L`adolescenza una sfida per la psicoterapia

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L`adolescenza una sfida per la psicoterapia
1.
L’adolescenza una sfida per la psicoterapia
1.1.
Premessa
L’adolescenza sta attirando sempre più l’attenzione degli studiosi e da tempo ha cessato di
essere una fase di transizione rapida tra l’infanzia e l’età adulta, in linea con la maggiore
complessità dell’organizzazione sociale nel mondo occidentale, con ulteriori investimenti
sull’educazione e con la conseguente dilatazione dell’apprendistato dei giovani prima di entrare nel
ciclo produttivo.
Come scriveva già nel 1970 Debesse, dopo il 1945 le ricerche sull’adolescenza si sono
moltiplicate e la causa principale è l’urgenza educativa, sensibile ovunque, in seguito ai
rivolgimenti portati dalla seconda guerra mondiale e che si manifesta in differenti forme a seconda
che si tratti di Paesi molto progrediti oppure, al contrario, arretrati.
Una delle ragioni che fa infatti dell’adolescenza un fenomeno di così difficile interpretazione
è la sua non sovrapponibilità con l’universale fenomeno della pubertà sebbene ne sia indubbiamente
da questo influenzato (Brusset, 1985).
La medesima pubertà in realtà presenta ampie fluttuazioni come evento fisiologico sia tra
popolazioni avanzate” o in via di sviluppo, sia all’interno degli stessi gruppi di giovani. Matilde
Callari-Galli (1989) osserva, per esempio, che l’età media in cui compare il menarca per le ragazze
Bundi della Nuova Guinea è di diciotto anni, mentre per le ragazze europee è di circa dodici anni e
otto mesi.
Sono dati tuttavia da considerare temporanei in relazione al cambiamento della situazione
ambientale e alimentare nelle varie nazioni. È stato calcolato infatti che nelle società industriali
negli ultimi 100 anni la media suddetta è diminuita a un ritmo di 4 mesi ogni 10 anni.
Inoltre, le ricerche più recenti tendono meno a vedere il fenomeno fisiologico
dell’adolescenza come improvviso e indicano che il cambiamento puberale comincia assai prima di
quanto si pensasse e deve essere inteso come un processo graduale a lungo termine (BrooksGunn,
Warren, 1989).
L’antropologia culturale ha messo in evidenza che se da un lato alcune culture sembrano
contraddistinte da grande continuità tra i modelli trasmessi dall’infanzia e quelli propri
dell’adolescenza, altre invece si caratterizzano per una grande discontinuità tra essi. Per esempio,
fece scalpore il classico lavoro di M. Mead (1928) quando segnalò che nei giovani di Samoa
l’adolescenza non era vissuta necessariamente come un periodo di stress, angosce, conflitti. Così P.
Ariès (1972) ha messo in evidenza, almeno sino al Rinascimento che il passaggio dall’infanzia
all’età adulta avveniva senza un periodo definito adolescenziale.
Il fenomeno dell’adolescenza, della cultura adolescenziale così diversa e peculiare rispetto al
mondo degli adulti, col suo corredo di turbamenti, malesseri, appare almeno nella letteratura di
stampo più sociologico (Lutte, 1987) un fenomeno che si è acuito nell’intermezzo tra le due guerre
e che da allora è divenuto più rilevante e sembra andare di conserva col fenomeno
dell’urbanizzazione.
Tuttavia, sebbene possa essere adottato il concetto di subcultura adolescenziale, in realtà esso
appare un fenomeno variegato, che presenta notevoli differenze nelle diverse nazioni e tra le diverse
classi sociali. Bisogna cioè parlare di numerosissime subculture assai diverse tra loro, nelle quali il
grado di “opposizione” alla generale cultura ufficiale degli adulti varia ampiamente (Canestrari,
1989).
Vi è poi da tener conto del rapido invecchiamento degli studi e delle ricerche rispetto alla
rapidità delle trasformazioni sociali, per esempio la ormai classica differenza tra i giovani del
sessantotto e quelli attuali.
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In questa prospettiva, mi sembra acuta l’osservazione di Chamboredon (1985), secondo cui lo
stesso concetto di ciclo vitale e gli studi sulle diverse età della vita devono essere guardati
criticamente. Se da un lato infatti le successioni delle età della vita, nascita, allevamento dei figli,
loro emancipazione ecc., possono essere molto utili e passibili di essere collegate a diverse
situazioni economiche e sociali, dall’altro lato questo riferimento concettuale può essere
ingannevole: «se suggerisce il determinismo naturale di queste fasi ed un carattere universale,
omogeneo e stabile del loro contenuto, o se ne disconosce le determinanti contraddittorie».
Per dirla in altri termini, possiamo chiederci se l’adolescenza è una fase naturale della vita o è
una costruzione sociale. A mio avviso quest’ultima posizione è troppo estrema, ma non è da
trascurare la maggiore prudenza nell’aderire a modelli che utilizzano una sola chiave di lettura, non
solo da parte degli psicologi dello sviluppo (Lehalle, 1989; Powers et al., 1989; Montemajor,
Flannery, 1990), ma anche da parte degli studiosi di area psicoanalitica. In questa prospettiva è utile
sottolineare che l’adolescenza, sottratta allo stretto riferimento all’evento puberale, si è così dilatata
che autori come Blos (1972) hanno proposto di suddividerla in diverse sottofasi dalla
preadolescenza sino all’inizio dell’età adulta, cioè la post-adolescenza.
Negli ultimi anni sta inoltre entrando in voga il termine di tarda adolescenza e/o giovane
adulto (Salzberger-Wittenberg, 1977; Adatto, 1990) a indicare una dilatazione dell’ultimo periodo
dell’adolescenza i cui confini con l’età adulta vera e propria sono sempre più sfumati e
problematici.
Ne può essere un esempio non solo la distinzione introdotta da Male (1980) tra crisi puberale
e crisi giovanile, la cui durata può essere molto variabile e arrivare anche ai 25 anni e più, ma anche
il convegno tenuto a Grenoble da psicoanalisti di scuola francese in cui ci si è interrogati sulla
terminabilità o interminabilità dell’adolescenza (Diatkine, 1985; Bergeret et al., 1985; Guillaumin,
1985).
Molta acqua è quindi passata sotto i ponti da quando Anna Freud (1957), uno dei pionieri in
questo campo, osservava che l’adolescenza era la cenerentola della psicoanalisi. In realtà, la
letteratura psicoanalitica, che è quella cui faremo riferimento in questo libro, si è ormai così espansa
che è difficile trovare un accordo come ai tempi della classica rassegna di P. Kay (1972).
Tale fenomeno, a mio avviso (Zavattini, 1989), fa parte della generale messa in crisi del
modello strutturale delle pulsioni e del presupposto a esso sotteso di un parallelismo tra sviluppo
fisico e sviluppo psicologico, per cui nell’attuale trattazione dell’adolescenza in psicoanalisi sono
presenti e talora si intrecciano modelli diversi, da quello più classico che vede nell’adolescenza una
lotta contro il riemerge-re delle pulsioni preedipiche, a quei modelli che hanno messo più in
evidenza lo strutturarsi delle identificazioni e la tematica del Sé, a quegli studi, infine, che hanno
sottolineato il ruolo del contesto e dei legami familiari.
1.2. Crisi o processo?
Cosa sia l’adolescenza o quali siano gli aspetti peculiari degli adolescenti è un problema assai
complesso che dipende dalla particolare lettura che è data dai vari modelli interpretativi. Trovare un
orientamento tra i diversi vertici sarà scopo del secondo capitolo in cui saranno esposte le tesi degli
autori più rilevanti sul tema.
A monte delle varie letture vi è il dibattito complesso sui diversi modelli dello sviluppo che
pone non pochi problemi teorici e da cui “dovrebbe” scaturire non solo una teoria dell’adolescenza,
ma anche una teoria dell’intervento.
Il primo problema da affrontare è la differente impostazione data all’interpretazione
dell’adolescenza tra coloro che adottano un modello rivoluzionista e coloro che invece fanno
riferimento a un modello cumulativo.
Gli studiosi che vedono lo sviluppo da un punto di vista rivoluzionista presuppongono che
questo avvenga secondo una serie di emergenze discrete, rappresentanti di stadi, ognuno dei quali
funge da piattaforma per lo stadio successivo. Tale è per esempio il classico modello freudiano
dell’evoluzione per fasi della libido in cui lo sviluppo mentale è visto parallelo a quello biologico e
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secondo il quale vi è una sostanziale discontinuità tra l’organizzazione della libido a uno stadio
rispetto a un altro.
In questa prospettiva, l’organizzazione mentale dell’adulto "sano" dovrebbe essere assai
diversa da quella del bambino, almeno nei termini del bambino inteso come «polimorfo perverso»
(Freud, 1905) come scaturisce dalla versione “dura” del modello strutturale delle pulsioni.
Gli autori che invece seguono maggiormente un modello cumulativo o transazionale, vedono
appunto una sostanziale continuità tra il passato e il presente, tra il bambino e l’adulto. In realtà, è
un punto di vista presente anche in Freud quando intende il comportamento adulto come
l’espressione di fantasie, credenze, interiorizzazioni legate all’infanzia ed evidenziabili per esempio
nel transfert.
Le due diverse impostazioni, qui brevemente tratteggiate, implicano letture diverse
dell’adolescenza nel senso che può essere accentuata l’interpretazione dell’adolescenza come
evoluzione cogliendone la continuità col passato, o l’interpretazione dell’adolescenza come crisi
cogliendone più la dimensione di peculiarità e cambiamento sia rispetto al passato, l’infanzia, sia
rispetto al futuro, l’età adulta (Bordi, 1983, 1990; Fara, Esposito, 1984; Ammaniti, 1987;
Novelletto, 1989a).
Per quanto riguarda la prima linea interpretativa, Blos (1962, 1979) in particolare ha proposto
di considerare l’adolescenza nei termini di un secondo processo di separazione-individuazione
sviluppando i concetti di Margaret Mabler sul rapporto madre-bambino.
