Cass., sez. 4, 6 dicembre 1990, Bonetti e altri, aveva affrontato il problema in questi termini confermando il ragionamento della Corte d'appello: "Come si vede, il discorso della Corte è di esemplare linearità: è impossibile che il giudice, nell'accertare il rapporto causale, venga a capo di tutti, conosca tutti i passaggi causali, tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, che proceda ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi; è sufficiente che il giudice, adottando il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, universali o statistiche, "restando, cioè, vincolato a parametri oggettivi e impersonali forniti dalla scienza" e, quindi, ripudiando il modello individualizzante, colga, metta in luce, uno o più antecedenti che, secondo quelle leggi scientifiche, universali o statistiche, siano tali che senza lo stesso o gli stessi l'evento, con alto grado di probabilità, con probabilità, cioè, logica o credibilità razionale, non si sarebbe verificato;". Più recentemente si è ancora affermato che il nesso di condizionamento deve ritenersi provato non solo quando (caso improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell'agente sia pure con condotte alternative; e purchè sia possibile escludere l'efficienza causale di diversi meccanismi eziologici (in questo senso v. Cass. , sez. 4, 15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, in Giust. pen., 1996, 11, 445, che ha ritenuto irrilevante l'indicazione di una delle cause alternative dell'evento qualora le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione siano identiche. Nello stesso senso, più di recente, si è espressa Cass., sez. 4, 17 aprile 2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588; contra Cass., sez. 4, 25 maggio 2005 n. 25233, Lucarelli, rv. 232013). Una parola definitiva su questo punto è stata pronunziata dalla sentenza Franzese delle sezioni unite che così si esprime: "poichè il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, nè procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purchè sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale". Ciò che rileva, quindi, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) di indagati e imputati; oppure che si possa comunque escludere che ne esistano di ragionevolmente ipotizzabili che possano condurre all'esclusione del contributo causale da parte dell'agente. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 39 Queste conclusioni sono condivise anche dalla prevalente dottrina. Si è detto che "non si può pretendere che il giudice spieghi l'intero meccanismo di produzione dell'evento, e non lo si può pretendere perchè non è possibile conoscere esattamente tutte le "fasi intermedie" attraverso le quali la causa "produce" l'effetto finale". Ciò che rileva, lo si ribadisce, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell'agente. Ma, prima di trarre le necessarie conclusioni da queste premesse, occorre affrontare il tema della natura della causalità cui è stato ricondotto l'evento. 12) Causalità commissiva e causalità omissiva. Si è già accennato che il ricorrente imposta il tema della causalità in termini di causalità omissiva: espressamente per quanto riguarda la mancata richiesta del t.s.o.; implicitamente, come risulta dall'impostazione delle censure, per quanto riguarda le condotte colpose riferibili al mutamento della terapia cui il paziente era sottoposto. Anche su questo tema occorrono alcune riflessioni preliminari sulla distinzione tra causalità attiva ed omissiva. Su questo problema va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di causalità. In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale non è anche perchè sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l'evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità. E' peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e le componenti emissive della colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva. Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza". Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui, nell'ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi; sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente. Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 40 Il dott. P. non ha violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua attivazione ma ha violato il divieto di somministrare le terapie farmacologiche in modo incongruo prima con una immotivata riduzione alla metà del farmaco neurolettico e poi addirittura sospendendo, senza un adeguato periodo di osservazione, la terapia in tempi troppo ravvicinati e senza un approfondito esame delle conseguenze della modifica terapeutica. E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può affermarsi che il medico abbia introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento. Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se l'evento è da ritenere causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di sostanziale certezza è evidente che non è necessario porsi la domanda, che si pone il ricorrente, su che cosa sarebbe avvenuto se la modifica terapeutica non fosse avvenuta; domanda che trova la sua ragione nella circostanza che è statisticamente accertato che una certa percentuale di scompensi nei pazienti psicotici avviene anche con il mantenimento della terapia. Questa domanda sarebbe legittima se si trattasse di causalità omissiva: il medico che non ha somministrato il farmaco salvifico risponde della morte del paziente se, in base al giudizio controfattuale, può ritenersi, in termini di elevata credibilità razionale, che l'evento non si sarebbe verificato se il medico avesse compiuto l'azione richiesta. Ma, nel nostro caso, i giudici di merito hanno motivatamente ritenuto accertato, in termini di sostanziale certezza, che la crisi si è scatenata a seguito del mutamento incongruo della terapia farmacologia; dunque l'ipotesi formulata dal ricorrente costituisce una congettura priva di alcuna conferma ed estranea all'evidenza probatoria del processo che anzi mostra l'esistenza di una situazione di sostanziale compenso durata circa quindici anni pur con periodici episodi di rottura di questa situazione di equilibrio. Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come implicitamente richiede il ricorrente, dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in essere la medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale. Ma chiedendosi se, ipotizzando non avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto il paziente allo scompenso conclamato cui è riconducibile l'aggressione a C.. E su quale debba essere la risposta a questo quesito la Corte di merito ha fornito la motivata e non illogica risposta cui si è più volte fatto cenno. E' infatti possibile che, se la terapia non fosse mutata, si sarebbero potuti verificare in futuro altri episodi di scompenso; ma lo scompenso che si è in concreto verificato è stato eziologicamente ricollegato - in base all'evidenza disponibile ed in particolare agli accertamenti peritali - al mutamento terapeutico, si è manifestato come conseguenza prevista e prevedibile di questo mutamento e non costituisce quindi uno degli episodi statisticamente possibili di inefficacia del farmaco. E quindi possibile dare una risposta al quesito formulato nel capitolo precedente: l'evento hic et nunc verificatosi è causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di elevata credibilità razionale e l'ipotesi alternativa formulata è fondata su una mera congettura che peraltro neppure potrebbe essere presa in considerazione nel giudizio di legittimità. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 41 Ed è ora possibile dare anche una risposta al quesito posto in precedenza e relativo alla verifica dell'esistenza dei presupposti di natura soggettiva per la verifica in concreto dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso: sull'imputato gravava una posizione di garanzia di protezione a tutela del paziente e la regola cautelare violata dal dott. P. era finalizzata anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità dell'agente nella causazione dell'evento non può essere esclusa. 14) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alle pronunzie sull'azione civile di cui al dispositivo. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La condanna altresì a rifondere alle parti civili le spese sostenute dalle medesime per il presente grado di giudizio; spese che liquida in complessivi Euro 3.000,00 per la parte civile B.I. e in complessivi Euro 3.600,00 per le parti civili B.M. e C.A.; oltre, per tutte le medesime parti civili, I.V.A. e C.P.A. e spese generali come per legge. Così deciso in Roma, il 14 novembre 2007. Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2008 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 42 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 43 2) Appropriazione indebita Tizio concludeva con la banca Alfa un contratto di mutuo. Tizio lavorava presso il sig. DonDon come piastrellista; DonDon pagava regolarmente ogni mese Tizio. Tizio faceva presenta a DonDon che, a causa del mutuo posto in essere con Alfa, avrebbe dovuto versare - in favore di questa - ogni mese euro 300,oo; per semplificare la movimentazione economica, Tizio chiedeva a DonDon di trattenere i suddetti euro 300,oo dal proprio stipendio e versarli in favore di Alfa. DonDon accettava. Dopo diversi mesi si scopriva che DonDon non aveva versato i suddetti euro 300,oo mensili in favore di Alfa. Il candidato rediga motivato, verificando l’applicabilità dell’art. 646 c.p., in tema di appropriazione indebita. Possibile soluzione schematica In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto. Successivamente il discorso andava inquadrato nell’ambito dell’art. 646 c.p.: il sig. DonDon ha commesso il reato di appropriazione indebita? In senso positivo depongono i rilievi che: -DonDon si è appropriato del denaro di Tizio, tramite il mancato versamento in favore di Alfa; -l’inciso “a qualsiasi titolo”, ex art. 646 c.p., sembra legittimare l’interprete a far rientrare anche il denaro da erogare in favore di un terzo (Alfa). Accogliendo tale ricostruzione, DonDon dovrebbe rispondere del reato di appropriazione indebita. Si ritiene preferibile, tuttavia, optare per la tesi negativa (coerentemente con la recente giurisprudenza) perché: -l’art. 646 c.p. richiede l’appropriazione di denaro altrui, ma nel caso in esame il denaro non è altrui, ma di DonDon stesso perché è uscito dal suo patrimonio; -DonDon è solo un “debitore ceduto” verso Alfa, con la conseguenza che, al più, potrà rispondere di inadempimento sul piano civile. Alla luce degli esposti rilievi, pertanto, DonDon non potrà essere chiamato a rispondere del reato di appropriazione indebita. Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo. Cassazione penale, Sezioni Unite, 20.10.2011, n. 37954 Svolgimento del processo 1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza in data 11 febbraio 2009 del Tribunale di Lecce, sez. dist. di Galatina, nella parte in cui aveva dichiarato O.C. responsabile del reato di cui all'art. 81 c.p., art. 61 c.p., comma 1, n. 11, e art. 646 c.p., commesso da luglio a novembre dell'anno 2002, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di nove mesi di reclusione e 600 Euro di multa, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile. In parziale © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 44 riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello riduceva l'ammontare dei danni liquidati in favore della parte civile, che determinava in 6.000 Euro. 1.1. Stando alla contestazione, O.C., agendo in tempi diversi e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, nei mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre e novembre dell'anno 2002, s'era appropriato denaro della dipendente U.S., per la somma complessiva di 557,75 Euro, corrispondente agli importi mensili di 111,55 Euro fatti figurare sulle buste paga come trattenuti per essere versati alla s.p.a. Fineco Banca Icq in adempimento del contratto di cessione pro solvendo di una quota dello stipendio stipulato dalla U. con l'istituto di credito, a seguito di prestito di denaro da questo erogatole, notificato al datore di lavoro e da questo accettato (con "separato atto di benestare"). Non essendo stati gli importi mai pagati, la Fineco aveva proceduto con decreto ingiuntivo nei confronti della U. e della Cedis. 1.2. La Corte disattendeva i rilievi dell'appellante, secondo cui difettava nella specie l'elemento costitutivo della altruità del bene - denaro - oggetto di appropriazione, evocando i principi affermati da Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, Li Calzi, Rv. 229634. Affermava, in particolare, che a base delle argomentazioni svolte in tale sentenza stava la necessità di distinguere il caso in cui il datore di lavoro opera quale sostituto d'imposta, rispetto a quelli in cui egli sia "meramente responsabile per debito altrui". Solamente nelle prime ipotesi il datore di lavoro poteva ritenersi "debitore in proprio" ed era personalmente e direttamente obbligato (verso lo Stato o la Cassa edile) per le somme dovute, rispetto alle quali il lavoratore non aveva "titolarità attiva", ma soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate: con la conseguenza che l'omesso versamento di tali somme non integrava il reato di appropriazione indebita. Negli altri casi di mera responsabilità per debito altrui, il denaro o la cosa mobile non entravano a far parte "ab origine del patrimonio del possessore" e, pur confluendo nel patrimonio dell'agente, restavano, per il vincolo di destinazione che li caratterizzava, "di proprietà diretta o indiretta di altri": in deroga, come espressamente previsto dall'art. 646 c.p., ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà di cose fungibili. Sicchè l'agente che dava alla cosa o al denaro una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui lo possedeva o non restituiva la cosa o il denaro a richiesta o alla scadenza, commetteva, come era avvenuto nel caso di specie, il reato di appropriazione indebita. 2. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore, avvocato Angelo Roma, che chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. Con unico motivo denunzia violazione della legge sostanziale, nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sostenendo che la fattispecie concreta non poteva integrare quella astratta di appropriazione indebita. Difettava in particolare il requisito della "altruità" del denaro in tesi appropriato, trattandosi di somme che il datore di lavoro doveva alla dipendente e oggetto, da parte di questa, di cessione di credito. Premette, in fatto, che nel caso in esame l'altruità del denaro oggetto di asserita appropriazione era in concreto smentita anche dalla circostanza che, per il credito relativo alle trattenute operate sulla retribuzione della U., la Fineco era stata ammessa con privilegio, trattandosi di crediti da lavoro dipendente, al passivo del debitore ceduto, Cedis s.r.l. in amministrazione straordinaria. Richiama quindi, a sostegno, la pronuncia delle Sezioni Unite Li Calzi, i cui contenuti sarebbero stati equivocati dalla Corte d'appello. Le somme trattenute sullo stipendio non erano entrate ab extrinseco a far parte del patrimonio del possessore (della Cedis s.r.l.), rimanendo connotate "da un vincolo specifico di destinazione". Al contrario, la quota di stipendio ceduta dalla dipendente era © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 45 sempre rimasta nella esclusiva disponibilità del possessore (debitore ceduto), confusa ab origine nel suo patrimonio. Nella situazione in esame era pienamente applicabile, perciò, il principio affermato dalla sentenza Li Calzi, secondo cui il denaro trattenuto dal datore di lavoro sui compensi del dipendente in quanto "destinato a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore)", "rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono". Il ricorso diffusamente argomenta, quindi, sulla necessità di conformare, il più possibile, la nozione di cosa altrui valevole per il diritto penale ai concetti civilistici, pur con gli ovvi adattamenti necessari per le ipotesi di cose fungibili. Proprio perciò detta nozione, con riferimento al denaro, non poteva che essere ricondotta, secondo il criterio adottato dalle Sezioni Unite, al profilo del trasferimento preliminare ed effettivo ("ab estrinseco") del possesso: solo la consegna del danaro ad un terzo, affinchè ne faccia un determinato uso nell'interesse del tradens, consentendo di affermare che dal punto di vista penale l'appartenenza del denaro a quest'ultimo non viene meno. 3. Con memoria ritualmente depositata a mezzo del difensore e rappresentante, avvocato Dario Trevisi, la parte civile ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna dell'Imputato alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione. Evidenzia, in sintesi, che la disomogeneità tra la fattispecie trattata dalle Sezioni unite nella citata sentenza Li Calzi - che si era occupata di trattenute o ritenute ex lege - e quella in esame concernente un'ipotesi di trattenuta volontaria, in assenza della quale il lavoratore avrebbe percepito la somma direttamente dal datore di lavoro - legittimava le diverse conclusioni cui era pervenuta la Corte di appello di Lecce. In relazione alla fattispecie al loro esame, le Sezioni Unite avevano evidenziato come l'importo corrispondente alle somme trattenute ex lege, non soltanto non era mai stato versato al lavoratore, ma "soprattutto" mai avrebbe potuto esserlo, "avendo il dipendente soltanto il diritto a percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte", così ponendo l'accento sull'obbligo proprio, incombente sul datore di lavoro, che differenziava le ipotesi allora esaminate da quelle in cui il datore di lavoro funge da mero tramite per l'adempimento di un obbligo del lavoratore. Nel caso in esame l'emissione di busta paga e la corresponsione della retribuzione decurtata della somma trattenuta in forza della cessione del debito aveva comportato che tutta la retribuzione doveva ritenersi già entrata a far parte del patrimonio del lavoratore pur essendo rimasta in parte vincolata ad una specifica destinazione (si richiama a tale proposito a Sez. U, n. 27641 del 28/05/2003, Silvestri, Rv. 224609). Era inoltre evidente che allorchè la sentenza delle Sezioni Unite Li Calzi aveva richiamato gli accordi economici, intendeva riferirsi ad accordi collettivi. 4. La Seconda Sezione penale, investita del ricorso, lo ha rimesso alle Sezioni unite rilevando che, pur dopo la sentenza Li Calzi, s'era obiettivamente manifestato un contrasto di giurisprudenza sul punto oggetto di doglianza, relativo alla riconducibilità alla fattispecie di appropriazione indebita della condotta del datore di lavoro che ometta di versare le somme di denaro trattenute sulla retribuzione spettante al lavoratore in vista del versamento in favore di un soggetto creditore di quest'ultimo. E richiama da un lato Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400, già citata dal ricorrente; dall'altro Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv. 244737. Motivi della decisione 1. La questione posta alle Sezioni Unite è così sintetizzabile: © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 46 "se, in caso di cessione di parte della retribuzione dal lavoratore al suo creditore, integri il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che ometta di versare la quota dovuta al cessionario". 2. La sentenza impugnata ha ritenuto che costituiva appropriazione indebita la condotta contestata all'imputato che, agendo quale legale rappresentante della s.r.l. Cedis, aveva omesso di versare all'istituto finanziario cessionario di quota del credito da prestazioni lavorative della dipendente U., in forza di atto negoziale notificato e accettato dal debitore, le somme di denaro trattenute a tale titolo dalle retribuzioni erogate alla dipendente. Il ricorso contesta tale assunto, sostenendo che il denaro corrispondente alle somme trattenute dal datore di lavoro sullo stipendio della lavoratrice per far fronte al debito di costei, non poteva considerarsi, ancora, di proprietà "altrui". Il datore di lavoro aveva in altri termini assunto soltanto la veste di debitore (ceduto) verso un terzo ed era responsabile di mera inadempienza. 3. Deve rilevarsi che il reato, contestato come commesso da luglio a novembre 2002 e per il quale la sentenza di primo grado è intervenuta il giorno 11 febbraio 2009, sarebbe ad oggi prescritto. Il termine di sette anni e sei mesi, sospeso dal 23 gennaio al 15 maggio 2008 a causa di rinvio del dibattimento per l'adesione dei difensori all'astensione di categoria, cadeva difatti il 23 aprile 2011. La configurabilità del reato è però questione che deve essere comunque risolta a mente dell'art. 129 c.p., comma 2. L'evidenza risultante dagli atti, cui si riferisce tale disposizione, concerne esclusivamente gli aspetti della fattispecie concreta. Postulata la rispondenza della contestazione agli atti del procedimento, la sussumibilità del fatto nella fattispecie astratta è questione di diritto che, per quanto complessa, si risolve nella individuazione del contenuto normativo del precetto penale. E' perciò premessa legale di ogni altra decisione sul processo o sul fatto. 4. Con riguardo alla configurabilità del reato, sia la sentenza impugnata sia il ricorrente evocano, a sostegno delle rispettive contrapposte tesi, Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi, Rv. 229634, propugnando differenti interpretazioni dei principi affermati da tale sentenza in tema di "altruità" delle somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione erogata ai dipendenti. Secondo la Sezione rimettente, nè l'una nè l'altra di tali letture divergenti, che riprendono pregressi orientamenti, sarebbe implausibile, corrispondendo ciascuna a distinti orientamenti che si sono manifestati nella giurisprudenza di legittimità anche dopo la sentenza Li Calzi. 5. Occorre dunque in premessa ricordare che il quesito esaminato dalla sentenza Li Calzi era se il mancato versamento delle trattenute operate, in percentuale, dal datore di lavoro sulla retribuzione in vista del versamento alle Casse edili integrasse appropriazione indebita, ovvero configurasse unicamente la violazione amministrativa prevista dal D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, art. 13, (che aveva sostituito integralmente la L. 14 luglio 1959, n. 741, art. 8). Le Sezioni Unite risolsero il dubbio nel senso che detta condotta poteva configurare esclusivamente la violazione amministrativa. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 47 Osservarono in particolare che, "sia per quanto concerne il caso di specie, che per quanto riguarda le altre analoghe forme di ritenute alla fonte, il denaro trattenuto dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la proprietà di tali somme, ma ha soltanto l'obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d'imposta, di versarle alla Cassa Edile ed agli Enti di Previdenza nella misura ed alle scadenze previste dalle singole disposizioni". 6. Come rileva l'ordinanza di rimessione, prima della sentenza Li Calzi la giurisprudenza di questa Corte aveva numerose volte affermato che le somme trattenute dal datore di lavoro sulle retribuzioni del dipendente e destinate a terzi per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore, erano da considerare parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore quale corrispettivo per la prestazione già resa. La circostanza che tali somme avessero una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente e vincolata al versamento da effettuare entro un termine certo, a garanzia del terzo e del lavoratore, portava a ritenere che esse non "appartenessero" più al datore di lavoro, che, si sosteneva, ne manteneva solo una disponibilità precaria. Da ciò si desumeva che commettesse il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lasciasse trascorrere il termine per il versamento, manifestando con tale omissione la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente disponeva. La stessa ordinanza di rimessione cita come espressioni di tale orientamento Sez. 2, n. 30075 del 27/06/2003, Vecchio, Rv. 226684; Sez. 2, n. 5785 dell'11/02/1999, Visentin, Rv. 213304; Sez. 2, n. 10683 del 12/05/1993, Giallini, Rv. 196734, tutte relative a trattenute per contributi da versare alla Cassa edile. 6.1. In linea con detto orientamento si poneva il filone giurisprudenziale che aveva riguardo all'omesso versamento di somme trattenute per contributi previdenziali e assicurativi e riteneva che il mancato versamento di detti contributi, oltre il termine di scadenza previsto, integrasse il reato di appropriazione indebita. Aderivano tra le altre: Sez. 2, n. 463 del 27/02/1970, Marzano, Rv. 115348, che osservava come nell'effettuare le trattenute di dette somme il datore ne divenga il depositario e altresì come i lavoratori siano tenuti a lasciare nelle mani del datore di lavoro le quote di salario corrispondenti alla parte dei contributi assicurativi posta a loro carico, in forza di un rapporto fiduciario insito al rapporto di lavoro; Sez. 2, n. 3528 del 27/09/1982, Magnelli, Rv. 158589, che escludeva, in particolare, l'assorbimento dell'appropriazione indebita nel reato di omesso versamento di contributi previdenziali, affermando la ravvisabilità del concorso formale; Sez. 2, n. 10339 del 30/03/1987, Ratini, Rv. 176762, sul presupposto che titolare di tali somme dovesse ritenersi il dipendente dal momento del pagamento del salario o dello stipendio sino all'effettivo versamento all'istituto previdenziale. 6.2. Il tema della natura appropriativa della condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, era lambito anche da Sez. U, n. 27641 del 28/05/2003, Silvestri, a proposito della configurabilità dell'art. 2, commi 1 e 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 683, in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione. La conclusione raggiunta, nel senso che il reato non è configurabile a carico del datore di lavoro nel caso di mancata corresponsione della retribuzione ai dipendenti, veniva in tale decisione sostenuta, oltre che sulla base del riferimento testale alle "ritenute operate", sui rilievi: "che il legislatore con il © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 48 D.L. n. 463 del 1983, art. 2, ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, ma il più grave fatto commissivo dell'appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti"; "che quindi l'obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate"; che, "ove così non fosse, la differenza di trattamento tra le due fattispecie sarebbe del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di legittimità costituzionale"; che al contrario "tale differenza di trattamento si giustifica perfettamente se si considera che il legislatore ha chiaramente assimilato il mancato versamento delle ritenute previdenziali e assicurative al delitto punito dall'art. 646 c.p., la cui pena edittale - non certamente per un caso - è assolutamente identica a quella prevista dal D.L. n. 683 del 1983, art. 2, comma 1 bis". A giustificazione di tale ultima asserzione, la sentenza Silvestri si limitava tuttavia a fare rimando alle considerazioni di Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, relativa all'omesso versamento di ritenute operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente, già sanzionato dalla L. 7 agosto 1982, n. 516, art. 2, nella quale si concludeva nel senso che tale condotta non poteva trovare inquadramento e sanzione nell'art. 646 c.p., ma si faceva richiamo, tra l'altro, agli argomenti del Procuratore Generale (riportati in motivazione e dichiaratamente condivisi dal Collegio) il quale a sua volta partiva dalla premessa che occorreva distinguere tra l'ipotesi del datore di lavoro debitore in proprio verso l'amministrazione finanziaria, in relazione alla quale l'omesso pagamento non costituiva appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità, e l'ipotesi del datore di lavoro tenuto al pagamento di un debito altrui, come nel caso di quote di contributi previdenziali trattenute sulla retribuzione, in cui il mancato versamento integrava invece appropriazione indebita. Il riferimento alla "appropriazione indebita" ad opera del datore di lavoro delle somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti per il pagamento di oneri previdenziali, contenuto nella sentenza Silvestri, appare dunque estremamente indiretto, ed assume nell'economia della decisione un valore meramente, per così dire, sostanziale, servendo al limitato fine di sostenere che la condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, istituito dal D.L. n. 463 del 1983, art. 2, era in qualche modo strutturalmente "assimilabile" a quella prevista dall'art. 646 c.p.. La sentenza non affronta difatti il problema della utilità della disposizione speciale nè quello del concorso o dell'assorbimento del reato di cui all'art. 646 c.p., per l'ipotesi in cui la medesima condotta fosse stata da ritenere realmente sussumibile in entrambe le fattispecie astratte. 7. Tutti codesti orientamenti venivano, ad ogni buon conto, considerati nella sentenza Li Calzi. 7.1. A fini di chiarezza, è anzitutto da dire che, in relazione alla specifica questione posta al suo esame, la sentenza individua la natura retributiva delle somme trattenute dal datore di lavoro per il versamento alla Cassa edile, di cui si discuteva. Evidenzia, in particolare, che il meccanismo previsto per il pagamento alla Cassa da parte del datore di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad ottenere da questa la corresponsione delle somme dovute - per ferie, festività e gratifiche natalizie - integra una delegazione di pagamento; la Cassa non diviene obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensì solo con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme stesse; il lavoratore, dal suo canto, può agire nei confronti del datore di lavoro per il pagamento delle somme dovute, essendo titolare di un diritto di credito direttamente azionabile nel caso in cui il datore di lavoro abbia omesso il versamento delle somme trattenute sulla retribuzione. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 49 Sottolinea, quindi, che alle Casse edili non poteva essere riconosciuta natura di enti di previdenza e di assistenza, perchè con la locuzione "gestioni previdenziali ed assistenziali" il legislatore, come pacificamente ammesso, intendeva riferirsi agli enti di previdenza ed assistenza all'epoca esistenti, quali l'INPS, l'INAM, l'INAIL ed altre gestioni speciali autonome; perchè la trattenuta effettuata a favore della Casse edili non ha natura "contributiva previdenziale o assistenziale", ma di salario differito che trovava la sua legittimazione in un accordo contrattuale (sia pure recepito formalmente in un atto avente forza di legge); perchè le Casse edili non svolgono funzioni previdenziali ed assistenziali, ma di intermediazione tra datori di lavoro e lavoratori, secondo gli approdi consolidati della giurisprudenza civile di legittimità. 7.2. Tentando, poi, di mettere ordine nella contraddittoria elaborazione giurisprudenziale in materia di somme a vario titolo trattenute, la sentenza Li Calzi osserva che le sentenze Visentin e Giallini quest'ultima citata con i riferimenti della sentenza Vecchio, di cui ha per altro i medesimi contenuti; v. sopra, al par. 6 non sono condivisibili, perchè l'orientamento in esse seguito non è coerente con il principio affermato per la fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell'erario, in realtà analoga e in relazione alla quale era al contrario già costantemente esclusa la configurabilità del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti sia nei confronti dello Stato, proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla "altruità" delle somme trattenute. Rileva che, se la ragione per la quale è esclusa dalla costante giurisprudenza la "altruità" della somma trattenuta per il versamento all'erario risiede nella liberazione del lavoratore dall'obbligo del pagamento del tributo (Sez. 2, n. 10667 del 26/05/1983, Sdattrino, Rv. 161665; Sez. 2, n. 8780 del 26/05/1983, Francino, Rv. 160823; Sez. 2, n. 9037 del 26/05/1983, Montanari, Rv. 160912; Sez. 2, n. 10437 del 26/05/1983, Carion, Rv. 161553; Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, Rv. 220359), a maggior ragione divrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile (e delle ritenute per contributi previdenziali), atteso che anche in questo caso l'obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la quota spettante al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro. In realtà - prosegue la sentenza Li Calzi -, la posizione del datore di lavoro-sostituto d'imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si è in presenza di un "accantonamento" di una somma determinata di denaro, finalizzata ad un fine determinato, da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite. Siffatte ipotesi - rimarca la sentenza - sono accomunate dalla caratteristica dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore (a retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate ("per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi"), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che "il denaro oggetto dell'appropriazione è rappresentato da una quota ideale del patrimonio del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo". La somma trattenuta o ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro-possessore, non soltanto perchè non è mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perchè mai può esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro. Le "trattenute", perciò, si risolvono "in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione". © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 50 Al contrario - conclude la sentenza Li Calzi - in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti riconducibili all'appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui l'agente si appropria, "non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore", ma vi entrano "ad estrinseco", e con esso patrimonio non si confondono perchè connotati da una vincolo specifico di destinazione; sicchè di tali beni può dirsi che restano di "proprietà" diretta od indiretta di altri, in virtù della deroga - espressamente prevista dall'art. 646 c.p. - ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà delle cose fungibili (Sez. 2, n. 2445 del 17/06/1977, Pomar, Rv. 137092). 8. Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza non sembra tuttavia - come segnala l'ordinanza di rimessione - essersi del tutto sopito. 8.1. Da un lato si pongono, difatti, Sez. 2, n. 768 dell'11/11/2005, dep. 2006, D'Ecclesiis; Sez. 2, n. 16361 del 28/04/2006, Procaccini; Sez. 2, n. 7182 del 25/01/2006, Aloise; Sez. 2, n. 43739 del 13/11/2007, Chiriatti; Sez. 2, n. 47646 del 05/12/2008, Geleardi; Sez. 2, n. 5216 del 19/12/2008, dep. 2009, Rigoni; Sez. 2, n. 10057 del 24/02/2009, Trosini (tutte non massimate); che richiamando la sentenza Li Calzi, hanno escluso la sussistenza dell'appropriazione indebita contestata in fattispecie analoghe a quella oggetto di tale decisione; Sez. 2, n. 15115 del 04/03/2010, Russo, Rv. 249400 (indicata nell'ordinanza di rimessione), che, sempre richiamando la sentenza Li Calzi, ha escluso la sussistenza dell'altruità del denaro, e dunque dell'appropriazione indebita, nell'ipotesi di mancato versamento delle quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti dipendenti dell'imputata, delegata dai lavoratori interessati al versamento di tali quote trattenute sullo stipendio; nonchè Sez. 2, n. 20851 del 21/04/2009, Celona, Rv. 244806, che, sul presupposto che denaro altrui è quello che non fa parte ab origine del "patrimonio" del possessore ma confluisce in esso con un vincolo di destinazione, come affermato dalla sentenza Li Calzi, ha ritenuto che non integra il delitto di cui all'art. 646 c.p., la condotta di corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore rispetto a quella risultante dalla busta paga. 8.2. Dall'altro militano, invece, Sez. 2, n. 8023 del 07/02/2008, La Tona (non massimata) e Sez. 2, n. 23034 del 18/04/2007, Altieri (non massimata), che, occupandosi di contestazioni relative, rispettivamente, all'omesso versamento delle trattenute previdenziali ed assistenziali alla competente gestione dell'I.N.P.S. e all'omesso versamento alla Cassa edile delle somme trattenute a tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, hanno affermato sussistente il delitto di appropriazione indebita, non facendo menzione delle Sezioni Unite Li Calzi, ma rifacendosi invece direttamente agli orientamenti delle sentenze Vecchio, Visentin e Giallini (sopra, par. 6); nonchè Sez. 2, n. 19911 del 18/03/2009, Montanucci, Rv, 244737, (segnalata dall'ordinanza di rimessione) che ravvisa il delitto in questione nella condotta del datore di lavoro che omette di accantonare, e di versare all'INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, sull'assunto che i principi della sentenza Li Calzi, concernenti l'accantonamento di trattenute non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, non riguardavano la fattispecie in esame. 9. Alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza Li Calzi, è però evidente che allorchè le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi in essa affermati non si riferivano all'omesso versamento di somme trattenute in vista dell'adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 51 quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti retributivi, contributivi o d'imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto di non configurabilità dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruità degli importi trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall'esterno nel patrimonio dell'obbligato con tale vincolo di destinazione, ma in quello sin dall'origine comprese. 10. Tanto posto, ritiene il Collegio che non vi sono ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza Li Calzi. La decisione, benchè riferita a fattispecie concreta concernente l'omesso versamento delle trattenute destinate alla Cassa edile, s'attaglia indubbiamente alla situazione oggetto del giudizio a quo, relativa alla cessione di una quota dello stipendio effettuata dalla dipendente prò solvendo a favore di un terzo. La cessione negoziale riguarda, anche in questo caso, una quota della retribuzione che pacificamente eccede i limiti della quota impignorabile, insequestrabile e incedibile, quindi giuridicamente indisponibile o intangibile, della retribuzione; è stata effettuata dalla dipendente all'istituto di credito contestualmente alla anticipazione da parte di questo di una somma per il pagamento di un suo debito; come ogni contratto di sconto, ha comportato il trasferimento della titolarità del credito ceduto - con i privilegi, le garanzie e gli accessori suoi propri - in capo all'ente finanziatore contestualmente all'erogazione dell'anticipazione, indipendentemente dalla notificazione o dalla accettazione della cessione, che, avvenute, hanno semplicemente perfezionato la condizione di opponibilità del negozio al ceduto, rilevante ai fini della sua liberazione all'eventuale atto del pagamento. Nulla consente di distinguere perciò, come già rilevava la sentenza Li Calzi, l'omesso pagamento al cessionario della quota di stipendio trattenuta da quanto versato a titolo di retribuzione al lavoratore, dall'omesso pagamento, integrale e parziale, della retribuzione al lavoratore. In relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del datore di lavoro, specie quando comunque ecceda le quote intangibili, non essendo prevista - ad opera dei datori di lavoro, di alcun tipo - la costituzione, ex lege o volontaria, di fondi o patrimoni separati deputati al pagamento delle retribuzioni, neppure ai limitati fini dell'assolvimento degli obblighi di tutela prescritti dall'art. 36 Cost. Sicchè non v'è modo di configurare, allo stato della legislazione vigente, il delitto di appropriazione indebita (su tale conclusione in relazione al mancato pagamento delle retribuzioni pareva già convenire, peraltro, anche Sez. U, Silvestri). 11. Il Collegio è consapevole delle critiche mosse a questa impostazione nella memoria della parte civile e da quella parte della dottrina, e della giurisprudenza, che biasimano da un lato l'adozione di criteri interpretativi assertivamente improntati a canoni troppo marcatamente civilistici, dall'altro la perdita di vista delle ragioni di tutela proprie del diritto penale. Tuttavia, la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell'altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s'ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 52 12. Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un "termine" che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione "tecnica", dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacchè il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività. Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce "una giustificazione conveniente", per "segni certi", della diversa accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull'interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle "finalità perseguite dall'incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca", come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell'offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004). Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all'individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto. Non può negarsi, all'inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnicogiuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal "linguaggio comune", fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri fini. Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l'appunto tradizionalmente individuati nell'uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di "possesso" e "detenzione", di "altruità" e proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l'esatto equivalente degli omonimi concetti propri del diritto civile. Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d'altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che, come efficacemente ricordato dall'Avvocato Generale nella requisitoria odierna richiamando copiosa giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo (tra molte: sentenze 5 aprile 2011, Sarigiannis c. Italia; 17 maggio 2010, Kononov c. Estonia; 3 novembre 2009, Sujagic c. Bosnia-Erzegovina), costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l'ordinamento obiettivo: anche l'effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati. 12.1. li problema interpretativo di cui si è occupata la sentenza Li Calzi, che è ora riproposto alle Sezioni Unite, concerne in particolare l'individuazione della portata normativa del termine "altrui" impiegato nell'art. 646 c.p., per definire l'oggetto della "appropriazione" penalmente rilevante, posta in essere dal "possessore", su denaro o bene fungibile. Nella struttura della norma la condizione di "altruità" del bene si contrappone dunque a quella di mero "possessore" dell'agente, che, appropriandosene, pone in essere, per usare una definizione usuale, una interversione del possesso. La nozione di altruità non può per conseguenza prescindere, in primo luogo, dalla nozione di possesso. 12.2. Ora, è osservazione unanime, in giurisprudenza e dottrina, che il termine "possesso" è numerosissime volte adoperato nel codice penale con significato del tutto equivalente a quello di "detenzione". La promiscuità dell'uso è particolarmente evidente in tutte le disposizioni che si © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 53 riferiscono ad ipotesi di detenzione o possesso in sè illegali o sanzionati per la provenienza illecita dei beni cui si riferiscono. Parimenti, nell'ambito dei reati che hanno a specifico oggetto la tutela del patrimonio, pubblico o privato che sia, il "possesso" non appare distinguibile, secondo l'esegesi oramai tradizionale, dalla "detenzione", purchè autonoma. I due termini, correlati a quelli di "altruità" e di "patrimonio", lungi dal connotare di significati civilisti le condotte cui si riferiscono, fungono così piuttosto da criteri denotativi, e vanno letti in funzione della delimitazione in negativo, prima ancora che della perimetrazione in positivo, delle condotte incriminate. L'analisi del significato da attribuire nella specifica fattispecie incriminatrice in esame al termine "altrui", riferito a bene fungibile posseduto da altri, richiede, per conseguenza, di considerare altresì le linee di demarcazione tra le varie figure criminose che hanno ad oggetto la tutela del medesimo bene, il patrimonio privato, e i profili di corrispondenza con le fattispecie, analoghe, che concernono il patrimonio pubblico. 12.3. E' egualmente considerazione condivisa che come la sottrazione a chi autonomamente detiene la cosa è elemento costitutivo del furto; così, specularmente, l'autonoma detenzione non derivante da sottrazione integra il possesso rilevante per l'appropriazione indebita. Nella nozione di possesso rilevante per l'appropriazione indebita possono rientrare vari casi di detenzione, ma, perchè resti saldo il confine tra fattispecie, il minimo richiesto è che si tratti di detenzione in nome proprio e non in nome altrui, ossia in virtù di un rapporto di dipendenza con il titolare del diritto (tra molte: Sez. 6, n. 32543 del 10/05/2007, Varriano, Rv. 237175; Sez. 2, n. 4853 del 20/12/1993 Balzaretti, Rv. 197781). E', d'altra parte, significativo (come puntualmente osserva Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Donti, Rv. 246070) che in relazione al peculato, figura omologa all'appropriazione indebita nell'ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, il legislatore, con la riforma del 1990, abbia affiancato nell'art. 314 c.p., alla nozione di "possesso" quella di "disponibilità", così espressamente riconducendo il rapporto dell'agente con la cosa nell'ambito "di un ampio potere autonomo, che gli consenta di disporne, con obbligo tuttavia di rispettarne la destinazione", in linea con l'interpretazione già consolidata in relazione ad entrambe le fattispecie appropriative. 12.4. Parallelamente, proprio la considerazione del denaro, che è bene fungibile per eccellenza, come possibile oggetto dell'appropriazione di cosa altrui, rende palese che il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, nè in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi. Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull'accipiente soltanto l'obbligo di rendere o di impiegare l'equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso. Il riferimento, nell'art. 646 c.p., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente. Deve per altro rammentarsi che se nel diritto civile proprietà e diritti reali consistono nella signoria sulla cosa che si acquista nei modi stabiliti dalla legge, mentre il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale (esercitabile direttamente o per mezzo di chi ha la detenzione), non suscettibile di trasferimento per © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 54 atto tra vivi disgiuntamente dalla proprietà o dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio (Sez. U, n. 7930 del 27/03/2008, Rv. 602815), va da sè che tali nozioni legali interessano poco il diritto penale patrimoniale in generale, e la fattispecie recata dall'art. 646 cod. pen. in particolare, che guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l'esercizio di essi poteri sulle cose. Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l'autonomia dell'accezione con la quale le nozioni di "possesso" o bene "altrui" sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l'ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata e, perciò, la diversità di natura, nell'ambito del diritto civile, dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti. 12.5. Così, nonostante l'ampliamento della nozione di "altruità", nulla consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile. Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un'obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure "vincolata", la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l'inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente - e più lievemente - dall'art. 641 cod. pen., ma esclusivamente nell'ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d'insolvenza. Efficace indicazione per una regolazione di confini proviene da Sez. 2, n. 7770 del 09/02/2010, Di Bernardo (non massimata), laddove osserva che sarebbe irragionevole "assegnare ad una stessa condotta materiale di interversione del possesso una portata differenziata a seconda della natura del bene - fungibile o infungibile - quando è lo stesso testo normativo a parificare sotto questo profilo il precetto, facendo espresso riferimento, quale oggetto della condotta appropriativa, al denaro o ad altra cosa mobile altrui". E' la stessa formulazione normativa, in altre parole, che impone all'interprete di considerare il denaro, al quale l'agente ha dato una destinazione diversa da quella dovuta, come se fosse una qualsiasi altra cosa mobile infungibile. Se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell'inadempiente quando ha assunto l'obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz'altro responsabile con l'intero suo patrimonio per l'inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione nè potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa. Se l'inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell'interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell'art. 646 c.p.. 13. In conclusione, non può che essere ribadito che la regola della acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell'art. 646 c.p.; ma, non ricorrendo alcuna ipotesi di conferimento di denaro ab externo, il mero inadempimento ad opera del datore di lavoro dell'obbligazione di retribuire, con il proprio patrimonio, il dipendente e di far fronte per esso o in sua vece agli obblighi fiscali, retributivi o previdenziali, non integra la nozione di appropriazione di denaro altrui richiesta per la configurazione del delitto di cui all'art. 646 c.p.. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 55 Più in generale, il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l'appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta. Possono indicarsi, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come mezzo per l'esecuzione di una qualche forma di mandato ovvero riscossi dal rappresentante per conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o pegno irregolare o - non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad pompam, cose fungibili - in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l'impiego in fondo patrimoniale separato. Non potrà invece ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia ad obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo. 14. Deve affermarsi per conseguenza che "non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo". 