8 marzo: la festa della donna, del familismo morale e

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8 marzo: la festa della donna, del familismo morale e
“8 marzo: la festa della donna, del familismo
morale e del coraggio di dire di no”
di Michele Di Stefano
“ L a mafia uccide, il silenzio pure” 1 era il motto coniato da un coraggioso giornalista falciato dal
piombo delle mafie: quel “coraggio di dire di no” che è costato la vita, dopo di lui, a tante donne
coraggiose ed innocenti.
In queste pagine, che vengono dedicate alla “Donna” nel giorno della Sua festa, cercheremo di
addentrarci nella “sociologia della comunicazione nel pianeta della ‘ndrangheta”, uno scenario
complesso ove proveremo ad individuare alcuni nessi, di primo acchito apparentemente
irrazionali, tra teorie e concetti formulati da illustri giuristi, politologi, scienziati, filosofi ed
antropologi, che a vario titolo hanno collocato la Donna al centro del familismo morale moderno.
Nella leggenda, il familismo e l’onore della ‘ndrangheta trovano origine nella Spagna del XV secolo;
nella cittadina di Toledo tre fratelli appartenenti all’associazione cavalleresca de la Garduna, dopo
aver subito un grave affronto familiare che aveva arrecato disonore ad una loro sorella, avevano
giurato di mantenere la fede ai riti ed alle consuetudini di quell’associazione, così decidendo di
vendicare con il sangue “l’onore violato”.
Quindi i tre nobili, Osso, Mastrosso e Carcagnosso 2, insofferenti della rigida giustizia aragonese,
rintracciarono ed uccisero l’uomo che aveva osato contaminare l’onorabilità della loro famiglia.
Da qui il loro trasferimento in una fortezza aragonese nella sperduta isola di Favignana, in Sicilia,
dove con orgoglio e forte spiritualità i tre cavalieri scontarono la condanna a trent’anni di rigida
reclusione.
1
www.peppinoimpastato.com, Giovanni Impastato a proposito della marcia di Locri: Peppino diceva: niente silenzio, di Giovanni Impastato per
l’Unità, pubblicato il 4 novembre 2005: “[…] Lo striscione originale è ancora conservato, intatto, come 27 anni fa. C'è scritto: «La mafia uccide, il
silenzio pure». Lo mostravano, tenendolo bene in vista per le strade di Cinisi, i compagni di Peppino, che lo accompagnarono al suo funerale, quel
giorno di maggio del 1978. Peccato, ragazzi di tutta la Calabria, che non farò in tempo a prestarvelo per la vostra marcia della speranza di domani, a
Locri, io sono in Toscana con la Carovana Antimafia, ma vi invito a scriverne uno con quelle stesse parole, sintesi della battaglia che mio fratello ha
condotto fino alla morte […]”.
2
E. Ciconte, V. Macrì , F. Forgione, Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Immagini, miti e misteri della ‘ndrangheta,
(2010).
Rubettino editore, Catanzaro
1
Al termine della pena Osso, Mastrosso e Carcagnosso - depositari di quei saperi, riti, usanze e
simboli della nobile associazione cavalleresca – rinnovati nello spirito avrebbero iniziato un nuovo
percorso di affiliazione e di lotta seguendo un unico filo conduttore: l’onore e l’omertà3.
Osso si sarebbe stabilito nella più vasta Sicilia, qui gettando le fondamenta di cosa nostra;
Mastrosso, attraversato lo Stretto, avrebbe fondato la ‘ndrangheta e, da ultimo, Carcagnosso si
sarebbe spinto fino alla Campania, dando origine alla prima forma di camorra.
Le tre realtà criminali si sarebbero poi evolute nel secolo scorso, in parte mantenendo alcune
caratteristiche similari; nella storiografia più recente è stato però rilevato che la ‘ndrangheta,
seppur coltivando legami, tradizioni e talune consuetudini proprie della mafia non ha, come la
nuova camorra organizzata, mantenuto una ferrea contiguità con il sistema insulare, brillando di
luce propria grazie, soprattutto, al proprio protocollo affiliativo imperniato sul vincolo parentale,
risultato meno permeabile da condizionamenti esterni e di fenomeni di “pentitismo” a pioggia.
A ciò va aggiunta la capillare ramificazione che il fenomeno ‘ndrangheta è riuscita a conseguire,
insinuandosi, quale storica e diretta conseguenza della diaspora migratoria del dopoguerra, non
solo nel settentrione della penisola ma in altre realtà comunitarie in fase di sviluppo, generando
nuove colonie calabresi autoctone in Europa ed oltr’oceano.
La ‘ndrangheta è, come gli altri sistemi criminali storicamente noti, una macrostruttura di potere,
costituita da una propria struttura societaria, secondo un rigido protocollo normativo “giuridico” 4
ed apparati organizzativi caratterizzati dal principio cardine della segretezza, inquadrabile quale a
sé stante ordinamento giuridico extra ed anti statuale.
Nell’ordinamento criminale del “sistema ‘ndrangheta” il fondamentale elemento costitutivo è
individuato nel “popolo militante”: si tratta di una complessa comunità criminale costituita da
soggetti partecipi detti “affiliati” che dopo essersi stabilmente inseriti in tutto il tessuto sociale
calabrese sin dai primi anni del dopo guerra 5, nel tempo hanno acquisito maggiore “dignità
criminale” alle volte barattando la propria manovalanza in progetti di destabilizzazione
terroristica 6, man mano radicandosi –una volta acquisita una autoreferenzialità di rilievo - a
macchia di leopardo laddove mercati, norme giuridiche e contesto sociale ne hanno favorito la
proliferazione.
3
www.perlacittà.it, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, di A. Fragapane, pubblicato il 20 luglio 2011: “[…] Toledo, regno di Spagna del XV secolo. Tre
fratelli appartenevano ad un’associazione cavalleresca, denominata la Garduna e fondata nella stessa Toledo nel 1412: in essa operavano e per la
stessa agivano secondo consuetudini e riti collaudati e da tutti accettati. Fino a quando decisero di vendicare con un atto di sangue l’onore violato
della sorella, uccidendo colui che aveva arrecato un tale disonore alla loro famiglia. Loro si chiamavano Osso, Mastrosso e Carcagnosso ed a causa
dell’azione di vendetta, per pagare il loro debito con la giustizia, furono condannati ed incarcerati nella lontana isola di Favignana, all’epoca
territorio spagnolo, all’interno di un fortificato carcere aragonese, del quale oggi sembra siano state ritrovate alcune celle adibite a luogo di tortura.
Nella piccola isola dell’arcipelago delle Egadi, i tre rimasero prigionieri per quasi trent’anni, esattamente per il singolare periodo di ventinove anni,
undici mesi e ventinove giorni, per poi venir fuori dalle viscere penitenziarie spagnole agli albori del trentesimo anno. Ma nei tre protagonisti,
durante questo lungo periodo, qualcosa inesorabilmente era cambiato. I tre cavalieri interpreti di questa leggenda uscirono dal carcere nella veste
di uomini nuovi, depositari di saperi, riti, usanze e simboli tra loro diversi ma tutti legati da un unico filo conduttore : l’onore e l’omertà. La leggenda
si conclude con la loro separazione, che vide Osso rimanere in Sicilia, e qui gettare le basi di Cosa Nostra, Mastrosso varcare lo stretto e fondare la
‘ndrangheta in Calabria ed infine Carcagnosso spingersi fino alle terre dell’antica “Campania felix”, dove edifica l’impalcatura camorristica. […]”.
4
N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Giappichelli Editore, Torino (1958), pag. 229: La finalità del fenomeno giuridico è quella di ordinare la
realtà sociale, cioè che questa si svolga in conformità ad un dato ordine.
5
Cfr. archivio Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, richiesta di misure cautelari procedimento Olimpia, Cap. 18: “[…] All' interno della
'ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, almeno nel dopoguerra, convivono pacificamente tendenze diverse. Gli studiosi che si sono occupati
della storia della 'ndrangheta hanno stabilito che, alla fine della seconda guerra mondiale, in molti comuni della fascia jonica i mafiosi che tornavano
dal confino, al quale erano stati assegnati durante il regime fascista, portavano tra i vari tatuaggi anche quello della "falce e martello", a ragione
dell' indottrinamento ricevuto dai confinati politici di area socialcomunista che avevano incontrato nei luoghi di confino. Fu così che in molti
Comuni jonici l' appartenenza al PCI non era incompatibile con quella alla "onorata società", sicchè era possibile trovare sindaci comunisti che
erano nello stesso tempo "uomini d'onore". Sotto questo riguardo valgano come esempio i casi di Cardeto, Africo, Canolo, Platì, Caulonia e altri
ancora, mentre a livello familiare si possono ricordare i Bruzzaniti e Maviglia ad Africo, i Catanzariti a Platì, i D'Agostino a Canolo […]”.
6
“[…] Ivi, Accanto a questi fenomeni di politicizzazione ideologica, ne convivevano sicuramente altri, di tipo filogovernativo, che tuttavia non
assumevano aspetti di particolare "visibilità" esterna, mentre non vi erano tracce di tendenze di tipo diverso. Ben diverso, anzi profondamente
alterato, è il quadro che si presenta dinanzi all'osservatore a partire dagli anni '70, o in quelli immediatamente precedenti, epoca in cui si realizza un
vero e proprio stravolgimento degli orientamenti e dei progetti della 'ndrangheta reggina, in singolare sintonia con gli sconvolgimenti che in quegli
anni percorrevano lo scenario politico del paese, all'interno del quale si affacciavano prepotentemente movimenti eversivi di varia tendenza, che
avrebbero caratterizzato tristemente l'intero decennio, immergendo il paese in cupi anni di piombo e di sangue, di terrorismo e di stragi […]”.
2
All’interno della popolazione della ‘ndrangheta, il relativo “status” di cittadino, o più
compiutamente, l’etichetta di “appartenenza”, trova riscontro solo a sèguito di un tortuoso,
quanto rigido, iter rivolto a saggiare l'affidabilità e l'attitudine criminale del reclutando 7, previo un
congruo periodo si “osservazione” e di “esame valutativo ” a cura di militanti intranei al sistema,
che si assumono l’onere di certificare le doti criminali della recluta, sotto la veste di “garanti”.