Per Blos lo sviluppo deve essere inteso come un processo continuo indirizzato verso il
disimpegno dall’oggetto infantile e parallelamente verso la maturazione dell’Io. E in questa
prospettiva che ha descritto varie sottofasi dell’adolescenza supponendo che se il bambino si è
distaccato dalla madre tramite l’internalizzazione, il “compito” dell’adolescente è quello di
distaccarsi dagli oggetti internalizzati per amare gli oggetti esterni ed extrafamiliari.
Come osservano Marcelli e Braconnier (1988), questo modello di comprensione ha raccolto
alcune critiche: la prima riguarda una certa artificiosità e schematismo nel distinguere le varie
sottofasi. In ciò si può leggere il retaggio della formazione biologica di Blos che lo porta ad
accentuare soprattutto una lettura continuista dello sviluppo psicologico rispetto alle variabili
culturali. La seconda critica sottolinea il rischio di mettere troppo l’accento sull’aspetto adattivo del
processo trascurando la peculiare dimensione conflittuale presente nell’adolescenza.
Più nutrita è la pattuglia di coloro che mettono maggiormente in evidenza l’interpretazione
dell’adolescenza in termini di crisi (turmoil) con una serie di contributi che hanno inizio negli anni
Cinquanta (Josselyn, 1954; Geleerd, 1957; Eissler, 1958) e che proseguono con saggi importanti nel
decennio successIvo.
Anna Freud (1957, 1966) parla dell’adolescenza «come un disturbo evolutivo» che costituisce
l’interruzione di una crescita pacifica e sottolinea il tema dei conflitti di sviluppo.
Erik Erikson (1963, 1968) mette in evidenza la crisi d’identità dell’adolescente che deve
elaborare una coerente rappresentazione di se stesso.
Editb Kestemberg (1962, 1980) ritiene che l’adolescenza sia un periodo di sconvolgimento
profondo e propone il concetto di rottura come rigetto delle identificazioni precedenti.
Più recentemente, Moses e M. Eglè Laufer (1984) hanno introdotto il concetto di break-down
evolutivo in relazione al rifiuto inconscio della maturazione sessuale e della paura di assoggettarsi
passivamente alle esigenze del corpo.
Anche questa impostazione ha ricevuto non poche critiche. in primo luogo, l’idea della crisi
come universale, non solo inevitabile, ma anche necessaria per il normale sviluppo della personalità
è stata messa in discussione da una serie di studi in campo psicologico e psichiatrico (Rutter et al.,
1976; Offer, 1987; Offer, Sabshin, 1990; Powers et al., 1989) che hanno evidenziato che solo una
parte degli adolescenti presenta situazioni emotive palesemente riconducibili al concetto di crisi. In
secondo luogo, vi è il rischio di sottovalutare la distinzione tra aspetti normali e patologici
minimizzando l’esistenza di una
patologia o non valutando a fondo la necessità di un intervento terapeutico.
Da tali diverse impostazioni scaturiscono infatti diverse teorie della tecnica in adolescenza.
Coloro che mettono più in evidenza l’aspetto discontinuo dello sviluppo presuppongono che vi sia
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appunto molta differenza tra l’adulto e gli stadi precedenti e che quindi l’intervento psicoanalitico
classico possa essere adeguato e possibile appieno soltanto a partire dalla fine dell’adolescenza,
problema quest’ultimo, come già osservato, di non facile definizione.
In ogni caso, sul piano dell'assessment viene data particolare importanza all’epoca in cui la
psicopatologia è insorta, sia nel senso che si può essere manifestata all’inizio della pubertà o nella
media o tarda adolescenza, sia nel senso di indagare a fondo su come si è manifestato il processo
evolutivo, se ha subito arresti o flessioni.
È anche importante sottolineare che in questa prospettiva la psicoanalisi degli adolescenti
viene vista come molto difficile proprio perché si presuppone che non sia ancora possibile
l’instaurarsi di una vera nevrosi di transfert. In questa direzione, la fine prematura o brusca della
psicoterapia sembrerebbe corroborare questa ipotesi; tuttavia cercherò di darne una diversa lettura
nei paragrafi successivi.
Al contrario, coloro che leggono più l’adolescenza dal punto di vista del modello cumulativo
tenderanno ad accentuare meno le differenze tra bambino e adulto interessandosi maggiormente alla
natura della psicopatologia. In altri termini, viene messo più in rilievo il punto di vista dinamico
rispetto a quello genetico e la fenomenologia dei problemi adolescenziali, se per esempio questi si
esprimono di più con disturbi profondi, come psicosi, anoressia, tentato suicidio o tossicomania, o
se si esprimono invece in modo più impercettibile e meno eclatante, come una tendenza
all’isolamento o improvvise difficoltà scolastiche o fobie.
Sul piano dell’intervento psicoanalitico vi è anche più “ottimismo” sia nel senso che si
presuppone di potere instaurare un regolare setting, sia nel senso che si ha fiducia per gli
adolescenti, così come per i bambini, di potere lavorare con una particolare intensità e immediatezza.
Sono contrapposizioni che tuttavia stanno sfumando via via, come osserva Novick (1982), che
si vanno ricomponendo le polemiche nel movimento psicoanalitico e viene visto possibile applicare
la “logica” dell’intervento psicoanalitico a un maggior numero di adolescenti di quanto si pensasse
prima secondo diverse possibilità, dalla psicoterapia intensiva come propone Laufer (1981) con
mobilitazione massiccia del transfert, a modalità di intervento diverse dal setting classico (Copley,
Farryan, 1987; Marcelli, Braconnier, 1988; Adamo, 1990; Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990).
Vorrei comunque sottolineare che le due impostazioni presentate in questo paragrafo non
devono essere considerate così rigidamente separate. Per esempio, se da un lato Erik Erikson ha
messo in evidenza il tema della crisi di identità, dall’altro lato inserisce il periodo adolescenziale
nell’ambito di un processo evolutivo proposto nei termini di epigenesi dell’identità. In uno degli
ultimi suoi saggi del resto mette più in evidenza l’esistenza di una vulnerabilità specifica in
adolescenza legata allo sviluppo di nuove potenzialità nell’individuo che il segno di una
drammatizzazione necessaria. Egli stesso infatti riconosce che se negli anni Sessanta la crisi di
identità giovanile «si è drammaticamente riflessa nel comportamento asociale di alcuni gruppi
giovanili», allo stato attuale si pone più al centro dell’attenzione il problema della «sana
personalità» (Erikson, 1982, p. 13).
Analogamente E. Kestemberg e O. Morvan (1985) attutiscono l’idea dell’adolescenza come
una rottura sconvolgente, vedendola non solo fruttuosa, ma in un qualche modo, o in parte,
interminabile.
L’idea “romantica” dell’adolescenza, presente del resto anche in Meltzer (1978b), come l’età
dell’ardore e dei cambiamenti drammatci, viene in parte ridimensionata probabilmente non soltanto
in seguito alle critiche cui si è fatto cenno, ma anche, per dirla con Stern, dal generale passaggio dal
modello patomorfo, che accentua la lettura del comportamento dal versante della psicopatologia, a
quello che mette più in evidenza le caratteristiche dello sviluppo normale.
In questo senso, il recente libro di Montemayor, Adam e Gullotta (1990) prendendo in esame
un’ampia letteratura sperimentale si mostra assai cauto nell’interpretazione dell’adolescenza come
periodo peculiare cogliendo sia continuità che cambiamento nei vari settori dello sviluppo rispetto
all’età infantile.
Vi è da dire tuttavia che già nel 1976 Rutter riteneva che la crisi adolescenziale fosse stata
sovrastimata in campo clinico, sebbene non fosse da trascurare quella che più propriamente
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chiamava inner turmoil , rappresentata dai sentimenti di tristezza e disistima, assai comune tra gli
adolescenti.
In questo senso, mi sembra condivisibile quanto osserva Novelletto (1986) che di fronte
all’ormai inflazionato concetto di crisi propone di adottare quello di arresto di sviluppo, segnalando
soprattutto il rischio di non cogliere, sia nella sfera della sessualità che nella vita di relazione, una
situazione difficile sebbene silente e non “gridata”. Osservazione del resto presente, seppure con
accentuazioni diverse anche in altri autori (Meltzer, I 978a; Kestemberg, 1980; Lussana, 1989).
Quindi più che fare riferimento all’aspetto necessario e ineluttabile di una crisi — sia che si
adotti il vertice maturazionista che enfatizza il ruolo della pubertà e dei cambiamenti del corpo, sia
‘che si accentui la lettura romantica dell’adolescenza come ribellione ai genitori — mi sembra
maggiormente valido prendere in considerazione due livelli di lettura tra loro interrelati: in primo
luogo i temi relativi alla perdita di coerenza nei significati delle proprie transazioni interne, che
portano l’adolescente a confusioni nel riconoscimento di sé e degli altri senza più potere fare
riferimento come prima agli oggetti primari della propria infanzia, in secondo luogo la concausa di
fattori esterni nella rete di relazioni affettive che ci portano a tenere conto di diverse situazioni nel
contesto di appartenenza.
1. 3. Il funzionamento psichico dell’adolescente
L’epoca adolescenziale è vista generalmente come un momento di passaggio, di
trasformazioni, di cambiamento sebbene, come già accennato, le posizioni teoriche tra i vari autori
divergono mettendo in evidenza differenti aspetti di cui gli elementi più rilevanti sono il ruolo della
pubertà, delle trasformazioni del corpo, il controllo delle pulsioni, il disinvestimento dai legami
infantili, il problema dell’identità (Blos, 1978; Del Carlo Giannini, 1983; Novelletto, 1986;
Marcelli, Braconnier, 1988; Senise, 1985; Dazzi, Muscetta, 1990).
Data la vastità e la complessità della letteratura psicoanalitica non è possibile farne una
disanima articolata; vi è infatti una contrapposizione tra gli autori che fanno più riferimento a una
visione pulsionale dell’apparato psichico e quindi sottolineano il tema del conflitto e quelli più
centrati sulla teoria delle relazioni oggettuali. O, per dirla in altri termini, vi è non poca divergenza
tra coloro che sottolineano le radici corporee dell’esperienza mentale, come fa, per esempio, Laufer,
e coloro che danno una maggiore valorizzazione al contesto in cui l’adolescente vive, come
Meltzer.
