PDF vol 2 - Copylefteratura

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PDF vol 2 - Copylefteratura
L’insiemistica
della monade
(Volume 2)
RACCONTI E ALTRO
by
ROBERTO CYBBOLO LACCHE’
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Copertina copyleft: “Il vuoto nell’ombra”
Copylefteratura
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ROBERTO CYBBOLO LACCHE’
L’INSIEMISTICA DELLA
MONADE
RACCONTI E ALTRO
II
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RACCONTI DI SFIGHE E
SUPEREROI
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FUMETTI
Mi viene in mente un qualcosa che accendeva molto la
mia fantasia di ragazzo: la mitica città di Kandor!
Se ricordo bene, era una città del pianeta Krypton, il
pianeta col sole rosso di Nembo Kid, miniaturizzata e
catturata dal pirata spaziale Brainiac, violaceo-verdino con
elettrodi sul capo e sguardo bieco che, paradossalmente, la
salvò dalla distruzione del pianeta che esplose poco tempo
dopo, ma la condannò in una bottiglia attaccata a bombole
che riproducevano l’atmosfera di Krypton, sotto una luce
rossa come quella del sole di origine.
La bottiglia fu poi sottratta al pirata da Nembo Kid
stesso in uno dei suoi tanti duelli rappresentati sui gloriosi
Albi del Falco degli anni sessanta.
Il supereroe colla mantellina rossa la conservava,
tenuta a lustro e sorvegliata amorevolmente, presso la sua
Fortezza della Solitudine sita sulla calotta polare,
inaccessibile agli umani, con la segreta speranza di
restituirla alla sua grandezza naturale insieme ai suoi
abitanti.
Sono curiosi e bizzarri i ricordi!
Sono brandelli di memoria che vagano in un immenso
lago amniotico di esperienze e vengono a galla sulla
sollecitazione di avvenimenti casuali che accendono scintille
elettriche che provocano delle sinapsi nel cervello e danno
emozioni, brividi, angosce o sentimenti di abbandonato
piacere.
Non riesco a spiegarmi altrimenti il fenomeno…
Sono uscito stamattina dalla mia baita in montagna per
fare una tonificante passeggiata e, subito dopo la radura del
bosco, sono andato a sbattere contro una immensa parete
di vetro senza fine… e non mi capacito della possibilità reale
che possa esistere al di là del vetro quella faccia enorme,
gelatinosa e distorta, vagamente somigliante al capo di un
polipo che sembra sia molto interessata a quello che accade
qui!
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SUPERZETA
Mi chiamo Alfred, come quello di Batman, e sono il
maggiordomo della contessa Zenobia, e non aggiungo altro
per preservarle la sua identità segreta.
Sto scrivendo in una nicchia della grotta segreta della
mia padrona per cercare un consiglio o un sistema per
risolverle i suoi problemi.
E’ tutto nato qualche giorno scorso.
La contessa Zenobia era dal parrucchiere Jean Claude,
il parrucchiere esclusivo delle contesse, ed era sotto il casco
per asciugare la sua permanente.
D’un tratto si diffuse nell’aria un odorino di pelo
strinato e si udì uno sfrigolio di frittura di pesciolini di
paranza: la contessa prese accidentalmente nel cervello una
scossa di tot volts, ma rimase straordinariamente viva e per
di più acquistò dei superpoteri, come volare, vedere coi
raggi X, ultraudito, invulnerabilità e altri.
La mia generosa contessa, coperta da un cappello alla
cosacca, con la testa ancora fumante, si diresse subito da
Armand, il sarto delle contesse, e si fece confezionare subito
un abitino con gonnellino e mantella con il marchio ZETA
sul petto per essere sempre pronta ad ogni richiamo
dell’umanità e potersi cambiare a supervelocità in una
cabina del telefono.
Tornò a casa in volo e invisibile e mi fece partecipe del
suo segreto, piangendo come un bimbo, però, perché aveva
la testa come quella di un malato di alopecia cui avessero
rimesso a posto il cuoio capelluto con un ferro da stiro.