15. L'Avvocato Generale, sulla scorta di considerazioni sostanzialmente analoghe, ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ritiene il Collegio, in aderenza agli argomenti esposti e alla luce dell'imputazione formulata, che la sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste. La formula "il fatto non è previsto dalla legge come reato" va riferita all'ipotesi della mancanza di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato. La formula "il fatto non sussiste" va invece impiegata nel caso di difetto di un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814). L'adozione della prima formula dipende, perciò, dal tenore formale dell'addebito, dalla circostanza cioè che con esso si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima. Mentre, quando il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, occorre adottare la seconda. Se, dunque, al ricorrente fosse stato formalmente addebitato d'essersi appropriato denaro proprio, si sarebbe dovuto dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Poichè gli è stato contestato d'essersi appropriato denaro altrui ("di pertinenza della dipendente", recita il capo d'imputazione), ma sull'erroneo presupposto che le somme da lui trattenute, come datore di lavoro, dallo stipendio della lavoratrice dovessero per ciò solo considerarsi trasferite in proprietà di questa, deve ritenersi che fa difetto nella fattispecie concreta l'elemento dell'altruità del bene, costitutivo della fattispecie astratta di appropriazione indebita. Va dichiarato di conseguenza che il fatto-reato contestato non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste. Si verte nell'ipotesi di truffa quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al fine di impossessarsi del bene e, quindi, l'impossessamento sia una conseguenza della condotta © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 56 fraudolenta; al contrario, quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere successivamente, al solo fine di coprire l'illecito già compiuto, allora si verte nelle diverse ipotesi di peculato o appropriazione indebita. Cassazione penale, Sez. II, 3.5.2011, n. 17106 Svolgimento del processo p.1. Con sentenza del 5/06/2009, la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza pronunciata in data 18/06/2007 con la quale il Tribunale della medesima città aveva ritenuto A.G. responsabile dei reati di cui all'art. 640 c.p. e art. 61 c.p., n. 11, artt. 485 e 380 c.p.. p.2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi: p.2.1. VIOLAZIONE DELL'art. 157 c.p. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto di far decorrere la prescrizione non dal momento in cui l'imputato aveva conseguito il profitto (ossia all'inizio degli anni novanta) ma dal momento in cui le parti offese, scoperta la truffa, lo avevano querelato (ossia in data 1/06/2004); p.2.2. violazione dell'art. 485 c.p. per avere la Corte territoriale attribuito i crismi di scrittura privata ad un documento sfornito di tale qualità in quanto il suddetto documento non conteneva una manifestazione di volontà o l'attestazione della verità di uno o più fatti, non era conosciuto l'autore e non era fornito di attitudine probatoria, contenendo solo un invito a ritirare non meglio specificati mandati di pagamento. p.2.3. VIOLAZIONE dell'art. 380 c.p. per avere la Corte territoriale ritenuto la configurabilità del suddetto reato non rilevando, invece, che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, era necessaria l'instaurazione di un procedimento innanzi all'autorità giudiziaria, quale elemento costitutivo: il che non era mai avvenuto. In ogni caso, il reato avrebbe dovuto essere dichiarato prescritto perchè la data di effettiva consumazione del reato "non può che coincidere con lo spirare del termine ultimo per instaurare il procedimento innanzi all'A.G., verificatesi certamente oltre dieci anni prima della sentenza impugnata (cinque anni dal collocamento a riposo)". Motivi della decisione p. 3. Nella sentenza impugnata, il fatto è descritto nei seguenti termini: " le parti civili, operatori tecnici presso l'Ospedale (OMISSIS), agli inizi degli anni novanta, ritenendo di avere svolto mansioni superiori nell'ambito del rapporto di lavoro con l'Ente, si rivolsero all'avv. Antonio Di Rienzo per avviare un giudizio civile avente ad oggetto il relativo superiore inquadramento. Detto legale accettava l'incarico e riceveva da ciascuna parte la somma di L. settecentomila quale acconto; le parti sottoscrivevano regolare mandato. Dopo alcuni mesi, l'avvocato Di Rienzo convocava gli indicati clienti e presentava loro l'avv. A.G., dicendo che aveva devoluto a questi l'incarico, provvedendo a girargli gli acconti ricevuti; i clienti firmavano un nuovo mandato. Il rapporto con i clienti si protrasse per circa dieci anni, sino a quando, l'avvocato A., incalzato dai ricorrenti, comunicava loro che era stata emessa la sentenza e che questa era favorevole. Di tale presunta sentenza le parti non avevano per lungo tempo notizia malgrado le continue e pressanti richieste. A seguito di ulteriori pressioni dei clienti, l'avvocato A. si indusse ad andare con loro in Pretura dove, a suo dire, il giudice avrebbe dovuto emettere "l'ordine alla ASL di pagare". L'avvocato non fece entrare le parti e poco dopo uscì sventolando un foglio sul quale asseriva esservi l'ordine di pagamento. Ormai insospettiti, i clienti chiedevano di partecipare con insistenza personalmente alle successive attività necessarie alla riscossione, ma invano, perchè con vari stratagemmi e scuse (una bomba nel Tribunale; impedimenti per motivi di salute etc.) il legale si sottraeva sempre agli appuntamenti. Per alleggerire la pressione, essendo ormai trascorsi molti anni, © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 57 il legale offriva a ciascuno un "acconto" di L. 3.500.000 ciascuno a condizione che gli avessero "firmato una carta". I clienti rifiutavano la proposta. Ulteriori espedienti il legale poneva in essere per tacitare i propri clienti fissando un appuntamento presso l'Istituto bancario ove, a suo dire, avrebbero potuto riscuotere i mandati, sennonchè ancora una volta, l'appuntamento fu disdetto per un presunto contrattempo. Però la parte lesa V. si informò dal direttore di banca ed apprese che non vi era alcun mandato di pagamento. Le richieste da parte dei clienti diventavano sempre più pressanti per vedere la sentenza. Vi furono altri appuntamenti andati a vuoto o scuse come l'assenza della segretaria, fino a quando il legale esibì un fax presuntivamente proveniente dal San Paolo Imi con il quale si comunicava che le somme erano state messe in pagamento il successivo (OMISSIS). Le parti lese pretesero che l'avvocato li accompagnasse presso il Banco di Napoli sito nel Tribunale a Castecapuano e, questa volta, mentre erano in fila, il legale confessava che non vi era alcun mandato, che non vi era stato alcun giudizio e che anche il fax era fasullo". La querela venne sporta in data 1/6/2004. p.3.1. Ritiene questa Corte che, sulla base dei (pacifici) fatti così come descritti dalla Corte, non sia ravvisabile il reato di truffa per le ragioni di seguito indicate. La truffa, quanto all'elemento materiale, ruota intorno ai seguenti elementi costitutivi: 1) artifizi o raggiri; 2) ingiusto profitto; 3) altrui danno. Questi tre elementi, essendo la truffa un reato di natura istantanea normalmente vengono in evidenza contemporaneamente: fanno eccezione alla suddetta regola le ipotesi in cui l'ingiusto profitto venga conseguito in un momento successivo agli artifizi o raggiri (ad es. nel caso in cui gli assegni fraudolentemente carpiti alla vittima del raggiro vengano posti all'incasso in un momento successivo: ex plurimis Cass. 24/01/2002 Riv 226745) o in più momenti (ad es. nell'ipotesi di danno agli istituti previdenziali, nel quale caso si parla di reato a consumazione prolungata o frazionata: ex plurimis Cass. 11026/20% riv 231157). E' incontestabile, però, che gli artifizi o raggiri debbono essere messi in atto dall'agente al momento in cui perpetra la truffa ai danni della vittima proprio perchè il suddetto reato è caratterizzato da una ben precisa modalità ossia l'elemento fraudolento (artifizi o raggiri) finalizzato ad indurre in errore la parte lesa, come si desume, letteralmente dall'art. 640 c.p., comma 1 che esordisce stabilendo "chiunque, con artifizi o raggiri inducendo taluno in errore ...". Il che significa che, ove l'agente si impossessi di un bene altrui senza modalità fraudolente, la truffa non è giuridicamente configurabile, nè può assumere rilievo alcuno la circostanza che, in un momento successivo, l'agente faccia ricorso ad artifizi e raggiri finalizzati a coprire la propria precedente illecita condotta. Infatti, non a caso, la giurisprudenza di questa Corte, in modo assolutamente costante, al fine di differenziare i delitti di peculato e di appropriazione indebita dalla truffa, ha chiarito che si verte nell'ipotesi di truffa quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere al fine di impossessarsi del bene e, quindi, l'impossessamento sia una conseguenza della condotta fraudolenta; al contrario, quando gli artifizi o raggiri vengono posti in essere successivamente, al solo fine di coprire l'illecito già compiuto, allora si verte nelle diverse ipotesi di peculato o appropriazione indebita (ex plurimis: quanto all'appropriazione indebita: Cass. 740/1970 Rv. 117150 - Cass. 1899/1968 Rv. 109801 Cass. 1330/1966 Rv. 103332; quanto al peculato: Cass. 2384/1973 Rv. 123658 - Cass. 6753/1997 Rv. 211009 - Cass. 3039/1989 Rv. 183538 - Cass. 17320/2006 Rv. 234133 - Cass. 35852/2008 Rv. 241186). Ora, all'imputato è addebitato il reato di truffa perchè: a) incassò a titolo di onorario somme di denaro dai signori ...; b) pose in essere artifizi e raggiri consistiti "nell'avere incontrato più volte gli stessi al fine di informarli in merito allo svolgimento ed all'esito della causa avviata sul loro © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 58 mandato contro l'ASL Na/(OMISSIS) e nell'avergli fatto credere di avere effettivamente avviato e curato detto procedimento, al quale egli non aveva mai dato corso". Dunque, secondo l'ipotesi accusatoria, l'ingiusto profitto consistette nell'avere incassato gli acconti per iniziare la causa che mai iniziò e gli artifizi e raggiri consistettero nell'aver tenuto una condotta diretta a tranquillizzare i clienti che chiedevano conto dell'esito della causa. Sennonchè, applicando gli enunciati principi di diritto alla concreta fattispecie, è del tutto evidente che: a) nessuna condotta fraudolenta venne posta in essere dall'imputato nel momento in cui i clienti gli conferirono il mandato professionale e gli pagarono un acconto: sul punto il capo d'imputazione nulla dice e la stessa Corte tace non evidenziando alcunchè; b) la condotta fraudolenta venne posta in essere in un momento successivo e cioè quando i clienti cominciarono a chiedere conto dell'esito della causa. Fu allora, infatti, che l'imputato, per coprire la grave colpa professionale in cui era incorso, cominciò a porre in essere artifizi e raggiri finalizzati a tranquillizzare i clienti ed a sviarli, cercando così di rinviare l'inevitabile redde rationem. Ma, è del tutto evidente che, poichè quella condotta fraudolenta venne posta in essere non nel momento iniziale e cioè per carpire il mandato professionale e gli acconti (l'ingiusto profitto con altrui danno), ma in un momento successivo e fu finalizzata al solo scopo di celare ai clienti il danno che era stato loro provocato dalla negligente condotta (non avere iniziato la causa per la quale era stato conferito il mandato professionale), non è ipotizzabile la truffa. Ciò è tanto vero che, come risulta dalla descrizione del fatto riportato nella sentenza impugnata, l'imputato, pur di chiudere la questione offrì a ciascuna delle parti lese la somma di L. 3.500.000. In altri conclusivi termini, la vicenda non ha alcun risvolto penalistico ma va ritenuta solo come un episodio di inadempimento contrattuale del quale l'imputato non può che rispondere solo in sede civilistica. Pertanto, la sentenza, in ordine al suddetto reato, va annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste. p.4. Quanto al reato di cui all'art. 380 c.p., la Corte territoriale ha ritenuto di seguire quella parte - minoritaria e risalente - della giurisprudenza secondo la quale non occorre, per la configurabilità del suddetto reato, la pendenza di una causa: "presupposto del reato di infedele patrocinio (art. 380 c.p., comma 1) è l'esercizio della difesa, rappresentanza ed assistenza davanti all'autorità giudiziaria, intese come oggetto del rapporto di partecipazione professionale e non come estrinsecazione effettiva di attività processuale, per cui ad integrare l'elemento oggettivo del delitto è sufficiente che l'esercente la professione forense si renda infedele ai doveri connessi alla accettazione dell'incarico di difendere taluno dinanzi all'autorità giudiziaria, indipendentemente dall'attuale svolgimento di un'attività processuale e finanche dalla pendenza della lite, giacchè il pregiudizio in danno della parte può concretarsi nella dolosa astensione dalla doverosa attività processuale": Cass. 856/2004 Rv. 230877. Questa Corte, invece, in considerazione del tenore testuale della citata norma che individua la condotta materiale punibile nei casi in cui il patrocinatore arreca nocumento "agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all'Autorità Giudiziaria ...", ritiene di adeguarsi alla giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale "per la sussistenza del reato di patrocinio infedele è necessaria, quale elemento costitutivo del reato, la pendenza di un procedimento nell'ambito del quale deve realizzarsi la violazione degli obblighi assunti con il mandato, anche se la condotta non deve necessariamente estrinsecarsi in atti o comportamenti processuali": Cass. 21160/2009 Rv. 244182 - Cass. 41370/2006 Rv. 235548 - Cass. 6382/2008 Rv. 239436. Di conseguenza, anche per tale capo, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste. p.5. Infondata, invece, deve ritenersi la censura in ordine al reato di cui all'art. 485 c.p. perchè, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte "ai fini della sussistenza del delitto di cui all'art. 485 cod pen., nella nozione di scrittura privata devono essere ricompresi non solo quegli atti che contengono dichiarazioni o manifestazioni di volontà idonee a costituire ovvero modificare diritti e posizioni oggettive, ma altresì tutte le scritture formate dal privato che si riferiscono a situazioni da cui possono derivare effetti giuridicamente rilevanti per un determinato soggetto": Cass. 42578/2009 Rv. 244851. E, non vi è dubbio che il documento formato falsamente © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 59 dall'imputato e consegnato ad una delle parti, contenente un preteso ordine di pagamento a loro favore, integri la fattispecie di cui all'art. 485 c.p. proprio perchè quella scrittura si riferiva ad una situazione (mandato di pagamento) da cui poteva derivare un effetto giuridicamente rilevante per le parti. p.6. In conclusione, essendo addebitarle all'imputato il solo reato di cui all'art. 485 c.p., gli atti vanno trasmessi ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la relativa determinazione della pena. P.Q.M. ANNULLA senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui agli artt. 640 e 380 c.p. perchè i fatti non sussistono RIGETTA nel resto e DISPONE trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la determinazione della pena in ordine al residuo reato di falsità in scrittura privata. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 60 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 61 3) Diffamazione ed intervista Tartufello è parlamentare della Repubblica; un giorno, veniva intervistato da Tiberio, direttore responsabile de “Il Tiberrinus”. Tiberio riportava sul proprio giornale tra virgolette le dichiarazioni di Tartufello: “La procura di Milano è alienata e disturbata mentalmente…è assassina e delinquente molto peggio dei mafiosi che accusa”. Quel numero del giornale vendeva tantissimo, ma Tiberio aveva paura di aver compiuto qualche reato. Tiberio si recava dal legale Michelina. Il candidato, assunte le vesti di Michelina, rediga motivato parere. Possibile soluzione schematica All’inizio si poteva schematizzare il fatto. Successivamente il discorso andava inquadrato nell’ambito del reato di diffamazione ex art. 595 c.p.: Tiberio può essere chiamato a rispondere di tale reato? Tartufello non è punibile in quanto parlamentare, ex art. 68 Cost.; tale circostanza non si trasmette a Tiberio perché a carattere soggettivo (protegge solo i “membri del Parlamento”). Il rapporto tra legittimo esercizio del diritto di informazione, ex art. 21 Cost., e reato di diffamazione è perimetrato da tre criteri che, rispettati, rendono non punibile la condotta; questi sono: -verità, che nel caso in esame è rispettata perché Tiberio ha riportato quanto affermato da Tartufello alla lettera; -rilevanza sociale, che nel caso in esame sussiste perché di interesse della collettività; -continenza delle forme, che sono rispettate nel senso che non vi è un attacco gratuito ed ingiustificato, ma si riporta “tra virgolette” quanto affermato da altri. Alla luce di tali rilievi, pertanto, si può ritenere che Tiberio non sarà punibile per il reato di diffamazione a mezzo stampa. La soluzione che afferma, nel caso in esame, il mancato rispetto del requisito della continenza delle forme è comunque valida. In tema di diffamazione a mezzo stampa, è scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca la condotta del giornalista che riporti dichiarazioni lesive della reputazione di alcuni magistrati della Procura della Repubblica rilasciate in sede di intervista da un autorevole parlamentare, in quanto, ancorché la causa di non punibilità ex art. 68 Cost. non si comunichi dal parlamentare al concorrente, deve, tuttavia, ritenersi operante, in tal caso, la causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen.. L'immunità assicurata ai membri del Parlamento che esprimano opinioni nell'esercizio delle loro funzioni, che configura una mera causa di non punibilità, trova applicazione sempre all'interno degli istituti parlamentari e, in presenza del cosiddetto nesso funzionale, anche all'esterno, ancorché vertendosi in tema di diffamazione, non siano rispettati i tre parametri che devono connotare l'esercizio del diritto di cronaca, il rispetto della verità, la rilevanza sociale e la continenza. Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-11-2010) 25-01-2011, n. 2384 Svolgimento del processo - Motivi della decisione Il GUP presso il Tribunale di Roma ha emesso, in data 13.4.2010, ai sensi dell'art. 425 c.p.p., sentenza di NLP nei confronti di N. A. perchè il fatto a lei ascritto non costituisce reato e nei © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 62 confronti di S.A., M.P., C. A., L.P., Lo.Ni., C.P. G., F.P., Bi.Lu., P.R., Ch.Gi.Ma., B.M. in ordine ai reati loro relativamente ascritti perchè il fatto non sussiste. N.A., all'epoca parlamentare di Alleanza Nazionale, è imputata di diffamazione aggravata e continuata a mezzo stampa in danno di La.Al., procuratore della repubblica presso il Tribunale di Vibo Valentia, per aver rilasciato più dichiarazioni all'agenzia ANSA, dichiarazioni, in ipotesi di accusa, lesive della reputazione del predetto. Sgherri, giornalista dell'ANSA, è imputato del medesimo reato, Ba. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta di S., Co., giornalista del quotidiano (OMISSIS), è imputato di diffamazione a mezzo stampa del La. e del reato ex art. 684 c.p. e art. 144 c.p.p. per aver pubblicato il contenuto di intercettazioni telefoniche disposte nel corso di attività di indagine coordinate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno, L. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta del Co., F., giornalista della (OMISSIS) è imputato di diffamazione a mezzo stampa in danno del La.; del medesimo reato (ma con riferimento ad altro articolo pubblicato sul medesimo giornale) è imputato Lo., nonchè del reato ex art. 684 c.p. e art. 114 c.p.p. (come Co.), C. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta di Fr.e.Loprejato,. B., giornalista del (OMISSIS), è imputato di diffamazione a mezzo stampa in danno del La., P. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta del Bi., Ch., giornalista del (OMISSIS), è imputato di diffamazione a mezzo stampa in danno del La. e B. del delitto ex art. 57 c.p. in relazione alla condotta del Ch.. I fatti sono contestati come commessi nel (OMISSIS). Il GUP ha ritenuto: a) che per N. fosse operante la insindacabilità ex art. 68 Cost. e L. n. 140 del 2003, art. 3, sussistendo il ed nesso funzionale tra la sua attività di parlamentare e le dichiarazioni rilasciate all'ANSA (e "rilanciate" dagli altri giornali), b) che per i giornalisti fosse operante la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca, essendosi, in sintesi, gli stessi limitati a pubblicare stralci delle dichiarazioni (e quindi sostanzialmente di un'intervista) della N., c) che conseguentemente il delitto di omesso controllo da parte dei direttori delle relative testate giornalistiche fosse insussistente, non essendosi verificato l'evento (il delitto di diffamazione) che, con la loro condotta omissiva, essi non avrebbero impedito. Tale decisione è impugnata (con "appello" riqualificato correttamente, nell'ordine di trasmissione, ricorso) dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e con ricorso per Cassazione dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma. Il Primo lamenta che le avventate affermazioni della on. N. hanno certamente leso la reputazione e il decoro del Procuratore della Repubblica presso il, Tribunale di Vibo Valentia. La predetta, in quanto componete della Commissione parlamentare antimafia, non poteva ignorare quali sono le sfere di competenza degli organi giudiziari in campo penale. Conseguentemente non si può non ritenere che le sue immotivate accuse al La. siano state formulate in esecuzione di una precisa volontà denigratoria. Le affermazioni sono non rispondenti al vero. La parlamentare aveva la possibilità e il dovere di documentarsi meglio. La esimente ex art. 68 Cost. non sussiste con riferimento ad affermazioni non rispondenti al vero. Inoltre, perchè possa parlarsi di insidacabilità delle dichiarazioni extra moenia e quindi di nesso funzionale, è necessario, non solo che tra la attività parlamentare e quella svolta fuori vi sia connessione, ma anche che le esternazioni siano vicine nel tempo, cosa che nel caso in esame non si verifica, atteso che le © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 63 dichiarazioni all'ANSA sono precedute da iniziative della on. N. che risalgono al 2003, al 2005 o al febbraio 2006. Altre sono addirittura posteriori (maggio 2007). Quanto ai giornalisti e ai direttori dei relativi quotidiani, non può farsi a meno di rilevare che essi hanno pubblicato notizie false, assorbendo acriticamente le dichiarazioni della N., non sottoponendole ad alcun controllo, assumendo, solo in apparenza, una posizione di neutralità ed equidistanza, ma, in realtà, fungendo da vera a propria cassa di risonanza dei messaggi denigratori che la parlamentare ha lanciato nei confronti del La.. Certo poi non si può parlare di diritto di critica in quanto la critica deve pur trovare riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale. Anche nel prosciogliere alcuni giornalisti dal reato ex art. 684 c.p. - art. 114 c.p.p. il GUP ha violato la legge, confondendo il momento in cui il contenuto delle intercettazioni, in quanto reso noto alla difesa, cessa di essere processualmente coperto, con il momento in cui esse possono essere pubblicate sulla stampa. Il Procuratore generale deduce violazione di legge in quanto il &UP sostiene che le esternazioni della on. N. non sarebbero state dirette a screditare il La., per poi aggiungere che le stesse, a ogni buon conto, sono "coperte" da collegamento funzionale con l'attività parlamentare della predetta. In realtà, non possono farsi rientrare nella prerogativa della insindacabilità le dichiarazioni che possano vantare un collegamento meramente soggettivo, in quanto semplicemente poste in essere da un soggetto che è parlamentare. Le dichiarazioni della N. poi non rispondono alla obiettiva verità dei fatti e dunque non possono neppure ricondursi al legittimo esercizio del diritto di critica. Il GUP trascura di ricordare che le indagini gestite per competenza ex art. 11 c.p.p. dalla Procura Repubblica Salerno sono state originate da una lunga e complessa attività di accertamento iniziata proprio dalla Procura Repubblica Vibo Valentia e che dunque non si può accusare quel Procuratore di inerzia o peggio di collusione con chicchessia. Stesse considerazioni devono essere fatte sui giornalisti, i quali non possono invocare la scriminante del diritto di cronaca, atteso che il cronista non può limitarsi a riportare le affermazioni del parlamentare, senza operare i doverosi riscontri e accertamenti. Entrambi i ricorsi sono infondati e meritano rigetto. L'art. 68 Cost. (e la L. n. 140 del 2003, art. 3) non introducono nell'ordinamento una causa di giustificazione, ma una mera causa di non punibilità (ASN 200815323-RV 239481; ASN 200743090-RV 238494, contro ASN 200638944-235332). Dunque la insindacabilità parlamentare trova applicazione sempre all'interno degli istituti parlamentari e, in presenza del c.d. nesso funzionale, anche all'esterno, anche se, in tema di diffamazione, non vengono rispettati i tre parametri che, per jus receptum, devono connotare l'esercizio del diritto di cronaca (e, con qualche precisazione, anche di quello di critica): il rispetto della verità, la rilevanza sociale e la continenza. Non è dunque esatta l'affermazione contenuta nel ricorso del Procuratore della Repubblica, in base alla quale l'esimente ex art. 68 Cost. non si applica alle espressioni non rispondenti al vero. E ciò non perchè il parlamentare abbia il diritto di mentire (nel nostro ordinamento tale "diritto" è riconosciuto, entro certi limiti, solo all'imputato), ma perchè ha diritto di non esser perseguito anche se ha mentito e se, mentendo, ha diffamato taluno; sempre, si intende, che ciò abbia fatto nell'esercizio delle sue funzioni. Per tale ragione, la causa di non punibilità predetta è stata accostata alla c.d. immunità giudiziale ex art. 598 c.p., immunità strettamente funzionale al libero esercizio del diritto di difesa (come l'altra è funzionale all'esercizio della attività parlamentare intra moenia e, in determinate condizioni, anche extra moenia). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 64 Se dunque l'on. N. ha, nella sua denunzia, sovrapposto i ruoli di PM e di GIP, ciò è un fatto davvero singolare, provenendo le affermazioni da una componete della Commissione antimafia, da una persona la quale, dunque, dovrebbe avere ben presenti le distinzioni e le attribuzioni tra i vari uffici giudiziari, ma, che si tratti di errore o di callida e dolosa "confusione" che ha generato discredito per il Procuratore di Vibo Valentia, la cosa resta penalmente irrilevante, se "coperta" dal dispositivo dell'art. 68 Cost.. Al proposito, il GUP ha ritenuto la sussistenza del c.d. nesso funzionale tra la attività svolta dalla N. all'interno degli organismi parlamentari e quella veicolata verso l'esterno, anche attraverso interviste rilasciate a più di un giornalista. E' rimasto accertato in punto di fatto (non è negato neanche dai ricorrenti) che nel 2006 e negli anni precedenti (come in quelli successivi) la predetta parlamentare si era occupata diffusamente delle problematiche inerenti la gestione degli Uffici giudiziari in Calabria, anche in relazione all'arresto di un magistrato, presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia, per sospette collusioni con ambienti mafiosi. Al proposto il GUP rileva che la N. lancia accuse piuttosto generalizzate sugli uffici giudiziari di Vibo, addossando (con una qualche approssimazione "tecnica", evidentemente) alla Procura la responsabilità di alcune archiviazioni e della quasi completata restituzione a un boss di ndrangheta di un immobile sequestrato tempo prima. Emerge dagli atti che la predetta parlamentare, in data 9.2.2006, aveva presentato interrogazione al Ministro della Giustizia per conoscere per qual motivo fossero stati restituiti, un mese dopo il sequestro, beni a un capomafia, in base a un "cavillo giuridico". In altra occasione, la parlamentare espresse il suo sconcerto per il fatto che tale Ma.Pa., "personaggio" evidentemente di rilievo, era stato ricoverato, lasciando il carcere, in ospedale e autorizzato a recarsi a visita odontoiatrica. La N. poi accusa la Procura di Vibo di avere ottenuto scarsi risultati pratici e di non contrastare con efficacia la ndrangheta, rilevando che la Procura di Catanzaro, "lavorando sugli stessi documenti" archiviati da quella di Vibo, aveva fatto emergere fatti penalmente rilevanti. Sulla base di tali elementi, il giudicante ha ritenuto, si diceva, la sussistenza del nesso funzionale tra la attività intra e quella extra moenia della parlamentare predetta. L'assunto, a ben vedere, non è efficacemente contrastato dagli impugnanti. Il primo di essi, dopo la irrilevante notazione sulla non veridicità (rectius. non precisione) delle dichiarazioni della N., aggiunge che la attività parlamentare "connessa" a quella extra parlamentare sarebbe troppo risalente nel tempo (ma trattasi di valutazione manifestamente infondata, avendo, come si è premesso, la N. da lungo tempo e, almeno, fino a tutto il 2007 insistito in Parlamento su questi temi). Il secondo rileva che proprio a seguito dell'input investigativo proveniente dalla Procura di Vibo, altro ufficio del PM (quello di Salerno) era stato in grado di sviluppare concludenti indagini. Conseguentemente, conclude, accusare il Procuratore calabrese di inerzia o collusione costituisce attività diffamatoria. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 65 Il che, osserva questo Collegio, ben può esser vero, ma, in tal caso, per il motivo sopra anticipato (operatività dell'art. 68 Cost.), senza alcuna conseguenza penale. Quanto alla attività dei giornalisti, il giudicante ritiene correttamente che essa sia scriminata in base al diritto di cronaca. Riportare e diffondere attraverso i media le dichiarazioni di un'autorevole parlamentare su fatti di indubbia rilevanza costituisce, in base all'arresto giurisprudenziale di cui SS.UU. sent. n. 37140 del 2001, ric. Galiero, RV 219651) esercizio, appunto, del diritto di cronaca. Sostengono i ricorrenti che i giornalisti avrebbero svolto funzione di "cassa di risonanza" per le denigratorie affermazioni provenienti dalla N., non avendo assunto la doverosa posizione di neutralità che la giurisprudenza richiede. Trattasi però di affermazione apodittica che i ricorrenti non ancorano ad alcun dato fattuale. Dunque, se è pur vero che la causa di non punibilità ex art. 68 Cost. non si "comunica" dal parlamentare al concorrente (e certo non al giornalista che diffonda sic et simpliciter la notizia diffamatoria sui mezzi di informazione: cfr. ASN 200743090-RV 238494, oltre alla già ricordata ASN 2OO815323-RV 239481), non di meno il "diffusore mediatico" deve ritenersi operante in presenza di una causa di giustificazione (diritto di cronaca) se la pubblicazione della notizia avviene con le modalità dell'intervista, come individuate dalla ricordata pronunzia delle SS.UU. Quanto al reato ex art. 684 c.p. e art. 144 c.p.p., la relativa condotta deve ritenersi insussistente, se è vero, come è vero, che i giornalisti appresero le notizie, non direttamente dalle fonti processuali, ma indirettamente, attraverso la interrogazione parlamentare della N.. Poichè poi i delitti commessi col mezzo della stampa, rappresentano l'evento del delitto omissivo ex art. 57 c.p., consegue che in assenza dei primi, non può ritenersi realizzato il secondo (tra le altre: ASN 200319827-RV 224404). P.Q.M. Rigetta i ricorsi. L'immunità assicurata dall'art. 68 Cost. ai membri del Parlamento che esprimano opinioni nell'esercizio delle loro funzioni non si estende al direttore del giornale che non abbia impedito la pubblicazione della notizia diffamatoria coperta dalla detta immunità, la quale non integra una causa di giustificazione estensibile al concorrente ma costituisce una causa soggettiva di esclusione della punibilità della quale non può giovarsi il compartecipe privo della medesima guarentigia. Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-03-2010) 08-04-2010, n. 13198 Svolgimento del processo 1 - Il 26.11.07 B.M. era stato assolto, ai sensi art. 530 c.p.p., comma 2, perchè il fatto non sussiste dal Tribunale di Milano per il delitto di cui agli art. 57 e 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13. Il delitto gli era imputato nei confronti dei magistrati C. G. e L.F.G., quale direttore responsabile de " (OMISSIS)", per la pubblicazione in data (OMISSIS) di un articolo a firma di I.R. ( L.), dal titolo " (OMISSIS)" e sottotitolo " (OMISSIS)Ultimo(OMISSIS)". © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 66 Non si era invece proceduto contro I., parlamentare, ai sensi dell'art. 68 Cost., comma 1 per decisione del Senato (e, come rammenta il ricorso, perchè di seguito la Corte Costituzionale con ordinanza n. 253/07 dichiarava improcedibile il conflitto di attribuzione sollevato dal GIP). 2 - La Corte di appello, su impugnazione del Procuratore della Repubblica, del Procuratore Generale e delle Parti Civili ha invece condannato B. alla pena sospesa di m. 4 ree. ed in solido con la Società Europea Edizioni spa, responsabile civile, alla somma a titolo di riparazione di Euro 5.000 ed al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 50.0000 a favore di ciascuna Parte. La sentenza, seguendo i dettagliati motivi di appello, ritiene anzitutto che il Tribunale abbia erroneamente limitato la valutazione alla condotta dell'articolista, senza tener conto di quella del direttore, che è colposa per inosservanza di legge. Ritiene quindi che lo stesso Tribunale non abbia considerato l'intero articolo, scomponendolo in quattro episodi e delimitando l'analisi ad alcune frasi, da cui ha tratto ragione di giustificazione dell'articolista, perciò scriminando il direttore. Spiega che già il titolo supporta la tesi della situazione conflittuale tra magistrati e carabinieri. Ricostruisce che l'articolo da corpo anzitutto ad un giudizio negativo sulle persone di L.F. e P. per il silenzio (sei mesi) su un dossier consegnato a F. in partenza per (OMISSIS) dal cap. D.D. e sul coinvolgimento di tutti i partiti politici in questo "caso dimenticato". E prosegue circa " D.M. B. lasciato libero di colpire", a fronte del fatto che i militari che avevano ascoltato Ba. avevano smontato la tesi di Bu. e della Procura sulle responsabilità di A., come riferito dall'infamato e suicidato maresciallo L.A.. Quindi si occupa delle indagini nei tentati processi contro il col. D.D., fidato di F. ed il ten. C., collaboratore principale di Bo. (la cui vedova, quando lo incriminarono, avrebbe detto: "è come se uccidessero P. per la seconda volta"), il col. M.G. che aveva intercettato le telefonate di D.M. e persino il cap. D. C.S. ("(OMISSIS)"). Va avanti con "la storia dei 19 giorni concessi a Cosa Nostra dagli uomini che catturarono il boss" che fa preciso riferimento al "giochino che la Procura mette in scena da dieci anni: io ti iscrivo nel registro degl'indagati... tu resti mascariato... ti tengo sulla graticola., e continua a sputtanarli", ma si tratta di "giocattolo rotto". Ne desume che, operando una ricostruzione dal '91, l'articolo formula gravissime accuse contro C. e L.F., distorcendo i rapporti tra carabinieri e procura di Palermo, narrati come "una guerra ai carabinieri che non è mai finita", dimostrata dalla "persecuzione del generale M.M.". Ed attribuisce ai magistrati il deviazionismo dai doveri istituzionali (riferisce di 44 nomi di politici ed imprenditori non disturbati, di dossier scremati e di "stracci rimasti", di "cani attaccati" al collaboratore di giustizia D.M., lasciato a commettere omicidi), tant'è che, rivolgendosi al Ministro della Giustizia, al Governo, al Parlamento, al CSM, di "intervenire per far cessare questa vergogna e per liberarci per sempre da questi professionisti dell'antimafia". Rileva quindi che esso è corredato da una fotografia, del Generale M. fuori di edificio con l'insegna "Comando Generale della Guardia di Finanza", con didascalia a fini evocativi di altra Arma, che riprende l'accusa di guerra ai carabinieri con intento suggestivo. In questa luce, ritiene superato il confine di continenza, per la scorrettezza delle espressioni usate, quindi lo sconfinamento nel riferire opinioni ed operane ricostruzioni che trascendono nella gratuità aggressione della sfera morale altrui. Rimarca che il Tribunale ha travisato l'effettiva valenza del tenore espressamente allusivo con accostamenti immotivati anzitutto circa la vicenda del dossier mafia - appalti con la "quasi Incriminazione" del gen. M. e del col. D.D. da parte di C., sottolineando che, disposta in proposito archiviazione, le indagini erano riaperte dopo la morte di F. da Bo.Pa. che si riuniva segretamente nella caserma con i due ufficiali. L'accostamento vuoi far intendere quasi la condanna a morte dei magistrati della procura nei confronti dello stesso Bo. (pure © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 67 già il Tribunale rilevava C. sopraggiunto nel '93 e l'interrogatorio di M. connesso alla ritardata perquisizione del covo di R.). Il termine "suicidato" riferito al m.llo L. fa passare per assassini i magistrati ed è congiunto al rilievo che, poichè escono subito dalle carceri i mafiosi che si pentono, "di questo passo... finirà che nelle carceri ci saranno più carabinieri che delinquenti". L'asserto che D.M.B. lasciato libero di "ricostruire la cosca", sicuro d'impunità, perchè aveva "i cani attaccati", cioè i magistrati, si sposa con l'espressione riferita da S. "è provato" ( D.M. aveva accusato A.), per dimostrare la condotta deviata dei magistrati. Ciò posto, rileva che l'articolo ripropone vicende già trattate da J., eletto nel 2201, nel (OMISSIS) " (OMISSIS)", già oggetto di numerosi giudizi, definiti con sentenze irrevocabili di condanna, prodotte ed utilizzate quali parametri di riferimento. Ed infine si sofferma sulla vicenda dei procedimenti contro il ten. C. ed il ten. col. Me., per rimarcare, anche a stregua di documenti prodotti dalla p.c. L.F. in giudizio, una confusione del Tribunale sui tempi e la intempestività di comunicazioni relative a confidenze di S. e sull'episodio relativo alla cattura di R. con il perchè del procedimento contro M. e D.C. per il ritardo nella perquisizione (v. sopra). Sottolinea che l'espressione usata in proposito, "giochino rotto", induce il lettore a sospettare un fine oscuro e gravemente diffamatorio, in quanto lascia intendere disonestà intellettuale ed istituzionale. Esclude rilievo all'obiezione difensiva che nella specie il direttore non poteva esercitare il contrito sull'operato di un parlamentare, perchè è alla sua veste di giornalista che bisogna por mente. E sottolinea le ragioni di colpa di B., che doveva bene essere avvertito circa il personaggio e le condanne da lui riportate. Infine opera le quantificazioni e ritiene estensibile la riparazione pecuniaria di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 12 per ragioni storico - sistematiche al direttore responsabile. 3 - Il ricorso (Avv. Lo Giudice) denuncia: 1 - ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, l'esercizio di une potestà riservata dalla legge ad organi legislativi (la definitività della decisione del Senato, rimarcata nell'ordinanza della Corti Costituzionale n. 253/57 d'improcedibilità del conflitto, impone dichiararsi non doversi procedere anche nei confronti dell'imputato); - art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, violazione art. 68 Cost. e L. n. 140 del 2003, art. 3; art. 59, 51 e 57 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 in ordine alla sussistenza del reato di omesso controllo (la Corte d'appello non poteva pronunciarsi contro B., concludendo che "non esiste il diritto di offendere", data la connessione dell'opinione all'esercizio della funzione parlamentare - 7. Cass., Sez. 5^, n. 38944/06, Sgarbi - che fa venir meno l'illiceità del reato presupposto che costituisce l'evento, sicchè non può ritenersi l'omesso controllo); vizio di motivazione sotto i tre profili previsti nella lett. e; 2 - art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, in relaz. art. 68 e art. 3 Cost. e L. n. 140 del 2003, violazione artt. 51, 57 e 59 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 13 per erronea esclusione della sussistenza della scriminante anche sotto il profilo dell'esercizio del diritto di cronaca, posto che, la L. n. 140 del 2003, art. 3 in attuazione del disposto costituzionale ha specificato l'insindacabilità (ispezione, divulgazione, critica, denuncia politica connessa alla funzione anche fuori del parlamento). Inoltre la sentenza si contraddice, in quanto pur ritenendo non consentita una censura preventiva del direttore responsabile, si appoggia alle caratteristiche del personaggio (pg. 46), che appunto esercitava la sua funzione extra moenia; 3 - violazione delle norme penali suindicate e vizio di motivazione, in relazione all'esercizio del diritto di cronaca e critica - violazione art. 27 Cost. - travisamento dei fatti. La sentenza non spiega perchè il contenuto dell'articolo sia da ritenersi falso, perchè si ritenga omesso il controllo, perchè sarebbero diffamatori titoli e sottotitoli ed il risalto dell'articolo (dato in sè neutro) dovrebbe intendersi sintomo di illiceità. Difatti non si rapporta alle emergenze documentali ampiamente visitate nella sentenza di 1 grado (il motivo trascrive i brani rilevanti della stessa sentenza circa dossier D. D. ed indagine mafia - appalti; processo A. e suicidio del maresciallo dei Carabinieri L.A.; ritardato arresto di D.M.B.; arresto di R.T. in data 15.1.93 e perquisizione ritardata di diciannove giorni del suo covo). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 68 Per tal via la sentenza riformata ha dimostrato anzitutto che i procedimenti sono stati effettivamente instaurati ed ha concluso che la presa di posizione di I. è ancorata a fatti di storia processuale. Inoltre è gratuita la valutazione d'incontinenza (v. gli accostamenti stigmatizzati, di cui il motivo offre diversa lettura, e la sostenuta "allusività", concetto non riconoscibile, di titoli ed immagini) mentre non tiene conto che al ruolo ed ai maggiori poteri del criticato corrispondono maggiori responsabilità e quindi assoggettamento a penetrante attività di controllo dei cittadini, anche attraverso il diritto di critica (Cass. Sez. 5^ n. 11662/07, I.), sino a travisare che il titolo incentrato sulla parola "scontri" non è per nulla evocativo del "deviazionismo dai doveri istituzionali" che vi legge la Corte); 4 - violazione artt. 187, 521 e 533 c.p.p., perchè la sentenza esorbita dai fatti che si riferiscono all'imputazione per giungere a ritenere quasi un vilipendio delle istituzioni, incentrandosi sul titolo la cui lettura fa leva sul metro irriconoscibile del lettore frettoloso, senza por mente al dovere di dimostrare l'omesso controllo ogni ragionevole dubbio; 5 - violazione artt. 62 bis, 69, 132 e 133 c.p., erronea applicazione della pena e del bilanciamento delle circostanze - vizio di motivazione (l'omessa considerazione della natura dell'articolo ha condotto all'eccesso nella scelta della pena detentiva, travisando, la diffusione dell'opinione legittima del parlamentare, pur prima riconosciuta e travisando la natura colposa in rapporto anche al giudizio di equivalenza); 6 violazione artt. 57 e 185 c.p., artt. 1123, 1227, 2059 e 2043 c.c., L. n. 47 del 1948, 12 - vizio di motivazione in ordine alla liquidazione del danno ed alla riparazione pecuniaria, per omessa motivazione sulla quantificazione del danno non patrimoniale (cfr. Cass., S.U. civili, n. 26972/08), peraltro da rapportarsi alla specifica condotta dell'imputato (colposa) mentre la riparazione (Cass. pen., Sez. 5^, n. 1188/02 e Cass. Sez. 3^, civile n. 17385/07, è meramente accessoria al reato di diffamazione a mezzo stampa e non concerne perciò il direttore r. ed il responsabile civile). 4 - Al ricorso le P.C. (Avv. prof. C. Smuraglia) hanno fatto seguire memoria di replica. Motivi della decisione 1 - Il 1 motivo di ricorso è infondato. Anzitutto, deducendo ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a, travisa che la Delib. del Senato, divenuta definitiva per decisione della Corte Costituzionale, giusto l'art. 68 Cost., comma 1 e L. n. 140 del 2003, art. 3 ha escluso bensì che il suo membro I., che aveva redatto l'articolo, potesse essere chiamato a rispondere, affermandone l'opinione espressa nell'esercizio di funzione parlamentare, ma non che potessero esserlo altri, che non erano membri del parlamento. Pertanto il Giudice di appello, pronunciandosi nei confronti del ricorrente B., direttore del quotidiano che aveva pubblicato l'articolo, cui non si riferiva e non poteva riferirsi la preclusione, non hai all'evidenza esercitato una potestà riservata dalla legge al Senato della Repubblica. Argomentando oltre, il ricorso fa riferimento a sentenza di questa Corte, n. 38944/06, che aveva ritenuto l'esimente di cui all'art. 68 Cost. estensibile al direttore di una trasmissione televisiva, imputato di concorso nel reato di diffamazione commesso da un parlamentare. Ma perciò, deducendo il mancato rispetto della legge, sì rifa a principio non condivisibile. Va premesso che le funzioni parlamentari si esercitano mediante manifestazioni di pensiero che, vite a scelte politiche, rispondono all'interesse collettivo. Per questa ragione l'art. 68 riserva, come elevato, l'esenzione alla persona munita della qualità di parlamentare per le sole opinioni espresse ed i voti dati nell'esercizio delle sue funzioni. E l'esenzione ha natura processuale. Il suo fondamento sostanziale, difatti, non concerne il tenore dell'opinione. Ma è ispiralo alla necessità di sottrarre le determinazioni dei parlamentari al condizionamento implicato dal processo per l'offesa © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 69 arrecata al diritto dei singoli. Come tale non si correla alle modalità di esercizio della libertà di manifestazione di pensiero, riconosciuto a "tutti" dall'art. 21, perciò anche al parlamentane quale cittadino. La libertà di manifestazione invece non preclude il processo, perchè trova limite inderogabile nel rispetto del diritto del singolo, che può agire in giudizio per la sua tutela (art. 24). E se l'offesa dipende dal fatto costitutivo di reato, il pubblico ministero è tenuto per Costituzione (art. 112) ad esercitare l'azione penale. Ne segue che il parlamentare, che non risulti aver espresso opinione nell'esercizio immediatamente riconoscibile della sua funzione, può essere convenuto o imputato. Proprio per questa ragione la L. n. 140 del 2003 attuativa dell'art. 68 Cost. attribuisce a ciascuna Camera parlamentare il riconoscimento che l'Opinione risulta espressa da un proprio membro nell'esercizio della sua funzione, ed all'uopo prevede ambiti funzionali anche fuori del Parlamento ("extra moenia", come ritenuto dal Senato nella specie). Ma non autorizza perciò la stessa camera a deliberare l'esenzione di persone che non ne siano membri, meno che al giudizio sull'offensività dell'opinione o a ravvisare, secondo legge comune, una causa di non punibilità. Tanto spetta al giudice che, se la Camera lo travisa, può sollevare conflitto di attribuzione. Conclusivamente la delibera di esenzione da responsabilità del parlamentare non è estensibile a soggetto diverso e non esclude il reato o la punibilità, cosa che solo il giudice che applica la legge che concerne l'esercizio della manifestazione di pensiero da parte di tutti può stabilire. tanto premesso, l'analisi delle norme penali dimostra irrilevante che a B., quale direttore responsabile, non sia stata attribuita ai sensi dell'art. 110 c.p. l'azione atipica di contributo doloso all'offesa cagionata, azione che sarebbe stata comunque sua, ancorchè concorrente con quella tipica dell'autore dell'articolo, perchè assorbente dell'omissione qualificata da cui è scaturito l'evento. Difatti, il fatto di non aver impedito la pubblicazione dell'articolo offensivo integra per sè, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p., l'estremo obiettivo di reato autonomo (come riconosce infine il ricorso). Ha la questione non si pone già in caso di concorso perchè, si è detto, seppure la disposizione dell'art. 68 Cost. ha un fondamento sostanziale nell'interesse collettivo, come ria rammentato la Corte Costituzionale (v. citazione nella sentenza di questa Corte di cui oltre), si connette alla qualità di chi esercita una funzione parlamentare. Pertanto l'esenzione cui all'art. 68 Cost. non si comunica ai sensi dell'art. 119 cpv. c.p. ai concorrenti, perchè non è oggettiva, ma soggettiva (comma 1), sicchè non esclude il disvalore del fatto, ma solo la responsabilità del parlamentare, In sintesi, per quanto interessa, l'esenzione di cui all'art. 68 Cost., è sicuramente esclusa nel caso dell'art. 57 c.p., come puntualmente già spiegato in sentenza di questa Corte (Sez. 5^, n. 15323/08, P.C. Rutelli in proc. Cervi), che si pone in contrasto con quella citata dal ricorso. 2 - Il ricorso trascina l'errore sull'esenzione, nei motivi che concernono la motivazione, con travisamento di due aspetti che esigono distinte premesse. La prima è quasi ovvia. Pur condividendo l'opinione di una parte politica e persino qualificandosi organo di stampa di un partito, che serva ai suoi parlamentari per esprimere opinioni virtualmente traducibili in leggi dello Stato, qualsiasi quotidiano non diviene strumento legale della funzione istituzionale, ma resta libero mezzo di diffusione di notizie ed opinioni. Perciò è evidente che altro è la divulgazione a mezzo stampa della notizia dell'opinione pubblicamente espressa da un parlamentare, altro la pubblicazione della stessa opinione offerta al quotidiano, intervistato o autore dell'articolo che sia. In quest'ultimo caso, se l'articolo non si © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 70 contiene nei limiti del rispetto dei diritti delle persone, benchè l'autore dell'opinione sia poi esentato dal processo, il direttore responsabile risponde della pubblicazione. L'altra concerne il controllo del metodo adottato dal Giudice nelle sue valutazioni. Svolgendo minuta analisi (v.r.), la sentenza spiega che l'articolo opera una complessa rappresentazione di fatti avvenuti in lungo arco di tempo che, attribuiti a persone determinate, costituiscono premessa per giudizi sulle loro qualità, culminanti in attribuzione di assoluto disvalore. La motivazione da all'uopo conto dei dati e dei criteri adottati per valutarli (art. 192 c.p.p.). La censura di motivazione è manifestamente infondata circa l'offensività dei riferimenti dell'articolo, al di là di alcune sottolineature che fanno grazia del senso che il Giudice ha tratto dal contesto. Il tema ammissibile si confina dunque nella verifica del rispetto dei limiti della scriminante dell'esercizio del diritto, di cronaca o critica che sia. E va anzitutto rammentato che essa è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico ed infine la continenza nel darne notizia o commentarli. La questione a prima vista si complica nel caso di commistione delle notizie con i commenti. La cronaca ha per fine l'informazione, perciò consiste nella mera comunicazione delle notizie. Ma se il giornalista, pur nell'intento di darne compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione. Se poi l'insieme sfocia in giudizi espressi, è all'evidenza impossibile confinare l'articolo nella cronaca. E la commistione tra cronaca e critica pone l'autore dell'articolo sul piano dello storiografo. In tal caso, il controllo sul rispetto dei limiti nell'esercizio del diritto, se da un lato richiede il riferimento al parametro di veridicità della cronaca, per stabilire se l'articolista abbia operato corretta premessa per le sue valutazioni, dall'altro implica quello di continenza ed interesse sul metro delle valutazioni che sono il fine dell'articolo. Tanto spiega, senza bisogno di particolari riferimenti giurisprudenziali, la riconoscibilità dell'adozione da parte del giudice chiamato a decidere del criterio di allusività, per la censura d'incompiutezza delle premesse dei fatti, intorno ai quali risulta espressa opinione. E spiega anche quella del criterio di strumentale accostamento delle notizie, se i fatti non risultino per sè legate in termini storici. Spiega finalmente la necessità di interpretare le parole adottate in senso traslato (v. oltre) con riferimento al contesto espositivo. Questo metodo è in effetti speculare a quello che implicitamente la legge richiede al direttore responsabile, per decidere la pubblicazione di un articolo del peso di quello in discorso. Perciò ne dimostra la colpa, se il mancato impedimento perciò rilevato dimostra il suo gratuito affidamento. Tanto premesso la censura del rilievo in motivazione dell'affidamento nella specie operato dal direttore all'articolista parlamentare travisa che, definendo I. "personaggio", vuoi dirlo all'evidenza già noto anche e proprio per l'opinione che esprimeva nell'articolo. Olfatti la sentenza spiega che B. avrebbe dovuto porre attenzione alla complessità dell'articolo di chiara valenza polemica che si apprestava a pubblicare, viepiù che I. aveva già divulgati lo stesso tema e che le divulgazione era già oggetto di processo. Nè poteva apoditticamente escluderne l'offensività, per la qualità di parlamentare intanto assunta dell'autore. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 71 Il motivo perciò giunge ad offrire paradossalmente sostegno alla sentenza. Se difatti la qualità assunti avrebbe potuto esentare l'autore dell'articolo de un processo, l'aggio su tale qualifica da parte del direttore responsabile della pubblicazione, men che offrirgli analoga esenzione, ha proprio consentito al giudice di ritenerne logicamente grave l'inosservanza dei suoi obblighi di legge. Il 3 motivo è inammissibile, anzitutto perchè manifestamente infondato. Sull'erronea premessa del motivo precedente, travisa che il riferimento all'instaurazione incontestata di procedimenti da parte dei magistrati, tra cui i querelanti (peraltro con sottolineate imprecisioni di persone e tempi), proprio per le allusioni o gli accostamenti, risulta al Giudice di merito diretta a prospettare un loro "disegno", cui le loro singole operazioni giudiziarie sarebbero strumentali. Nè tanto si può escludere, offrendo nel ricorso specifici contenuti all'interpretazione del Giudice d legittimità secondo diverso criterio, o confinando il loro tenore nell'esercizio del diritto di cronaca, se è dimostrato evidente già dai titoli e dal contesto cui la sentenza dedica particolare attenzione. Proprio attraverso specifici rilievi, metodologicamente irreprensibili, checchè abbia ritenuto il Tribunale, la sentenza dimostra l'esposizione dei fatti strumentale alla qualificazione come "giochino" e "giocattolo rotto" l'operato dei magistrati (e v. l'analisi del testo per dimostrare il senso accentuativo dei traslati anche dialettali), sino a giungere ad accusarli di "deviazionismo dai doveri istituzionali". Ha desunto quest'ultima grave accusa proprio dall'offerta nell'articolo di espressioni metaforiche che, per definizione, richiedono attribuzioni di significato, tant'è che il ricorso ne propone di proprie, senza perciò stesso dimostrare erronee quelle della sentenza, che lo ha fatto, attribuendo significato riconoscibile alle parole ed alle immagini. Nè si vede come porre in discussione la valutazione del Giudice di merito di attribuzione a magistrati di Palermo, tra cui i querelanti che perciò esentavano una funzione istituzionale, di un disegno articolalo della "guerra" contro l'Arma dei Carabinieri, cioè contro una diversa istituzione. All'evidenza il disvalore complessivo di questo giudizio si riflette sulle qualità delle persone in rapporto al compito loro affidato dalla legge. Ed il limite del diritto di critica è ampiamente superato per diritto vivente, senza nessuna necessità di riferimenti giurisprudenziali, benchè risulti costume diffuso nelle manifestazioni di opinioni politiche, con travisamento che persino in quello specifico contesto in cui la polemica consente una dilatazione di continenza, è in ogni caso inibito pervenire ad un giudizio che involga apoditticamente le qualità delle persone. 3 - In questa luce, a riprova, il 4 motivo risulta anch'esso paradossale, prima che accademico. Afferma che l'articolo non investe l'istituzione della Magistratura, sottolineando che i procedimenti cui si riferisce l'articolo riguardano fatti determinati, attribuiti all'iniziativa di singoli magistrati contro appartenenti all'Arma, sicchè cade in errore la sentenza nel motivare in termini di "vilipendio". Ma travisa che il Giudice rileva che già la titolazione da corpo alla "guerra all'Arma" da parte della Magistratura, laddove l'articolo concerne organi personalmente impegnati in un compito di rilievo assoluto, al pari degl'indagati che avevano operato nello stesso settore. Travisa inoltre che il pubblico ministero ha il dovere costituzionale di esercitare l'azione penale contro chi si sia, senza che ciò significhi guerra di una istituzione contro altra, per quanto rappresentativo possa essere lui da un lato ed il carabiniere indagato, altrimenti per sè degno di rispetto e gratitudine, dall'altro. Il che rende evidente che la sentenza stigmatizza l'articolo perchè strumentalizza le operazioni di taluni magistrati nei confronti di taluni carabinieri, allo scopo di sostenere una guerra tra istituzioni. Di qui anche l'incensurabilità della valutazione circa l'attribuzione ai primi di "deviazionismo". © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 72 Il senso logico è lo stesso. La sentenza spiega in effetti che l'autore dell'articolo mirava ad attribuire ad altri un intento politico, significato dall'invito finale ad organi supremi d'intervenire. All'uopo ha attribuito disvalore di illegalità alle scelte dei magistrati in singole vicende, significando strumentale il loro contrasto con l'operato di carabinieri, già collaboratori fidati di due magistrati simbolo, che si erano occupati di mafia sino al sacrificio personale. L'articolo, perciò sostiene un disegno inaccettabile dei magistrati. E per farlo, questo qui interessa, offende all'evidenza le qualità dei singoli, necessarie per l'esercizio della funzione volta all'osservanza della legge. Orbene, poichè questa opinione politica divulgata dal quotidiano è dimostrata per lettera e collegamenti delle parole, non serve a censurare la motivazione una replica concettuale, ma solo dimostrarne l'evidente illogicità. Diversamente si offre una lettura alternativa, inibita in questa sede. La sentenza spiega che l'articolo dimostra un obiettivo politico del giornalista parlamentare esentato dal processo. E per farlo attribuisce ai magistrati un opposto obiettivo della stessa natura, con parole ed accostamenti di cui spiega il senso, attraverso rilievi per nulla gratuiti. Quest'ultima attribuzione accentua dunque in misura assoluta incontestabile le singole, già offensive dell'onore e decoro di chi svolge la funzione di magistrato. Ed il rilievo datole non risulta affatto illogico. Il direttore aveva quindi l'obbligo di impedirne la pubblicazione. 4 - Passando al trattamento sanzionatorio, la sentenza riassume gli indici adottati per sceglierlo e determinarlo quale frutto delle dettagliate valutazioni già svolte. E la sintesi risulta ineccepibile, per la evidente riconoscibilità dei criteri adottati. Anzi, come si è premesso nel rispondere al secondo motivo, lo stesso ricorso paradossalmente offre conferma della loro corretta adozione. Il senso della sentenza, si ripete, è che l'imputato ha travisato il suo obbligo di legge, operando avallo apodittico dell'opera del giornalista politico. Ed il motivo in esame insiste su questo aspetto, travisando che proprio perciò la sentenza ha risposto in senso inverso. Il fatto che l'autore fosse un parlamentare, cioè portatore di opinione politica che a-vrebbe potuto essere esentata da responsabilità, ma già sottoposto a processo per fatto analogo commesso quando ancora privo della qualità, avrebbe dovuto allarmare il direttore responsabile quali che fossero le sue idee personali. Invece ha offerto sussidio al senso dell'articolo anche con titoli ed immagini, del tutto incurante delle implicazioni per la reputazione dei singoli. Oltre è merito. 5 - L'ultimo motivo fa riferimento alle S.U. civili in materia di danno non patrimoniale. Quello liquidato è rapportato agli stessi precisi indici di gravità della condotta del direttore responsabile già, si ripete, illustrati nella motivazione resa nel contesto e qui incontrovertibili. Si tratta di danno da reato d'opinione rapportato all'enormità del tema ed alle implicazioni della contrapposizione degli offesi all'immagine di colleghi uccisi nell'adempimento degli stessi compiti, divenuti simboli nell'opinione corrente. Di qui la gravità dell'attribuzione agli occhi dei lettori e perciò l'entità del danno esistenziale di ciascuno, che si rapporta ad un metro immediatamente riconoscibile. E non si vede cos'altro avrebbe dovuto aggiungere la sentenza sul punto, posto che ha proprio spiegato nelle pagine precedenti il perchè delle sue determinazioni sugli effetti della condanna. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 73 Infine la riparazione patrimoniale, confinata in termini incontestati, può essere aggiunta al danno non patrimoniale come affermato in sentenza. E', difatti, erroneo il riferimento di principio del ricorso. Esso confonde che l'evento di reato è proprio la diffamazione, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p., ancorchè l'art. 57 c.p. qualifichi in sede penale l'obbligo del direttore responsabile per sè (cioè la condotta Emissiva), quale che sia l'evento derivato dalla pubblicazione. Ciò è tanto vero che inversamente se si esclude l'evento non impedito, il direttore responsabile non è punibile a titolo proprio. L'autonomia del reato non esclude dunque l'applicabilità dell'art. 12 L. sulla stampa, come rammenta diversa sentenza di questa Corte, Sez. 5^ n. 15114/02, allo stato incontrovertita nelle sue argomentazioni, posto che la consecutiva Sez. 5^ n. 9297/09 si occupa di un caso di mancata individuazione dell'autore dell'articolo e che le sentenze menzionate dal ricorso a proprio suffragio, civili o penali; si fermano alla lettera dell'art. 12, senza operare interpretazioni logiche e di sistema. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del processo, nonchè alla rifusione delle spese delle Parti Civili che liquida in Euro 3000 complessivi, oltre spese ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 5 marzo 2010. Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2010 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 74 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 75 4) Concorso anomalo Tizio decideva, con Caio e Sempronio, di “gambizzare” Francesco, colpevole di aver intrattenuto rapporti sessuali con un altro uomo; l’accordo prevedeva che: -Tizio avrebbe dovuto procurare una pistola; -Caio, che non aveva mai utilizzato una pistola nella sua vita, avrebbe dovuto sparare Francesco alle gambe; -Sempronio avrebbe dovuto studiare le abitudini di Francesco e decidere il luogo ove porre in essere il fatto. Tutto veniva eseguito come da accordi e con le rispettive ripartizioni dei ruoli, solo che Caio uccideva Francesco, sparando un colpo di pistola all’altezza del petto. Tizio si recava da un legale. Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., rediga motivato parere. Possibile soluzione schematica In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente bisognava accennare (brevi cenni) al concorso anomalo ex art. 116 c.p., che si realizza quando: -più soggetti si accordano per compiere un certo reato; -uno (taluno) dei concorrenti vuole un reato diverso da quello concretizzato; -il reato diverso è comunque conseguenza della condotta, attiva oppure omissiva, del concorrente anomalo. In tali casi, anche il concorrente anomalo ne risponde, purchè l’evento diverso sia un logico sviluppo (prevedibile) di quello accordato. Nel caso in esame, sussiste concorso anomalo ex art. 116 c.p., relativamente alla condotta di Tizio? Si poteva rispondere negativamente perché: -sussiste un accordo per la commissione di un reato, così emergendo una fattispecie concorsuale; -Tizio accetta il rischio che Caio uccida, così rendendo predicabile il dolo eventuale; l’accettazione del rischio emerge dal rilievo che Caio non ha “mai utilizzato una pistola nella sua vita”: procurando un’arma (pistola) ad un soggetto che non l’ha mai utilizzata, con l’accordo di utilizzarla, comporta l’accettazione del rischio di un evento diverso rispetto a quello programmato; -l’accettazione del rischio, da parte di Tizio, si traduce in una volontarietà, seppur indiretta (dolo indiretto), di uccidere Sempronio; non vi è solo un prevedibile sviluppo della condotta, ma l’accettazione cosciente di un probabile sviluppo. Se, pertanto, Tizio agisce con dolo eventuale, allora il fatto sarà inquadrabile sotto lo schema dell’art. 110 c.p. che prevede una sorta di simmetria degli elementi psicologici dei concorrenti (diversamente dall’art. 116 c.p. che prevede un’asimmetria), con l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. (circostanze aggravanti comuni). Era sconsigliabile immaginare un omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. perché: - normalmente, in tale ultimo caso, si realizzano le lesioni (o percosse) che, poi, causalmente determinano la morte, così che si realizza il segmento causale condotta-lesioni-morte, mentre nel caso in esame sembra emergere il solo segmento condotta-morte; - inoltre, nella preterintenzione non si vuole la morte, neanche nella forma di dolo eventuale, diversamente dal caso de quo. L'espressa adesione del concorrente ad un'impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo (la "gambizzazione" della vittima) mediante il necessario e © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 76 concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all'uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga. Determinando l'aggressione con uso di siffatte armi, già di per sè, l'evidente gravissimo pericolo per la vita della persona, il concorrente deve rispondere a titolo di concorso pieno per l'effettivo verificarsi di ogni evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, sebbene esso sia concretamente dovuto alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso. Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 18-12-2008) 09-01-2009, n. 337 Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. - I.L., quale mandante, e A.A., quale esecutore materiale (con An.Al., deceduto), in concorso con B.M., in appoggio logistico (con C.N., giudicato separatamente) per i sopralluoghi e per l'avvistamento della vittima, e con S.E., addetto (con S. A. e T.F., le cui posizioni non rilevano) alla custodia delle armi del gruppo criminale, incaricato prima del recupero dell'arma da utilizzare per il delitto e poi della custodia del giubbotto antiproiettile indossato dall' A. nell'agguato, sono imputati dell'omicidio e dei connessi reati in materia di armi in danno di F.A., attinto da tre colpi di pistola cal. 9x21, di cui uno mortale al torace, nel corso di un agguato eseguito in (OMISSIS). L'omicidio è stato contestato come aggravato dal numero delle persone, dalla premeditazione, dai motivi abietti e dalla circostanza del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, con riguardo all'intento di vendicare l'affronto subito da I., capo di un gruppo camorristico operante nel territorio di (OMISSIS), il cui prestigio criminale sarebbe stato leso dal fatto che Ca.Pe.St. aveva interrotto una relazione sentimentale con lui per instaurarne un'altra con F.. Inoltre, I. è stato chiamato a rispondere (con S. A. e T. e, per una pistola cal. 7,65, anche con S.E.) dei delitti di detenzione, porto e ricettazione di numerose armi, commessi al fine di agevolare le attività del gruppo criminale a lui facente capo, e dei reati di violenza privata e lesioni personali, aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, in danno della Ca. per costringerla ad interrompere la relazione con F., intimandole di lasciare il comune di (OMISSIS) attesa la sua posizione di referente malavitoso in quella località. Secondo l'accusa, l'azione di fuoco era stata ideata e organizzata da I., che aveva manifestato e più volte ribadito l'intenzione, nei giorni immediatamente precedenti l'agguato, di far eliminare prima la donna e poi il rivale da uomini del suo gruppo; An., alla guida di una motocicletta precedentemente rubata, aveva accompagnato sul luogo del delitto A., il quale aveva esploso i colpi di pistola contro F., mentre B. e C., a loro volta, si trovavano a bordo di un'autovettura in appoggio ai primi. L'ipotesi accusatoria trovava conferma, innanzi tutto, nelle propalazioni di S.E., nipote di I., e in quelle di C.. Il primo ammetteva di avere consegnato al fratello A., il giorno dell'omicidio, una pistola cal. 7,65 da tempo detenuta per conto dello zio e un giubbotto antiproiettile ricevuto poco dopo le ore 12 di quel giorno da A., dal quale s'era rifiutato di ricevere un'altra pistola sospettandone l'uso delittuoso pregresso: dichiarazioni, queste, confermate da A. e T.. Il C., dopo © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 77 avere precisato che obiettivo della spedizione punitiva organizzata da I. erano inizialmente la Ca. e poi F. e che solo la mattina del (OMISSIS) gli era stato comunicato il mutamento dell'originario progetto di "gambizzazione" in deliberazione omicidiaria, ammetteva di avere partecipato, con B. e An., alle operazioni di ricerca della vittima fin dal giorno (OMISSIS), di essere stato costretto in quell'occasione a disfarsi della pistola cal. 9x21 dopo essere stati intercettati da una pattuglia di Carabinieri, di avere il giorno successivo svolto con B. il ruolo di "staffetta", mentre A., a bordo di una motocicletta guidata da An., eseguiva il delitto facendo fuoco con la medesima pistola cal. 9x21 che era stata nel frattempo recuperata da S.E. su incarico dello zio. B., attinto dalla chiamata in correità di C., corroborata dalle dichiarazioni dei collaboratori P. e Co., ammetteva di essersi recato la sera del (OMISSIS) a casa di I. per prendere ordini insieme a C., di essere stato in compagnia di An. e C. il (OMISSIS) all'atto dell'incontro con la pattuglia dei Carabinieri e in compagnia di C. la mattina dell'omicidio. I. confessava di essere stato il mandante dell'azione di fuoco, ma ribadiva (anche nel giudizio di appello) che obiettivo era la "gambizzazione" della vittima, mentre la morte sarebbe sopravvenuta per un errore dell'esecutore materiale. Siffatte dichiarazioni, parzialmente confessorie ed etero - accusatorie, erano altresì riscontrate dalle deposizioni de relato dei collaboratori P. e Co., i quali riferivano delle confidenze ricevute da A. e B.. 2. - Alla stregua delle suddette prove dichiarative, ritenute intrinsecamente attendibili, oltre che riscontrate reciprocamente e dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali, la Corte d'assise di Salerno, con sentenza del 14/12/2006, affermava la responsabilità di: - I. e A. per i delitti loro ascritti, esclusi per il secondo i reati attinenti alle armi diverse dalla pistola cal. 9x21 utilizzata per l'omicidio, e, ritenuta la continuazione, li condannava ciascuno alla pena dell'ergastolo, oltre l'isolamento diurno per la durata di un anno; - S.E. e B. per i delitti loro ascritti, limitatamente, quanto alle armi, alla pistola cal. 9x21 e per il S. anche della pistola cal. 7,65, e, ritenuta la continuazione, con le attenuanti generiche prevalenti sulla contestate aggravanti diverse da quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, li condannava ciascuno alla pena di anni venti di reclusione. I giudici di primo grado definivano l'omicidio "doloso", sotto la forma del dolo alternativo o eventuale, per essersi i protagonisti indifferentemente rappresentato o per avere quantomeno accettato il rischio che l'utilizzo dell'arma da fuoco potesse determinare la morte anzichè il ferimento di F., e "premeditato", ravvisando altresì gli estremi dell'aggravante dei "motivi abietti" e di quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, quest'ultima sia per l'omicidio sia per i delitti concernenti le armi e, per il solo I., anche per i reati di violenza privata e lesioni in danno della Ca.; a I. e A. venivano infine negate le attenuanti generiche. 3. - Nel corso del processo d'appello anche A. confessava la sua partecipazione alla fase esecutiva del delitto, dichiarando: di avere avuto da I. l'incarico di gambizzare F. per punirlo della relazione amorosa instaurata con la sua ex fidanzata; di avere ricevuto la pistola e il giubbotto antiproiettile la stessa mattina e di essersi recato sul luogo dell'agguato a bordo della moto guidata da An.; di essere stato avvisato da C. circa la presenza in officina della vittima e di avere sparato in direzione della stessa tre o quattro colpi in ripetizione, mirando fra le gambe e l'inguine; di avere riconsegnato il giubbotto a S. E., che s'era rifiutato di © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 78 ricevere la pistola, e di essersi disfatto di questa in autostrada dopo avere telefonato a I., il quale non aveva in seguito commentato l'esecuzione dell'incarico; aggiungendo che "quando ho sparato mi sono reso conto che potevo uccidere F. ma non mi sono fermato". La Corte di assise d'appello di Salerno, con sentenza del 30/10/2007, condivideva integralmente, sulla base di una valutazione di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle suddette propalazioni confessorie ed etero-accusatorie, la ricostruzione probatoria della vicenda omicidiaria offerta dalla motivazione della sentenza di primo grado, quanto al contesto camorristico e alla causale, ai ruoli di I. come mandante e di A. come esecutore materiale, alla partecipazione di B. alla fase preparatoria e a quella esecutiva in veste di "staffetta" e di S.E., che s'era prestato al recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell'arma alla "gambizzazione" di F., e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile indossato da A. il giorno del delitto. La Corte distrettuale confermava quindi la condanna all'ergastolo per I. e A., sul rilievo della natura almeno eventuale del dolo omicidiario, della sussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti, della immeritevolezza delle attenuanti generiche. Ritenuta peraltro l'incompatibilità dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 con l'imputazione omicidiaria aggravata ex art. 577 c.p., nn. 3 e 4, astrattamente punibile con l'ergastolo, e riconosciuta a S. la diminuente di cui all'art. 116 c.p., comma 2 per essere il più grave delitto omicidiario diverso dal ferimento progettato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena per S. in anni 10 di reclusione e per B. in anni 14 e mesi 6 di reclusione. 4. - Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Salerno che tutti gli imputati. Il P.G., con due distinti motivi, ha dedotto: - la violazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, sul rilievo che l'interpretazione privilegiata dalla Corte distrettuale condurrebbe a palesi disparità di trattamento, tant'è che, come conseguenza immediata, proprio all'esito del presente processo, potrebbero fruire dell'indulto elargito con L. n. 241 del 2006 B. e S., riconosciuti colpevoli di omicidio pluriaggravato ma con l'esclusione dell'aggravante ostativa, e non T., riconosciuto colpevole dei meno gravi delitti di detenzione, porto abusivo di armi e favoreggiamento, con l'aggravante ostativa; - la violazione dell'art. 116 c.p. e la contraddittorietà della motivazione, sull'assunto che, in base alla stessa ricostruzione dei fatti operata in sentenza, si sarebbe dovuto ritenere, nella condotta del S., quanto meno il dolo eventuale, data la consapevole accettatozie, da parte sua, del rischio che la prospettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima designata. A. ha denunciato: - la violazione e l'erronea interpretazione degli artt. 110 e 575 c.p., nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'animus nefandi, siccome basata sull'incerta ricostruzione della dinamica della sparatoria, trascurandosi la circostanza che i collaboratori di giustizia avevano riferito che l'omicidio era stato frutto di un errore nell'esecuzione dell'attentato, sicchè l'azione doveva inquadrarsi nel paradigma preterintenzionale dell'art. 584 c.p.; - la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione circa il riconoscimento delle aggravanti della premeditazione e di quelle di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e art. 61 c.p., n. 1, poichè la causale del delitto era riconducibile a un movente personale e passionale di I. e l'aggravante cd. mafiosa era incompatibile con la pena dell'ergastolo; - la mancanza e l'illogicità della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche e al complessivo trattamento © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 79 sanzionatorio, non avendo la Corte territoriale considerato la genesi dell'episodio e il valore della confessione. I. ha dedotto gli stessi vizi denunciati nel ricorso proposto, a firma del medesimo difensore, nell'interesse di A., lamentando, in particolare, che l'azione doveva inquadrarsi nel paradigma dell'art. 584 c.p.p. ovvero che andava applicata la diminuente dell'art. 116 c.p.. S. ha lamentato l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 116 e 379 c.p., nonchè la manifesta illogicità della motivazione, sull'assunto che, pure ammessa l'adesione all'originaria condotta finalizzata al ferimento della vittima, non avrebbe potuto rispondere del più grave fatto omicidiario commesso da altri il giorno successivo, trattandosi di un'azione autonoma del gruppo, frutto di una nuova deliberazione cui egli era rimasto estraneo, mentre la condotta successiva di ricezione dall' A. del giubbotto antiproiettile rilevava solo come favoreggiamento reale. B.M. ha denunciato: - la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per non essergli stata riconosciuta la diminuente di cui all'art. 116 c.p., pur risultando che egli si sarebbe limitato ad "accompagnare con la macchina C. per l'avvistamento del bersaglio da eliminare", condotta connivente, questa, non punibile e comunque da ritenere di minore rilevanza rispetto a quella del S., cui invece detta diminuente era stata riconosciuta; - la violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 3, per essere stata indebitamente ritenuta l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, in realtà contraddittorie e non riscontrate di C.. 5. - La quinta Sezione, con ordinanza in data 1/7-25/9/2008, sul rilievo dell'esistenza di un risalente contrasto giurisprudenziale a proposito della circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (secondo alcune pronunce, la condizione per l'applicabilità di detta circostanza, costituita dal fatto che si tratti di delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, manca per il solo fatto che il delitto sia astrattamente punibile con tale pena, a nulla rilevando che questa, di fatto, non venga applicata; per altre pronunce, invece, la condizione è soddisfatta quando, pur essendo astrattamente prevista, per il delitto del quale si accerti la colpevolezza, la pena dell'ergastolo, questa non venga di fatto applicata, per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti o dell'esclusione di circostanze aggravanti), ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato per l'odierna udienza pubblica. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. - Osserva innanzi tutto il Collegio che i ricorsi degli imputati non pongono seriamente in discussione la ricostruzione probatoria della vicenda criminosa, offerta dalla motivazione della sentenza impugnata alla luce delle dichiarazioni parzialmente confessorie ed etero-accusatorie, reciprocamente coerenti e riscontrate dalle ammissioni di C. e dalle testimonianze indirette dei collaboratori di giustizia, oltre che dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali, quanto: - al contesto di criminalità organizzata e alla causale dettata dal risentimento di I., capo di un gruppo camorristico, nei confronti di F. a causa della relazione sentimentale da questi intrapresa con la sua donna nel territorio sottoposto all'egemonia del gruppo; - agli specifici ruoli di I. come mandante e di A. come esecutore materiale; - alla partecipazione di B. sia alla fase preparatoria che a quella esecutiva in funzione di supporto logistico e in veste di "staffetta" per i sopralluoghi e per l'avvistamento della vittima; - alla partecipazione di S.E., prestatosi all'immediato recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell'arma alla "gambizzazione" di F., e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile a tal fine indossato da A. il giorno del delitto. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 80 Si tratta di doglianze che riproducono, senza introdurre significativi elementi di novità, il dissenso, già prospettato nelle precedenti fasi, su valutazioni squisitamente fattuali e attinenti alla capacità persuasiva delle fonti dichiarative, laddove entrambe le Corti di merito, analiticamente soffermandosi sulla posizione degli imputati ed enucleando gli elementi probatori a loro carico, hanno adeguatamente valorizzato con puntuale e logico apparato argomentativo, ai fini dell'identificazione delle singole condotte di partecipazione all'agguato omicidiario, il convergente contenuto accusatorio dei dati suindicati. E tale conclusione non è sindacabile in sede di legittimità perchè essa, oltre che saldamente ancorata alle risultanze del quadro probatorio ed aderente ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di valutazione delle stesse ex art. 192 c.p.p., appare sorretta da puntuale e razionale giustificazione, avendo il giudice di merito dato conto, senza contraddizioni o salti logici, delle scelte eseguite e del privilegio accordato a taluni elementi probatori rispetto ad altri, mentre i ricorrenti si limitano sostanzialmente a sollecitare una non consentita rilettura del materiale investigativo. 2. - Ciò posto, vanno preliminarmente presi in esame i motivi di ricorso con i quali, da un lato, A., I. e B. hanno denunziato violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermata sussistenza del dolo omicidiario, contestando la correttezza dell'apprezzamento giudiziale che ha escluso, per l'imputazione di omicidio, sia l'ipotesi preterintenzionale sia - con riguardo a I. e B. - la figura del concorso anomalo, e dall'altro S. ha dedotto che la condotta susseguente all'agguato, consistente nella ricezione da A. del giubbotto antiproiettile da lui indossato al momento dell'esecuzione del crimine, rilevava solo come favoreggiamento reale. Strettamente correlato a siffatte doglianze si palesa, inoltre, l'opposto motivo di gravame con il quale il P.G. ricorrente ha prospettato la violazione dell'art. 116 c.p. e la contraddittorietà della motivazione, con riguardo alla specifica posizione del S., sul rilievo che, in base alla ricostruzione dei fatti effettuata in sentenza, si sarebbe dovuto configurare, nella condotta di quest'ultimo, il dolo omicidiario nella forma eventuale. 2.1. - Ritiene il Collegio che sia privo di pregio l'assunto degli imputati, secondo cui l'asserita responsabilità concorsuale in ordine alla partecipazione alla preordinata spedizione punitiva, che doveva esitare nella mera "gambizzazione" della vittima, non era sufficiente per sostenere che gli organizzatori e i partecipi si erano anche prefigurata l'uccisione della vittima come evento altamente probabile ed accettato, addebitabile invece solo ad un errore nell'esecuzione del crimine da parte dell'esecutore materiale, in violazione del concordato mandato di lesioni, e che, per contro, sia fondata l'opposta censura del P.G. per il quale la fattispecie omicidiaria sarebbe ascrivibile anche al S. a titolo di dolo eventuale, data la consapevole accettazione, da parte sua, del rischio che la progettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima designata. Ed invero, la Corte distrettuale, alla luce dei rilievi tecnici, delle consulenze medico-legale e balistica e delle parziali ma significative ammissioni dei protagonisti, ha innanzi tutto ricostruito le concrete modalità della vicenda criminosa e adeguatamente motivato circa il dolo omicidiario e non meramente lesivo, di natura diretta e alternativa o al più eventuale, dello sparatore. La reiterazione e la direzione dei colpi, esplosi a distanza ravvicinata, dal basso verso l'alto e contro organi vitali quali il torace e l'addome, denotavano la diretta ed univoca volontà di colpire la vittima con esito mortale, configurandosi quindi l'omicidio come "doloso", sotto la forma del dolo alternativo o almeno eventuale, per essersi l'esecutore indifferentemente rappresentato o per avere accettato il rischio che l'utilizzo dell'arma da fuoco potesse determinare la morte, anzichè il ferimento di F.. I descritti elementi fattuali, valutati globalmente siccome parametri sintomatici dell'animus necandi in base a consolidate regole d'esperienza, risultavano sicuramente idonei a fare inferire come certo o © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 81 altamente probabile il verificarsi dell'evento mortale o lesivo e comunque evidente, nella situazione concreta al momento di esecuzione della condotta, l'accettazione del correlativo rischio da parte di A.. Quanto all'affermata, piena, responsabilità concorsuale ai sensi dell'art. 110 c.p., e non a titolo di concorso anomalo ex art. 116 c.p., di I. e B., la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale (v. Cass., Sez. 1^, 7/3/2003 n. 12610, Benigno), per il quale l'espressa adesione del concorrente ad un'impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo (la "gambizzazione" della vittima) mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all'uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga. Determinando l'aggressione con uso di siffatte armi, già di per sè, l'evidente gravissimo pericolo per la vita della persona, il concorrente deve rispondere a titolo di concorso pieno per l'effettivo verificarsi di ogni evento lesivo del bene della vita e dell'incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, sebbene esso sia concretamente dovuto alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell'evento dannoso. La Corte distrettuale, dopo avere valutato con prudente e puntuale apprezzamento i dati fattuali della vicenda delittuosa, con specifico riferimento alla causale e all'indole violenta e prevaricatoria di I., capo di un gruppo camorristico, già rivelata dalle pregresse manifestazioni di sopraffazione nei confronti della donna, minacciata, picchiata e costretta ad allontanarsi dal comune di residenza, all'elevata pericolosità dei protagonisti, associati alla medesima consorteria criminale, al deliberato intento che il corpo della vittima fosse attinto da colpi esplosi con micidiali armi da sparo, all'eventualità non remota di una reazione pure armata della vittima o di altre persone (com'era dimostrato, nella specie, dalla circostanza che lo sparatore era munito di un giubbotto antiproiettile) e al contesto camorristico dell'agguato, è pervenuta, con linee argomentative logicamente coordinate, alla conclusione che i concorrenti, nel prevedere e volere l'uso delle armi per "gambizzare" la vittima, pure in mancanza di prova certa circa un'effettiva deliberazione omicidiaria, abbiano comunque accettato il rischio che le gravi lesioni programmate potessero trasmodare nell'uccisione della stessa. L'ineccepibilità di siffatte argomentazioni rende incensurabile in sede di legittimità raffermata sussistenza rispetto all'evento omicidiario (accanto al dolo diretto e alternativo o eventuale dello sparatore) del dolo eventuale di concorso nella condotta dei complici, in ordine al medesimo delitto di cui agli artt. 110 e 575 c.p.. 2.2. - E però, le medesime ragioni logico-giuridiche, per le quali vanno disattese le doglianze degli imputati riguardanti la qualificazione giuridica del fatto sub specie di omicidio preterintenzionale ovvero di concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., convergono viceversa, a ben vedere, nel senso della piena fondatezza del ricorso del P.G., quanto alla contraddittorietà del riconoscimento della figura del concorso anomalo a favore di S., il quale pure aveva prestato la sua adesione, fin dai giorni precedenti, all'azione finalizzata alla ricerca e al ferimento della vittima, mediante condotte di significativo rilievo per la concreta realizzazione del crimine, sotto il duplice profilo, prima, della predisposizione dei mezzi e, poi, dell'assicurazione dell'impunità, consistenti: nell'immediato recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per la fase esecutiva da A., nella consapevolezza della destinazione dell'arma alla "gambizzazione" di F. secondo gli ordini ricevuti dallo zio; © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 82 nella custodia del giubbotto antiproiettile indossato da A. il giorno del delitto e da questi ricevuto, subito dopo l'esecuzione del crimine, per occultarlo. Apparendo dunque configurabile per S. la consapevole rappresentazione e accettazione del rischio che la progettata azione lesiva potesse sfociare nell'omicidio della vittima, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame sul punto. 3. - Anche i motivi di ricorso, invero non specifici, degli imputati, riguardanti raffermata sussistenza, in concreto, delle circostanze aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti e di quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, o, per converso, il diniego delle attenuanti generiche, risultano infondati, perchè il giudice di merito, con adeguato apparato argomentativo, ha correttamente esplicitato le ragioni in fatto e in diritto che giustificavano la scelta giudiziale. 3.1. - Quanto al diniego delle attenuanti generiche per I. e A., rilievo preponderante è stato attribuito dalle Corti di merito agli elementi della estrema gravità e riprovevolezza del fatto circostanziato nei termini suindicati, dell'elevata intensità del dolo e della particolare capacità a delinquere desumibile dai motivi dell'azione diretta all'eliminazione di una giovane vita, con argomentazioni dunque adeguate e ineccepibili in sede di sindacato di legittimità. 3.2. - Premesso che elementi costitutivi della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'attuazione di esso - elemento di natura cronologica -, tale da consentire una ponderata riflessione circa l'opportunità del recesso, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell'animo dell'agente fino alla commissione del crimine - elemento di natura ideologica -, osserva il Collegio che le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata non meritano le anzidette censure, poichè risultano in essa adeguatamente e rigorosamente apprezzate le ragioni della concreta individuazione di entrambi gli elementi, reciprocamente integrantisi nell'accurata ricostruzione dei fatti. I giudici del merito, nel quadro complessivo di una macchinazione del delitto, hanno prima collocato temporalmente l'insorgenza del proposito criminoso e la predisposizione dei mezzi e delle modalità esecutive dell'impresa nei giorni precedenti l'agguato omicidiario, così identificando un'apprezzabile durata dell'intervallo intercorso fra determinazione e attuazione del proposito, ai fini della riflessione e del recesso; quindi, hanno tratto da dati estrinseci - quali la descritta causale, l'anticipata manifestazione e la ferma persistenza del proposito criminoso, la predisposizione di armi da sparo, la progressiva ricerca dell'occasione propizia per l'agguato senza soluzione di continuità - gli elementi sintomatici per la corretta identificazione del dolo di premeditazione, in capo sia al mandante sia agli altri concorrenti, i quali hanno, tutti, consapevolmente condiviso e prestato incondizionata adesione al comune progetto di "gambizzare" o uccidere F.. 3.3. - L'aggravante dei motivi abietti ex art. 61 c.p., n. 1, contestata per il delitto omicidiario assieme a quella di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, è stata ravvisata dai giudici di merito nel proposito vendicativo del capo di un gruppo camorristico (ma recepito, consapevolmente condiviso e fatto proprio da tutti i protagonisti della vicenda criminosa, a lui legati da vincoli familiari o malavitosi) nei confronti dell'uomo che aveva osato portargli via la donna, avendo egli perduto, a seguito del fermo rifiuto di questa di soggiacere alla sua volontà, insieme con il prestigio criminale, il totale dominio fino ad allora esercitato sulla persona e sulla vita della stessa, la quale, interrotta la relazione sentimentale con lui, ne aveva instaurato un'altra con la giovane vittima. Orbene, ritiene il Collegio che, alla luce del comune sentire, debba reputarsi vile e spregevole un siffatto crimine, commesso per mero spirito punitivo, dettato da intolleranza per la libertà di autodeterminazione della donna con la quale si era instaurata una relazione amorosa, considerata © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 83 invece come res di propria appartenenza e di cui non si è accettata l'autonomia delle scelte di vita (v., per un caso analogo, Cass., Sez. 1^, 22/9/1997, P.M. in proc. Scarola, rv. 208773; v. anche, arg. a contrario, Cass., Sez. 5^, 22/9/2006 n. 35368, P.M. in proc. Abate, rv. 235008). 3.4. - E, poichè la causale omicidiaria, oltre all'intento vendicativo e punitivo, risiedeva anche nella finalità di riaffermare il ruolo e il prestigio del capo della consorteria camorristica locale insieme con la forza intimidatoria di questa, messi in discussione dall'affronto subito da un semplice operaio, che non intendeva riconoscerne la superiorità, nonostante gli avvertimenti e le pressioni, e che per questo andava eliminato con gesto eclatante e dimostrativo, è stata contestata a carico degli imputati anche la speciale aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per l'omicidio (oltre che per i reati concernenti le armi, attesa la finalità agevolativa che il possesso delle stesse svolgeva per la realizzazione delle attività illecite del clan camorristico, e per i reati di violenza privata e lesioni in danno di Ca.Pe. S., addebitati al solo I.). Orbene, mentre l'aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 è "speciale" tanto per la materia considerata quanto per l'effetto di aumento della pena, la circostanza di cui all'art. 61 c.p., n. 1 è, di contro, un'aggravante "comune", genericamente riferibile a tutti quei motivi che per il particolare grado di perversità (abietti) o per la sproporzione tra movente e azione criminosa (futili) denotano "una particolare capacità a delinquere del colpevole" (Rel. min. al progetto del codice penale, p. 109): nè la natura e la struttura della previsione aggravatrice vengono meno a causa degli effetti speciali sulla determinazione della pena che conseguono allorchè essa è richiamata per il delitto di omicidio dall'art. 577 c.p., comma 1, n. 4. A causa della latitudine della nozione di motivo abietto alcune decisioni di questa Corte hanno ritenuto che l'aggravante comune sia configurabile quando il movente dell'azione consista nella finalità di favorire o consolidare un'associazione di matrice mafiosa (Cass., Sez. 1^, 20/01/2000 n. 2884, P.G. in proc. Ferrara, rv. 215504; Sez. 2^, 10/11/2000 n. 13151, Gianfreda, rv. 218598; Sez. 2^, 8/7/2004 n. 44624, Alcamo, rv. 230243; Sez. 1^, 21/2/2007 n. 236284, Messina, rv. 236284). E pero, condividendosi l'assunto teorico esposto nella più recente e lucida giurisprudenza di legittimità sul tema (Cass., Sez. 5^, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, rv. 235300; Sez. 1^, 6/11/2007 n. 1797/08, Comis, rv. 238642), deve convenirsi che in tanto non vi è materia, in astratto, per un concorso apparente di norme tra le due circostanze aggravanti, in quanto il motivo abietto venga, in concreto, riferito ad una ragione che non sia interamente sussumibile nel paradigma dell'ipotesi speciale, trovando altrimenti applicazione la sola disposizione particolare che regola l'aggravamento dei delitti commessi con il motivo, tra i tanti abietti, riconducibile al fine di agevolare associazioni mafiose, in cui resta "assorbita" l'aggravante comune. E ciò per effetto dell'esplicita clausola di riserva contenuta nel primo alinea dell'art. 61 c.p., che, siccome espressione del principio di specialità, è fatta salva, mediante il richiamo all'art. 15, anche dall'art. 68 c.p., comma 1 nel caso di circostanze complesse. Tornando alla situazione in esame e considerato che in relazione all'omicidio la circostanza del motivo abietto, nei termini fattuali della contestazione e dell'accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo camorristico locale, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata sia fornita di adeguata e logica motivazione ed abbia fatto buon governo del cennato principio di specialità sul punto che la duplice ragione aggravatrice, con riferimento sia all'art. 61 c.p., n. 1 sia al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, non presenta sostanza unitaria. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 84 4. - Con riguardo alla statuizione della Corte distrettuale che ha escluso, per S. e B., l'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ritenuta incompatibile con l'imputazione omicidiaria aggravata ex art. 577 c.p., nn. 3 e 4, siccome astrattamente punibile con l'ergastolo, ed al conseguente motivo di ricorso del P.G. sul punto, è necessario premettere che il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 conv. in L. n. 203 del 1991, introduttivo della circostanza aggravante del cd. "metodo mafioso" e della cd. "agevolazione mafiosa", dispone, al primo comma, che "per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso art., la pena è aumentata da un terzo alla metà" e, al comma successivo (interpolato dalla L. n. 34 del 2003, art. 5, comma 1), che "le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p., concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante". In ordine al quadro normativo, va anche rilevato che la formulazione del testo del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 si muove sulla falsariga di quanto già sancito dal D.L. n. 625 del 1979, art. 1 conv. in L. n. 15 del 1980 (modificato dalla L. n. 34 del 2003, art. 5, comma 1), per i reati commessi "per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale", ed è stata riprodotta, in modo non dissimile, nelle successive previsioni aggravatici: - del D.L. n. 419 del 1991, art. 7, comma 4, conv. in L. n. 172 del 1992, per i delitti di cui all'art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), nn. 1-6, aggravati ex art. 111 c.p.p. e art. 112 c.p.p., comma 1, nn. 3 e 4; - del D.L. n. 122 del 1993, art. 3 conv. in L. n. 205 del 1993, per i reati commessi "per finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità"; - della L. n. 146 del 2006, art. 4 in tema di "crimine organizzato transnazionale". La circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che si atteggia in due forme alternative, l'una a carattere oggettivo, consistente nell'impiego del metodo mafioso nella commissione del singolo reato, e l'altra, di natura soggettiva, costituita dallo scopo di agevolare, con il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione di tipo mafioso (Cass., Sez. Un., 28/3/2001 n. 10, Gnalli, rv. 218377), da luogo, quindi, per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, a un aumento della pena non inferiore a un terzo e non superiore alla metà. Aumento che, peraltro, non può essere bilanciato dal concorso di circostanze attenuanti, poichè l'eventuale comparazione, non esclusa dalla norma, può sfociare solo in una valutazione di subvalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti, a meno che il giudice (secondo la lettura offerta da C. Cost., nn. 38 e 194 del 1985, della non dissimile disposizione del D.L. n. 625 del 1979, art. 1, comma 3) non ritenga di adottare il criterio meramente aritmetico, determinando, con distinte e successive operazioni, le diminuzioni proporzionali della pena per le eventuali attenuanti, ma all'esito dell'aumento dipendente dalla speciale aggravante. 5. - Orbene, le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito "se la circostanza aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, sia applicabile ai delitti punibili in astratto con la pena dell'ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa dall'ergastolo", quesito in ordine al quale si sono contrapposte in passato due linee interpretative. Secondo un primo orientamento (Cass., Sez. 1^, 14/5/2002 n. 28418, Erra, rv. 222119, e - ma trattasi di obiter dictum - Sez. 1^, 7/3/2003 n. 12610, cit., rv. 224084), decisamente minoritario e, in realtà, non più riproposto nella più recente giurisprudenza di legittimità, la suddetta aggravante non © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 85 è applicabile ai delitti per i quali sia prevista in astratto la pena edittale dell'ergastolo, a nulla rilevando l'entità della sanzione inflitta in concreto. L'opposto, nettamente prevalente e più recente orientamento (Cass., Sez. 1^, 10/1/2002 n. 20499, Ferraioli, rv. 221443; Sez. 1^, 17/1/2006 n. 5651, La Fratta, rv. 234054; Sez. 1^, 22/12/2006 n. 1811/07, P.G. in proc. Masciopinto; Sez. 5^, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, cit.; Sez. 1^, 21/11/2007 n. 46598, Centonza, rv. 238933; Sez. 1^, 4/3/2008 n. 14623, Abbrescia, rv. 240115; Sez. 2^, 13/3/2008 n. 13492, Angelino, rv. 239759; Sez. 5^, 16/5/2008 n. 32555, De Gregorio), sostiene, invece, che l'aggravante può essere validamente contestata anche con riferimento ad un delitto astrattamente punibile con l'ergastolo, fermo restando che essa potrà in concreto operare solo se, di fatto, venga inflitta una pena detentiva diversa dall'ergastolo. Le Sezioni Unite ritengono di condividere le ragioni che giustificano quest'ultimo indirizzo interpretativo. 5.1. - Il punto di partenza del ragionamento che postula la soluzione condivisa dalle Sezioni Unite muove da un'attenta lettura delle linee logico-sistematiche, che connotano e dentro le quali s'iscrive - per i profili giuridici di rilievo sia sostanziale sia processuale - la ratio aggravatrice della norma di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Occorre premettere che, attesa la centralità e la proiezione funzionale dell'atto imputativo nel processo penale, il fatto storico, quale emerge dagli atti e dalle fonti di prova, va contestato dalla pubblica accusa nella sua interezza, a tutela del contraddittorio e del pieno rispetto del diritto di difesa. Nè sembra esservi una plausibile ragione, una volta che ricorrano "metodo mafioso" o "agevolazione mafiosa", perchè "i fatti" secondari che si riferiscono alla suddetta aggravante e che assolvono la funzione di integrane la fattispecie criminosa tipica, non vengano contestati e non diventino anch'essi "oggetto di prova" ai sensi dell'art. 187 c.p.p., sol perchè il delitto cui accedono (come, nella specie, l'omicidio commesso con premeditazione o per motivi abietti ex art. 577 c.p., comma 1, nn. 3 e 4) sia astrattamente sanzionato, indipendentemente da essi, con la pena edittale dell'ergastolo, finendo altrimenti l'atto contestativo di parte per avere un'influenza decisiva sulla determinazione della pena e sulla relativa potestà discrezionale del giudice. Conclusione, questa, cui era già pacificamente pervenuta la giurisprudenza di legittimità a proposito dell'archetipo costituito dalla speciale aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale, prevista dal D.L. n. 625 del 1979, art. 1 (Cass., Sez. 1, 2/12/1985 n. 965/1986, P.G. in proc. Fernoni, rv. 171675). Neppure potrebbe obiettarsi l'inutilità del riferimento nell'imputazione ad un'aggravante che non determina alcun incremento del trattamento sanzionatorio, giacchè questa caratteristica hanno, ai sensi dell'art. 72 c.p., tutte le aggravanti, comuni o non, contestate per reati già puniti con l'ergastolo o così punibili per effetto di aggravanti diverse. Va sottolineato, d'altro canto, che il riconoscimento dell'attenuante speciale della dissociazione attuosa di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, da cui consegue (come da quella prevista dal D.L. n. 625 del 1979, art. 4) la sterilizzazione dell'aggravante dell'alt. 7 e la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione da dodici a venti anni, presuppone necessariamente che il fatto storico sia contestato nella sua interezza e sia valutato dal giudice nella sua portata complessiva. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 86 5.2. - Mette conto soprattutto di rimarcare che la pretesa di far coincidere la remo d'irrigidimento sanzionatorio del D.L. n. 152 del 1991 con il solo effetto dell'aumento di pena istituito dall'art. 7 tradirebbe l'intento del legislatore, che era apertamente quello di privilegiare una strategia trasversale e complessiva di contrasto al fenomeno delle criminalità organizzata, assai più ampia e articolata (ufficialmente annunziata nella relazione al D.D.L. 5367/C sulla conversione in legge del D.L. n. 5, primo della serie conclusasi con il D.L. n. 152) e destinata a dispiegare una serie più cospicua di effetti giuridici, ben oltre il momento applicativo della pena nel giudizio di cognizione, mediante l'instaurazione di un regime processuale differenziato e di meccanismi di esecuzione della pena in termini di più severa effettività. L'aggravante ad effetto speciale in esame viene, infatti, ad incidere sempre, pure in difetto di incremento della pena dell'ergastolo: - sia sul versante delle indagini, in ordine all'attribuzione delle funzioni di pubblico ministero all'ufficio di Procura distrettuale e di quelle di giudice per le indagini preliminari al G.i.p. distrettuale (art. 51 c.p., comma 3-bis e art. 328 c.p.p., comma 1- bis), ai termini di durata delle indagini preliminari, alla loro proroga e divieto di sospensione nel periodo feriale (art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a, n. 3 e art. 406 c.p.p., comma 5 bis, D.L. n. 306 del 1992, art. 21 bis), ai criteri di scelta e ai termini di durata massima della custodia cautelare (art. 275 c.p.p., comma 3, art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a, n. 3 e lett. B, n. 3-bis, e art. 304 c.p.p., comma 2), al regime delle intercettazioni (D.L. n. 152 del 1991, art. 13 e art. 295 c.p.p., comma 3-bis); - sia sul terreno del dibattimento, per le particolari regole di acquisizione della prova dichiarativa (art. 190-bis c.p.p., comma 1, art. 146-bis c.p.p. e art. 147-bis disp. att. c.p.p.); - sia sugli effetti patrimoniali della condanna, attesa l'ipotesi particolare di confisca prevista dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12- sexies; - sia, infine, sull'esecuzione della pena detentiva, quanto al divieto di sospensione della stessa (art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a), al trattamento penitenziario differenziato (L. n. 354 del 1975, art. 4bis, comma 1, art. 21, comma 1, art. 30-ter, comma 4, art. 41- bis, art. 47-ter, art. 50, comma 2, art. 58-ter, art. 58-quater; D.P.R. n. 230 del 2000, art. 37, comma 8, e art. 39, comma 2) ed all'esclusione dai benefici della sospensione condizionata dell'esecuzione - cd. "indultino" - (L. n. 207 del 2003, art. 1, comma 3, lett. a) e dell'indulto (L. n. 241 del 2006, art. 1, comma 2, lett. D). 5.3. - Deve pertanto convenirsi con la citata e più recente giurisprudenza, la quale avverte che il D.L. n. 152 del 1991, art. 7, comma 1, nel prevedere che la pena sia aumentata da un terzo alla metà per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, non esclude affatto, con riguardo ai reati puniti con la pena perpetua (come nel caso di specie di omicidio commesso con premeditazione e per motivi abietti), la contestabilità e l'operatività della speciale aggravante ad altri fini, ben potendosi anzi conseguire l'effetto aggravatorio nell'ipotesi di esclusione, all'esito del giudizio di cognizione, delle circostanze aggravanti comportanti l'ergastolo. La prescrizione de qua, al di là dell'ambiguità lessicale del termine "punibili" è semplicemente diretta, in sostanza, a quantificare l'aumento di pena applicabile alla pena detentiva temporanea, concretamente irrogata in presenza dell'aggravante speciale, incremento che non è ovviamente ipotizzarle allorchè la pena inflitta in concreto sia invece quella dell'ergastolo. Tra l'altro, l'opposta opzione interpretativa, nel senso del divieto di contestazione e di considerazione dell'aggravante speciale per i reati astrattamente punibili con la pena edittale © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 87 perpetua, renderebbe possibili talune conseguenze prive di logica razionalità e, com'è stato avvertito dalla più attenta giurisprudenza, seri problemi di legittimità costituzionale della disciplina normativa per violazione del principio di eguaglianza: - sia sotto il profilo che per delitti aggravati dalla circostanza in esame, punibili con pena diversa dall'ergastolo, potrebbero essere irrogate sanzioni più gravi rispetto a quelle inflitte, in concreto, per delitti pure ontologicamente aggravati dalla medesima circostanza ed astrattamente puniti con l'ergastolo in forza di altre circostanze, che non sopravvivano tuttavia alla differente qualificazione giuridica del fatto o al giudizio di bilanciamento con le attenuanti; - sia perchè potrebbero dispiegarsi effetti preclusivi ingiustificatamente differenziati quanto all'accesso ai vari benefici in sede di esecuzione della pena e di trattamento penitenziario. 5.4. - Le precedenti riflessioni convergono dunque univocamente nel senso che "la circostanza aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, è applicabile ai delitti astrattamente punibili con la pena edittale dell'ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa dall'ergastolo". Occorre inoltre precisare che "anche nel caso in cui venga inflitta in concreto la pena dell'ergastolo, l'aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7, pur rimanendo inerte nella determinazione della pena, va tuttavia contestata e presa in considerazione dal giudice nel suo significato di disvalore del fatto, sì da esplicare la sua efficacia ai fini diversi dalla determinazione della pena". 6. - Ciò posto, poichè, nella specie, la Corte distrettuale non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto suindicato, risulta fondato il relativo motivo di ricorso del P.G. riguardante le posizioni di S. e B.. La sentenza impugnata va dunque annullata anche per questo profilo, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di Assise di appello di Salerno. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.E. e B.M., limitatamente all'esclusione dell'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e, quanto al S., al riconoscimento della diminuente di cui all'art. 116 c.p., comma 2, e rinvia per nuovo giudizio sui suddetti punto ad altra sezione della Corte di Assise di appello si Salerno. Rigetta i ricorsi degli imputati che condanna, in solido, al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008. Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2009 Sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 cod. pen., in ordine al reato più grave e diverso da quello voluto qualora vi sia la volontà di partecipare con altri alla realizzazione di un determinato fatto criminoso ed esista un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l'evento diverso, nel senso che quest'ultimo deve essere oggetto di possibile rappresentazione in quanto logico sviluppo, secondo l'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, di quello concordato, senza peraltro che l'agente abbia effettivamente previsto ed accettato il relativo rischio, poichè in tal caso ricorrerebbe l'ipotesi di concorso ex art. 110 cod. pen.; inoltre, la prognosi postuma sulla prevedibilità del diverso reato commesso dal concorrente va effettuata in concreto, valutando la personalità dell'imputato e le circostanze ambientali nelle quali si è svolta l'azione. Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-10-2011, n. 38525 Svolgimento del processo © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 88 Con sentenza in data 14 dicembre 2010, la Corte d'assise di appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza della Corte d'assise di Cosenza del 20 dicembre 2009, riconosciute a G.E. betta le attenuanti generiche prevalenti rideterminava in anni tre di reclusione ed Euro 600,00 di multa la pena inflitta alla medesima per il reato di concorso in rapina aggravata. Confermava nel resto l'impugnata sentenza, che aveva condannato - fra gli altri - P.A.D. alla pena di anni sei di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. Il fatto si riferiva ad una rapina in abitazione, commessa in San Donato di Ninea il 4/7/2007, nel corso della quale una donna anziana. F.P., era stata percossa da uno dei rapinatori, perdendo la vita a seguito delle lesioni subite. La Corte territoriale, in particolare, respingeva le censure mosse con l'atto d'appello congiunto da P.A.D. e G.E., in punto di affidabilità delle dichiarazioni rese dal coimputato S. (giudicato separatamente) che risultavano riscontrate dal tenore delle conversazioni intercettate in carcere fra P. e la sua compagna G.. Avverso tale sentenza propongono ricorso congiunto P.A. D. e G.E. per mezzo dei comuni difensori di fiducia, sollevando tre motivi di gravame. Con il primo motivo deducono violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all'art. 192 cod. proc. pen. e artt. 110 e 628 cod. pen.. Al riguardo, rilevato che l'accusa si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni del correo S.V., la difesa ricorrente si duole che la che Corte d'assise d'appello abbia fatto malgoverno dei principi che regolano la formazione della prova stabiliti dall'art. 192 cod. proc. pen., comma 3, in ordine a credibilità del dichiarante; intrinseca consistenza delle dichiarazioni; riscontri esterni individualizzanti. La difesa ricorrente dubita della credibilità del dichiarante nonchè sulla genesi e sulle ragioni della collaborazione dello S.. Deduce l'intrinseca inconsistenza delle dichiarazioni di costui, richiamando specificamente una parte delle dichiarazioni rese dal dichiarante in contraddittorio e caratterizzante da una sequenza di non ricordo. Contesta inoltre che possono avere valore di riscontri esterni individualizzanti i contatti telefonici e l'intercettazione ambientale in carcere. In particolare la difesa riporta alcuni brani della conversazione ambientale intercettata in carcere per contestare l'interpretazione fornita dalla corte territoriale. Quanto alla posizione della G., la difesa ricorrente eccepisce che dalle stesse dichiarazioni accusatorie dello S. emerge che la stessa si è semplicemente limitata ad assistere alle due riunioni senza partecipare alla discussione, tantomeno alla preparazione del delitto. Per tali ragioni il Tribunale del riesame aveva disposto la scarcerazione della G. per l'insussistenza del quadro di gravità indiziaria. Con il secondo motivo la difesa ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all'art. 125 cod. proc. pen. e art. 116 cod. pen.. In particolare eccepisce che i coniugi P. e G. non dovrebbero rispondere di concorso nel reato di rapina aggravata, essendosi limitati a programmare un'azione che doveva consistere in un furto. Nel caso di specie non sussisteva la prevedibilità in concreto che il furto si sarebbe potuto trasformare in rapina, essendosi verificata, pertanto, l'ipotesi del concorso anomalo. Infine con il terzo motivo la difesa ricorrente si duole del mancato riconoscimento alla G. delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 89 Motivi della decisione Il ricorso è infondato. Secondo l'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, ripetutamente ribadito nella successiva giurisprudenza: "In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell'art. 192 c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confitente e accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l'intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L'esame del giudice deve esser compiuto seguendo l'indicato ordine logico perchè non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli "altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa" (Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. (dep. 22/02/1993) Rv. 192465, imp. Marino). Nel caso di specie, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa ricorrente, la sentenza della Corte d'Assise d'appello si è conformata ai principi di diritto sopra enunciati ed ha specificamente respinto le contestazioni sollevate dagli imputati con i motivi d'appello, tanto in ordine alla credibilità del dichiarante, quanto in ordine alla intrinseca consistenza della sua dichiarazione, quanto alla sussistenza di riscontri esterni. In particolare la Corte territoriale prende in esame il comportamento del coimputato S., rilevando che costui ha reso piena ammissione del proprio ruolo (di basista) rivestito nella rapina, ed osservando che il legittimo arresto operato dai Carabinieri, per possesso di sostanze stupefacenti, costituisce l'elemento prodromico che ha spinto il coimputato alla collaborazione. La Corte, inoltre, verifica anche la coerenza interna del narrato dello S., sia con osservazioni dirette, sia con riferimento alla motivazione della sentenza (passata in giudicato) della Corte d'Assise d'appello del 5/5/2009, pronunziata nel troncone del procedimento a carico dei coimputati S. e C. (fol. 21, 22, 23). Infine la Corte prende in esame la sussistenza di riscontri esterni individualizzanti, valorizzando le conversazioni captate in carcere fra il P. e la G.. Le contestazioni della difesa ricorrente che propone una diversa lettura degli esiti delle intercettazioni, non possono trovare ingresso in questa sede in quanto censure in fatto. Infatti: "In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 17619 del 08/01/2008 Cc. (dep. 30/04/2008) Rv. 239724). Nel caso di specie, la Corte ha specificamente esaminato i risultati delle intercettazioni ambientali, fornendone un'interpretazione coerente e priva di vizi logico-giuridici (fol. da 23 a 27). Infine la Corte ha specificamente preso in esame la posizione della G., rigettando la tesi della mera connivenza e richiamando gli elementi processuali dai quali si desume un ruolo attivo della stessa. Alla luce di tali osservazioni deve essere respinto il primo motivo di ricorso. Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa ricorrente invoca la sussistenza del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., occorre rilevare che in punto di diritto è pacifico che: © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 90 "Sussiste la responsabilità a titolo di concorso anomalo, ex art. 116 cod. pen., in ordine al reato più grave e diverso da quello voluto qualora vi sia la volontà di partecipare con altri alla realizzazione di un determinato fatto criminoso ed esista un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l'evento diverso, nel senso che quest'ultimo deve essere oggetto di possibile rappresentazione in quanto logico sviluppo, secondo l'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, di quello concordato, senza peraltro che l'agente abbia effettivamente previsto ed accettato il relativo rischio, poichè in tal caso ricorrerebbe l'ipotesi di concorso ex art. 110 cod. pen.; inoltre, la prognosi postuma sulla prevedibilità del diverso reato commesso dal concorrente va effettuata in concreto, valutando la personalità dell'imputato e le circostanze ambientali nelle quali si è svolta l'azione" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 39339 del 08/07/2009 Ud. (dep. 09/10/2009) Rv. 245152). Nel caso di specie la censura sollevata dalla difesa ricorrente, per pretesa violazione dell'art. 116 c.p., è inammissibile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3, in quanto trattasi di una violazione di legge non dedotta, in modo specifico, con i motivi d'appello con i quali è stata richiesta, in via subordinata, "l'applicazione dell'art. 116 c.p." senza alcuna specificazione nè delle ragioni della richiesta, nè del reato meno grave applicabile alla fattispecie. Va, comunque, rilevato che i due ricorrenti hanno beneficiato della mancata incriminazione per il reato più grave (l'omicidio della Falcone) proprio in applicazione dei principi di cui all'art. 116 c.p. che escludono la responsabilità del concorrente per il reato diverso commesso da taluno dei concorrenti in mancanza di un nesso causale nonchè psicologico tra la condotta del soggetto che ha voluto solo il reato meno grave e l'evento diverso. Infine è inammissibile anche il terzo motivo di ricorso in punto di mancato riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti alla G., dal momento che la sentenza impugnata sul punto ha accolto parzialmente l'appello, riducendo il trattamento sanzionatorio in virtù della concessione delle attenuanti generiche con criterio di equivalenza. Il riconoscimento dell'equivalenza delle generiche, assorbe la motivazione sulla non concessa prevalenza. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario ex art. 110 cod. pen., se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave, mentre configura il concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., nel caso in cui l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza. Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-11-2011) 01-02-2012, n. 4330 Svolgimento del processo 1. Con ordinanza deliberata il 26 maggio 2011 e depositata il successivo 30 maggio, il Tribunale di Bologna, costituito ai sensi dell'art. 309 c.p.p., ha confermato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di C.S., emessa il 5 maggio 2011 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna, per il delitti di concorso in tentata rapina impropria (capo A), lesioni e tentato omicidio (capo B), tentata rapina propria (capo C) e ricettazione (capo O). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 91 I giudici della misura cautelare hanno ritenuto la sussistenza a carico del C. di gravi indizi di partecipazione a tutti i reati suddetti, sulla base della seguente ricostruzione dei fatti: nelle prime ore del (OMISSIS), un commando di quattro persone, di cui due non ancora identificate, le quali erano giunte sul posto utilizzando un veicolo di provenienza delittuosa, aveva tentato di commettere un furto nell'area di servizio autostradale (OMISSIS), lungo la carreggiata sud dell'autostrada A/14; i malviventi, utilizzando un cacciavite e un piede di porco, avevano forzato il lucchetto posto sul cancello posteriore e la porta di accesso, sul retro, all'ufficio del punto di ristoro "(OMISSIS)", dove era ubicata la cassaforte, provvedendo altresì al taglio dei fili di alimentazione del sistema di allarme e alla forzatura anche della finestra all'ufficio, con accesso in esso a volto coperto da una maglia, previa deviazione dell'obiettivo di una telecamera ivi installata per evitare di essere ripresi; sorpresi dagli operatori di polizia in servizio di vigilanza, intervenuti per impedire che il reato fosse portato ad ulteriori conseguenze, i malviventi, al fine di assicurarsi l'impunità, avevano reagito con violenza e minaccia nei confronti dell'ispettore capo, Ca.Ma., spingendolo a terra e procurandogli lesioni della durata di cinque giorni con un cacciavite impugnato dal C.; colpendo, inoltre, in varie parti del corpo, gli agenti scelti, S.G. e N. G., ai quali procuravano lesioni della durata di dieci giorni, con il piede di porco brandito da L.A.; tentando, infine, di impossessarsi con la forza della pistola di ordinanza dell'agente S., azione materialmente eseguita dal L., il quale puntava l'arma contro l'altro agente, N., azionando ripetutamente il grilletto della pistola senza esito, essendo stata attivata la "sicura", e pertanto compiva, secondo la contestazione cautelare, atti idonei inequivocabilmente diretti a cagionare la morte del predetto pubblico ufficiale nell'esercizio e a causa delle sue funzioni. Secondo il Tribunale del riesame, il C., pur avendo dichiarato di essere rimasto all'esterno dei locali assaltati con funzione di palo, doveva ritenersi raggiunto da gravi indizi di colpevolezza di concorso ordinario in tutti i delitti ipotizzati (rapina impropria aggravata di cui al capo a); lesioni e tentato omicidio di cui al capo b); tentata rapina della pistola di ordinanza dell'agente S. di cui al capo c); e ricettazione di cui al capo d), per avere materialmente partecipato all'azione violenta intesa a guadagnare l'impunità, impugnando il cacciavite e colpendo l'ispettore capo Ca. al fine di sfuggire all'ammanettamento, e, quanto al più grave fatto di tentato omicidio dell'agente N., trattandosi di evento non imprevedibile nè del tutto svincolato dal delitto di rapina, che determina pur sempre un grave pericolo per la vita del rapinato portato, per impulso naturale, a resistere alla violenza e minaccia e a sperimentare qualsiasi mezzo per sottrarsi ad essa, sicchè l'omicidio o il tentato omicidio deve ritenersi legato alla rapina da un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra, secondo l'id quod plerumque accidit, nell'ordinario sviluppo della condotta delittuosa (citata sentenza di questa Corte n. 9273 del 1995, Rv. 202419). In merito alle emergenze cautelari, il Tribunale ha ribadito la ricorrenza dell'esigenza di speciale prevenzione di cui all'art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c), essendo il C., cittadino albanese come il L., privo di fissa dimora e di attività lavorativa, in Italia, da ritenersi inserito in ambienti delinquenziali dediti alla perpetrazione di delitti contro il patrimonio, aggiungendo che lo stesso non aveva mostrato alcun segno di resipiscenza nè fornito alcuna indicazione utile al rintraccio dei complici datisi alla fuga, donde la necessità di una misura contentiva, idonea a prevenire il concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti della stessa specie, e l'adeguatezza a tal fine della sola cautela di massimo rigore. 2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il C., tramite il difensore, avvocato Alessandro Cristofori del foro di Bologna, il quale lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) c) ed e), in relazione agli artt. 272, 273, 274, 275, 292 e 125 c.p.p. e agli artt. 110 e 116 c.p., la contradaittorietà e la manifesta illogicità della motivazione dell'ordinanza, implicante altresì il vizio di erronea applicazione della legge sostanziale in punto di concorso di persone nel © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 92 reato, per la ritenuta partecipazione del C. al delitto di tentato omicidio dell'agente N. (capo B) e al tentativo di rapina della pistola di ordinanza dell'agente S. (capo C), sebbene posti in essere dal solo L.. Al riguardo il ricorrente denuncia, innanzitutto, una carenza investigativa per non essere state rese disponibili le videoriprese del fatto (i fotogrammi della telecamera ubicata nell'area di servizio interessata dall'azione criminosa restano in memoria, secondo quanto emerso nel corso delle indagini, per sole 72 ore, dopo le quali sono automaticamente cancellati), dalle quali avrebbe potuto desumersi la costante presenza del C. all'esterno degli uffici dell'area di servizio, in funzione di palo, e il probabile esaurimento della sua condotta criminosa prima che il L., introdottosi con altro correo all'interno degli uffici, sottraesse la pistola di ordinanza all'agente S. e la puntasse contro l'agente N., senza omettere di sottolineare che anche quest'ultimo segmento dell'azione criminosa resterebbe avvolto nell'incertezza, non potendosi escludere che, nella colluttazione tra i malviventi e gli operatori di polizia, la pistola fosse stata innanzitutto puntata contro lo stesso L., il quale ne avrebbe deviato la direzione per meri scopi difensivi. Ad avviso del ricorrente, sarebbe, comunque, contraddittoria e illogica la motivazione e palese la violazione della legge sostanziale in tema di reato concorsuale, laddove il Tribunale del riesame sostiene che l'accordo tra più persone finalizzato alla commissione di un furto, con l'impiego di strumenti idonei soltanto al detto scopo (cacciavite e piede di porco), dovrebbe includere la previsione e l'accettazione del rischio, da parte di ciascun concorrente, di una degenerazione violenta dell'azione fino alla commissione di delitti contro la persona, come l'omicidio o il tentato omicidio, da imputare anche a coloro che non li hanno materialmente commessi a titolo di concorso ordinario o, secondo l'apertura, non priva di contraddizione, che si legge nell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari, a titolo di concorso anomalo di colui o coloro che vollero il fatto meno grave. In sintesi, i giudici della misura cautelare avrebbero teorizzato una responsabilità penale di tipo oggettivo, estranea al nostro ordinamento giuridico, come evidenziato proprio dall'esempio addotto dal Tribunale per avallare la principale tesi sostenuta del concorso (ordinario) del C. nei più gravi delitti posti in essere dal L., ipotizzando il caso in cui i partecipanti al mancato furto si fossero allontanati a bordo dell'unica autovettura con la quale erano arrivati sul posto e l'autista, nel tentativo di guadagnare la fuga e l'impunità, avesse investito uno o più degli agenti di polizia inseguitori, uccidendolo o compiendo manovra idonea a tal fine. Nell'ipotesi suddetta, ad avviso del Tribunale, non si sarebbe dubitato della responsabilità concorsuale di tutti i trasportati sul veicolo investitore, già concorrenti nel tentativo di furto, per i più gravi delitti di omicidio o di tentato omicidio dei verbalizzanti, e ciò suffragherebbe la tesi del concorso criminoso di tutti i partecipanti nei reati (più gravi) materialmente eseguiti solo da alcuni di essi. Motivi della decisione 3. Il ricorso è infondato. Come già affermato da questa Corte in numerosi precedenti, la responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario (art. 110 c.p.), se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave; mentre configura il concorso anomalo (art. 116 c.p.), nel caso in cui l'agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell'azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza (c.f.r., tra le molte, Sez. 6, n. 7388 del 13/01/2005, dep. 25/02/2005, Lauro). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 93 La responsabilità concorsuale resta esclusa, quindi, soltanto quando il reato diverso e più grave si presenti come un evento atipico, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegabili in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestata l'azione di taluno dei correi nel reato originario, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità idoneo ad escludere il nesso di causalità (c.f.r., tra le molte, Sez. 1, n. 7576 del 22/06/1993, dep. 03/08/1993, Rv. 194786). Coerentemente con l'interpretazione di cui sopra, la giurisprudenza ha ritenuto il nesso di compartecipazione nel caso di furto trasmodato in rapina impropria, affermandosi che non può considerarsi atipico e imprevedibile l'uso della violenza per assicurarsi la cosa sottratta o per garantirsi l'impunità (Sez. 2, n. 5352 del 09/11/1982, dep. 06/06/1983, Tabanelli, Rv. 159390; precedenti conformi: Rv. 152493 Rv. 151871 Rv. 146590; massime successive conformi: Rv. 161598 Rv. 167299 Rv. 177606). Nel caso in esame, contrariamente all'assunto del ricorrente, il Tribunale del riesame e, prima ancora, il Giudice per le indagini preliminari, cui il primo si è uniformato, hanno fatto buon governo dei principi suddetti, evidenziando, da un lato, che il C. ha materialmente partecipato alla rapina impropria in cui è degenerata l'originaria azione furtiva concordata, utilizzando un cacciavite contro uno dei sopraggiunti verbalizzanti per assicurarsi l'impunità; e, dall'altro lato, che l'ulteriore più grave delitto di tentato omicidio materialmente posto in essere dal solo L., impossessatosi della pistola di uno degli ufficiali di polizia che tentò di utilizzare contro un altro verbalizzante, non riuscendo a colpirlo solo perchè l'arma era munita di chiusura di sicurezza, si innestò in un contesto di condivisa violenta reazione all'intervento della polizia (da ritenersi del tutto prevedibile a presidio di un esercizio di pubblico ristoro ubicato lungo un'arteria autostradale di intenso scorrimento), con deliberata accettazione da parte di tutti, incluso il C., non lesinante l'uso del cacciavite contro chi tentava di ammanettarlo, del rischio di ferire anche mortalmente i verbalizzanti antagonisti sia direttamente, sia per l'azione violenta di altro concorrente, come di fatto avvenuto con arresto, fortunatamente, del fatto allo stadio del tentativo. Quanto alla pur denunciata carenza investigativa a causa dell'automatica cancellazione delle immagini riprese dalla telecamera in funzione sul luogo del fatto, si tratta di una censura del tutto generica, rinviante ad una ipotizzata alternativa dinamica del fatto rispetto a quella che ha trovato puntuale e convergente fondamento nelle dichiarazioni dei verbalizzanti e negli altri elementi acquisiti nel corso delle indagini. 4. Non sussistendo, quindi, il vizio di motivazione e la violazione di legge denunciati, in tema di concorso di persone nel fatto diverso e più grave rispetto a quello originariamente convenuto, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 606 c.p.p.. La cancelleria provvederà alle comunicazioni previste dall'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'Istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 94 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 95 5) Coltivazione di piantine di marijuana Andrea coltivava presso la sua abitazione di via Dante, in Bari, una piantina di marijuana; ogni tanto, fumava “uno spinello”, utilizzando le foglie della suddetta pianta. L’uso era esclusivamente personale e la coltivazione non imprenditoriale, ma domestica. Donatello di professione avvocato, vicino di casa di Andrea, venuto a sapere ciò, lo avvertiva del rischio che la sua condotta potesse essere qualificata come reato. Andrea si recava dal legale Marco. Il candidato, assunte le vesti di Marco, rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Andrea. Possibile soluzione schematica In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente il parere andava inquadrato nell’ambito del d.p.r. 309/1990: Andrea è punibile ex art. 73 del d.p.r. 309/1990? Per i fautori della tesi negativa, la condotta di Andrea rientra in quella prevista all’art. 75 con la conseguenza di integrare, al più, illecito amministrativo perché: -vi è detenzione; -diversamente opinando, si arriverebbe all’absurdum per cui chi compra droga per uso personale non è punibile, mentre chi la produce per uso personale è punibile; -diversamente opinando, si avrebbe una sanzione penale per un pericolo di pericolo, così vulnerando l’art. 27 Cost. e l’art. 49 c.p. E’ preferibile optare per la tesi positiva, con la conseguenza di qualificare come responsabile Andrea ex art. 73 perché: -non è detenzione, ma produzione; -in tema di salute, ex art. 32 Cost., si giustificherebbe un’anticipazione della tutela, pur punendo la condotta che ponga in essere un pericolo di pericolo. Alla luce di tali rilievi, pertanto, Andrea dovrà rispondere del reato ex art. 73 d.p.r. 309/1990. Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 24-04-2008) 10-07-2008, n. 28606 Svolgimento del processo - Motivi della decisione Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Savona, con sentenza del 9 novembre 2006, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di V.D., "perchè il fatto non sussiste" in ordine (anche) al delitto di cui: - al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, perchè, in assenza della prescritta autorizzazione, coltivava n. 6 piante di cannabis indica (sostanza stupefacente rientrante nella tabella 2 di cui al citato D.P.R., art. 14) - acc. in (OMISSIS), disponendo la confisca e la distruzione delle piantine putrefatte in sequestro. Ha osservato quel giudice che la consulenza tecnica tossicologica del P.M. non era riuscita a quantificare il principio attivo e la quantità della sostanza stupefacente sequestrata, in quanto le piantine erano state poste in sei sacchetti di cellophane ed erano pervenute allo stesso consulente tecnico completamente putrefatte, residuandone solo alcune foglie essiccate nelle parti fuoriuscite dai sacchetti da cui si era potuto desumere la presenza di principi di canapa indiana (marijuana). L'impossibilità di determinare il peso a secco della sostanza attiva e, in relazione ad esso, di © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 96 valutare il contenuto di THC non consentiva di "pervenire ad una dichiarazione di responsabilità di illecita detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente", e detta carenza probatoria appariva non colmabile nell'eventuale futuro dibattimento. Avverso tale sentenza di proscioglimento, pronunciata ai sensi dell'art. 425 c.p.p., ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Genova, il quale lamenta: - motivazione erronea; - inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale ex artt. 606 e 608 c.p.p.: in particolare, del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 14 della tabella 2 allegata. Prospetta il P.G. ricorrente che, in relazione alla coltivazione illegale di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, la totale assenza od insufficienza di principio attivo nelle sostanze sequestrate è irrilevante e, per aversi responsabilità penale, è sufficiente che le piante siano astrattamente idonee a produrre quantitativi non minimali di stupefacenti. Irrilevante deve altresì considerarsi l'eventuale destinazione del raccolto all'uso personale, essendo configurabile il reato anche in presenza della coltivazione di una sola piantina. Nella fattispecie in esame il G.U.P. avrebbe comunque dovuto disporre procedersi al futuro dibattimento, poichè il quadro probatorio offerto a sostegno dell'accusa formulata non era inficiato da insanabile contraddittorietà degli elementi emersi nè dalla loro conclamata insufficienza a confortare l'accusa: la prospettazione di insufficienza probatoria, peraltro, non risultava in alcun modo specificata, essendo stata argomentata unicamente attraverso una rassegna di massime giurisprudenziali. A seguito dell'udienza camerale del 7 febbraio 2008, nel corso della quale il pubblico ministero aveva concluso per il rigetto del ricorso, il Collegio della 4, Sezione di questa Corte Suprema, con ordinanza depositata il 7 marzo 2008, ha rilevato la permanenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa alla configurabilità del delitto contestato all'imputato e conseguentemente ha trasmesso il ricorso al Primo Presidente, a norma dell'art. 618 c.p.p.. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna camera di consiglio. 1. La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire "se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale". 2. In relazione a tale questione esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. 2.1 L'orientamento prevalente ritiene che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti sia penalmente illecita, quale che sia la destinazione del raccolto. La destinazione ad uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perchè difetta il nesso di immediatezza della coltivazione con l'uso personale, sia perchè non può determinarsi a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (vedi Cass., Sez. 4, 23.3.2006, n. 10138, Colantoni). In tal senso - all'esito del referendum abrogativo del 1993 - si è pronunciata, per la prima volta, la Sez. 4 con la sentenza 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 97 "l'attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall'uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del tutto distinte e il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 in applicazione dell'esito del referendum, non fa alcun riferimento all'attività di coltivazione" (principio ribadito dalla stessa Sez. 6, con le sentenze 5.1.1997, n. 100, Garcea e 5.4.2000, n. 4209, P.G. in proc. Reile). Ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, poichè la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l'agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (Cass., Sez. 4, 29.9.2004, n. 46529, Aspri ed altro). La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (vedi Cass.: Sez. 4, 6.2.2004, n. 4836, Felsini e Sez. 6, 9.6.2004, n. 31472, De Rimini). Ancora la 4 Sezione, con la sentenza 5.2.2001, n. 4928, Croce, ha osservato che il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di maggiore pericolosità ed offensività insita nell'essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorchè non qualificate da una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità. Il legislatore - delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell'impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) - non ha voluto sottrarre alla generale disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall'accertamento dell'esclusività della destinazione all'uso personale che alle stesse venga data, per l'immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie. Alla stregua delle considerazioni anzidetto è stata disattesa la tesi della equiparabilità della c.d. "coltivazione domestica" alla detenzione per uso personale, poichè le due condotte sono "ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità" ed è stato affermato che, stante la natura di reato di pericolo del correlato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purchè idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite da sanzioni di natura amministrativa, indicate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75. Tali affermazioni sono state comunque "temperate" - tenuto conto delle considerazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale, di cui si darà conto di seguito -dalla specificazione che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, ben può il giudice di merito escludere l'offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile (così Cass., Sez. 4: 13.4.2001, n. 15688, Vicini; 7.11.2002, n. 37253, Cantini; 30.5.2003, n. 23842, Morrone; 6.2.2004, n. 4836, Felsini; 8.3.2006, n. 8142, P.G. in proc. Fanfani; nonchè Sez. 6, 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 98 Sempre la 4 Sezione, con la sentenza 10.6.2005, n. 22037, Gallob, ha rilevato che, pure alla stregua del letterale disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, non è dato distinguere tra una coltivazione "di tipo tecnico-agrario" ed una coltivazione "domestica". Viene osservato, al riguardo, che è vero che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 27 fa riferimento anche alle "particelle catastali" ed alla "superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione", ed i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano, oltre che le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle "coltivazioni autorizzate" e le eccedenze di produzione "sulle quantità consentite", le sanzioni in caso di mancata autorizzazione; tali prescrizioni, però, riguardano la "autorizzazione alla coltivazione" e sono indicative, cioè, dei requisiti richiesti per ottenere detta autorizzazione. Del tutto configgente con la ratio normativa sarebbe la conclusione che, in mancanza della prescritta autorizzazione, concedibile solo in presenza dei requisiti indicati dalla legge, sarebbe in ogni caso consentita la coltivazione di piante di sostanze stupefacenti, quale che sia la loro quantità, purchè non messe a dimora in un terreno identificabile nelle sue particelle catastali e secondo le altre prescrizioni al riguardo indicate dalla legge. L'orientamento maggioritario, di cui si è dato conto dianzi, è stato ribadito - successivamente all'entrata in vigore dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272) - dalla Sez. 4, con le sentenze 7.12.2006, n. 40295, Quaquero ed altro; 10.1.2008, n. 871, Costa e dalla Sez. 6, con le sentenze 23.3.2007, n. 12328, P.G. in proc. Fiorillo; 24.5.2007, n. 20426, Casciano; 28.9.2007, n. 35796, Franchellucci). 2.2 Un diverso (e minoritario) orientamento, affermatosi nella giurisprudenza più recente, ritiene, al contrario, che la c.d. "coltivazione domestica" non integri gli estremi della fattispecie tipica della "coltivazione" oggetto di incriminazione nell'ambito del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, ma costituisca species del più ampio genus (di chiusura) della "detersione", di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, successivo art. 75, comma 1, risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all'esclusivo uso personale, e ciò anche alla luce del regime normativo introdotto dalla L. n. 49 del 2006. La prima affermazione di principio in tal senso si rinviene in Cass. Sez. 6, 30.5.1994, n. 6347, Polisena, secondo la quale "una volta abrogato il divieto dell'uso personale di sostanze stupefacenti ... ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l'esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte caratterizzate dal medesimo fine e quindi di interpretare il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un'interpretazione estensiva dell'espressione "comunque detiene" di cui al testo del citato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta" (principio affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana). Nel medesimo senso si pose Cass. Sez. 6, 13.9.1994, n. 3353, Gabriele, caratterizzata inoltre dal tentativo di precisare la nozione normativa di "coltivazione". Tale decisione ritenne la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica, osservando che l'ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, la © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 99 disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc), quali si evincono dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 27 e 28. Così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga -qualunque sia il fine cui essa è rivolta - sì ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l'illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all'uso personale. L'orientamento, dopo l'intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995, fu abbandonato per oltre un decennio, ed è stato solo recentemente riproposto, successivamente all'entrata in vigore della L. n. 49 del 2006, da Cass., Sez. 6, 10.5.2007, n. 17983, Notaro, le cui argomentazioni sono state richiamate da quattro successive decisioni conformi della stessa Sezione (3.8.2007, n. 31968, P.M. inproc. Satta; 31.10.2007, n. 40362, P.G. in proc. Mantovani; 6.11.2007, n. 40712, Nicolotti ed altro; 19.11.2007, n. 42650, P.G. in proc. Piersanti). La sentenza n. 17983/07, Notaro, nel riepilogare l'evoluzione storica della normativa del settore, ha evidenziato che, nell'originaria formulazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 sanzionava come illecito amministrativo la condotta di chiunque, per farne uso personale, "importava, acquistava o comunque deteneva" sostanze stupefacenti, senza menzionare la condotta di coltivazione, in quanto quella normativa ricollegava la destinazione all'uso personale al non superamento della "dose media giornaliera", dato quantitativo ontologicamente incompatibile con il concetto di coltivazione. Una volta espunto però, dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, all'esito del referendum abrogativo del 1993, il riferimento alla "dose media giornaliera", deve ritenersi possibile far rientrare la coltivazione c.d. domestica (per il solo consumo personale) nell'ambito della detenzione pura e semplice riconducibile all'espressione "comunque detiene" tuttora presente nella vigente previsione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1. L'analisi storicizzata dell'espressione "o comunque detiene" conduce a ritenere che essa si riferisca ad un comportamento descrittivo formulato in termini di sintesi, dato che tutte le condotte previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 sembrano comunque presupporre una forma di detenzione. Il D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convenite dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, ha adottato un modello repressivo apparentemente in grado di sottrarre la coltivazione dal regime di chi comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella 1, prevista dall'art. 14 opportunamente "rimodernata" con la previsione alla lettera a), n. 6, fra l'altro, proprio della cannabis indica, e dei prodotti da essa ottenuti, nonchè dei tetraidrocannabinoli, dei loro analoghi naturali, delle sostanze ottenute per sintesi o semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmaco-tossicologico; v. anche il n. 7 della stessa lettera a); ma ciò non deve far trascurare che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, reiterando l'espressione "o comunque detiene", consente di ricomprendere nel lessico di genere anche la coltivazione, come sintesi di tutte le condotte richiamate dall'art. 73 nel suo integrale contesto, ben potendosi ritenere compatibile con l'attuale regime una coltivazione che "per le altre circostanze dell'azione", appare destinata ad un uso non esclusivamente personale. D'altro canto - sempre secondo la sentenza Notaro - il regime dell'equiparazione quoad poenam della repressione delle attività illecite concernenti gli stupefacenti (vedi il richiamo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 all'art. 14) conduce ad escludere che un legislatore (non tanto razionale, quanto) ragionevole possa aver previsto la pena da anni sei di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa ad anni venti di reclusione ed Euro 260.000,00 di multa nella compresenza delle circostanze richieste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, per la configurazione dei "fatti di lieve entità", da un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa ad anni © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 100 sei di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marijuana (dotate di effetto drogante) per chi non intenda fare commercio del risultato della coltivazione, ma coltivi la cannabis per uso personale (consumo voluttuario o curativo, studio, etc). Viene ripresa la distinzione tra la nozione di "coltivazione c.d. domestica" e quella di "coltivazione in senso tecnico" (che si afferma dover assumere rilievo anche a seguito della L. n. 49 del 2006): la prima configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti. Tale condotta rientrerebbe nel più ampio genus della detenzione, con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto all'uso personale della sostanza, essa risulterebbe depenalizzata. Un solido fondamento di tale assunto viene individuato nella disciplina amministrativa complementare (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 e segg.) che regola le procedure per il rilascio dell'autorizzazione ministeriale alla "coltivazione" e le modalità con le quali tale attività può essere lecitamente svolta: il concetto tecnico-giuridico di "coltivazione" di piante contenenti principi attivi di sostanze stupefacenti penalmente rilevante comprenderebbe soltanto la coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti, laddove, al contrario, la coltivazione c.d. domestica rientrerebbe nell'ambito della nozione di "detenzione". Rileva ancora la sentenza n. 17983/07 che la conclusione contraria - che fa ricadere in ogni caso le condotte di "coltivazione" nell'area del penalmente rilevante, negando l'autonomo rilievo della nozione di detenzione-coltivazione - non fa che trasferire un dato di inferenza probatoria (quale è quello della destinazione della sostanza stupefacente) nella ratio del precetto, "tanto da assegnare al contesto di scoperta forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie". Ed infatti, sul presupposto che la detenzione per uso personale è penalmente irrilevante, il tema probatorio costituito dall'uso personale finisce col coincidere con la stessa struttura della norma, nel senso che, una volta accertato l'uso personale, la sua forza esimente è affidata al contesto in cui il fatto è accertato. Nel caso in cui il prodotto della coltivazione sia stato già raccolto, viene meno il pericolo astratto della condotta di coltivazione, fino a consentire l'utilizzazione di strumenti di verifica del pericolo effettivo, e se, invece, la coltivazione è ancora in corso, tale accertamento resta precluso, perchè del tutto irrilevante ai fini dell'identificazione dell'ipotesi di reato e della sua punibilità. Se poi solo una parte di quanto coltivato è stato raccolto, per questa sola parte cessa il pericolo del pericolo ed è possibile verificare, con il pericolo concreto, anche il pericolo astratto per la salute, secondo un canone del tutto inidoneo a discriminare la detenzione per il consumo personale dall'esito della coltivazione, come tale non punibile, dalla detenzione-coltivazione di quanto ancora non raccolto, come tale punibile. L'irragionevolezza di siffatte conseguenze finirebbe col dipendere dalla scelta di affidare la definizione del fatto al momento in cui si apprende la notitia criminis". 