avvenire - Fondazione Maddalena Grassi

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avvenire - Fondazione Maddalena Grassi
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IL MEETING DI RIMINI
Mercoledì
24 Agosto 2016
La storia
"Dall’amore
nessuno fugge" è
una mostra ricca
di testimonianze
preziose. Come
quella di chi ha
saputo dire addio
a faide e rapine
ALESSANDRO ZACCURI
INVIATO A RIMINI
ette colpi di coltello. Uno per
vendicare sua madre, gli altri
per sé e per i propri fratelli. Il
padre li aveva abbandonati, il padre
andava punito. È la regola che Daniel
Ruiz da Silva aveva deciso di seguire fin da ragazzo, quando aveva iniziato a frequentare la piccola criminalità di São João del-Rei, la città dello Stato brasiliano del Minas Gerais
dove il suo nome ha seminato, come dice oggi, «tanta tristezza». In
carcere per la prima volta a 15 anni,
per un breve periodo da cui resta segnato. E poi in strada, a imparare come si ruba, come si menano le mani, come si affrontano le gang degli
altri quartieri. Fino a quando uno
degli avversari non resta ucciso e comincia la faida. «Mi hanno aspettato sotto casa – racconta Daniel – ma
io continuavo a tardare. Così, al posto mio, hanno ammazzato mio fratello maggiore, che tornava dal lavoro. Con le rapine avevo messo da
parte molti soldi, li ho usati tutti per
comprare le armi e radunare una
mia banda. Sono arrivato ad avere
duecento uomini al mio comando».
A São João, in quegli anni di scontri
e agguati, si contano quattrocento
omicidi. Le sette coltellate, però, Daniel non le ha mai date.
Al Meeting le testimonianze si susseguono e sono tutte toccanti, tutte rivelatrici. Eppure davanti alla storia di
quest’uomo che adesso ha 32 anni, una moglie e tre figli (di cui due adottivi), si resta davvero senza parole.
Lui, Daniel, le parole ha invece imparato a usarle con misura ed esattezza, al punto da sbirciare sul taccuino del cronista per correggere eventuali imprecisioni. Allo stesso modo ha imparato ad avere rispetto di sé
e degli altri, a prestare cura e attenzione. Ha imparato, anzitutto, a perdonare.
Quando lo arrestano di nuovo non
ha ancora vent’anni e il primo dei
S
LA TESTIMONIANZA. Daniel Ruiz da Silva oggi ha 32 anni, una moglie e tre figli, di cui due adottivi
Dalle gang alla preghiera
«Ho imparato a perdonare»
Daniel, ex carcerato, ora aiuta altri detenuti brasiliani
Cresciuto tra la violenza di strada,
è finito in cella a 15 anni. Poi ha
scoperto la Bibbia. Ed è cambiato
quasi trenta processi in cui è imputato si conclude con una condanna a
37 anni. «Il giudice che seguiva il mio
caso era convinto che in tutto mi avrebbero dato quattro o cinquecento anni di prigione – ricorda –.
Non sarei mai più uscito da lì». La disperazione è tale che a un certo punto Daniel, con la pelle devastata da
un’infezione, chiede ai carcerieri di
essere ucciso. La sera stessa trova in
cella una Bibbia, la apre a caso, legge un versetto del Vangelo di Giovanni: conoscete la verità e la verità
vi farà liberi. «Non avevo mai pregato e non sapevo neppure come si
facesse – racconta –. Dalle nostre
parti l’affiliazione criminale avviene anche attraverso rituali satanici.
Ma in quel momento ho detto: Dio,
se esisti, cambia la mia vita».
Quello che accade dopo si lega in modo indissolubile alla realtà delle Apac,
le Associazioni di protezione e assistenza ai condannati che dal Brasile
si sono diffuse in oltre 40 Paesi del
mondo. Fondate nel 1972 dall’avvocato Mario Ottoboni, sono le "carceri senza carcerieri" in cui i detenuti
stessi (o, meglio, i recuperandi) si fanno garanti del proprio percorso di riabilitazione, attraverso una serie di
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Le suore dell’Assunzione
accanto agli ultimi delle periferie
SALUTE
L’esperienza.
ANGELO PICARIELLO
colissimo, sia stato lui stesso in
INVIATO A RIMINI
braccio alle suore dell’Assunzione, presenti anche nei quartieri
poveri di Buenos Aires.