Povera contessa Zenobia, alias SuperZETA, difensore
dei deboli e degli oppressi sull’intero pianeta!
Come suo devoto maggiordomo ho provato diversi
metodi empirici per ovviare al problema di presentazione
della supereroina, ma non ho trovato l’accettazione della
contessa ai miei suggerimenti.
Ho provato con una cuffia sul tipo di quella del neonato
di Roger Rabbit, con bottoncino alla gola, facendola passare
per un’eccentricità della sua divisa, ma non ha abboccato.
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Ho provato con parrucche di diverso tipo e taglio e
colore, ma quando la contessa come superZeta si alza in
volo, volano anche i posticci e rimane ridicolmente
semicalva e strinata come un bosco amazzonico.
Ho provato a fissarle dei toupets con mastici e collanti,
compreso quello dei pesci rossi nella doccia, ma superZeta è
allergica alle composizioni chimiche degli stessi e si copre di
bubboni, o meglio, superbubboni che assomigliano a fichi
d’india, che spaventano i bambini al luna park quando
prende al volo le carrozzine deragliate dell’otto volante.
E’ per questo che sto scrivendo.
Spero che qualcuno di voi possa trovare una soluzione
al problema anche perché col cranio alla nuda la mia
contessa sta prendendo anche un superraffreddore con
conseguente supersinusite e credo che non possa più
proteggere il mondo fino a primavera inoltrata.
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ANIMALAND
Sul quarto pianeta di Honv, nel secondo quadrante del
sistema di Bint, esiste nella città dei desideri una bottega
molto pittoresca che vende animali di tutto l’universo.
Il padrone, Kokuo, è incrocio di un crogiuolo di razze,
gigantesco, avvolto in pellami vari, con un colbacco di
bradut che sormonta la sua faccia da Kirg con occhi a furbe
feritoie buie ed il corpaccione innestato su cingoli
indipendenti semoventi in molibdeno, probabile risultanza
di una scappatella giovanile di sua madre.
La sua bottega è un insieme di gabbie e gabbiette e
l’atmosfera che si respira è molto esotica tra urla, gorgheggi
e versi vari degli animali più impensati e rari a trovarsi nelle
galassie.
Lì a destra è la gabbia del babirussa gigante di Knotl
che mangia solo insetti e si gratta in continuazione cogli
unghioli di vetro; là a sinistra è la gabbietta del
cercocircasso verde di Oly che mangia solo bacche e urla
sempre la sua rabbia per la forzata prigionia.
Laggiù in quella vasca ci sono due dugonghi di Rroz, il
pianeta acquatico, immersi nel loro liquido amniotico verde
smeraldo, con quei musi prognati e quei quattro occhi
sempre vigili e sospettosi.
Nel gabbione centrale ben rinforzato ed elettrificato c’è il
raptor di Xur, ferocissimo, l’unico animale che combatte per
il cibo facendo uso delle arti marziali.
Poi, tra gli altri e altri ancora, ci sono io, dentro questa
gabbietta piccolissima di due metri per due, terrestre solo
ed impotente.
Ho provato a fuggire più volte, ma Kokuo mi ha sempre
ripreso e mi ha picchiato molto duramente con la sua
protesi in alluminio, ma senza lasciare segni per non
rendermi invendibile.
Peraltro non saprei più dove andare senza una navicella
e senza più coordinate.
Sì, anche io sono in vendita, anzi, secondo quello che
ho sentito dire da Kokuo, oggi una grassa signora di
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Bombs, cui è morto un criceto di Fhar, dovrebbe venire a
prendermi per alleviare la sua solitudine.
Problemi d’alimentazione per me non ce ne sono: i
terrestri sono considerati gli spazzini delle galassie.