Ciò premesso, a mio avviso possono essere individuate alcune linee interpretative di fondo
anche se non debbono essere intese in modo rigido: la teoria dell’adolescenza come ricapitolazione;
il tema delle identificazioni strutturanti; l’adolescenza intesa come un periodo di confusione e
oscillazione selvaggia tra gli investimenti su di sé o sul mondo esterno.
La teoria dell’adolescenza come ricapitolazione è sostenuta soprattutto da quegli autori come
Anna Freud, Blos, Laufer, Ladame che si riallacciano maggiormente al modello strutturale delle
pulsioni di Freud e quindi sottolineano l’importanza della pubertà, dei cambiamenti somatici e i loro
effetti sul piano mentale. In questa prospettiva viene messa in evidenza la lotta contro il riattivarsi
della sessualità infantile, il ruolo dei meccanismi di difesa contro le pulsioni, il disinvestimento
dagli oggetti primari.
Anna Freud (1957) ha visto l’adolescenza come una sorta di «lotta emotiva» contro le
emozioni all’insegna dell’estrema urgenza e immediatezza. La pubertà, infatti, caratterizzata dalla
comparsa della capacità orgasmica può comportare un’esplosione libidica sia nel senso di dover
fronteggiare le forti pulsioni genitali sia nel senso di tenere a bada la regressione verso le pulsioni
pregenitali.
Si ripropongono inoltre i temi legati alle dinamiche del complesso edipico con forti e
ambivalenti emozioni verso i genitori. Blos (1978) tuttavia acutamente osserva che la risoluzione
del complesso edipico viene completata e non solo ripetuta durante l’adolescenza.
Egli sottolinea in particolare il problema del complesso edipico negativo e ritiene che mentre
nel bambino le dimensioni bisessuali o la contemporanea attrazione verso il padre e la madre sono
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«incassate» più agevolmente, non si verifica la medesima cosa per l’adolescente in cui «le
contrapposizioni di maschile e femminile» regnano supreme.
A suo avviso, mentre il bambino tramite i meccanismi di identificazione e l’instaurarsi del
Super-Io trova una risoluzione all’elaborazione dell’Edipo positivo, l’adolescente si trova
maggiormente di fronte al compito di trasformare l’Edipo negativo, cioè l’amore sessuale per il
genitore dello stesso sesso.
Se teniamo conto che l’adolescenza è vista dagli autori che si riallacciano alla teoria della
ricapitolazione come una “seconda opportunità” prima di un certo cristallizzarsi e assetto definitivo
della personalità si comprende l’aspetto drammatico” con cui viene letta la situazione
adolescenziale in cui, si potrebbe dire, vengono al pettine i nodi delle età precedenti: di fronte al
compito evolutivo di marcare i confini tra eterosessualità, omosessualità, perversione, sono meno
tollerabili le “coesistenze” di emozioni e sentimenti presenti nel bambino.
I Laufer (1984) non a caso hanno messo in particolare evidenza come l’adolescente viva
angosciosamente il tema del possesso del proprio corpo. Anche in questo caso ci si trova di fronte a
una perdita di stabili parametri di riferimento, al non riuscire a mantenere più il controllo sulla
propria dimensione somatica che inspiegabilmente comincia a trasformarsi e a sfuggire ai limiti e ai
confini che l’infanzia aveva saldamente definito.
In questa prospettiva la masturbazione lungi dall’essere semplicemente collegata all’aspetto
maturativo della pubertà appare come un procedimento destinato a padroneggiare sul piano mentale
l’esperienza delle trasformazioni del corpo.
Questa tematica di conflitto con il corpo, il tentativo di controllare l’eccitamento e la
governabilità della dimensione somatica con un misto di attrazione e paura, è stata ampiamente
descritta nella letteratura psicoanalitica. In questa direzione, Anna Freud (1936, 1957) ha
felicemente colto quelle strategie volte a ricercare un rifugio nella dimensione del pensiero non
soltanto sul piano dell'acquisizione di più complesse capacità logico-formali, ma anche sul piano di
modalità difensive, come per esempio l’intellettualizzazione, volte a tenere a bada il “corpo ribelle”.
Se l’adolescenza appare come un momento di acquisizioni e trasformazioni, per altri versi è
stata messa in evidenza anche la dimensione di perdita e di lutto da elaborare (A. Freud, 1957;
Aberastury, 1971; Winnicott, 1971; Grasso, 1981; Giaconia, 1989; Ladame, 1989). In primo luogo
per il proprio corpo infantile che cambia e non rimane più come prima, in secondo luogo perdita dei
genitori “infantili”, sia nel senso del distacco dalla autorità genitoriale, sia nel senso della deidealizzazione, sia in quello più sottile della perdita del tipo di relazione protettiva e con precisi
punti di riferimento tra un bambino e i suoi genitori.
Bisogna anche aggiungere che se è stato enfatizzato l’aspetto più esplosivo e oppositorio
dell’adolescenza, non deve essere trascurata la dimensione depressiva legata al senso di perdita
insito nelle trasformazioni adolescenziali, dimensione più silente e talora più sfumata e meno
evidente, ma tuttavia rilevante e da non trascurare.
Coloro che invece mettono più in evidenza il tema delle identificazioni strutturanti sono
meno interessati alla dinamica delle pulsioni, ma volgono maggiormente la loro attenzione al
processo con cui l’adolescente perviene a individuarsi.
E. Erikson (1963, 1964, 1982) vede la ricerca della propria identità da parte dell’adolescente
nei termini di una continuità con l’infanzia e coglie la peculiarità di questo periodo nel tema della
“fedeltà”. Per Erikson l’essere umano è sempre impegnato nello sforzo di conservare la propria
individualità in un mondo di forze tra loro contrastanti al fine di conquistare una propria posizione
caratterizzata dai requisiti di centralità, integrità e iniziativa. Tale obiettivo appare tuttavia
particolarmente rilevante nell’adolescenza che egli considera un periodo “naturale” di sradicamento
e di crisi d’identità a cui il ragazzo o la ragazza reagisce secondo modalità che dipenderanno da
come nel periodo infantile sono stati integrati i differenti elementi dell’identità.
In questa prospettiva, la società ha un ruolo molto importante nel facilitare o permettere
all’adolescente di sviluppare o di integrare le diverse tappe dello sviluppo. In caso contrario,
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possono apparire non solo aspetti ribelli o critici, ma addirittura dimensioni fortemente distruttive e
violente.
Diversa è invece la posizione di Evelyn Kestemberg (1962, 1980; Kestemberg, Morvan,
1985) che rispetto a Erikson mette al contrario più in evidenza il tema della rottura e il rigetto delle
identificazioni precedenti. Tanto Erikson, in linea con il suo modello, sottolinea l’identità come una
costruzione progressiva, tanto la Kestemberg parla della crisi adolescenziale come di uno
«sconvolgimento necessario e fruttuoso». Per l’autrice, la crisi adolescenziale deve essere vista
come un “organizzatore”, termine che rimanda al modello di sviluppo proposto da Spitz. Il concetto
di organizzatore indica che tutto un fascio di sviluppo ‘conduce alla necessità di una
riorganizzazione d’insieme che prende la forma di una “crisi”.
Dunque, la cancellazione della crisi, il suo mascheramento o anche quelle crisi che con
termine suggestivo possono essere chiamate “a bassa voce”, possono portare a un impoverimento
dell’individuo, mentre, al contrario, la risoluzione della crisi è fonte di progresso genetico.
Questo progresso tuttavia implica, come già osservato, che «la pubertà trascini, brutalmente o
progressivamente, una riorganizzazione, con le inquietudini relative alla identità e uno “scompiglio”
delle identificazioni anteriori» Kestemberg, 1980).
Sono soprattutto gli “oggetti” genitoriali che l’adolescente deve respingere per staccarsi dalla
precedente immagine di sé e per allontanarsi dall’investimento edipico.
Questo processo, che in un certo senso corrisponde a un dissolvimento dei punti di riferimento
usuali, implica un rigetto di sé come essere sessuato, un viversi estraneo dagli altri e a se stesso. La
condizione adolescenziale viene infatti vista come caratterizzata dal misurarsi su varie sfaccettature
senza che sia ancora possibile, e per altri versi augurabile, una capacità di definire un insieme.
Assai particolare e originale è infine l’interpretazione delle dinamiche adolescenziali proposta
da Donald Meltzer e Martha Harris (1973, 1978a, 1983), autori che si allontanano dal modello delle
pulsioni dando particolare importanza al contesto in cui vive l’adolescente. Meltzer infatti
implicitamente indica la poca plausibilità che l’elaborazione del nuovo Sé corporeo possa avvenire
solo nella mente dell’adolescente al di fuori di qualsiasi contesto.
L’adolescente, a suo avviso, vive infatti in contatto con diverse “comunità”: il bambino nella
famiglia, il mondo degli adulti, il mondo degli adolescenti e l’adolescente isolato. Egli è in costante
movimento in avanti o indietro fra queste quattro posizioni: «[...] il tentare un’analisi con un
adolescente è estremamente difficile perché egli non è realmente ancorato in nessun posto. Ogni sua
partecipazione a una di queste quattro comunità separate implica uno stato della mente, o si
manifesta con stati della mente che sono molto "isolati" gli uni dagli altri. Si trova quindi in una
posizione piena di tormento, nella quale egli sente che nessuno può aiutarlo» (Meltzer, 1978a, p.
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In altri termini, l’essenza dell’adolescenza consisterebbe in questo «straordinario splitting»,
per dirla con Meltzer, tra sentimenti di conquista del mondo esterno sino alla spietatezza e
sentimenti di altruismo, tenerezza, importanza per le relazioni umane.
Anche Meltzer e Martha Harris come Evelyn Kestemberg sembrano prevedere una prognosi
più favorevole per quegli adolescenti che sono in grado di avvertire e comunicare il dolore e la
sofferenza di questa crisi in cui viene messo in discussione l’assetto del mondo interno, delle
interiorizzazioni, con investimenti e proiezioni agite su diverse dimensioni della realtà.