In detto contesto è, ovviamente, inesistente quella forma di “diritto” descritta quale “insieme
delle condizioni che consentono all'arbitrio di ciascuno di coesistere con l'arbitrio degli altri,
secondo un principio generale di libertà” 8.
Preliminarmente, è opportuno operare un fondamentale distinguo rispetto i criteri meritocratici
criminali dell’omologo sistema insulare della “mafia” ed al cosiddetto battesimo di sangue con la
“pungiutina”, in quanto l’onorabilità del criminale calabrese è tradizionalmente tramandata di
padre in figlio, attraverso il riconoscimento del “casato”, conferendo, ai figli maschi dell'uomo
d'onore della ‘ndrangheta, il privilegio di acquisire il diritto "nelle fasce", cioè dalla nascita,
conseguentemente ereditando, nella sostanza, l'investitura criminale dai titoli conseguiti in
precedenza dall'ascendente diretto.
La filosofia della ‘ndrangheta è descritta dal c.d. albero della scienza, rivolto a raffigurare nel fusto
di una grande quercia la forza e l’imponenza del sistema familiare su cui si impernia il modello
criminale calabrese:
Giovane d'onore
Giovane d'onore
Giovane d'onore
Giovane d'onore
Giovane d'onore
CONTABILE
Giovane d'onore
Giovane d'onore
Carogne
Traditore
9
7
F. Fonti, Io Francesco Fonti pentito di ‘ndrangheta e la mia nave dei veleni, Falco Editore, Cosenza (2009), pagg. 9 - 10: “[…] Avevo meno di
vent’anni ma nel sud questa è l’età buona per essere affiliato. Studente liceale, iscritto all’università, buona famiglia: l’ideale per i progetti mafiosi
degli uomini invisibili[…]Trascorrevo diverso tempo con queste persone ad ascoltare le storie di alcune loro avventure e dei vantaggi che si avevano
a far parte di quella organizzazione […] queste frequentazioni mi influenzavano molto e mi spingevano ad ammirare questo tipo di organizzazione,
infatti mi comportavo in modo rispettoso, immaginando che così facendo un giorno qualcuno di questi personaggi mi avrebbe finalmente
introdotto nelle loro fila. Mi attirava la segretezza di questa associazione, dal modo di parlare tra il dire e il non dire a come i suoi affiliati erano
rispettati nel loro paese e anche al di fuori di esso: quando entravano nel bar erano riveriti da tutti i presenti, dall’operaio all’assessore comunale,
senza distinzione. Ero ammaliato dai racconti, certamente romanzati, di come i vecchi capobastone aiutavano chi avesse bisogno e tenevano alla
parola data come il primo punto d’onore; prendevano ai ricchi per dare ai poveri[…]”.
8
citato in Immanuel Kant, Stato di diritto e società civile, a cura di Nicolao Merker, Editori Riuniti, Roma (1982).
9
Archivio Direzione Investigativa Antimafia di Reggio Calabria: grafico ispirato ad un dipinto rinvenuto nell’abitazione di un “capo bastone”.
3
L’albero descrive alla base la figura l’elemento di vertice di una ‘ndrina, detto capo bastone; il
fusto rappresenta poi i soggetti trainanti del sistema, gli sgarristi; seguono i rami più grandi che
simboleggiano i camorristi, fino ai rami più fragili indicanti i picciotti e, da ultimo, le foglie verdi
raffiguranti i soggetti che, seppur non affiliati, sono comunque di supporto al sodalizio e vengono
definiti contrasti onorati 10.
Infatti è proprio il vincolo di sangue, il cosiddetto principio del familismo amorale, a distinguere il
pianeta ‘ndrangheta da tutte le altre associazioni criminali organizzate, attribuendole una dignità
ed una referenzialità uniche nel contesto criminale mondiale, così da consentirle non,
semplicemente, di contraltare ad armi pari con i temuti cartelli mondiali del narco-traffico e del
crimine transnazionale ma, addirittura, di manovrarne e condizionarne business, consensi,
alleanze ed espansionismi territoriali.
Le basi morali di una società arretrata 11 erano state oggetto di approfondito studio negli anni ’60
di Edward C. Banfield, il quale, partendo dal concetto associativo progressista di Alexis de
Toqueville, giunse ad ipotizzare che l’arretratezza di talune comunità fosse da attribuirsi a
radicate ragioni culturali, ove il concetto del legame di sangue nel vincolo familiare, sarebbe
stato caratteristico quale elemento portante della capacità associativa nell’interesse della
collettività.
Il sociologo stabilì la regola cardine nelle comunità consanguinee del "massimizzare unicamente i
vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si
comportino allo stesso modo", attribuendo a detta “etica dei rapporti familiari” la ragione
dell’arretratezza.
Da qui il concetto di “familismo” 12, ove l’interesse individuale viene perseguito esclusivamente
nell’interesse del proprio nucleo familiare di sangue
attraverso regole spregiudicate,
conseguentemente “amorali”, ed ove l’ordinamento giuridico 13 della comunità trova esclusiva
espressione all’interno della stessa “famiglia” giammai estendendosi alla complessiva comunità
organizzata che ricade sotto l’egida di quel “casato”.
In questo ristretto alveo, il “bene” ed il “male” trovano distinzione solo all’interno del ristretto
nucleo familiare, al contempo palesando la totale assenza di ethos comunitario, caratterizzato da
relazioni sociali morali di facciata e meramente opportunistiche tra famiglie e tra individui
all'esterno del nucleo consanguineo del “casato”.
Distinguo, quello del “bonus” e del “malus” che, dopo aver trovato ridondante rappresentazione
cinematografica sin dai tempi de “Il Padrino”, storico capolavoro del regista Francis Coppola, lì
focalizzando le peculiarità del familismo amorale anche negli spaccati più intimi della vita
quotidiana, ha trovato negli anni a venire una diversa ed innovata interpretazione, questa volta
10
www.osserbari.files.wordpress.com, N. Palmieri, Le origini della ‘ndrangheta, Osservatorio per la legalità e la sicurezza di Bari: “[…] La
‘ndrangheta […] è rappresentata dall’Albero della scienza, una grande quercia alla cui base è collocato il Capo bastone, capo assoluto, detto anche
Mammasantissima. Il fusto della quercia rappresenta invece gli sgarristi, che sono poi la colonna portante della ‘ndrangheta, il rifusto (i rami che
partono dal tronco) è il simbolo dei camorristi, affiliati di secondo piano. Infine, sulla pianta ci sono i ramoscelli, ossia i picciotti, e le foglie, che
indicano i cosiddetti contrasti onorati, soggetti all’organizzazione ma non affiliati. La foglie che cadono sono gli infami che sono destinati a morire. Si
rifletta sull’efficacia della rappresentazione e sulla forza di suggestione legata anche all’immagine dell’albero, elemento familiare del panorama e
dell’osservazione quotidiana: la struttura e la potenza dei vari elementi dell’albero sono direttamente proporzionali alla potenza e all’importanza
della scala gerarchica. […]”.
11
E.C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, (1958), traduzione italiana Le basi morali di una società arretrata, Editore il Mulino,
Milano (1976).
12
www.onap-profiling.org, I giovani e la ‘ndrangheta , di Andrea Palumbo, Anno 2 – N. 4 – dicembre 2011, FocusMinori: “[…] È infatti la famiglia il
nucleo principale dell’associazione criminale e, di conseguenza, si può riscontrare un ragguardevole rispetto tra figli e genitori i quali, spesso,
vengono considerati come eroi da imitare. Forte anche il senso di appartenenza all’associazione criminale, tanto che i giovani, in caso di necessità,
sono pronti a sacrificarsi pur di proteggere i loro compagni e in rispetto delle regole d’onore. […] . Ancora oggi, fedeli alle tradizioni più arcaiche
questa resta una verità radicata, nel profondo, delle famiglie di ‘ndrangheta. Falcone ebbe a dire: “l’educazione mafiosa come socializzazione a
diventare non-persone, si traduce nella individuazione di un soggetto che non ha spazio per le emozioni, che utilizza la violenza come espressione di
indifferenza verso l’altro” […]”.
13
P. Rescigno, Manuale di diritto privato italiano, Jovene Editore, Napoli (1985) pag. 15: “Il segno di distinzione di ogni comunità organizzata è il
diritto. Con il termine diritto si fa riferimento alle forme in cui ciascuna società si organizza, si ordina: di qui l’altra espressione ordinamento
Giuridico”.
4
introducendo – con l’avvento delle tante, gettonatissime, fictions poliziesche – il concetto di
familismo “morale” 14.
In queste fictions si rileva l‘ostinata coerenza dell’universo ideologico ove: “[…] non solo le ragioni
che spingono gli eroi istituzionali a ripristinare legge e ordine originano nella sfera privata, ma
anche la devianza, la delinquenza, i comportamenti antisociali sono ritagliati nell’area delle
motivazioni individuali. In particolare, è all’interno della famiglia (biologica) che il crimine si
produce, entro le nevrosi e ossessioni che sprizzano dai legami corti di sangue; è grazie alla
famiglia, o ai valori del familismo, che il crimine viene circoscritto e punito […] La società non viene
mai chiamata in causa, preferendo rovistare tra narrative dei singoli, tra i loro più stretti legami
naturali e/o affettivi […]” 15.
I richiami ai frammenti di “storia & romanza” del crimine cennati fino questo momento palesano
l’esistenza di un’entità incolore, definita mafia a cui, spesso, è stato storicamente assimilato un
altro fenomeno social-delinquenziale: la camorra.
E’ proprio detto modello, negli anni evolutosi con l’avvento della strategia cutoliana 16 della n.c.o. e
con le interminabili faide degli “scissionisti”, che trova con la mafia più articolato compendio nella
sociologia della comunicazione, divenendo per anni modello mediatico da cineteca.