3. La Corte Costituzionale, con la decisione n. 443 del 1994, dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 28, 72, 73 e 75, come modificati dal D.P.R. n. 171 del 1993 (che aveva recepito l'esito della precedente consultazione referendaria, sopprimendo il riferimento al concetto di "dose media giornaliera" quale parametro fisso ed inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all'uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza della norma penale incriminatrice, nella parte in cui le disposizioni anzidette non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale proprio. Rilevò in quell'occasione il Giudice delle leggi che il remittente anche quella volta il G.I.P. del Tribunale di Savona aveva del tutto omesso la previa verifica della possibilità di una esegesi © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 101 adeguatrice delle norme impugnate, non essendosi posto il problema "se, proprio alla luce, e nel quadro del riferito ius superveniens, l'operata depenalizzazione della condotta di chi ... comunque detiene sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica (le sostanze in oggetto per il fine indicato) quale previste dalla normativa denunciata); ciò "afortiori quando, come nella specie, i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso della interpretazione conforme al precetto costituzionale". Venne suggerita così la possibilità di ritenere che le condotte di coltivazione per uso personale potessero essere sottratte, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell'illiceità penale. Questa Corte di Cassazione, però, solo qualche mese dopo tale decisione - con le sentenze della 4 Sezione 4.12.1993, n. 11138, Gagliardi e 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli - ritenne di non adeguarsi a tale interpretazione adeguatrice, argomentando essenzialmente sulla natura di reato di pericolo della "coltivazione" e sulla non assimilabilità della coltivazione stessa alla "detenzione", così contrastando le aperture che avevano invece caratterizzato la giurisprudenza di merito. Venne dunque riproposta la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, sollevata in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995 - alla luce dell'interpretazione restrittiva fornita da questa Corte di legittimità - ne dichiarò l'infondatezza. La Consulta ritenne la questione non fondata, evidenziando l'insussistenza della denunciata disparità di trattamento in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa di "coltivazione", prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, con alcuna di quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis ed argomentò, in particolare, che "la detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorchè valutata sempre in termini di illiceità, l'ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contingente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell'assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Per altro verso la scelta della non criminalizzazione del consumo in sè (che rappresenta una nota costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigore) implica necessariamente anche, in qualche misura, la non rilevanza penale di comportamenti immediatamente precedenti, essendo di norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta l'importazione) l'antecedente ultimo dell'assunzione. La linea di confine di queste condotte che, per il fatto di approssimarsi all'area di non illiceità penale (quella del consumo), si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata prima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall'uso personale; ma si tratta pur sempre di una sorta di cintura protettiva del nucleo centrale (id est il consumo) per evitare il rischio che l'assunzione di sostanze stupefacenti - che il legislatore ha ritenuto da ultimo di contrastare appunto con la comminatoria di sanzioni solo amministrative per le condotte ritenute più immediatamente antecedenti - possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. La coltivazione invece è esterna a quest'area contigua al consumo e ciò già di per sè rende ragione sufficiente di una disciplina differenziata. Nè va taciuto che la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 102 diversi nelle situazioni qui comparate. Infatti nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicchè anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perchè - come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione - l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili". La sentenza n. 360 del 1995 evidenziò altresì che la persistente illiceità penale della coltivazione, anche qualora univocamente destinata all'uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, resisteva anche alla verifica condotta (ex artt. 25 e 27 Cost.) alla stregua del principio di offensività, rilevando che "la verifica del rispetto del principio dell'offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che - come già rilevato - l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perchè non è irragionevole la valutazione prognostica - sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto. E - come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991; ma cfr. anche sentenza n. 62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; nè nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso - prospettato dal giudice rimettente - della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un'unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.). La mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 en. 333 del 1991 già citate)". Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di "coltivazione" anche in relazione alla coltivazione domestica di un'unica pianta, la Corte costituzionale precisò che "costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario, la © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 103 identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide anch'essa sulla linea di confine del penalmente illecito". Alle valutazioni svolte nella sentenza n. 360 del 1995 si sono poi riportate le successive decisioni in tema (ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996), in difetto di argomenti nuovi o di nuovi profili di censura. Con la sentenza n. 296 del 1996, la Corte costituzionale ha avuto ancora modo di evidenziare che dal novero delle condotte contemplate dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, il successivo art. 75 ne estrapola tre - l'importazione, l'acquisto e la detenzione - per riferirle ad una finalità specifica dell'agente, che è quella di farne uso personale. Per effetto dell'esito referendario "le tre condotte contemplate dal citato D.P.R. art. 75, ove finalizzate all'uso personale, sono state interamente attratte nell'area dell'illecito amministrativo, divenendo estranee all'area del penalmente rilevante; in tal modo è risultata anche in parte modificata la stessa strategia di (confermato) contrasto della diffusione della droga nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente (e anche del tossicofilo) rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative - significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti - ma non anche di sanzione penale. Ciò però non sulla base soggettiva dell'autore della condotta, quasi si trattasse di una immunità personale, bensì sulla base oggettiva della condotta stessa (quale specificata nell'art. 75 nelle tre ipotesi suddette) e dell'elemento teleologico (della destinazione della droga ad uso personale). In tal modo - come questa Corte ha già puntualizzato (sentenza n. 360 del 1995) - ne risulta tracciata una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che l'assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. In quest'area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta l'importazione) l'antecedente ultimo dell'assunzione; ed è l'elemento teleologico della destinazione della droga all'uso personale ad assicurare (secondo l'id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza. Ove invece non ricorra l'elemento oggettivo (di una delle tre condotte tipizzate nell'art. 75 cit.) o quello teleologico (appena ricordato) si ricade nell'area dell'illecito penale. Ciò anche nell'ipotesi di una condotta, quale quella della coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi di sostanze stupefacenti al fine di fare uso personale delle stesse, che si approssima notevolmente a tale cintura protettiva, ma ne rimane pur sempre all'esterno, mancando la puntuale e rigorosa identificazione di uno dei due requisiti prescritti: condotta questa la cui perdurante rilevanza penale è stata ritenuta proprio per tale ragione non illegittima da questa Corte nella citata sentenza n. 360 del 1995". 4. Tenuto conto delle argomentazioni del Giudice delle leggi dianzi compendiate ed a fronte dei due orientamenti della giurisprudenza di legittimità dianzi illustrati, ritengono queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni: a) Devono ribadirsi anzitutto gli argomenti svolti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 360 del 1995, con riferimento alla mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l'uso personale ed alla impossibilità di determinare "ex ante " la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione. Non appaiono condivisibili, in proposito, le riflessioni della sentenza Notaro (n. 17983/07), che considerano "improprie" le argomentazioni anzidette, perchè perverrebbero "ad una scelta ermeneutica ... sulla base di un assetto interpretativo non proprio corrispondente agli effettivi © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 104 risultati cui era giunta la giurisprudenza ordinaria", per di più in contrasto con le conclusioni della stessa giurisprudenza costituzionale "in tema di differenza tra reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto". La Corte Costituzionale, infatti - come si è illustrato dianzi, al paragrafo 3 - tenne ben presente, al momento della decisione, sia la esistenza di un orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere la coltivazione per uso personale depenalizzata all'esito del referendum del 1993 ed assoggettabile pertanto alle sole sanzioni amministrative, sia la diversa interpretazione restrittiva privilegiata da questa Corte di Cassazione. Quanto poi alla valutazione della esposizione a pericolo degli interessi oggetto di tutela, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i reati di pericolo presunto non sono astrattamente incompatibili con il principio di offensività. La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole "anticipazione" della tutela penale e dalla valutazione di un "pericolo del pericolo", cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti. In tale prospettiva, anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della "salute individuale" costituisca, all'esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte Costituzionale, alle esigenze di tutela della "salute collettiva" connesse alla valorizzazione del "pericolo di spaccio" derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l'aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell'autorità. La "salute collettiva" è bene giuridico primario che, anche secondo l'elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto. Questa Corte Suprema, inoltre, a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 21.9.1998, Kremi), ha rilevato che i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 sono individuabili, oltre che nella salute pubblica, anche nella sicurezza e nell'ordine pubblico (in tal senso si è pure espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 333/1991), nonchè nella salvaguardia delle giovani generazioni, e può sicuramente affermarsi che l'implemento del mercato degli stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l'ordine pubblico e di allarme sociale. b) Va evidenziato poi che la condotta di "coltivazione", anche dopo l'intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nel novellato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, nè nell'art. 75, comma 1, ma solo nell'art. 73, comma 1. Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti. Imprescindibile è, al riguardo, il rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, tenuto conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro riduttivi. Deve essere pertanto circoscritta al legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare. c) E' agevole ricavare dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (ed in claris non fit interpretatio) l'esclusione dal regime dell'uso personale di tutte le altre condotte previste dal citato © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 105 D.P.R., art. 73, ad eccezione dell'importazione, acquisto o comunque della detenzione; vale a dire le condotte di chiunque "coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo". Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l'assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, "coltiva le piante indicate nell'art. 36". d) Arbitraria deve ritenersi la distinzione tra "coltivazione in senso tecnico-agrario" ovvero "imprenditoriale" e "coltivazione domestica" ed essa non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale. Il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 (sotto il capo "Della coltivazione e produzioni vietate") pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella 1 di cui all'art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannabis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare "istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante ... per scopi scientifici, sperimentali e didattici". Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella 1 - non necessariamente connotata (poichè la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione "tecnico-agraria" - fatta eccezione soltanto per quella "per scopi scientifici, sperimentali e didattici" assentibile con autorizzazione in favore di "istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca". Il fatto che nel D.P.R. n. 309 del 1990, successivi artt. 27, 29 e 30 siano previste norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l'autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicchè mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale. e) Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave. La coltivazione, inoltre, presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di "autoalimentarsi" attraverso la riproduzione dei vegetali. Con tali affermazioni non si opera "una confusione del fine nella struttura del precetto penale" nè si accentra l'esame sul profilo teleologia), per poi pervenire, proprio attraverso di esso, alla ricostruzione strutturale della coltivazione (come viene contestato nella sentenza Notaro), ma si da esclusivamente conto della ratio del diverso trattamento sanzionatorio, in un contesto normativo nel quale neppure appaiono condivisibili le considerazioni svolte nella sentenza medesima circa la "indeterminatezza della natura dell'offesa". Nel caso, poi, in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile "assorbimento" nella fattispecie amministrativa dell'illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale. 5. Residua un'ultima notazione circa la necessità, in ogni caso, della verifica - demandata al giudice del merito - dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 106 Il principio di offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") - secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, "rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato" (così testualmente Corte Cost. n. 265/05 e, in senso conforme, vedi pure le decisioni nn. 360/95,263/00,519/00,354/02). Nella specie la Corte Costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta. In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. La condotta è "inoffensiva" soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa), sicchè, con riferimento allo specifico caso in esame, la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. 6. Il ricorso del P.G., per tutte le argomentazioni dianzi svolte, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuova deliberazione al Tribunale di Savona ai sensi dell'art. 623 c.p.p., lett. d). P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 608, 611 c.p.p. e art. 623 c.p.p., lett. d), annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Savona per nuova deliberazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 aprile 2008. Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2008 Anche in tema di sostanza stupefacenti, la mera aderenza del fatto alla norma di per sè non integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene giuridico protetto dalla norma : non solo quindi "nullum crimen sine lege" ma anche "nullum crimen sine iniuria". Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 17-02-2011) 28-06-2011, n. 25674 Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 22/10/2009 il G.U.P. del Tribunale di Paola, in sede di udienza preliminare, dichiarava non luogo a procedere nei confronti di M.G. per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per la coltivazione di una piantina di canapa indiana (acc. in Scalea - CS - il 26/10/2008). Osservava il giudice di merito che sebbene la giurisprudenza di legittimità avesse stabilito il principio della punibilità della coltivazione di sostanza stupefacente, anche se domestica, pur © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 107 sempre la condotta tipica doveva essere connotata dalla offensività. Nel caso di specie, la coltivazione di una sola piantina non era idonea porre in pericolo il bene della salute pubblica o della sicurezza pubblica, con la conseguente non configurabìlità del delitto contestato. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale preso la Corte di Appello di Catanzaro, lamentando la erronea applicazione della legge penale, in quanto la inoffensività della condotta è delimitata alle sole ipotesi di inidoneità della sostanza a determinare un effetto stupefacente, nel caso di specie, invece, presente secondo quanto accertato attraverso analisi gascromotografiche. Motivi della decisione 3. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. 3.1. Va premesso che questa Corte di legittimità ha statuito di recente che la coltivazione di stupefacenti, sia essa svolta a livello industriale o domestico, costituisce reato anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 28605 del 24/04/2008 Ud. (dep. 10/07/2008), Di Salvia, Rv. 239920). Ciò premesso, la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che "Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 28605 del 24/04/2008 Ud. (dep. 10/07/2008), Di Salvia, Rv. 239921; Cass. Conforme, Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 1222 del 28/10/2008 Ud. (dep. 14/01/2009), Nicoletti, Rv. 242371). 3.2. In tema di principio di offensività, va osservato che esso può essere riguardato da due punti di vista: come criterio guida per il legislatore e come ausilio per l'interprete nella valutazione della tipicità di una determinata condotta. Dal primo punto di vista, la necessaria "frammentarietà" del diritto penale comporta che il legislatore si determini a configurare come reato un fatto quale estrema ratio, e cioè solo quando per la tutela di interessi non contingenti ritenga "ragionevole" il sacrificio della libertà individuale immanente alla sanzione penale (principio di legalità sostanziale). Nella selezione di fatti costituenti reato il legislatore deve essere guidato dalla valutazione del valore del bene giuridico che si intende tutelare, ma anche da finalità immediate determinate dal contesto storico e sociale. Tale potere del legislatore è discrezionale e quindi insindacabile, con l'unico limite, come detto, della manifesta irragionevolezza: invero la violazione di tale limite potrebbe portare a configurare una illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione. Ma l'aspetto che qui maggiormente interessa è il principio di "necessaria" offensività del reato, come criterio guida per l'interprete onde valutare la tipicità della condotta. Come è noto, si ha "tipicità" del fatto, quando questo corrisponde perfettamente alla fattispecie astratta prevista dalla norma incriminatrice. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 108 Secondo la più attenta dottrina e giurisprudenza, la mera aderenza del fatto alla norma di per sè non integra il reato, essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva del bene giuridico protetto dalla norma : non solo quindi "nullum crimen sine lege" ma anche "nullum crimen sine iniuria". Secondo i sostenitori della "concezione realistica", la previsione del reato non mira a punire la mera disobbedienza alla norma, ma la condotta effettivamente lesiva del bene protetto: in tale ottica il reato non può che essere un "fatto tipico offensivo". Il principio di offensività deve ritenersi essere stato costituzionalizzato nel nostro ordinamento. A riprova di ciò vi sono gli artt. 25 e 27 Cost. che distinguono tra pene e misure di sicurezza, le prime dirette a colpire fatti offensivi, le seconde, la mera pericolosità del soggetto. Ancora, significativo in tale ottica. E l'art. 13 Cost. che consente il sacrificio della libertà (connesso alla pena) solo in presenza della necessità di tutela di un concreto interesse. La necessaria offensività del reato si desume, inoltre, dalla disposizione di cui all'art. 49 c.p., comma 2 che prevede la non punibilità del reato impossibile. Tale norma, lungi dall'essere un inutile duplicato dell'art. 56 c.p. (laddove non prevede la punibilità del tentativo inidoneo), ha una sua propria autonomia se interpretata nel senso di ritenere non punibili quelle condotte solo apparentemente consumate e quindi aderenti al tipo, ma in realtà totalmente deficitarie di lesività secondo una valutazione effettuata "ex post". Dell'esistenza del detto principio vi è traccia sia nella giurisprudenza costituzionale che in quella ordinaria. Con la sentenza n. 62 del 26/3/1986 la Corte Costituzionale, dichiarando non fondata una questione relativa alla normativa sulle armi ed esplosivi, affrontò per la prima volta la problematica della offensività e della sua "costituzionalizzazione". Il giudice delle leggi ebbe ad osservare che spetta al giudice individuare il bene od i beni tutelati attraverso l'incriminazione d'una determinata fattispecie tipica, nonchè determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni in discussione, è fuori del penalmente rilevante. Inoltre, ribadendo che non era compito della Corte prendere posizione sul significato, nel sistema, del reato impossibile e se cioè esso, nella forma dell'inidoneità dell'azione, costituisse il rovescio degli atti idonei di cui all'art. 56 c.p. oppure fosse espressione di un principio generale integratore del principio di tipicità formale di cui all'art. 1 c.p., sottolineava che l'art. 49 c.p., comma 2, non poteva non giovare all'interprete al fine di determinare in concreto, la soglia del penalmente rilevante. Con altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha precisato che diversa dal principio della offensività, come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore penale ordinario, è la offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell'offensività in concreto della condotta dell'agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (Corte Cost. 360 del 14/5/1995). La giurisprudenza di merito e di legittimità, sebbene timidamente, hanno fatto appello al difetto di offensività per ritenere non punibile, a titolo esemplificativo, il tentato omicidio attraverso colpi © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 109 sparati alla vittima protetta da un vetro antiproiettile (Cass. 1^, 8527/1989, rv. 181564); la cessione di stupefacente con un principio attivo di scarsa capacità drogante (Cass. 4^, 601/1997, rv. 208011; Cass. 4^, 1222/2008, Rv. 242371); l'abuso d'ufficio, nel caso in cui esso incideva su un rapporto di lavoro oramai estinto (Cass. 6^, 8406/1997, rv. 208852); la violazione di norme tributarie determinata da irregolarità del tutto sporadica e casuale (Cass. 3^, 845U999, rv. 212305); il falso innocuo (Cass. 5^, 7875/1987, rv. 176302); il furto di merce di modesto valore (Trib. di Roma 2/5/2000). Peraltro, con molta cautela, il principio di offensività si va facendo strada anche nel diritto positivo: l'art. 27 del processo penale minorile, stabilisce che "Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo procedere per irrilevanza del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenza educative del minorenne". Ancora, il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 (Giudice di pace), prevede la possibilità dell'archiviazione del procedimento nei casi di particolare tenuità. Secondo la disposizione, "Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionala e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato". L'apertura mostrata dal legislatore verso la problematica dell'offensività appare destinata in futuro ad innovare tutto il sistema penale. 3.3. Ciò detto e venendo al caso di specie, è da ritenere che il giudice di merito abbia fatto buon governo dei principi illustrati, laddove ha riconosciuto a fronte delle oggetti ve circostanze del fatto e della modestia dell'attività posta in essere (coltivazione domestica di una piantina posta in un piccolo lo vaso sul terrazzo di casa, contenete un principio attivo di mg. 16), una condotta del tutto inoffensiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice. L'infondatezza del ricorso ne impone il rigetto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. L'aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, non è di norma ravvisante quando la quantità sta inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata. Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 24-05-2012) 20-09-2012, n. 36258 Svolgimento del processo 1. Il Tribunale di Teramo, con sentenza del 25 marzo 2010 condannò B.G. alla pena di anni nove di reclusione ed Euro 35.000 di multa (oltre alle pene accessorie previste dalla legge e al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare), riconoscendolo colpevole del delitto di cui all'art. 110 cod. pen., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), e art. 80, comma 2, perchè, in concorso con G.A. (separatamente giudicato), deteneva, al fine di cedere a terzi, ingente quantità di © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 110 sostanza stupefacente di tipo eroina (complessivi kg. 14,165), suddivisa in 26 panetti, confezionati sottovuoto e in due involucri di cellophane. 1.1. Tale sostanza era stata rinvenuta, in data (OMISSIS), in (OMISSIS), nell'officina-rimessaggio del B., ove il G., secondo i giudici del merito, col consenso del primo e avvalendosi di strumentazione ivi esistente e appositamente predisposta da entrambi, l'aveva portata, allo scopo di impacchettarla e, quindi, di occultarla all'interno di una cassettiera e di una mietitrebbia, presenti nei suddetto locale. 1.2. A B. fu contestata la recidiva semplice. 2. La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza del 3 novembre 2010, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha escluso l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, rideterminando la pena in anni sei di reclusione ed Euro 26.000 di multa; ha rigettato nel resto gli appelli proposti dall'imputato e dal Procuratore generale. In particolare, la Corte d'appello ha osservato che "non ricorre l'aggravante dell'ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, in considerazione della modestia della percentuale di principio attivo accertato in esito alle analisi di laboratorio dell'ARTA. Alla stregua di tale percentuale, infatti, il quantitativo di sostanza risulta pari a circa 17 grammi. Va in proposito richiamato quanto precisato dalla Suprema Corte, Sezione Quinta (recte, Sesta), con la sentenza numero 20119 del 26/5/2010 e, cioè, che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe pesanti (in particolare, tra le più diffuse, eroina e cocaina) (quelli) che, presentando un valore medio di purezza per tipo di sostanza, siano al di sotto dei 2 chilogrammi". 3. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione l'imputato e il Procuratore generale presso la Corte di appello. 3.1. Il B. con il primo motivo deduce violazione di legge, per asserita insussistenza del ritenuto concorso ex art. 110 cod. pen. nel reato commesso dal G., poichè nulla starebbe a provare che egli abbia dato un contributo causale alla detenzione illecita addebitata al coimputato e neanche che egli fosse consapevole del confezionamento, nella sua officina, di panetti di eroina ad opera del G.. A tutto concedere, il fatto avrebbe dovuto essere qualificato ex art. 379 cod. pen.. Con il secondo motivo, deduce, ancora, violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, atteso che, in proposito, è stato indebitamente valorizzato un remoto precedente e si è erroneamente ritenuto reticente il comportamento processuale dell'imputato. 3.2. Il Procuratore generale deduce, a sua volta, violazione di legge e contraddittorietà della motivazione per travisamento del fatto, sostenendo che la Corte di appello ha equivocato sugli esiti delle analisi eseguite, dalle quali era in realtà emerso che il principio attivo di sostanza drogante, nelle diverse confezioni di eroina cadute in sequestro, variava tra il 13% e il 17%, ammontando, sul totale degli oltre 14 chilogrammi di eroina sequestrati, a "circa due chilogrammi o più". La Corte abruzzese, dunque, aveva erroneamente ritenuto che la sostanza caduta in sequestro consistesse in soli 17 grammi, avendo confuso il dato percentuale con il principio attivo. D'altronde, la medesima Corte di appello, nell'ambito del separato procedimento a carico del coimputato ( G.), aveva riconosciuto che il quantitativo di eroina in oggetto era ingente, ritenendo, in quella occasione, la sussistenza dell'aggravante contestata. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 111 Conseguentemente, una volta verificato l'esatto quantitativo di principio attivo nella sostanza rinvenuta e sequestrata, avrebbe dovuto essere riconosciuta la corretta contestazione dell'aggravante de qua, sia in relazione alla sua idoneità a soddisfare le esigenze di un numero elevato di tossicodipendenti (indipendentemente dalla situazione del mercato locale e dalla sua possibile saturazione, secondo un orientamento giurisprudenziale, che il ricorrente qualifica come maggioritario), sia in relazione alla "soglia limite", suggerita dal diverso orientamento in proposito formatosi. 4. La Quarta Sezione penale della Corte di cassazione, cui i ricorsi sono stati assegnati, ha rilevato l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in relazione alla questione sollevata dal Procuratore generale ricorrente, vale a dire sui presupposti in relazione ai quali può essere ritenuta sussistente la contestata aggravante di cui all'art. 80 del testo unico 9 ottobre 1990, n. 309. Per tale ragione, con ordinanza in data 11 ottobre 2011, ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen.. Secondo la predetta ordinanza, la sentenza della Corte di appello contiene un evidente lapsus calami nella parte in cui indica in 17 grammi il peso complessivo dello stupefacente. Invero, si osserva che, nella fase di merito, l'imputazione ha sempre riguardato un quantitativo di eroina intorno ai 14 chilogrammi, con un principio attivo medio, come anticipato, del 13-14% e con "punte" fino al 17% e oltre. Si tratterebbe quindi di un mero errore materiale, in quanto la Corte territoriale avrebbe riportato la percentuale di principio attivo invece del peso complessivo della sostanza; tuttavia, sulla base delle argomentazioni sviluppate, si rileva che il giudice di appello ha "ragionato" sul corretto dato ponderale. La questione relativa ai criteri in base ai quali ritenere, ovvero escludere, l'esistenza dell'aggravante in oggetto, ha poi osservato la predetta Sezione, rimane comunque aperta e non può che essere risolta, considerato il contrasto permanente, dalle Sezioni Unite. Si osserva al riguardo che la Corte di cassazione si è, per un apprezzabile periodo di tempo, orientata nel senso della sussistenza dell'aggravante nei casi in cui i quantitativi di sostanza stupefacente si presentavano idonei al consumo da parte di un numero elevato di fruitori e alla conseguente saturazione di una rilevante porzione del mercato clandestino. Si rileva peraltro come si sia affermato, accanto alla opinione sopra sintetizzata, un diverso indirizzo, in base al quale, pur senza far riferimento al mercato e alla sua eventuale saturazione, l'aggravante in questione deve ritenersi ricorrente ogni qualvolta il quantitativo di sostanza stupefacente, pur non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un pericolo effettivo per la salute pubblica, atteso che esso può soddisfare le "esigenze" di un numero elevato (anche se non determinabile) di consumatori. Al proposito, si è osservato che il riferimento al mercato, oltre ad essere arbitrario, è anche di impossibile riscontro, dal momento che, com'è ovvio, trattasi di mercato clandestino, che, appunto in quanto tale, si sottrae ad ogni tipo di censimento e controllo. Si osserva ancora nella ordinanza che, con la sentenza n. 17 del 2000, ricorrente Primavera, le Sezioni Unite della Corte di cassazione ebbero a stabilire che la circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell'incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 112 sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza (Rv. 216666). Per la pronunzia sopra riportata, ciò che rileva è che la quantità di sostanza stupefacente superi notevolmente, "con accento di eccezionalità", la quantità usualmente trattata in transazioni del genere. Si tratta allora di accertare che detta sostanza sia oggettivamente di notevole quantità, vale a dire molto elevata nella scala dei valori quantitativi, anche se non raggiunga il valore massimo, che, per essere riferito a quantità, rimane sostanzialmente indeterminabile, in quanto ampliabile all'infinito. L'ordinanza di rimessione ha, al proposito, osservato che il principio sopra enucleato ha trovato applicazione nelle successive pronunzie del giudice di legittimità, sottolineando che, tuttavia, in seno alla Sesta Sezione penale, si è venuto - col tempo - delineando un divergente orientamento, in base al quale la nozione di ingente quantità deve far riferimento ad un valore ponderale eccezionale, rispetto alle usuali transazioni del mercato clandestino. In base ai dati di comune esperienza, conoscibili e valutabili proprio dalla Corte di cassazione, in ragione del fatto che essa è da ritenere "terminale di confluenza" dei moltissimi casi che si verificano e si accertano su tutto il territorio nazionale, la predetta Sezione è giunta alla conclusione che non possono definirsi ingenti i quantitativi delle cosiddette "droghe pesanti" - eroina e cocaina in primis - che, presentando un valore medio di purezza, siano al di sotto dei 2 kg e quantitativi di "droghe leggere" - in particolare hashish e marijuana - che, sempre in considerazione della percentuale media di principio attivo, non superino i 50 kg. Tale opinione, tuttavia, osserva la Quarta Sezione, è stata criticata in altre pronunzie, coeve e successive, le quali hanno rilevato come la individuazione di precisi parametri quantitativi, per individuare il carattere ingente della sostanza stupefacente "trattata", costituisca attribuzione esclusiva del legislatore, il quale, però, non ha ritenuto di fornire alcuna precisa e specifica indicazione sul punto. E' pur vero, d'altra parte - si fa notare - che anche altre ipotesi criminose sono state costruite dal legislatore con l'utilizzo di espressioni verbali generiche, espressioni relative a una maggiore o minore gravità dell'illecito. Ebbene, in tali casi, la giurisprudenza di legittimità non ha ritenuto necessario fissare un tetto quantitativo, espresso in precisi termini numerici; la giurisprudenza di merito, per parte sua, risulta aver elaborato parametri idonei all'individuazione delle fattispecie circostanziate, sulla base dei giudizi di fatto, che, appunto, attengono al merito. La logicità di tali criteri ha costituito, nei casi sopra indicati, oggetto del vaglio del giudice di legittimità. 5. Con decreto in data 3 novembre 2011, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2012 e disponendo la trasmissione degli atti all'Ufficio del Massimario penale per la redazione della consueta relazione illustrativa. Alla data sopra indicata, in considerazione dell'astensione dalle udienze dei difensori, la trattazione è stata rinviata al 24 maggio 2012. Motivi della decisione 1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: "Se, per il riconoscimento della circostanza aggravante speciale dell'ingente quantità nei reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, si debba far ricorso al criterio quantitativo, con predeterminazione di limiti ponderali per tipo di sostanza, ovvero debba aversi riguardo ad altri indici che, al di là di soglie quantitative prefissate, valorizzino il grado di pericolo per la salute © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 113 pubblica, derivante dallo smercio di un elevato quantitativo, e la potenzialità di soddisfare I numerosi consumatori per l'alto numero di dosi ricavabili". 2. Prima di affrontare la predetta questione, è necessario esaminare il ricorso dell'imputato, essendo evidente che, se esso dovesse rilevarsi fondato in riferimento alla prima censura proposta dal B. (il quale - si ripete - ha sostenuto, in via principale, l'insussistenza dei presupposti in base ai quali fu ritenuto il suo concorso nel delitto per il quale il G. ha già riportato condanna), non vi sarebbe possibilità, nè ragione, di affrontare la questione rimessa alle Sezioni Unite. 2.1. La prima censura proposta dall'imputato, peraltro, è infondata. Si legge nella sentenza impugnata (e il dato è pacifico, non risultando essere mai stato contestato) che nell'officina-rimessaggio del B. fu rinvenuta la sostanza stupefacente di cui al capo di imputazione, suddivisa in 26 panetti, confezionati sotto vuoto e avvolti in due involucri di cellophane. 2.2. Con il ricorso, il difensore dell'imputato sostiene che il solo fatto che il locale nel quale la droga era stata occultata fosse di proprietà del B. non costituisce certo circostanza sufficiente perchè sia ritenuto il suo concorso nel reato in questione. Il ricorrente invero ricorda che "affinchè si possa contestare il concorso di persona nel reato è necessario dimostrare l'apporto di ciascun concorrente alla determinazione dell'evento. Tale apporto, per altro, deve configurarsi in termini di funzionalità, utilità o maggiore sicurezza rispetto al risultato finale". 3. In realtà, il presupposto dal quale muove la critica del ricorrente non corrisponde a quanto ritenuto ed esposto dalla Corte abruzzese. I giudici di appello, infatti, non hanno affermato la sussistenza degli estremi del concorso del B. nel reato (già) addebitato al G. per il solo fatto che il primo era il proprietario del locale nel quale la droga era occultata, ma hanno considerato: a) le modalità di tale occultamento, b) la presenza nella rimessa-officina di strumentazione utilizzabile per il confezionamento "sotto vuoto", c) il fatto che sarebbe stato illogico che G. avesse, senza il consenso del B., nascosto una così rilevante quantità di eroina (avente un controvalore tutt'altro che trascurabile) in un luogo, nel quale - per stessa ammissione dell'imputato e per quel che si è sforzata di provare la sua difesa - avevano accesso più persone. Proprio tale ultima circostanza è particolarmente valorizzata dal giudice di secondo grado, il quale afferma che certamente il G. non avrebbe corso il rischio di perdere il controllo della "merce", nascosta in un luogo di pertinenza di altri e, per di più (secondo quanto si sosteneva nell'atto di appello e si sostiene nel ricorso) invito domino, anzi, addirittura, all'insaputa del proprietario del locale. Il rischio, secondo la Corte di merito, era notevolmente accresciuto, appunto, dal fatto che la rimessa-officina era frequentata anche da terze persone, di talchè era stato necessario individuare e utilizzare "nascondigli" (la cassettiera, la mietitrebbia) all'interno del predetto locale. Sulla base di tale presupposto fattuale e sviluppando un iter argomentativo tutt'altro che illogico, la Corte territoriale ha correttamente applicato l'istituto di cui all'art. 110 cod. pen., ritenendo che B. non fosse nè inconsapevole, nè indifferente in relazione all'occultamento dell'eroina nel suo locale, ma anzi fosse consenziente e avesse, all'uopo, messo a disposizione la rimessa-officina. La conclusione cui motivatamente è giunto il giudice di secondo grado non lascia spazio alla alternativa qualificazione giuridica della condotta del B. ai sensi dell'art. 379 cod. pen.. Invero il principio in base al quale il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 114 di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, costituisce giurisprudenza consolidata (cfr. Sez. 6, n. 4927 del 17/12/2003, dep. 2004, Domenighini, Rv. 227986; Sez. 4, n. 12915 del 08/03/2006, Billeci, Rv. 233724); ciò in quanto, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che sia diversamente previsto - in un concorso, quanto meno a carattere morale. Il principio, per altro, è stato più volte ribadito proprio in relazione a fattispecie nelle quali il contributo ascritto all'imputato era consistito nella messa a disposizione di locali utilizzati da terzi per traffici illeciti di sostanze stupefacenti (cfr. Sez. 6, n. 37170 del 15/04/2008, Cona, Rv. 241209: fattispecie in cui l'imputato aveva messo a disposizione i locali della propria officina per le attività di spaccio posta in essere da un congiunto; Sez. 6, n. 35744 del 03/06/2010, Petrassi, Rv. 248586: fattispecie in cui era stato messo a disposizione un magazzino perchè vi fosse custodita droga; Sez. 4, n. 13784 del 24/03/2011, Improta, Rv. 250135: fattispecie in cui il locale era stato messo a disposizione dello spacciatore perchè si incontrasse con l'acquirente). 4. La seconda censura del ricorso B. è inammissibile per genericità e perchè, sostanzialmente, articolata in fatto. La pur sintetica motivazione che, in ordine al diniego delle attenuanti di cui all'art. 62 bis cod. pen., sviluppa la sentenza di appello, fa perno su due presupposti: la esistenza di precedenti penali (all'imputato, come premesso, è stata contestata la recidiva) e il "censurabile comportamento processuale, improntato a reticenza e ambiguità". Orbene, quanto ai precedenti, il ricorrente si limita ad affermare che in realtà vi è un unico precedente e, per di più, "datato", ma neanche chiarisce a quando risalga e a quale reato si riferisca; quanto alla condotta processuale, con il ricorso si assume che il B. si è limitato a riferire quel che sapeva; ciò potrebbe costituire, a tutto concedere, replica alla accusa di reticenza, replica, in sè, non infondata, atteso che l'imputato non è obbligato a un comportamento collaborativo, ma non certo al più grave addebito di aver tenuto una condotta processuale ambigua, atteso che il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta, appunto l'imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere atteggiamenti processualmente "obliqui" e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale, che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento (cfr. Sez. 5, n. 15547 del 19/03/2008, Aceto, Rv. 239489) e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice del merito. 5. Tanto premesso e definito, è necessario ora passare a esaminare l'unica censura nella quale si sostanzia il ricorso del Procuratore generale, censura che costituisce, poi, la ragione per la quale sono state investite queste Sezioni Unite. 5.1. Va innanzitutto ricordato che, dal capo di imputazione, si evince che la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, è stata contestata in considerazione del quantitativo totale di eroina tratta in sequestro, pari a poco più di chilogrammi 14; in secondo luogo, va osservato come si ricavi, dalla sentenza di primo grado, che detta circostanza aggravante è stata ritenuta in relazione al quantitativo di principio attivo contenuto nella sostanza in questione (dalle analisi tecniche esperite è emerso che l'eroina sequestrata era "pura" in percentuale mediamente variabile tra poco più del 13% e il 14%, con "punte" del 17,84% nei 28 panetti nei quali essa era suddivisa, e quindi pari a circa kg. 2); in terzo luogo, va ribadito che, tuttavia, dalla sentenza © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 115 d'appello, sembra comprendersi che l'aggravante sia stata esclusa sul presupposto che il quantitativo di principio attivo nella droga tratta in sequestro corrispondesse nel complesso a soli 17 grammi. 5.2. In merito, l'ordinanza di rimessione della Sezione Quarta ritiene tale ultimo riferimento frutto di un "mero refuso", attinente alla sola "espressione grafica", in quanto la stessa sentenza fa riferimento alla "modestia di percentuale di principio attivo accertato". D'altra parte, osserva sempre la sezione rimettente, se la Corte di merito avesse inteso effettivamente far riferimento a un quantitativo di soli 17 grammi di principio attivo, non avrebbe avuto senso il richiamo della giurisprudenza di legittimità (in particolare alla sentenza della Sezione Sesta n. 20119 del 26/05/2010), che affronta il problema in relazione a fattispecie in cui le quantità (e le percentuali) erano di ben altro livello. L'affermazione merita di essere condivisa, dovendosi il detto quantitativo e la detta percentuale di principio attivo assumere come dati fattuali certi e immodificabili, conseguenti ad accertamento di merito, che lo stesso imputato ricorrente (e, prima, appellante) non risulta aver mai contestato. 6. La Quarta Sezione, nell'ordinanza più volte ricordata, compie un sintetico excursus della giurisprudenza di legittimità, relativa ai criteri utilizzati per la determinazione del concetto di "ingente quantità", prendendo le mosse da quelle sentenze che fanno esplicito riferimento alla capacità delle quantità trattate di saturare, in un determinato momento, il mercato clandestino ("un apprezzabile area di spaccio", cfr. Sez. 4, n. 7204 del 22/05/1997, Franzoni, Rv. 208535 e altre), per ricordare di seguito come il "profilo mercantilistico" fosse stato poi abbandonato (segnatamente dalla ricordata sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000 e da quelle delle sezioni semplici che ad essa si erano allineate), per concludere, quindi, facendo riferimento all'orientamento emerso nell'ambito della Sesta Sezione a far tempo dal 2010. Tale orientamento ha inteso ancorare la predetta espressione ("ingente quantità") a un dato numerico, variabile a seconda si tratti di "droghe pesanti", ovvero di "droghe leggere", nel senso che, al di sotto della soglia individuata, non potrebbe mai ritenersi sussistente l'aggravante in questione. Per vero, l'ordinanza di rimessione coglie aspetti problematici in entrambe le soluzioni proposte dalla giurisprudenza di legittimità. Con riferimento alla prima, in quanto il richiamo al mercato sembra essere stato, in realtà, reintrodotto dalla perifrasi - utilizzata dalla stessa sentenza Primavera e dalle caudatarie - con la quale si fa riferimento alle "transazioni del genere nell'ambito territoriale nel quale il giudice di fatto opera"; con riferimento alla seconda, perchè, come affermato da Sez. 4, n. 2451 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823 (e dalle altre pronunzie della medesima sezione che vengono singolarmente ricordate), non sarebbe consentito al giudice, nel silenzio del legislatore, "fissare predeterminati limiti quantitativi minimi, al fine di ritenere configurabile la circostanza aggravante in questione". In tali termini (e con le predette implicazioni), la Sezione rimettente ha individuato il contrasto di giurisprudenza, per la cui soluzione sono state investite le Sezioni Unite. 7. Per affrontare il problema "alla radice", conviene innanzitutto completare il quadro relativo alle contrapposte pronunzie giurisprudenziali che, sul tema, si sono susseguite. 7.1. Come correttamente osservato nell'ordinanza di rimessione, a un originario (e risalente) orientamento, che faceva riferimento alla saturazione del mercato (oltre alla ricordata sentenza Franzoni del 1997, può essere citata, tra le altre, Sez. 6 n. 8287 del 09/05/1996, Amato, Rv. 205929), ha fatto seguito, nel 2000, la sentenza delle Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 116 Primavera, che, pretermettendo (almeno in apparenza) il riferimento al mercato, ha sottolineato che, perchè possa parlarsi di quantità "ingente" di stupefacente, è necessario che "la quantità di sostanza tossica, oggetto della specifica indagine nel dato procedimento, superi notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere, nell'ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera". A tale pronunzia fanno esplicito riferimento non poche sentenze successive a far tempo dalla sentenza n. 44518 del 2003 della Sezione Quarta (ud. 24/09/2003, Grado, Rv. 226817), per la quale la circostanza aggravante della quantità ingente deve ritenersi sussistente quando il quantitativo, pur non raggiungendo il vertice massimo di valore, sia tale da rappresentare un pericolo per la salute pubblica, ovvero per un rilevante, ancorchè indefinito, numero di tossicodipendenti e, pertanto, allorchè sia idoneo a soddisfare le esigenze di un numero molto elevato di tossicodipendenti, senza ulteriore riferimento al mercato e alla eventuale sua saturazione. Con argomenti analoghi motiva la medesima Sezione, con le sentenze, n. 45427 del 09/10/2003, Bouzarriah, Rv. 226246, n. 30075 del 21/06/2006, De Angelis, Rv. 235180, n. 12186 del 27/11/2003, dep. 2004, Duro, Rv. 227908, n. 11510 del 02/12/2003, dep. 2004, Esposito, Rv. 228029, n. 47891 del 28/09/2004, Mauro, Rv. 230570, n. 43372 del 15/05/2007, Hillalj, Rv. 238295, n. 36585 del 18/06/2009, ric. Venturini, Rv. 244986 (ed altre non massimate). Per parte sua, la Sezione Sesta assumeva posizioni analoghe, con le sentenze n. 7254 del 19/10/2004, dep. 2005, Cusumano, Rv. 231313, n. 10834 del 23/01/2008, Sartori, Rv. 239210, n. 1870 del 16/10/2008, dep. 2009, Grieco, Rv. 242637. Episodicamente anche altre sezioni (Sez. 5, n. 39205 del 09/07/2008, Di Pasquale ed altri, Rv. 241694; Sez. 2, n. 4824 del 12/01/2011, Baruffaci, Rv. 249628), esprimevano simili concetti. 7.2. Ha rilevato, tuttavia, puntualmente, sempre l'ordinanza di rimessione che, a far tempo dal 2010, la Sezione Sesta ha affermato ripetutamente il principio in base al quale, con riferimento alle così dette "droghe pesanti", non può definirsi ingente un quantitativo inferiore a 2 chilogrammi e, con riferimento alle così dette "droghe leggere", a 50 chilogrammi; ciò facendo riferimento a una percentuale media di principio attivo. Il rilievo corrisponde al vero, atteso che effettivamente la recente giurisprudenza della Sesta Sezione ha manifestato l'esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità a un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi. Ciò in quanto, diversamente opinando, dovrebbe sospettarsi, secondo detta Sezione, la esistenza di un insanabile contrasto tra l'aggravante in questione e il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità, presidiato dall'art. 25 Cost., comma 2. Dunque, muovendo dal dictum della sentenza Primavera (e, pertanto, abbandonando anche essa il criterio della saturazione del mercato, in quanto del tutto assente dalla lettera della norma e comunque, di fatto, indefinibile), questo "nuovo" orientamento (Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni, Rv. 243374) ha voluto chiarire che, "ai fini di un'applicazione giurisprudenziale che non presti il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non (addirittura) di casuale arbitrarietà, occorra meglio definire l'ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente all'accennata sentenza delle Sezioni unite, pur prestandovi formalmente adesione, presenta talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati quali-quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili". © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 117 Si è, conseguentemente, osservato che il riferimento all'ambito territoriale (pur presente nella stessa sentenza delle Sezioni Unite, come metro di valutazione della eventuale esuberanza del dato ponderale rispetto alle "usuali transazioni"), ha uno scarso valore ermenuetico. Ciò in quanto il mercato della droga ha caratteri globali e, normalmente, non riceve significativi connotati da una determinata area territoriale. Dunque, "poichè l'aggravante in questione esprime l'esigenza di reprimere più severamente fatti di accresciuto pericolo per la salute pubblica in relazione al rilevante numero di tossicofili cui un determinato quantitativo di droga è potenzialmente destinato, ciò che conta è, appunto, il numero di fruitori finali e non l'area dove essi insistono". Facendo ricorso alle medesime espressioni della sentenza Primavera, la predetta pronunzia aggiunge che, dovendosi porre l'ipotesi aggravata dalla quantità in posizione di marcata eccezione rispetto alle "usuali transazioni del mercato clandestino", ciò che rileva in assoluto è il valore ponderale, considerato in relazione al grado di purezza della sostanza tossica, e, quindi, delle dosi singole (aventi effetti stupefacenti) da essa ricavabili. Per la Sezione Sesta, non è dubbio poi che ci si debba riferire, non alle transazioni relative alla vendita al dettaglio e nemmeno a quelle che si verificano tra il pusher e il suo fornitore, ma a quelle relative ai quantitativi importati. E tali quantitativi ben possono essere valutati proprio dal giudice di legittimità - si intende, una volta avuto per certo il dato numerico, come emerso nel giudizio di merito - dal momento che la Corte di cassazione "è sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale". Forte, dunque, della propria esperienza nel presente momento storico, la Sezione Sesta ha ritenuto, come si anticipava, di poter individuare quale "ingente quantità" il valore ponderale (considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in ragione del grado di purezza, e, quindi, delle dosi singole aventi effetti stupefacenti) superiore a 2 kilogrammi per le "droghe pesanti" e a 50 chilogrammi per le "droghe leggere". Le sentenze della medesima Sezione n. 27128 del 25/05/2011, D'Antonio, Rv. 250736; n. 34382 del 21/06/2011, Romano, non massimata, n. 12404 del 14/01/2011, Laratta, Rv. 249635, hanno consolidato tale orientamento giurisprudenziale (nel medesimo senso anche Sez. 1, n. 30288 del 08/06/2011, Rexhepi, Rv. 250798). Da ultimo, la Sesta Sezione ha, ancora una volta, confermato la sua opinione (sent. n. 31351 del 19/05/2011, Turi, Rv. 250545), chiarendo, ribadendo e specificando che "il carattere ingente del quantitativo, e cioè la sua eccezionale dimensione rispetto alle usuali transazioni, può certamente essere suscettibile di essere, di volta in volta, confrontato dal giudice di merito con la corrente realtà del mercato; ma, stando a dati di comune esperienza, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata, in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, deve ritenersi che non possono, di regola, definirsi ingenti quantitativi di droghe leggere (...) oramai parificate dal punto di vista sanzionatorio alle così dette droghe pesanti, che, presentando una percentuale di principio attivo corrispondente ai valori medi propri di tale sostanza, siano inferiori ai cinquanta chilogrammi" (nel caso in esame si trattava di hashish). La sentenza da ultimo citata mostra, per altro, di non ignorare le critiche che al filone interpretativo che essa condivide e corrobora erano state mosse (critiche, come anticipato, in base alle quali non sarebbe consentito alla Corte di cassazione predeterminare i limiti quantitativi che consentono di ritenere configurabile la circostanza aggravante de qua, cfr. la già citata sentenza della Sezione © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 118 Quarta, Iberdemaj, nonchè la sentenza, sempre della stessa Sezione n. 9927 del 01/02/2011, Ardizzone, Rv. 249076, della quale amplius infra. A tali critiche, invero, si replica da parte della Sesta Sezione osservando che le soglie indicate (2 chilogrammi, 50 chilogrammi) non devono intendersi alla stregua di "valori assoluti o immutabili", rappresentando esse, viceversa, semplici parametri indicativi, tratti, come più volte chiarito, dalla casistica apprezzata dalla Corte di legittimità, sulla base dei dati provenienti dalla esperienza processuale; parametri, per altro, che ben possono essere ritenuti non confacenti al caso di specie, a patto, però, che il giudice di merito offra specifica indicazione dei criteri di riferimento cui ha inteso aderire. 