Spero di essere trattato bene e prego di non essere
abbandonato questa prossima estate sulla Via Lattea…
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NUOVO MITO
Sono stato allevato in età adolescenziale a panini con
nutella, ovomaltina e sane letture di buoni libri, ma anche
fumetti.
E’ per tutta quella nutella e ovomaltina che da qualche
anno ho periodici brufoli che sembrano ernie ed è per tutti
quei fumetti che sono di vedetta su questo cornicione.
Sono cresciuto col mito dei Super-eroi, da Nembo Kid,
poi diventato Superman, a Batman e Robin, Freccia Verde e
Saetta, Flash, Lanterna Verde, Jonn’z Jones il segugio di
Marte, la legione dei Super-eroi, Nembo Star, fino a
decadere negli eroi della Marvel sempre più bitorzoluti di
muscoli e anche forse di cervello, con l’Uomo-Ragno, Hulk,
Capitan America.
Oggi, invece delle strepitose coppie di allora, esistono
solo Dolce e Gabbana, ma non credo siano tanto super...e
poi non sono invulnerabili.
Sono qui, dunque, memore dei miei piccoli valori di
ragazzino pieno di fantasia, che scruto l’orizzonte nebbioso
di questa periferia urbana alla ricerca di uno svolazzare di
mantelline che ci vengano a salvare.
Non verrà nessuno e mi sto convincendo ogni giorno
sempre di più che forse la salvezza è solo in noi stessi.
E’ per questo che da due giorni sono qui su questo
cornicione scivoloso di muffe con il mio nuovo costume
rosso e giallo e un mantello lucido e i guanti e una
maschera a coprire la mia vera identità che deve rimanere
segreta.
Sono qui in attesa che qualcuno mi chiami e abbia
bisogno di me e scruto il cielo per vedere proiettata sulle
nuvole gonfie di pioggia una richiesta di aiuto sullo stile del
logo a pipistrello del vecchio Batman.
Ed allora, quando sarà, io
accorreròòòOOOOOOAAAAAAAAARRRRRRRGGGGGHHH....
...............
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FATO CINICO E BARO
Sono convinto che nel mondo metafisico siano già state
prese decisioni per ognuno di noi da tempo inenarrabile,
secondo il nostro metro di misura, e ritengo che la finalità
di tutto questo rientri in un disegno che ci sfugge
completamente, oltre che per lo scopo, anche per una certa
stranezza e bizzarria di realizzazione.
Mai freddo fu più intenso come l’anno scorso in India:
cadde addirittura la neve e scese in posti dove era una
novità assoluta a memoria d’uomo, in posti caldi ed esotici
come Calcutta.
Yappur il tassista si svegliò di mattina presto e vide la
sua città coperta di neve farinosa.
La toccò con mano, l’assaporò divertito e rimase
qualche minuto imbambolato a guardare vispi ragazzini
infagottati di scialli che correvano lungo i rigagnoli
ghiacciati delle fogne a cielo aperto in uno schiamazzo felice
e sorpreso.
Avviò il suo taxi antidiluviano verso la stazione
ferroviaria e rimuginò con una certa preoccupazione che
avrebbe dovuto far revisionare per la settima volta questa
macchina che stava ormai arrivando al lumicino.
Attese per tutta la mattina tra sfaccendati e varia
umanità il treno proveniente da Bombay e poi caricò un
passeggero, straniero, per portarlo in un albergo di centro
città.
Continuava a nevicare e Yappur lavorava molto di
frizione e marce basse per non perdere aderenza al terreno
con la sua carretta.
Lungo un viale accadde.
La macchina sbandò nel traffico di carri e carrettini per
evitare un pedone pigro e distratto; il tassista sterzò,
controsterzò e poi pigiò disperatamente i freni di fronte a
una pacifica vacca sacra, ma fu tardi, e la povera bestia
giacque esanime nella neve mentre una chiazza di sangue si
allargava nel bianco ormai sporco.
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Yappur scese dall’auto incurante delle proteste del
turista e venne circondato da molta gente.