Ugualmente più difficili appaiono quelle situazioni di crisi “a bassa voce” o, come scrive
Meltzer, quegli adolescenti che in genere gli psicoanalisti non vedono, quelli cioè che hanno
successo, che vanno avanti senza pietà finendo per vivere, da adulti, una vita che non è altro che una
ripetizione del periodo di latenza nel senso di una maggiore piattezza rispetto alle sfumature delle
dinamiche affettive. Una vita in cui manca cioè quel turmoil adolescenziale che permette tuttavia di
elaborare e rendere più complesso il mondo delle emozioni.
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2.Lo sviluppo dell’adolescente: complessità e temi emergenti dei modelli psicoanalitici
2.1. Premessa
Con lo scritto Frammenti di un analisi di isteria (caso clinico di Dora) e successivamente con
i Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud, 1901, 1905) Freud individuò alcune tematiche che aprirono
la strada alla comprensione dell’adolescenza e dei conflitti di questa età. In particolare, sotto l’egida
del modello pulsionale, veniva sottolineato il valore della pubertà e il ruolo svolto dall’accesso alla
sessualità che coronava il cammino evolutivo verso la riorganizzazione delle pulsioni parziali.
Freud infatti dedica il terzo dei tre saggi proprio alle trasformazioni della pubertà, descrivendo
l’adolescenza come l’epoca in cui «[...] subentrano i cambiamenti che debbono condurre la vita
sessuale infantile alla sua definitiva strutturazione normale. Finora la pulsione sessuale era
prevalentemente autoerotica, ora trova l’oggetto sessuale» (Freud, 1905, p. 514).
Gli avvenimenti principali individuati da Freud erano appunto la subordinazione delle zone
erogene al primato della zona genitale, l’istituzione di nuove mete sessuali diverse per maschi e per
femmine e il ritrovamento di nuovi oggetti sessuali al di fuori dalla famiglia. Tale ottica deve essere
ovviamente inquadrata in un modello che fa dell’Es e della vita istintuale il nucleo propulsore
dell’essere umano senza particolari concessioni all’’ambiente”.
Vi era inoltre il rischio che, se da un lato questa esposizione poteva dar ragione di molte
caratteristiche del comportamento adolescenziale, la particolare sottolineatura dell’esistenza di una
vita sessuale infantile, l’aspetto nuovo e dirompente messo in luce dal fondatore della psicoanalisi,
non poteva non ridurre il significato dell’adolescenza all’essere in un certo senso solo un periodo di
mera ratifica di trasformazioni definitive, una transizione e un ponte tra la sessualità infantile
diffusa e la sessualità adulta centrata sulla genitalità.
Al pericolo di una così limitata prospettiva si può ricondurre quello che è ormai diventato
come un aforisma citato nei vari saggi su questo tema: «sentiamo dire frequentemente che
l’adolescenza è un periodo trascurato, un figliastro per quanto riguarda il pensiero analitico» (A.
Freud, 1957, p. 627).
È ben noto come il brutto anatroccolo, per così dire, non sia rimasto tale: l’adolescenza non è
infatti più vista come un semplice capolinea e numerosissimi sono gli studi che, seppure da
prospettive diverse, ne hanno indagato la specificità e peculiarità come periodo evolutivo.
I vari contributi psicoanalitici sull’adolescenza, è opportuno precisarlo ulteriormente, pur
tenendo conto della tematica da cui è partito Freud con il modello pulsionale, hanno messo in luce
aspetti differenti tra cui può esserci una integrazione, ma talora rimangono divergenze anche
sostanziali.
Nel primo capitolo ho fatto riferimento ad alcune linee interpretative di cui già sono state
prese in considerazione le dimensioni critiche, mi riferisco alla teoria dell’adolescenza come
ricapitolazione, il tema delle identificazioni strutturanti e infine l’adolescenza come periodo
all’insegna della confusione. Questi temi che saranno qui ripresi vanno a loro volta inscritti in due
aspetti di fondo che indicano una direzionalità degli studi da Freud ai tempi odierni in linea con i
cambiamenti nella storia delle idee e dei paradigmi teorici.
In primo luogo, rispetto agli studi iniziali che hanno fatto riferimento all’integrazione nella
personalità delle mutate caratteristiche fisiche (come altezza, peso, caratteri sessuali primari e
secondari), oggi si è molto più consapevoli che questo processo è assai più complesso/ perché le
caratteristiche fisiche suddette, ben lungi dal potere essere prese in considerazione come dati
obiettivi, sono soggette non solo a situazioni storiche e culturali (Callari-Galli, 1989; Montemayor,
Flannery, 1990), ma devono essere ricollegate al tema della processualità del ciclo vitale (Scabini,
Gilli, 1988), in particolare all’integrazione e individuazione dell’identità, di cui l’adolescenza è
9
indubbiamente una tappa importante, ma non l’unica.
In questa prospettiva, l’adolescente deve riconnettere l’immagine del Sé che vigeva
dall’infanzia e dal periodo di latenza — e a ciò concorrono indubbiamente i temi legati alla pubertà
alla rappresentazione del corpo, all’eccitazione sessuale come è stato messo in evidenza da molti
autori (Marcelli, Braconnier, 1988), ma essi appaiono oggi solo un aspetto accanto al compito della
“riorganizzazione” delle varie interiorizzazioni e identificazioni proiettive.
Il secondo aspetto strettamente legato a questo è la maggiore attenzione al contesto sia nel suo
significato lato, cioè socio-culturale, sia nel senso della rete di legami affettivi che diventa più
complessa facendo sì che “il luogo dell’Inconscio”, per così dire, si estenda e si “disperda”.
In questo capitolo quindi cercherò di inseguire gli aspetti peculiari di queste linee di tendenza
a colpi di pennello “impressionista” senza avere la pretesa di effettuare una rassegna sistematica dei
numerosi lavori di studiosi stranieri o italiani sull’adolescenza o tentare un’omologazione peraltro, a
mio avviso, non possibile.
2.2.
Le strategie difensive dell’Io: il contributo di Anna Freud
Il contributo di Anna Freud si inserisce nell’ambito di quel filone che in psicoanalisi ha
contribuito a fare evolvere e rendere più complesso il modello di Freud, almeno per i riferimenti ai
temi della libido, della problematica del corpo e dei meccanismi di difesa. Dobbiamo tener conto
soprattutto di due presupposti:
a) l’attenzione alle strategie impiegate dall’Io per controllare le pulsioni;
b) l’idea dell’adolescenza come interruzione di una crescita pacifica.
Le premesse di questa impostazione possono essere già rinvenute nel famoso saggio del 1936.
L’Io e i meccanismi di difesa, in cui l’autrice dedica due capitoli all’adolescenza: L’Io e l’Es nella
pubertà e Angoscia pulsionale nella pubertà.
Lo studio dell’adolescenza veniva considerato rispetto al tema di fondo del saggio, cioè le
lotte dell’Io per padroneggiare le tensioni e le pressioni che originano dai derivati pulsionali, lotte
che in casi normali portano alla formazione del carattere e nel loro esito patologico alla formazione
dei sintomi nevrotici.
L’aspetto innovativo del lavoro di Anna Freud è l’attenzione alle capacità di relativo
adattamento dell’Io in un contesto in cui tutti i metodi di difesa disponibili sono messi in gioco e
sottoposti alla massima tensione.
In questa prospettiva sono possibili due diverse strategie: l'eventualità che l'organizzazione
dell'Io e del Super-Io si alteri sufficientemente , tanto da accoglierne le nuove mature forme di
sessualità, o che, al contrario, un Io rigido, immaturo , riesca a inibire o deformare la maturità
sessuale (A. Freud, 1957, p. 529). In questo caso, gli impulsi dell’Es riescono a creare enorme
confusione e caos in quello che è stato un Io ordinato durante il periodo della latenza.
Vi è da precisare tuttavia che se da un lato Anna Freud presuppone che la capacità adattiva e
organizzativa dell’Io abbia il compito di armonizzare e portare verso una giusta meta l’evoluzione
della libido, anche nella prima delle due possibilità suddette non vi è da aspettarsi un passaggio
tranquillo e indolore. In un certo senso potremmo dire che se da un lato vi è il rischio del caos,
dall’altro dobbiamo aspettarci perlomeno un periodo di “naturale disordine”.
Se infatti l’adolescenza deve la sua tipicità al turmoil inevitabile legato allo sviluppo del corpo
e alle sue tensioni, rappresentando «per sua natura un’interazione di una crescita pacifica», il
mantenimento di un equilibrio stabile durante il processo adolescenziale «è in sé anormale» (A.
Freud, 1957).
10
La normalità deve essere intesa nei termini di una situazione complessa, instabile, con un
senso di pericolo interno e angoscia, in cui è insita l’idea di oscillazioni, capovolgimenti o anche
una rigidità accettabile.
È in questo senso che Anna Freud parla dell’adolescenza come di «un disturbo evolutivo» che
riguarda non solo la sensibilità, ma anche altre dimensioni come l’aggressività, la rivolta e la
ribellione sul piano sociale, e che rappresenta un inevitabile e necessario passaggio sul piano
dell’adattamento: «Ciò che è di importanza fondamentale è sapere quale tipo di tumulto
adolescenziale sia meglio adatto a introdurre il tipo più soddisfacente di vita adulta» (A. Freud,
1966, p. 1005).
Di particolare rilievo è la distinzione che Anna Freud ha proposto rispetto alla differenza tra:
a) difese contro i legami oggettuali infantili;
b) difese contro gli impulsi.
Tale lettura della problematica adolescenziale, sebbene ancora racchiusa all’interno del
modello classico, merita spazio e attenzione perché coglie gli sforzi del singolo adolescente per
sentirsi libero dalle figure genitoriali e determinarne il distanziamento.
Per Anna Freud, come del resto, pur con alcune differenze, per altri autori come la
Kestemberg, Winnicott, Meltzer, l’investimento sul gruppo adolescenziale appare in un certo senso
l’aspetto più normale della età come modalità di passaggio dalle relazioni dell’infanzia con i
familiari a quelle intime, di coppia e della vita adulta; le altre modalità difensive contro i legami
oggettuali infantili vanno nella direzione di una crescente patologia.