Se, da una parte, Brando 17, Pacino 18 e De Niro 19 sono riusciti magistralmente ad interpretare ruoli
di mafiosi siculo americani incarnando personaggi ove è delineata – nel concetto della “malavita”
– quella crudele spietatezza che vede nel familismo amorale unico distinguo cromatico, per altro
verso Merola 20, D’angelo 21 ed i tanti artisti partenopei – del dopo Totò e Peppino - per anni
prodotto della celluloide, hanno proiettato un delinquente più “umano”, che nel quotidiano dei
quartieri e dei vicoli di Napoli cerca di sbarcare il lunario e “campare” la famiglia 22, in un’ottica più
di sopravvivenza che di egemonia del potere.
Nel contesto del familismo trova rilievo, ancora, la spregiudicatezza del modello e delle sue regole
di sangue attraverso un rinnovato caino 23 contro abele 24, questa volta pronto ad ablare con la
morte le violazioni del codice delle mafie, anche nei confronti del proprio consanguineo.
14
E. Giomi, Il familismo morale pubblico e privato nelle rappresentazioni della fiction poliziesca italiana, working papers, LUISS University, CMCS
Roma (2009), pag. 36: “[…] In almeno tre delle serie televisive prese in esame (Ris, Distretto di Polizia, La Omicidi) pare di scorgere una versione
aggiornata del familismo amorale, il familismo “morale”: si può essere buoni, professionalmente efficaci e civilmente impegnati solo in quanto
membri di una famiglia biologica e non. L’accento sull’appartenenza familiare come unico ethos condiviso e condivisibile, che tinge in sé ogni altra
forma di etica o deontologia, finisce inevitabilmente per ridurre o subordinare il bene comune a questioni di tipo privato[…]”.
15
Ibidem.
16
Nel 1970 nasce la nuova camorra organizzata (N.C.O.), una struttura criminale piramidale e paramilitare, imperniata sul “culto” di un solo
soggetto verticistico, detto “vangelo” ed identificato in Raffaele Cutolo. In questo contesto gli affiliati sono investiti da un’autorità criminale
attraverso i ruoli di picciotto, camorrista, sgarrista, capozona e santista.
17
Il padrino, film diretto da Francis Ford Coppola (1972).
18
Scarface, film da Brian De Palma (1983), Serpico, diretto da Sidney Lumet (1973), Il padrino - Parte II, film diretto da Francis Ford Coppola
(1974), ed Il padrino - Parte III (1990). Carlitos Way, di Brian De Palma (1983), Donnei Brasco di Mike Newell (1997).
19
Il padrino - Parte II, film diretto da Francis Ford Coppola (1974), ed Il padrino - Parte III (1990). C’era una volta in America di Sergio Leone (1984),
Quei bravi ragazzi di Martin Scorzese (1990) Gli intoccabili di Brian De Palma (1987), Casinò di Martin Scorzese (1995), Terapia e pallottole di
Harold Ramis (2002) , Bronx diretto da Robert De Niro (1993).
20
Sgarro alla camorra, regia di Ettore Maria Fizzarotti (1973); L'ultimo guappo, regia di Alfonso Brescia (1978); Napoli... serenata calibro 9, regia di
Alfonso Brescia (1979); Il mammasantissima, regia di Alfonso Brescia (1979); Napoli... la camorra sfida e la città risponde, regia di Alfonso Brescia
(1979); I contrabbandieri di Santa Lucia, regia di Alfonso Brescia (1979); Da Corleone a Brooklyn, regia di Umberto Lenzi (1979); Sbirro, la tua legge
è lenta... la mia no!, regia di Stelvio Massi (1979); Zappatore, regia di Alfonso Brescia (1980); La tua vita per mio figlio, regia di Alfonso Brescia
(1980); Carcerato, regia di Alfonso Brescia (1981); Lacrime napulitane, regia di Ciro Ippolito (1981); Napoli, Palermo, New York, il triangolo della
camorra, regia di Alfonso Brescia (1981); I figli... so' pezzi 'e core, regia di Alfonso Brescia (1982); Tradimento, regia di Alfonso Brescia (1982);
Giuramento, regia di Alfonso Brescia (1982); Guapparia, regia di Stelvio Massi (1984); Torna, regia di Stelvio Massi (1984); Cient'anne, regia di Ninì
Grassia (1999); Sud Side Stori, regia di Roberta Torre (2000); Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio, Documentario
(2004).
21
Celebrità, regia di Ninì Grassia (1981), Tradimento, regia di Alfonso Brescia (1982), Giuramento, regia di Alfonso Brescia (1982), Lo studente,
regia di Ninì Grassia (1983).
22
Il latitante, film diretto da Nini Grassia (2003): Per procurarsi il denaro necessario alle cure del padre malato, l’operaio Nicola, interpretato da
Karimm Capuano, si rivolge a Don Antonio, boss della camorra rendedosi disponibile a compiere crimini per conto dell’organizzazione. Poi
coinvolto in una sparatoria dove muore un poliziotto, diventa un latitante, in fuga tra Napoli, Palermo, Roma e la Calabria, da una parte braccato
dalla polizia e dall’altra strattonato dai vortici della criminalità.
23
AA.VV., Nessuno tocchi caino, la pena di morte nel mondo. Rapporto 2011, Feltrinelli Editore, Milano (2011).
5
Eccezione, fermamente mantenuta rispetto alla regola amorale generale, è stata per molti anni
quella “a tutela” delle donne e dei bambini, da ritenersi immuni da qualsivoglia ritorsione, ed a
costoro conferendo una sorta di “sacralità” familiare 25.
Ovviamente a meno che fosse posto in discussione il principio dell’ onore, certamente ben più
consistente, sui due piatti della bilancia, rispetto al diritto alla vita, in tal caso “soccombente” nel
senso letterale del termine.
E non bisogna scandalizzarsi se quel principio amorale, fatto di sangue del proprio sangue, sia
stato riconosciuto statualmente per mezzo secolo quale strumento di disprezzo della donna e
della sua creatura, qualora costei abbia arrecato offesa all’onor (del maschio) o della (di lui)
famiglia.
Tutto ciò in un assurdo, inconcepibile, contesto ove “tolleranza” e “(a)morale” sarebbero state
ritenute concetti della legge speciale, confezionati a guisa di quello stesso maschio libero di
barattare con qualche spicciolo, ogni qual volta ne avesse avuto desiderio, la carne della
femmina 26 come merce del proprio svago fuori dalla sacralità delle mura domestiche, lasciando
illibato quel suo sentirsi patronus di un vincolo concubino, più che legato da una comune,
gradita, volontaria affectio coniugalis 27.
Una grottesca realtà ove l’Italia di quel tempo, non molto distante, aveva ritenuto che “l´intero
edificio (fosse) basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia” 28.
24
www.railibro.rai.it, Nessuno tocchi Caino, di A. Radiconcini, pubblicato il 27.1.2013. “[…] E. Zamparutti: Non è vero che il fine giustifica i mezzi, è
vero il contrario, il fine è prefigurato e pregiudicato dai mezzi che usiamo per conseguirlo, e se il mezzo è violento, il risultato non può essere
diverso, altro che violento, cattivo, ingiusto […]”.
25
A. Nicasio, La mafia spiegata ai ragazzi, Mondadori editore, Milano (2010), pag. 9: “[…] Quando ero bambino, della mafia non si parlava. Era un
parola che nessuno pronunciava mai, un concetto che non esisteva, l’assurdo parto immaginario di qualche folle, una minaccia che aleggiava, senza
nome e senza volto. Nella primavera del 1971 – ero in prima elementare – seduto accanto a me c’era un bambino dagli occhi tristi. Gli avevano
ammazzato il padre e nessuno aveva visto nulla. Solo molto dopo ne conobbi il motivo: s’era rifiutato di comprare il ferro dai mafiosi che
controllavano la zona Non ci volle molto per capire che quella mafia parsimoniosa nell’uso della violenza, rispettosa dei più deboli e, soprattutto,
delle donne e dei bambini, di cui invece si sentiva sussurrare spesso, non era mai esistita. La mafia che ho imparato a conoscere mi ricorda tanto i
bulli che circolavano attorno alla scuola, prepotenti e violenti, ma solo quando si spalleggiavano a vicenda. Cercavano di intimorire, costringendo al
silenzio. […]”.
26
La Repubblica, Il lungo addio alle case di piacere, di C. Augias, pubblicato il 10 febbraio 2008: “[…] L´idea della socialista Lina Merlin era che ogni
prostituta doveva almeno poter scegliere la quantità delle sue prestazioni e godere per intero del suo guadagno. A chi le obiettava che non sarebbe
certo stata lei a spiantare il mestiere più antico del mondo, rispondeva che infatti non era quella la sua intenzione. Da vera socialista, nel senso
nobile del termine, lei voleva solo restituire alle puttane un minimo di umana dignità. Sarebbe possibile oggi riaprire i casini, come qualcuno di tanto
in tanto propone? Non credo, non in quella forma almeno. Il postribolo è stato il figlio di un tempo e di una cultura entrambi scomparsi. Restano il
problema sanitario, quello della criminalità e quello dello sfruttamento, oggi diventato spesso schiavismo. Qualcuno prima o poi dovrà affrontarlo;
anche se non sarà facile […]”. (Angelina Merlin, Legge 20 febbraio 1958, n° 75. Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro
lo sfruttamento della prostituzione altrui).
27
www.donnamed.unina.it, La donna nel Mediterraneo. Il concubinato, di M. Panico e C. Pirozzi: “[…] Nell'ambito dei rapporti tra uomo e donna il
concubinato a Roma assume un certo rilievo lungo una linea diacronica che interessa tutta la civiltà romana. Per concubinato si intende in genere
una relazione tra due persone non sancita dal vincolo matrimoniale. Dal punto di vista giuridico è definito come una unione paramatrimoniale, in
quanto presenta connotati analoghi a quelli del matrimonio, pur differenziandosi per alcuni aspetti. Il concubinatus, infatti, si configura come una
convivenza manifesta e continuata tra un uomo e una donna, ma priva dell'affectio coniugalis, ossia della comune volontà di stare insieme.
