doctor crow

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doctor crow
Quello che le donne non dicono… (ma scrivono)
Fanfiction
| Autrice:
Lalla Usai
|
Pubblicazione: 09/2004
|
Edizione:
|
Pagine: 1
DOCTOR CROW
Premessa: se “Il Gladiatore” è un film che amo moltissimo, “Via col vento” rappresenta invece un’opera per la
quale nutro un’avversione viscerale. Del resto, chi come me ama la cultura afroamericana non può pensarla
diversamente, a proposito di un film (e di un libro) grondante nostalgia per un mondo dove i neri erano
considerati “cose”, in cui gli stessi sono rappresentati come dei poveri deficienti e l’eroina è una borghesuccia
viziata per la quale mi è difficile provare simpatia. Un paio di appunti: non sembri strano che il protagonista,
giovanissimo, sia già medico. Nel secolo scorso, le cose andavano diversamente da adesso, anche perché la
formazione superiore intesa com’è attualmente non esisteva. Crow non c’entra niente con il mio grande amore
cinematografico. In realtà, sta per cornacchia ed era il nomignolo insolente che la “ brava gente” del Sud
appioppava ai neri, specie a quelli che “non volevano stare al loro posto” vale a dire erano ambiziosi e
desideravano elevarsi anche grazie alla cultura.
***
Dai tempo al tempo Rossella. Quante volte se l'era detto da sé sola, quando lui partiva per quei viaggi di cui si
sapeva la data della partenza e quella del rientro era incerta? L'aveva aspettato senza perdere la pazienza,
quando se n'era andato sbattendo la porta, stanco, lui, un uomo fatto, dei suoi capricci da ragazzina viziata. Ma
il tempo era rotolato come un sasso lungo una discesa, da quel giorno: era stato amore, ma anche parole che
non si sarebbero mai volute dire, di quelle che scolpiscono un segno profondo, dentro il cuore, e lui non era
uomo capace di dimenticare il male ricevuto.
"Sono cambiata, non sono più la stessa di vent'anni fa. "E come metterlo in dubbio? Era passata attraverso due
matrimoni, altrettante vedovanze, una guerra, la miseria, l'abbandono, il dolore. Non fosse morta in quel modo,
la piccola Diletta sarebbe stata ormai una bella signorina e avrebbe avuto il mondo ai piedi. Il ricordo di Diletta
le lacerava ancora il cuore, nonostante gli anni trascorsi, nonostante, in qualche modo, Dio gliel'avesse
restituita nella piccola Kitty, figlia dell'amore anche lei, figlia di quello stesso uomo che era stato capace di
adorarla e di odiarla, d'innalzarla e di calpestarla, di dedicarle la vita e di umiliarla, quasi avesse avuto a che
fare non con una signora ma con qualcuna delle sgualdrine che non aveva mai smesso di frequentare.
Avevano cambiato città, e forse la gente non sapeva di loro. O, anche se sapeva, faceva finta di niente: New
Orleans non era Atlanta, la pettegola, provinciale, bigotta Atlanta, e poi si sarebbero sposati, occorreva solo
avere un pochino di pazienza, aspettare che gli affari si mettessero in sesto, e quando mai non lo erano stati,
aspettare che la nuova fabbrica producesse a pieno regime, che le commissioni fioccassero, che i viaggi, quegli
interminabili viaggi in giro per il mondo, quei viaggi misteriosi a proposito dei quali non le raccontava mai
abbastanza, quelle lunghe assenze punteggiate da telegrammi e lettere che sarebbero dovute essere
rassicuranti e non lo erano, avessero finalmente avuto termine. Aspettare, aspettare. Intanto i sorrisi dei vicini
cominciavano, anche a New Orleans, a farsi ironici: era una mantenuta, niente di diverso dalle belle mulatte di
Rampart Street nei loro abiti chiassosi e nei loro gioielli pacchiani, oggetto d'ironia e di commiserazione, e la
piccola Kitty era… Non osava nemmeno pensarle, quella parola volgare: una bastarda. Gliel’avrebbero gridato
dietro tutti, sibilato alle spalle le compagne di scuola, fatto pesare con uno sguardo di pietà ipocrita perfino le
sue istitutrici. Niente era in grado di difenderla da una simile maledizione. E presto avrebbe iniziato con le
domande imbarazzanti, a sei anni era molto più matura e precoce delle sue coetanee.
Eh già, corre, il tempo, veloce come un grosso sasso che rotoli giù per una discesa. Io trentasette, lui più di
cinquanta, sei la bambina... Le carezzò la testa, e lei strillò, quando uno dei suoi corti riccioli scuri rimase
impigliato nel castone dell'anello. Erano ricresciuti ricci e ribelli, dopo che la malattia glieli aveva fatti cadere,
cresciuti in fretta e più belli di prima, grossi, folti e accesi da riflessi rossicci, come il mantello dei cavalli bai. Era
la madre, ma avrebbe potuto affermarlo anche un estraneo: Kitty era proprio una bella bambina anche se la
malattia le aveva lasciato quei riccioli corti da maschietto e occhiaie livide sopra la pelle bianca della faccia. Il
peggio è passato, l'aveva rassicurata il dottor Wharton, ma Rossella faceva fatica a crederlo. La bambina era
troppo pallida e magra, per essere davvero guarita:sguazzava dentro i vestiti, ti guardava con quegli occhi tristi
da vecchietta, aveva perso l'appetito e la vivacità che l'avevano sempre contraddistinta, per diventare abulica e
sonnacchiosa come un vecchio cane. Forse neppure il medico di famiglia ne capiva nulla o forse, peggio, aveva
capito benissimo quale fosse la situazione, e preferiva tacere. E Rossella trasaliva, paventando l'irrimediabile,
ad ogni minimo colpo di tosse, quale che ne fosse la causa. Se anche Kitty, Dio non avesse voluto... Aveva
trentasette anni, e per mettere al mondo la sua ultima creatura s'era quasi ammazzata. Nel caso fosse
accaduto l'irrimediabile, cercare la magra consolazione di un altro figlio sarebbe stato impossibile, i medici le
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avevano parlato con estrema franchezza. Allora il filo che l'univa a Rhett si sarebbe definitivamente spezzato e,
di tutte quelle che credeva certezze, una sola sarebbe rimasta in piedi: era stata una pessima madre, frivola e
distratta, una donna incapace di amare chicchessia, neppure i figli che aveva messo al mondo: Wade e
Annabelle, frutto il primo di un matrimonio per dispetto con un ragazzino e la seconda di un matrimonio
d'interesse con un vecchio, si facevano vivi con lei solo a Natale per inviarle, dai collegi che frequentavano,
brevi e formali messaggi di augurio. Diletta non c'era più, e Kitty... La strinse a sé, forte. Non avrebbe
permesso che le accadesse nulla di male, avrebbe lottato con le unghie e coi denti per... Rifiutò il pensiero di
quell'evenienza, col suo amore disperato di madre capace di ricusare ogni logica. Ma stringendosi contro la
piccola, sentiva le ossa sporgere troppo sotto la vestina da casa, il fremito leggero della pelle e il tepore
maligno di quella febbriciattola maledetta che non voleva saperne d'andarsene. Lotterò, si ripromise, lotterò con
tutte le mie forze, non chiuderò occhio e pregherò tutta la notte, smuoverò anche le montagne, se sarà
necessario. Un paio di giorni prima, Prissy le aveva parlato di un giovane medico, arrivato fresco fresco dal
Nord. "E' bravo, dicono". C'era da credere alle stupide chiacchiere di un serva pettegola? Forse che il vecchio
dottor Wharton, il medico di famiglia, non era bravo abbastanza? "E' bravo, dicono". Già. E viene dal Nord:
sarebbe mai venuta qualcosa di buono, dal Nord? Qualcosa di diverso da ladri, profittatori, soldati blu ubriachi,
con la Reminghton stretta in pugno e un ghigno osceno a storcergli la bocca?
***
- Il dottor Butler, Miz Rossella.
Non voleva credere ai suoi occhi, né le fu facile reprimere la tentazione di prendere a schiaffi la faccia nera e
impudente di Prissy. Dunque, quello sarebbe stato il luminare calato dal Nord per ridare la salute alla piccola
Kitty? Dove non era riuscito un professionista di nome, un gentiluomo come il dottor Wharton, sarebbe riuscito
quel... quell'individuo vestito come un vaccaro texano, che ostentava amuleti pellerossa al collo e ai polsi e
che... Dio mio, ma dove l'aveva pescato, quella stupida di Prissy? In qualche santeria del Vieux Carrè?
- Dottor Butler. Wade Gabriel Butler, per servirvi, Madame.
La voce era bassa e rauca, l'accento quello duro del Nord. Wade, come suo figlio. Non doveva essere molto più
vecchio di lui. Butler, come l'uomo che non aveva mai smesso di considerare, aldilà del fatto che legalmente
non lo fosse, suo marito. Forse era uno dei tanti bastardi che Rhett doveva aver seminato in giro, anche se era
impossibile individuare qualsiasi somiglianza fra i due. Eppoi Butler era un cognome abbastanza comune, si
disse da sé sola, e sapeva che era per consolarsi.
- Harvard, 1878. Sono un dottore vero, madame, non uno stregone.
Wade come suo figlio. Gabriel, come il più bello degli arcangeli. I capelli corti, a ricci serrati, erano del nero più
nero che le fosse mai capitato di vedere. Gli occhi, grandi e nerissimi anch'essi, facevano pensare a quelli di un
giovane cervo. Aveva le guance magre, il mento ben modellato, segnato da una leggera fossetta. La bocca era
forse un tantino troppo larga, la punta del naso appena schiacciata, ma era inevitabile, in lui, che tali fossero.
Doveva essere stato un bambino bellissimo, non c'era da stupirsi che sua madre l'avesse battezzato col nome di
un angelo.
- La paziente? Miss Prissy mi ha parlato di una bambina.
"Miss Prissy... Una stupida negra. Miss Prissy, ma guarda un po’... e un medico color del cacao. Che razza di
mondo mi tocca vedere... "pensava Rossella, evitando di guardarlo in faccia. Gliel'avrebbe pagata, e cara,
quella stupida. Miss Prissy, ma guarda un po'.
- Ha avuto il tifo, questa bambina?
Mentre parlava, i denti gli balenavano, candidi fra il roseo livido e screpolato delle labbra spesse, grandi, ferini
quasi, in singolare contrasto con la dolcezza dello sguardo.
- I capelli, già. . Una signorina della sua età dovrebbe portarli lunghi. Ricresceranno, comunque, e più belli di
prima. Quanti anni ha, questa bambina? Otto?
- Sei e mezzo. E'... altina, per la sua età.
Avrebbe voluto gridare a Prissy di farsi gli affari suoi, di non immischiarsi in faccende che non li riguardavano,
lei e quel ciarlatano nero, ma una rabbia impotente le teneva dentro tutto quello che avrebbe voluto urlare.
- E'molto pallida. Miss Prissy mi ha riferito che è stata salassata. Chi è il vostro medico curante, Madame?
- Il dottor Wharton. Un gentiluomo.
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Un sorrisetto fugace illuminò per un istante la bella faccia del Dottor Cornacchia. Aveva un profilo nobile, notò
Rossella. E un corpo magnifico, sotto gli abiti dimessi:gambe lunghe e snelle, spalle poderose.
- Mi sembra di vederlo: un vecchio signore con i capelli grigi, il pizzo, gli occhiali a stringinaso... Rigorosamente
bianco, suppongo. Sarebbe ora che imparaste a guardare aldilà delle apparenze, Mrs O’Hara.
- Io non permetto che...
- I miei consigli sono disinteressati, ci crediate o no. Mi rendo conto che sbandierare una laurea in medicina
conseguita ad Harvard a ventitré anni soltanto, con voi sarebbe tempo e fiato sprecato. Beh, il massimo che ci
si possa aspettare da un negro è che pulisca le scarpe alla stazione … Eppure sarebbe sufficiente il buonsenso di
un lustrascarpe per capire - e abbassò il tono della voce - che quel macellaio non sta facendo niente di buono,
alla vostra bambina: da una nanigo bruja di Congo Square avrebbe ricevuto meno danni.
Che cosa stava insinuando, adesso, quel maledetto negro? Che era una cattiva madre, lei che si era consumata
gli occhi a piangere e le ginocchia a pregare, per la sua bambina che non voleva guarire? Cosa ne sapeva, della
sua pena per le lacrime di Kitty davanti ai piatti di brodo insapore e di riso scondito, davanti ai barattoli di vetro
pieni di quelle orribili sanguisughe, davanti ai bisturi del flebotomo che avrebbero aperto per l'ennesima volta le
sue piccole vene? Quante volte s'era dovuta far forza per rimproverarla, quando pestava i piedi per non lasciarsi
curare, quando voleva andare a giocare in giardino e non poteva, quando si vedeva negare i cibi che le
piacevano e propinare quel solito riso scondito e quel solito brodo insapore?
- Miss Prissy mi ha raccontato tutto quanto, Madame. L'inappetenza della bambina, quel pallore, quella
febbriciattola... Non ha niente di ciò che temete, stenta solo a riprendersi, perché di aria, sole e cibo buono che
ha bisogno, non di assurdi regimi dietetici e men che meno di salassi. Si rimetterà in fretta, allora, e tornerà ad
essere quella di prima. Vi costa tanta fatica crederci? Eppure, a quel Wharton che la stava rovinando avete
creduto.
Rossella dovette morsicarsi la bocca per non rispondergli male:era difficile credere che potesse aver ragione,
uno come lui, uno dal quale al massimo ci si aspetta che lustri gli stivali dei bianchi o svuoti i loro orinatoi o,
tutt'al più, che si occupi di qualche animale malato, cercando di curarlo con amuleti, scongiuri e formule
magiche, non di una bambina come la sua Kitty. Già, era terribilmente difficile ammettere che potesse anche
aver ragione.
- Guardatemi, Madame, e cercate di non vedere un negro, ma un medico capace al quale sta a cuore la salute
dei suoi pazienti e, naturalmente, della vostra bambina. Miss Prissy mi ha portato da voi perché vi vuole bene...
- Prissy è una stupida.
- Avete ragione. E' proprio da stupidi provare amore per chi non merita niente.
Il suo sguardo vellutato, profondo come un pozzo, tagliava come una lama di coltello. La fissò negli occhi,
costringendola ad abbassarli a terra, per la prima volta in vita sua. Proprio una bella faccia di bronzo:nemmeno
Rhett l'aveva mai umiliata così.
- Non ho più niente da dirvi... Dottore. Andatevene.
Lui si allontanò, le spalle dritte, la testa alta, la figura elegante da danzatore. Era alto quasi come Rhett,
pensava Rossella, e aveva spalle ancora più larghe e fianchi ancora più magri.
- Cercate di farle prendere qualche cucchiaio d' olio di fegato di merluzzo:ha un sapore terribile, ma è un ottimo
ricostituente. E... - si voltò, allungò una mano e le afferrò il mento con le dita, costringendola ad alzare la testa,
a guardarlo dentro quei suoi occhi neri come il fondo di un pozzo. - Avete le pupille più piccole della punta di un
ago, Madame:smettetela di prendere laudano. Vi fa male. Il laudano non è un succedaneo della felicità.
"Succedaneo... Che vorrà dire? Ne conosceva parecchie, di parole, quello strano nero. Aveva imparato a leggere
e a scrivere, era entrato ad Harvard e ne era uscito medico, a ventitré anni solamente, a dispetto della sua
condizione, a dispetto del suo colore, a dispetto di come il mondo doveva andare. Chissà chi era. Il sangue
scuro delle sue origini si era imbastardito al contatto con quello bianco; del resto, ormai da parecchi anni, era
diventato quasi impossibile incontrare un negro puro, un africano autentico. "Succedaneo... "Beh, forse
significava sostituto. Ma come aveva fatto ad accorgersi che, aveva perso il conto dei giorni, senza laudano non
riusciva più ad addormentarsi? Forse quei suoi occhioni da cerbiatto, quelle iridi nere nelle quali era impossibile
distinguere il foro della pupilla, potevano leggere dentro. Non aveva mai creduto, anche se ne favoleggiavano in
tanti, che la conoscenza del soprannaturale, nei neri, potesse essere qualcosa di connaturato alla loro stessa
essenza, non aveva mai creduto alle loro stupide superstizioni, eppure... Ma si poteva parlare di superstizione,
di soprannaturale, di lettura del pensiero, nei riguardi del dottor Butler? Di un medico laureato ad Harvard, non
uno stregone, malgrado quella pelle, quell'abbigliamento da mandriano, quegli amuleti indiani che portava al
collo e ai polsi? Lo sguardo le scivolò sulle sue mani: erano bellissime. Si trovò a desiderare le loro carezze, per
poi vergognarsi dei suoi pensieri segreti. Quell'uomo era un nero, la colpa della rovina del suo mondo ricadeva
anche su di lui, era anche per causa sua se si era scatenata una guerra che le aveva sconvolto la vita, che
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l'aveva fatta piangere per la disperazione e la paura, che le aveva fatto provare cosa significhi miseria, cosa
significhi fame e quanto sia brutta la morte. E poi, se si era laureto quattro anni prima, a ventitré anni, adesso
doveva averne ventisette, dieci in meno di lei. Anche se non fosse stato nero, quello che le passava per la testa
era peggio che indecente, doveva dimenticare perfino d'averlo pensato.