Penso sempre che la folla è ingovernabile nella sua
facilissima governabilità e credo di avere ragione.
Una voce nel gruppo lo insultò per il sacrilegio, poi due,
poi tre e Yappur si sentì spintonato e tirato per il giaccone.
Poi avvertì dei colpi in un crescendo di urla sempre più
disumane, percepì sangue colargli dalla testa e poi cessò
sbalordito di udire qualsiasi cosa e morì, linciato da una
comunità fanaticamente religiosa, per aver ucciso
inconsapevolmente con un taxi una vacca sacra a Calcutta
sotto una nevicata.
Destino più strano di così....
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LA FINE DI WURDALAK
“Tra poco sarò senza padrone, servo mortale di un
principe che credevo immortale e che invece sta
disfacendosi nella maniera più umiliante e impietosa che
possa esistere per un terribile vampiro, per il mio Signore
Wurdalak. Il mio padrone giace nella sua bara,
irriconoscibile dall’altera figura di tempo addietro; rantola
incosciente canticchiando nella sua demenza poesiole
magiare e tristi nenie rumene.
Nulla ormai ricorda del passato, ma s’accende per frasi
smozzicate di filastrocche della sua infanzia, come un
qualsiasi paziente di geriatria in cura per Alzheimer o
marasma senile: la sua mente è vuota, con i ricordi
cristallizzati da un abbraccio vischioso di sangue pieno di
grassi, trigliceridi, colesterolo, e il suo corpo si disgrega per
colpa d’altri corpi.
Com’è potuto accadere che il dominatore del buio sia
regredito a tal punto? E’ colpa dell’uomo, del suo sangue
che nutre il mio Signore, sangue ormai appiccicoso del
colesterolo di troppi latticini e formaggi, di troppe uova e di
carne rossa infetta, dell’acido urico di troppi insaccati, dello
zucchero di troppi dolci, del mercurio dei pesci. Wurdalak
morirà presto, ma io, suo devoto servitore, sto preparando
una mia rivincita per riabilitarne almeno la figura, ora
caricaturale, che stringe il cuore nel ricordo di tempi
terribili di onnipotenza. Sto annotando minuziosamente
ogni danno fisico e mentale che occorre al mio Signore,
dall’aumento della carie per troppo saccarosio fino al
principio di cirrosi epatica per gli alti tassi etilici nel sangue
di giovani vergini catturate presso discoteche sperdute nella
campagna. Egli agonizza e morirà, in corpo e spirito, ma io
lo farò risorgere, almeno nella fama, con puntigliose
denunce di cui immagino titoli cubitali nella storia della
giustizia: Wurdalak Vs/ McDonald, …Wurdalak Vs/
Galbani, Invernizzi, Aia, Arena, Rovagnati, Sammontana,
Algida…
Tremate, tremate…”
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RAMON E IL VAMPIRO
Ebbi un incontro con un vampiro, qualche tempo
passato, uno degli ultimi vampiri.
Lo controllai, adornato di una resta d’agli e armato di
un grande crocifisso, seduto su una fredda panca di marmo
posta davanti a lui semisdraiato all’alba nella sua bara.
Avevo scoperto la bara casualmente andando a rendere
omaggio ad un vecchio parente in un cimitero di paese
sperduto tra le colline: l’avevo vista semiaperta e vuota
dentro una piccola cappella di famiglia sbrecciata e
abbandonata e mi ero incuriosito. Dopo qualche
appostamento avevo prima intuito e poi compreso in tutta
la sua evidenza che era la bara di vampiro.
Appagai
successivamente
la
mia
curiosità
immobilizzandolo nel suo sarcofago, come accennato, con il
crocifisso e l’aglio, mentre sbatteva gli occhi cerchiati come
un allocco: era pallidissimo, emaciato, scheletrico quasi
nella sua magrezza, ed aveva uno sguardo triste più che
minaccioso e una amara piega della bocca atteggiata ad un
mesto sorriso con i due canini ingialliti dal tempo.