Tra le difese contro i legami oggettuali infantili vanno annoverate:
1. Difesa per spostamento della libido Molti adolescenti affrontano l’angoscia provocata
dall’attaccamento ai loro oggetti infantili con la fuga, cioè anziché permettere un processo di
graduale distacco dai genitori, ritirano da essi la loro libido all’improvviso e rapidamente. Ciò lascia
in loro un appassionato desiderio di compagnia che può essere trasferito sull’ambiente circostante al
di fuori della famiglia.
In questa luce può essere letto l’attaccamento a figure diametralmente opposte a quelle dei
genitori, sia i cosiddetti capi , generalmente persone in età compresa fra quella della generazione
dell’adolescente e quella dei genitori, spesso assunti a ideali, sia gli appassionati nuovi legami con
coetanei dello stesso sesso od opposto, sia la partecipazione a bande giovanili.
2.
Difesa mediante inversione dell’affetto Anche questa difesa viene innescata contro il
timore degli attaccamenti infantili, ma è considerata da Anna Freud «più infausta internamente».
L’adolescente infatti, forse proprio perché non è riuscito a spostare la libido dai genitori, volge tali
emozioni nel loro opposto: l’amore in odio, la dipendenza in ribellione, il rispetto e l’ammirazione
in disprezzo e derisione. Tali atteggiamenti segnalano tuttavia che il distanziamento non è ancora
avvenuto e «la messa in atto rimane all’interno della famiglia» (A.
Freud, 1957, p. 643).
Il rischio è che i sentimenti di ostilità e aggressività siano sentiti intollerabili e siano respinti o
tramite la proiezione, attribuendo il ruolo di persecutori e oppressori ai genitori, o siano rivolti verso
di sé, generando depressione, tendenze all’autodenigrazione e autolesionismo o infine tentativi
suicidali.
3.
Difesa mediante ritiro della libido verso di sé Si incomincia in questo caso ad andare
verso una crescente patologia; se infatti le angosce e le inibizioni bloccano la strada verso nuovi
oggetti al di fuori della famiglia, la libido rimane all’interno del sé e può essere impiegata per
investire l’Io e il Super-Io, provocando così una loro inflazione.
Sul piano clinico, a tale dinamica può essere ricondotta una sintomatologia in cui compaiono
idee di grandezza, fantasie di potere illimitato sugli altri, o fantasie messianiche e di salvazione del
mondo.
11
4.
Difesa mediante regressione Nel caso che l’angoscia sia ancora più forte, le relazioni
con il mondo oggettuale possono essere ridotte allo stato emotivo noto come “identificazione
primaria” con gli oggetti, implicando dei cambiamenti regressivi in tutte le parti della personalità. In
tal caso, i confini dell’Io si possono allargare fino ad abbracciare l’oggetto insieme con il Sé con
conseguente diminuzione dell’esame della realtà e un quadro clinico caratterizzato da un aumento
dello stato di confusione e rischio di perdita di identità.
Tra le difese contro gli impulsi, vanno annoverati invece dei meccanismi che devono essere
anche essi intesi all’interno di un grado di maggiore gravità, se massicciamente innescati, o di
minore gravità come tamponamento di situazioni poco controllabili.
I.L’ascetismo Come modalità di lotta per un miglior controllo al livello del corpo, tuttavia non
solo rispetto alla sessualità, ma anche rispetto all’appagamento dei bisogni fisiologici di cibo, sonno
o, in senso generale, benessere del corpo: «Una guerra totale è condotta contro il perseguimento del
piacere in quanto tale. Coerentemente, la maggior parte dei normali processi di soddisfacimento
pulsionale e dei bisogni subisce interferenze ed è paralizzata» (A. Freud, 1957, p. 646).
In un quadro di tal genere vanno letti quei comportamenti adolescenziali in cui appaiono
compiti o restrizioni fisiche più o meno draconiane, talora aldilà della necessità, come imporsi corse
campestri, astenersi da un certo alimento, sfidare le intemperie o un rigido controllo della
masturbazione.
2. L’intellettualizzazione In questo caso la strategia difensiva è volta al controllo delle
emozioni e pulsioni al livello del pensiero. Il riferimento può essere a quegli adolescenti che
passano ore interminabili in discussioni sui massimi sistemi o aderiscono in modo totalizzante e
acritico a teorie filosofiche o politiche.
3.
L’adolescente che non fa compromessi Cioè quei ragazzi che sostengono a spada
tratta le proprie idee rifiutando qualsiasi concessione ad atteggiamenti più pratici e realistici
rimanendo orgogliosamente abbarbicati ai propri principi morali ed estetici.
2.3.
Fantasmi e conflitti masturbatori nel modello dei Laufer
Moses e M. Eglé Laufer propongono una lettura dell’adolescenza saldamente ancorata ai temi
dello sviluppo istintuale, dando una particolare attenzione al ruolo e al valore dei fantasmi e conflitti
masturbatori e sottolineando la funzione di quella che hanno chiamato la «fantasia masturbatoria
centrale».
Possiamo fare riferimento al capitolo iniziale del loro libro dedicato all’adolescenza,
Adolescenza ed organizzazione sessuale definitiva, in cui vengono tracciate le direttive del loro
pensiero. I Laufer sottolineano di partire da una tesi di fondo: sebbene la risoluzione del complesso
d’Edipo significhi la fissazione dell’identificazione sessuale e la definizione del nucleo
dell’immagine corporea, tuttavia soltanto durante l’adolescenza i contenuti dei desideri sessuali e le
identificazioni edipiche si integrano in un’identità sessuale irreversibile e si raggiunge una
soluzione di compromesso tra ciò che si desidera e ciò che è consentito.
E appunto sulla base di questi presupposti che viene considerata la specificità dell’età
adolescenziale (Laufer, Laufer, 1984, p. 23).
Noi riteniamo che la principale funzione evolutiva dell’adolescenza sia l’instaurarsi
dell’organizzazione sessuale definitiva: un’organizzazione che, per quanto riguarda la
rappresentazione del corpo, deve ora includere i genitali maturi, I vari compiti evolutivi
dell’adolescenza — cambiamenti nelle relazioni con gli oggetti edipici e con i coetanei e
12
nell’atteggiamento verso il proprio corpo andrebbero inquadrati in questa funzione evolutiva
fondamentale, piuttosto che intesi come compiti distinti.
Se dunque in questi termini viene individuato il ‘compito evolutivo” dell’adolescente, il modo
in cui i ragazzi affronteranno la maturazione corporea integrandola nella rappresentazione del Sé
può permettere di sapere se continueranno a procedere regolarmente verso l’età adulta oppure se è
necessario un intervento terapeutico.
Una notevole importanza viene infatti assegnata all’instaurarsi dell’organizzazione sessuale
definitiva poiché successivamente non appare più possibile alcun tipo di compromesso interiore
quale poteva esistere e poteva essere assorbito e adattato in fasi precedenti dell’adolescenza.
Parimenti, i disturbi patologici che si possono riscontrare successivamente nei giovani adulti
debbono essere letti come il risultato di un break-down del processo evolutivo che ha avuto luogo
nell’adolescenza.
L’adolescenza appare quindi per i Laufer come un’età cerniera in cui, per così dire, i nodi
vengono al pettine soprattutto in relazione alle fantasie masturbatorie che riattivano soddisfacimenti
di tipo regressivo e che se rimangono eccessivamente vive e attive possono ostacolare lo sviluppo.
Gli autori non intendono fare un discorso normativo, la fantasia masturbatoria centrale viene
infatti considerata «un fenomeno universale, e di per sé, non ha nulla di patologico»; così durante
l’infanzia e il periodo di latenza il suo contenuto, pur potendo rimanere inconscio, traspare in forma
contraffatta nei sogni a occhi aperti o nelle fantasie che accompagnano la masturbazione nei giochi
o nelle attività di finzione.
Diviene invece una complessa prova evolutiva sperimentare queste fantasie in uno scenario in
cui la maturità fisica dei genitali esaspera ogni cosa e soprattutto l’organizzazione difensiva viene
sottoposta a una forte tensione. Dopo la pubertà infatti la fantasia masturbatoria centrale assume un
carattere coatto nel senso che è forte il bisogno di viverla all’esterno nelle relazioni oggettuali e
nelle proprie esperienze sessuali.
Appare tipica di questa età la tendenza a esteriorizzare i conflitti e la messa in atto di questa
fantasia come se fossero l’unico soddisfacimento importante (Laufer, Laufer, 1984, p. 25).
Si ha l’impressione che i comportamenti di messa in atto che associamo all’adolescenza e che
spesso accettiamo come un aspetto normale dello sviluppo, riflettano in gran parte gli sforzi
dell’adolescente per trovare nuove modalità d’integrazione della fantasia masturbatoria centrale.
Analogamente, alcune delle crisi o dei transitori episodi psicotici che si manifestano
nell’adolescenza rappresentano l‘unica soluzione (seppure patologica) che l’Io ha a disposizione per
trovare modi nuovi per integrare il contenuto della fantasia masturbatoria centrale nel contesto della
genitalità.
L’aspetto coatto che può assumere questa fantasia, nonché la forza e la distruttività che
possono essere eventualmente a essa associate e la possibile negazione della realtà, possono
spaventare profondamente l’adolescente con molte conseguenze che, se gravi, possono rientrare in
ciò che è stato proposto sotto il termine di break-down evolutivo.
11 break-down evolutivo in adolescenza è qui inteso come il rifiuto inconscio del corpo
sessuale e il concomitante sentimento di passività di fronte alle esigenze derivanti dal corpo. Si
tratta di un «arresto del processo di integrazione dell’immagine del corpo» fisicamente maturo nella
rappresentazione che l’adolescente ha di se stesso. Può affermarsi allora una visione distorta del
proprio corpo e del rapporto con esso espressi come odio e vergogna.