- Accompagnalo, Prissy.
- Non datevi disturbo, Madame, posso fare da solo. La porta di servizio sta da quella parte?
Un sorriso ironico gli aveva scoperto quei suoi poderosi denti da animale, bianchissimi tra le labbra livide. Che
cosa avrebbe provato, a baciarlo, si domandava Rossella. Il suo cuore batteva talmente forte... Che cosa le
stava succedendo, era forse impazzita?
- Il vostro fazzoletto, Madame.
Nel chinarsi a raccogliere il fazzoletto caduto, la camicia gli si era scostata dal petto, scoprendo una piccola
striscia di pelle bruna, levigata:come sarebbe stato, senza vestiti addosso? Bello come una statua di bronzo,
pensò la donna, le guance in fiamme che lui sicuramente aveva notato, compiacendosene per giunta, animale
di un negro.
- Avete un buon profumo. - le disse annusando il fazzoletto e guardandola come se volesse sedurla, la grande
bocca carnosa socchiusa, le palpebre frangiate da ciglia incredibilmente lunghe abbassate a metà sul candore
delle cornee, sul nero assoluto delle iridi.
- Andatevene.
Lo fissò negli occhi, la testa alta, le labbra serrate, lo sguardo duro. Che cosa ci faceva ancora lì? Possibile che
non avesse capito che quello non era il suo posto? Possibile che non si rendesse conto che quella del Sud era
una realtà diversa e che non sarebbe bastata una laurea a cambiargli il colore della pelle?
***
Rossella si accasciò sulla poltrona, la testa pesante della spossatezza consueta. Se n'era appena andato alla
malora, il Dottor Cornacchia, accompagnato alla porta da Prissy. Era stata generosa con l'onorario, era giusto
pagargli il tempo perso e non fornirgli il pretesto per chiamarla spilorcia, lei, una gentildonna del Sud.
Ma esisteva ancora, si domandò, afferrando la boccetta del laudano, il Sud delle grandi dimore e dei viali
alberati, delle scampagnate e delle feste da ballo, dell'ospitalità della cortesia e dell'onore, delle belle dagli occhi
languidi e degli audaci cavalieri, della luna grande come una lanterna che inargentava i campi e il muschio delle
querce, quel mondo di cui sentiva una nostalgia feroce e che la guerra aveva distrutto? Un mondo perfetto,
all'interno del quale ognuno recitava il suo ruolo e perfino gli schiavi avevano accettato la loro parte? Lui, forse,
le avrebbe detto di schiene scorticate dalla frusta, di famiglie divise, di uomini marchiati a fuoco come bestiame
da macello. Favole, invenzioni di comodo, fantasie di gentaglia come quell'odiosa Mrs Stowe con i suoi
romanzacci che lassù al Nord qualcuno aveva perfino scambiato per la realtà. A casa sua, lei non aveva mai
visto niente di tutto questo, solo facce serene, espressioni sorridenti. Una come la sua vecchia Mammy non
avrebbe saputo che farsene, della libertà.
Versò il laudano nel cucchiaino d'argento, lo ingoiò . Aveva un sapore terribile, ma l'avrebbe aiutata a star
meglio. "Vi fa male"le aveva detto lui. Che poteva saperne, dei suoi problemi e delle sue esigenze, quello
stregone di Congo Square, con i polsi fasciati da amuleti barbarici e la lana crespa sulla testa, al quale soltanto
la dabbenaggine di quelli del Nord aveva potuto permettere di studiare? Fosse vissuto al Sud, sarebbe rimasto
al suo posto e per lui sarebbe stato sicuramente meglio. Un nero intelligente e istruito è sempre un guaio, per
se stesso e per gli altri. Quante volte lo aveva sentito ripetere da suo padre, da Rhett, dagli amici di famiglia,
da tutti quanti?
Il Sud che aveva nel cuore era morto, pensò, probabilmente non era mai neppure esistito nella realtà, quel
mondo ovattato e artificiale in cui era cresciuta, fatto di grandi dimore neoclassiche, di lune d'argento e feste da
ballo. Gli intrepidi cavalieri erano in realtà fiacchi damerini infrolliti da quattro generazioni di matrimoni fra
consanguinei, le belle dagli occhi languidi insipide pupattole allevate in collegio, destinate a matrimoni precoci e
a esistenze tediose. Dolci reginette del loro mondo fatto d'ozio, di noia e dei figli che questi generano, i vizi.
Tutte belle e profumate fuori, ma fradice dentro, tanto marce da andare perfino con i loro schiavi. Le era
capitato d'origliare discorsi sussurrati a mezza bocca, storie alle quali aveva sempre rifiutato di credere, troppo
squallide per essere vere:non riusciva proprio ad immaginarsela, una gentildonna, una come lei, impastata
d'orgoglio dalla testa ai piedi, allevata nel culto per il lusso e per le cose belle, con qualcuno dei braccianti di
suo padre, esseri che era difficile credere uomini, neri come il carbone, puzzolenti come capre e brutti come
diavoli dell'inferno. Sarebbe bastato solo il pensiero a farla vergognare di se stessa, ma pensieri del genere non
le erano mai passati neppure per l'anticamera del cervello.
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E Wade, allora? La sua pelle aveva la tonalità calda di un biscotto appena sfornato e i lineamenti della sua
faccia non davano certo l'impressione di essere stati sgrossati con l'accetta da un ragazzino maldestro in vena
di giocare allo scultore, non tanfava di sudore rancido ed era impastato d'orgoglio, esattamente come lei.
L'orgoglio. Il solo pensare a quell'uomo come lo stava pensando era dimenticare d'averne. Per una come lei
doveva riuscire inammissibile perfino riconoscere che quell'individuo era un bravo medico e che aveva salvato
sua figlia, altro che sorprendersi a pensarlo in quel modo, a chiamarlo dentro di sé per nome, lo stesso nome di
suo figlio (non doveva essere molto più vecchio di lui), a richiamare il ricordo dei suoi occhi bui quanto la notte,
del bronzo fuso della pelle, delle spalle poderose sotto la giacca di camoscio, delle mani, di quelle bellissime
mani dalle dita affusolate e dalle unghie bianche.
Quanto tempo era passato? Dieci giorni, non di più;. Kitty era rifiorita, divorava i pasti col sano appetito di un
lupacchiotto e le sue guance avevano ripreso colore. Non tossiva più e quella maledetta febbriciattola se n'era
andata. Per sempre. Di lì a qualche mese, i capelli le sarebbero ricresciuti, bruni e ricci, e sarebbe stato bello
acconciarglieli con nastri di raso. Ecco, Wade era un estraneo, uno sconosciuto capitato per caso nella sua vita
ma aveva il merito di averle restituito un tesoro rubato che aveva quasi perduto la speranza di ritrovare. Il suo
dovere l’aveva fatto, e che scomparisse, adesso, lasciandole solo il ricordo di un sogno angoscioso, di quelli che
fanno svegliare nel cuore della notte col cuore in gola ma che si dimenticano in fretta. Rhett, ne era sicura,
stava per tornare. E questa volta sarebbe stato per sempre.
***
- La bambina sta bene... Adesso?
Rossella dubitava che non avesse più avuto modo di saperne. Da Prissy, per esempio, quella pettegola
impicciona. Chissà perché era tornato, tutto nero dalla testa ai piedi. E bello, bello da spaccare il cuore.
- Benissimo. Mangia con appetito, gioca, non ha più la febbre e neppure quella brutta tosse. Non so davvero
come ringraziarvi, dottor… Butler. Sapete, sentendola tossire in quel modo ho temuto che...
- Potesse ammalarsi di tisi? E’ il terrore di tutte le mamme, quando sentono tossire i loro bambini. Certo, la tisi
colpisce di preferenza gli organismi già debilitati per altre cause e la piccola era debole... Ma ho visto che si
ripresa perfettamente, deve avere una fibra d'acciaio.
"Vi somiglia poco. Probabilmente ha preso da suo padre". L'aveva pensato sicuramente, era quel che pensavano
tutti. Da lei, Kitty aveva preso solo i capelli scuri, del resto era bruno anche Rhett. Le guance piene e colorite,
l’ossatura robusta le erano venute da lui.
Il padre dev’essere un pezzo d’uomo, magari uno di quei mezzi irlandesi, sicuramente lo aveva pensato, il
dottor Butler, lo aveva pensato davvero. La madre, invece, era tutta diversa. Di una bellezza fragile, fanée
come direbbe un francese, eufemismo gentile per non definirla sciupata. Aveva una piccola testa altera dal
profilo leggermente aquilino, la pelle bianchissima in contrasto con la massa bruna dei capelli, acconciati in una
morbida onda che le ombreggiava la fronte. Gli occhi, grandi e molto distanziati fra di loro, le conferivano
un'espressione malinconica e un po' corrucciata:erano verdi, spruzzati di pagliuzze d'oro e leggermente strabici.
Le labbra, piccole e sottili ma disegnate con finezza, si aprivano su dentini candidi e minuti, diversi da quelli
forti della gente di colore, indubbiamente meno belli. Di statura media e di complessione delicata, ostentava un
vitino incredibilmente esile, frutto dell'abitudine a quegli infernali marchingegni ai quali nessuna dama del bel
mondo avrebbe rinunciato, pur sapendo quanto nuocessero alla salute. Ma ci tenevano poi più di tanto, alla loro
salute, le dame del bel mondo? Anzi, sembravano ostentare le loro complessioni gracili, il loro pallore anemico,
i loro dentini decalcificati come patenti irrinunciabili della loro nobiltà di sangue. Le contadine sono sane e forti,
non le signore. Le contadine e le negre.
Wade ripensò a sua madre. A quarant’ anni, era ancora bella come una ragazza, e non c'era niente di fragile e
delicato in lei: spalle grandi, lineamenti forti, corpo flessuoso, la bellezza senza fronzoli e senza orpelli della sua
razza; nata schiava in una piantagione della Virginia, prostituta in un bordello di lusso dall'età di tredici anni,
madre a sedici e Dio solo sapeva chi l'avesse ingravidata, fuggita al Nord a venti prima che le vendessero il
figlio... Poteva dire d'averla vissuta altrettanto intensamente, la sua vita, quell'altra? Forse l'unica sua
preoccupazione, da adolescente, era stata quella d'accalappiare un marito purchessia, si fosse trattato d'un
vecchiaccio impotente non importava, purché fosse ricco e disposto a mantenerla nel lusso, a farla vivere
servita e riverita in una bella casa, a comprarle gioielli e abiti di sartoria. Le voglie le avrebbe represse, come
reprimeva abitualmente il desiderio di una passeggiata senza cappello e senza ombrellino, per paura che il sole
le facesse fiorire di lentiggini la pelle della faccia. O le avrebbe soddisfatte di nascosto, con un ospite di
passaggio, un cugino povero che scriveva poesie o magari con un uomo di colore, un mulatto bello come lui da
disprezzare in pubblico e da desiderare fino allo spasimo in privato. Quella donna non ne sapeva un bel niente,
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della vita. E forse era proprio la consapevolezza della sua nullità ad averla indotta a decidere d’ avvelenarsi
lentamente con quel maledetto laudano.
- Perché siete tornato, dottore? I pettegolezzi di quella Prissy sul nostro conto non sono stati esaurienti? O non
vi ho pagato abbastanza?
Sembrava seccata d'averlo ancora in mezzo ai piedi, quel negro che non era stato capace di restarsene al suo
posto, a lustrare sputacchiere d'ottone dicendo “sì padrone, sissignore... " e condendo il tutto con quel sorriso
melenso che tanto piace ai bianchi perché è il segno manifesto della debolezza di cervello che
contraddistinguerebbe i negri, la stigmata incancellabile del loro destino di servi. Invece il sorriso del dottor
Wade Gabriel Butler balenava candido e sornione tra le labbra sensuali. Chissà se ci aveva mai tentato, con una
donna bianca, si ritrovò a pensare Rossella. Chissà se ci tenterebbe… con me.
- Deontologia professionale, Madame. Un codice di leggi non scritte che qualsiasi bravo medico, di qualsivoglia
colore è tenuto a osservare. Niente e nessuno mi garantiva che la vostra cameriera dicesse la verità :forse la
bambina era finita di nuovo nelle grinfie di quel dottor Wharton, so benissimo che è più facile fidarsi d'un
macellaio che d'un negro, da queste parti. Vi ringrazio di non averlo fatto, Madame. E scusatemi se ho dubitato
di voi.
Le iridi nere come il carbone scintillavano tra le palpebre abbassate. Rossella notò un piccolo neo proprio sotto
l’occhio sinistro di Wade, poi osservò l’arco ampio delle sopracciglia, il profilo regolare, l’angolo volitivo e
delicato della mascella, la grande bocca prepotente che, quando rideva, gli scopriva fino ai molari tutti quanti i
suoi denti bianchissimi. E si ritrovò costretta ad ammettere di non aver mai incontrato, nel corso della sua vita,
un uomo bello come quel mulatto pieno d’arroganza, infettato dal veleno del Nord al punto da non riuscire a
ficcarsi in testa che una guerra perduta com’era stata perduta, a New Orleans non bastava a renderlo uguale
agli altri e che, laureato o analfabeta che fosse, era sempre soltanto un negro.
- Eppoi… Ero preoccupato per voi, Madame. Per quel maledetto laudano che prendete. E’ una droga,
esattamente come l’oppio. Avete mai visto una fumeria? Credo di no. Beh, provate ad immaginate l’inferno, se
ci credete, o qualcosa di molto simile. L’oppio riduce peggio dell’alcol e impiega meno tempo a trasformare un
essere umano in un rottame. Voi siete ricca, avete un tesoro di bambina, siete giovane… e siete bella. Non
esiste al mondo una ragione che giustifichi il desiderio di distruggersi, specialmente quando si ha tutto. I miei
ventisette anni non sono tanti, ma ne ho già viste di tutti i colori; eppure sono convinto che le difficoltà vadano
prese a calci in faccia, non annegate nell’alcol, nell’oppio o in qualche altra porcheria. Qual è il vostro problema,
Madame? L’insonnia? Una tazza di latte caldo, la camomilla e la valeriana sono ottimi rimedi e non fanno male
alla salute. Perfino un libro noioso potrebbe tornarvi utile. Conosco molti titoli, potrei suggerirvene qualcuno.
La camomilla. Boh, aveva un sapore orribile. E la valeriana doveva essere qualche altro intruglio del genere. Il
latte non lo aveva mai digerito e in quanto ai libri noiosi… Un tipo davvero curioso, il buon Dottor Cornacchia. A
meno che i rimedi contro l’insonnia che aveva in testa in quel momento non fossero altri. Non sono come
dannati animali sempre in fregola, i neri, pronti a saltare addosso alla prima cosa che vedono muoversi, e se si
tratta di una signora bianca tanto meglio? La mano di lui s’era posata, asciutta e forte, sopra la sua, e la
stringeva con delicatezza. Rossella avrebbe voluto urlare, sbatterlo a male parole fuori da casa sua, ma aveva
ragione, anche se era dura da mandare giù. Ed era terribilmente bello, il che poteva essere anche peggio.
- Chi vi autorizza a credere che io…
- L’anomalo restringimento delle vostre pupille, Madame: dimenticate che non potete nasconderlo, con quegli
occhi così chiari, men che meno a un medico. Io lo sono, anche se può riuscirvi difficile accettarlo. Quando vi
deciderete a gettare quella porcheria giù dal lavandino, il favore lo farete a voi stessa e non a me.
- Andatevene.