Differente era la posizione sociale dell'uomo e della donna che sceglievano di vivere in concubinato: le fonti parlano di patronus e di liberta e di
militari uniti a donne della provincia. Dal punto di vista storico non è possibile individuare un periodo preciso in cui questo tipo di rapporto si sia
diffuso nel mondo romano, in quanto la prima codificazione in materia matrimoniale si ha a opera di Augusto, con la lex Iulia et Papia Poppaea. La
necessità di una tale regolamentazione fa pensare a buon diritto che la pratica del concubinato fosse ampiamente diffusa e variamente praticata;
d'altro canto la capacità di ogni essere vivente di unirsi e procreare rientra tra i presupposti dello ius naturale, del diritto non codificato. A questo fa
riferimento Cicerone quando afferma che nel coniugium può riconoscersi la prima cellula della societas […]”.
28
La Repubblica, Il lungo addio alle case di piacere, cit.: “[…] Il 20 febbraio 1958 fu, possiamo ben dirlo, giornata memorabile. Si concludeva una
battaglia parlamentare durata quasi nove anni, promossa dalla senatrice socialista Lina Merlin, volta a sopprimere le case di tolleranza (vulgo:
casini) sulla scia di quanto era già avvenuto in Francia. Nel 1946 la République aveva infatti abolito le pubbliche case di piacere grazie all´azione
promossa, anche lì, da una donna: Marthe Richard, ex prostituta. La legge italiana aveva regolamentato fin dall´Unità il meretricio considerando i
postriboli una garanzia igienica e profilattica ma anche, per strano che sembri, una specie di baluardo morale. L´esistenza dei postriboli veniva
considerata dagli ambienti clericali e reazionari una valvola di sfogo a difesa dell´unità della famiglia e della pubblica moralità. Ipocrisia, certo.
Umiliante valutazione del ruolo di una moglie, altrettanto certo. Riduzione della prostituta a puro strumento, innegabile. Eppure, una realtà per
quegli anni - nonché, temo, dei nostri. Fu proprio in base a queste considerazioni che monarchici (allora presenti in Parlamento), neofascisti e parte
della Democrazia cristiana si dichiararono contrari alla legge durante la discussione, votando infine contro. Indro Montanelli, con la sua franchezza
di linguaggio, scrisse nel pamphlet Addio Wanda!: «In Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l´intero edificio, basato su tre
fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura
garanzia» […]”.
6
Una surreale usanza di Stato che avrebbe visto, fino a trent’anni fà, la prassi di cancellare la
violenza carnale contro la femmina, attraverso la fujutina 29 coatta ed il matrimonio riparatore 30;
una storpiata quanto stereotipata mentalità che, fino agli anni’ 60 31, avrebbe ovattato la famiglia
e la sacralità di quel puntello, sanzionando la femmina adultera con la reclusione 32 per aver
commesso “delitto contro il matrimonio” 33.
Quel terrificante, plaudito, omicidio d’onore, compendiato dal celebre giurista Alfredo Rocco 34
nel suo codice, sarebbe stato depennato soltanto nel 1981, allorquando il Parlamento Italiano 35,
accolte le urla a squarcia gola di tante associazioni civili, avrebbe finalmente compreso che le
morti a causa d’onore 36 non potevano ulteriormente trovare applicazione in una democrazia
moderna ove libertà, diritto alla vita e parità tra uomo e donna 37 ne sono fondamento. 38
Sta di fatto che dagli anni ’90 anche la regola di tutela ri fimmini e ri ‘nnucenti è stata erosa
dall’amoralità del sistema ‘ndrangheta, così scellerato dal non mantenere alcun freno inibitorio,
contro tutto e contro tutti; la lista sarebbe lunga, triste e sconcertante: un elenco fatto di
bambini, giovani innocenti 39, figli, fratelli, madri 40, mogli 41, cognati, nipoti, in una scia
29
La ragazza con la pistola, di Marco Monicelli, film del 1968: Assunta Patanè, una giovane siciliana, viene rapita per errore da un compaesano,
Vincenzo Macaluso. Lei, segretamente innamorata di lui, si lascia sedurre senza opporre resistenza. Il giorno dopo la donna si risveglia sola perché
MACALUSO è fuggito in Inghilterra per sfuggire al matrimonio riparatore. Assunta, interpretata da Monica Vitti, costretta a difendere l'onore della
propria famiglia di persona, perché senza padre né fratelli, parte per il Regno Unito armata di pistola, con l’intento di uccidere il seduttore fuggito.
30
Il triste istituto del "matrimonio riparatore" normato dall’ art. 544 c.p., abrogato dall’art. 1 L. 5 agosto 1981 n. 442, prevedeva l'estinzione del
reato, tra i tanti, di violenza carnale qualora lo stupratore di una minorenne avesse accondisceso a sposarla, “salvando l'onore della famiglia”. In
quel contesto storico-sociale, la violenza carnale era, infatti, considerata un reato contro la morale, piuttosto che contro la persona.
31
La Corte Costituzionale, con sentenza 23-28 novembre 1961, n. 64 (Gazz. Uff. 2 dicembre 1961, n. 300), aveva dichiarato non fondata la
questione di legittimità dell’art. 559 c.p., in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione.
32
[Art. 559 c.p. La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell'adultera. La pena è della
reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito.]
33
La stessa Corte Costituzionale, con sentenza 16-19 dicembre 1968, n. 126 e con sentenza 27 novembre-3 dicembre 1969, n. 147, avrebbe poi
dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo in questione.
34
E, Gentile, F. Lanchester, A. Tarquini, Alfredo Rocco: dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, Carocci Editore, Roma
(2010).
35
L. 5 agosto 1981, n. 442, art. 1.
36
Art. 587 C.P: “ [Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello
stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi,
nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella]”.
37
M. Emanuelli, 50 anni di storia della televisione attraverso la stampa settimanale, Greco & Greco Editori, Milano (2004), pag. 251: “ […] ‘la
dittatura dei pantaloni sta tramontando?’ Si domanda il giornalista di Sorrisi che ci informa che la ribellione femminile sta arrivando anche in
Europa, le donne nei cortei gridano: ‘ non vogliamo essere più le schiave delle case dorate degli uomini’ a ben più radicali slogan arriveranno le
femministe del decennio successivo che giungeranno a gridare slogan del tipo: ‘l’utero è mio e lo gestisco come voglio’ e ‘ non più puttane, non più
madonne, finalmente siamo donne[…]”.
38
S. Tordelli, Giurisprudenza penale 2010, Giuffrè Editore, Milano (2010), pag. 37: “[…] con l’abrogazione dell’art. 587 c.p., norma speciale, il
legislatore non ha certo inteso rendere penalmente irrilevanti i ‘fatti’ in essa previsti, ma ha voluto implicitamente ricondurre gli stessi alla disciplina
generale di cui agli artt. 575 e 582 c.p., il cui nucleo stutturale, considerato nella sua essenzialità, non si discosta da quello della disposizione
soppressa […]”.
39
www.terramara.it, Morire giovani in Calabria vittime della ‘ndrangheta, articolo del 5 dicembre 2009 di Michele Gigliotti: “[…] Vergognoso
silenzio seguito all’assassinio del giovane Francesco Inzitari, di appena 18 anni, condannato a morte dalla ‘ndrangheta. Il boia questa volta ha
eseguito il suo sporco lavoro addirittura di sabato sera, il 5 dicembre 2009, mentre il giovane stava raggiungendo alcuni amici in pizzeria, come un
qualsiasi teenager alle prese con la propria adolescenza. La ‘ndrangheta nell’elaborare il suo giudizio avrà considerato colpa gravissima l’essere figlio
di Pasqualino Inzitari, imprenditore rampante con la passione per la politica, autore di rivelazioni scomode[…]”.
40
www.genova24.it, Pegli triplice omicidio nel 1994: la procura ha riaperto il caso, pubblicato il 9 settembre 2012: “[…] Cruento, impressionante,
che dilaniò non solo la comunità pegliese, ma l’intera città di Genova. La procura ha riaperto il caso di un triplice omicidio avvenuto a Genova Pegli il
18 marzo 1994. La notizia circola da stamattina ed è stata confermata da ambienti inquirenti. La riapertura del fascicolo é stata possibile grazie alla
deposizione di una collaboratrice di giustizia, Giuseppina Pesce, cugina di Francesco Pesce reggente della cosca di ‘ndrangheta Pesce-Bellocco resa
durante una udienza del processo All Inside II. Non solo delitto d’onore ma la necessità di ristabilire, con le regole della ‘ndrangheta, gli equilibri
mafiosi tra famiglie. Per questo morirono Maria Teresa Gallucci vedova Alviano, 37 anni, sua madre Nicolina celano di 72 anni e sua cugina,
Marilena Bracalia, 22 anni. Erano di Rosarno (Reggio Calabria), vivevano a Genova Pegli e furono massacrate a colpi di calibro 22 e calibro 33 special.
Per quel triplice omicidio gli inquirenti genovesi indagarono il figlio della donna, Francesco Alviano, allora accusato da un altro pentito di
‘ndrangheta, Francesco ‘Ciccio’ Facchinetti. Ma qualche mese fa la deposizione di Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia che era stata intima
della cosca Pesce della Piana calabrese, resa durante il processo All Inside ha rivelato che le tre donne sono morte per mano di Domenico Leotta e
Francesco Di Marte, killer per non obbligare Francesco Alviano, figlio di Maria Teresa e del boss Alviano, a uccidere la madre. Per questo la procura
di Genova ha deciso di riaprire il caso. Francesco, allora ventunenne, era però troppo giovane per uccidere la madre, ‘colpevole’ di avere avuto per
amante Francesco Arcuri, un altro ‘ndranghetista che mori’, dopo 11 giorni di agonia a Rosarno dopo esser stato crivellato di colpi […]”.