7.3. A tale orientamento ha inteso, appunto, esplicitamente "reagire" proprio la Sezione Quarta (e, come si dirà, episodicamente anche la Quinta), che, con la già (più volte) ricordata sentenza n. 24571 del 03/06/2010, Iberdemaj, Rv. 247823, e, ancora più marcatamente, con la citata sentenza n. 9927 del 2011, Ardizzone, ha affermato che "in tema di reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti, non è consentito predeterminare i limiti quantitativi minimi che consentono di ritenere configurabile la circostanza aggravante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2". Ancor più di recente, la Quinta Sezione, per parte sua (sent. n. 36360 del 14/07/2011, Amato, non massimata), rifacendosi proprio a tale ultima pronunzia, ha ribadito la impossibilità/illegittimità di fissare soglie aritmeticamente determinate. 8. Tale essendo lo stato della giurisprudenza, appare opportuno, allo scopo di avvicinarsi alla soluzione del problema, in vista della composizione del contrasto, prendere le mosse da un'analisi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non trascurando le conseguenze che la sua applicazione comporta. 8.1. L'art. 80, comma 2, rappresenta una circostanza aggravante ad effetto speciale, che comporta, per le condotte incriminate dall'art. 73 del citato D.P.R., aventi ad oggetto quantitativi "ingenti" di droga, un inasprimento della pena edittale, dalla metà a due terzi. La pena poi è di anni 30 di reclusione, se le sostanze stupefacenti o psicotrope, oltre ad essere in quantità ingente, siano anche adulterate o commiste ad altre, in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva. Al proposito, è utile osservare che, già per lè ipotesi "ordinarie" (quelle non riconducibili all'art. 73, comma 5 che, come è noto, prevede i casi attenuati del fatto di "lieve entità"), il legislatore ha approntato un quadro sanzionatorio di estrema severità. Invero, la pena detentiva va da 6 a 20 anni di reclusione e quella pecuniaria da Euro 26.000 a Euro 260.000 di multa. Dunque, anche in caso si ritenga insussistente l'aggravante de qua, il giudicante ha a sua disposizione una gamma sanzionatoria, che, non solo gli consente, come è ovvio, di graduare la pena secondo i noti criteri di cui all'art. 133 cod. pen., ma che gli conferisce il potere - ricorrendone ovviamente i presupposti oggettivi e soggettivi - di fornire una risposta repressiva in termini quantitativamente molto elevati. Il limite massimo della pena edittale per il reato di cui all'art. 73 della vigente legge sugli stupefacenti, invero, si allinea a quelli previsti per alcuni tra i più gravi delitti. Se si fa riferimento al caso in esame, poi, non si può non rilevare che il B. è stato condannato, come ricordato, alla pena di anni nove di reclusione in primo grado. E' allora agevole osservare che, anche © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 119 senza la contestazione dell'aggravante di cui al comma secondo dell'art. 80, la pena inflitta avrebbe potuto, almeno in astratto, essere egualmente determinata nella misura ritenuta in concreto, atteso che - come anticipato - il massimo edittale è di gran lunga superiore. Non basta: l'aggravante in questione comporta conseguenze (ovviamente sfavorevoli per il soggetto che se la veda riconoscere) con riferimento all'ampliamento dei termini di custodia cautelare, all'ampliamento dei termini di durata massima delle indagini preliminari, all'inasprimento del trattamento penitenziario. Inoltre, per le ipotesi aggravate ai sensi della ricordata norma, è stata prevista l'esclusione dall'indulto concesso con L. 31 luglio 2006, n. 241. E' allora evidente che il legislatore ha voluto riservare l'applicazione della aggravante in questione ai casi di estrema gravità, individuati come tali dalla elevata quantità della sostanza stupefacente trattata. In questi termini, è assolutamente da condividere la statuizione della sentenza Primavera, in base alla quale, come anticipato, l'aggravante in questione ricorre tutte le volte in cui il quantitativo "pur non raggiungendo valori massimi", consenta, tuttavia, di determinare una notevole impennata nei consumi, raggiungendo quindi un cospicuo numero di sub-fornitori, prima, e una folta massa di consumatori, in fine. La figura criminale che, attraverso tale previsione, il legislatore individua è quindi quella del "grossista": non necessariamente, insomma, l'importatore in grado di movimentare quantità rilevantissime di sostanza stupefacente (e quindi di eseguire pagamenti per importi altrettanto "impegnativi"), ma certo neanche lo spacciatore di medio livello, in grado di acquistare, stoccare e smerciare quantità pur ragguardevoli di droga, ma non certo "ingenti" (vocabolo di incerta etimologia, ma che sembra abbia attinenza con la radice verbale che indica accrescimento, aumento, incremento). 8.2. Ciò detto, tuttavia, è manifesto che nessun progresso in termini di (maggiore) determinazione dei concetto espresso dalla norma è stato fatto. Espressioni come quantità "considerevoli, rilevanti, cospicue", o, appunto, "ingenti", sono tutte sostanzialmente indefinite, perchè relative, mutevoli, sfuggenti, sottoposte all'interpretazione soggettiva e all'esperienza contingente. D'altronde, il riferimento al mercato, che l'originario orientamento aveva effettuato, nel tentativo di ricercare un aggancio oggettivo al dato normativo, è stato, come si è visto, per tempo, e opportunamente, abbandonato per le ragioni che si sono sopra accennate: trattandosi di un mercato illegale, e quindi clandestino, nessuna credibile rilevazione della dinamica domanda-offerta è possibile. A ciò si deve aggiungere che, se si fa riferimento, come è inevitabile, "ai mercati", piuttosto che "al mercato" (atteso che in una determinata zona la saturazione può avvenire in tempi diversi - e quindi con quantità diverse - rispetto a un'altra), si rischia di violare il principio costituzionale di eguaglianza, finendo per attribuire rilevanza, in termini di aggravante, a una circostanza in un determinato contesto e non in un altro. E ciò, si badi bene, in presenza di un'aggravante che è costruita sul solo dato quantitativo (e che quindi non dovrebbe essere diversamente declinata ratione loci). A differenza, infatti, dell'attenuante di cui al D.P.R., art. 73, comma 5, più volte citata, che, per delineare i fatti "di lieve entità", invita il giudice a prendere in esame, oltre alla quantità dello stupefacente trattato, vari altri parametri (i mezzi adoperati, le modalità della condotta, le circostanze che l'hanno accompagnata, la qualità dello stupefacente), l'aggravante di cui all'art. 80, comma 2 del medesimo corpus normativo fa riferimento solo alla quantità ("ingente") della sostanza. Naturalmente la quantità va valutata in riferimento al principio attivo, non al materiale inerte di cui la sostanza risulti essere anche composta; ma il giudice non può e non deve far riferimento a nessun altro parametro, se non a quello (estrinseco e oggettivo) della "ingente" quantità. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 120 9. L'esame delle sentenze di merito, oggetto di ricorso per cassazione con riferimento all'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 (esame condotto dall'Ufficio del Massimario di questa Corte in relazione al periodo successivo al manifestarsi del contrasto, vale a dire a far tempo dal 2011), offre un quadro quanto mai "variegato" circa il concetto di quantità ingente, come ritenuto dai giudicanti di primo e secondo grado. 9.1. Quanto alle "droghe pesanti", si va dai 100 chilogrammi di cocaina, ritenuti quantità ingente dall'autorità giudiziaria milanese, ai 15 grammi, ritenuti integrare l'aggravante de qua dall'autorità giudiziaria napoletana (in tale ultimo caso, questa Corte, annullando sul punto, ha escluso l'aggravante in questione); dai 767 grammi, sequestrati a Foggia e ritenuti quantità ingente, ai 512 grammi, sequestrati a Taranto, giudicati quantità non ingente. 9.2. Analogo divario è stato segnalato per l'eroina (dai 106 grammi, ritenuti quantità ingente dall'autorità giudiziaria catanese, con conseguente annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione, ai 45,270 chilogrammi sequestrati a Milano). 9.3. Con riferimento all'hashish, la valutazione spesso è effettuata in relazione alle dosi confezionate (es. 12.532 dosi, giudicate quantità ingente dall'autorità giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere, giudizio che è passato indenne al vaglio di questa Corte), ma anche al valore ponderale, con frequenti annullamenti - con o senza rinvio - in relazione alla ritenuta aggravante (7 chilogrammi a Bologna, 6 chilogrammi a Paola, 600 grammi a Enna ecc). 9.4. Quanto alla marijuana, potendo essa essere prodotta in Italia, il più delle volte, i sequestri hanno riguardato le piantagioni, più che il "prodotto finito", con la conseguenza che, data la notevole estensione degli appezzamenti di terreno coltivati, la quantità ingente è quasi sempre stata ritenuta. 10. Quelli sommariamente esposti sono dati ovviamente parziali e, peraltro, selezionati in base alla iniziativa della parte che ha deciso di proporre ricorso per cassazione e di sottoporre, in tal modo, al giudice di legittimità la valutazione che, in termini di "ingente quantità", aveva effettuato il giudice del merito. Si tratta, tuttavia, di dati significativi in ordine alla questione che in questa sede deve essere affrontata, in quanto evidenziano, come anticipato, la estrema differenziazione e la conseguente mutevolezza delle decisioni dei giudici di merito. Di talchè si giunge alla - apparentemente paradossale - conclusione in base alla quale la sussistenza dell'aggravante (e l'aggravamento della pena) dipendono dalla concorrenza di una circostanza oggettiva, molto soggettivamente interpretata, però, in quanto essa è rimasta concettualmente incerta e quantitativamente fluttuante. E ciò, naturalmente, rappresenta, sotto altro verso, ancora una volta, insidia al principio costituzionale di eguaglianza (non pochi ricorrenti si sono lamentati della disparità di trattamento, in quanto, dovendo rispondere del medesimo fatto, ma essendo stati giudicati separatamente, alcuni si sono visti ascrivere la circostanza aggravante della "ingente quantità", che viceversa per altri è stata esclusa. E tale sembrerebbe, per altro, essere il caso del B. nei confronti del coindagato G., atteso che, per il primo, in appello, è stata eliminata la aggravante, che, viceversa, come sostiene il ricorrente Procuratore generale, è stata addebitata definitivamente al secondo). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 121 11. E' allora da chiedersi se non si sia in presenza di una previsione normativa priva di quel livello di determinatezza e tassatività che, trattandosi di disposizione sanzionatola penale, deve necessariamente sussistere perchè sia superato il giudizio di compatibilità costituzionale. E' chiaro infatti che un sospetto di tal genere imporrebbe di investire della questione il Giudice delle leggi. 11.1. Ebbene, proprio la Quarta Sezione, con la sentenza n. 40792 del 10/07/2008, Tsiripidis, Rv. 241366, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità - sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, art. 25, comma 2, art. 111 Cost., comma 6, - della aggravante di cui al D.P.R. 309 del 1990, art. 80, comma 2, a cagione della sua pretesa indeterminatezza. Ha osservato la Quarta Sezione che il presupposto di operatività della aggravante, per quanto ampio, non può "ritenersi indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare l'introduzione di parametri legali precostituiti, i quali impedirebbero al giudice di apprezzare in concreto la gravità del fatto e quindi rideterminare la pena in termini di coerente proporzionalità rispetto al suo effettivo profilo e alla personalità dell'autore". 11.2. L'ordinamento, d'altronde, conosce altre ipotesi in cui disposizioni penali evocano il concetto di "ingente quantità". Il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 53 bis, sostituito dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 260, in tema di traffico illecito di rifiuti, prevede la condotta di chi "cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti". Ebbene, anche a proposito di tale normativa, la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, dep. 2008, ric. Patrone, Rv. 238558) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma sopra ricordata, per pretesa violazione dell'art. 25 Cost., sul presupposto dell'asserita indeterminatezza del concetto di ingente quantità di rifiuti. La Sezione Terza, al contrario, ha ritenuto senz'altro possibile definire l'ambito applicativo della disposizione, tenuto conto che tale nozione, in un contesto che consideri anche le finalità della norma, va riferita al quantitativo di materiale complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, anche se queste ultime, considerate singolarmente, potrebbero essere di entità modesta. Nè diversamente si è orientata la medesima Sezione in tema di pedopornografia, in relazione al dettato degli artt. 600 ter e 600 - quater cod. pen., i quali fanno riferimento alla detenzione di materiale (pedopornografico, appunto) in "ingente quantità". E, infatti, con la sentenza n. 17211 del 31/03/2011, R., Rv. 250152, la predetta Sezione ha chiarito, a proposito della nota locuzione, che il suo uso "rappresenta l'espressione di una legittima scelta del legislatore di riservare al giudicante il potere di considerare un fatto aggravato o attenuato in relazione agli innumerevoli, e mai predeterminabili, casi della vita. Come, però, accade abitualmente, di fronte all'uso, di siffatti termini di respiro, che rimandano alla valutazione dell'interprete, la difficoltà risiede nella individuazione di parametri che - senza avere la pretesa di contenere numericamente entro "gabbie" precostituite i concetti da definire - ne delimitino, tuttavia i confini. Orbene, nel perseguire tale obiettivo, con riferimento alla fattispecie che occupa (detenzione di materiale pedopornografico) si può cominciare con l'osservare che l'apprezzamento come ingente, del quantitativo di materiale posseduto, è da ritenersi correlato al dato numerico delle immagini contenute nei supporti più vari". 11.3. Per completezza, va chiarito che, in merito a tali posizioni, non sempre la dottrina si è mostrata consenziente, giungendo - per vero - a dubitare della compatibilità di tali norme (e di tali interpretazioni) con il principio di legalità, sotto lo specifico profilo della tassatività e determinatezza della figura criminosa, come descritta dalla littera legis. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 122 Si è, anzi, sostenuto da parte di taluni Autori, che l'indeterminatezza normativa del legislatore costringe il giudice a una inevitabile "tautologia interpretativa" (in quanto egli, con parole diverse, non fa che riprodurre il testo della norma, senza apportare alcun contributo chiarificatore), con la conseguenza che precetti penali così aspecificamente formulati finiscono con l'entrare in conflitto anche con l'art. 54 Cost.,, comma 1, poichè non è possibile osservare leggi che non siano chiare e comprensibili nel loro contenuto. 12. Orbene, è noto che il principio di determinatezza trova il suo fondamento costituzionale nell'art. 25, comma 2, e art. 13 Cost., comma 2 (ma esso risulta desumibile, negli stessi termini, dal testo dell'art. 7 della CEDU, in quanto espressione del più ampio principio di legalità). Al proposito, la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 364 del 1988 e n. 185 del 1992) ha chiarito che la (sufficiente) determinatezza della fattispecie penale è certamente funzionale tanto al principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia penale (evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell'individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione individuale, perchè consente al destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze (giuridico-penali, appunto) del proprio agire. Sulla base di tali premesse, tuttavia, non è stato ritenuto dal Giudice delle leggi incompatibile con il principio di determinatezza l'utilizzo, nella formula descrittiva dell'illecito penale, di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti "elastici" (Corte cost, sentenze n. 247 del 1989, n. 34 del 1995, n. 5 del 2004 e n. 395 del 2005), ed è stata così negata l'indeterminatezza di talune fattispecie sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto ha ritenuto la Corte che competa all'interprete rendere certe e determinate quelle fattispecie che, in astratto, possono apparire prive di contorni sicuri e definiti (Corte cost,. sent. n. 247 del 1997 e n. 69 del 1999). Il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nella interpretazione giurisprudenziale. 12.1. Al proposito, altra dottrina sembra aver assunto una posizione di non netta chiusura, pretendendo rigida determinatezza della norma descrittiva della condotta penalmente vietata, ovvero aggravatrice dell'illecito e concedendo, però, una qualche possibilità di formulazione "più elastica" quando si tratti di attenuare la dimensione offensiva o mitigare le conseguenze sanzionatorie. Altri Autori hanno mostrato ancora maggiore apertura, attribuendo decisamente al giudice il poteredovere di specificare la portata della norma, quando il dato letterale faccia riferimento a una realtà quantitativa, ponderale o temporale non predeterminabile in termini di certezza, ma comunque sufficientemente circoscrivibile, sulla base delle conoscenze condivise e delle massime di esperienza (si fa l'esempio del danno patrimoniale di rilevante gravità, di cui all'art. 61 cod. pen., n. 7, o di speciale tenuità, di cui all'art. 62 cod. pen., n. 4). 13. Va al riguardo osservato che il condivisibile criterio del riferimento alle conoscenze condivise e alle (comuni) massime di esperienza non esclude affatto che quali valori di riferimento si assumano anche grandezze numeriche, che hanno la peculiarità di esprimere - nella loro astrattezza - parametri valutativi generali e quindi generalmente applicabili. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 123 D'altronde, la giurisprudenza precedentemente citata (cfr. Sez. 3, n. 17211 del 2011 in tema di pedopornografia), con riferimento ai testi normativi - diversi da quelli sugli stupefacenti - che anche fanno ricorso ad espressioni "elastiche", pur assumendo che ricorrere a valori numerici costringerebbe il ragionamento del giudice entro inaccettabili "gabbie" (così testualmente), non rifugge, poi, da esemplificazioni di natura, appunto, numerica. Così detta sentenza, a proposto della detenzione di materiale pedopornografico, esclude che possa parlarsi di ingente quantità quando la detenzione sia relativa a decine, ma anche a centinaia, di immagini e giunge alla conclusione che "diverso è il caso di chi superi, più o meno ampiamente, tali indicazioni di massima". 14. La soluzione va allora ricercata all'interno del sistema che, in tema di stupefacenti, la vigente legislazione ha approntato. 14.1. Detta normativa contempla, come è noto (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 13, comma 1, e art. 14 come modificati e integrati prima dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, e successivamente dalla L. 15 marzo 2010, n. 38), che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle. La prima tabella comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e sostanze psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno funzione farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Si tratta, appunto, di farmaci. Dette tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione o di provvedere a eventuali cancellazioni. L'aggiornamento pertanto interviene (con decreto ministeriale) tutte le volte in cui una "nuova sostanza" diventa oggetto di abuso o quando qualche "nuova droga" viene messa in circolazione sul mercato clandestino o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione stupefacente o psicotropa. Naturalmente una stessa sostanza (es. la morfina) può trovarsi in entrambe le tabelle, perchè, pur essendo un farmaco utile per lenire il dolore, essa è idonea a provocare tossicodipendenza. Le tabelle in questione, poi (ed è ciò che in questa sede rileva), indicano, tra l'altro, i cd. "limitisoglia", cioè i limiti quantitativi massimi previsti, oltre i quali le condotte descritte nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1-bis, sono considerate di regola penalmente rilevanti e, quindi, potenzialmente assoggetta bili al trattamento sanzionatorio previsto dai comma 1 del medesimo articolo (reclusione da sei a venti anni e multa da 26.000 a 260.000 Euro). Tali limiti, dunque, costituiscono il discrimine tendenziale fra "uso personale", che non comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse. Va peraltro precisato che tanto il possesso quanto l'uso di droghe costituiscono, comunque, condotte riprovate e vietate dall'ordinamento, il quale, tuttavia - per quel che si è appena detto - non sempre reagisce con la minaccia e la applicazione di sanzione penale. In sintesi: proprio per il dettato dell'art. 73, comma 1 bis, lett. a), del più volte ricordato D.P.R. n. 309 del 1990 e per il rinvio che esso adotta alla apposita tabella, acquistano rilievo dirimente le "soglie", al di sotto delle quali il possesso delle predette sostanze si presume per uso esclusivamente personale (sempre che, per altre circostanze sintomatiche, quali le modalità di presentazione, il confezionamento frazionato o altro, la presunzione sia ritenuta non operativa). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 124 In scala di crescente gravità, viene in considerazione la ipotesi della lieve entità, di cui al dell'art. 73, comma 5; le ipotesi "ordinarie" sono quelle residuali di cui all'art. 73; mentre la risposta repressiva più forte è riservata alle ipotesi aggravate di cui ai quattro commi dell'art. 80. 14.2. Orbene è da osservare che il ricordato D.L. n. 272 del 2005, introducendo criteri tabellari, ha dato primario risalto proprio al dato quantitativo, in relazione alle dosi ricavabili. Come suggerisce parte della dottrina, esso può offrire al giudice nuovi elementi di apprezzamento per valutare la ricorrenza dell'aggravante in discussione. Invero, proprio dai riferimento al "sistema tabellare" e dal rilievo (diretto e riflesso) che esso ha nel sistema, si può e si deve trarre la conclusione che è necessario individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità. Infatti, se il legislatore ha positivamente determinato la soglia - quantitativa, appunto - di punibilità (dunque un limite "verso il basso"), consegue che l'interprete ha il compito di individuare una soglia al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità (un limite, quindi, "verso l'alto"). Dunque, il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi dell'art. 73, comma 1 bis, lett. a) la soglia al di sotto della quale si presume l'uso personale, sia per la individuazione dell'ipotesi lieve di cui all'art. 73, comma 5 (unitamente ad altri dati, parimenti valutabili da parte del giudice), sia per la configurabilità dell'ipotesi aggravata di cui al dell'art. 80, comma 2. Va precisato che la giurisprudenza (cfr. Sez. 6, n. 48434 del 20/11/2008, Puleo, Rv. 242139) ha interpretato la tabella attuativa nel senso che i limiti quantitativi in essa previsti riguardano il principio attivo e dunque le dosi utilmente realizzabili; e lo stesso criterio interpretativo (la incidenza del principio attivo), ovviamente, deve essere adottato per determinare l'ingente quantità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2. Infatti, poichè i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici ex artt. 73 e 74 D.P.R. citato sono tanto la salute dei singoli quanto la sicurezza pubblica (cfr. Corte cost, sent. n. 333 del 1991; Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211073; Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920), consegue che la ratio della severissima punizione prevista con riferimento alla condotta descritta dall'art. 80, comma 2, va ricercata nel fatto che una quantità "ingente" di sostanza stupefacente (tale considerata con riferimento al principio attivo), consentendo il confezionamento di un numero davvero rilevante di dosi, determina un "allagamento della piazza di spaccio", con le ovvie ricadute, appunto, tanto in termini di illecito e iperbolico arricchimento di chi tale traffico gestisce ai più alti livelli (e si tratta ovviamente di soggetti non estranei alla criminalità organizzata), quanto con riferimento all'ordine pubblico e alla salute dei consociati. Già la sentenza delle Sezioni Unite Primavera, d'altra parte, aveva evidenziato come la "elevazione del livello di offerta" e il conseguente "calo del prezzo di scambio" costituissero ovvi fattori moltiplicatori della diffusione delle droghe. 15. I valori numerici, per tutto quel che si è detto, in quanto "misuratori di grandezza", costituiscono necessariamente l'oggetto dell'attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunziarsi sulla conformità di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza. 15.1. Avendo allora come riferimento e punto di partenza il valore- soglia previsto dalle predette tabelle (in quanto "unità di misura" rapportabile al singolo cliente-consumatore), è conseguente stabilire, sulla base della fenomenologia relativa al traffico di sostanze stupefacenti, come risultante a questa Corte di legittimità in relazione ai casi sottoposti al suo esame ("casi" riferibili all'intero © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 125 territorio nazionale), una soglia, ponderalmente determinata, al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità "ingente". Non si tratta invero di usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo legislatore, ma di compiere una operazione puramente ricognitiva, che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari (dati frutto di nozioni tossicologiche ed empiriche: cfr. Sez. 6, n. 27330 del 02/04/2008, Sejial, Rv. 240526), individui, sviluppando detti dati, una "soglia verso l'alto", al di sopra della quale possa essere ravvisata la aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2. 15.2. Ebbene, sulla base dei dati affluiti a questa Corte, si può affermare che, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, non può certo ritenersi "ingente", un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valoresoglia (espresso in mg nella tabella). Si tratta di un "moltiplicatore" desumibile proprio con riferimento alla casistica scaturente dalla indagine condotta dall'Ufficio del Massimario di questa Corte, sul "materiale giudiziario" a sua disposizione. Invero su di un totale di 65 casi esaminati, in relazione alla così dette "droghe pesanti", in 21 occasioni sono stati eseguiti sequestri (o comunque è stato accertato il possesso) di quantitativi superiori ai 10 chilogrammi. Con riferimento ai residui casi, la "maggioranza relativa" riguarda sequestri inferiori ai 2 chilogrammi. Discorso analogo può esser fatto con riferimento alle "droghe leggere", avendo come discrimen il quantitativo di 50 chilogrammi. E' allora evidente che se, come richiede la sentenza delle Sezioni Unite, Primavera, del 2000, per integrare il requisito della "ingente quantità", è necessario che la dimensione ponderale della sostanza stupefacente presenti "accenti di eccezionalità", detta eccezionalità non potrà che essere valutata se non come "strappo" a un criterio di (relativa) regolarità. Ora, avendo presente il quantitativo, numericamente espresso in milligrammi, indicato nella tabella più volte menzionata, ovvero il così detto valore-soglia (750 per la cocaina, 250 per l'eroina, 1000 per l'hashish ecc.) e considerando che il grado di "purezza" delle sostanze cadute in sequestro ed esaminate dai consulenti tossicologici - come riportato nelle sentenze di merito prese in considerazione (cfr. supra, i punti da 9.1 a 9.4) - è pari a oltre il 50% per la cocaina, al 25% per la eroina, al 5% per l'hashish tanto per circoscrivere l'analisi alle più diffuse sostanze droganti - appaiono condivisibili, in via di prima approssimazione, i criteri indicati dalla Sesta Sezione di questa Corte con le sentenze emesse a far tempo dal 2010. La conclusione, in ultima analisi, finisce per corrispondere a quei criteri di ragionevolezza, di proporzionalità e di equità, che proprio la più volte ricordata sentenza Primavera, di queste Sezioni unite, ebbe, a suo tempo, a indicare. 15.3. Più correttamente, tuttavia, per quel che si è anticipato, piuttosto che far riferimento al valore ponderale globale, appare opportuno riferirsi, appunto, alle dosi-soglia, individuando, come si diceva, in 2000 il limite al di sotto del quale non potrà essere di norma contestata l'aggravante della ingente quantità, atteso che a tale limite corrispondono, in linea di massima, i valori ponderali individuati come "medi" (rectius: non eccezionali) dalla giurisprudenza di merito. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 126 15.4. Indubbiamente, non si tratta di una rigorosa valutazione statistica, per la buona ed evidente ragione - più volte ribadita - che i numeri sul traffico di sostanze stupefacenti sono numeri oscuri; si tratta, viceversa, di una valutazione operata su dati processuali (essendo, peraltro, la verità processuale l'unica conoscibile dal giudice), che, tuttavia, pur con inevitabili margini di approssimazione, possono e devono essere assunti. La soglia così stabilita, come si è chiarito, definisce tendenzialmente il limite quantitativo minimo, nel senso che, al di sotto di essa, la "ingente quantità" non potrà essere di regola ritenuta; al di sopra, viceversa, deve comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice del merito. In altre parole, i parametri sopra enucleati non determinano - di per sè e automaticamente - se superati, la configurabilità dell'aggravante. Essi, invero, valgono solo in negativo, nel senso che, al di sotto degli accennati valori quantitativi, l'aggravante (D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 80, comma 2) deve ritenersi in via di massima non sussistente. 16. Pertanto, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, si deve enunciare il seguente principio di diritto: "L'aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, non è di norma ravvisante quando la quantità sta inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al D.M. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata". 17. In conseguenza di tutto quanto premesso, mentre il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna del B. al pagamento delle spese del procedimento, il ricorso del Procuratore generale deve essere accolto, disponendosi, per l'effetto, l'annullamento con rinvio ad altro giudice di appello, da individuare nella Corte di appello di Perugia, che farà applicazione del principio sopra enunciato. P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l'aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Perugia. Rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna al pagamento delle spese del procedimento. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 127 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 128 6) Accesso abusivo a sistema informatico o telematico Tizio è maresciallo dei carabinieri presso la stazione Ostia. Una sera, Tizio tornava a casa un po’ triste perché era venuto a sapere che sua moglie Marzia si incontrava di nascosto con l’idraulico Piero. Così, dalla propria abitazione in via Sibari a Roma, Tizio accedeva alla banca dati riservata ai carabinieri per cercare notizie su Piero; in effetti, Tizio, al suddetto fine, dopo l’accesso, utilizzava la banca dati per circa due ore. Il candidato rediga motivato parere circa la condotta posta in essere da Tizio in relazione al reato ex art. 615 ter c.p. Possibile soluzione schematica In premessa si poteva schematizzare il fatto; successivamente bisognava chiedersi: la condotta posta in essere da Tizio può essere inquadrata nell’ambito del disposto dell’art. 615 ter c.p.? In favore della tesi negativa depongono i rilievi che: -l’inciso “abusivamente” richiede una condotta in contrasto con la volontà del disponente dell’account; quando viene utilizzata una banca dati di cui è stato dato l’account, si manifesta una volontà implicita a permetterne sempre l’utilizzo; pertanto, la condotta di Tizio non è abusiva perché non contrasta con la volontà di chi conferisce l’account, che anzi al contrario ha preventivamente accettato implicitamente tale utilizzo; -l’inciso “abusivamente” andrebbe decodificato nel senso di “accesso non autorizzato”, mentre nel caso in esame è autorizzato, visto che Tizio ha legittimamente accesso alla banca dati. Accogliendo tale ricostruzione, Tizio non potrebbe essere punito per il reato ex art. 615 ter c.p. Tuttavia, si ritiene di privilegiare l’orientamento che condanna Tizio: l’art. 615 ter c.p. è applicabile nel caso in esame per le seguenti ragioni: -l’accesso è abusivo quando il bene (nel caso in esame la banca dati) viene utilizzata in modo non conforme alle ragioni per cui è legittimato l’accesso; in pratica: l’accesso è abusivo perché non finalizzato a realizzare gli scopi per cui tale accesso è stato legittimato; abusività, dunque, va parametrata alle modalità di utilizzo, ovvero al quommodo più che all’an; non è un accesso autorizzato. -per analogia, poi, l’accesso abusivo è simile alla violazione di domicilio di cui all’art. 615 c.p., ed in quest’ultimo caso è punita l’abusività, intesa come esercizio disfunzionale del potere (abuso di potere). Ne segue che Tizio potrà essere chiamato a rispondere del reato ex art. 615 ter c.p. Integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615-ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del resto, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema. Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 7.2.2012, n. 4694 ...omissis... Motivi della decisione 1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente; "se integri la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 129 condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto abilitato ma per scopi o finalità estranei a quelli peri quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita". 2. Il quesito inerisce alla fattispecie criminosa, introdotta dalla L. 23 dicembre 1993, n. 547 e prevista dall'art. 615-ter cod. pen., che sanziona (comma 1) il fatto di "Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero ivi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo". Le condotte punite da tale norma, a dolo generico, consistono pertanto: a) nell'introdursi abusivamente in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza: da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da lontano (attività tipica dell'hacker) sia da vicino (da persona, cioè, che si trova a dirette contatto dell'elaboratore); b) nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione: da intendersi come il persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata o casuale, continuando ad accadere alla conoscenza del dati nonostante il divieto, anche tacito, del titolare del sistema. Ipotesi tipica è quella in cui l'accesso di un soggetto sia autorizzato per il compimento di operazioni determinate e per il relativo tempo necessario (ad esempio, l'esecuzione di uno specifico lavoro ovvero l'installazione di un nuovo programma) ed il soggetto medesimo, compiuta l'operazione espressamente consentita, si intrattenga nel sistema per la presa di conoscenza, non autorizzata, dei dati. 3. La controversia interpretativa che ha portato alla rimessione dei ricorsi in oggetto alle Sezioni Unite si incentra sulla configurabilità del reato nel caso in cui un soggetto, legittimamente ammesso ad un sistema informatico o telematico, vi operi per conseguire finalità illecite. Sul punto si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte. 3.1 Un primo orientamento ritiene che il reato di cui ai primo comma dell'art. 615-ter cod. pen., possa essere integrato anche dalla condotta del soggetto che, pure essendo abilitato ad accedere al sistema informatico o telematico, vi si introduca con la password di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell'archivio informatico, utilizzando sostanzialmente il sistema per finalità diverse da quelle consentite. Tale orientamento si fonda sostanzialmente sulla considerazione che la norma in esame punisce non soltanto l'abusiva introduzione nei sistema (da escludersi nel caso di possesso del titolo di legittimazione) ma cinetici l'abusiva permanenza in esso contro la volontà di chi ha il diritto di escluderla: volontà contraria tacita in caso di perseguimento di una finalità illecita incompatibile con le ragioni per le quali l'autorizzazione all'accesso sia stata concessa. L'opzione esegetici in oggetto è stata motivata anzitutto sulla base della ravvisata analogia con la fattispecie della violazione di domicilio, considerandosi che entrambi gli illeciti sono caratterizzati dalla manifestazione di una volontà contraria a quella, anche tacita, di chi ha diritto di ammettere ed escludere l'accesso e di consentire la permanenza (nei sistema informatico alla stessa stregua che nel domicilio). Se il titolo di legittimazione all'accesso viene utilizzato dall'agente per finalità diverse da quelle consentite, dovrebbe ritenersi che la permanenza nel sistema informatico avvenga contro la volontà dei titolare del diritto di esclusione. Pertanto commette reato anche chi, dopo essere; entrato legittimamente in un sistema, continui ad operare o a servirsi di esso oltre i limiti prefissati dal © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 130 titolare; in tale Ipotesi ciò che si punisce è l'uso dell'elaboratore avvenuto con modalità non consentite, più che l'accesso ad esso. In questo senso ha argomentato, per la prima volta la Quinta Sezione, con la sentenza n. 12732 del 07/11/2000, Zara, concernente una vicenda in cui un soggetto, essendo autorizzato solo all'accesi" "per controllare la funzionalità del programma informatico", si era indebitamente avvalso di tale autorizzazione "per copiare i dati in quel programma inseriti", rilevando che; "il delitto di violazione di domicilio è stato notoriamente il modello di questa nuova fattispecie penale, tanto da indurre molti a individuarvi, talora anche criticamente, la tutela di un domicilio informatica". Analoghe considerazioni sono state svolte dalla Seconda Sezione, con la sentenza n. 30663 del 04/05/2006, Grimoldi, ed ulteriormente sviluppate dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 37322 del 08/07/2008, Bassani, dove è stato posto in evidenza che "la norma in esame tutela, secondo la più accreditata dottrina, motti beni giuridici ed interessi eterogenei, quali il diritto alla riservatezza, diritti di carattere patrimoniale, come il diritto all'uso indisturbato dell'elaboratore per perseguire fini di carattere economico e produttivo, interessi pubblici rilevanti, come quelli di carattere militare, sanitario nonchè quelli inerenti all'ordine pubblico ed alla sicurezza, che potrebbero essere compromessi da intrusioni o manomissioni non autorizzate. Tra i beni e gli interessi tutelati non vi è alcun dubbio ... che particolare rilievo assume la tutela del diritto alla riservatezza e, quindi, la protezione del domicilio informatico, visto quale estensione del domicilio materiale. Tanto si desume dalla lettera della norma che non si limita soltanto a tutelare i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici, ma prevede uno ius excludendi alios quale che sia il contenuto dei dati .... D'altro canto il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è stato collocato dalla L. 23 dicembre 1993, n. 547, che ha introdotto nel codice penale i cd. computer's crimes, nella sezione concernente i delitti contro la inviolabilità del domicilio e nella relazione al disegno di legge i sistemi informatici sono stati disfiniti un'espansione ideale dell'area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantite dall'art. 14 Cost., e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli artt. 614 e 615 cod. pen.". La sentenza n. 37322 del 2008 ha ribadito che "la violazione dei dispositivi di protezione del sistema informatico non assume rilevanza di per sè, perchè non si tratta di un illecito caratterizzato dalla effrazione dei sistemi protettivi, bensì solo come manifestazione di una volontà contraria a quella di chi del sistema legittimamente dispone. ... L'accesso al sistema è consentito dal titolare per determinate finalità, cosicchè se il titolo di legittimazione all'accesso viene dall'agente utilizzato per finalità diverse da quelle consentite non vi è dubbio che si configuri il delitto in discussione, dovendosi ritenere che il permanere nel sistema per scopi diversi da quelli previsti avvenga contro la volontà, che può, per disposizione di legge, anche essere tacita, del titolare del diritto di esclusione". L'orientamento in oggetto ha trovato successivamente accoglimento in ulteriori pronunzie della Quinta Sezione: La sentenza n. 13006 del 13/02/2009, Russo, ha applicato il principio ad una fattispecie relativa all'indebita acquisizione, con la complicità di appartenenti alla Polizia di Stato, di notizie riservate tratte dalla banca-dati del sistema telematico di informazione interforze del Ministero dell'Interno, per l'utilizzo in attività di investigazione privata di agenzie facenti capo agli stessi indagati o alle Quali essi collaboravano. La sentenza n. 2987 del 10/12/2009, dep. 2010, Matassich, ha ribadito l'orientamento in relazione alla copiatura, da parte di dipendenti, dei files presenti nella memoria del computer della azienda ovi essi prestavano lavoro. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 131 Lei sentenza n. 19463 del 16/02/2010, Jovanovic, ha ravvisato la configurabilità del reato di cui all'art. 615-ter cod. pen. per "il pubblico ufficiale che, pur avendo titolo e formale legittimazione per accedere ad un sistema informatico o telematico, vi si introduca su altrui istigazione criminosa nel contesto di un accordo di corruzione propria". In tal caso già l'accesso del pubblico ufficiale - che, in seno ad un reato plurisoggettivo finalizzato alla commissione di atti contrari ai doveri d'ufficio (art. 319 cod. pen.), diventi la longa manus del promotore del disegno delittuoso - è stato ritenuto in sè "abusivo" e integrativo della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 615-ter cod. pen., in quanto "effettuato al di fuori dei compiti d'ufficio e preordinato all'adempimento dell'illecito accordo con il terzo, indipendentemente dalla permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo". Secondo tale pronuncia, "tanto sposta l'attenzione dal momento della permanenza nel sistema contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo, a quello dell'accesso ed è lo stesso atto di accesso a qualificarsi come integrativo del reato, a prescindere dal prosieguo della condotta". La sentenza n. 39620 del 22/09/2010, dep. 2010, Lesce, ha ritenuto integrato il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico dalla "condotta di colui che, in qualità di agente della Polstrada, addetto al terminale del centro operativo sezionale, effettui un'interrogazione al CED banca dati del Ministero dell'Interno, relativa ad una vettura, usando la sua password e l'artifizio della richiesta di un organo di Polizia in realtà inesistente, necessaria per accedere a tale informazione" (per accedere alla banca dati del Ministero dell'Interno è necessario, infatti, che l'operatore utilizzi una password che lo abiliti alla richiesta e che indichi l'organo di Polizia Giudiziaria richiedente; laddove nella fattispecie concreta l'imputato aveva indicato un organo richiedente, che, invece, non aveva richiesto assolutamente nulla ed aveva altresì omesso di annotare la fittizia operazione sull'apposito registro della sala operativa, documento destinato a provare i fatti e le attività del servizio). 3.2 Un altro orientamento - del tutto difforme - esclude in ogni caso che il reato di cui all'art. 615ter cod. pen. sia integrato dalla condotta del soggetto il quale, avendo titolo per accedere al sistema, se ne avvalga per finalità estranee a quelle di ufficio, ferma restando la sua responsabilità per i diversi reati eventualmente configurabili, ove le suddette finalità vengano poi effettivamente realizzate. A sostegno di tale interpretazione, si osserva anzitutto che la sussistenza della volontà contraria dell'avente diritto, cui fa riferimento la norma incriminatrice, deve essere verificata esclusivamente con riguardo al risultato immediato della condotta posta in essere dall'agente con l'accesso al sistema informatico e con il mantenersi al suo interno, e non con riferimento a fatti successivi (l'uso illecito dei dati) che, anche se già previsti, potranno di fatto realizzarsi solo in conseguenza di nuovi e diversi atti di volizione da parte dell'agente. Un ulteriore argomento viene tratto dalla formula normativa "abusivamente si introduce", la quale, per la sua ambiguità, potrebbe dare luogo ad imprevedibili e pericolose dilatazioni della fattispecie penale se non fosse intesa nel senso di "accesso non autorizzato", secondo la più corretta espressione di cui alla cd. "lista minima" della Raccomandazione R(89)9 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, sulla criminalità informatica, approvata il 13 settembre 1989 ed attuata in Italia con la L. n. 547 del 1993, e, quindi, della locuzione "accesso senza diritto" (access ... without right) impiegata nell'art. 2 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 132 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica (cyber crime) fatta a Budapest il 23 novembre 2001 e ratificata con la L. 18 marzo 2008, n. 48. Peraltro, come per ogni norma me rappresenta la trasposizione o l'attuazione di disposizioni sovranazionali, anche per l'art. 615-ter cod. pen. va privilegiata, tra più possibili letture, quella di senso più conforme a tali disposizioni. Questo orientamento è stato illustrato dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 2534 del 20/12/2007, dep. 2008, Migliazzo, ove si è affermato che "non integra il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615-ter cod. pen.) la condotta di coloro che, in qualità rispettivamente di ispettore della Polizia di Stato e di appartenente all'Arma dei Carabinieri, si introducano nel sistema denominato S.D.I. (banca dati interforze degli organi di polizia), considerato che si tratta di soggetti autorizzati all'accesso e, in virtù del medesimo titolo, a prendere cognizione dei dati riservati contenuti nel sistema, anche se i dati acquisiti siano stati trasmessi ad una agenzia investigativa, condotta quest'ultima ipoteticamente sanzionarle per altro e diverso titolo di reato" (nella fattispecie è stata considerata altresì ininfluente fa circostanza che detto uso fosse stato già previsto dall'agente all'atto dell'acquisizione e ne avesse costituito la motivazione esclusiva). Secondo le argomentazioni svolte nella sentenza Migliazzo, "se dovesse ritenersi che, ai fini della consumazione del reato, basti l'intenzione, da parte del soggetto autorizzato all'accesso al sistema informatico ed alla conoscenza dei dati ivi contenuti, di fare peni un uso illecito di tali dati, ne deriverebbe l'aberrante conseguenza che il reato non sarebbe escluso neppure se poi quell'uso, di fatto, magari per un ripensamento da parte del medesimo soggetto agente, non vi fosse più stato". L'interpretazione restrittiva del contenuto della norma è stata poi ulteriormente sviluppata dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 26797 del 29/05/2008, Scimia (ove è stato escluso che dovesse rispondere del reato in questione un funzionario di cancelleria il quale, legittimato in forza della sua qualifica ad accedere al sistema informatico dell'amministrazione giudiziaria, lo aveva fatto allo scopo di acquisire notizie riservate che aveva poi indebitamente rivelate a terzi con i quali era in previo accordo; condotta, questa, ritenuta integratrice del solo reato di rivelazione di segreto d'ufficio, previsto dall'art. 326 cod. pen.). In tale decisione è stato escluso che l'imputato avesse effettuato un accesso non consentito o si fosse indebitamente trattenuto, oltre modi o tempi permessi, nei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia, poichè l'interrogazione era stata effettuata con lei utilizzazione della chiave logica (o password) legittimamente in suo possesso. E' stato altresì evidenziato che non solo non esiste norma o disposizione interna organizzativa che inibisca al cancelliere addetto alla singoli sezione di consultane i dati del registro generale e le assegnazioni ai diversi uffici (giacchè nessuna limitazione di tal genere è prevista per la lettura dei dati ad opera degli utilizzatori del sistema), ma una inibizione siffatta sarebbe contraria ad ogni buona regola organizzativa, attese le necessità di consultazione di un ufficio giudiziario. Alle stesse conclusioni è pervenuta pure la Sesia Sezione, con la sentenza n. 39290 del 08/10/2008, Peparalo, secondo cui "nella fattispecie di cui all'art. 615-ter cod. pen. sono delineate due diverse condotte integratici del delitto; la prima consiste nel fatto di "chi abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misura di sicurezza", la seconda nel fatto di chi "vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo". La qualificazione di abusività va intesa in senso oggettivo, con riferimento al momento dell'accesso ed alle modalità utilizzate dall'autore per neutralizzare e superare le misure di sicurezza (chiavi fisiche o elettroniche, password, etc.) apprestate dal titolare dello ius exdudendi, al fine di selezionare gli ammessi al sistema ed impedire accessi indiscriminati. Il reato è integrato dall'accesso non autorizzato nel sistema informatico, ciò che di per sè mette a rischio la riservatezza del domicilio © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 133 informatico, indipendentemente dallo scopo che si propone l'autore dell'accesso abusivo. La finalità dell'accesso, se illecita, integrerà eventualmente un diverso titolo di reato. Non può, pertanto, condividersi l'interpretazione della norma che individua l'abusività della condotta nel fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, abilitato ad accedere al sistema informatico, usi tale facoltà per finalità estranee "all'ufficio e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali era subordinato l'accesso. Tale lettura della norma finisce con l'intrecciare le due condotte descritte dall'art. 615-ter cod. pen., che sono differenti e alternative, disgiuntamente considerate dal legislatore. Sarebbe stata pleonastica la descrizione della seconda condotta se la prima fosse integrata anche da chi usa la legittimazione all'accesso per fini diversi da quelli a cui è stato legittimato dal titolare del sistema". L'indirizzo in esame è stato seguito poi dalla Quinta Sezione con la sentenza n. 40078 del 25/06/2009, Genchi. 