- La verità può fare parecchio male, ma spesso è un male necessario, come cavare un dente guasto o amputare
un arto incancrenito. Se la pietà, la creanza, l’ipocrisia o non saprei che diavolo d’altro mi trattenessero dal dirvi
quello che devo, vi farei un grave torto, Madame: vostra figlia non ha bisogno di una madre pazza, men che
meno di una madre morta. Mi sono stancato di ripetervelo, neanche foste una bambina viziata. Se solo mi
faceste il favore di dimenticare che chi vi sta davanti è un negro e invece pensaste che è un medico, un medico
capace, scusate l’immodestia, se dimenticaste un attimo soltanto quello che siete, se dimenticaste le idee con
cui gente che ha la segatura al posto del cervello vi ha riempito la testa dacché state al mondo… Dio, che cose
terribili riuscite a farmi dire. O forse sto solo perdendo tempo: non ci capiremo mai, voi ed io, alla faccia della
guerra, delle leggi e di tutto quanto. Ma… Siete convinta che sia un bene? Sapete, ho dissezionato parecchi
cadaveri, quando ero studente. Le prime volte fa schifo, poi ci si abitua, come a tante altre cose. Beh, posso
garantirvi che, sotto la pelle, siamo tutti perfettamente identici: il grasso è giallo sporco, i muscoli dello stesso
colore dei quarti di bue che si possono vedere appesi in qualsiasi macelleria, gli intestini grigi, i vasi sanguigni
bluastri, le ossa bianche e il sangue vivo di un bel rosso ciliegia. Gli occhi, lo specchio dell’anima, chiari come i
vostri o neri come i miei, sono due bocce gelatinose piene di liquido come acini d’uva; il cervello di un genio e
quello di un idiota non differiscono l’uno dall’altro, sono entrambe una massa disgustosa di materia flaccida e
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grigiastra, impregnata di sangue come una vecchia spugna. In quanto al cuore, poi, fate conto di vedere un
grosso grumo di carne scura e coriacea, pieno di cavità invece che di sentimenti e figuratevi che quasi non c’è
differenza tra quello di un essere umano e quello di un maiale. Non siamo proprio niente belli se ci guardiamo
dentro, Madame, e sarebbe il caso che ce ne ricordassimo, qualche volta. Scusate, dovevo dirvelo: forse sono
stato brutale, ma ne andava della vostra felicità, della vostra salute… forse perfino della vostra vita. Quel vostro
dottor Wharton non vi ha detto niente? O è stato proprio lui a prescrivervi il laudano per farvi dormire? Beh,
buttate il laudano di quel criminale giù dallo scarico del lavandino e, dopo esservi bevuta una bella tazza di latte
caldo, leggetevi un paio di pagine del “Capitale”. Dovreste addormentarvi come un angelo e, anche qualora la
cosa non dovesse riuscirvi, potreste trovarlo una lettura interessante: mi è stato detto che vostro… marito è
azionista di maggioranza di una delle più grosse fabbriche di armi del Paese.
Fu l’orgoglio, quello soltanto, a impedirle di scoppiare a piangere come una stupida in faccia a quell’uomo
insolente.
- Andatevene- gli sibilò come una vipera, i pugni serrati, i lineamenti del viso irrigiditi dalla collera, gli occhi
verdi stretti come due fessure.
- …E cercate di non farvi più vedere, sporco negro, altrimenti…
Le sorrideva, mentre si calcava sulla testa il cappellaccio nero a larghe tese, con quella faccia d’angelo
ombreggiata da un filo di barba, un turchese d’argento che gli luccicava appena sotto la gola. Wade Gabriel
Butler. Forse non aveva sbagliato, era davvero uno dei molti bastardi che Rhett doveva aver seminato in giro.
***
Ho buttato il laudano giù dallo scarico del lavandino. Vi aspetto.
Rossella O’Hara
Il sorriso del dottor Butler doveva indubbiamente costituire, per la donna, una delle prove inconfutabili
dell’esistenza di Dio, ma era troppo ordinaria, troppo timorata e, quel che è peggio, troppo vecchia per un uomo
del genere. Vecchia? La padrona lo era più di lei e stava giocando a un gioco rischioso: avrebbe voluto
dirglielo, cercare di metterla in guardia per il suo stesso bene, ma era cresciuta nella convinzione che non si
potesse proibire a un bianco di far quel che si era intestardito di fare, neanche dopo che la guerra si era portata
via i vecchi tempi ma non i vecchi pregiudizi.
- Riferitele che mi vedrà presto.
Se il gioco fosse andato avanti, avrebbe finito col diventare pericoloso anche per lui. Soprattutto per lui. Ma
quell’uomo aveva tutta l’aria di non aver paura di niente. L’affitto delle tre stanze che occupava, lo pagava a
Mexcal, il più temuto stregone vudù del Vieux Carré; né meno terrificante appariva agli occhi di Prissy la
creatura che il dottor Butler tratteneva per il collare: un cane nero, gigantesco, tutto zanne acuminate e occhi
rossi, che la guardava truce e ringhiava sordo.
- Con chi non è animato da cattive intenzioni è un agnello: buono, Bear…
Difficile crederlo. Era bello anche più del solito, col sole che gli illuminava la faccia, le brache di pelle aderenti
alle gambe slanciate, il collo della camicia aperto sugli amuleti indiani, lo sguardo che gli sorrideva.
L’arredamento della sua stanza era semplice, perfino sommario. Un paio di quadri appesi al muro scabro, un
tendaggio a fiorami scoloriti che nascondeva un letto, alcune vecchie sedie, un armadio a muro, un tavolo con
sopra un vaso di fiori: camelie bianche.
***
- Accomodatevi dove meglio credete, dottor Butler.
Lo aveva accolto con il sorriso dei bei giorni, la dama bianca graziosa, serena e distesa come non l’aveva mai
vista. E molto ben disposta nei suoi riguardi.
- Credevo di avervi offesa. E che non avreste più voluto che mi presentassi davanti a voi nemmeno per tutto
l’oro del mondo.
- In effetti, lì per lì vi ho odiato, dottore. Ma poi ho riflettuto su quel che avete detto: anch’io ero abituata a
prenderle a calci in faccia, le difficoltà della vita…
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Un grazioso sorriso le aveva sollevato gli angoli delle labbra, disegnato due leggere fossette sulle guance. Quali
difficoltà aveva dovuto prendere a calci in faccia, una donna come quella che sicuramente dalla vita aveva già
ottenuto tutto quanto? L’amore non ricambiato per un uomo? Guardare, impotente, il suo mondo fatto di
sopraffattori e di sopraffatti andare in pezzi senza poter fare nulla per impedirlo? Dover tollerare che un negro
le impartisse lezioni di vita? E adesso, poi, perché aveva deciso, inaspettatamente, di riceverlo? Solo perché,
utilizzando più buonsenso che medicine, aveva restituito a Kitty il bene della salute? O perché l’aveva convinta
a gettare dallo scarico il laudano con cui si stava lentamente avvelenando? O semplicemente per sbattergli sul
muso tutte le insolenze che non aveva fatto in tempo a sciorinargli l’altra volta? Eppure, sembrava gentile. Lo
sarebbe stata altrettanto, si domandava Wade, se lui fosse stato vecchio e brutto, o forse…Capace che la
cortesia di quella donnicciola ricca e viziata fosse motivata da secondi fini sordidi, da curiosità malsane che
aveva sempre provato, da voglie che aveva deciso di togliersi e lui era quello giusto, con la sua pelle chiara, i
suoi lineamenti regolari, il suo corpo perfetto che non smentiva, nemmeno in quel certo dettaglio anatomico che
balenava attraverso i calzoni di pelle, le dicerie messe in giro i bianchi a proposito dei neri?
- Mi piace conoscere persone interessanti e sapere tutto quanto sul loro conto, dottore.
- Mi considerate…interessante?
- Un medico nero laureato ad Harvard, giovane bello e bravo non può non esserlo.
La piccola mano bianca gli si era posata sull’avambraccio, facendogli correre un brivido per la schiena; e gli
occhi verdi, freddi e distanti come quelli di un uccello da preda, avevano cercato i suoi per conficcarvisi dentro
come chiodi.
- La mia serva mi ha detto che vivete a Congo Square.
- Sto bene in mezzo ai miei simili. E poi mi sono trasferito in questa città per curare la gente che sta male, non
per sfidare i pregiudizi dei bianchi.
- E che pagate l’affitto a Mexcal lo stregone.
- E’ un buon diavolo, in fondo. Non credo che possa fulminare con lo sguardo, fare innamorare chi non ama o
rubarti l’anima: ma conosce il potere di guarigione delle erbe e questo può tornare utile anche a un medico.
- Ha anche detto che tenete in casa un grosso cane feroce.
- Amo gli animali. Eppoi Bear non è affatto feroce.
- E ha notato delle camelie bianche in un vaso…
- Per me sono semplicemente fiori e nient’altro. Del resto, il mio colore non dovrebbe dare adito a nessun
equivoco.
In Louisiana, i membri del Klan avevano scelto quel fiore candido e innocente come simbolo, chissà perché. E
solo e nient’altro che quello doveva essere, per uno come Wade.
- Odio la loro vigliaccheria. Chi ha qualcosa contro di me, deve dirmela guardandomi in faccia, senza
nascondersi dietro cappucci, lenzuoli e mascherate ridicole. Vengo dal Nord, non sono stato capace di
restarmene al mio posto, parlo bene, ho preteso di studiare invece di fare il facchino o il lustrascarpe, non ho
peli sulla lingua, mi porto appresso con orgoglio e senza falsa modestia un bel cervello e una faccia che le
donne guardano volentieri…Potrei essere un bersaglio con tutte le carte in regola, non trovate? E invece di
nascondermi, me ne sto a fare conversazione con una dama di qualità come voi. Basterebbero le chiacchiere di
una serva, un’osservazione innocente della vostra bambina, e potrei ritrovarmi in un mare di guai.
Rossella si morse le labbra, ricordando un passato che sembrava lontano secoli. Frank, il suo secondo marito, il
buon vecchio Frank Kennedy che l’aveva salvata da un’umiliante indigenza quando aveva accettato di sposarlo
fingendo d’ignorare che aveva il doppio del suoi anni e il fiato che gli puzzava, era rimasto ucciso proprio nel
corso di una spedizione punitiva organizzata dal Klan per mettere a posto qualche negro che s’era azzardato a
tralignare, contando sulla presunzione che i tempi fossero cambiati. Anche Rhett gli aveva dato manforte, e altri
con lui.
- State attento.
Le stesse parole che aveva detto a Frank, quella sera di tanti anni fa. Ma Frank era un vecchio, mentre Wade
era giovane e spavaldo. Era un buon tiratore, le aveva detto, e se la cavava bene anche semplicemente
menando le mani.
- So badare a me stesso. Se dovesse capitare, i Lenzuoli ne uscirebbero malconci.
Non aveva sprecato troppe delle sue lacrime, sul povero Frank, e aveva avuto modo di consolarsi in fretta.
Tutto si sarebbe risolto nell’oblio, non fosse stato per quella figlia, Annabelle, tozza, brutta e musona quanto lei
era vivace e graziosa. Una figlia che malediva la sorte per averle negato i doni che aveva invece elargito a piene
mani a sua madre e che aveva scelto di vivere con gli zii paterni. Erano anni che non la vedeva: doveva averne
sedici, ormai, era una ragazza da marito. O, più probabilmente, un’infelice destinata a restare zitella.
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- In ogni caso, da me non avete niente da temere, dottore. Io vi devo molto. La mia servitù sa essere discreta.
In quanto alla bambina, a quest’ora si reca da Mademoiselle Berthaud per le lezioni… Ho sempre fatto quello
che ho voluto, ricevuto chi mi andava e intrattenuto chi desideravo, senza renderne conto a nessuno.
E lui aveva annuito abbassando le palpebre. Non l’aveva mai messo in dubbio, anche se quella non era una
donna del Nord, una come Miss Simpson che gli aveva tolto la verginità e insegnato quel che un uomo deve
sapere, quando lui aveva sedici anni e lei più del doppio. A Miss Simpson non era mai importato un accidente
del colore della sua pelle anzi, sicuramente trovava eccitante l’idea di farsela con quel ragazzo nero che
mandava a comprarle l’inchiostro, era bello come un dio e poteva esserle figlio. Aveva i capelli tinti e due
grosse tette, Miss Simpson. Non dipendeva da nessuno, si manteneva insegnando calligrafia alla scuola di Belle
Arti e faceva tutto quello che voleva, senza renderne conto a chicchessia. “C’era proprio bisogno di una guerra,
gli diceva sempre, per stabilire che anche tu sei un uomo, Wade, angelo mio? Perché tu sei mille volte più
uomo di chiunque abbia mai conosciuto…”
- Quel quadro, Madame. E’ un Mc Rae.
- Credevo aveste intuito che ho abbastanza denaro da potermi permettere un McRae originale.
- Non è quello che volevo dire, Madame.
- Ve ne intendete anche di arte, a quanto vedo.
- Più di quanto sia lecito aspettarsi da un negro, anche da un tipo strano come me. Forse non distinguo il
tabacco dal cotone, ma mi piace dipingere e disegnare, quando il tempo me lo permette. Da ragazzo ho avuto
buoni maestri: tutti dicevano che avevo abbastanza talento da farmi un nome, ma io volevo aiutare gli altri e
così ho scelto di diventare medico. Un medico che dipinge, appena può. Beh, forse se avessi scelto di fare il
pittore e basta sarebbe stato tutto più facile. “Il mondo dell’arte non conosce pregiudizi, nessuno farebbe caso
al tuo colore. Con il tuo talento e con la tua bellezza, potresti avere il mondo ai piedi, Wade…” Ma non me ne
importava un fico secco di avere il mondo ai piedi, anche se era McRae in persona a dirmelo, un giorno sì e un
giorno no.
- Conoscete…Leeland McRae?
- Sono cresciuto in casa sua. Perché, come mai…Ve lo state domandando, lo so. E allora preparatevi ad
ascoltare una storia lunga. E ad arrossire, perché non ho intenzione di nascondervi niente.
- Non sono nata ieri dottor…Butler.
- Butler. Come il vostro attuale…marito. Scommetto che vi siete domandata come mai ogni volta che vi sono
venuto in mente. Eppure non credo di avere molto a che spartire con lui, se non il nome. E questo Paese è
pieno di Butler.
- Potrebbe non essere esattamente come dite. L’avete definito mio marito, e vi ringrazio della vostra creanza.
Siamo stati sposati, una bella manciata di anni fa, poi ci siamo lasciati, quindi ritrovati. Forse ci risposeremo.
Forse. Chissà quando. In quanto a quello che volevate dirmi, avete ragione, l’America è piena di Butler. Ma è
anche vero che il mio uomo non è mai stato uno stinco di santo. Perdonate la mia acredine, io…
- Lo amate ancora, questo spiega tutto quanto. E immagino che, quando mi guardate come mi guardate, è per
vedere se in qualcosa gli rassomiglio, anche se non è facile individuare somiglianze tra un bianco e un uomo di
colore, mi sbaglio?
- No, come al solito. - Sorrise, scoprendo per un attimo i dentini aguzzi tra le labbra pallide. Rhett e Wade
forse fisicamente non si somigliavano proprio, aldilà del fatto che uno fosse nero e l’altro bianco. Ma il primo
aveva la stessa diabolica intuizione del secondo, perfino un pizzico del suo sarcasmo, raddolcito appena dal
miele dell’eredità materna. - In ogni caso, voi siete del Nord.
- Quanto lo siete voi: Richmond, Virginia. Ma mi sono trasferito al Nord che avevo cinque anni.
- Continuate a stuzzicare la mia curiosità e non mi dite niente di voi.
- Forse arrossireste. Io sono abituato a chiamare le cose col loro nome e la mia vita, beh…non è stata un
tappeto di petali di rose, almeno non sempre. Non vorrei offendervi o turbarvi.
- Siete convinto che io abbia vissuto un’esistenza fatata? Ho perso tutto quello che avevo a causa della guerra:
il mio mondo, i miei affetti, le mie fortune, e mi sono dovuta rimboccare le maniche per riprendermi quello che
era mio di diritto. Ho dovuto lottare per difendere me stessa e chi mi era caro. Ho seppellito due mariti, pianto
la morte di una figlia piccola, sopportato, tutta sola, pesi che schiantano. Mi sono trovata sposata senza amore,
ho due figli ormai grandi che non vedo da anni. Il maggiore si chiama Wade, come voi, ha vent’anni ed è
cadetto a West Point. Annabel ha scelto di vivere con i parenti di suo padre. Avevo sposato il padre di Wade per
andarmene da casa, alla vigilia della guerra: era un ragazzetto insignificante, a stento lo conoscevo. E’ stata la
guerra a portarselo via. L’altro…Era vecchio e ricco. Io ero povera.