41
www.tgcom24.mediaset.it, Lea Garofalo, uno dei killer collabora. La lettera dal carcere: "Non sono un mostro", pubblicato il 4 dicembre 2012:
“[…]Lea Garofalo, 35 anni, era una collaboratrice di giustizia nell'ambito di alcune indagini su ambienti vicini alla 'ndrangheta. La donna era uscita
dal programma di protezione perché le sue dichiarazioni non erano ritenute significative. Così, era tornata allo scoperto, nonostante numerose
richieste alle istituzioni di essere difesa. Scomparsa il 24 novembre 2009, i suoi resti sono stati trovati a ottobre 2012. Per punirla per aver parlato,
7
interminabile di sangue, dove unuri e valintizza dovranno sempre primeggiare sull’ infame e
traditore, 42 nei cui riguardi sarà possibile esercitare la più adeguata ritorsione: “supra u ‘nfàmu
s’avi a fàri u ‘nfàmuni” 43, recita una tipica espressione gergale.
Un contesto dove, accanto all’ “òmu d’unuri”, si accosta frequentemente la figura carismatica
della “fìmmina i casa”, intesa quale donna della ‘ndrangheta che “non vidi, non senti e taci” 44, ed
al servizio di questa.
A fimmina, avvolta nel suo funereo scialle nero, non esiterà mai a palesare quel concetto di
familismo amorale anche quando – durante la veglia dei tre giorni, tra “parenti, amici e cumpari”,
piangendo il caro estinto crivellato dal piombo dei rivali – nell’ossequiare le leggi blasfeme della
santa 45, tra antiche nènie e litanìe con in mano il Santissimo Rosario – sarà pronta a giurar
vendetta per salvaguardare “l’unuri ra famigghja” da qualsivoglia “affruntu”, fino a pretendere “u
sangu” dell’infame traditore davanti l’uscio di casa 46.
Ma, alle volte, questa assurda interpretazione di “fede” al femminile delle ‘ndrine e nelle ‘ndrine, è
scalfita dall’onestà intellettuale di qualche giovane ragazza che - nella consapevolezza di essere
parente, moglie o madre, giammai delle cosche, ma soltanto una donna desiderosa di una vita
migliore, alla ricerca di quel coraggio per sé e per i propri figli che dovrà sormontare la paure delle
tante conseguenze 47 – è riuscita a “saltare il fosso” 48.
l'ex compagno e padre di Denise, Carlo Cosco, legato alle 'ndrine di Petilia Policastro e Crotone, le tese una trappola chiamandola a Milano con la
scusa di discutere degli studi della figlia. Ma all'appuntamento la donna si era trovata anche Venturino e Rosario Curcio, altro appartenente al clan,
che la caricarono su un furgone e la uccisero. Carmine Venturino, 34 anni, obbligato ad avvicinare la figlia per pedinare la madre, ha finito per
provare un sentimento vero per Denise. La ragazza, dopo aver scoperto che il suo fidanzato era anche tra i killer di Lea, lo aveva lasciato. Ora lui
soffre per questo distacco e ha cominciato a collaborare spinto dal suo comportamento. "Il coraggio di Denise, la forza che ha, mi è servita da
esempio", scrive, come riporta il Corriere della Sera. L'uomo parla poi di come andarono i fatti: Lea venne caricata su un furgone da lui, Cosco e
Sabatino, poi portata in un campo tra Cinisello Balsamo e Monza. Venne torturata per sapere cosa avesse rivelato dei traffici dell'ex. Poi strangolata,
il corpo chiuso in un bidone e dato alle fiamme. Fu proprio Venturino a rivelare dove trovare i resti e a negare che la donna venne sciolta nell'acido.
Ora lui si difende e vuole alleggerirsi la coscienza: "Non sono un mafioso. Non sono un mostro", scrive in modo incerto metà in stampatello e metà
in corsivo […]”.
42
www.osserbari.files.wordpress.com, N. Palmieri, Le origini della ‘ndrangheta, cit.: “[…] Dal fusto che rappresenta il capo, e che è la struttura
portante dell’albero e senza il quale l’albero stesso non esisterebbe, si dipartono, con una progressione lineare, tutti gli altri elementi finché si arriva
alle foglie che simboleggiano la struttura più debole, quella destinata a staccarsi dall’albero, a cadere: appunto i traditori e le carogne che proprio
per questo marciranno per terra> […]”.
43
Nei confronti dell’infame bisogna essere ancor più infami.
44
R. Lombardi Satriani, La saggezza e la memoria. Proverbi in uso in San Costantino di Briatico, Armando Editore, Roma (2008) pag. 57.
45
Operazione Olimpia, richiesta di custodia cautelare, volume XXIV, memoriale di Giuseppe Albanese: “ […] Con l'arresto di centinaia di mafiosi
riuniti in Polsi Aspromonte, retata condotta dal Questore Emilio Santillo, che aveva messo in luce codici e leggi della onorata società 'ndranghetista
calabrese, alcuni degli anziani volevano mantenere quel tipo di organizzazione segreta (che di segreto non c'è più niente). Molti di essi avevano
svelato, rilevato le modalità della organizzazione e le sue leggi e nel frattempo prendeva piede come formazione operativa una società denominata
" A MAMMA SANTISSIMA" (A SANTA). […]
46
Corriere della Calabria, La moglie del boss ordinò: «Il suo sangue davanti alla mia porta», articolo del 20 novembre 2012: “[…] Morto il boss
Fortunato Patania è la moglie Giuseppina Iacopetta, 59 anni, a decidere della vita e della morte. È lei a dare incarico ai suoi figli di uccidere Franco
Meddis con una precisa indicazione: il sangue dovrà passare davanti alla sua porta. A raccontarlo agli inquirenti è Loredana Patania, 33 anni, vedova
di Giuseppe Matina anche lui ucciso nella faida e nipote della Iacopetta. La giovane decide di collaborare con la giustizia perché teme per la sua vita.
Dopo l'omicidio del marito ha capito che in questa guerra non c'è pietà neanche per i familiari. In un drammatico interrogatorio davanti al pm
Simona Rossi, Loredana Patania spiega l'ordine preciso dato dalla zia: «Franco Meddis deve essere ucciso davanti al garage che è a fianco la porta di
entrata di mia zia e che quindi il sangue deve scorrere proprio davanti alla sua porta». Non solo ma Meddis sarebbe dovuto essere l'ultimo a morire:
«Sapevo già che doveva essere l'ultimo ucciso, perché un giorno mia zia ha fatto proprio la precisazione al figlio, mia zia Giuseppina Iacopetta e gli
ha detto che l'ultimo deve essere Franco Meddis». La spiegazione è ancora più atroce: «Dovevano lasciarlo soffrire, gli dovevano sterminare quelli
attorno e lui aspettare la fine». La collaboratrice svela anche i legami dell'obiettivo dei killer con la cosca rivale ai Patania: «Con l'uccisione di Franco
Meddis si chiudeva la cosca dei Bartolotta dei Bonavota a Stefanaconi, praticamente si chiudeva il personale di Sant'Onofrio e Stefanaconi». La
strategia era stata decisa da Giuseppina Iacopetta che dopo la morte del marito aveva preso in mano le redini del clan. «A decidere degli omicidi
decideva mia zia Giuseppina Iacopetta, sempre lei. Era quella che teneva i soldi, era quella che finanziava, era quella che se servivano i vestiti glieli
comprava, era quella che se servivano armi le comprava» […]”.
47
www.altrodiritto.unifi.it, Collaboratori e testimoni di giustizia. Aspetti giuridici e sociologici, di D. Parrini: Renna Incoronata e la sua vita nel
programma di protezione: “[…]E' accaduto, dunque, che la famiglia di Incoronata fosse presa per una famiglia di pentiti: niente di più errato, ma a
parte questo emerge immediatamente come ciò che ha giustificato lo spostamento dalla loro città, vale a dire la loro sicurezza, non fosse garantito
poiché in molti sapevano, anche se ciò non corrispondeva al vero, che erano persone "strane". Iniziano dunque le prime umiliazioni, ma a queste se
ne aggiungono delle altre nel momento in cui il marito di Incoronata sottoscrive il "contratto" relativo alla protezione, poiché quest'ultimo contiene
una clausola sui generis per una persona onesta e totalmente estranea al mondo della criminalità: l'impegno a non commettere reati. Il fatto di
sentirsi trattati come pentiti e la conseguente indignazione che da ciò scaturisce è un tratto comune a tutte le esperienze che abbiamo raccolto e a
quelle che abbiamo appreso dai giornali e ascoltato. Per cinque mesi circa Incoronata e i suoi sono rimasti nel residence, percependo in questo lasso
temporale l'assegno di mantenimento in modo discontinuo, poi è stato assegnato loro un appartamento sempre a Pistoia dove sono rimasti fino al
2000 con non poche difficoltà visto che nella seduta dell'11 settembre 1996 la Commissione centrale deliberò di non prorogare ulteriormente il
programma di protezione e conseguentemente il servizio centrale di protezione inviò l'intimazione a lasciare l'appartamento. Lo sfratto non è
8
Così come l’amore di una figlia che riesce a trovare il coraggio di affrontare, armata soltanto della
sua penna biro, l’opinione pubblica o, come squallidamente si usa dire in Calabria, “a viduta rì
cristiani” o “l’occhiu rì genti”, chiosando, a voce alta e con il cuore in mano, parole cariche
d’amore, di dignitosa sofferenza, di diritto alla vita, ma anche lucide critiche a talune “ingiustizie
della giustizia”, riuscendo con la sola forza del pensiero a lenire le ferite di chi, dall’altra parte di
un vetro blindato, ha già trovato, probabilmente, grazie all’amore la propria redenzione terrena 49.
Certo, altre volte, esternando il proprio disappunto nei confronti di una Giustizia a cui – a torto,
certamente – si smette di credere ogni qual volta alcuni ingranaggi arrugginiti si inchiodano di
fronte ad un sistema burocratico che, involontariamente, tratta l’essenza della vita umana quale
fascicolo amministrativo da esitare, uccidendo “la speranza di tornare a vivere” 50.