I miei concetti di controllo e di sicurezza, nella mia
superficialità ed ignoranza, si sciolsero come la neve al sole
quando un pallido raggio di luce del primo mattino filtrò
nella cripta ed il vecchio vampiro parlò con voce rauca, ma
ferma, senza alcuna reazione di orrore all’alba nascente.
Mi disse qualcosa di sé, compito e signorile, troppo
debole per alzarsi dal suo macabro giaciglio.
“Come vede, amico mio, il giorno e la notte non fanno
differenza per i vampiri: la vecchia letteratura si è
sbizzarrita con tante stupidaggini. Non fugga, non le farò
nulla di male, ma le devo rivelare che anche il crocifisso e
l’aglio mi lasciano del tutto indifferente: se volessi, e anche
se potessi, lei non avrebbe scampo qui davanti a me...
Le ho detto se potessi perché ormai non posso più
muovermi per la debolezza e l’inedia e attendo serenamente
una mano pietosa che ponga fine ai miei lunghi giorni.
Che senso ha vivere senza poter apprezzare quello che
la natura ha predisposto per te e per la tua natura?
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Mi cibo esclusivamente di sangue di vergine o di sangue
di uomo....e sto morendo di fame, a poco a poco, per
consunzione in mancanza dell’alimento. Non esistono quasi
più vergini di questi tempi, solo bimbette prescolari o quasi
che non hanno alcun sapore e che mi rifiuto di succhiare
per quanto sono sciocche, immature e prive di quell’aura
sensuale delle vergini di una volta, affascinanti e già donne,
e soprattutto non esistono quasi più uomini intesi nel senso
virile del termine latino, caratterialmente uomini che
abbiano la dignità della sofferenza e che sappiano amare od
odiare limpidamente come una volta e sappiano avere verso
loro stessi la giusta indulgenza o la giusta riprovazione.
Tutte mezze calzette, oggi, tutti ometti sparuti e fragili,
di quella fragilità figlia dell’ignavia, anche quelli più
prestanti, amico mio, e il mio alimento scarseggia sempre
più e io sono stanco e debole e mi sto estinguendo poco a
poco.”
Mi sentii impietosito per quell’essere diafano garbato e
irrimediabilmente deluso e lo guardai in silenzio senza
voler aggiungere concetti spiacevoli alla già sgradevole sua
situazione.
Mi parve che intuisse qualcosa di quello che pensavo e
allargò il volto rugoso e grigiastro in un sorriso speranzoso
come un miserabile davanti a una chiesa soddisfatto da
qualche spicciolo.
Quello che avvenne poi non ebbe bisogno di essere
evidenziato da discorsi, quasi come un dialogo tra uomini di
una volta, muto e rispettoso in uno scambio di sguardi
fermi, decisi e carichi di sentimenti duri come roccia, ma
anche teneri come un fiore appena reciso.
Mi offrì, serenamente complice, un piolo di frassino e
un mazzuolo e si distese severo ad occhi chiusi nella bara
in un lieve fruscio del mantello polveroso.
Colpii
deciso
per
soffocare
la
pena
verso
quell’essere...colpii al cuore come mi richiese in silenzio il
vampiro.
Io, Ramon, ho colpito ancora al cuore e ancora ne
soffro.
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DARWIN LA SAPEVA LUNGA
Oggi, primo settembre duemilasessantadue festeggio
centodieci anni.
Sono un sereno sopravvissuto stanco e sto con un
sorriso ebete guardando il mio bis-bis nipotino che è nato
da
tre
giorni,
nella
sua
culla
computerizzata
autoprogrammata che governa automaticamente la
temperatura dell’ambiente e disinfetta l’aria dai batteri e
sorveglia il piccolo con una rilassante musichetta di
campanellini cinesi.
Quanta strada ha percorso l’umanità da quando ero
ragazzino a oggi e quanti scogli ha superato per la
caparbietà di voler proseguire nel vivere.