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Quel Butler, invece, doveva averlo amato davvero. Al punto da piegare il suo orgoglio e rinunciare alla sua
rispettabilità. Chissà se ne era valsa la pena. In ogni caso, niente avrebbe potuto offenderla o turbarla, pensava
Wade.
***
- Mia madre si chiama Lola ed è ancora una bellissima donna. A Richmond, quando sono nato io, ventisette anni
orsono, faceva la puttana. Una schiava non può disporre di se stessa, era per quello che l’avevano comprata,
una bella jaloff di tredici anni e di sangue quasi puro.
Parlava lentamente, con quella sua voce bassa, ipnotica e un po’ roca, con quell’accento duro del Nord, gli occhi
chiusi, le mani strette l’una nell’altra, la testa abbandonata all’indietro contro la spalliera del divano: una ruga
verticale profonda, netta come un taglio, gli spaccava in due la fronte, dalle sopracciglia aggrottate
all’attaccatura dei capelli.
- La schiavitù, suppongo, non è una di quelle cose che vi abbiano mai fatta inorridire, Madame, o mi sbaglio?
Vostro padre trattava bene i suoi neri, non gli faceva mancare il necessario e non ha mai picchiato nessuno. Da
bambina, probabilmente, qualche vecchio schiavo vi ha fatta ballare sulle ginocchia e a casa vostra doveva
senz’altro esserci qualche negra brontolona che si vantava di aver tirato su tre o quattro generazioni di O’Hara
e tutte queste cose vi hanno aiutata a scaricarvi la coscienza…
Rossella osservò la macchia nera dei suoi vestiti, le brache di pelle, la giacca indiana con le frange, le borchie
d’argento, le decorazioni d’ossi di bisonte e aculei di porcospino, i tacchi consumati degli stivali da cavallerizzo.
Che ci faceva un uomo simile nel salotto di casa sua? Perché si lasciava insultare a quel modo, a dispetto di
tutto quanto il suo orgoglio, da un uomo vestito come un vaccaio, da un negro che, prima che il mondo
scoppiasse, avrebbe abbassato lo sguardo incontrandola? Invece era come se Wade fosse davvero in grado di
leggerle dentro e non volesse risparmiarle niente. Era uno scorpione pieno di veleno, un diavolo a cui nulla
sfugge, presente, passato, futuro… A dispetto dei suoi pochi anni e della sua faccia, bella come quella di un
angelo, del suo corpo teso, che rifiutava di abbandonarsi all’abbraccio morbido del sofà, quel corpo magnifico
per il quale la donna provava, malgrado se stessa, una fitta dolorosa di desiderio.
“There is a house in New Orleans…The House of Rising Sun…”
Adesso si era messo a canticchiare una di quelle loro canzoni dalla melodia dissonante, piena di tristezza, una
canzone che, probabilmente, raccontava una storia vera: quella di una prostituta bambina. La voce era quella
rauca e spezzata dei suoi congeneri, una voce che metteva i brividi addosso.
- Mia madre era una di quelle ragazze: puttana a tredici anni, incinta a sedici e non si sa di chi…Una cosa la so
per certa:chiunque fosse, mio padre era sicuramente un bianco, uno di quei ricchi porci che frequentavano il
bordello e sganciavano fior di dollaroni per sbattersi le ragazze e farsi spennare al tavolo verde. La madama,
naturalmente, non l’aveva presa bene. Ci ha tentato con l’elleboro nero, con i decotti di prezzemolo, con i bagni
bollenti…Quando ha visto che io continuavo a starmene saldamente abbarbicato alle viscere di mia madre, si è
rassegnata e ha detto soltanto “Speriamo che sia una femmina”. Già, un’altra prostituta bambina per la Casa
del Sole Nascente, un’altra vergine da mettere all’asta. Invece sono nato io. Per un po’ ci ha lasciati insieme,
poi, quando ha visto che ai clienti non andava d’avere un marmocchio in mezzo ai piedi mentre facevano i loro
porci comodi, si è risolta a vendermi: tra l’altro le avrei fruttato un bel po’ di quattrini perché a quell’età ero
parecchio bellino e promettevo bene, sempre che la cosa interessasse a quel disgustoso pederasta che
sembrava intenzionato a comprarmi: a lui piacevano piccoli, quando cominciavano ad avere nove o dieci anni se
ne disfaceva perché non gli interessavano più…Siete ancora convinta che la schiavitù possa aver avuto un volto
umano, Madame?
La guardava fisso fisso, con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo, e si tormentava nervosamente il labbro
inferiore con le dita.
- Io non mi chiamo Harriett Beecher Stowe, e tutte queste cose non le ho inventate: le ho provate sulla mia
pelle, come altri hanno provato la frusta, il fuoco, le botte, i lividi. Vi avevo avvertita che sarei stato sgradevole,
che avrei anche potuto…ferirvi Madame.
- Continuate. Vi prego.
- Scappare non era facile, se l’avessero riacciuffata sapeva che cosa l’aspettava. Ma mia madre è un diavolo di
donna, non avete idea di quanto sia coraggiosa. E poi abbiamo incontrato parecchia brava gente che ci ha
aiutati. Ancora adesso le capita di svegliarsi di soprassalto, con i latrati dei cani dentro le orecchie, quei cani da
pista addestrati alla caccia al negro, che non mancavano mai in nessuna piantagione.
Anche suo padre ne possedeva una muta, di quei cani: blodhound e coonhound dal fiuto portentoso, capaci
d’inseguire la loro preda da un sorgere del sole all’altro e i terribili catahoula, i cani leopardo dai denti aguzzi
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come pugnali. Sicuramente la madre di Wade aveva tremato più per il bambino che per se stessa, quando
aveva sentito ululare i cani a due passi dal confine, dalla salvezza.
- Arrivati a Philadelphia, tutto è stato molto più facile di quel che mia madre temesse: i tempi erano quelli che
erano, tutti provavano simpatia per noi e volevano aiutarci. Leeland McRae, che già da allora dirigeva la Scuola
di Belle Arti, offrì lavoro a mia madre come donna delle pulizie. Non era molto, ma si poteva tirare avanti
decentemente.
Già: probabilmente la bella Lola aveva arrotondato i suoi guadagni posando nuda per gli studenti
dell’Accademia e senz’altro aveva scaldato, nelle fredde notti del Nord, il letto del Grande Maestro, fresco
vedovo e ancora attraente e vigoroso, malgrado i sessant’anni suonati. E il Maestro aveva finito col prendere in
simpatia il ragazzino, bello come un angelo, intelligente e sveglio, tanto da pagargli gli studi fino al
conseguimento della laurea nel più prestigioso ateneo del Paese. Gli artisti non hanno i pregiudizi dei comuni
mortali, gli unici colori che contano, per loro, sono quelli da schiacciare fuori dai tubetti e così vissero tutti felici
e contenti: come nelle favole.
- Butler è il cognome di vostra madre?
- Il primo che le sia venuto in mente, quando i funzionari dell’Ufficio Immigrazione gliel’hanno chiesto. Butler
era uno dei clienti del casino. Il più attraente e il meno villano di tutti, a sentire mia madre. Le faceva spesso
dei regalini, a volte capitava che le lasciasse delle mance sottobanco. E lei metteva via quei soldi, immaginava
che le sarebbero tornati utili, prima o poi. Credo desiderasse che io fossi davvero figlio di quell’uomo. Può
essere che sì come che no, chissà…
Butler, come Rhett. Viaggiava spesso, niente di strano che si fosse trovato a passare dalle parti di Richmond,
anni prima, e a frequentare il locale dove lavorava la madre di Wade. L’uomo che Lola Butler avrebbe
desiderato fosse il padre di suo figlio, galante perfino con una prostituta di colore, rassomigliava tale e quale a
Rhett.
- Sapete se vostro padre era…bruno, olivastro, con i baffetti?
- Mia madre non me ne ha mai parlato, ma che importanza può avere? So per certo che era un bianco, e
quando un bianco ingravida una negra, il figlio che viene fuori è un po’ più chiaro di sua madre, ma molto più
scuro di suo padre, conta questo. Comunque scommetto che vostro marito è bruno, olivastro e con i baffetti. Vi
avevo avvertita che le mie parole avrebbero potuto ferirvi, Madame.
“No, Wade, anche se la verità può far male, me lo insegni tu stesso. Da queste parti, tutti gli uomini bianchi
hanno bastardi di colore, concepiti con una schiava o con una puttana e le loro legittime consorti hanno finito
col non farci più caso. Io amo Rhett. Ma anche se lo amo questo non significa che lo consideri un santo. ” Solo il
pudore la tratteneva dal dirglielo. Però aveva ragione, al solito, il diavolo nero: Rhett non era diverso dagli altri
uomini, né s’era mai preoccupato di sembrarlo. E lei non era una a cui l’amore chiuda gli occhi e turi le
orecchie, era sempre stata cosciente del fatto che suo marito potesse aver avuto altre donne. Tante, compresa
una sgualdrina nera di Richmond che gli aveva dato, a sua insaputa, un figlio mezzosangue. Era un’ipotesi
perfettamente realistica, sulla quale era del tutto inutile arrovellarsi, arrabbiarsi, piangere…Eppoi
indubbiamente l’unico uomo che Wade in qualche modo doveva aver considerato come un padre era Leeland
McRae, che si era occupato di lui, gli aveva dato consigli, insegnato a scarabocchiare, l’aveva calzato, vestito,
aveva permesso che avesse una casa e che potesse studiare. Rhett Butler: un semplice nome, per lui, né più né
meno. Un nome simile al suo, ma che apparteneva ad una persona del tutto diversa, un bianco con i capelli
bruni e i baffetti sottili, un perfetto sconosciuto, uno di quei ricchi che gli facevano soltanto rabbia. Aveva letto
“Il Capitale”, pensava Rossella. Di che cosa si trattasse con precisione, lei non s’era mai curata di saperlo: un
trattato politico, questo era sicuro, forse il vangelo di quelli che sognavano di mettere il mondo sottosopra in
nome dell’uguaglianza. Di quelli come Wade, che sarebbe potuto diventare un artista e invece aveva scelto di
diventare medico per aiutare i bambini mocciosi degli slums, gli operai che lasciavano le dita sotto le presse
delle fabbriche, gli immigrati che non sapevano una parola d’inglese e si guadagnavano la fame pulendo le
latrine pubbliche, magari perfino gli indiani delle riserve. E chissà per quale misteriosa ragione aveva deciso di
curare la figlia e la mantenuta d’un mercante d’armi. Il bisogno di denaro? Mah, uno che vive in Congo Square
nella casa di uno stregone vudù, che veste e cavalca come un vaccaio texano, che si vanta di saper badare a se
stesso, non può essere un uomo che abbia grandi esigenze:chi doveva mantenere, oltre a se stesso? Il suo
cavallo, le aveva detto Prissy, e un grosso cane nero sempre affamato. Basta.
***
- Le vostre mani, dottor Butler…Sono incredibilmente belle.
Lo avrebbe fatto arrossire, a guardarlo come lo guardava, se fosse stato bianco. Sì, lo avrebbe fatto arrossire,
accarezzandogli leggera, con la punta dei polpastrelli, il dorso della mano.
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- E’ importante che un medico ne abbia cura: sono il suo strumento di lavoro. E che le tenga pulite, soprattutto
questo. Stein, uno dei miei insegnanti ad Harvard, uno che in Europa aveva studiato con il dottor
Semmellweiss, non faceva che ripetercelo.
Stein. Un ebreo, sicuramente doveva essere quello. Solo un ebreo, anche al Nord, non avrebbe recriminato,
ritrovandosi tra i piedi un negro che pretendeva di studiare per diventare dottore. E a lei gli ebrei non erano mai
piaciuti, le sapevano di nasi adunchi, animi gretti e mani sordide. Tutti, anche quel dottore arrivato dall’Europa
che se le lavava continuamente ed esigeva che altrettanto facessero i suoi allievi. Ma era possibile che le mani
di un negro fossero pulite? I negri a lei avevano sempre messo paura, con quei denti grossi, quegli occhi
bianchi nelle facce nere, quei muscoli che sembrava volessero scoppiare sotto i camiciotti di tela, quei capelli
che dovevano essere ruvidi come la lana delle capre. Negri ed ebrei, due facce della stessa medaglia, gli
assassini di Cristo e i reietti della terra. Non aveva mai conosciuto un ebreo, negri sì. E le facevano ancora più
paura, adesso che quella maledetta guerra li aveva resi liberi com’era libera lei, i neri di casa e quelli dei campi,
la stupida Prissy e il dottor Butler, che era bello come un angelo e non abbassava gli occhi incrociando il suo
sguardo. Chissà se era vero che solo pensare alle donne bianche mandava il loro sangue in fiamme. E chissà se
era vero che…Con tutti quelli che le erano passati davanti agli occhi in vita sua, non aveva mai pensato che
anche un uomo di colore potesse essere bello e desiderabile. Come Wade, con i suoi occhi profondi e le labbra
socchiuse, con il suo leggero sentore di cuoio e di colonia che non riusciva a mascherare l’odore eccitante della
sua pelle. La stava osservando senza parlare. Che fosse arrivato a comprendere la sua frustrazione di donna
umiliata, a fiutare il suo desiderio segreto, malato, vergognoso, che non doveva trapelare per niente al mondo?
Ci hai mai provato con un nero, bella signora?
- Mio padre era arrivato a possedere anche quattrocento schiavi: li ho sempre avuti sotto gli occhi, nei campi, in
casa, dappertutto. Eppure…
“Eppure te li sei sempre figurati come ti ha fatto comodo, bella signora: animali creati per la fatica, con la
schiena forte e il cervello debole, pigri, sensuali, creduloni, i cui unici interessi sono ballare, mangiare e fottere
e molto più attrezzati tra le cosce che non dentro la testa. Eppoi ti mettono addosso una terribile paura, perché
non puoi più controllarli com’eri abituata a fare e non li conosci abbastanza: è normale aver paura delle cose
che non si conoscono. ”
Gli aveva detto che la vita non era stata facile con lei e che spesso era stata costretta ad affrontare con
coraggio le difficoltà: stava con un uomo che non era suo marito e dal quale aveva avuto una figlia; se n’era
sempre infischiata di schemi e convenzioni, e se un uomo le piaceva…Se le piaceva, non esitava a farglielo
capire, anche se le uniche cose che sapeva di lui erano il colore della pelle e dieci anni e più di differenza d’età.
Aveva mani morbide e delicate, estremamente piacevoli mentre gli scorrevano dolcemente sulle sopracciglia,
sugli occhi, sugli zigomi alti e ossuti. Deglutì, quando gli sfiorarono le labbra.
- Sei bellissimo, Wade.
- Parecchi uomini di colore lo sono. Non ve n’eravate mai accorta?
“Già, ai bianchi ha sempre fatto comodo lasciarci credere il contrario, strapparci via l’orgoglio di essere come
siamo, insinuare nei nostri cuori l’invidia per gli altri e il disprezzo di noi stessi. E noi ci siamo cascati. Quasi
tutti i sanguemisto come me sono orgogliosi di essere bianchi per metà, per tre quarti, per un decimo soltanto;
chi è nero, invidia i capelli lisci e la pelle chiara di chi è meticcio. Chi è meticcio disprezza i neri e non si rende
conto che i bianchi disprezzano tutti allo stesso modo. Non è vero, Madame? Ai bianchi, il loro mondo non
basta più, e allora… Gli indiani vengono massacrati per costruire la ferrovia. I neri, alla faccia di tutte le leggi,
continuano a restare la solita merda di sempre. In Asia e in Africa non è rimasto un solo francobollo di territorio
che non sia colonia. Che cosa ci abbiamo guadagnato, noialtri? La vostra civiltà, che avete avuto la
condiscendenza d’insegnarci a colpi di frusta? ”
Wade aveva una pelle morbida e sensibile e un notevole autocontrollo. Un altro le sarebbe saltato addosso,
pensava Rossella. Lui si limitò a lasciarsi sfuggire sospiro di piacere quasi impercettibile e a guardarla con
quegli occhi carichi di domande.