4. A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi delineato, queste Sezioni Unite ritengono che la questione di diritto controversa non debba essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema, in quanto la volontà del titolare del diritto di escluderlo si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza (per così dire "fisica") dell'agente in esso. Ciò significa che la volontà contraria dell'avente diritto deve essere verificata solo con riferimento al risultato immediato detta condotta posta in essere, non già ai fatti successivi. Rilevante deve ritenersi, perciò, il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolane del sistema (nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro) sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito. In questi casi è proprio il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel sistema che risulta violato: il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall'autorizzazione ricevuta. Il dissenso tacito del dominus loci non viene desunto dalla finalità (quale che sia) che anima la condotta dell'agente, bensì dall'oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all'uso del sistema. Irrilevanti devono considerarsi gli eventuali fatti successivi: questi, se seguiranno" saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 cod. pen.). Ne deriva che, nei casi in cui l'agente compia sul sistema un'operazione pienamente assentita dall'autorizzazione ricevuta, ed agisca nei limiti di questa, il reato di cui all'art. 615-ter cod. pen. non è configurabile, a prescindere dallo scopo eventualmente perseguito; sicchè qualora l'attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici, e l'operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare dello ius exdudendi, il delitto in esame non può essere individuato anche se degli stessi dati egli si dovesse poi servire per finalità illecite. Il giudizio circa l'esistenza del dissenso del dominus iodi deve assumere come parametro la sussistenza o meno di un'obiettiva violazione, da parte dell'agente, delle prescrizioni impartite dal © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 134 dominus stesso circa l'uso del sistema e non può essere formulato unicamente in base alla direzione finalistica della condotta, soggettivamente intesa. Vengono in rilievo, al riguardo, quelle disposizioni che regolano l'accesso al sistema e che stabiliscono per quali attività e per quanto tempo la permanenza si può protrarre, da prendere necessariamente in considerazione, mentre devono ritenersi irrilevanti, ai fini della configurazione della fattispecie, eventuali disposizioni sull'impiego successivo dei dati. 5. Va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale "integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'art. 615ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del resto, gli scopi e te finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema". 6. Alla stregua di tale principio deve essere esaminata, dunque, la vicenda oggetto del processo, caratterizzata - secondo gli accertamenti di fritto e le acquisizioni dibattimentali - dalla circostanza che il maresciallo S. era stato autorizzato ad accedere al sistema informatico interforze ed a consultare lo stesso soltanto per ragioni "di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione dei reati", con espresso divieto di stampare il risultato delle interrogazioni "se non nei casi di effettiva necessità e comunque previa autorizzazione da parte del comandante diretto". Trattasi di prescrizioni disciplinanti l'accesso ed il mantenimento dell'interno del sistema che, in quanto non osservate dall'imputato, hanno reso abusiva l'attività di consultazione esercitata in concreto, prescindendosi dal successivo uso indebito dei dati acquisiti e dalla predeterminazione di una finalità siffatta. La condotta è stata posta in essere con la consapevolezza della contrarietà alle disposizioni ricevute e, quindi, del carattere invito domino dell'accesso e della permanenza fisica nel sistema, e ciò integra ad evidenza il dolo generico richiesto dalla norma, che non prevede alcuna finalità speciale nè lo scopo di trarre profitto, per sè o per altri, ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto. Le doglianze riferite, nei ricorso del S., alla configurabilità del delitto di cui all'art. 615-ter cod. pen. devono essere conseguentemente rigettate, perchè infondate. 7. Infondate sono altresì le questioni svolte nei tre ricorsi con riferimento alla ravvisabilità, rispetto alla fattispecie concreta, del reato di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio: reato del quale viene prospettata l'esclusione sotto i profili sia della mancanza di un pericolo effettivo per gli interessi protetti dalla norma incriminatrice, sia della mancanza di prova del dolo. La giurisprudenza di Questa Corte, che il Collegio condivide e ribadisce, configura il delitto di cui all'art. 326 cod. pen. quale reato di pericolo effettiva (e non meramente presunto) per gli interessi tutelati, nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sè e per sè, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, a mozzo della notizia da tenere segreta. Ne consegue che il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi di segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorchè estranei di meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute, fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 135 dell'apporto da esse fornito (vedi Sez. 6, n. 9306 del 06/06/1994, Bandiera; Sez. 5, n. 30070 del 20/03/2009, C). Le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art. 326 cod. pen. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, essendo stato evidenziato dada giurisprudenza di legittimità che: - il reato di rivelazioni di segreti di ufficio si configura anche quando il fatto coperto dal segreto sia già conosciuto in un ambito limitato di persone e la condotta dell'agente abbia avuto l'effetto di diffonderlo in un ambito più vasto (Sez. 6: n. 929 del 05/12/1997, dep. 1998, Colandrea; Sez. 6, n. 35647 del 17/05/2004, Vietti); - gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice in oggetto si intendono lesi allorchè la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio alla pubblica amministrazione o ad un terzo (Sez. 5, n. 46174 del 05/10/2004, Esposto; Sez. 1, n. 1265 del 29/11/2006, dep. 2007, Bria; Sez. 6, n. 5141 del 18/12/2007, dep. 2008, Cincavalli); - quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pencolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (Sez. 6, n. 42726 dell'11/10/2005, De Carolis); - integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore (Sez. 6, n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto). Ora, nella fattispecie in esame non risulti dimostrato che il C. e lo stesso M. avessero conoscenza del contenuto specifico ed integrale delle informative redatte da ufficiali della polizia giudiziaria in relazione ai comportamenti posti in essere da quest'ultimo considerati illeciti; e, in relazione ai fatti divulgati, poichè l'obbligo del segreto è precipuamente previsto dalla legge, non può sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità di produrre nocumento, a mezzo della notizia da tenere segreta, alla pubblica amministrazione o ad un terzo, proprio perchè la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza di un pericolo siffatto, ritenendola conseguente già alla mera violazione dell'obbligo del segreto. Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all'art. 326 cod. pen. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotte e senza che possa aver alcun valore esimente l'eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie (vedi Sez. 6, n. 2183 del 13/01/1999, Curia; Sez. 6, n. 9331 dell'11/02/2002, Fortunato). La sussistenza di lai e volontà consapevole, nella vicenda in esame;, risulta adeguatamente illustrata dai giudici del merito. Segue il rigetto integrale dei gravami proposti da C.G. e T.A.. 8. Priva di fondamento deve ritenersi pure I eccezione svolta nel ricorso dell'imputato S., con cui ai prospetta l'erronea applicazione dell'art. 599 c.p.p., comma 2, (dalla quale si fa discendere la © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 136 conseguente nullità del giudizio e della sentenza impugnata), a cagione della pretesa illegittimità del diniego del differimento dell'udienza camerale davanti alla Corte di appello, chiesto dal ricorrente per infermità documentata da certificato medico. L'art. 599 c.p.p., comma 2, dispone che, per il giudizio camerale d'appello avverso la sentenza pronunciata con il rito abbreviato, il legittimo impedimento dell'imputato comporta il rinvio dell'udienza soltanto allorchè l'imputato stesso abbia manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire (cfr. Sez. U, n, 35399 del 24/6/2010, F.). La giurisprudenza di questa Corte è divisa in ordine alla individuazione delle modalità attraverso cui tale volontà può essere legittimamente manifestata. A fronte, però, di un indirizzo interpretativo secondo il quale "nel giudizio di appello contro la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato non trova applicazione l'istituto dulia contumacia dell'imputato, sicchè il legittimo impedimento dello stesso impone il rinvio dell'udienza solo se egli abbia direttamente e tempestivamente manifestato la volontà di comparire, non essendo sufficiente a tale fine la mera istanza di rinvio avanzata dal difensore allegante l'impedimento" (così da ultimo, Sez. 2, n. 8040 del 09/02/2010, Fiorito), il Collegio ritiene maggiormente conforme al compiuto esercizio dei diritti della difesa il diverso orientamento secondo il quale "la richiesta di partecipazione da parte dell'imputato di cui all'art. 599 c.p.p., comma 2, può essere tratta anche da facta concludentia (quale la produzione, da parte del difensore, di una certificazione medica attestante l'impedimento a comparire dell'imputato con espressa istanza di rinvio) da cui possa desumersi la inequivoca manifestazione della volontà dell'imputato medesimo di comparire all'udienza camerale" (vedi Sez. 6, n. 1320 del 14/10/1996, Surace; Sez. 6, n. 43201 dell'11/10/2004, Viti; Sez. 6, n. 2811 del 18/12/2006, dep. 2007, Ramelli). Quanto ai poteri valutativi del giudici rispetto alle ragioni di salute documentate in un certificato medico prodotto a sostegno della richiesta di rinvio dell'udienza, le Sezioni Unite - con la sentenza n. 36635 del 27/09/2005, Gagliardi - si sono pronunciate nel senso che "in tema di impedimento a comparire dell'imputato, il giudice, nel disattendere un certificato medico ai fini della dichiarazione di contumacia, deve attenersi alla natura dell'infermità e valutarne il carattere impeditivo, potendo pervenire ad un giudizio negativo circa l'assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l'imputato". Con riferimento a tale necessaria valutazione, comunque, va ribadito che: - "il legittimo impedimento a comparire dell'imputato, oltre che grave e assoluto, deve presentare il carattere dell'attualità e cioè deve sussistere in relazione all'udienza per la quale egli è stato citato, in quanto l'impossibilità a presenziare alla stessa deve risultare dagli elementi addotti, come non altrimenti superabile" (così Sez. 5, n. 3392 del 14/12/2004, dep. 2005, Curaba; Sez. 4, n. 5901 del 15/03/1995, Maciocchi); - "il giudice di merito non ha alcun obbligo di disporre accertamenti fiscali per accertare l'impedimento dell'imputato a comparire al dibattimento, al fine di completare la insufficiente documentazione prodotta, purchè dia ragione del suo convincimento di non assolutezza dell'impedimento con motivazione logica e corretta" (Sez. 1, n. 6241 del 02/04/1990, Sforza). Dopo la citata pronunzia delle Sezioni Unite, inoltre, è stato ribadita la legittimità del provvedimento di diniego della richiesta di rinvio per impedimento dell'imputato a comparire, in ipotesi di produzione di un certificato medico che si limiti: © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 137 - ad attestare l'infermità (nella specie, faringo-tracheite) con esiti febbrili e la prognosi, senza indicare il grado della febbre, essenziale alla valutazione della fondatezza, serietà e gravità dell'impedimento (Sez. 6, n. 20811 del 12/05/2010, dep. 3/6/2010, S.); - ad attestare l'infermità di per sè non invalidante (nella specie, colica renale) e la prognosi, senza nulla affermare in ordine alla determinazione dell'impossibilità fisica assoluta di comparire (Sez. 6, n. 24398 de4 26/02/2008, De Macceis). Ora, nella fattispecie in esame, all'udienza del 19 maggio 2009, risulta presentato certificato medico riferito al S., redatto il precedente 15 maggio ed attestante che l'imputato era affetto da "cistite emorragica febbrile" e necessitava "di giorni sei di riposo e cure". Alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte (di cui si è dato conto dianzi), pertanto, deve considerarsi assolutamente corretta la decisione del giudice di merito che ha rigettato l'istanza di rinvio sui rilievi due: a) il certificato era stato redatto quattro giorni prima dell'udienza; b) in esso non era indicato il grado febbrile; c) nulla veniva affermato in ordine alla determinazione dell'impossibilità fisica assoluta di comparire, attestandosi esclusivamente la necessità "di riposo e cure". 9. L'unico motivo di ricorso che deve ritenersi fondato è quello riferito al trattamento sanzionatorio nell'atto di gravarne proposto nell'interesse del S., ove (sta pure con diversa doglianza) si prospetta che le condotte indicate nel comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen. non integrano fattispecie delittuose distinte ed autonome rispetto a quelle descritte nel comma 1, costituendo invece ipotesi aggravate finalizzate ad innalzare la sanzione da applicare a quei soggetti che in ragione della loro funzione - e purchè non legittimati ab initio - sono facilitati ad attingere informazioni sensibili. 9.1. Va rilevato, sul punto, che la sezione 5, con la sentenza n. 1727 del 30/09/2008, dep. 2009, Ramano, ha differenziato nettamente la portata applicativa delle fattispecie rispettivamente contemplate dal comma 1 e dal comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen., affermando che "l'accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615- ter c.p., comma 1) e l'accesso commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri o con abuso della qualità di operatore del sistema (art. 615-ter, comma 2, n. 1) configurano due distinte ipotesi di reato, l'applicabilità di una delle quali esclude l'altra secondo il principio di specialità; concernendo il comma 1 l'accesso abusivo ovvero l'intrusione da parte di colui che non sia in alcun modo abilitato, mentre il comma 2 - non costituisce una mera aggravante - ma concerne il caso in cui soggetti abilitati all'accesso abusino di detta abilitazione". Tale impostazione risulta ribadita, sempre dalla Quinta Sezione, nella recente sentenza n. 24583 del 18/01/2011, Tosinvest, secondo la quale il comma 2, n. 1, dell'art. 615-ter cod. pen. non costituisce un'aggravante del fatto descritto nel comma 1, ma un'ipotesi diversa di reato, perchè la disposizione si riferisce evidentemente a soggetti ordinariamente abilitati ad entrare nei sistema, il cui accesso sarebbe, pertanto, di regola legittimo, ma diviene penalmente rilevante quando i predetti abbiano fatto abuso di tale loro abilitazione. 9.2 Le pronunzie anzidette non sono condivise da questo Collegio sulla base delle seguenti considerazioni: a) "circostanze del risata" sono quegli elementi che, non richiesti per l'esistenza del reato stesso, laddove sussistono incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando modifiche quantitative o qualitative all'entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in rapporto di species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti demeriti della fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole dottrina, "una © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 138 specificazione, un particolare modo d'essere, una variante di intensità di corrispondenti elementi generali"; b) il problema, in materia, è quello di individuare un criterio per identificare le disposizioni normative che prevedono appunto "circostanze" in senso tecnico e quelle che, invece, prevedono elementi costitutivi della fattispecie, e queste Sezioni Unite - con la sentenza n. 26351 del 10/07/2002, Fedi (che ha individuato nel reato previsto dall'art. 640-bis cod. pen. semplicemente una figura aggravata del delitto di truffa) - hanno ritenuto che l'unico criterio idoneo a distinguere te norme che prevedono circostanze da quelle che prevedono elementi costitutivi della fattispecie è il criterio strutturale della descrizione del precetto penale; c) nei casi previsti dall'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, non vi è immutazione degli elementi essenziali delle condotte illecite descritte dal comma 1, in quanto il riferimento è pur sempre a quei fatti-reato, i quali vengono soltanto integrati da qualità peculiari dei soggetti attivi delle condotte, con specificazioni meramente dipendenti dalle fattispecie di base. La configurata aggravante si riferisce a soggetti che possono legittimamente contattare il sistema informatico (secondo le prescrizioni e le limitazioni imposte dal dominus loci), stante il collegamento funzionale con lo stesso per ragioni inerenti i propri compiti professionali, ma che accedono ad esso e vi si trattengono in violazione dei doveri inerenti allo loro funzione nonchè dei limiti dell'uso legittimo loro riconosciuti. Il più rigoroso trattamento sanzionatorio e la procedibilità di ufficio trovano evidente giustificazione nel momento abusivo della qualità soggettiva, che rende più agevole per l'agente la realizzazione della condotta tipica. 9.3 Deve affermarsi pertanto l'ulteriore principio di diritto (conforme peraltro al concorde orientamento della dottrina) secondo il quale "l'ipotesi dell'abuso delle qualità specificate dall'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, costituisce una circostanza aggravante delle condotte illecite descritte al comma 1 e non un'ipotesi autonoma di reato". 9.4 Nella vicenda in esame la responsabilità del S. è stata ravvisata in ordine al delitto di cui all'art. 615-ter c.p., comma 2, n. 1, e comma 3, sicchè la Corte di merito avrebbe dovuto operare il giudizio di bilanciamento delle riconosciute attenuanti genetiche con le due circostanze aggravanti (ex art. 69 cod. pen.). Non può dubitarsi infatti - alla stregua dei principi fissati da queste Sezioni Unite con la già ricordata sentenza n. 26351 del 2002 - della natura meramente aggravabile anche dell'ipotesi prevista dai terzo comma (non costituente oggetto del ricorso), che, senza modificare gli elementi essenziali del fatto-reato, introduce una sanzione più rigorosa per la particolare rilevanza pubblica del sistema riconosciuta dal legislatore in connessione ai dati ed alle informazioni peculiari in esso contenute. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, nei confronti di S.G., li mi talmente al trattamento sanzionatorio", con rinvio, per una nuova effettuazione del giudizio di comparazione tra le circostanze e per la determinazione della pena, ad altra sezione della Corte di appello di Roma. 10. Al rigetto integrale dei ricorsi del C. e della T. segue la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 139 Tutti i ricorrenti, infine, devono essere condannati, con vincolo solidale, alla rifusione delle spese di parte civile del presente grado di giudizio, che si ritiene di liquidare, in relazione all'attività processuale svolta, in Euro 3.000,00 oltre accessori. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, nei confronti di S.G. limitatamente al trattamento sanzionatorio, e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Rigetta il ricorso dei S. nel resto. Rigetta i ricorsi di C.G. e T.A., che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna in solido i tre ricorrenti alla rifusione delle spese di parte civile del presente grado, che liquida in Euro 3.000,00 oltre accessori. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 140 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 141 7) Estorsione e più persone riunite Tizio, imprenditore, si trovava in una situazione grave di carenza di liquidità. Caio telefonava a Tizio offrendogli un prestito pari ad euro 100.000,oo; altresì, Caio precisava che in caso di rifiuto dell’offerta, tramite le sue influenze politiche-sociali, avrebbe fatto fallire subito Tizio; diversamente, in caso di accettazione, Caio avrebbe avuto subito la somma di denaro suddetta di euro 100.000,oo, così evitando il fallimento, ma si sarebbe dovuto impegnare a restituire la somma – a distanza di un anno – al tasso di interesse del 25%. Tizio accettava la proposta di Caio. Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di estorsione, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta con specifico riferimento alla possibile sussistenza dell’aggravante delle persone riunite ex artt. 629-628 comma 3 n. 1 c.p., tenendo presente che Tizio aveva avuto la percezione che la proposta fosse provenuta da più persone. Possibile soluzione schematica Il reato di estorsione è posto a presidio del patrimonio; si realizza tramite la modalità della violenza o minaccia, che costringe altri a fare oppure omettere qualche cosa; ne deve derivare un ingiusto profitto con conseguenziale altrui danno. Nel caso in esame sussistono tutti gli elementi costitutivi dell’estorsione di cui all’art. 629 c.p.; vi è spazio applicativo anche per l’aggravante delle persone riunite ex artt. 629-628 comma 3 n. 1 c.p.? Il fatto che Tizio abbia avuto la percezione che la proposta fosse provenuta da più persone riunite, è giuridicamente rilevante ai fini dell’applicazione della suddetta aggravante? Per parte della dottrina e giurisprudenza, sarebbe possibile applicare la suddetta aggravante perché: -la ratio sottesa alla stessa è quella di punire di più, laddove l’agente abbia fatto leva sulla forza intimidatrice del numero di persone; in effetti, quando si minaccia una sorta di “influenza politicasociale” la vittima crede che vi sia una struttura organizzata o, quantomeno, che la minaccia non provenga solo da un soggetto; -diversamente opinando si confonderebbe l’aggravante circostanziale de qua, con il reato concorsuale perché solo nel secondo caso è richiesta una condotta oggettiva, mentre nel primo sarebbe sufficiente “il percepito”. Accogliendo tale ricostruzione, Caio si vedrebbe applicata l’aggravante delle persone riunite. Tuttavia, è preferibile optare per la tesi (letterale) che ritiene inapplicabile al caso l’aggravante suddetta, in conformità alla giurisprudenza a Sezioni Unite perché: -la nozione di riunione presuppone una contestualità ed oggettività; -all’art. 628 comma 3 n. 1 c.p. è scritto che la violenza o minaccia …deve essere commessa da più persone riunite; se deve essere commessa, allora non vi è spazio per ciò che la vittima percepisce, ma solo per la condotta oggettiva; -la differenza con il concorso di persone sussiste, in quanto in quest’ultimo la condotta può anche non essere contestuale, diversamente da quanto pretende la riunione; -ragioni sistematiche lo impongono; in altri casi di “persone riunite” come agli artt. 609 octies – 339 -385 c.p. si è fatto riferimento alla condotta oggettiva e non al percepito; -l’art. 12 delle preleggi predica la supremazia dell’interpretazione letterale. Pertanto, alla luce di quanto poc’anzi affermato, si può ritenere che Caio non dovrà subire l’applicazione dell’aggravante delle persone riunite. Per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 142 luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia. Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 5.6.2012, n. 21837 1. Le sentenze di primo e secondo grado. 1.1. B.D., che era stato dichiarato fallito e non poteva emettere assegni, aveva comprato da A.G. diversi assegni post-datati (alcuni a firma Bo. ed altri G.), anche di conti correnti estinti, per ottenere immediato credito con la negoziazione degli stessi, con l'impegno di coprire gli importi degli assegni entro fa data di scadenza onde evitarne il protesto. Un assegno a firma Bo. veniva protestato per la mancata tempestiva copertura del B.; A., allora, avanzava pretese economiche per il danno causato dal protesto. Iniziavano a questo punto gravi minacce -quella di spaccare le ossa a B. ed ai suoi familiari e di demandare l'incombente a persone ben più pericolose - poste in essere direttamente da A. G. o tramite C.G., che costringevano la parte offesa a versare all' A. denaro - circa quindici milioni -, a sottoscrivere effetti cambiari anche a nome dei figli, a comprare nuovi assegni ed a consegnare, sempre all' A., un furgone Fiat Fiorino. 1.2. Per tali fatti, qualificati come violazione dell'art. 110 - in concorso tra loro e con R.R., separatamente giudicata -, art. 81 cpv. c.p. e art. 629 c.p., commi 1 e 2, A.G. veniva condannato alla pena di sette anni di reclusione e tre milioni di multa e C.G., riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla aggravante contestata, a quella di cinque anni di reclusione e due milioni di multa dal Tribunale di Piacenza con sentenza emessa il 20 aprile 2001. 1.3. La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 16 luglio 2010, rigettava la impugnazione dell' A., che aveva chiesto la derubricazione del delitto di estorsione in quello di cui all'art. 393 cod. pen. sul presupposto della insussistenza dell'ingiusto profitto e del danno del B., avendo l' A. soltanto preteso la restituzione del denaro necessario per la copertura degli assegni, che il B. si era impegnato a versare. Negava, inoltre, la Corte territoriale che fosse ravvisante un danno per l' A. per il protesto degli assegni, non essendo esso imputato il protestato. La Corte di merito, poi, nel rigettare il relativo motivo di gravame, riteneva sussistente l'aggravante - contestata con il semplice riferimento all'art. 629 c.p., comma 2 - di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n. 1, così come richiamata dall'art. 629 c.p., aderendo all'orientamento giurisprudenziale affermativo della configurabilità dell'aggravante anche in ipotesi di estorsione esercitata in via mediata, senza necessità della presenza dei correi sul luogo dell'esecuzione, essendo sufficiente la conoscenza, in capo alla persona offesa, della provenienza della violenza o minaccia da più persone; e tale era il caso di specie perchè il B. si era trovato di fronte a due diversi soggetti, l' A. ed il C., che in momenti diversi lo avevano minacciato per il medesimo fine. Negata, infine, l'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 4, la Corte felsinea rigettava anche le doglianze concernenti la eccessività del trattamento sanzionatorio. 1.4. Quanto a C.G. la Corte di merito rigettava i motivi concernenti la pretesa assenza del concorso nel reato contestato all' A., o la minima partecipazione, basati sul presupposto della irrilevanza dell'apporto causale fornito dall'imputato alla determinazione dell'evento. Rigettava, poi, gli altri motivi di appello di C.G., analoghi a quelli proposti da A.G.. 2. I ricorsi. Avverso la decisione di secondo grado proponevano ricorso per cassazione A.G. e C.G.. 2.1. A.G., tramite il difensore di fiducia, formulava i seguenti motivi. a) Erronea applicazione dell'art. 629 c.p., comma 1, nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'ingiusto profitto e del danno altrui, dal momento che il ricorrente, come già sostenuto in sede di appello, si era limitato a chiedere a B. le somme necessarie per la copertura degli assegni, che il B. si era impegnato a versare prima della scadenza degli stessi. Inoltre l' A. aveva provveduto al deposito di somme di danaro per evitare il protesto degli assegni, subendo in tal modo un danno economico. b) Violazione dell'art. 522 c.p.p., comma 2, ed illogica motivazione in ordine alla correlazione tra accusa e decisione per mancanza della contestazione © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 143 della circostanza aggravante delle più persone riunite, non essendo a tal fine sufficienti nè il mero richiamo, nella imputazione, dell'art. 629 c.p., comma 2, riferito, infatti, nella sua complessiva conformazione, a più aggravanti nè la menzione di un generico concorso con altri imputati. c) Erronea applicazione dell'art. 629 c.p., comma 2, in relazione all'art. 628 c.p., comma 3, n. 1, nonchè illogica motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante delle più persone riunite, avendo ritenuto la Corte di appello non necessaria, ai fini della suddetta aggravante, la contemporanea presenza dei correi nel luogo di esecuzione della violenza o minaccia, essendo sufficiente che il soggetto passivo venga a conoscenza della provenienza di queste condotte da più persone. Così facendo la Corte aveva indebitamente equiparato tale aggravante al mero concorso di persone nel reato e non aveva considerato che il precedente giurisprudenziale richiamato (Sez. 2, n. 10007 del 16/05/1983, Restuccia, Rv. 161363) aveva affrontato il problema relativo alla sussistenza dell'aggravante nel caso in cui la violenza o la minaccia siano state esercitate in via mediata, ovvero senza un contatto diretto tra soggetto attivo del reato e persona offesa, ad esempio tramite telefono o mediante scritti (vedi anche Sez. 2, n. 5575 del 10/01/1980, Quagliariello, Rv. 145174, pure richiamata dal ricorrente). Infine l' A. a sostegno del motivo richiamava altra decisione della Suprema Corte (Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149) che, riproponendo un antico contrasto giurisprudenziale, aveva ritenuto che per la sussistenza dell'aggravante in discussione fosse necessaria la presenza simultanea di non meno di due persone nel luogo e nel momento in cui si realizzavano la violenza o la minaccia. 2.2. C.G., tramite il difensore di fiducia, formulava i seguenti motivi. a) Erronea applicazione della legge penale - art. 629 c.p., comma 1, in riferimento all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), - e mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto, non potendosi ravvisare nel caso di specie gli elementi costitutivi del delitto di estorsione con riferimento sia alla idoneità della minaccia posta in essere nei confronti della vittima, sia alla sussistenza dell'ingiusto profitto, perchè gli imputati intendevano conseguire ciò che era stato liberamente pattuito con la persona offesa, sia, infine, alla sussistenza del danno, avendo lo stesso B. riferito di avere pagato la provvista per un unico assegno, in funzione, tra l'altro, di ricevere credito e forniture per la propria attività commerciale. b) Erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 110 c.p. e mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto, posto che da nessun elemento poteva evincersi che C. sapesse che l' A. stesse agendo nei confronti del B. per conseguire un ingiusto profitto, nonchè vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato, posto che in una sola occasione il ricorrente avrebbe profferito minacce nei confronti della parte lesa. c) Erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 629 c.p., comma 2, ed alla ritenuta aggravante delle più persone riunite, sostanzialmente per le stesse ragioni poste a fondamento dell'analogo motivo di impugnazione dell' A.. d) Inosservanza di norme processuali in riferimento alla mancata correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza ai sensi degli artt. 604, 522 e 521 c.p.p., non potendosi ritenere corretta la contestazione della aggravante delle più persone riunite con il semplice generico riferimento all'art. 629 c.p.p., comma 2 e la descrizione della sola fattispecie di concorso. 3. L'ordinanza di rimessione. Con ordinanza in data 8 novembre 2011 la Seconda Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, rilevato che in ordine alla questione delle condizioni necessarie per la configurabilità della circostanza aggravante delle più persone riunite sussisteva contrasto giurisprudenziale, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite. La Sezione rimettente richiama, in primo luogo, l'orientamento - che ritiene più convincente perchè maggiormente aderente al dettato normativo - secondo cui la circostanza aggravante in questione non può identificarsi con una generica ipotesi di concorso nel reato, ma richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e nel momento di realizzazione della violenza o minaccia, solo in tal modo realizzandosi gli effetti fisici e psichici di maggiore pressione sulla © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 144 vittima, tali da ridurre significativamente la forza di reazione (Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, Cuccaro, Rv. 248733; Sez. 2, n. 24367 dell'11/06/2010, Scysci, Rv. 247865; Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149). Tale orientamento appare, però, contrastato da altro indirizzo, secondo cui, ai fini dell'aggravante, è sufficiente che il soggetto passivo percepisca la minaccia come proveniente da più persone, avendo tale fatto, per se stesso, maggiore effetto intimidatorio (Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio, Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi, Rv. 245146; Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, Di Bella, Rv. 239779; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv. 238485). Il Primo Presidente, con decreto in data 13 dicembre 2011, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e fissava per la discussione l'odierna udienza pubblica. motivi della decisione 1. La questione controversa. 1.1. Le Sezioni Unite sono chiamate a stabilire "se per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, sia necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e ai momento in cui si realizzano la violenza o la minaccia, oppure sia sufficiente che il soggetto passivo del reato percepisca che la violenza o la minaccia provengano da più persone". 1.2. L'art. 629 cod. pen., così come modificato prima dalla L. 14 ottobre 1974, n. 497, art. 4 e poi dal D.L. 31 dicembre 1991, n. 419, art. 8, convertito dalla L. 18 febbraio 1992, n. 172, dopo avere descritto nel primo comma la fattispecie astratta del delitto di estorsione ("Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da Euro 516 a Euro 2.065"), ha stabilito, nel secondo comma, quale risulta dall'ultima modifica apportata con il D.L. n. 419 del 1991, art. 8, convertito dalla L. n. 172 del 1992, che "La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 3.098, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente". Questo rinvio è da intendere fatto all'art. 628, comma 3, dato che con la successiva L. 15 luglio 2009, n. 94, all'articolo in questione è stato aggiunto un nuovo ultimo comma. L'art. 628 c.p., dopo avere descritto nei primi due commi le fattispecie della rapina propria ed impropria, prevede al terzo comma, al quale rinvia, come si è detto, l'art. 629 c.p., comma 2, numerose circostanze aggravanti, e tra esse, per quel che qui interessa, quella, considerata nell'ambito del n. 1), della violenza o minaccia "commessa ... da più persone riunite". 1.3. In ordine alla interpretazione della espressione "più persone riunite" si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità assai risalente, che sembrava sostanzialmente superato e che, invece, si è di recente riproposto. Secondo un primo indirizzo, la circostanza aggravante delle "più persone riunite" richiede necessariamente che almeno due persone siano simultaneamente presenti nel luogo e nel momento in cui si realizza l'azione di violenza o minaccia (ex multis, iniziando dalle più risalenti, Sez. 2, n. 1121 del 24/06/1966, Di Grazia, Rv. 103546; Sez. 1, n. 1128 del 19/10/1966, Marcadini, Rv. 103186; Sez. 6, n. 299 del 14/02/1967, Pastorino, Rv. 104354; Sez. 1, n. 2964 del 01/12/1981, Samà, Rv. 152840; Sez. 6, n. 1041 del 15/04/1983, Piastroni, Rv. 159341; Sez. 2, n. 12958 del 26/03/1987, Reali, Rv. 177288; Sez. 2, n. 41578 del 22/11/2006, Massimi, Rv. 235386; Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, Crotti, Rv. 240011; Sez. 6, n. 41359 del 21/10/2010, Cuccaro, Rv. 248733; vedi anche Sez. 5, n. 13566 del 09/03/2011, Fulle, Rv. 250169, che ha precisato che la circostanza aggravante del reato di furto di cui all'art. 625 c.p., n. 5, consistente nel fatto "commesso da tre o più persone", non postula affatto, a differenza di quanto previsto dall'art. 628 c.p., comma 3, n. 1, la simultanea presenza dei correi sul luogo del fatto). Tale interpretazione sembra fondarsi sulla esigenza di differenziare il concetto di "persone riunite" da quello del concorso di più persone nel reato e sulla considerazione che la maggiore intimidazione e la minore possibilità di difesa derivanti dalla riunione di più persone, che costituirebbero la ratio © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 145 del previsto inasprimento di pena, sarebbero effettivamente sussistenti quando la "riunione" sia nota alla vittima e sussista al momento in cui si esplica la violenza o la minaccia (vedi Sez. 6, n. 26093 del 06/05/2004, Tomasoni, Rv, 229745 e Sez. 2, n. 28378 del 14/05/2004, Orsini, Rv. 229593). Quindi, secondo tale impostazione, l'aggravante non sarebbe ravvisabile allorquando il reato sia commesso mediante minacce formulate da singole persone in momenti successivi (Sez. 2, n. 6662 del 19/02/1981, Latella, Rv. 149657), ovvero nel caso di interventi successivi di ciascuno dei correi (Sez. 2, n. 8514 dell'11/02/1983, Stefanelli, Rv. 160741), ovvero in caso di minaccia esercitata per mezzo di uno scritto o per telefono. La diversa opzione interpretativa, che ritiene sufficiente la mera percezione da parte della vittima di una minaccia proveniente da più persone finirebbe, inoltre, per fare inammissibilmente coincidere l'aggravante in discussione con il concorso di persone nel reato (così Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limatola, Rv. 244149 e Sez. 2, n. 24367 del'11/06/2010, Scisci, Rv. 247865; nonchè Sez. 2, n. 36474 del 22/09/2011, Tei, Rv. 251163, che ha sottolineato, con riferimento, però, al delitto di rapina, che il quid pluris richiesto dall'aggravante rispetto al semplice concorso consisterebbe nella simultanea presenza di una pluralità di persone nel luogo e nel momento di consumazione del delitto). Non sarebbe, peraltro, necessario che la violenza e la minaccia siano materialmente commesse da tutti i compartecipi presenti, dal momento che la sola presenza renderebbe maggiore l'effetto intimidatorio e renderebbe legittimo l'aggravamento di pena (Sez. 2, n. 14458 del 10/07/1986, Axo, Rv. 174709). 1.4. Secondo altro indirizzo, certamente oggi maggioritario, l'aggravante in discussione sarebbe ravvisabile quando il soggetto passivo abbia avuto la "sensazione" o la "percezione" o la "conoscenza" che l'azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la simultanea presenza delle stesse. Siffatto indirizzo si è inizialmente formato per la fattispecie di estorsione cd. "a distanza", ovvero con minacce commesse a mezzo lettera o telefonata (ex multis Sez. 2, n. 16657 del 31/03/2008, Di Bella, Rv. 239779; Sez. 2, n. 40208 del 22/11/2006, Bevilacqua, Rv. 235591; Sez. 2, n. 2539 del 22/12/1987, La Spada, Rv. 177691; Sez. 2, n. 10082 dei 26/01/1987, Franciosa, Rv. 176729, che ha equiparato il mezzo della lettera o del telefono al nuncius) e successivamente è stato riferito anche ad ipotesi di estorsione "diretta" (ex multis Sez. 6, n. 197 del 15/12/2011, dep. 2012, Cava, Rv. 251491; Sez. 6, n. 32412 del 16/07/2010, Longo, Rv. 248286; Sez. 2, n. 23038 del 14/05/2010, Di Silvio, Rv. 247529; Sez. 5, n. 35054 del 19/06/2009, Nicolosi, Rv. 245146; Sez. 1, n. 46254 del 24/10/2007, Milone, Rv.238485). Cosicchè l'aggravante sarebbe ravvisabile anche quando le minacce siano espresse non contestualmente, ma in tempi e luoghi diversi, da più persone, ovvero da una sola persona anche per conto di altra o di altre, perchè la maggiore intensità della intimidazione si riscontrerebbe anche quando i compartecipi non agiscano simultaneamente, ma separatamente e in tempi diversi in esecuzione del programma criminoso deliberato. Insomma l'espressione "più persone riunite" postulerebbe la partecipazione all'azione criminosa di una pluralità di soggetti associati, ma non anche la compresenza fisica dei correi e del destinatario della violenza o della minaccia; in caso contrario si circoscriverebbe in modo rilevante l'ambito di applicazione dell'aggravante senza che nessun elemento letterale e sistematico possa giustificarlo (vedi Sez. 1, n. 1840 del 07/08/1984, Guzzi, Rv. 165530; Sez. 3, n. 9824 del 12/08/1987, Gaglioli, Rv. 176656). 1.5. Anche la Dottrina appare divisa tra chi, con impostazione più rigorosa, ritiene di circoscrivere l'aggravante ai soli casi di simultanea e contestuale presenza dei correi sul luogo del delitto ovvero sul luogo ove si eserciti la violenza o la minaccia e chi. Invece, propugna una impostazione che allarga il campo di applicazione della aggravante in discussione anche ai casi di compartecipazione dei correi non contestuale sul luogo di esecuzione del delitto purchè conosciuta o percepita dalla parte offesa. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 146 I fautori del primo indirizzo - necessità della contestuale presenza di più persone - individua la ratio dell'aggravante delle "più persone riunite" nel maggiore effetto intimidatorio, con correlativa minore possibilità di difesa della vittima, prodotto dalla simultanea presenza di più malviventi, risultando maggiore l'incidenza della violenza o minaccia esercitata contemporaneamente da più persone sulla libertà di autodeterminazione del soggetto passivo. L'indirizzo contrario, che in verità sembra essenzialmente riferito alla ipotesi di estorsione cd. "mediata" o "indiretta", ha in proposito sottolineato che l'effetto intimidatorio è maggiore anche quando, pur non essendovi contemporanea presenza, la vittima "percepisca" che la violenza o la minaccia siano esercitate da più persone. 2. La soluzione del contrasto. 2.1. Il contrasto giurisprudenziale segnalato deve essere risolto nel senso che per integrare l'aggravante speciale delle "più persone riunite" nel delitto di estorsione è necessaria la contemporanea presenza delle più persone nel luogo ed al momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia, poichè a tanto inducono la interpretazione letterale, rispettosa del principio di legalità nella duplice accezione della precisione-determinatezza della condotta punibile e del divieto di analogia in malam partem in materia penale, e quella logico-sistematica. Come si è già osservato, il secondo comma dell'art. 629 cod. pen. stabilisce che la pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 1.032 a Euro 3.098 "se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso attuale comma 3 dell'articolo precedente". L'art. 628 cod. pen., che disciplina il delitto di rapina, al comma 3, tra le tante aggravanti indicate, prevede un aumento di pena se la violenza o minaccia è "commessa ... da più persone riunite". Orbene, secondo una corretta interpretazione letterale, imposta dall'art. 12 preleggi, in base alla quale è necessario in primo luogo tenere conto nella interpretazione delle norme del significato lessicale delle parole utilizzate dal legislatore, il verbo "riunire", nella sua comune accezione, significa "unire, radunare più cose o persone nello stesso luogo", ed il sostantivo "riunione" indica "il riunirsi di più persone nello stesso luogo allo scopo di.."; il dato semantico, quindi, non appare di dubbia interpretazione, volendosi con il termine "riunite" indicare la compresenza in un luogo determinato di più persone, ovvero di almeno due persone. Se si esamina poi la struttura delle due norme in discussione -art. 628 e 629 c.p., - si può notare come il legislatore abbia voluto precisare che ricorre l'aggravante "se la violenza o minaccia è commessa ... da più persone riunite"; sicchè il termine "riunione" risulta direttamente collegato alla modalità commissiva della condotta violenta o minacciosa, che è connotata da una evidente maggiore gravità quando venga esercitata simultaneamente da più persone; si vuoi dire cioè che, come è stato osservato da una parte della dottrina, il legislatore ha conferito alla compresenza dei concorrenti nel locus commissi delicti un maggior disvalore penale in virtù dell'apporto causale fornito nella esecuzione del reato e della rafforzata vis compulsiva esercitata sulla vittima. In tal modo il legislatore ha delineato una fattispecie plurisoggettiva necessaria, che si distingue in modo netto dalla ipotesi del concorso di persone nel reato perchè la fattispecie circostanziale contiene l'elemento specializzante della "riunione" riferito alla sola fase della esecuzione del reato e, più precisamente, alle sole modalità commissive della violenza e della minaccia, potendosi, invece, il concorso di persone nel reato manifestarsi in varie forme in tutte le fasi della condotta criminosa, ovvero sia in quella ideativa che in quella più propriamente esecutiva. Resta così delineata la differenza tra la ipotesi di concorso di più persone nel delitto di estorsione e quella aggravata delle "più persone riunite" nel luogo e nel momento ove venga esercitata la violenza o la minaccia tesa a coartare la volontà della vittima, non potendosi la circostanza aggravante identificare con una generica ipotesi di concorso di persone nel reato (Sez. 2, n. 25614 del 22/04/2009, Limitalola, Rv. 244149), confusione talvolta operata, come si è già rilevato, dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità. Ulteriore conseguenza della soluzione prospettata è che quando i concorrenti nel reato siano più di cinque è configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, e che tale aggravante è compatibile con quella delle più persone riunite, essendo sufficiente ad integrare tale aggravante © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 147 anche la contemporanea presenza nella fase esecutiva del reato di sole due persone (vedi Sez. U, n. 20 del 07/07/1984, Dantini, Rv. 165423, che a proposito del delitto di banda armata, ha ritenuto applicabile l'aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, essendo sufficiente a realizzare la suddetta figura criminosa l'apporto di due soli soggetti). 2.2. La soluzione proposta è confortata anche dalla interpretazione logico-sistematica della norma e, quindi, dalla ratio della stessa. I fautori di entrambe le tesi rinvengono la ratio del notevole inasprimento delle pene previste per la fattispecie del reato-base del delitto di estorsione nel maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla partecipazione al delitto di più persone e nella minorata possibilità di difesa della vittima, violentata o minacciata da più persone. Si deve condividere siffatta impostazione perchè se si esaminano anche le altre ipotesi di aggravamento previste dall'art. 628 c.p., comma 3 - violenza o minaccia commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite; posta in essere da persone che fanno parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen.; violenza che consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere ed agire - si comprende come tutte siano riconducibili ad una identica logica, avendo voluto il legislatore sanzionare più gravemente le condotte che creino maggiore intimidazione e riducano le possibilità di difesa della vittima. Se è vero che la ratio dell'aggravamento di pena consiste nel maggiore effetto intimidatorio e nella minorata difesa della vittima, è pure vero, però, che essa è ravvisabile soltanto, quanto alla aggravante delle più persone riunite, nella compresenza nel luogo e nel momento in cui si eserciti la violenza o la minaccia di più soggetti agenti; soltanto in tal caso. Infatti, la vittima, trovandosi di fronte non ad un singolo, ma ad un gruppo, sarà più intimidita ed incapace di reagire efficacemente. Si è obiettato (vedi Sez. 2, n. 13779 del 30/07/1978, Olivieri, Rv. 140372), che la ragione dell'aggravamento di pena andrebbe ravvisata nella maggiore pericolosità intrinseca del fatto commesso da più persone; ma l'obiezione non è fondata perchè quella indicata la maggiore oggettiva pericolosità dell'azione criminosa posta in essere da più persone - è esattamente la ratio dell'aggravamento di pena previsto dall'art. 112 c.p., n. 1, norma che prevede un inasprimento delle pene quando i concorrenti nel reato siano cinque o più persone; sicchè con tale impostazione si ritornerebbe a sovrapporre il concorso di persone nel reato alla aggravante delle "più persone riunite", dimenticando l'elemento specializzante della "riunione" e tradendo il tenore letterale della norma e la volontà del legislatore. Si è rilevato, però, che pur riconoscendo che la ratio della disposizione debba essere rinvenuta nei maggiore effetto intimidatorio prodotto dalla partecipazione di più persone, si dovrebbe riconoscere che un tale effetto può verificarsi anche nei casi di compartecipazione non contestuale purchè conosciuta o percepita dalla persona offesa. Si tratta dell'indirizzo fino ad oggi maggioritario in giurisprudenza che sostiene la configurabilità dell'aggravante anche nel caso in cui il soggetto passivo abbia avuto la "sensazione" o la "percezione" o la "conoscenza" che l'azione minatoria provenga da parte di più persone, senza che sia necessaria la simultanea presenza delle stesse. Un tale indirizzo, che, come si è già messo in evidenza, aveva avuto origine per affrontare i casi di cd. estorsione mediata o indiretta, non può essere seguito, non solo perchè confligge con il tenore letterale della norma, come si è già detto, ma anche perchè I concetti di "sensazione" e "percezione" sono opinabili, del tutto evanescenti e privi di qualsiasi oggettività, mentre per la "conoscenza" non si comprende quale possa essere il livello di essa necessario per integrare l'aggravante in discussione. La giurisprudenza ha tentato di precisare siffatti concetti sostenendo, ad esempio, che la "sensazione" deve essere "netta e sicura" (vedi Sez. 2, n. 10082 del 26/01/1987, Franciosa, Rv © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 148 176729), ma la genericità di tali precisazioni toglie qualsiasi oggettività ai presupposti dell'indirizzo tuttora maggioritario. In definitiva, quindi, la ratio del sensibile aggravamento di pena previsto dall'art. 629 c.p., comma 2, rispetto alla fattispecie del reato-base, nel caso di condotta estorsiva realizzata da più persone, risiede, come è stato autorevolmente osservato, nel dato oggettivo del contributo causale, determinato dal maggiore effetto intimidatorio della violenza o minaccia posta in essere, fornito alla realizzazione del delitto dalla simultanea presenza nel luogo e nel momento della esecuzione della violenza e minaccia dei concorrenti e non quello soggettivo della mera percezione della provenienza della condotta da parte di più persone. Da quanto detto discende che nel caso di cd. estorsione mediata, ovvero delle minacce fatte a mezzo lettera o telefono, l'aggravante delle più persone riunite sarà ravvisabile nel caso in cui la lettera sia firmata da due o più persone o se alla telefonata minatoria partecipino più persone, ma non anche nel caso in cui la parte offesa abbia la sensazione che colui che abbia spedito la lettera minatoria o abbia fatto la telefonata minacciosa sia in collegamento con altre persone. Per le stesse ragioni non sarà ravvisabile l'aggravante in discussione quando le minacce o le violenze nei confronti della parte offesa siano poste in essere da diversi coimputati non contestualmente, ma da soli in momenti successivi. In tale situazione, infatti, sarà ravvisabile un concorso di persone nel reato, ed, eventualmente, l'aggravante di cui all'art. 112 c.p., n. 1, nel caso i concorrenti siano cinque o più, ma non l'aggravante delle più persone riunite che, come si è detto, ha una ratio del tutto diversa. 