A differenza infatti del bambino e dell’adulto, l’adolescente vive il proprio corpo, ossia le sue
trasformazioni, gli eccitamenti, come la riprova di qualcosa che lo può travolgere o sommergere con
fantasie ed emozioni talora penose, talora addirittura paurose. E un momento evolutivo in cui può
prendere forma il timore di un cedimento o di un senso di resa a esigenze regressive, tra cui essere
13
di nuovo in balia della madre.
Bisogna tener conto che per i Laufer lo sviluppo del bambino deve essere visto alla luce di
una progressiva separazione del proprio corpo dal corpo della madre e una progressiva rinuncia
all’idea di un soddisfacimento dei bisogni libidici da parte della madre.
Mentre tuttavia nel periodo di latenza la masturbazione può essere sentita, in fantasia, come
un modo con cui viene ripristinato un bambino idealizzato e tutt’uno con la madre, durante
l’adolescenza invece più che fungere da fonte di rassicurazione può aumentare l’angoscia e la paura
di una passività.
La medesima scelta, per così dire, di optare per un corpo maschile o femminile può essere
sentita come dura limitazione dell’onnipotenza, così come le trasformazioni inevitabili del corpo
possono essere sentite come perdita della perfezione narcisistica, nel senso che il proprio corpo
potrebbe essere diverso da come si sperava che fosse e quindi conferma dell’odio che la madre
nutriva per il proprio bambino.
È in questa luce, cioè quella di ritrovare un equilibrio narcisistico, che gli adolescenti possono
rivolgersi al gruppo dei pari come una sorta di nuovo ideale dell’Io da cui dipendono le loro risorse
narcisistiche.
Qui, come del resto già messo in evidenza da Anna Freud, vi possono essere diverse
situazioni, per esempio quello che i Laufer chiamano uno «pseudoideale dell’Io» (Laufer, Laufer,
1984, p. 87) nel senso di una specie di conformismo adattivo di superficie, sia rispetto al gruppo dei
pari, sia rispetto alle esigenze genitoriali, che però lascia intatti i legami con gli oggetti edipici
infantili. Oppure vi può essere il caso dell’adolescente vulnerabile che cercherà di usare come ideale
dell’Io il rapporto con un oggetto fantasticato che pretende il controllo del corpo sessualmente
maturo, come è già stato messo in evidenza nel paragrafo precedente a proposito dell’ “ascetismo”.
Vi è infine da segnalare che il break-down evolutivo appare più grave se si verifica durante la
pubertà; se invece avviene più tardi, cioè nella tarda adolescenza, l’organizzazione difensiva può
consentire all’adolescente di trovare risposte alternative ai desideri incestuosi. In questo ultimo
caso, infatti, anche se le proiezioni di questi adolescenti possono risultare estremamente disgreganti
e possono compromettere gravemente la loro capacità di distinguere la realtà dalla fantasia -tentativi
di suicidio, anoressia, droga, depressione grave o un improvviso fallimento scolastico- vi è tuttavia
un tentativo di integrare in qualche modo i genitali fisicamente maturi nell’immagine del corpo.
2.4.
Il ritorno della tematica edipica e il “rigetto” delle figure genitoriali
Secondo Edith Kestemberg, come già accennato nel primo capitolo, il periodo adolescenziale
corrisponde a uno “sconvolgimento profondo” degli investimenti oggettuali e degli investimenti
narcisistici indotti dalle modificazioni corporee proprie di questa età.
Tuttavia, se viene data una certa attenzione al fatto che l’equilibrio economico libidico è
rimesso in discussione, in seguito ai cambiamenti del corpo e alla confrontazione con i bisogni
sessuali, sono le relazioni oggettuali profonde e i conflitti affettivi il vero interesse di questa autrice.
I cambiamenti puberali mettono infatti l’adolescente di fronte a delle domande di fondo: «chi
sono e che cosa sono» e «come posso fare ad essere».
Tali quesiti si giocano sulla polarità della ricerca di una propria identità e nel contemporaneo
rifiuto delle immagini genitoriali in una crisi dura, inevitabile, ma necessaria: «[...] il rigetto delle
immagini genitoriali - e dunque del conflitto d’identificazione - si inscrive in una ricerca
angosciante dell’identità propria dell’adolescente» (Kestemberg, 1962).
Si risentono probabilmente in questa impostazione le considerazioni del Freud di Disagio
della civiltà nella direzione di un contrasto di fondo tra la maturazione sessuale genitale e quella
affettiva che non viene aiutata dal contesto sociale in cui gli adolescenti si trovano a vivere.
Le modificazioni del corpo possono accompagnarsi, infatti, a un sentimento di inutilità e di
14
impossibilità nella nostra cultura, non essendo considerate di utilizzazione immediata, determinando
un senso di inadeguatezza e una interrogazione ansiosa sulla propria identità.
Il distanziamento e il rigetto violento delle identificazioni precedenti rientra in ogni caso in
una lettura dello sviluppo umano per cui una nuova capacità organizzativa della personalità implica
una disorganizzazione dell’equilibrio vigente fino a quel momento. Secondo la Kestemberg, infatti,
l’Io è strutturato secondo le identificazioni dell’infanzia e l’adolescente quindi affronterà i
cambiamenti del corpo e le pulsioni genitali in base allo schema di queste identificazioni infantili e
con un approccio che sarà dunque inevitabilmente edipico (Kestemberg, 1962).
1.1 L’importanza del conflitto edipico nella costituzione della crisi adolescenziale e la
difficoltà di trovare un equilibrio utile entro le posizioni regressive, o entro posizioni sintomatiche
stabili tali quali noi possiamo osservare negli adulti, ci sembra possano essere imputabili al fatto che
il periodo adolescenziale è un movimento di messa in opera di una personalità non ancora costituita.
Per alcuni adolescenti il risveglio della problematica edipica può essere “intollerabile” con la
necessità di elaborare varie modalità difensive. Questo processo di “riaggiustamento” per arrivare a
un nuovo equilibrio segue la qualità dell’evoluzione precedente e la costellazione familiare attuale e
può prendere un andamento più o meno drammatico necessitando talora di un intervento
terapeutico.
Tale “movimento” infatti non riguarda soltanto la messa in discussione delle imago parentali,
ma può implicare anche un rigetto di sé in quanto essere sessuato, per cui l’adolescente può viversi
estraneo sia agli altri che a se stesso.
Questo rigetto degli oggetti genitoriali, di sé in quanto essere sessuato e dunque delle
identificazioni con il genitore dello stesso sesso e dei legami con quello di sesso opposto, suscita
un’angoscia più profonda di quella indotta dal conflitto edipico proprio perché ha a che fare con la
coesione della propria persona e quindi della propria identità. Parimenti, il rifiuto brutale degli
ideali e delle immagini parentali può portare con sé un deprezzamento personale e una ferita
narcisistica in quanto l’individuo si era organizzato secondo questi ideali e queste immagini
“eterne”.
La Kestemberg ritiene che per uscire da questo vicolo cieco l’adolescente tenderà a
moltiplicare le esperienze. Le diverse e multiformi esperienze, la moltiplicazione degli investimenti
oggettuali pur all’insegna della mutevolezza e della precarietà, rappresentano la risposta
dell’adolescente alle difficoltà in cui si dibatte. Le nuove relazioni d’oggetto rispetto a quelle
familiari gli serviranno infatti di supporto alle successive interiorizzazioni e poi identificazioni.
Da tale mosaico e da tale situazione fluttuante potrà uscire in futuro sia una personalità
integrata, sia il rischio di una rottura con la realtà di stampo psicotico. Il prodotto finale di questo
“scompiglio” dei precedenti investimenti e multiformità di relazioni oggettuali, ossia
un’identificazione più coeva, dipenderà dalla qualità degli oggetti mediatori, cioè delle esperienze
fatte con altri adolescenti, adulti o all’interno dei gruppi.
Gli adolescenti in questo periodo sono alla ricerca di un ideale dell’io, di una immagine
soddisfacente di se stessi, di un’immagine che sia capace cioè di fornire loro un sostegno
narcisistico. Certi adolescenti, i ragazzi in particolare, troveranno una possibilità di distanziamento
in rapporto ai loro iniziali investimenti libidici nelle attività di gruppo o nell’identificazione
nell’ideale di gruppo che incarna provvisoriamente l’ideale dell’Io permettendo di riprendere quel
movimento evolutivo che l’instaurarsi della pubertà può rischiare di compromettere gravemente.
Nel caso invece in cui la destrutturazione dei vecchi ideali e immagini familiari non trovi
degli oggetti mediatori, vi è il pericolo che le difficoltà d’identificazione possano dar luogo a un
disturbo dell’identità sino al rischio di rottura con la realtà che può raggiungere il suo massimo
livello nei disturbi psicotici.
15
2.5. Erik Erikson e il concetto d’identità
Erik Erikson fa parte di quegli autori che vedono l’adolescenza all’interno di una linea di
continuità che fa capo all’infanzia. In questa prospettiva l’identità finale, come si concretizza al
termine dell’adolescenza, viene vista come una configurazione che va evolvendosi, elaborando le
varie fasi d’identificazione con individui del passato, comprendendone cioè tutte le identificazioni
significative, ma anche alternandole in modo da farne un complesso unico e possibilmente coerente
(Erikson. 19b8, 1982).
L’influsso di Anna Freud e di Hartmann, in particolare a proposito della qualità e forza
dell’Io, uniti agli interessi per l’antropologia culturale, spingono questo autore ad allontanarsi da
quello che chiamò «[…] l’approccio meccanicistico e fisicalistico della teoria psicoanalitica»
(Erikson, I 963), che operava una distinzione molto netta tra mondo interno ed esterno sulla scorta
del modello istintivista di Freud.
Erikson invece, come osserva Ancona (1968), è più interessato a sviluppare il classico
concetto di zona libidinale allargandola a quello di modo di funzionamento della stessa, dandole un
significato di scambio attivo con l’ambiente fisico e sociale circostante.
In infanzia e società, Erikson propone appunto di spostare l’attenzione dalle pulsioni alle
modalità che riguardano poi le attitudini di base e le “virtù”, cioè i compiti evolutivi che ogni età
della vita deve assolvere per mediare la forza delle pulsioni e intessere i rapporti sociali.