Ed a dispetto di tutte quelle donne che non hanno saputo accettare, neppure dentro le mura delle
loro case, l’esistenza della parola mafia, come se si stesse parlando di un’entità astratta, priva di
avvenuto solo perché Mario Nero ha impugnato davanti al giudice amministrativo il provvedimento di "non proroga" del programma di protezione e
questa impugnazione ha avuto esito positivo accogliendo le sue richieste. Ma facciamo un passo indietro e poniamo attenzione alla vita che
Incoronata, Mario e i due piccoli bambini hanno condotto durante la loro permanenza nel programma di protezione, soffermandoci in particolare
sul versante dell'assistenza sanitaria, dei documenti di copertura e dell'iscrizione scolastica dei figli. Gli abitanti di Pistoia non hanno tenuto un
comportamento encomiabile nei loro confronti, tanto che "non ero libera neppure di scendere per portare fuori il cane per evitare di essere
insultata; venivamo apostrofati con dei termini schifosi e questo mi portava a stare sempre di più in casa. A causa dello stress in cui vivevo ero
passata, nel giro di tre mesi, da 50 chili a 90, proprio perché il programma di protezione porta all'annullamento totale della persona: tu non hai più
un'identità, non sei niente. Eravamo in balia della Digos di Pistoia e dico in balia perché quando siamo arrivati lì eravamo il primo caso di testimoni,
anzi addirittura credo che il nostro sia stato il primo programma di protezione. Noi eravamo un esperimento per loro, per come comportarsi poi con
gli altri. Spero e immagino che per altre famiglie di testimoni di giustizia le cose siano andate meglio perché noi abbiamo fatto da cavie" […]”.
48
www.strill.ti, Le lettere di Giuseppina Pesce: ''Collaboro per dare un futuro ai miei figli'', pubblicato il 22 settembre 2011 Giuseppina Pesce,
collaboratrice di giustizia, lettera scritta il 23 agosto 2011: “[…] Ho espresso la mia volontà di iniziare questo percorso, spinta dall’amore di madre e
dal desiderio di poter avere anche io una vita migliore, lontano dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Ero e sono convinta che sia la scelta
giusta, dal momento che per scelte di vita di familiari e congiunti, siamo sempre stati segnati da una vita piena di sofferenza e difficoltà e
soprattutto mancanza di coraggio per paura delle conseguenze […]” (Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia, lettera scritta il 23 agosto 2011).
49
Lettera aperta a Calabria Ora del 20.10.2012, La figlia dell’ergastolano. << MIO PADRE E’ MALATO MA NON LO CURANO>>: “[…] Egregio direttore
Sansonetti […] sono d’accordo con lei quando afferma che l’ingiustizia della giustizia è una barriere impenetrabile, ma chi non combatte ha già
perso, e io non voglio perdere senza averci provato […] Tra le tante cose che ci ha negato la giustizia c’è anche la possibilità di parlare con un
padre...un’ora al mese non basta per parlare con un padre...un’ora al mese sono dodici ore l’anno…dodici ore l’anno che trascorro con mio
padre…Pubblicare la mia lettera sarebbe utile per me, e anche per tutte quelle persone che lo stesso problema, che vivono ogni giorno lo stesso
dramma, perché di dramma si tratta…Le chiedo anche la possibilità di pubblicare la mia lettera non in forma anonima, ma con il nome di mio padre,
perché sarebbe più utile per noi. Mio padre si chiama Antonio Libri. Soprattutto sono la figlia di un padre malato a cui non vengono fornite cure
adeguate. Non posso spiegare che genere di dolore si provi nel vedere il proprio padre affrontare con dignità il destino crudele e sorridere un’ora al
mese davanti a quel vetro che odio, solo perché dall’altra parte ci siamo noi figli, ma con gli occhi che gridano dolore e sofferenza, e con il corpo
ossuto che non riesce a muoversi bene perché la malattia lo sta consumando […] Io non chiedo nulla di più che il diritto alle cure sanitarie, un diritto
che spetterebbe a tutti i cittadini, detenuti compresi. L’art. 32 della nostra Costituzione al comma 1 afferma: ‘ La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti’[…] Antonella Libri figlia di Antonio Libri
condannato all’ergastolo […]”.
50
www.robertogalullo.blog.ilsole24ore.com: Lettera al blog della moglie del boss pentito Vincenzo Marino: “Senza protezione sarò uccisa come Lea
Garofalo”, pubblicato il 19 marzo 2012: “[…] Sono Tiziana Giuda, Giuda di cognome ma non di fatto. Giuda “traditore” è stato chiamato mio marito,
perché è un collaboratore di giustizia. Ho avuto da lui tre figli. Una è ammalata e non vede il suo papà da circa due anni perché non può viaggiare
per la sua patologia, ma nessuno le ha dato possibilità di vederlo. Sono stata dietro quest’uomo che ha fatto parte dell’”onorata società” e continuo
ad essere sua moglie e ad amarlo e ad amare i nostri figli. Ma lo Stato non ci vuole più. Lo Stato ci ha “scaricato” come zavorre dopo che mio marito
ha dato allo Stato e ha preso in cambio condanne gravi che oggi pesano anche su di noi, che nulla abbiamo fatto di male tranne che amare una
persona che a sua volta aveva sbagliato ma che voleva rimediare, riscattarsi, cambiare. Oggi io e i miei figli dipendiamo da un Tribunale
amministrativo regionale, il Tar del Lazio, che deciderà se potremo continuare a vivere o, al contrario andare nella tana dei lupi da cui eravamo
fuggiti. Si, perché tornare in Calabria significa morire: non tornare in Calabria significa essere scovati da chi ci darà la morte, come è successo a Lea
Garofalo, nostra compaesana. Che abbiamo 1, 100, 10000 o un milione di nemici, nulla conta per lo Stato che vuole solo raggiungere i suoi fini,
ottenere condanne, risultati processuali e poi se per te andare avanti significa “morire”, a nessuno importa più di tanto. Il contratto lo fa il pentito
con lo Stato ma i suoi figli, sua moglie ne seguono le sorti, anche se non hanno fatto nulla di male. Si butta una zavorra anche se dentro ci sono
persone innocenti, che hanno già patito ingiustamente: né casa, né assistenza sanitaria, né contributo economico, né istruzione, né documenti di
copertura, né lavoro. Nulla. Solo la strada e i cecchini dietro l’angolo pronti a darti la caccia ovunque tu sia. Mi domando e ti domando Stato: è
giusto tutto questo? La responsabilità penale in Italia è personale? In Italia è stata abolita o no la pena di morte? La legge che dovrebbe tutelare i
diritti dei cittadini ci porta alla morte sicura, silente, impassibile, nell’indifferenza di tutti. Eppure siamo in tanti, tutti con lo stesso destino. Prima o
poi. Senza pietà. Io ho solo fatto la moglie e la mamma, non credo di meritare perciò la morte. Ho solo sperato di guardare il mondo con occhi
nuovi, puliti, diversi, non impauriti, non velati dalla vergogna. Ho solo condiviso di stare dalla parte della legalità, finalmente. Eppure li dove
eravamo ci siamo dovuti auto tutelare. Ti guardano e dicono: siete “pentiti”…? Perché arrivi dal nulla, non sei nessuno, non puoi parlare con
nessuno. Devi saper fingere, mascherare il tuo accento calabrese e se non sei pronta cadi nel tranello. Ti “sgamano” subito. E’ un gioco al
massacro!!! E se dici che qualcuno sospetta che fai parte di questa categoria, ti mandano subito via, via dal mondo che ti eri creata e con te i tuoi
figli….zingari senza terra, né parenti, né amici. Solo finzione, e basta. La legalità oggi tradita dalle lacrime dei miei figli, di nuovo pieni di paura. Io
sono Tiziana Giuda. Oggi divorzio dallo Stato, perché lo Stato mi ha tradita, perché ha ucciso la speranza di tornare a vivere […]”.
9
significato semantico, incolore, di un qualcosa di “surreale” 51, altre non hanno esitato ad
incatenarsi, tra i sentieri di Platì, bussando porta per porta accanto a quella gentil donna
dall’accento pavese, balzata ai tristi onori della cronaca nera con l’appellativo di “mamma
coraggio” 52.
Per quanto attiene, poi, a quell’altra “categoria protetta” ove dovrebbero essere classificati i
“bambini”, è certamente risonante titolare l’ articolo di un quotidiano letto da mezz’Italia con la
frase d’effetto “bimbo di undici anni a spasso col mitra” 53, senza, però, essersi chiesti come mai
una Terra così piena di saggezza, dove ancora si parla il grecanico antico, una Terra stupefacente
dalle cui sommità si scorgono da un lato il Tirreno e dall’altro lo Jonio, una Terra di artisti e di
intellettuali illustri come quel Corrado Alvaro 54, i cui scritti hanno arricchito la cultura dei nostri
genitori, la nostra conoscenza e le passioni del sapere dei nostri figli 55, sia rimasta “porto franco”
51
www.larepubblica.it, La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina, di ATTILIO BOLZONI, pubblicato il 28 gennaio 2008: “[…] Maria Concetta è
nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto "per il futuro dei miei figli". Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo
tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e "di quel 41 bis
che mi fa soffrire tanto per Gianni" e parla del nome terribile che porta. E si presenta: "Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi
chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il
giorno dopo che si sono portati via mio padre". Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno
dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino? "Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi
io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro". Suo padre è
stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto "assurdo" o
"surreale"? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre? "Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un
parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che
qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto
tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l'avrebbero fatto
pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia". Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia? "Non ho problemi a
parlarne. Però quella parola messa in bocca a me.... Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia
di Totò Riina... A casa mia, io non l'ho vissuta quella mafia". Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre? "Sembrerà strano... mio
padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me,
come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel
senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato". Si rende naturalmente conto che c'è un
contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di
rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini? "Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l'ho
vissuto e così lo vivo ancora" […]”.