ra mi sento imporIn Italia, invece, la prima espetante, sento che valrienza risale ai primi anni del sego qualcosa». «Ho
colo scorso al quartiere romano di
capito che c’è Qualcosa di più
Testaccio, sorto sui cocci del vecgrande che muove tutto». Alla
chio porto fluviale. Più di mezzo
mostra delle Suore di Carità delsecolo dopo l’incontro delle suol’Assunzione (“La vita per l’opera
re con don Giussani, in compadi un altro”) scorrono le istantagnia di padre Scalfi. Erano i temnee di tanti volti che documentapi di Gioventù studentesca, dei
no il loro «grazie». Volti che parlaprimi esperimenno delle tante «peti di “caritativa”
riferie esistenzianella Bassa milali» incontrate da
Anche
Papa
nese, e Giussani
questa esperienza
Francesco, da
rimase profondalegata al carisma
mente colpito da
di don Giussani,
bambino,
è
stato
questa esperienza
con una vita perassistito da queste che con iniziative
sino più lunga rispetto al movi- religiose, presenti in di doposcuola, di
cure sanitarie e
mento fondato
Italia da inizio ’900 aiuto nei bisogni
dal sacerdote di
più elementari nei
Desio. Perché in
quartieri più diffirealtà sono due i
cili era dedita a «generare un pocarismi che si sono incrociati, nel
polo a Dio». Alcune suore, per
1958, dopo la fondazione in Franconverso, attratte dall’esperienza
cia, nel lontano 1865, da parte dal
di Gs, si recarono in Brasile, e quepadre assunzionista Etienne Persto “travaso” di esperienze andò anett di questa opera di misericorvanti negli anni fino a dar vita a udia nata per portare il sollievo del
na nuova congregazione, indiVangelo nei sobborghi più dipendente dalla casa madre, sia
menticati della Terra.
pur in diretta continuità con l’inIn una bella foto Papa Francesco
segnamento iniziale, fino al ricotiene in braccio una bimba, figlia
noscimento pontificio, nel 1993.
di una coppia di Napoli seguita
dalle suore (presenti oggi anche
Esaurita nella prima parte con
a Torino, Milano, Trieste, Roma,
la lunga storia delle Suore della
Milano e Madrid) bimba che poi
Carità, la seconda parte della
lo stesso Pontefice ha battezzato.
mostra è tutta dedicata a storie
Raccontano che in quell’occasiodi vita vissuta, vita che sgorga ine abbia ricordato come, da picnaspettata e diventa gratitudi-
«O
ne nei volti di tante persone che
si raccontano nei video e nei
pannelli. Persino il fine-vita aiutato ad esser vissuto in ambito
familiare, diventa occasione per
non sentirsi come uno scarto da
ospedalizzare, ma realtà da vivere nella pace dei propri luoghi e nell’unità della famiglia,
fino all’ultimo.
Una storia lunga, poco amante
dei riflettori. «Questa mostra si
La mostra.
RIMINI
vissuto come un
disgraziato,
è
morto da re». In
questa frase, pronunciata da
un papà milanese di un giovane vissuto in maniera dissennata e morto troppo presto, è racchiuso il senso di una “casa che cura”.
Cura le gravi disabilità, i malati psichiatrici, gli affetti da
patologie neurodegenerative
e infettive, gli anziani e i malati post acuti. Ma soprattutto la casa dove la «relazione è
per sempre». «Scienza, tecnica, gestione e professione,
necessarie e doverosamente
espresse al massimo, non sono sufficienti a regalare un orizzonte di speranza all’ammalato: l’umanità è la cura».
«È
"L’abbraccio del pallium"
Se medicina e bellezza
danno forza nella malattia
rivela una sorpresa per tanti»,
spiega il giornalista Ubaldo Casotto, curatore, con Giuseppe
Feyles. «La gente va via commossa, e lo dice ad altri. Il primo
giorno abbiamo avuto 700 visitatori, il secondo, con il passaparola, sono diventati già 2mila, e così via». Come una buona
notizia che ti va di annunciare
anche ad altri.
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Quando la “cura” è dentro la “casa”
PAOLO GUIDUCCI
Sorride, Alessandro Pirola:
lui, manager della sanità dal
curriculum più lungo di una
diagnosi, da 25 anni testimonia (e assiste) la speranza ritrovata sul campo. Quella che
anima la Fondazione Maddalena Grassi: due decine di
milioni di euro di fatturato,
150 dipendenti, 1.800 persone assistite all’anno, 20mila
in un quarto di secolo tra cui
minori con gravi disabilità e
persone in stato vegetativo.
Tutti accolti, assistiti e accompagnati come si fa con il
“Tu” che è “un bene per me”.
Storia, volti, gesti della Fondazione sono raccontate al
Meeting in una mostra che
non lascia scampo alla retorica (e nel libro “La casa, la
cura” scritto da Pirola per Itaca) ed è accompagnata da
un video del regista-docu-
passaggi nei quali la dignità del lavoro si intreccia con il rinsaldarsi delle
relazioni familiari. Nello stesso tempo, Apac è l’acronimo di "Amando il
prossimo amerai Cristo", una formula che rinvia all’importanza della
dimensione spirituale. Sono gli elementi che si ritrovano nella mostra
"Dall’amore nessuno fugge", allestita al Meeting in collaborazione con la
Fondazione Avsi. Allo stand Daniel è
una presenza fissa, e non soltanto come ex carcerato: dopo essere stato
per due anni gestore di una Apac, attualmente lavora come supervisore
al corretto impiego del percorso metodologico. Un incarico di cui va molto fiero, ma che non è stato facile da
raggiungere.