È importante notare, aldilà di una possibile normatività insita nel concetto di virtù, che qui
l’interesse si sposta dagli istinti al filtro e al modellamento che le varie culture operano nel
bambino, come appare nei famosi lavori sui Sioux o sugli Yurok che qui non abbiamo spazio per
prendere in considerazione.
Il termine “cultura” è assai più adeguato, nella prospettiva di Erikson, di quello di ‘società”:
egli infatti ritiene che, mentre è assolutamente chiaro ciò che deve accadere per tenere un bambino
in vita e ciò che non deve accadere per non metterlo in pericolo, un margine di arbitrarietà crescente
con lo stesso sviluppo è lasciato a ciò che può accadergli. Le varie culture cioè fanno largo uso delle
loro prerogative per decidere ciò che esse considerano come possibile e ritengono necessario
(Erikson, 1963).
Possiamo a questo punto individuare una peculiarità dell’adolescenza all’interno di questo
modello evolutivo: per Erikson, l’adolescenza è culturalmente determinata, molto più delle altre
tappe del ciclo vitale.
L’adolescenza è cioè uno stadio nel quale l’individuo si sente molto più vicino alla sua epoca
storica che non nella prima fase dello sviluppo infantile ed è il periodo in cui maggiormente le
società confermano l’individuo inserendolo in strutture ideologiche in cui egli può riconoscersi e
sentirsi riconosciuto: «[…] La formazione dell’identità personale oltrepassa quel processo di
identificazione a senso unico di sé con gli altri che è stato descritto nella prima psicoanalisi.
Si tratta invece di un processo basato su un’elevata capacità cognitiva ed emozionale di
lasciarsi identificare come individuo circoscritto in rapporto a un universo prevedibile che
trascende le circostanze dell’infanzia» (Erikson, 1964b, p. 97).
Se da un lato quindi l’adolescenza dipende dalla forza dell’Io del singolo individuo e dalla sua
capacità di reagire allo sradicamento e alla crisi d’identità secondo modalità che dipendono da
come nel periodo infantile ha integrato i differenti elementi dell’identità, dall’altro lato non meno
importante è come questo processo evolutivo è “accompagnato” dalla società e dalla cultura di
appartenenza.
In altri termini, se per esempio il primo stadio, il cui compito evolutivo è quello di assicurare
un senso di fiducia di fondo negli altri, ha lasciato questo bisogno insoddisfatto o in termini
problematici, l’adolescente potrà cercare con passione le persone, le istituzioni o le idee cui poter
dare la propria fede. Se il secondo stadio, che è quello che si misura col tema dell’autonomia,
16
appare bene integrato, allora l’adolescente cercherà in accordo con se stesso quelle strade in cui può
esprimersi liberamente senza essere troppo attraversato dalla vergogna o dal dubbio.
In questa prospettiva l’autore coglie un rapporto tra i vari tipi di adolescenti e i problemi
emersi o irrisolti negli stadi anteriori nella costruzione dell’identità:
—
—
—
—
—
l’adolescente alla ricerca di un ideale;
l’adolescente caparbio;
l’adolescente che funziona nell’immaginario e nell’illusione;
l’adolescente alla ricerca di un lavoro appassionante senza altra motivazione;
l’adolescente ideologo.
Nell’adolescenza, la “struttura ideologica” nell’ambiente diventa quindi essenziale per l’Io,
perché senza una “semplificazione ideologica” nell’universo l’Io adolescente non sa organizzare
un’esperienza adeguata alle sue specifiche capacità e al suo crescente coinvolgimento.
Identità e dispersione sono le polarità in cui si muovono secondo Erikson gli adolescenti; egli
infatti osserva che nella loro ricerca di identità e di una nuova continuità debbono riaccendere delle
battaglie degli anni precedenti anche a costo di attribuire il ruolo di nemici a persone che vogliono
loro bene e scegliendo idoli o ideali che sanciscono e proteggono il senso d’identità.
A differenza della Kestemberg, Erikson sottolinea maggiormente non la discontinuità, ma la
ricerca di una continuità interiore che trovi conferma nel giudizio degli altri e in questa prospettiva
considera importante l’attenzione che la società dà o non dà alle prospettive di carriera o alla
capacità di scegliere un’identità professionale.
In linea con quanto già osservato in relazione al tema delle virtù di ogni età, per l’adolescenza
Erikson non a caso parla della forza emergente della fedeltà sia come fiducia in sé e negli altri, sia
come esigenza di essere degni di fiducia e capaci di impegnare tutta la propria lealtà verso una
causa, qualunque sia la confessione ideologica che la sottende.
Il venir meno invece di questo senso di fiducia può generare insicurezza o eccessiva
spavalderia od ostinato attaccamento a cause e gruppi ugualmente spavaldi.
Il compito della società è quello di integrare le varie tappe sotto pena di vedere apparire negli
adolescenti una selvaggia energia distruttrice. Appare quindi più adeguato in questa prospettiva
parlare di una identità psicosociale per gli adolescenti, così come di una morotoria psicosociale che
tale età evolutiva rappresenta per l’equilibrio e il funzionamento di una società.
E in questo senso che Erikson ritiene che se l’adolescente sente di poter aver fiducia in uomini
o idee attendibili può inserirsi nella società e la sua adolescenza sarà meno “tempestosa” e meno
ideologica, sebbene venga riconosciuto che una necessità di ideologia vi sia sempre. In caso
contrario, cioè quello di una mancanza della reciprocità dei modi della comunità di identificare
l’individuo e di quelli di quest’ultimo di riconoscersi in essa, vi può essere un senso di
estraniamento che può assumere la forma di una confusione di identità o della scelta della cosiddetta
“identità negativa” nel senso di una sprezzante ostilità nei confronti dei ruoli presentati come
desiderabili dalla famiglia o dall’immediata comunità.
2.6. La crisi depressiva dell’adolescente
Winnicott, come già osservato, non si schiera tra coloro che vedono l’adolescenza come
periodo esplosivo, anzi, è piuttosto severo verso coloro che la considerano un problema che irrita,
non la tollerano e non ne accompagnano il naturale sviluppo raccogliendo la “sfida” che gli
adolescenti portano alla società e agli adulti (Winnicott, 1961).
Sebbene l’autore riprenda nella letteratura di questo periodo il riferimento al riemergere della
problematica edipica e della maggiore pressione da parte dell’Es, sembra considerarlo più un
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corollario teorico importante sullo sfondo che l’effettivo oggetto della sua attenzione.
Winnicott è infatti assai più interessato a cogliere il rapporto tra problematiche adolescenziali
e società o, per meglio dire, ambiente di sostegno. Egli esplicitamente osserva che molte delle
difficoltà degli adolescenti per le quali viene richiesta l’assistenza dello specialista dipendono da
“insufficienze ambientali”, sia da parte della società, in senso lato, sia da parte di autorità e
istituzioni che hanno a che fare con ragazzi e ragazze a questa età, nonché, infine da parte dei
genitori e della famiglia.
Ma quali sono dunque le caratteristiche degli adolescenti per Winnicott? In primo luogo la
tendenza al rapido alternarsi di atteggiamenti di provocatoria e insolente indipendenza regressiva, e
talora anche una coesistenza nello stesso tempo di queste due modalità. Un secondo aspetto,
profondamente legato al modello generale di Winnicott, è l’idea che l’adolescente si ritrovi, come il
bambino, ad affrontare un forte senso di isolamento, almeno finché non ha “ripudiato” la realtà
esterna e si è costituito come individuo distinto, cioè capace di formare rapporti con oggetti a lui
esterni e al di fuori della sua sfera di controllo onnipotente.
Si può qui anticipare che Winnicott tende soprattutto a sottolineare il tema della separazione
dalle figure genitoriali e le vicende depressive legate a tale processo. In questa ottica la funzione del
gruppo appare più legata a problemi psicopatologici che essere una delle aree della mente, come
sarà invece sottolineato da Meltzer.
Winnicott infatti scrive: «I giovani adolescenti sono un insieme di isolati che tendono con vari
mezzi di aggregarsi mediante l’adozione di gusti comuni. Essi possono raggrupparsi se sono
attaccati come gruppo, ma questa è solo un’organizzazione paranoide reattiva in risposta ad un
attacco esterno; dopo l’aggressione tornano ad essere un aggregato di isolati» (Winnicott, 1971).
Su questi presupposti si può comprendere come l’autore sintetizzi i “bisogni dell’adolescente”
proprio in una sorta di doppio movimento in cui da un lato vi è il bisogno di evitare false soluzioni e
compromessi, sentirsi reale o anche sopportare di non sentirsi tali e dall’altro lato il bisogno di
sfidare un ambiente in cui tuttavia tale provocazione venga tollerata e assicurata la necessità di
dipendenza.
In altre parole, la società deve essere in grado di accettare la crisi depressiva dell’adolescente,
intesa appunto come distacco dagli oggetti primari e sopportazione di non sentirsi ancora reali,
come una fase di sviluppo attraverso un processo naturale di crescita.
Il compito che Winnicott assegna alla società, come del resto Erikson, sebbene su una
teorizzazione diversa, è di accompagnare questo processo evolutivo nell’idea che la migliore cura
dell’adolescenza sia il passare del tempo.
Si potrebbe dire che è necessario sopportare che gli adolescenti transitino per un certo periodo
attraverso una zona di bonaccia, cioè una fase in cui si sentono futili e non hanno ancora trovato se
stessi. Se al contrario questo processo evolutivo non viene “sostenuto” o alcuni singoli adolescenti
sono troppo disturbati, il gruppo può essere utilizzato dai ragazzi e dalle ragazze per dar corpo alla
propria sintomatologia potenziale e ciò vale soprattutto per le tendenze antisociali.
E per questo, secondo Winnicott, che un gruppo può identificarsi con il membro più
sofferente che può essere un adolescente depresso o con una condotta delinquenziale, per cui è
possibile che l’intero gruppo manifesti un umore depressivo o si schieri a fianco del soggetto
antisociale (Winnicott, 1971).