52
www.udireggiocalabria.wordpress.com., Angela Montagna, pubblicato il 14 dicembre 2011: “ […] Angelina Montagna, più nota come Angela
Casella e Mamma coraggio, se ne è andata qualche giorno fa. Suo figlio Cesare fu rapito nel gennaio del 1988 dalla mafia calabrese, tenuto
segregato sulla montagna dell’Aspromonte locrese e liberato a gennaio del 1990, dopo 743 giorni. Angela sprigiona tutta la sua forza vitale di donna
e madre nella decisione di sfidare un intero territorio percorrendolo casa per casa. Si incatena ad una cabina telefonica nel cuore del labirinto
mafioso, nel disperato tentativo di cercare solidarietà e affetto tra le donne. Un antichissimo istinto che ha più radici nella parte femminile della
specie, nelle società matrilineari, che nella parte maschile spinta a cercare alleanze e complicità nella forza, nell’assoggettamento e nello scontro
guerresco. Angela al di là di liturgie ideologiche ha praticato d’istinto quella che può essere chiamata politica dell’incontro e della relazione contro
un pericolo mortale, la perdita di un figlio e del suo stato stesso di madre. Franca ce ne offre un ricordo […] Quando nel 1989 Angela Casella venne
in Calabria per chiedere la liberazione del proprio figlio, sequestrato dai mafiosi, immediatamente si pensò di definire il suo gesto a partire dal suo
ruolo familiare e la si battezzò “mamma coraggio” – come i giornali hanno ricordato in questi giorni in occasione della sua morte. Oggi che Angela è
morta, non mi interessa ricordare il fastidio e il disagio, che insieme ad altre, provai di fronte alla retorica dell’eroismo “naturale” di una madre per
il proprio figlio di cui grondarono tutti gli interventi e manifestazioni. Voglio invece ricordarla con la lettera che le inviai quando, per la seconda
volta, nel 1992, tornò in Calabria. Tornò come candidata al Senato nel collegio di Lamezia Terme nelle liste della Dc. Allora lei disse che ciò che
l’aveva spinta ad accettare la candidatura era stato il suo desiderio di combattere la mafia, non più da madre ma da donna. L’accoglienza che le fu
riservata fu ben diversa da quella della prima volta. Anche da parte di donne dell’antimafia. Decisi allora di scriverle […]”.
53
La Repubblica, BIMBO DI UNDICI ANNI A SPASSO COL MITRA, pubblicato il 15 dicembre 1989: “[…] SAN LUCA Girava armato di una mitraglietta
per le strade di San Luca e agli esterrefatti carabinieri che lo hanno bloccato ha detto: Attenti ad arrestarmi, perché vi mettete nei guai. Non era un
killer professionista ma un bambino di 11 anni. Ieri i carabinieri della compagnia di Bianco l' hanno sorpreso, assieme a un altro minorenne, con una
mitraglietta calibro 7,65 Parabellum, tipo Jager, completa di caricatore, di relative munizioni e con il colpo in canna. Girava armato del mitra, per le
strade di San Luca (uno dei centri più tristemente noti dell' Aspromonte ionico). Era tranquillo, non si nascondeva. I carabinieri dopo aver
identificato A.P. (queste le iniziali dell' undicenne) e il suo compagno di avventura A.R., di 16 anni, li hanno riaccompagnati a casa. Per la legge infatti
non sono punibili. Unico risultato dell' operazione: il sequestro della mitraglietta. Ma l' incredibile di tutta la vicenda sta forse nelle risposte del
ragazzino. Ha detto ai militari che, non avendo ancora compiuto l' età giusta, non lo potevano né arrestare né imputare di alcun reato, ha mostrato
una perfetta conoscenza della legge e dei suoi meccanismi. Per gli esterrefatti carabinieri la vicenda è così finita con il semplice accompagnamento a
casa. Non è una novità che nei paesi dell' Aspromonte dominati dalla ' ndrangheta San Luca, Platì, Ciminà, Natile, Careri si scoprano minorenni alle
prese con armi. Le nuove leve della mafia, anche i killer, sono giovanissimi e minorenni in gran parte. Più volte insegnanti elementari di Platì e San
Luca hanno inoltre raccontato di bambini sorpresi in classe con armi, pistole o coltelli[…]”.
54
C. Alvaro: “I calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Amore disperato del loro
paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell'infanzia”.
55
www.digilander.libero. it, vivere onestamente è inutile?, di R. Mucci:“ «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio
che vivere onestamente sia inutile» (Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961) Ho riletto recentemente questo condivisibile monito che ha indugiato a
lungo nei miei pensieri traghettandoli verso una logica conclusione. Onestà, altruismo, buona volontà, spirito di sacrificio sono comportamenti che
devono essere collocati ai piani alti della nostra considerazione. Virtù silenziose che abbiamo il dovere di riproporre, rivalutare e perseguire.
10
delle cosche in uno scenario ove gli uomini dello Stato in prima linea dentro le mura di una
sperduta “stazione” aspromontana ossequiano, giorno dopo giorno, quei valori che, prima di loro,
altri hanno difeso 56 con il proprio sangue 57.
L’8 marzo vuol essere, oggi, un omaggio a tutte quelle donne dimenticate dall’indifferenza del
nostro non saper vivere l’alterità dell’altro 58, a quelle donne che, in sordina, nel difendere il loro
“familismo morale”, continuano, giorno per giorno, a combattere 59 contro quel muro di omertà,
di sangue, di violenza e di soprusi.
A tutte le donne che non sanno, e non potranno mai accettare, tutte quelle distorsioni sociali,
descritte da S.W. Calhoon nella “fogna del comportamento” 60, cercando piuttosto di individuare
quella prossemica sociale in grado di palesare la “dimensione nascosta” 61 attraverso cui sarà
possibile urlare al mondo intero la loro rabbia, il loro disagio, la loro voglia di essere nonne, mogli,
compagne, madri, figlie, sorelle ma, al tempo stesso, anche semplicemente libere di essere, solo e
soltanto, donne.
Dedichiamo la nostra considerazione ai molti travet che caparbiamente si logorano, al fine di dare ai loro figli una qualche possibilità in più.
Guardiamo con rispetto ai genitori che supportano i figli per farne individui coraggiosi e preparati alle difficoltà del vivere. Diamo credito ai buoni
insegnanti, ai medici appassionati e a chi, semplicemente,svolge al meglio il suo lavoro e - nel contatto con l’utente di qualsiasi settore - offre la sua
diligente attenzione. Ogni giorno, tenacemente persone generose dedicano con altruismo, gratuitamente il loro impegno indispensabile all’altro.
Gente che trae sufficientemente gratificazione dall’ esercizio di comportamenti onesti, dalla loro stessa buona volontà, dalla loro disponibilità.
Osservando i giovani sulle ambulanze o in altri settori del vivere quotidiano che, nell’ombra dei giorni, ci indicano percorsi di luce. impediremo
l’accesso al "dubbio che vivere onestamente sia inutile» “.
56
www.stopndrangheta.it, Carmine Tripodi, 24 anni, carabiniere a San Luca, di Francesca Chirico pubblicato il 09 novembre 2009: “ […] San Luca. La
lista comprende due monsignori, un avvocato e un medico. Poi spunta Carmine Tripodi, con la licenza media e la divisa indossata a 17 anni forse più
per avere un mestiere che per seguire una vocazione. Quando a 20 anni lo spediscono in Calabria, non se lo immagina neppure che un giorno finirà
infilato pure lui tra i personaggi illustri di Torre Orsaia, il suo paese piccolo piccolo nelle campagne del Salernitano. A come verrà ricordato da morto,
un ventenne di solito non pensa, soprattutto quando c'è da lavorare e poco tempo per pensare. Nel 1980 a Bianco, dove sbarca fresco di scuola
allievi sottoufficiali, è già tanto se si riesce a mangiare e dormire. Il giovane brigadiere è capo equipaggio del Nucleo operativo e radiomobile. In
pratica è sempre sulla strada, lungo la statale 106 che unisce i paesi della costa jonica reggina, e poi lungo le provinciali, le comunali e pure le
mulattiere ché per raggiungere Casignana, Motticella, Ferruzzano e Caraffa del Bianco il tragitto non sempre è facile, specie d'inverno quando il
cielo la manda di santa ragione e pure i paesi sembrano scivolare a mare. Solo che le prigioni dei sequestrati li devi cercare per forza lì, in mezzo agli
ovili, dentro le grotte scavate nella terra dura dell'Aspromonte e non sempre le trovi vuote. Carmine Tripodi lo impara presto. E' in Calabria da 5
mesi quando il pensionato 76enne Silvio De Francesco, rapito a Bovalino il 7 ottobre 1980, viene trovato morto quattro giorni dopo il sequestro. E
poi c'è il pensiero tormentoso dei bambini: di Giovanni Furci, 9 anni, la famiglia di Locri non ha notizie da mesi (la sua prigionia durerà 213 giorni); il
piccolo Alfredo Battaglia, 13 anni, alla sua casa di Bovalino è tornato dopo 115 giorni. La lista dei desaparecidos, a scorrerla con attenzione, è
praticamente infinita: ci sono i sequestrati calabresi (11 nella sola Bovalino) e ci sono i sequestrati che potrebbero essere finiti in Calabria. Insomma,
se nel 1980 sei brigadiere dei carabinieri a Bianco, hai in una mano l'elenco degli scomparsi e nell'altra quello delle famiglie di 'ndrangheta e ci provi
a non confonderti tra Morabito, Palamara, Strangio, Pelle e Vottari. L'8 gennaio 1982, il giorno in cui entra nella caserma di San Luca come
comandante interinale, Carmine le idee le ha già un po' schiarite: qualcuno vedendolo passare per le vie del paese di Corrado Alvaro pensa che il
ragazzo è stato mandato come una pecora in mezzo ai lupi, ma lui pecora non ci si sente.