“Uh, ti piace, il negro, eccome se ti piace, il negro grosso, puzzolente e sempre in fregola, bella signora… Non te
l’hanno insegnato, che le signore perbene farebbero meglio a girare alla larga da quelli come noi? Ah, Rossella,
piccola mia, se continui a toccarmi in questo modo non so fino a che punto…”
Aveva dita bianche e sottili, Rossella. Dita curiose e impudiche, che gli sbottonavano la camicia e si divertivano
a sfiorargli, leggere, la pelle scura del petto. Che splendidi muscoli hai, Wade… Un bel paio di spalle, il collo
lungo e robusto, la nuca rotonda, coperta di riccioli fitti e ruvidi. E la schiena liscia, lui che le aveva detto di
frusta, fuoco, lividi e bastonate. Non c’erano segni sulla sua pelle, pensava la donna assaporando le labbra
piene di lui, il sapore salato della sua lingua e della sua saliva. Parlava con le parole degli altri, forse con le loro
menzogne. La tua vita è stata meno difficile di quanto non lo sia stata la mia. Che cosa ti hanno dovuto rubare
e ti sei dovuto riprendere, quando eri la scimmietta ammaestrata di Leeland McRae? O quando tua madre, per
farsi mantenere, gli faceva quello che aveva imparato a fare nei bordelli di Richmond?
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Sorrise, sarcastica, continuando ad accarezzargli la nuca, le spalle, il petto, a percepire il calore, la morbidezza,
l’odore della sua pelle liscia e scura. “Velluto di mezzanotte”, dicevano i signori bianchi parlottando tra loro a
proposito delle grazie di qualche sgualdrinella nera. E anche la pelle di Wade, che era figlio della degradazione e
della lussuria e non dell’amore, era come velluto di mezzanotte.
- Tutto questo…è molto meglio del laudano, non è vero, bella signora?
E’ meglio del laudano e non fa male. O fa male, forse. Uno schiaffo era l’ultima cosa che Wade si sarebbe
aspettato, quando anche lui cominciò a giocare con le mani. Finché a dirigere il gioco era stata lei, tutto andava
bene, ma poi il gioco s’era fatto pesante: lei era una signora, lui uno straccione nero, inutile illudersi.
La fissò con quegli occhi bui come il fondo di un pozzo poi, sistemati alla meglio i vestiti, infilata la giacca,
calcato sulla testa il cappellaccio a larghe tese, se n’era andato senza una parola.
***
- Wapiti!
Ricordò di essere uscito dall’acqua in cui aveva cercato refrigerio, in quell’estate torrida di cinque anni prima e
d’essersi domandato, non senza imbarazzo, se lei l’avesse visto nudo. Non doveva avere più di tredici,
quattordici anni, ed era una deliziosa ragazzina coi capelli neri che le arrivavano alle natiche, i denti bianchi
nella faccia cotta dal sole, gli occhi a mandorla dall’espressione pungente. Masticava un po’ d’inglese, appreso
alla scuola della Missione cattolica che aveva frequentato fintantoché era stata in grado di resistere rinchiusa, e
gli stava sempre appiccicata alle costole. Era una mocciosetta di quattro o cinque anni, quando l’Uomo Bianco
Che Fa Vivere La Gente Sulla Carta aveva preso l’abitudine di portarselo appresso quando lasciava la città per
andare da loro: un cucciolo di Uomo Bisonte, che le donne della tribù avevano soprannominato Wapiti, come il
grande cervo della foresta, che aveva i suoi stessi occhi scuri, liquidi e dolci. Poi l’Uomo Bianco s’era fatto
troppo vecchio per cavalcare, e Wapiti tornava da solo a trovare i suoi amici indiani, a schizzare sulla carta i
loro tratti fieri, le loro facce aquiline incorniciate dai lunghi capelli pesanti come coperte di lana, quei loro occhi
tristi che guardavano aldilà delle cose, cercando il ricordo di un passato che niente avrebbe potuto richiamare
indietro.
La ragazzina gli sedeva sempre vicino per guardarlo disegnare, gli sorrideva sempre. “Sei bellissimo, anche se
sei diverso da noialtri”. Gli diceva. Era maliziosa, per la sua età, più delle ragazzette bianche, doveva credersi
già donna. Gli aveva regalato i suoi braccialetti e le sue collane, dicendo che gli avrebbero portato fortuna.
Quella volta, se fosse stato bianco, di sicuro sarebbe arrossito fino alle orecchie, vedendola correre verso di lui.
Non potendo fare altro, s’era rituffato a precipizio dentro l’acqua fredda del laghetto.
- Credi che non abbia mai visto un uomo nudo, Wapiti?
- Agli occhi della mia gente non sta bene che un uomo si mostri nudo davanti a una donna.
- La tua gente. I visi pallidi, come l’Uomo Che Fa Vivere La Gente Sulla Carta o gli uomini bisonte?
Non lo sapeva nemmeno lui, era come se vivesse tra due mondi. La sua pelle scura, fino a quel momento, non
gli aveva precluso niente, ma lui non era così sciocco da non capire che era solo fortuna e non sarebbe stato
per sempre: solo il denaro e il prestigio sociale di Leeland McRae, l’Artista erano stati capaci di scardinare le
mille porte che la vita avrebbe potuto chiudergli in faccia. Il denaro, quello, anche se non era più di un sogno o
di un incubo, per gli immigrati degli slums, per i bambini che lasciavano le dita negli ingranaggi delle macchine,
quando la stanchezza, la fame e il sonno intorpidivano i loro riflessi; o per i piccoli spazzacamini costretti a sei,
sette anni, a guadagnarsi da vivere vincendo a forza di botte l’angoscia del buio, di quei pertugi stretti come
una bara nei quali dovevano calarsi a testa in giù, legati per i piedi. Non erano schiavi anche loro, malgrado la
loro pelle bianca, malgrado il tempo della schiavitù fosse stato cancellato dalla guerra? La Guerra Civile aveva
spezzato le catene di ferro dei neri per forgiarne altre, invisibili ma ugualmente pesanti da portare: una
schiavitù che non guardava in faccia nessuno, bianco, giallo, nero, cittadino americano o immigrato.
- Non ti si vede più spesso come prima, Wapiti.
- Ho parecchio da studiare, se voglio diventare uomo- medicina.
- Un uomo medicina…- il sorriso della ragazzetta s’era fatto scettico- Uno sciamano deve vincere il dolore, se
vuole conquistare la conoscenza. E il suo corpo porta le tracce della sua lotta contro il dolore: non vedo
cicatrici, sul tuo petto e sulla tua schiena.
- Non la conquistiamo in un’altra maniera, la conoscenza, piccola Donna Lupo:senza bisogno di farci del male.
- E’ difficile curare il dolore degli altri se non lo si è provato sulla propria pelle, credo.
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E lo credeva il popolo di Donna Lupo: i guaritori si provocavano ferite, scarificazioni e bruciature, arrivavano a
forarsi i capezzoli e il prepuzio. Forse era vero, non si riesce a curare il dolore degli altri, se non lo si conosce.
Aveva conquistato la conoscenza, quando era tornato; e Donna Lupo non era più la stessa di tre anni prima: un
essere febbricitante, deforme, terrorizzato, che da due giorni e due notti urlava il proprio dolore per quel figlio,
il primo, che non voleva uscire da lei. Un dolore di cui un uomo non avrebbe conosciuto la più pallida parvenza,
neppure se si fosse strappato a brani la carne dalle ossa. Donna Lupo sarebbe morta, se non avesse fatto
qualcosa, e allora Wade aveva preso il suo coltello, ne aveva arroventato la lama sul fuoco e aveva allargato il
canale del parto con un colpo secco. Il bambino era venuto fuori, insieme con un fiotto di sangue e di materia
purulenta. Morto.
Lei se la sarebbe cavata, era giovane e forte, e poi gli sciamani della sua tribù conoscevano le erbe che
debellano la febbre. Ma l’amore non le avrebbe dato più alcun piacere e forse non sarebbe stata in grado di
avere altri figli: i suoi simili l’avrebbero considerata una reietta, probabilmente il suo compagno l’avrebbe
ripudiata: era valsa la pena di salvarla?
- Sei troppo sensibile, ragazzo: vedi di cambiare o per te saranno guai grossi. Un medico deve abituarsi a
convivere con i suoi fallimenti e i suoi errori: non siamo dei padreterni.
Diceva di parlare così perché aveva già avuto l’età di Wade, ma Wade non aveva ancora la sua. Non era diverso
da tutti gli altri neolaureati che gli mandavano come tirocinanti, pieni di ideali eroici che, a contatto con la
realtà, si sgretolavano come legno marcio. Nessun problema economico, un facoltoso tutore che, non avendo
altri parenti, sicuramente gli avrebbe lasciato tutte quante le sue sostanze…Era stato più fortunato di lui il cui
padre, un modesto insegnante, aveva dovuto tenere l’anima coi denti per farlo studiare. Più fortunato di lui che,
a quarantacinque anni suonati, non era ancora riuscito a venir fuori da quel dannato ospedale finanziato da un
filantropo di cui non ricordava neppure il nome, dove si curavano corpi fradici per la sifilide, occhi che
suppuravano, dita tranciate dai macchinari delle fabbriche, i malanni della fame e della miseria. Quando
rientrava a casa più morto che vivo, erano anni che ascoltava la solita solfa:” Sei un fallito, un buono a niente,
non ho più nulla da mettermi addosso che non sia tutto rappezzato, i tuoi figli vanno in giro con le scarpe
scalcagnate e si vergognano di te…” Sua moglie aveva ragione. Quell’altro, invece, giovane e bello com’era, e
ricco come sarebbe diventato, avrebbe potuto avere il mondo ai piedi, perfino sposare l’ereditiera più facoltosa
e più carina della città senza che nessuno osasse recriminare circa le sue origini o il suo colore.
- Il denaro corrompe - diceva sempre. Se avesse ereditato tutte le sostanze di Leeland McRae, come sembrava
più che probabile, avrebbe lasciato un vitalizio a sua madre e investito il resto in quel dannato ospedale. Pazzo.
Poi sarebbe sceso al Sud, per curare i malanni dei suoi simili e magari si sarebbe fatto linciare dal Ku Klux Klan
non appena quella gentaglia avesse realizzato che non era stato capace di restarsene al suo posto o una donna
bianca gli avesse posato gli occhi addosso anche solo per guardarlo. Dieci, cento, mille volte pazzo. Era un bel
ragazzo simpatico, con la parlantina facile, ricordava il dottor Brannighan, che cavalcava come un centauro, non
si tirava indietro se c’era da menare le mani e anche con la sei colpi se la cavava mica male. Era bravissimo a
disegnare, forse avrebbe fatto meglio a non intestardirsi a diventare medico e sarebbe potuto diventare un
artista di vaglia come il suo tutore. Con le idee che gli frullavano in testa, per lui sarebbe stata la scelta
migliore, invece…
- Il momento in cui un medico deve misurarsi con la morte prima o poi arriva sempre, Wade. E non sempre a
morire sono i vecchi, o chi ci vuole male. E’ dispiaciuto anche a me, credimi, ma nessuno avrebbe potuto farci
niente.
Inutile dirgli che piangere di tristezza e urlare di dolore non è vergogna, Brannighan tanto non lo avrebbe
capito, e magari gli avrebbe rinfacciato di avere il cuore di cera e le lacrime in tasca, come tutti quanti i
maledetti neri, una razza impastata di sentimento più che ragione. “Ti saresti dovuto fare le ossa dove me le
sono fatte io, ragazzo”. Già, lui se l’era fatte come medico militare durante la Guerra, le maledette ossa. Avesse
visto anche solo una decima parte di quello che aveva visto lui quando era chirurgo dell’esercito, giovani
rovinati per sempre, gente che pregava Dio di toglierla dal mondo, avrebbe mollato tutto quanto per tornarsene
all’Accademia a dipingere. O sarebbe diventato duro come una pietra, e non avrebbe dato una lacrima, per la
piccola immigrata morta in quella maniera spaventosa solo perché non aveva abbastanza denaro da comprarsi
un paio di scarpe.
- Forse quella tua…Anna è stata più fortunata da certi che dalla guerra tornavano ridotti a rottami. E non
piangere come piangono le donne, Wade, maledizione!
***
Wade cavalcava verso casa sotto la pioggia, la pioggia tiepida dell’autunno di New Orleans. Quei pochi anni,
quella città, l’avevano cambiato, indurito, come l’allume di rocca aveva indurito la pelle delle sue dita. Aveva
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imparato, se non ad accettarle, almeno a misurarsi con le numerose facce della morte che in quella città putrida
di fango erano le febbri, i serpenti velenosi, i morsi incurabili dei cani arrabbiati, la presenza incombente del
Padre delle Acque, il grande fiume che fagocitava e non restituiva quel che si era preso, una città che sembrava
sempre sul punto di marcire, se non di sprofondare in quel fango su cui si reggeva per puro miracolo. E poi
c’era l’odio, il puntiglio truccato da questioni d’onore, il fanatismo cieco e senza ragione che armava le mani
dopo essersi rivestito d’ideali assurdi che, in realtà, servivano solamente a nascondere giochi di potere: bianco
contro nero. Uomo contro uomo. Quando sarebbe finita? Ne aveva curate a decine, ferite d’arma da fuoco e
ossa rotte dalle bastonate. Qualcuno gli era morto tra le braccia, com’era successo a Papa Joe, un vecchio
negro mezzo svanito che era stato pestato chissà per quale motivo, dai fantasmi bianchi che s’erano dati il
nome di un fiore. Era stata dura non piangere, anche se nessun Brannighan glielo avrebbe rimproverato.
Ma, per fortuna, quella città era anche piena di vita, generosa e calda come una vecchia puttana alla prese con
un ragazzino a cui debba insegnare tutto: il Carnevale, il profumo speziato del gumbo (minestra di gamberi, N.
d. A. ) e delle callas (frittelle dolci N. d. A, ), il mercato con il suo vociare, la musica e le donnine dei locali
malfamati di Storyville, la stupefacente bellezza delle mulatte di Rampart, i tamburi del vudù. “L’appé vini le
Grand Zombi /L’appé vini pou fé gris gris…”(« E’ venuto il grande Zombi…E’ venuto per fare gris- gris… » si
tratta di una sorta di formula di scongiuro nel dialetto creolo di New Orleans N. d. A. )
***
Nell’accomodarsi la veletta, mentre la carrozza di avvicinava alla meta,, Rossella si domandò se qualcuno
avrebbe potuto riconoscerla. Con il viso velato e le mani coperte dai guanti, niente la rivelava per una bianca. I
riccioli neri che le sfuggivano dal cappellino avrebbero potuto spacciarla per una quarto od ottavo sangue, per
qualcuna di quelle languide bellezze dalla pelle color avorio vecchio con le quali i gentiluomini bianchi della città
solevano formare, col beneplacito di tutti quanti, mogli comprese, le loro famiglie clandestine. Rise dentro di sé,
sarcastica, al pensiero di come si sarebbe sentita, appena pochi giorni prima, se qualcuno si fosse azzardato a
scambiarla per una donna di colore. Nessuno può mettere ipoteche sul proprio futuro. E le differenze, in fondo,
non erano poi molte, anche se nelle vene di Rossella scorrevano solamente sangue irlandese e francese. Anche
di lei dicevano a bassa voce puttana e mantenuta. Rhett era stato suo marito cento, mille, diecimila anni prima,
adesso era soltanto l’uomo che le giaceva accanto nel letto e per il quale ogni scusa era buona pur di rimandare
un matrimonio a lungo promesso. Rhett non era mai stato una persona come si deve e mai che gliene fosse
importato qualcosa. Era ancora sposata a Frank, il buon vecchio Frank che non amava, la prima volta che era
stata con lui. Frank, marito di Rossella e socio in affari di Rhett. Delle remore morali avevano fatto
cartastraccia, sia lei che lui, e la paragonassero a chi volevano, le malelingue di New Orleans: anche a una
negra. Per quel che gliene importava…
La vettura pubblica, mai avrebbe immaginato in vita sua di doversi servire di una carrozza a nolo, di dover
sedere sulla stessa panca dove poteva aver posato le natiche una prostituta, si era fermata.