Accade così che nel gruppo scelto dall’adolescente per identificarvisi, o nell’aggregato di
isolati che si riunisce in gruppo in risposta ad un attacco, i membri che occupano le posizioni più
estreme sono quelli che rappresentano l’intero gruppo.
Ogni genere di azioni nella lotta dell’adolescente, il furto, l’uso del coltello, la fuga,
l’irruzione, tutte queste cose vanno incluse nella dinamica di questo gruppo, come il sedere in un
circolo e ascoltare musica jazz o a bere. E se non succede niente, i singoli membri del gruppo
cominciano a sentirsi insicuri della realtà della loro protesta, e tuttavia non sono abbastanza turbati e
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agitati da compiere gli atti antisociali che aggiusterebbero le cose. Ma se nel gruppo c’è un
elemento antisociale, o due o tre, pronti a comportarsi in modo antisociale, questo fatto tutti gli altri,
li fa sentire reali, e temporaneamente struttura il gruppo.
Si potrebbe dire che l’adolescenza per Winnicott è una fase di transizione in cui si oscilla tra
la capacità di reggere la depressione nel non sentirsi ancora reali e compiuti e l’uso dell’aggressività
e degli acting out che hanno una funzione apparentemente e temporaneamente integrativa e
autoaffermativa.
La grande sfida degli adolescenti al mondo degli adulti non è tanto da vedersi nel “fastidio”
che la loro condotta e problematicità comporta, ma è piuttosto nell’andare a toccare quella parte di
noi, più o meno grande a seconda dei casi, che non ha vissuto fino in fondo la crisi depressiva che
l’adolescenza comporta.
2.7. Confusione e crisi d’identità
Il contributo di Meltzer sull’adolescenza deve essere visto all’interno del tentativo, che può
essere considerato più o meno riuscito, di collegare le caratteristiche della mente con il contesto qui
da intendersi come allargamento del luogo mentale dell’Inconscio sulla scorta della lettura in
termini più relazionali del concetto d’identificazione proiettiva.
L’accento nella problematica adolescenziale viene tolto alla sessualità tout court e posto
maggiormente sulle preoccupazioni della conoscenza e del capire in linea con i temi del modello
kleiniano. Meltzer mette in evidenza due aspetti di fondo tra loro collegati:
a)
in primo luogo, ricollega la crisi d’identità adolescenziale al concetto di confusione
che vede determinato a sua volta dalla caduta dell’onnipotenza e della conoscenza magica infantile;
b)
in secondo luogo, sottolinea la difficoltà di entrare in contatto con gli adolescenti
data la mobilità dei loro riferimenti mentali che oscillano tra la comunità dei pari, degli adulti, della
famiglia o infine nell’isolarsi in se stessi.
In questa prospettiva, le dinamiche della sessualità messe in evidenza da tanti autori perdono
la loro centralità. E infatti soprattutto lo stress della confusione che l’adolescente è impegnato a
risolvere e tra le varie soluzioni le attività sessuali possono essere una delle strategie possibili specie
se, come vedremo, sono collegate all’identificazione con il gruppo dei pari.
La confusione può riguardare vari parametri: quella tra buono e cattivo; tra zone e funzioni
delle zone in rapporto all’oggetto; tra maschile e femminile; tra adulto e bambino (Meltzer, 1973).
Rispetto ai bambini che fantasticano che la conoscenza sia qualcosa di concreto, che esista
concretamente in qualche posto e che infine i genitori siano in possesso di tutta la conoscenza del
mondo, diversa è invece la condizione adolescenziale «[…] quando l’adolescente si libera da questa
sottomissione ai genitori, come persone che sanno tutto e devono sapere tutto perché conoscono il
grande segreto di fare i bambini, prorompe tutto il mondo della confusione che era stato tenuto
nascosto dalla convinzione dell’onniscienza dei genitori» (Meltzer,1978a, p. 19).
E infatti importante sottolineare che per Meltzer tutto ciò che emerge al momento
dell’adolescenza esisteva già precedentemente, prima del periodo di latenza, e che il romanzo
familiare può derivare da una carenza dell’età di latenza con continue fantasie infantili che non sono
state sufficientemente rimosse. In questa crisi d’identità e nell’acuta perdita dell’identità familiare
che il ragazzo sperimenta al momento della pubertà, ciò che è importante è la scelta tra l’idea di
essersi fatto da solo e l’idea, fiabesca e astratta, che i genitori stiano in qualche altro posto (Meltzer,
1978a, p. 19).
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La scelta tra l’essere egli stesso i suoi genitori e il sentire e il teorizzare che si è creato da solo
e che è il figlio di una qualche entità astratta genitoriale come, ad esempio, Dio o una particolare
squadra di calcio, è estremamente cruciale. Questa è la crisi d’identità, è un ‘altra area di
confusione che ricopre tutte le altre confusioni [corsivo nostro, N.d.A.], è il problema essenziale del
mondo degli adolescenti.
E rispetto a questa dinamica di fondo e soprattutto al tentativo di risolverla che sorge la
possibilità di identificarsi con la comunità degli adolescenti o di essere un individuo isolato con idee
grandiose come quelle di avere una missione unica nel mondo.
Meltzer mette infatti in evidenza che l’adolescente si trova in un particolare momento
evolutivo, in una sorta di quadrivio tra quattro comunità: quella dei bambini, quella degli adulti,
quella dei coetanei e l’isolamento. Ogni partecipazione a ciascuna di queste quattro possibilità
implica stati della mente differenti e molto isolati gli uni dagli altri e per giunta mutevoli e
cangevoli.
L’adolescente è infatti secondo Meltzer in costante movimento in avanti e indietro fra queste
quattro posizioni nel tentativo di superare uno stato di confusione e disillusione rispetto
all’organizzazione del mondo che aveva sperimentato nella prima infanzia e nell’intento di
ripristinare un senso di unitarietà.
Particolarmente felice mi sembra la descrizione di questo movimento oscillatorio: gli
adolescenti possono cercare infatti di trovare la propria strada in avanti nell’essere adulti, nel senso
cioè di essere potenti e indipendenti, ma contemporaneamente possono cercare la loro strada
indietro nel contatto con le figure che conoscevano tutto, almeno in fantasia, o potevano far tutto.
Sono cioè impegnati nel tracciare la complessa distinzione tra adulto e bambino.
Oppure possono cercare la loro strada avanti per mezzo dell’acting, per esempio per mezzo
dei rapporti sessuali o superando gli esami, o guadagnando soldi, tuttavia possono anche trovare la
propria strada indietro nel sognare, nel fare fantasie, o interessandosi di arte, letteratura o problemi
filosofici.
E proprio questa oscillazione tra investimenti sul mondo interno o esterno, tra azione e
pensieri astratti, tra sentimenti di intolleranza e mancanza di pietà oppure di altruismo e di
sensibilità che consiste “lo straordinario splitting” in cui si trova l’adolescente.
Il punto cruciale nella sua indecisione tra questo andare avanti o tornare indietro è il problema
che riguarda la sofferenza mentale, se potrà cioè essere tollerato il dolore mentale e vi sarà una certa
Capacita di aspettare che la confusione si chiarisca, oppure se tale stato, proprio dell’adolescenza,
sarà evitato e non sarà vissuto fino in fondo.
Meltzer in effetti suggerisce che è nella comunità degli adolescenti, da intendersi come la
transitoria coincidenza tra uno stato della mente e la realtà esterna, che i ragazzi possono reggere e
idealizzare la confusione.
La fiducia e il riferimento massiccio alla comunità degli adulti con la conseguente ricerca del
successo e dello status sociale, può implicare invece la negazione della confusione. Sono quegli
adolescenti descritti da Meltzer come spietati ed efficienti che non si vedono in psicoterapia, ma
potranno avere notevoli difficoltà da adulti.
Vi può essere una terza possibilità, il tornare indietro nella famiglia ristabilendo la
idealizzazione dei genitori. Sono quelle situazioni che devono essere intese come un prolungamento
della latenza e sottendono la fantasia che ci si aspetta sempre che qualcuno venga in aiuto. Infine, vi
può essere l’isolamento che ha come conseguenza l’accentuarsi della megalomania e
dell’onnipotenza e che Meltzer vede come espressione di un crollo di una “grave” idealizzazione
dei genitori con l’incapacità inoltre di ricostruirla con “investimenti” più concreti sul piano della
vita sociale e dei legami affettivi.
Non a caso particolare attenzione è data da Meltzer (1978b) alla funzione del gruppo dei
coetanei che è il posto dove l’adolescente riesce a cristallizzare le continue oscillazioni,
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mantenendo una sufficiente mobilità e senza l’intervento degli adulti.
La distinzione tra gruppo puberale e gruppo adolescenziale è importante ai fini della lettura
secondo l’oscillazione PSI|? |D nei termini del modello kleiniano-bioniano. Infatti, è nel gruppo
puberale, formato da ragazzi dello stesso sesso, che si annida il rischio di una psicopatologia,
perlomeno se l’appartenenza a esso perdura eccessivamente oltre un periodo iniziale. In questo
gruppo è più presente una mentalità psicoparanoide, nel senso che la funzione principale è quella di
evitare la sofferenza mettendola fuori nel gruppo dell’altro sesso. Meltzer e Martha Harris (1983)
parlano a proposito di un tale tipo di gruppo di stato mentale “banda delle ragazze” o “banda dei
ragazzi”, a seconda dei casi.
Questo gruppo tuttavia comincia naturalmente a disintegrarsi quando i suoi componenti, via
via, vanno nel gruppo eterosessuale adolescenziale. È quando entra in questo gruppo che
l’adolescente comincia a poter sperimentare vissuti depressivi, è capace di soffrire e quindi vi
possono essere delle buone possibilità di sviluppo.
Una volta che il passaggio dal gruppo pubere al gruppo adolescenziale è avvenuto, il rischio
di una patologia grave o dell’instaurarsi di personalità rigide è, almeno parzialmente, evitato. Si è
cioè instaurata una modalità più vicina alla posizione depressiva con una maggiore tolleranza a
sopportare la sofferenza e la confusione e una certa capacità a confrontarsi con le emozioni e le
immagini del mondo interno.
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