57
C. Sframeli, F. Parisi, Un Carabiniere nella lotta alla ‘ndrangheta, Falzea Editore, Reggio Calabria (2012).
58
D. Coppola, Parlare, comprendersi, interagire. Glottodidattica e formazione interculturale, Felici Editore (2008) : ” [...] già sulla base del
concetto di <<consonanza intenzionale>> (Gallese 2006), vale a dire la dimensione esperienziale dell’intersoggettività che consente di cogliere
direttamente il senso delle azioni eseguite dagli altri, le emozioni e le sensazioni in un ambiente; risulta evidente che l’intersoggettivtà e la
cognizione sociale sono direttamente coinvolti nello sviluppo cognitivo così come nell’acquisizione del linguaggio. Da qui emerge, inevitabile, la
dimensione interculturale dell’abitare l’alterità, propria e altrui, in cui entrano prepotentemente in gioco le emozioni [...] (relazione di Luciana
Brandi, Tra lingue, culture e formazione della soggettività) ”.
59
Antimafia duemila, cosa ha lasciato mio marito Poalo Borsellino, di Agnese Borsellino pubblicato il 15 luglio 2012. “Caro Paolo, da venti lunghi
anni hai lasciato questa terra per raggiungere il Regno dei cieli, un periodo in cui ho versato lacrime amare; mentre la bocca sorrideva, il cuore
piangeva, senza capire, stupita, smarrita, cercando di sapere. Mi conforta oggi possedere tre preziosi gioielli: Lucia, Manfredi, Fiammetta; simboli di
saggezza, purezza, amore, posseggono quell'amore che tu hai saputo spargere attorno a te, caro Paolo, diventando immortale. Hai lasciato una
bella eredità, oggi raccolta dai ragazzi di tutta Italia; ho idealmente adottato tanti altri figli, uniti nel tuo ricordo dal nord al sud - non siamo soli.
Desidero ricordare: sei stato un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare
di cittadino italiano, resti per noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più
grande, "la vita", sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze. Quanta gente hai convertito!!!
Non dimentico: hai chiesto la comunione presso il palazzo di giustizia la vigilia del viaggio verso l'eternità, viaggio intrapreso con celestiale serenità,
portando con te gli occhi intrisi di limpidezza, uno sguardo col sorriso da fanciullo, che noi non dimenticheremo mai. In questo ventesimo
anniversario ti prego di proteggere ed aiutare tutti i giovani sui quali hai sempre riversato tutte le tue speranze e meritevoli di trovare una degna
collocazione nel mondo del lavoro, dicevi: 'Siete il nostro futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle difficoltà'.
Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre il
meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo 'grazie Paolo'”.
60
S.W. Calhoon, The study of Wild Animals under controller Conditions, “Annals, of the New York Academy of Sciences”, Vol. 51 (1950).
61
E.T. Hall, La dimensione nascosta. Vicino e lontano: il significato delle distanze tra le persone, Editore Bompiani, Milano (2002), pagg. 162-163.
11
Una dedica a tutte quelle donne che, portando il loro lutto con una dignità esemplare fatta di
perdono 62, di carità, di affetto e di determinazione, con una saggezza amorevole scevra da
qualsivoglia forma di rancore, sanno comprendere la povertà d’animo degli altri, sempre con il
sorriso sulle labbra, sempre con una parola di conforto.
Un plauso a tutte coloro che, facendo proprio il concetto di abbattimento dei tabù, hanno avviato
quel processo irrefrenabile di “decostructing the boundaries, costructing the communities” 63,
inteso a difendere le libertà al femminile, tra molestie 64 dietro l’angolo e maltrattamenti dentro le
mura domestiche 65, nel rispetto di culture 66 e di religioni 67.
Un riconoscimento a tutte quelle donne che non hanno esitato ad affermare che “la critica della
ragion pratica”, attraverso cui è possibile scorgere “il cielo stellato” di Kant, è un privilegio
conferito soltanto a chi vede, nel proprio io, l’esistenza della legge morale 68.
Un festa, infine, sobria e di riflessione, magari accostando all’ormai sbiadita mimosa, la più
sgargiante e simbolica gerbera gialla, in omaggio a tutte quelle donne che hanno avuto, ed
avranno ancora domani, “il coraggio di dire di no”. 69
62
“Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato... chiedo innanzitutto che
venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per
voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano, loro non
vogliono cambiare”.
63
Elizabeth M. Reid: Electropolis: Communication and Community on Internet Relay Chat, paper (1991).
64 legge 23 aprile 2009, n. 38, introduzione dell’art. 612 bis CP, atti persecutori c.d. stalking.
65
www.dirittopenalecontemporaneo.it, La Cassazione traccia la linea di confine tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di stalking,
pubblicato il 20 luglio 2012: “[…] In sede di redazione finale dell'art. 612-bis c.p., è ricomparsa la clausola di riserva - salvo che il fatto costituisce più
grave reato - che era stata espunta in una fase dei lavori preparatori.«Della utilità di tale clausola si può ben dubitare, dal momento che non è
agevole ipotizzare la configurabilità di reati di maggiori gravità capaci di assorbire lo specifico disvalore degli atti persecutori quali figura di illecito
imperniata sulla reiterazione di condotte offensive e, dunque, connotata dal carattere di abitualità: ove con una o più azioni singole, facenti parte
di una condotta complessiva di stalking, l'autore dovesse realizzare un reato più grave a carattere istantaneo come ad esempio l'omicidio della
vittima, non vi sarebbe alcun dubbio circa la configurabilità di un concorso di reati. Un possibile caso di assorbimento potrebbe invece, in teoria,
verificarsi rispetto a un altro reato abituale come ad esempio quello di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), che risulta più grave perché più
severamente sanzionato (reclusione da uno a cinque anni), ma che sarebbe destinato verosimilmente a prevalere anche a prescindere dalla clausola
di riserva» (G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, parte speciale, Vol. II, tomo I, Zanichelli, Bologna, 2009, addenda, 11)[…]”.
66www.amensty.it, pubblicato il 12 aprile 201, ha dichiarato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty
International "Le donne che vivono in Francia hanno il diritto alla libertà d'espressione e di religione e devono essere libere di protestare quando
questi diritti vengono violati. La legge entrata in vigore l'11 aprile rappresenta una vergogna per la Francia, un paese che si vanta di promuovere e
proteggere i diritti umani, compresa la libertà d'espressione. Una legge che impedisce alle donne di esprimere i loro valori, la loro fede e la loro
identità dev'essere annullata".
67
www.radicali.it, articolo di A. Gennaro pubblicato su Pubblico Giornale, il 22 ottobre 2012, “ […] Intervista a Emma Bonino. L'infibulazione sarà
reato contro l'umanità: Una risoluzione per bandire nel mondo le mutilazioni genitali femminili, violazione dei diritti umani. Il testo è stato
depositato dal Gruppo dei Paesi Africani all'Onu e se tutto andrà bene, a dicembre verrà votato dall'assemblea generale delle Nazioni Unite. Non c'è
Pace senza Giustizia, l'organizzazione fondata dalla vicepresidente del Senato Emma Bonino, sta lottando da più di 10 anni a livello internazionale
contro le Mgf. Bonino, cosa rappresenta questo testo? Una pietra miliare: per la prima volta la comunità internazionale, su spinta dei paesi
interessati, si accinge ad adottare un testo che bandisce questa pratica come violazione dei diritti umani fondamentali, superando un approccio
relativista che tendeva a giustificare" le mutilazioni genitali come espressione di una data cultura. Una presa di posizione così forte e compatta da
parte della comunità internazionale sarà un incentivo per i paesi che non hanno ancora una legge di proibizione a dotarsi di tutti gli strumenti utili a
contrastare la pratica dal punto di vista legislativo e di prevenzione. La risoluzione ha anche il pregio di mettere fine alla diatriba che legittima le
mutilazioni praticate in modo "sicuro" all'interno di strutture sanitarie, condannando espressamente tutte le forme di mutilazione, incluse quelle
eseguite in ambito ospedaliero […]”. Cfr., inoltre, Decreto Legge , testo coordinato, 23.02.2009 n° 11 , G.U. 24.04.2009. L’art. 612 bis cp.
68
www.palermo.repubblica.it. “[…] Reggio Calabria: Cancellieri, errore sciogliere Comune? Ho seguito legge morale, pubblicato il 12.10.2012
(Adnkronos): << Ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni e io ho rispetto per tutti. Ma so di avere seguito i miei imperativi categorici: il
cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me >>. Il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri cita Kant per rispondere al leader del Pdl
Angelino Alfano secondo cui sarebbe stato un errore sciogliere il Comune di Reggio Calabria per contiguita' mafiose […]”
69
www.approdonews.it, "Il coraggio di dire no alla 'ndrangheta". Risveglio ideale alla settimana bianca di formazione antimafia a Folgaria del
coordinamento nazionale antimafia "Riferimenti", pubblicato il 2 marzo 2013: “[…] LEA GAROFALO, un nome venuto alla ribalta a seguito di un
efferato omicidio di 'ndrangheta. Una donna che non ha condiviso le azioni e le gesta della sua "famiglia" e si è ribellata, ha fatto denunzie e per
questa ragione è stata assassinata. Di Lea Garofalo e di altri Testimoni di Giustizia si è diffusamente occupata l'On. ANGELA NAPOLI come
Componente della Commissione Parlamentare Antimafia e specificatamente come Coordinatrice del Comitato Antimafia sui Testimoni di giustizia.
La storia ed il coraggio di questa Donna con la D maiuscola sono garbatamente narrate dal giornalista e scrittore PAOLO DE CHIARA ... nel suo
toccante libro "IL CORAGGIO DI DIRE NO, LEA GAROFALO LA DONNA CHE SFIDO' LA NDRANGHETA". E non manca certo di coraggio un'altra donna,
ADRIANA MUSELLA, che con le sue battaglie ed i suoi circuiti di aggregazione entra nella pancia della società civile facendo rete e presa con il suo
Coordinamento Nazionale Antimafia RIFERIMENTI contro la malavita che le ha brutalmente strappato il padre. Il costante impegno di Adriana
Musella è noto in tutto il Paese, una delle sue iniziative appunto quella a Folgaria (TN).[…]”.
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