- Congo Square, Madame- aveva bisbigliato il vetturino, aiutandola a scendere. Era un negro corpulento, di
mezza età e sicuramente dalla voce, dal biancore delle mani, dalla consistenza dei capelli o da qualche altro
particolare, doveva averla riconosciuta per quella che era. Ma non si era, grazie a Dio, meravigliato più di tanto:
da Mexcal, perché era lì che stava andando, a farsi preparare filtri d’amore e fatture a morte, non andavano
solo le negre.
La casa dello stregone era un vecchio edificio fatiscente in fondo a un giardino incolto, ombreggiato da alberi di
catalpa che da anni non venivano potati. Un grosso cane nero latrava minacciosamente, lanciandosi contro
l’inferriata. Ringraziando il Cielo, la casa era dotata di un piccolo ingresso secondario che si apriva direttamente
sul muro esterno della costruzione e doveva essere la porta che immetteva nell’abitazione di Wade.
Bussò. Era possibile che lui non fosse in casa, come capita spesso ai medici.
- Desiderate, Madame?
- Ho un terribile mal di testa…da un paio di giorni in qua.
Gli rispose, sollevando la veletta e dedicandogli il migliore dei suoi sorrisi. Lui era scalzo, in maniche di camicia,
bellissimo.
- Non avrete intenzione di ricominciare con quel dannato laudano, spero: detesto l’idea di veder morire i miei
pazienti.
Le sembrò freddo, rigido, distante, una statua di sale. Due giorni non gli erano bastati a scordare quello che era
successo, tra lui, nero, e la donna bianca del bel mondo che l’aveva provocato fino a fargli fare quel che non
avrebbe voluto.
- Sono stata una stupida, Wade…
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Quanto costa al tuo orgoglio ammetterlo, donna? La fissò a lungo con quel suo sguardo indagatore, nero come
la pece, accarezzandosi lentamente la guancia, quasi a voler cancellare anche il ricordo delle cinque dita di
Rossella.
- Entra entro. A quest’ora non c’è nessuno in giro, ma non vorrei che qualcuno potesse vederci: lo spettacolo di
un negro e di una bianca insieme potrebbe ferire la sensibilità di qualche onesto cittadino e di noi due…sarei io
quello che rischierebbe di più.
Lei lo seguì senza discutere o recriminare, all’interno di un appartamentino spoglio e disordinato,
sommariamente arredato con vecchi mobili rimediati da qualche rigattiere. Sul tavolo, spessi volumi dalle
copertine scolorite, barattoli di vetro pieni di matite e pennelli e imbrattati di colori. Rossella immaginava così la
soffitta di un artista a Parigi, e Wade era anche quello, oltre che medico. I due grandi ritratti di donna che
campeggiavano sulle pareti erano opera sua.
- Mia madre.
L’avrebbe immaginato da sola. Gran bella donna, con gli stessi tratti delicati del figlio.
- L’hai fatto tu?
- Detesto i dagherrotipi: riescono ad imbruttire anche la creatura più perfetta. E lei è bellissima.
Le aveva messe indubbiamente a profitto, le lezioni di Leeland McRae: ottima mano, eccellente senso
cromatico. Non che lei se ne intendesse più di tanto, ma aveva sempre avuto buon gusto. Gli avrebbe chiesto di
farle il ritratto. Nuda, magari, come si usava a Parigi: avrebbe posato per lui senza vestiti addosso e poi…E poi
lui avrebbe messo sulla tela la sua anima di puttana, esattamente come era riuscito a dipingere l’amore di
madre negli occhi di Lola Butler. Le voleva bene, e c’era da capirlo, con quel che la donna era riuscita a fare per
amore di suo figlio. Lei non aveva fatto nulla di nulla per il “suo” Wade. Le era stato difficile amarlo, generato
con un uomo che aveva sposato a sedici anni per andarsene da casa e che le aveva fatto il solo favore di
lasciarla vedova a diciassette. Il piccolo, cresciuto da serve e bambinaie pronte ad accorrere ad ogni suo
capriccio, era venuto su viziato e arrogante. All’età giusta era entrato in un collegio militare, quindi era stato
ammesso a West Point. Lì avrebbero fatto di lui un gentiluomo, un cavaliere del Sud senza macchia e senza
paura. Perché, esistevano ancora, il Sud e i cavalieri senza macchia e senza paura? La dignità, l’onore,
l’orgoglio? Che ne era stato di loro? Rossella aveva sbagliato dacchè stava al mondo, a crederli quel che li
aveva sempre creduti. Altri li avrebbero chiamati arroganza, alterigia, superbia fine a se stessa. E la dignità,
l’orgoglio, il rispetto di sé, quelli veri, avrebbe potuto insegnarglieli Lola Butler, una sgualdrina di colore.
Si sforzò di non pensare a niente, e gli occhi le finirono sull’altro quadro, giusto giusto per non finire sopra la
faccia impudente di Wade. Riproduceva il musetto grazioso di un’adolescente un po’ selvatica, bruna ed
arruffata.
- Anna.
La voce di Wade si era incupita, prima di spezzarsi in un rantolo. Anna. Una ragazzina dei quartieri bassi, una
stracciona bianca di Philadelphia. Figlia d’immigrati, italiana, forse spagnola. Un sudicio animaletto che a dodici,
tredici anni della vita doveva conoscere tutto quanto. Una puttanella da quattro soldi, pensò Rossella. Capace
che avesse tentato di farselo, Wade, o che se lo fosse fatto, per pochi centesimi e una fetta di pane. Maledetta.
- Non c’è più. L’ha ammazzata il tetano.
Un male che non perdona. Doveva aver sofferto, la ragazzina, per quel poco che ne sapeva lei.
- Era figlia di italiani. Ogni tanto, veniva a pulire l’ambulatorio. Non portava mai le scarpe, solo certi zoccolacci
troppo grandi che le scappavano sempre dai piedi. Aveva piedini piccolissimi, come quelli di una gran dama,
come…come i tuoi. Si sarebbe fatta bella, a dispetto di tutto quanto, anche se aveva i capelli arruffati, i vestiti
sudici e non mangiava abbastanza. Spesso andava scalza e non so, forse era un presentimento che mi portavo
appresso, temevo che potesse farsi male. Le ferite ai piedi sono pericolose, il suo quartiere, la sua strada, la
sua casa erano pieni di sudiciume…Un giorno le ho dato dei soldi perché potesse comprarsele, quelle benedette
scarpe. Da allora non l’ho più vista: sana e in piedi sulle sue gambe, intendo dire. Brannighan, il collega che
lavorava con le all’ospedale, mi aveva dato a intendere che probabilmente al padre della ragazzina non era
andato a genio che le avessi regalato dei soldi: forse aveva immaginato qualche secondo fine, chissà, avevo
sentito dire anch’io che gli italiani sono gelosi delle loro donne, Anna stava crescendo, s’era fatta parecchio
bellina…Ed io non ero molto rassicurante, immagino, giovane, scapolo e con questa bella faccia nera. Agli
immigrati i neri non piacciono per niente, al Nord come al Sud: parlano inglese, si accontentano di paghe da
fame e lavorano come muli senza accampare mai quelli che io chiamo diritti e i padroni pretese; gli italiani,
quando arrivano qui, non capiscono la lingua e faticano parecchio ad impararla; gli irlandesi bevono e, ubriachi,
diventano incontrollabili. E così finisce che gli immigrati ci accusano di portargli via il lavoro, di tentarci con le
loro donne, non ci possono soffrire e non perdono tempo a dimostrarcelo coi fatti.
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“Brannighan ha ragione”, pensavo. Poi, un giorno, mi hanno cercato. La ragazzina stava male, terribilmente
male, e nessuno capiva di che potesse trattarsi: era coricata sul letto dei suoi genitori, la testa all’indietro,
rigida come un bastone, gli occhi sbarrati, le labbra stirate sui denti e tutte imbrattate di bava e di sangue.
“Pregate per lei”, ho detto a tutta quella gente. Aveva una ferita infetta sulla pianta del piede destro: un chiodo
arrugginito le si era conficcato nel calcagno mentre tornava da fare la spesa, un paio di giorni prima, a sentire
la madre. Avrei pregato anch’io, perché una convulsione più forte delle altre mettesse fine a quello strazio.
Sapevo che non avrei potuto fare niente per salvarla, Anna era la prima paziente che mi moriva…Aveva solo
dodici anni.
Pieno d’orgoglio anche lui, come sua madre. E altrettanto generoso e sensibile. Magari aveva la testa piena di
idee strampalate, modi poco ortodossi, la pelle del colore sbagliato, ma aveva un cuore grande come una casa.
Poteva dire altrettanto, Rossella, degli uomini che aveva conosciuto, sognato, amato, il vuoto Ashley, lo sciocco
giovane Hamilton, il suo primo marito, il rozzo Frank Kennedy, perfino Rhett, furbo e falso? Fatui, superficiali,
arroganti, egoisti e pieni di sé, tutti quanti. Suo figlio si chiamava Wade, e non doveva rassomigliare all’uomo
che portava il suo stesso nome, aldilà del fatto che non lo vedesse da anni, aldilà del fatto che fosse bianco e
non nero. Il suo, doveva essere un mondo di feste da ballo e di ragazze da far volteggiare nelle piroette del
valzer; o un mondo di divise e di armi e di sudici selvaggi a cui, così gli era stato insegnato, bisognava far
saltare le cervella.
Era assurdo amare un uomo come quello, si disse Rossella, un uomo di dieci anni più giovane, un nero duro,
ostinato e orgoglioso, che non credeva in niente di ciò in cui aveva sempre creduto lei. Le piaceva, ecco, le
piaceva per la sua giovinezza, la sua avvenenza, la sua pelle liscia e le sue carni sode. No, non lo amava, le
piaceva e basta. Ma era più che certa che le sarebbe stato difficile se non impossibile amare un altro, dopo.
***
Lo guardava avanzare verso di lei, la testa alta, gli angoli delle labbra sollevati in un sorrisetto malizioso, gli
occhi neri che la studiavano senza soggezione. La vuoi provare, una cura efficace contro l’insonnia e il mal di
testa, una cura che se ci stai attento non ha effetti collaterali e non nuoce alla salute? Beh, è indubbio che non
saresti venuta qui sola e di nascosto, se non avessi avuto per la testa quello che ci avevo io.
- Adesso si fa a modo mio. E non ti permetterò di schiaffeggiarmi un’altra volta.
Non era diverso dai suoi congeneri, anche se era cresciuto nella casa di un gran signore e aveva studiato
all’università: lascivo, sensuale come tutti i neri, pensava Rossella e nessuna frusta lo teneva a bada, mentre
avanzava verso di lei con quel suo passo elastico da danzatore, i piedi scalzi, la camicia bianca senza colletto
arrotolata sugli avambracci ma abbottonata fino alla gola. La bocca era ferma, seria, ma gli occhi gli ridevano
come se avesse avuto voglia di giocare. Rossella lasciò cadere lo scialle d’angora e il cappellino e si sfilò i
guanti, mentre lui continuava ad andarle incontro, sbottonandosi la camicia con le lunghe dita brune e poi
sfilandosela dalla testa con un solo gesto agile, aggraziato e sensuale.
Faceva sul serio, ma alla donna non rimase il tempo per rendersene conto. Bello da lasciare senza fiato: alto
ma non altissimo, meno di Rhett; un corpo che sembrava scolpito, una pelle color bronzo fuso che luccicava
come se fosse stata unta con dell’olio e mandava, alla luce, riflessi ramati. Contrariamente a quasi tutti i neri,
aveva una spruzzata di pelo sul petto, probabile retaggio del sangue bianco che gli scorreva nelle vene.
Perfetto, perfino in quella sua seduttività sfacciata, perfetto aldilà del suo colore. Beh, non sei proprio nero
nero, Wade…Ma non era neppure uno di quegli scoloriti ottavo sangue che facilmente si possono prendere per
bianchi: le sue narici erano strette ma inconfutabilmente negroidi, le labbra spesse. Era un negro in tutto e per
tutto, le piacesse o no. Anche se aveva studiato ad Harvard era pur sempre il figlio di una schiava. E tra poco,
insieme avrebbero fatto qualcosa che non avrebbe mai dimenticato, a trentasette anni, con due figli grandi, una
bambina di sei anni, un compagno che prima o poi l’avrebbe sposata. A trentasette anni. A quell’età, pensava,
sua madre era già nonna. Avesse potuto vederla, sua madre, quella gran dama sussiegosa che l’aveva educata
cercando d’inculcarle i valori in cui credeva, nei quali avevano creduto i suoi antenati, nei quali tutti i
gentiluomini e le gentildonne del Sud credevano, in nome dei quali era stato versato tanto sangue, erano state
piante tante lacrime…Forse il mondo stava andando a rotoli, ma lei non aveva nessuna intenzione di fermarlo,
adesso che Wade le stava di fronte e, accarezzandoglieli, le liberava i capelli dalle forcine che glieli tenevano
raccolti in quella solita composta, semplice ed elegante acconciatura; e poi le slacciava i ganci del corpetto, era
molto abile, chissà quante altre volte l’aveva fatto, e quando il suo sobrio abito da mattina le si era
ammonticchiato ai piedi, con altrettanta abilità s’era messo ad armeggiare con i legacci del bustino, con i
nastrini che le chiudevano la camiciola di batista.
- No, Wade.
- Avremo giocato a modo mio…Non ricordi?
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Gli aveva posato il palmo aperto sul petto nudo, per respingerlo. Avrebbe voluto giocare anche lei, ma
mostrarsi a lui per quello che era le avrebbe procurato imbarazzo. Aveva trentasette anni, il ricordo di quattro
gravidanze sul corpo troppo magro. E lui era giovane e bello.
- Sono vecchia e brutta, Wade…
- Voialtri bianchi vi vergognate di tutto fuorché di quello di cui fareste bene a vergognarvi davvero. Gli imbecilli
e i bigotti fanno sesso vestiti, e tu non sei né vecchia né brutta. Il piacere è anche negli occhi, Rossella. E nelle
mani, nelle narici, nella bocca, dappertutto signora…O forse non sei mai stata amata come si deve…
Sorrise scotendo la testa. E le afferrò il polso, ma senza brutalità. Mi fa fare quello che vuole, pensava Rossella,
sentendo sulla mano, attraverso la stoffa dei calzoni, il calore del sesso duro di Wade. Riesce a farmi fare quello
che vuole con la dolcezza, senza usare la sua forza. Avesse accostato gli scuri. Le avesse lasciato tenere
addosso la biancheria. Se avesse notato lo spettacolo delle sue rughe e delle sue carni avvizzite, lui che era
giovane e bello ne sarebbe rimasto disgustato. Lui, che sperava nel domani, lo stesso domani che a lei metteva
paura. Con la mano sinistra, gli artigliò la schiena. Aveva le unghie appuntite e non le sarebbe dispiaciuto
sentirlo gemere per il dolore. Così impari a mancarmi di rispetto, Wade, sporco negro.
- Non mi piace avere segni che sanguinano sulla pelle. Non era nei patti, farsi male. Avremmo giocato a modo
mio… e ci saremmo scambiati soltanto piacere, Madame. Non sono il tuo giocattolo. E nemmeno il tuo…schiavo.
“Credi che non l’abbia immaginato che cercavi proprio questo, quando mi guardavi e imploravi da me il piacere,
come una mendicante? ” Le prese la mano, gliela baciò, sul dorso, sul palmo, sulla punta delle dita sottili. E
lasciò che lei gli carezzasse le labbra, gliele socchiudesse fino a sentire l’interno umido e caldo della bocca, la
saldezza dei suoi grossi denti bianchi.