Per arrivare fin qui Daniel ha dovuto
superare lo scetticismo di chi lo considerava irrecuperabile, sopportare
la brutalità della detenzione in una
cella di quattro metri quadrati, scrivere di suo pugno la richiesta di inserimento in una Apac, vincere la sorpresa di ritrovarsi nella stessa struttura in cui erano detenuti gli assassini del fratello. La svolta definitiva è
venuta durante le Giornate di liberazione in Cristo, che dell’itinerario di
rinascita fanno parte integrante. «È
stato in quell’occasione che ho deciso di uscire dal crimine per sempre»,
spiega. Neanche una settimana dopo, però, Daniel riceve una visita della madre. Con lei c’è un uomo mai visto prima: «Era mio padre e mi è sembrato che ogni buon proposito svanisse. Per 27 anni avevo aspettato
quell’istante, senza sapere che anche
lui, da giovane, era stato in prigione
per sette anni. L’ho scoperto quel
giorno, capendo finalmente come
mai mia madre continuasse a dire
che mio padre e io ci assomigliavamo
tanto. Solo allora sono riuscito a perdonare. Ho detto a mio padre che gli
volevo bene e che chiedevo la sua benedizione. Ci siamo abbracciati e lui
se n’è andato. Non l’ho più rivisto, ma
la mia vita è cambiata davvero».
mentarista Paolo Lipari: «A
passo d’uomo ho scoperto
che c’è cura e cura. C’è casa e
casa. E a far la differenza non
sono i massimi sistemi ma i
minimi gesti. Uno su tutti, il
sorriso».
Erano quattro amici, ma non
al bar come nella hit di Gino
Paoli, ma nelle corsie degli ospedali e delle strutture sanitarie. Alessandro, Luciano,
Maurizio e Marco raggiunti
da un sovrabbondanza di bene, sentono la necessità di restituirne. Iniziano così a visitare agli ammalati di Aids, soli e non di rado in contesti familiari distrutti. Quell’esperienza si incrocia con il desiderio della famiglia di ricordare la 18enne Maddalena
Grassi e il modo con cui era
stata curata fino alla morte:
la Fondazione è realtà. E si
mette a correre quando (è il
1994) i coniugi Gina e Mario
Zerpellon donano la loro casa di carità a Seveso: 10 posti
letto, la porta per una possibilità di vita per tutta la vita è
aperta. Oggi la Fondazione
conta due case di accoglienza per persone con immunodeficienza acquisita, due
comunità protette per persone con malattia psichiatrica,
una residenza sanitaria per
persone con grave disabilità.
E organizza corsi di formazione e master con l’Università Statale di Milano. «E la
gratuità attira gratuità – rilancia il vice presidente Marco Botturi –. Siamo oggetto di
tanta beneficenza». Grazie alla buona gestione delle risorse, la Fondazione investe
continuamente.
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Pochi ne sono consapevoli, ma il termine “palliativo” viene da pallium, il manto sotto il quale la Madonna accoglie i fedeli in tante raffigurazioni dell’arte medievale e rinascimentale, celebre fra tutte quella di Piero della Francesca. A osservare con attenzione, però, il
profilo del mantello è riconoscibile anche nell’architettura delle caravaggesche Sette opere di misericordia. Cura e bellezza, prossimità
e cultura sono le coordinate di “L’abbraccio
del pallium”, la mostra realizzata al Meeting
dall’associazione Medicina e Persona in collaborazione con Banco Farmaceutico (catalogo Itaca). Attenzione, perché questa volta i
capolavori della scultura e pittura non servono solo da illustrazione. «Queste immagini –
spiega Paola Marenco, che di Medicina e Persona è vicepresidente – esprimono con forza
straordinaria la domanda dell’uomo davanti alla sofferenza, il suo desiderio di non abbandonare la vita e, insieme, di trovare un senso
nella morte». Grande spazio è dedicato alla figura della britannica Cicely Saunders (19182005), fondatrice dei moderni hospice: «Una
personalità relativamente poco conosciuta e
che invece merita di essere riscoperta e studiata», sottolinea il presidente di Banco Farmaceutico, Marco Malinverno. «Anche nel nostro impegno per contrastare la povertà sanitaria – aggiunge – ci rendiamo sempre più
conto di come il bisogno fondamentale sia
quello di essere riconosciuti e rispettati nella
propria dignità di persone. Ma per fare questo occorre una visione ampia, globale, alle cui
origini una mostra come questa ci invita a ritornare». Nato nel 2000 dall’accordo fra Compagnia delle Opere e Federfarma, il Banco
Farmaceutico promuove ogni anno la raccolta di medicinali destinati a soggetti indigenti:
nel solo 2016 i farmaci ottenuti in questo modo sono stati più di 350mila.
Alessandro Zaccuri
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