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Domenica
6/11/2016
Accoglienza diffusa
(e senza imposizioni)
per i nuovi migranti
di Aldo Bonomi
E’ dal 2011 che un flusso più o meno
costante ma sempre massiccio di
persone prova ad approdare in
Europa, sospinto dalla corrente del
collasso geopolitico e climatico del
Medio Oriente e di ampie regioni
africane. A proposito di quest’ultimo
collasso rimando al convegno
organizzato dalla Fondazione Mattei
“climate-induced migration” che si
terrà nei prossimi giorni a Milano.
L’ondata migratoria, lo sappiamo,
non è destinata ad esaurirsi nel
breve periodo e difficilmente potrà
essere respinta, anche a volerlo
come i costruttori di muri s’illudono
di fare. Perciò non resta che cercare
di
governare
il
processo,
particolarmente
complesso
trattandosi di flussi di persone e non
di merci, di denaro o di informazioni.
Dopodiché il governo di questi flussi
può essere fatto al meglio o al
peggio. In Europa lo stiamo facendo
male dimostrando di essere una
comunità dell’indifferenza, ma non
va meglio nella negoziazione tra UE
e Stati membri, tra Stati e Stati che
alzano barriere legali e fisiche a
geometria variabile e che non
“redistribuiscono”, giù giù sino alle
regioni a passarsi il cerino. Ma anche
all’interno dei singoli Stati il governo
dei flussi è assai variegato, per non
dire contradditorio e caotico,
comunque sempre “emergenziale”.
L’Italia, da questo punto di vista, non
fa eccezione, ciò che rende
eccezionale l’impatto numerico sui
suoi territori è la sua esposizione
geografica, il suo protendersi verso il
continente africano, troppo poco
spesso considerato opportunità
anziché condanna. 159mila sono le
persone approdate sulle nostre
coste dall’inizio dell’anno (141mila
nello stesso periodo del 2015), poco
quasi 4mila quelle che hanno perso
la vita nel tentativo di attraversare il
Mediterraneo. I nuovi arrivati
giungono in un Paese in cui
risiedono 5 Mln di stranieri.
All’apparenza poche migliaia di
persone in più non dovrebbero
generare chissà quali resistenze o
forme di rigetto. Eppure, non è così.
Specialmente laddove di migranti
sono rimasti in un immaginario
immobile e non si sono trasformati
in facce, occhi, voci e vita
quotidiana. A Goro risiedono 3.798
persone, di cui 59 stranieri (1,5%). Di
queste, a Gorino ne risiedono 641, di
cui 10 straniere (1,6%). Il tutto,
come evidenzia l’ultimo Rapporto
Migrantes di Caritas, nella Regione
nella quale risiede il maggior
numero di stranieri residenti (12%) e
il minor numero di profughi accolti
in rapporto alla popolazione (2 x
1000 abitanti). Sarebbe però
ingenuo pensare che la propensione
all’accoglienza
dipenda
esclusivamente da pur importanti
fattori culturali. E’ una questione che
rimanda anche alle condizioni
materiali delle persone, nonché alla
fiducia che esse nutrono nelle
istituzioni pubbliche, specie in
quanto elementi di protezione dalle
ricadute di una crisi che, per i più,
perdura nel silenzio e nella
solitudine.
La
sindrome
da
abbandono delle comunità locali
oltre che delle ridotte opportunità
economiche si nutre della riduzione
dei servizi di welfare, della
razionalizzazione
della
sanità
pubblica, dei rischi di isolamento
derivanti dalla perdita dell’ufficio
postale,
della
farmacia,
del
commercio di prossimità. E’ su
questa
prospettiva
di
desertificazione che si innesta il
rancore, prima nella forma dei
sussurri al bar poi nella forma delle
grida e della barricate alimentate
dagli speculatori della paura. Così è
successo a Gorino, ma anche a San
Giuliano di Puglia in Molise o a
Palombaio in Puglia. Ma torniamo al
bar, anzi all’Ostello Bar di Gorino,
che altro non è se non una struttura
pensata e progettata per rilanciare
un altro tipo di micro accoglienza,
quella turistica. Un piccolo ma
significativo tentativo diventato
simbolo di riscossa e speranza di una
nuova operosità adeguata ai tempi,
fatta di turismo ambientale legata al
delta del Po, e al suo parco
regionale. L’Ostello quindi come
segnale di una volontà di una
comunità di riprendere in mano il
proprio destino, in un’atmosfera da
sindrome da abbandono. E’ in
questo quadro che, a mio avviso, va
collocata
la
reazione
alla
requisizione prefettizia a scopo di
accoglienza forzata di un innocuo
gruppetto di migranti. Certo, in altri
tempi ci sarebbe stata una
mediazione, che qui non c’è stata, se
non parzialmente a posteriori. Ma
appunto, un tempo, la fiducia nelle
istituzioni era di un altro tenore, le
figure locali della mediazione
politico-amministrativa (specie in
questa Regione) di un grado ben
diverso di autorevolezza sociale.
D’altro canto i fatti di Goro non
devono farci misconoscere le tante
esperienze di micro accoglienza di
migranti sparse per il paese, anche
nelle piccole realtà rurali, nelle
cosiddette aree interne come la Val
Camonica, la Val di Susa, le alpi
friulane, l’appennino pistoiese, sino
alla ben nota Riace. Credo infatti che
sia quella della micro accoglienza la
strada migliore, ancorché laboriosa,
per diluire l’impatto crescente degli
arrivi dal Mediterraneo. Tuttavia
fare (o peggio imporre) micro
accoglienza senza attivare la parola
“comunità di accoglienza” non
funziona, rischia solo di essere un
modo di ingigantire un “problema”,
fondamentalmente
non
insormontabile, trasformandolo in
una questione di trasferimento in
periferia di una mancanza di
politiche adeguate. Lo hanno capito
anche nelle aree metropolitane,
almeno in quelle più disponibili
all’accoglienza come Milano. Una
città spugna che rischia di non
riuscire più ad “assorbire” ora che le
frontiere a Nord, a Ovest a Est, si
sono chiuse, e che per questo fatica
ad uscire dall’emergenza. Ed è il
permanere di questo stato di
emergenza che obbliga all’uso di
caserme e grandi strutture per
accogliere, pur sapendo che sono
micro esperienze di quartiere come
quelle attivate presso Cascina
Cuccagna (centro culturale nato dal
recupero di un’antica cascina posta
non lontano dal centro) a funzionare
meglio, meglio per i migranti, meglio
per gli accoglienti, meglio per il
quartiere. Ma qui, appunto, è stata
attivata
un’alleanza
tra
una
comunità di cura (la stessa Cascina
Cuccagna, l’associazione Il Gabbiano
Onlus) ed un pezzo di comunità
operosa
(Milano
Ristorazione).
Esperienze simili sono presenti a
Napoli (Less Onlus), e ormai da
tempo a Torino (Rifugio diffuso),
senza contare tutte quelle attiviate
dalla rete Caritas nelle grandi e
medie città. Non va dimenticato che
la
micro
accoglienza
diffusa
contribuisce a ridurre i rischi di
speculazione
legati
alla
concentrazione delle persone con
grave danno reputazionale per tutta
la comunità degli operatori e delle
realtà della cura. Ma è la cura di
prossimità con l’attivazione della
voglia di comunità l’unica vera carta
in mano ad ognuno di noi per
disinnescare il rancore, che,
purtroppo, non manca di elementi
nutritivi nel brodo torbido di questi
tempi di metamorfosi.
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