“E’ di essere amate come si deve, che hanno bisogno quelle come te”, pensava Wade, spogliandola degli ultimi
indumenti. “Io conosco il tuo mondo, Rossella, lo conosco anche se non ne ho mai fatto parte. So di te e di
quelle come te, cresciute convinte di essere al centro dell’universo, in un lusso artificioso che vi guasta il
carattere, dove ogni capriccio è soddisfatto ancor prima di venire espresso. ” Perché agli uomini bianchi
piacevano così, le donne, eterne bambine da sottomettere e dominare, incapaci di fuggire dalla prigione delle
consuetudini. Aveva letto, da qualche parte, che in Cina si solevano sformare i piedi alle neonate, fasciandoli
stretti per impedir loro di crescere. Ai cinesi quell’andatura esitante, conferita dai piedi minuscoli, ripiegati su se
stessi, piaceva: la trovavano sensuale. O forse era perché con i piedi storpiati in quel modo, quelle povere
creature non potevano fuggire, proprio come gli schiavi ribelli che, prima della guerra, in certe piantagioni
venivano sgarrettati. Nemmeno una donna viziata ed infantile poteva fuggire via dal suo mondo, da
consuetudini come i matrimoni precoci di convenienza, come una vita fatta di vuoto e di noia, come quel
malinteso senso d’orgoglio che, in realtà, era tutto fuorché rispetto di se stessi. Ma dovevano essere bastati
pochi attimi e qualche carezza impudica a cambiarla, la gran dama. Aveva giocato con il suo corpo e con la sua
pelle, ricambiato i suoi baci e i suoi morsi, dimenticando dieci anni, un colore e un mondo intero di differenza. E
adesso gemeva sotto di lui, sul vecchio letto che cigolava e aveva il materasso troppo duro per i suoi gusti,
soddisfatti soltanto dalla seta e dalle piume. Da quanto l’aspettava, un’occasione del genere? Un nero, il nero
caldo selvaggio e lascivo di cui aveva sentito favoleggiare e che, per soprammercato, era pure bello, intelligente
e pulito, aveva la pelle chiara e le narici delicate. Quanti uomini hai avuto, prima di me, Madame? I due mariti,
e quel Rhett che lo è stato, mille anni fa, e adesso non lo è più, anche se dorme con te, le poche volte che state
insieme? Soltanto loro? Noo, non sono geloso, che vai a pensare. Curioso, ecco, anche gli uomini lo sono.
Qualche altro rapporto? Qualche amante occasionale? Con la loro aria compunta e sussiegosa, le gran dame
del Sud, che scambiavano la spocchia per orgoglio, rivelavano spesso insospettabili sorprese. Questa,
comunque, non doveva mai essere stata con un uomo di colore. Era la prima volta che si godeva la pelle
vellutata di un nero, la sua bocca di miele, i suoi grossi muscoli, il suo impeto e la sua strapotente virilità. Era la
prima volta che affondava i denti nel frutto proibito, e doveva averlo trovato straordinariamente gustoso.
La guardò raccattare da terra i suoi abiti, rivestirsi. Doveva essere terribilmente complicato farlo, con tutta
quella bardatura di legacci e stecche di balena, era centomila volte meglio essere uomo che donna. Si stiracchiò
pigramente sul letto, incurante della sua nudità, spudorato quanto lei era timida, spudorato e orgoglioso di quel
colore che era bellezza e non vergogna.
- Serve aiuto? - biascicò lentamente ripensando al corpo di lei, fragile e pallido, bello ancora, nonostante la
magrezza, i trentasette anni e le quattro gravidanze che l’avevano segnato. Hamilton, il ragazzino, l’aveva
saputa amare? E il vecchio Frank Kennedy? Rhett la canaglia, forse lui sì, doveva essere bravo a dar piacere
alle donne, e lei non lo aveva mai dimenticato, neppure quando, anni prima, se n’era andato via sbattendo la
porta. E di lui, quale ricordo avrebbe conservato? Non un ricordo d’amore, forse, ma ugualmente caldo e forte,
come rhum e caffè mischiati insieme. Una volta e una sola, come animali del bosco, come gatti randagi che si
rincorrono sui tetti. Fa meno male del laudano. Fa scordare i pensieri. E non ci saranno conseguenze, perché so
stare attento: non dovrai giustificare un figlio nero inventandoti chissà che scusa, Madame.
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Wade finì di rivestirsi, guardandola mentre si pettinava. Era complicato, farlo da sola, quasi come vestirsi. Non
l’aveva mai fatto senza aiuto, parimenti alle altre dame del bel mondo, fin da ragazzina aveva potuto disporre
di schiavette addestrate alla bisogna e adesso doveva essere quella Prissy a provvedere alle sue necessità.
Quella donna dipendeva dagli altri, come una bambina piccola, come un’invalida:era inconcepibile mancare di
rispetto verso se stessi fino a quel punto, pensava Wade, aiutandola ad allacciarsi la fila interminabile di
bottoncini che le chiudevano il corpetto. L’aiutò perfino a pettinarsi, raccogliendo in una treccia che poi lei si
arrotolò alla meglio intorno alla testa, i suoi capelli. Erano splendidi, lunghissimi, lisci e morbidi come la seta, di
una tonalità castana piena e scura, accesa da ciuffetti che sarebbero stati bianchi, se l’hennè non li avesse tinti
d’un rosso fiammante per darle, qualche anno ancora, l’illusione della giovinezza.
- Quello che è successo oggi…non si ripeterà più e resterà segreto, vero?
- Wade Butler è una tomba, bella signora. Eppoi solo la marmaglia se ne va in giro vantando le sue conquiste.
“Ma una come te sarebbe capace d’inventare che l’ho stuprata…E gli altri le crederebbero. ”
***
Paddy O’Malley: il suo primo amico, a New Orleans. Le circostanze erano state curiose: stanco di sentir parlare
francese e desideroso di ascoltare una volta tanto la sua lingua, Wade aveva oltrepassato Canal Street, la linea
di demarcazione tra il Vieux Carré e i quartieri nuovi, abitati dagli americani. Aveva vagato per un bel po’ senza
meta, andando dove lo portava il cavallo. In Magazine Street, l’animale s’era fermato a brucare un po’
d’erbaccia stenta che cresceva lungo il cordolo del marciapiede e lui aveva deciso che forse era il caso di
fermarsi.
Quella somigliava alle strade di Philadelphia che aveva frequentato quando, fresco di laurea, era diventato
l’aiuto di Brannighan: canali di scolo a cielo aperto dove grufolavano maiali, capre, cani rognosi e bambinetti
mezzi nudi, tuguri squallidi che s’affacciavano su una stradaccia dissestata che, quando pioveva, doveva
riempirsi di pozzanghere fangose, un paio di magazzini, opifici e chissà che diavolo d’altro, neri e puzzolenti
come la bocca dell’inferno e, in fondo alla strada, un edificio scuro, incombente, che aveva tutta l’aria di un
orfanotrofio o di un ospizio di mendicità, e che non era molto distante da un casino da quattro soldi dove una
mezza dozzina di mignotte men che ordinarie sollazzavano a buon mercato i maschi del quartiere. In giro, facce
bianche che lo squadravano torvo, lentigginose facce irlandesi con la miseria stampata sopra. Quella gente non
aveva mai visto troppo di buon occhio la marmaglia nera, pericolosa concorrente nell’accanita lotta tra
miserabili per strappare una giornata di lavoro. Non era stata una buona idea, non filarsela alla chetichella
prima che qualcuno potesse notarlo, pensava Wade. Ma, arrivati a quel punto, il partito migliore era fingere
indifferenza: e se qualcuno avesse provato a molestarlo, tanto peggio per lui.
Scese da cavallo, si sedette su di un gradino con il blocco degli schizzi sopra le ginocchia: il maniscalco che
stava ferrando un mulo a un paio di metri da lui era un bel soggetto interessante, con quella mole gigantesca e
quella barbaccia rossa da guerriero vikingo.
- Ehi, ma questo sono io!, aveva esclamato quando, incuriosito, s’era avvicinato a Wade per vedere che diavolo
stesse facendo. E Wade non avrebbe mai più dimenticato, oltre al suo sorriso cordiale e incompleto incorniciato
dai lunghi peli rossi dei mustacchi, la pacca che gli aveva mollato sulla spalla e che lo aveva fatto rintronare
tutto.
- Chiedimi quello che vuoi, ma quel tuo scarabocchio devo averlo a tutti i costi: incorniciato, farà bella mostra
nel salotto di casa e gli amici mi invidieranno perché Paddy O’Malley si è fatto ritrarre da un artista, come i veri
signori…Lo sai che sei proprio bravo, ragazzo?
O’Malley doveva aver passato da un pezzo la cinquantina, ma si manteneva forte e vigoroso come una quercia:
aveva una faccia rossa quasi quanto i capelli, paffuta e incisa da poche rughe d’espressione, su cui facevano
spicco il naso rincagnato da pugile e gli occhi, due fessure di un azzurro chiarissimo. Era enorme, tanto alto che
Wade, il quale basso non era, gli arrivava a malapena alla punta del naso. Sul polso scoperto dalla manica
arrotolata della camicia, spiccava un curioso tatuaggio bluastro.
- Sono un Feniano (militante del Sinn Fein, il movimento per l’indipendenza dell’Irlanda che allora era sotto il
dominio inglese N.d.A.). Gli aveva borbottato all’orecchio con un vocione da orco. Molti irlandesi che Wade
aveva conosciuto all’ospedale dei poveri a Philadelphia lo erano. Donne belle, bionde, ma spesso sfatte dalle
gravidanze o consumate dalla tisi, uomini dalle facce rosse e allegre, che amavano la birra e menare le mani e
che, come i negri, cantavano canzoni dolci e struggenti per ammazzare la tristezza. Molti di loro si definivano
combattenti per la libertà, patrioti in esilio. Non erano stati solo la miseria o le carestie ricorrenti a spingerli ad
andarsene dall’Irlanda.
- Allora siamo fratelli.
19
Fratello, gli aveva detto così. Ma era giovane da essersi figlio, era nero e se la cavava bene a parlare, proprio
come se avesse studiato. In qualche scuola, effettivamente, doveva averci messo piede, per imparare a
disegnare così. Non ne aveva conosciuti altri, come quello, di neri, Paddy O’Malley, il maniscalco di Magazine
Steet. I negri che aveva conosciuto e che popolavano il suo immaginario grugnivano invece di parlare, non si
lavavano, e sgranavano i loro occhiacci bianchi sulle ragazze perbene, non avevano i modi da signore di quello
lì e il bel coraggio che aveva avuto lui a cacciarsi in un posto dove i musi neri non mettevano mai piede. Era
sfacciato, insomma. Sfacciato, ma simpatico.
- Perché mi hai detto fratello, dì, negro?
- Leggo i giornali, irlandese. So che la causa dei Feniani è giusta. Gli inglesi non vi trattano molto meglio di
come i nostalgici della Confederazione schiavista trattino noialtri: ammiro chi lotta per ripigliarsi ciò che è suo.
- Per essere un dannato sacco di carbone ne sai, di cose, tu…
Ma non c’era animosità nella sua voce catarrosa: quel negretto che disegnava come un artista e parlava come
un libro stampato gli piaceva. Se qualcuno avesse osato fargli del male, se la sarebbe vista con lui. E nessuno,
in quella strada, osava muovere un dito, se Paddy O’Malley non era d’accordo.
- Mi è sembrato…Ma sì, mi è sembrato di sentire qualcuno lamentarsi, o mi sbaglio?
- Non ti sbagli, sacco di carbone. E’ la mia vecchia. Sta male da tre giorni. Un dente marcio le ha fatto gonfiare
la guancia come un melone:non mangia, non dorme, non sa più a che santo votarsi ma ha una paura maledetta
del cavadenti.
- Penso che potrei fare qualcosa.
- Un momento, negro: noi siamo buoni cristiani, non venire a parlarci di quei vostri dannati gris- gris o come
diavolo li chiamate.
- Non correre, O’Malley. Anche se potrebbe sembrarti strano, ho studiato da medico, su al Nord. Ho la mia
borsa, nella sacca della sella e anche del cloroformio: se ti fidi, cavo il dente a tua moglie senza che nemmeno
se ne accorga.
- Se lo farai, Dio te ne renderà merito.
Casa O’Malley non era molto grande, ma ordinata, pulita e dignitosa, con le stoviglie blu a vista nella piattaia e
le tendine di pizzo alle finestre. Ci stavano larghi, lui e Cait, dacchè tutti i figli che avevano messo al mondo si
erano sposati e se n’erano andati. E ci stavano bene. Il lavoro di maniscalco rendeva discretamente, ed era
stato quel modesto benessere, unito all’imponente stazza fisica, a fare di O’Malley il personaggio più rispettato
di Magazine Street.
La povera Cait O’Malley, coetanea del marito ma gialla e grinzosa come una mela cotta e più brutta del diavolo,
si era limitata a sgranare gli occhi sullo sconosciuto e, abituata ad ubbidire senza fiatare oltre che sfinita da
giorni di quell’orrendo mal di denti, aveva aperto la bocca, inalato il cloroformio e non si era lamentata mentre
Wade, armato di tenaglie, faceva il suo lavoro.
C’era voluta tutta la forza dei suoi robusti muscoli, pensava Wade mentre tornava per l’ennesima volta in quella
strada, per estirpare quel dente marcio che se ne stava saldamente abbarbicato alla mascella di Mrs. O’Malley,
ma ne era valsa ampiamente la pena. La donna era guarita perfettamente, e lui ci aveva guadagnato un amico:
un amico dai modi rozzi, forse un po’ volgari ma leale e generoso, in compagnia del quale era piacevole
scambiare quattro chiacchiere e sorbirsi un buon caffè forte corretto con uno schizzo di ottimo whisky. E, quel
che più contava, s’era guadagnato la stima dell’intero quartiere: il giovane dottore nero non era venuto per
strappare il pane di bocca a quella povera gente, né per guardare in un certo modo le ragazze bionde di
Magazine Street. Il giovane dottore nero che sorrideva sempre faceva nascere i bambini, curava le febbri,
metteva a posto le ossa rotte, strappava via senza dolore i denti guasti. E, il più delle volte, non voleva neppure
essere pagato.
***
Wade stava aspettando che O’Malley terminasse di ferrargli il cavallo. Era una bella giornata d’autunno, una
delle ultime, poi il vento freddo che soffiava dal Nord avrebbe portato l’inverno anche a New Orleans: l’inverno
breve ma intenso del Sud che faceva gelare l’acqua dei bayou (paludi N. d. A. ) e costringeva la gente a
tapparsi in casa; per fortuna durava poco, a Carnevale l’aria sarebbe stata piacevolmente tiepida e la vita
avrebbe ripreso a pulsare, intensa come sangue giovane dentro le vene.
Nel magazzino che stava dall’altra parte della strada, era il solito andirivieni di ragazze che trasportavano ceste
piene di bottiglie: si sfinivano per un tozzo di pane e quattro soldi, curve in piedi a lavare bottiglie anche per
tredici ore al giorno. Dovevano essere una ventina, tutte giovanissime: un sorvegliante controllava che
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lavorassero di lena e, se qualcuna si fermava a tirare un po’ il fiato, erano bestemmie da far rizzare i capelli e
ceffoni che volavano. Tutte le ragazze erano bianche, aveva notato Wade, e altrettanto il loro sorvegliante, un
tipo alto, segaligno, con lunghi capelli unti che gli spiovevano sul collo e grossi mustacchi macchiati di nicotina.
Non era diverso da quelli che per secoli avevano angariato gli schiavi nelle piantagioni anzi, era possibilissimo
che avesse fatto proprio quello, prima della guerra: il cipiglio c’era, le bestemmie pure e perfino la lascivia con
cui, fingendo indifferenza, palpava il sedere alla più carina, una brunetta grassottella non più alta di un metro e
cinquanta.
- Una scena già vista, in qualsiasi posto abbia messo piede. La schiavitù non finirà mai, finché ci sarà gente che
ha tutto e gente che non ha nulla. Maledetto denaro…
- Ragioni come uno di quegli anarchici scomunicati, negro.
E O’Malley continuò a giocherellare con la catena d’argento che portava al collo: devotissimo e patriota, non se
ne sarebbe separato per niente al mondo, dal grosso crocifisso, dalla medaglietta della Vergine Addolorata e
dall’emblema del Sinn Fein che a quella catena erano appesi.
- Non credi che Gesù Cristo l’avrebbe preso a calci nel culo, quell’individuo, se ne avesse avuto l’occasione?
- Non bestemmiare, negro.
- Ma io non sto bestemmiando.
Un grido stridulo e acuto richiamò la loro attenzione. Subito, Wade si precipitò di corsa verso la ragazza che
usciva urlando e piangendo dal cancello dell’opificio, tenendosi con la mano sinistra la destra che sprizzava
sangue come il getto d’una fontana. Aveva tutti i vestiti insanguinati, la faccia rigata di lacrime rosse di sangue
e nere di fuliggine, e urlò ancora per un bel pezzo, prima di accasciarsi, svenuta, tra le braccia di Wade. Era
minuscola, con una faccia più bianca del gesso e i capelli biondi tagliati corti come quelli di un ragazzo.
- Sono un medico.