2.3. Le conclusioni raggiunte sono confortate anche dalla elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi nella interpretazione della identica espressione "più persone riunite" utilizzata dal legislatore in altre norme penali. E' del tutto evidente, infatti, che, per ovvie ragioni di ragionevolezza ed uguaglianza, oltre che di certezza del diritto, appare opportuno che per espressioni identiche vi siano tendenzialmente analoghe interpretazioni; in ogni caso è, comunque, necessario tenere nella debita considerazione il significato attribuito alla espressione "più persone riunite" in altre fattispecie incriminatici che ad essa fanno ricorso come elemento costitutivo di autonome figure criminose ovvero come elemento circostanziale speciale. Tali considerazioni sono ancora più vere con riferimento all'art. 628 cod. pen. perchè, come si è già detto, l'art. 629 c.p., comma 2, si limita a disporre, con mero rinvio, l'aggravamento della pena se concorre taluna delle circostanze di cui all'articolo precedente. Ebbene in tema di rapina la giurisprudenza e la dottrina hanno concordemente e costantemente ritenuto che l'aggravante delle più persone riunite rileva per la simultanea presenza di una pluralità di soggetti - non meno di due persone - nel luogo e nel momento in cui la violenza e la minaccia si realizzano (tra le tante Sez. 2, n. 15416 del 12/03/2008, Rv. 240011; Sez. U, n. 3394 del 23/03/1992, Ferletti). E' certo vero che tra le due fattispecie - rapina ed estorsione - vi sono non irrilevanti differenze, come la giurisprudenza e la dottrina non hanno mancato di porre in evidenza, dal momento che nella rapina la volontà del soggetto passivo resta sostanzialmente soppressa, mentre nella estorsione, pure in condizioni di libertà gravemente menomata, il soggetto passivo ha la possibilità di scegliere tra il danno minacciato e la richiesta degli aggressori, ma è pure vero che proprio perchè entrambe le fattispecie sono poste a tutela dello stesso bene giuridico e sono caratterizzate dalla medesima modalità realizzativa - violenza o minaccia -nella prassi giudiziaria non sempre risulta agevole individuare una netta linea di demarcazione tra le due ipotesi di reato. In ogni caso le pur esistenti differenze tra i due reati non legittimano una interpretazione differente della stessa espressione, dal momento che l'unico argomento, del tutto opinabile e, quindi, per nulla decisivo, che legittimerebbe la differente interpretazione della locuzione "più persone riunite", consisterebbe nella maggiore efficacia della coazione nella rapina e nel maggiore distacco temporale tra violenza e minaccia e conseguimento del profitto nella estorsione; la pratica © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 149 giudiziaria contempla, infatti, in tema di estorsione numerosi casi di foltissima coazione psicologica e di immediato adeguarsi del soggetto passivo alle richieste dell'estorsore. 2.4. Con la L. 15 febbraio 1996, n. 66, art. 9, è stato introdotto nel codice penale l'art. 609-octtes che punisce la violenza sessuale di gruppo ed al comma 1 ne fornisce una definizione specificando che "La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all'art. 609-bis". Orbene la interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che è stata fornita della espressione "più persone riunite" contenuta in tale norma conforta le conclusioni alle quali si è pervenuti nell'esaminare la questione controversa. Infatti si è affermato che, pur non essendo richiesto che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, è sufficiente e necessario che essi siano presenti sul luogo ove la vittima è trattenuta ed al momento in cui gli atti di violenza sessuale sono compiuti da uno di loro, perchè costui trae forza dalla presenza del gruppo (tra le tante, Sez. 3, n. 6464 del 05/04/2000, Giannuzzi, Rv. 216978; e la necessità della simultanea effettiva presenza delle più persone nel luogo e nel momento di consumazione dell'illecito è stata ribadita anche da Sez. 3, n. 15089 dell'11/03/2010, Rossi, Rv. 246614). Si è, quindi, ritenuto che la espressione "più persone riunite" definisce una situazione differente dal mero concorso eventuale e individua un reato necessariamente plurisoggettlvo il cui quid pluris rispetto al concorso ex art. 110 cod. pen. è costituito dal fatto che al momento e nel luogo della commissione della violenza i partecipanti siano presenti. 2.5. Nello stesso senso è stata interpretata la locuzione "più persone riunite" utilizzata dal legislatore in altre fattispecie circostanziali; si intende fare riferimento agli artt. 339 e 385 c.p., che prevedono alcune circostanze aggravanti speciali per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia commessi con violenza o minaccia da più persone riunite. In entrambe tali ipotesi, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è richiesta per la configurazione delle rispettive aggravanti la simultanea presenza sul luogo del reato di due o più persone. 2.6. In conclusione anche le interpretazioni della locuzione in discussione utilizzata in altre fattispecie conferma la ragionevolezza dell'indirizzo interpretativo proposto e delle conclusioni raggiunte. 3. Tanto premesso in punto di diritto, bisogna osservare che nel caso di specie, per quanto risulta dalla ricostruzione della vicenda operata dai giudici del merito, è rimasto accertato che A. G. e C.G. hanno minacciato B.D., per costringerlo a versare danaro ed a consegnare un furgoncino all' A., oltre che ad acquistare assegni ed a firmare cambiali, in concorso tra loro ed in momenti successivi; cosicchè non vi è mai stata la loro contemporanea presenza nel luogo e nel momento in cui venivano profferite le minacce nei confronti della parte offesa. Ciò comporta, tenuto conto della soluzione adottata per la questione controversa, la necessità di escludere l'aggravante delle più persone riunite, previo annullamento sul punto della sentenza impugnata. 4. Gli altri motivi di ricorso. 4.1. La violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.. I ricorrenti A. e C. - il primo con il secondo motivo ed il secondo con il quarto motivo di ricorso hanno dedotto il difetto di correlazione tra quanto contestato e quanto ritenuto dal giudice per mancanza della contestazione della circostanza aggravante delle più persone riunite. In verità una tale questione sarebbe pregiudiziale rispetto alla trattazione della questione controversa, anche se strettamente connessa ad essa. In effetti nel capo di imputazione è stato contestato il concorso nel delitto ai due imputati ed è stato richiamato l'art. 629 c.p., comma 2 che, come è noto, rinvia alle aggravanti previste dall'art. 628 c.p., comma 3, tra le quali al n. 1 è prevista anche quella delle più persone riunite. E' del tutto evidente che sia il pubblico ministero nella formulazione del capo di imputazione, sia i giudici del merito hanno ritenuto corretta la contestazione perchè, aderendo all'indirizzo maggioritario, hanno ritenuto sussistente l'aggravante delle "più persone riunite" in tutte le ipotesi di © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 150 concorso nel reato di estorsione di due o più persone; in base a tale impostazione potrebbe, infatti, ritenersi sufficiente, dopo la contestazione del concorso nel reato, il semplice richiamo alla norma di legge che prevede l'aggravamento di pena. E' certo vero che, anche nell'ottica indicata, la contestazione avrebbe dovuto essere più precisa, non sembrando sufficienti nè il mero richiamo, nella imputazione, dell'art. 629 c.p., comma 2, riferito, infatti, a più aggravanti, nè la menzione di un generico concorso con altri, ma è pure vero che la lettura congiunta dei due richiami consentiva agli imputati di comprendere i termini dell'accusa. Inoltre bisogna ricordare che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, il principio di correlazione tra accusa e decisione può ritenersi rispettato quando l'imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa anche, con specifico riferimento al caso di specie, sugli elementi di fatto integranti l'aggravante (Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro, Rv. 242027); e non vi è dubbio che nel caso di specie ai due ricorrenti nel corso del dibattimento siano stati indicati tutti gli elementi di fatto posti a fondamento della aggravante, tanto è vero che hanno dispiegato le loro difese essenzialmente sui problema della insussistenza della aggravante, avendo l'accertamento fattuale escluso la contemporanea presenza dei due imputati nel luogo e nel momento in cui venivano profferite le minacce nei confronti del B.. Naturalmente, in base alla soluzione adottata, con la quale si è escluso che il mero concorso di persone nel reato di estorsione possa integrare l'aggravante delle più persone riunite, la contestazione appare certamente carente; tuttavia la esclusione della aggravante in discussione rende superfluo soffermarsi ulteriormente sulla dedotta insufficienza della contestazione. 4.2. La erronea applicazione dell'art. 110 cod. pen. ed il vizio di motivazione sulla sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Con il secondo motivo di impugnazione C.G. ha lamentato, come già visto, l'erronea applicazione dell'art. 110 cod. pen., posto che da nessun elemento potrebbe evincersi che C. sapesse dell'agire dell' A. nei confronti del B., nonchè la carenza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Pur volendo prescindere dal fatto che si tratta di censure che, pur formalmente denunciando la violazione di legge ed il vizio di motivazione, sembra che mettano in discussione la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, con conseguente inammissibilità delle stesse, va detto che le doglianze sono comunque infondate. Ed infatti, con motivazione che non merita censura alcuna essendo immune da manifeste illogicità, peraltro nemmeno messe in evidenza dal ricorrente, la Corte di merito ha rilevato come C. fosse intervenuto nella operazione dopo una prima serie di gravi minacce da parte dell' A., facendo presente di operare a nome di costui ed invitando il B. a "sistemare il danno" mediante l'effettuazione di una congrua rimessa di denaro. Ritenuta non soddisfacente la somma consegnatagli, lo stesso C. aveva poi riferito al B. di volere desistere, per il momento, dallo "spaccargli le ossa", come dettogli dall' A.; e la Corte di merito ha poi posto in evidenza che a tale minaccia erano seguiti sette od otto incontri tra C. e B. per la ricezione di acconti sul debito finale con l' A.. 4.3. La contraddittoria e illogica motivazione circa l'ingiusto profitto e l'altrui danno. 4.3.1. Con il primo motivo di ricorso A.G. ha, come si è già detto, lamentato la contraddittoria e illogica motivazione in ordine alla sussistenza dell'ingiusto profitto e dell'altrui danno, essendosi limitato a richiedere al B. le somme necessarie per la copertura degli assegni, che la parte offesa si era impegnato a versare prima della scadenza degli stessi. 4.3.2. A sua volta C.G., con il primo motivo di impugnazione, ha dedotto la erronea applicazione dell'art. 629 cod. pen. ed il vizio di motivazione: ha osservato il ricorrente che la minaccia posta in essere nei confronti del B. era inidonea, che non era ravvisabile un ingiusto profitto dal momento che i ricorrenti intendevano conseguire ciò che era stato liberamente pattuito e che il danno era insussistente. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 151 4.3.3. Anche in questo caso, se formalmente sono stati dedotti la violazione di legge - art. 629 cod. pen. - ed il vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza e della manifesta illogicità della stessa, in sostanza i ricorrenti hanno contestato le ricostruzione dei fatti e le vantazioni di merito compiute dai giudici dei primi due gradi di giurisdizione, riproponendo, peraltro, tutte le questioni che erano già state sottoposte al vaglio della Corte di appello e motivatamente disattese. Sotto tale profilo i motivi presentano evidenti profili di inammissibilità, non essendo consentito richiedere alla Suprema Corte la rivalutazione del materiale probatorio. In ogni caso, con più specifico riferimento al dedotto vizio di motivazione, va detto che la motivazione che sorregge le valutazioni dei due giudici di merito (le decisioni sono conformi e le due motivazioni si integrano) è immune da manifeste illogicità. 4.3.4. La Corte di merito ha, infatti, ritenuto che l'avvenuto protesto dei titoli emessi da terzi e consegnati dall' A. al B. non potesse avere arrecato alcun danno all' A., che non era stato protestato; pertanto l' A. ottenendo, con minacce, che non ha negato di avere profferito, il pagamento di varie somme di denaro e la consegna di un furgoncino, ebbe a conseguire un ingiusto profitto. Inoltre la Corte felsinea ha chiarito che il "commercio di assegni", concretante, all'epoca dei fatti, illecito penale, e, successivamente, illecito amministrativo, posto alla base dei rapporti intervenuti tra l' A. ed il B. (il primo aveva consegnato al secondo assegni post-datati e scoperti, che questi utilizzava per ottenere liquidità, ripagando l' A. del tantundem oltre che del compenso per l'interessamento e la "cessione") non avrebbe consentito all'imputato di esperire alcun rimedio giurisdizionale. Si tratta di motivazione del tutto congrua ed immune da manifeste illogicità, che non merita alcuna censura sotto il profilo della legittimità. 4.3.5. Le considerazioni svolte rendono evidente l'infondatezza anche dell'analogo motivo di ricorso di C.G. essendo, nel caso di specie, ravvisabile, come si è già detto, sia l'ingiusto profitto conseguito dall' A. sia il danno subito dal B.. Quanto alla pretesa inidoneità delle minacce poste in essere nei confronti della vittima sarà sufficiente ricordare il contenuto delle stesse - già in precedenza riportato - che era certamente tale da intimorire e coartare la volontà del soggetto passivo, ed il ripetersi delle "visite" minacciose. Del resto il giudizio sulla idoneità della minaccia è una tipica valutazione di merito, che i giudici dei primi due gradi hanno correttamente compiuto tenendo conto della personalità degli agenti, del tipo di minacce rivolte alla persona offesa, della ripetitività delle stesse, della ingiustizia della pretesa e delle condizioni di difficoltà della vittima (vedi Sez. 6, n. 3298 del 26/01/1999, Savian, Rv. 212945). Anche su tale aspetto, pertanto, la sentenza impugnata non merita alcuna censura in punto legittimità. 5. Conclusioni. 5.1. In conclusione, sulla questione oggetto del contrasto di giurisprudenza deve essere enunciato il seguente principio di diritto: "per la sussistenza della circostanza aggravante speciale delle più persone riunite, prevista per il delitto di estorsione, è necessaria la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo ed al momento in cui si realizza la violenza o la minaccia". 5.2. L'affermazione di tale principio comporta che nel caso di specie debba essere esclusa la circostanza aggravante delle più persone riunite perchè, come si è posto in evidenza, le violenze e le minacce in danno della parte lesa B. non furono poste in essere dai ricorrenti C. ed A. contemporaneamente presenti in un unico contesto. Si impone, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata sul punto. 5.3. La mancata indicazione, per quanto riguarda l' A., sia nella sentenza di primo grado che in quella di appello, delle modalità di determinazione della pena e, quindi, della entità dell'aumento determinato dal riconoscimento dell'aggravante in discussione, e la necessità, per quel che concerne C., di provvedere ad una riduzione della pena per effetto del riconoscimento delle attenuanti generiche, che erano state ritenute equivalenti alla esclusa aggravante delle più persone riunite non consentono di disporre l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 620 c.p.p., lett. l) con conseguente determinazione delle pene da parte della Corte di Cassazione. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 152 5.4. In conclusione; la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla circostanza aggravante delle più persone riunite, circostanza che deve essere esclusa; gli atti vanno rinviati per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. I ricorsi debbono essere rigettati nel resto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante delle più persone riunite, che esclude, e rinvia per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. Rigetta nel resto i ricorsi. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 153 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 154 8) Tentativo e dolo eventuale Francesco e Francesca decidevano di entrare, di nascosto, presso un convento di francescani, per picchiare alcuni di questi; una volta entrati nel convento, i due venivano fermati dai francescani Leopoldo e Michelangelo: Francesco e Francesca li picchiavano con spranghe, accettando il rischio della loro morte. Leopoldo e Michelangelo venivano lasciati in una pozza si sangue, ma non morivano. Il candidato rediga motivato parere circa la condotta posta in essere da Francesco e Francesca, verificando la sussistenza del reato di tentato omicidio. Possibile soluzione schematica In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto. Successivamente bisognava chiedersi: Francesco e Francesca possono rispondere del reato di tentato omicidio? Si deve rispondere negativamente perché: -il tentativo ex art. 56 c.p. richiede l’unidirezionalità della condotta e dell’elemento psicologico (atti diretti in modo non equivoco), che è incompatibile con il dolo eventuale fisiologicamente equivoco; -diversamente opinando si finirebbe per costruire una fattispecie tramite analogia in malam partem, vietata dall’ordinamento. Pertanto, Francesco e Francesca al più risponderanno di lesioni dolose o altro reato, ma non di tentato omicidio. Era possibile anche ipotizzare un tentato omicidio rilevando che gli agenti hanno agito con dolo alternativo (nella soluzione schematica si è, tuttavia, omessa tale soluzione in quanto è espressamente scritto che Francesco e Francesca agivano “accettando il rischio”). Il tentativo non è compatibile con il dolo eventuale Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 28-03-2012) 13-04-2012, n. 14034 Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1 - Con sentenza in data 25.3/23.6.2011 la corte di appello di Torino, in parziale riforma della pregressa sentenza, in abbreviato, del gup del tribunale di Ivrea datata 1.10.2009, condannava, tra gli altri, S.E. e B.F. alle pene, il primo, di anni nove e mesi due di reclusione, il secondo di anni nove e mesi quattro di reclusione per i delitti, in continuazione, di tentato omicidio, rapina, lesioni personali aggravate, così riqualificati i fatti da tentato omicidio plurimo ritenuti in primo grado, e furto. 2 - In breve i fatti come ricostruiti dai giudici di merito: i due imputati, insieme ad altri due correi, V.V.I., alias P.I. e B.G. il (OMISSIS) si introducevano, travisati, nel convento dei frati minori francescani di Nostra Signora di Belmonte, in (OMISSIS), si munivano di pesanti bastoni reperiti in un deposito - attrezzi del convento e, dividendosi i compiti, aggredivano, ognuno per frate, i quattro religiosi, M.G. di anni 86, Ba.Gi. di anni 81, G.B. di anni 76 e Ba.Se. di anni 49, colpendoli al capo ed al torace, specie il V. accanendosi contro quest'ultimo tanto da cagionargli gravi danni cerebrali che imponevano un immediato intervento chirurgico che valse a salvargli la vita. Quindi si impossessavano di due carte di credito e di una somma imprecisata, allontanandosi dalla scena del delitto dopo aver legato ed imbavagliato i frati tranne Ba.Se.. lasciato agonizzante a testa in giù in © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 155 una pozza di sangue. Tutti gli imputati, tranne il V., si erano resi responsabili nei mesi precedenti di furti ai danni del convento: precisamente di quattro il, B.F., di tre lo S., di due il B. G.. Nel corso del giudizio S. ed i due fratelli B. rendevano ampia confessione al P.M. In esito alle indagini, le imputazioni come poco sopra indicate, modificata solo quella di tentato omicidio inizialmente contestato a tutti gli imputati ai danni di tutte le persone lese, in lesioni aggravate ai danni di M., Ba. e G. e confermando il delitto di tentato omicidio per tutti ma solo ai danni di B.S.. Con riferimento a quest' ultimo delitto, per la cui configurazione si rivolgono le critiche più diffuse dei due ricorrenti, i giudici dell'appello, premesso che l'azione dell'autore materiale, il V. V.I., doveva ritenersi sorretta dal dolo intenzionale, per le caratteristiche della condotta lesiva, reiterata, sorretta da violenza inaudita, mirata a zone corporee vitali, attuata con uno strumento micidiale per peso e solidità, hanno ritenuto, in base ad un duplice criterio di ragione, di attribuirne la responsabilità anche agli altri correi in forza dell'accettazione,da parte loro, del rischio che l'azione potessi trasmodare in evento letale. E,su questo versante hanno ritenuto di attribuire il tentativo di omicidio ai concorrenti morali del fatto a titolo di dolo eventuale: perchè l'azione omicidiaria era collegata da un rapporto di regolarità causale con quella preordinata e realizzata al fine di cagionare le lesioni, immobilizzare i frati per impossessarsi dei valori rinvenuti nel convento e perchè con riferimento al solo padre B. vi erano motivi di rancore e di risentimento da parte dello S. che proprio B. aveva allontanato dal convento, dove aveva in precedenza lavorato, per via delle sue pretese economiche e per via di presunti pregressi rapporti intimi intessuti tra lo S., B. ed altri due frati. 3 - Le ragioni di doglianza dei due ricorrenti, pur contenuti in due rispettivi atti di impugnazione, sono peraltro comuni: la prima contesta, in prima battuta, in radice ed in diritto che sia possibile attribuire il tentativo di omicidio ai concorrenti morali che agiscono con dolo eventuale, rappresentandosi cioè in positivo la possibilità che l'azione diretta a ledere tracimi nella volontà di uccidere. In seconda battuta i ricorrenti deducono che al più si potrebbe solo ritenere che a caratterizzare la loro azione in relazione all'evento morte fosse solo la rappresentazione, ma in negativo, della possibile causazione dell'evento più grave con la conseguente applicazione dell'attenuante di cui all'art. 116 cpv. c.p.. La seconda ragione sorregge il comune tentativo di indurre questa Corte a riconoscere la manifesta illogicità della motivazione in merito alla determinazione della pena, la cui riduzione dovrebbe collegarsi al riconoscimento della ingiustificata equivalenza,e non della prevalenza, delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, ingiustificata per via della confessione tempestiva dei due imputati e per la contraddittorietà del medesimo trattamento a loro riservato, in punto di giudizio di equivalenza dell'attenuante, con quello riconosciuto all'autore materiale del tentato omicidio che si era indotto alla confessione solo nel corso dello svolgimento del giudizio abbreviato. 4 - I due ricorsi non sono fondati e pertanto vanno respinti. Deve subito rimarcarsi una incongruenza, anche se non influente sul dispositivo di condanna nel discorso giustificativo giudiziale in ordine alla ritenuta responsabilità dei due imputati per il delitto di tentato omicidio ai danni i B.S.. Invero costituisce regola iuris ormai consolidata l'incompatibilità del tentativo con il dolo eventuale, elemento soggettivo del reato, quest'ultimo, che ricorre allorquando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla (v., per tutte, Sez. 1, 31.3/2.7.2010, Vismarq, Rv. 247707). Ne consegue che il dolo eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto è © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 156 ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo, che presuppone il dolo diretto. Ora una tale conclusione non può registrare eccezioni una volta che l'attribuibilità del delitto tentato venga collegata al concorrente morale, dal momento che anch'egli deve rappresentarsi l'idoneità e l'inequivocità degli atti propri della autore materiale del delitto. Ne consegue che è erronea l'affermazione di diritto contenuta nella sentenza che ripete una risalente massima, anch'essa erronea, che recita testualmente: "perche il concorrente morale risponda del delitto di tentato omicidio, non è necessario, come per l'esecutore materiale, che l'evento-morte sia stato da lui voluto con dolo diretto, ma è sufficiente che sia stato voluto con dolo eventuale: il che significa che il concorrente morale deve aver concorso all'azione dell'esecutore materiale non soltanto prevedendo in concreto l'evento-morte come possibile conseguenza dell'azione concordata, ma addirittura accettandone il rischio di accadimento, pur di realizzare l'azione concordata (Sez. 1, 12.6/8.7.10991 Ventura Rv. 187758). Senonchè dalla lettura della sentenza impugnata si trae con particolare chiarezza che l'effettiva situazione psicologica dei concorrenti doveva correttamente inquadrarsi nel dolo diretto o alternativo che sia. In tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi come dolo diretto, e non meramente eventuale , quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l'uno o l'altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo. I giudici dell'appello hanno richiamato in proposito, quale referente per la decisione de qua, la massima giurisprudenziale alla cui stregua il 1' omicidio ad opera di uno dei concorrenti in seguito alla rapina a mano armata deve ritenersi legato alla rapina da "un rapporto di regolarità causale e può considerarsi un evento che rientra secondo l'id quod plerumque accidit nell' ordinario sviluppo della condotta di rapina". Hanno aggiunto poi che la morte del religioso non poteva non essere contemplata ed accettata nella particolare situazione di fatto come possibilità non remota o straordinaria, ma come possibilità costituente prevedibile sviluppo della azione concordata. Ed hanno infine concluso che tutti i concorrenti, accettandone la possibilità di accadimento - morte - "ne hanno preventivamente approvato la verificazione". Il che costituisce l'esplicitazione chiara di una rappresentazione in positivo della figura del dolo alternativo che in tanto sussiste in quanto l'agente si rappresenta, accettandoli, e vuole indifferentemente l'uno o l'altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicchè già al momento della realizzazione del fatto di reato egli deve prevederli entrambi. Vi è allora piena compatibilità tra tentativo penalmente punibile e dolo alternativo, poichè la sostanziale equivalenza dell'uno e dell'altro evento, che l'agente si rappresenta indifferentemente, entrambi come eziologicamente collegabili alla sua condotta o a quella altrui, alla quale concorre, comporta che questa forma di dolo è diretta, atteso che ciascuno degli eventi è ugualmente voluto dal reo. 5- Inammissibile invece la seconda ragione di doglianza: i giudici di merito hanno valutato, per ritenere solo equivalenti le attenuanti generiche, pur concesse, la gravità dei fatti, le modalità cruente delle rispettive condotte, pervenendo ad una valutazione, che ha tenuto conto del numero dei reati satelliti di furto attribuiti, in maggior e o minore misura, ai singoli imputati, e che si sottrae come tale al sindacato che tende a soppesare, sul piano squisitamente di merito, la maggior correttezza o meno del discorso giustificativo. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 157 Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 158 © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 159 9) Consenso putativo Tizio è titolare dello studio legale-commerciale Tizio&Partners. Tizia è segretaria presso il suddetto studio. Una sera, Tizio restava in studio fino a tarda ora, insieme alla segretaria Tizia. Quella sera, Tizia indossava una gonna cortissima che lasciava intravedere calze autoreggenti. Tizio chiedeva a Tizia se fosse fidanzata e questa rispondeva che era un periodo in cui cercava solo “avventure”. Tizio, allora, interpretava la risposta di Tizia come consenso e si avvicinava per baciarla; la fermava per la testa e baciava con la lingua. Tizia si ribellava e scappava via dallo studio. La mattina seguente, Tizio si recava dal suo collega avvocato Sempronio. Il candidato, assunte le vesti di Sempronio, premessi brevi cenni sul c.d. consenso putativo, rediga motivato parere sulla questione giuridica proposta. Possibile soluzione schematica Il caso proposto impone di premettere brevi cenni sul consenso putativo: -l’art. 50 c.p. afferma la non punibilità dell’agente, laddove la vittima abbia prestato il consenso; -il consenso putativo nasce da una lettura combinata dell’art. 50 con l’art. 59 c.p.; -è predicabile solo laddove emerga che l’agente ritenga di aver agire con il consenso della vittima; se l’errore è determinato da colpa, allora può sorgere una responsabilità per reato colposo se prevista. E’ applicabile al caso in esame la figura del consenso putativo? Si ritiene di rispondere negativamente perché: -la risposta data da Tizia era equivoca, e nel dubbio Tizio avrebbe dovuto astenersi; -Tizio ha posto in essere una condotta violenza, in quanto fermava la testa di Tizia; -il bacio con la lingua senza consenso è configurabile come violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p. Pertanto, Tizio ben potrà essere accusato del reato di violenza sessuale. L'esimente putativa del consenso dell'avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un in errore inescusabile sulla legge penale. Cassazione penale, Sez. III, 10.3.2011, n. 17210 Svolgimento del processo Il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza del 23 febbraio del 2009, dichiarava non doversi procedere nei confronti di I.V., in ordine al delitto ascrittogli, con la formula "perchè il fatto non costituisce reato". Al predetto si era addebitato il delitto di cui all'art. 61 c.p., n. 11, artt. 81 cpv. e 609 bis c.p. perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, aveva costretto M.A. a subire atti sessuali consistiti nell'afferrarla per le spalle, immobilizzarla, stringerle il collo e baciarla sulla bocca, palpandola ed accarezzandola in varie parti del corpo contro la volontà della stessa nonchè per avere tentato di avere un rapporto sessuale con la stessa non riuscendo nell'intento per la reazione della donna. Fatto commesso con abuso della relazione professionale in (OMISSIS). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 160 La contestazione ha preso origine dalla denuncia sporta dalla M. il 6.5.2008 ai CC della stazione di Villa Literno nel corso della quale la giovane aveva raccontato che da circa due settimane collaborava, come "volontaria", presso la biblioteca comunale di Villa Literno, della quale era responsabile lo I., amico del padre, e con il quale i rapporti erano sempre stati educati. Il pomeriggio del (OMISSIS), verso le ore 18,00, aveva iniziato il proprio turno trovando lo I. intento a lavorare al computer. Il predetto aveva cominciato a parlarle invitandola a pranzo con una certa insistenza, raccomandandole di non raccontare niente a nessuno e proponendole di recarsi a prenderla direttamente all'uscita dell'università di Napoli. Essa, prima aveva informato lo I. che non v'era nulla di male ad andare a pranzo con colleghi di lavoro e poi, avendo rilevato che la conversazione stava prendendo una piega che non le piaceva, aveva invitato lo I. a riprendere il lavoro. Invece, dopo pochi minuti, l'imputato si era avvicinato e, con veemenza, le aveva afferrato il collo dalle spalle facendo forza con il braccio ed era così riuscito ad immobilizzarla e a baciarla lascivamente sulle labbra con la lingua. In preda al panico, aveva reagito strattonando ed allontanando l'imputato al quale rivolgeva la seguente frase ": sei scemo?" Lo I. aveva replicato dicendo: "cosa mai è un bacio". La denunciante aveva precisato di aver preso il telefono cellulare ed essere fuggita per raggiungere il suo fidanzato e poi sporgere denuncia. La M. aveva aggiunto che era la prima volta che lo I. aveva manifestato "effusioni sessuali" e che all'episodio non avevano assistito testi oculari. Nell'immediatezza erano sentiti il fidanzato della M., U. G. ed i genitori della stessa, i quali, sostanzialmente riferivano l'episodio da loro appreso dalla giovane. Sulla scorta di tali elementi, i CC procedevano all'arresto in flagranza dello I.. Acquisite le chiavi della biblioteca, i militari verificavano, sia che v'era ancora il giubbotto lasciato dalla denunciarne nella fuga, sia che la presenza della giovane quel pomeriggio risultava dal registro. Nell'interrogatorio di garanzia l'imputato ammetteva di avere baciato la M., spiegando che in varie occasioni la giovane gli aveva proposto di offrirle il pranzo e che in un'altra circostanza gli aveva chiesto di scriverle una dedica su un suo biglietto da visita, condotte queste che lo avevano indotto a ritenere che potesse baciarla senza urtare la sua suscettibilità. Spiegava, pertanto, la sua sorpresa nel vedersi allontanare dalla giovane quando l'aveva baciata e precisava che, dopo il rifiuto della ragazza, non aveva insistito nè aveva tentato di trattenerla. Negava sia di averla palpeggiata che di avere tentato di avere un rapporto sessuale. Il GIP non convalidava l'arresto e rigettava la richiesta di misura cautelare personale ritenendo che non ricorressero gravi indizi di colpevolezza. Tanto premesso in fatto, il giudice a fondamento del proscioglimento, dopo avere premesso che la valutazione doveva essere limitata alla condotta del bacio, posto che le altre condotte contestate al prevenuto nel capo di imputazione non erano mai state denunciate dalla parte offesa, ha osservato che le dichiarazioni rese dallo I. sia sulle modalità dell'approccio, ossia senza ricorrere alla violenza, sia sulla convinzione del consenso della M., erano assolutamente credibili in ragione del comportamento successivo al rifiuto tenuto dallo stesso imputato, il quale non ha nè tentato un nuovo approccio, nè ha impedito alla giovane di allontanarsi, nè ha rivolto alla stessa minacce o avvertimenti. Ha aggiunto che tale comportamento emergeva, non solo da quanto riferito dallo stesso imputato, ma anche da quanto raccontato agli investigatori dalla denunciate; che la condotta tenuta dall'imputato dopo il bacio rendeva verosimile e credibile che lo stesso non avesse posto in essere alcuna violenza nei confronti della giovane per costringerla a subire il bacio e rendeva © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 161 plausibile la convinzione in ordine al consenso della vittima. Ha conclusivamente osservato che trattatasi di errore che escludeva la punibilità dello I. non essendo alla sua condotta sotteso il dolo generico inteso come coscienza e volontà di coartare o indurre la vittima a subire un atto sessuale e che non aveva alcun rilievo l'indagine sulla colposità o meno di tale errore non essendo prevista accanto alla violenza sessuale dolosa una corrispondente fattispecie colposa. Avverso la sentenza ha proposto appello il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere denunciando contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova, posto che la dichiarazione della persona offesa era pienamente credibile e che immotivatamente il giudice aveva escluso la configurabilità del reato. Motivi della decisione Il ricorso va accolto. Anzitutto va precisato che, secondo autorevole dottrina e la giurisprudenza (Cass. 21 gennaio 1982, Maglione RV 152899) non rientrano nella scriminante invocata dal tribunale i casi in cui la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie (artt. 614 o 609 bis c.p.) perchè in tali casi l'errore sul dissenso ossia su un elemento costitutivo della fattispecie spesso si risolve in errore sulla legge penale, che non può essere invocato a norma dell'art. 5 c.p.. Quindi il tribunale per escludere il reato non avrebbe potuto richiamare la possibile sussistenza di un consenso putativo o presunto. In ogni caso, anche a volere ammettere in questa materia la ricorribilità di un consenso putativo o presunto, si deve trattare comunque di casi in cui si possa ragionevolmente presumere che il titolare del diritto, se avesse potuto, avrebbe espresso il proprio consenso. D'altra parte l'esimente putativa (nella specie consenso dell'avente diritto) può trovare applicazione solo quando sussista un'obiettiva situazione - non creata dallo stesso soggetto attivo del reato - che possa ragionevolmente indurre in errore tale soggetto sull'esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante. Nella fattispecie la motivazione del tribunale su tale punto è alquanto lacunosa, in quanto dalle dichiarazioni rese dalla parte offesa non emerge in maniera palese la sussistenza di un possibile errore sul consenso della vittima. Invero la parte lesa, allorchè aveva intuito le intenzioni dello I., lo aveva invitato a pensare al lavoro, come risulta dalla ricostruzione del fatto contenuta nella stessa sentenza. L'invito della ragazza a pensare solo al lavoro non si concilia con l'esistenza di un consenso ancorchè putativo o erroneamente supposto. Gli elementi indicati dal tribunale per giustificare la sussistenza di un consenso reale o putativo non trovano quindi puntuale riscontro nelle dichiarazioni della parte lesa richiamate nella stessa sentenza. Per le considerazioni dianzi esposte nella fattispecie era doverosa la verifica dibattimentale anche in base alla nuova regola di giudizio introdotta con la L. n. 479 del 1999. Pertanto la sentenza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di Santa Maria Capua Vetere per un nuovo esame. La liquidazione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile va rimessa al giudice del rinvio. P.Q.M. La Corte letto l'art. 623 c.p.p. annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere cui demanda la liquidazione delle spese tra le parti. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 162 Tentato bacio come violenza sessuale. Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 10-05-2012) 19-07-2012, n. 29152 Svolgimento del processo 1. Il Tribunale di Roma in data 4 novembre 2011 ha rigettato l'appello proposto avverso l'ordinanza con la quale il G.I.P. presso il Tribunale di Velletri in data 29 luglio 2011 ha respinto la richiesta di sostituzione con la misura degli arresti domiciliari di quella della custodia in carcere disposta, a far data dal 17 maggio 2011, nei confronti di U.G., indagato per i delitti di violenza sessuale continuata e stalking in danno di D.M., in (OMISSIS) (condotta perdurante), per avere posto in essere varie condotte vessatorie dopo l'interruzione della relazione extraconiugale da parte di costei, nonchè di averne sessualmente abusato. Il Tribunale aveva ritenuto che gli atti allegati dalla difesa all'esito di indagini difensive (verbali di sommarie informazioni testimoniali di D.L.A.), non offrivano nuovi elementi di valutazione in punto di esigenze cautelari. 2. L'indagato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, precisando di avere già inoltrato richiesta di sostituzione della misura custodiale, respinta dal G.I.P. in data 2 luglio 2011, reiezione confermata dal Tribunale della libertà di Roma con ordinanza del 6 ottobre 2011, ed ha chiesto l'annullamento per provvedimento per i seguenti motivi: 1) Contraddittorietà manifesta della motivazione, travisamento del fatto, in quanto era stato considerato sussistente la violenza sessuale (capo b), fatto la cui esistenza doveva ritenersi esclusa sulla base delle risultanze processuali, che venivano indicate in dettaglio nel ricorso. 2) Violazione degli artt. 152 e 612 bis c.p. e art. 273 c.p.p., comma 2: il Tribunale avrebbe confermato la misura sulla base di fatti configuranti il reato di atti persecutori contenuti in una querela successivamente rimessa; il Tribunale, in sede di riesame, aveva limitato l'annullamento ad un solo fatto di violenza sessuale, mentre avrebbe dovuto comprendervi tutti gli episodi rientranti nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 612 bis c.p., commessi fino alla data della querela che era stata rimessa. 3) Violazione di legge, in quanto il Pubblico Ministero avrebbe dovuto immediatamente richiedere l'archiviazione per i fatti narrati nella querela oggetto di rimessione, per cui gli atti di indagine non erano utilizzabili nella valutazione del Tribunale, che invece ha basato la decisione sugli elementi di cui alla querela del 7 giugno 2010, rimessa in data 11 giugno 2010; 4) Violazione di legge per inosservanza dell'art. 273 c.p.p., attesa l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: non sarebbe vero che l'indagato ha ricattato la D. e la teste C. ha reso dichiarazioni su suggestione della D. stessa, mentre non sarebbe stato dato rilievo al fatto che la D.L.A. aveva riferito con chiarezza l'episodio del mercato, per cui emergerebbe l'inattendibilità della D. e le ragioni di astio della stessa nei confronti di esso indagato. 5) Violazione degli artt. 62 e 191 c.p.p., e art. 350 c.p.p., comma 6, con riferimento all'utilizzazione, da parte dei giudici del riesame, di dichiarazioni che si assumono da lui rese ai Carabinieri il 7 giugno 2010. 6) Violazione di legge, in quanto nell'informazione di garanzia conseguente al sequestro di alcune fotografie ritraenti la persona offesa non erano stati indicati gli estremi dei fatti per cui si procedeva, con conseguente nullità del sequestro. 7) Illogicità della motivazione del provvedimento impugnato laddove, riconosciuta la improcedibilità di uno dei reati rubricati al capo b) dell'imputazione, non aveva analogamente delimitato l'ambito dell'imputazione di cui al precedente capo a). 8) Violazione dell'art. 274 c.p.p. ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, in quanto il Tribunale avrebbe fornito motivazione apparente, senza indicare gli elementi posti a fondamento della prognosi di recidivale avrebbe indicato quali tra le condotte oggetto di imputazione possano essere reiterate ed avrebbe illogicamente considerato la presunta "sistematica persecuzione", che è elemento costitutivo del reato di cui all'art. 612 bis c.p., quale dato © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 163 significativo per l'applicazione della misura. 9) Violazione dell'art. 274 c.p.p., lett. c), in quanto il Tribunale non avrebbe evidenziato gli elementi dai quali deduceva la pericolosità dell'indagato. 10) Violazione dell'art. 274 c.p.p., lett. a), rilevando la insussistenza del pericolo di inquinamento probatorio. 11) Inosservanza dell'art. 612 bis c.p., Violazione della clausola di sussidiarietà, in quanto il reato di violenza sessuale dovrebbe essere espunto dall'imputazione di stalking. 12) Manifesta contraddittorietà della motivazione e travisamento del fatto, quanto alla insussistenza del grave e perdurante stato di pericolo e del fondato timore per la propria incolumità in capo alla querelante. 13) Violazione dell'art. 192 c.p.p., contraddittorietà della motivazione, travisamento del fatto quanto all'attendibilità della persona offesa, in particolare il Tribunale non avrebbe dato considerazione alle dichiarazioni rese dalla teste D.L., intima amica della D., che avrebbero invece dovuto indurre il Tribunale a dubitare della sincerità della persona offesa, le cui dichiarazioni vengono esaminate nel dettaglio nell'articolato motivo di ricorso. 14) Inosservanza dell'art. 275 c.p.p. In considerazione della palese sproporzione della misura applicata rispetto alle esigenze cautelari, implicitamente riconosciuta dalla stesa persona offesa che richiedeva l'applicazione della meno afflittiva cautela del divieto di avvicinamento ai luoghi dalla stessa frequentati. 15) Violazione di legge in relazione all'art. 275, e art. 1 c.p.p. per la mancata valutazione di adeguatezza rispetto al fatto della misura cautelare applicata. 16) Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 272 e art. 275 c.p.p., comma 2, in quanto, poichè l' U. ha chiesto il rito abbreviato con conseguente sconto di pena, ed alla violenza sessuale (tentativo di bacio) dovrebbe essere riconosciuta la diminuente del fatto di lieve entità, che lo stesso è incensurato, è ragionevole ipotizzare che la pena finale non dovrà essere scontata. Motivi della decisione 1. Osserva la Corte che il ricorso è manifestamente infondato. Innanzitutto, per quanto riguarda i limiti di sindacabilità in questa sede dei provvedimenti "de liberiate", si deve ricordare che la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende dei giudizi a quibus, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè di rivalutazione delle condizioni soggettive dell'indagato in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo dei giudici del merito. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all'esame del contenuto dell'atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall'altro, l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr, da ultimo, Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv. 251760). Inoltre è stato precisato che il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza emessa in sede di appello cautelare è proponibile solo per violazione di legge, per cui non possono essere dedotti con tale mezzo di impugnazione vizi della motivazione, quali la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, separatamente previste come motivo di ricorso dall'art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr. Sez. 1, n. 40827 del 27/10/2010, Madio, Rv. 248468). In particolare, il controllo di legittimità in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure non può infatti riguardare l'apprezzamento del giudice di merito sulle condizioni soggettive dell'imputato, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 1769 del 23/3/1995, dep. 28/4/1995, Ciraolo, Rv. 201177). © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 164 2. Il Tribunale della libertà di Roma, dopo avere sintetizzato la vicenda, ha tenuto conto dei provvedimenti già assunti (la conferma dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta con ordinanza del 7 giugno 2011 e la reiezione dell'appello avverso la richiesta di sostituzione già avanzata al G.i.P. in precedenza, di cui all'ordinanza in data 6 ottobre 2011), ed ha concentrato la propria attenzione sulla istanza di revoca o sostituzione della misura che l'indagato aveva presentato al G.I.P. In data 22 luglio 2011, con la quale aveva allegato le dichiarazioni rese da D.L. A., istanza respinta dal G.I.P. con il provvedimento sottoposto all'esame del Tribunale quale giudice di appello. I giudici dell'appello cautelare, esaminando nel dettaglio le dichiarazioni testimoniali allegate dall'indagato sotto il profilo della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, hanno ritenuto che il contenuto delle stesse, lungi da rappresentare "elemento nuovo" in grado di scardinare il quadro di gravità indiziaria, non potesse neppure mettere in dubbio i presupposti applicativi della misura cautelare, che erano stati ritenuti nella consistenza della gravità indiziaria e nella sussistenza delle esigenze cautelari già nelle precedenti ordinanze relative allo stesso procedimento e che dovevano essere del pari confermati. Quanto alla proporzionalità ed adeguatezza della misura della custodia in carcere, i giudici dei Tribunale hanno confermato il giudizio di esclusiva idoneità di tale restrizione a soddisfare le sussistenti esigenze cautelari, che non potevano dirsi scalfite od attenuate, per i motivi esposti in dettaglio nel corpus motivazionale dell'ordinanza, dalla circostanza che fosse stato emesso decreto di giudizio immediato (poi convertito su istanza dell'imputato in giudizio abbreviato, come dallo stesso evidenziato nel ricorso). 3. Orbene non si ravvisa, dalla motivazione dell'ordinanza del Tribunale di Roma, alcuna carente esplicazione circa il permanere dei presupposti di applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere, avendo i giudici dell'appello cautelare esaminato le dichiarazioni della teste D.L., offerte quale elemento di rivalutazione sia della gravità indiziaria che del diverso atteggiarsi delle esigenze cautelari. Di fatti quasi tutti i motivi di ricorso dell' U., risultano inammissibili in quanto non fanno altro che riproporre questioni già oggetto del giudizio di riesame dei 7 giugno 2011, avverso l'ordinanza generica di applicazione della misura cautelare, questioni risolte in tale sede ed ormai coperte da giudicato cautelare, giusta sentenza di questa Corte, Sez. 3, n. 187 dell'1/12/2011, depositata il 10/1/2012, che ebbe a dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione avverso tale ordinanza. Infatti è stato chiarito che "l'effetto preclusivo di un precedente giudizio cautelare viene meno soltanto in presenza di un successivo, apprezzabile, mutamento del fatto; ne consegue che, in difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era fondata, le questioni dedotte a sostegno di una richiesta di revoca presentata dall'interessato restano precluse" (in tal senso Sez. 5, n. 17986 del 9/1/2009, dep. 30/4/2009, Massone Brega, Rv. 243974). 4. Altri motivi risultano del pari inammissibili, proprio perchè volti a sollecitare una diversa valutazione dei dati acquisiti al processo, propria del giudizio di merito, ovvero a considerare diversamente le stesse esigenze cautelari al fine di ottenere una valutazione più favorevole in relazione ai requisiti dell'adeguatezza e proporzionalità delle stesse. Tale giudizio, come già evidenziato, non è consentito in questa sede di legittimità. Nel caso si specie, invece, questo Collegio osserva che l'ordinanza oggetto della presente impugnazione è sorretta da logica e corretta argomentazione motivazionale circa le ragioni giuridicamente significative che hanno sorretto la decisione. 6. Nè possono in questa sede essere esaminati i profili prognostici circa la futura sanzione che potrà essere comminata all'imputato all'esito del giudizio di merito e per quanto attiene alla irrilevanza © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 165 sotto il profilo della sussistenza delle esigenze cautelari della conclusione delle indagini preliminari, l'ordinanza impugnata ha fornito esaustiva risposta alla censura, facendo corretto richiamo alla giurisprudenza di legittimità. Per cui anche tali restanti motivi di ricorso risultano manifestamente Infondati. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dei ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p. e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende. Inoltre la Corte dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p.. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p.. © Copyright Overlex.com 2012 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 166