Il sorvegliante aveva borbottato qualcosa, forse l’ennesima bestemmia, ma l’aveva lasciato fare. E Wade aveva
esaminato la ferita. Buttava fuori a spruzzi sangue arterioso, rosso come le ciliegie mature, e, nitida, precisa e
pulita come sempre lo sono i tagli prodotti dai cocci di vetro, le attraversala il palmo della mano destra e le
arrivava fino al pollice dove, profonda com’era, lasciava intravedere il biancheggiare dell’osso.
- Vetro. E’ peggio di un coltello. Questo scempio va ricucito e alla svelta. Datemi un fazzoletto, un legaccio, una
corda, la prima cosa che trovate per fermare l’emorragia. E qualcuno veda di farsi venire in mente un posto più
pulito di questo, quello che va fatto non è lavoro da far qui.
Il convento era piuttosto lontano, le case d’abitazione più luride del magazzino, la ragazza stava sempre
peggio…Il bordello era a pochi passi di distanza, ma qualcuno storse il naso. Emmeline era una bambina.
Emmeline aveva un padre che…
- Rischia di morire. E se l’unico posto pulito è quello…
- Suo padre…
- Vada a farsi fottere, suo padre.
***
- Ciao piccola. Ti chiami?
La ragazzina, svaniti ormai gli effetti del cloroformio, strabuzzò gli occhi e fissò a lungo la bella faccia nera che
la sovrastava, sorridendole con gentilezza. La mano fasciata le mandava al cervello punture acute di dolore e
perché diavolo si trovava sdraiata in quel lettone, dentro quella stanza che tanfava di chiuso, profumo ordinario
e cipria da quattro soldi?
- Io sono Emmeline. E tu sei quello che mi ha curata, adesso ti riconosco.
- Eh, già. Riesci a muovere le dita, Emmeline?
- Sì, ma mi fa male.
Non doveva avere più di tredici, quattordici anni e, se possibile, ne dimostrava anche di meno. Era piuttosto
bruttina, con quella faccia ossuta da scimmietta, quella carnagione più bianca del latte cagliato e quelle stoppie
gialle che le spuntavano dritte sulla testa. Le dita erano gonfie e dolorati, ma riusciva a muoverle. Menomale,
segno che i tendini flessori ed estensori non erano stati lesi. Diversamente, avrebbe rischiato di restare storpia
per il resto dei suoi giorni.
- Sono un dottore, e posso assicurarti che va tutto bene. Se mi dici dove abiti, ti accompagno a casa.
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Emmeline si era morsicata le labbra e lo aveva guardato con certi occhi che sembravano quelli di una lepre di
fronte al fucile spianato del cacciatore. Suo padre sicuramente l’avrebbe caricata di busse, se si fosse
presentata a casa in compagnia di un negro, che fosse un bracciante di piantagione piuttosto che un medico
yankee giovane, bello e gentile poco importava. Non fu necessario che O’Malley parlasse per raccontargli chi
era Jackson Pusey, tanto lui aveva capito tutto. Comunque i Pusey stavano in un tugurio che si affacciava su
una stradaccia parallela a Magazine Street: madre, figlia, patrigno e tre o quattro ragazzini con le croste in
testa e il moccio al naso. L’unica cosa nuova e pulita era la bardatura sfoggiata con orgoglio dall’uomo quando
si trattava di andare a menare qualche negro poco rispettoso, vestaglione e cappuccio bianchi sempre freschi di
bucato e stirati a puntino. Pusey non era irlandese, a detta di O’Malley detestava i “fottuti papisti” e Dio solo
sapeva come facesse a mantenersi e a mantenere la sua scalcagnata tribù. Forse Dio non lo sapeva, precisò la
grassa madame del casino con la sua parrucca bionda, i suoi denti neri e i suoi ori falsi, ma gli abitanti del rione
sì: moglie e figliastra si spaccavano la schiena per portare quattro soldi a casa, e se entrambe ostentavano
teste rapate a zero come palle da biliardo, era perché quella carogna le aveva perfino costrette a vendere i
capelli a un fabbricante di parrucche. L’ultima volta che sua moglie era rimasta incinta, il degno soggetto
l’aveva fatta abortire a forza di calci e poco c’era mancato che l’avesse ammazzata.
- Odia i negri. Suo padre cacciava gli schiavi fuggiaschi coi cani.
Alla fine, fu una puttana scalcagnata della casa ad accompagnare la povera Emmeline: vedere la sua bambina
in compagnia d’un simile arnese non avrebbe fatto granché effetto, a quel Pusey. Anzi, era possibile che a
quell’ora se ne stesse sdraiato sul suo letto a smaltire le conseguenze dell’ennesima sbornia.
- E’ un buon tiratore?
- Pessimo.
Buono a sapersi. Ma era meglio mettersi in guardia.
***
Erano le otto di sera, ed era stata una giornata faticosa. Molto lavoro tra i neri di Congo Square . E quel parto
difficile, a Magazine Street, una ragazzina nubile, al primo figlio, che era stata mollata dal fidanzato, aveva
minacciato di uccidersi quando i genitori l’avevano buttata fuori da casa e alla quale Wade aveva promesso di
assisterla, dopo essere riuscito a sistemare i più gravi tra i suoi problemi. Se non altro, i genitori se l’erano
ripresa in casa, dove si mangia in nove si mangia anche in dieci. Forse il seduttore sarebbe tornato sui suoi
passi, l’avrebbe sposata accomodando tutto. Wade lo conosceva, e si era ripromesso di parlargli. Era un bravo
ragazzo, ma a diciannove anni soltanto le responsabilità che gli erano piovute tra capo e collo lo avevano
spaventato. Se avesse visto il bambino, un bel maschietto di quasi quattro chili, forse…
Veder gli altri nascere in un mondo di miseria e d’ingiustizie, vederli morire e non poterci far niente. Essere
medico significava anche quello, che gli piacesse o no. Era stanco, e si sarebbe buttato nel letto vestito, senza
neppure toccare la cena di Mexcal. Ma bussarono alla porta e, da come bussavano, sembrava dovesse trattarsi
di qualcosa di serio. Non c’è posto per la mia stanchezza, in questa vita che ho scelto: si nasce e si muore, e io
devo esserci, anche se preferirei pensare a me, una volta ogni tanto, e vorrei potermi buttare vestito sul letto a
dormire, sperando almeno di riuscire a farmi passare il mal di testa.
- Prego?
L’uomo che lo fissava come se avesse voluto mangiarselo poteva avere una trentina d’anni e si portava
appresso un’aria alquanto macilenta, ma sicuramente non l’aveva cercato perché si occupasse della sua salute.
Minuto, biondino, un ciuffo di capelli dritti che gli spioveva poco sopra gli occhi spiritati. Aveva in due incisivi
centrali rivestiti d’oro, come certi zingari e l’alito gli puzzava di whisky cattivo, di birra stantia e di cipolle fritte.
- Che hai fatto a mia figlia, negro?
“L’ho salvata, compare. Aveva un’arteria recisa, e sarebbe anche potuta morire dissanguata. “
- Tu hai addormentato Emmy con quella porcheria che ti porti appresso, e poi le hai messo addosso le tue
sporche manacce…
- Le ho salvato la vita, compare. E mi dispiace solo che non posso salvarla da te.
La mano scivolò sull’impugnatura del coltello, ma Wade non si lasciò sorprendere: un colpo vibrato col taglio
della mano disarmò l’intruso e una ginocchiata sparata tra le cosce lo fece crollare carponi sul piancito di legno.
- Fuori da casa mia, Pusey.
“Sparisci, verme, prima che ti aizzi contro il cane. Sparisci dalla mia vista, e vedi di piantarla con la commedia
del bravo padre che si preoccupa per la figlia. Senza il mio intervento Emmeline sarebbe morta. Morta, hai
capito? Ammesso che t’importi più di lei che di quei quattro soldi che porta a casa rischiando di storpiarsi e che
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tu ti bevi alla bettola. Se fossi un bravo padre non l’affameresti, non la terrorizzeresti, non l’avresti costretta a
vendersi perfino i capelli. Un bravo padre, già…Beh, bravo o cattivo, mi sembri un po’ troppo giovane per
esserlo davvero, ma non per imparare a comportarti da uomo. Va’ a casa tua, e vedi di buttare nel fuoco la
vestaglia e il cappuccio, Pusey. Tanto io non ho paura. ”
La luce incerta del lampione a gas aveva illuminato quell’angolo di strada e la figura di Wade, inquadrata dalla
porta. Era quello che non avrebbe dovuto essere, pensava Pusey: un maledetto nero messo lì per far risaltare
ancora di più la sua nullità. Il mondo era cambiato, e qualcuno che stava in alto voleva che le cose andassero
come stavano andando sotto i suoi occhi chiari e spiritati. Suo padre le aveva cacciati con i cani, con i
rinsecchiti, pulciosi e feroci catahoula della sua muta, capaci d’inseguire il selvatico, bestia o negro che fosse,
da un sorgere del sole all’altro, dall’inferno su questa terra a quello dell’aldilà. Li rispettavano tutti quanti,
allora, i Pusey, ed era prima che quel maledetto Lincoln, l’avevano ammazzato e ben gli stava, che quella
maledetta guerra perduta sovvertissero ogni logica. Ma anche il dottore negro lo avrebbe conosciuto, il suo
inferno in terra e nell’aldilà. Molto presto.
***
Mexcal, lo stregone, da morto non metteva più neanche tanta paura: un vecchio piccolo, ossuto, con una
barbetta da capra sul mento e occhi sporgenti da basilisco che nessuno aveva osato chiudergli in Congo Square.
Era anche possibile che qualcuno credesse che sarebbe ritornato: la via e la morte gli ubbidivano, gli avevano
sempre ubbidito, come cuccioli docili, come scolaretti. Con la forza che appartiene ai non morti, avrebbe
sfondato il coperchio della bara, scavato la terra del cimitero con quelle sue dita che sembravano artigli, e
sarebbe tornato.
Ma chi gli aveva piantato una pallottola proprio in mezzo agli occhi era certo che Mexcal non sarebbe potuto
ritornare per vendicarsi: l’aveva visto in faccia, quando gli aveva strappato dalla testa il cappuccio bianco, ma
non avrebbe parlato, ammesso e non concesso che fosse stato in grado di riconoscerlo. E gli occhi sgranati del
vecchio, grandi occhi sporgenti da basilisco, con le cornee iniettate di sangue non avrebbero tormentato le notti
di chi, per quello che aveva fatto, non avrebbe provato rimorso. Il cane gli aveva lasciato il segno dei suoi denti
sul braccio, prima di farsi accoppare. Una brutta ferita: e se fosse stato idrofobo? Macché, se la sarebbe
cavata, quella stupida bestia aveva semplicemente cercato di difendere i padroni, il vecchio stregone e il
dottore nero, come da che il mondo è mondo i cani han sempre fatto.
Il sangue si mescolava ai bossoli delle pallottole, ai petali appassiti delle camelie bianche, ai cocci dei vetri che
erano caduti giù dai quadri. Adesso pendevano, sghembi e sforacchiati, dopo che lui e Pusey si erano esercitati
al tiro al bersaglio con le loro pesanti Colt. Prima il vecchio. Quindi il cane. Il dottore l’aveva beccato di striscio
a un braccio, prima che Pusey gli chiedesse di lasciarlo a lui. Ma Pusey era un pessimo tiratore, e gli era rimasto
un colpo soltanto nel tamburo, dopo che aveva sprecato gli altri sui quadri e sui vasi. Era anche ubriaco, ma
andasse al diavolo. E c’era rimasto, quell’imbecille, perché se la sua pallottola aveva fallito il bersaglio, il coltello
lanciato dal dottore gli era entrato nella pancia fino al manico. L’avrebbero rimpianto in pochi, pace all’anima
sua, men che meno la moglie e la figlia, che trattava peggio di due negre. Comunque si era battuto da uomo e
anche chi lo aveva sempre disprezzato avrebbe accompagnato la sua bara al cimitero fingendo di asciugarsi gli
occhi.
Quando Pusey era crollato a terra reggendosi con le mani le budella che gli scappavano fuori dalla ferita, lui
aveva scaricato il tamburo della sua Colt contro il negro che fuggiva dalla finestra. Aveva tre colpi a
disposizione, la sua mira era buona, poteva anche essere che l’avesse preso. O no, forse. Ci fosse stato qualcun
altro dei loro…Ma avevano deciso di fare da soli. C’erano tracce di sangue un po’ dappertutto, sangue chissà di
chi, anche in giardino, sotto la finestra. Ma il cadavere non era stato ritrovato e il cavallo era sparito dallo
stallaggio. Doveva essere riuscito a farla franca, il maledetto.
***
I bravi uomini del Sud avevano fatto giustizia. Mexcal, lo stregone, non camminava più sulla terra e le mamme
avrebbero dovuto inventarne un’altra, per minacciare i bambini quando facevano i capricci. In quanto
all’altro…Scomparso, letteralmente inghiottito dalla notte. In città aveva molti amici, forse se ne stava nascosto
da qualche parte. Poteva anche essere fuggito. O giacere in fondo al fiume. Se l’avessero preso, ammesso che
fosse ancora vivo, avrebbe dovuto rispondere dell’omicidio di un bianco e nessun tribunale avrebbe osato
invocare la circostanza della legittima difesa: anche se erano entrati, non autorizzati nella sua casa, anche se
gli avevano sparato addosso per farlo fuori, dopo che avevano ucciso il suo cane e un povero vecchio che, aldilà
delle apparenze, non aveva mai fatto male a una mosca. Quelli che Mexcal stringeva tra le dita artritiche, un
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cappuccio bianco e qualche petalo avvizzito di camelia, non erano prove sufficienti a scagionare un uomo che la
gente voleva condannato e impiccato. Perché era nero, non perché aveva ucciso, per difendersi, un pusillanime,
una spazzatura umana che viveva alle spalle della moglie e della figlia ma era pur sempre un bianco. Questo
bastava.
Rossella rigirava tra le dita la lettera. Poche parole, vergate con la grafia disordinata di Rhett. Poche parole che
avrebbero dovuto renderla immensamente felice.
Sarò da te fra cinque giorni, una settimana al massimo. Prepara i documenti, ci sposiamo.
Bastava quella promessa a cancellare l’ansia per quel che di terribile poteva essere accaduto a Wade? Al suo
amante di una volta sola, di cui non avrebbe mai detto a Rhett? Del suo amante nero e impetuoso che le aveva
promesso il silenzio e forse non camminava più sulla terra, come il vecchio stregone, come il grosso cane che
anche lei aveva visto lanciarsi abbaiando contro la palizzata del giardino? Tra i neri del Vieux Carré, compresi i
suoi servi, le voci si sprecavano: c’era chi lo dava in fuga, chi morto, chi nascosto in città, chi già catturato e in
galera, a girarsi i pollici in attesa di un processo sommario e di una condanna certa: che non meritava, glielo
diceva il cuore.
“Se fosse morto, me lo sentirei dentro” pensava la donna. Le era capitato altre volte. Non le erano passati
presentimenti di morte per la testa, anzi, si sentiva straordinariamente tranquilla: Wade stava bene, glielo
diceva il cuore. Era in salvo, dove niente e nessuno avrebbe potuto nuocergli, Wade che come tutti gli idealisti
non aveva mai avuto paura dei suoi sogni e aveva fede nel futuro. Anche se, in fondo alla sua strada, forse
c’era la forca ad aspettarlo.
***
- Non toccare quella cosa, signorina Kitty! E’ del diavolo!
Prissy si era affrettata a strappare dalle mani l’oggetto che questa aveva raccattato da terra, giocando in
giardino:un sacchetto di pelle chiuso con una lunga stringa, che sicuramente doveva contenere qualcosa. Di che
genere, Prissy preferiva non saperlo, anche se non era difficile immaginarlo: era un gris-gris, una di quelle
terrificanti fatture del cerimoniale vudù, capaci di mandarti malattia, sventura e morte. La faccia della donna
s’era fatta grigia, i denti le battevano per la paura.
- Si può sapere che…
- Non lo toccate, Miz Rossella!
Gli occhi globosi di Prissy sembrarono lì lì per schizzare dalle orbite, quando le mani della signora strapparono
quel sacchetto dalle sue, lo aprirono e ne rovesciarono il contenuto: un ciondolo d’argento e di turchese; una
piuma di pappagallo; alcuni petali avvizziti di camelia; e la pagina di un libro, di un libro noioso che parlava di
capitalismo, proletariato e plusvalore, con sopra impressa l’impronta di una grande mano dalle lunghe dita.
FINE
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