Vado indietro nel tempo alle scoperte di terreni da
bonificare per giacenze di bidoni di acidi e morchie dense e
alle esplorazioni di praterie di diossine e asbesto; volo sulle
ali della memoria agli esperimenti nucleari sotterranei in
Cina e nel mare a Mururoa; mi soffermo su Cernobyl e su
chissà quante altre centrali atomiche che hanno perduto
anch’esse spifferi pesanti, ma noi non l’abbiamo mai
saputo. Rinnovo con dolore il ricordo delle ultime piogge
radioattive di quaranta anni fa in seguito alle varie guerre
sante che ci caricarono di uranio impoverito, carbonchio,
tifo petecchiale, peste e chissà quant’altro, tutto per tutti
uguale, trasportato nell’aria da un vento imparziale e
democratico. Mi si riaffacciano alla mente anche le vecchie
polemiche sui cibi transgenici e sui mangimi imbottiti di
antibiotici e ricordo i vecchi fertilizzanti a base di DDT e
sorrido mestamente ai vecchi telegiornali che parlavano
dell’aria pregna di benzene e polveri fini...
Quanti ostacoli ad un semplice onesto voler vivere
tranquilli!
Ma tutto è stato superato nell’inestinguibile gioia e
volontà di vivere e nell’entusiasmo dell’uomo che permette a
sé stesso un adattamento ammirevole per il proseguimento
della specie.
Sono qui seduto che rifletto, con la mia bombola “long
life”e la mia valigetta di sopravvivenza attaccata alla schiena
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e mi intenerisco a guardare il sangue del mio sangue, il mio
nipotino in fasce, e sorrido comprensivo, o forse
completamente rimbambito, con una lacrima che scende
dal mio volto rugoso, nel vederlo agitare nella culla con
vitalità i suoi piccoli e ancora teneri zoccoli......
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IL GRANDE PELLECCHIA
E’ scomparso oggi, ne danno notizia i congiunti
intervenuti nella “room”, Pellecchia.
Frequentava la chat denominata “Over sempre”.
Era affabile, brillante, comprensivo e tollerante con tutti
e tutte, sempre disposto a giocare, sempre disponibile ad
ascoltare sfoghi e trovare una parola giusta che potesse
squarciare un velo.
Per LadyErotic, una divorziata trentacinquenne, era un
alto signore brizzolato, charmeur, con uno speciale
magnetismo nello sguardo e nella voce, signore di stile e
comportamento, elegantemente allusivo, attento e sensibile
nel farla sentire donna desiderabile e interessante…
Per GretelLsb, una spigolosa ragazza di diciannove
anni, era un caro amico, un compagno di confidenze, gay,
non ancora trentenne, incoraggiante e complice con uno
spirito frizzante che la faceva sentire a suo agio senza
complessi di colpa o dubbi esistenziali…
Per BombaMafalda, una aggressiva donna single molto
politicizzata, era un piacevole compagno di percorso, un
estroverso giornalista sempre presente e pieno di
comunicativa, un aperto quarantenne disincantato che
riusciva a smussare angoli e a disinnescare scoppi di ira e
indignazione in tiepida rassicurante ironia…
Per CiccioHomer, studente di economia politica
prossimo alla laurea, era un amico, un coetaneo di ventisei
anni compagno di bisboccia e spalla di battute fulminanti
per i presenti nella stanza…Era un grande, Pellecchia,
ciccione pigro e vulcanica mente sempre pronta al riso e
allo scherzo…
Per Ibiscanuto, era uno stimato spirito pacato di
terribile vecchio esperto della vita, pungente e acuto come il
suo cervello di lucido sessantenne provato nel corpo,ma
non nella mente…
Altri ed altre parlarono spesso o di rado con Pellecchia e
qualche spirito maschile ebbe ammirazione per lui; qualche
spirito femminile fu tentato di offrire il cuore e il
sentimento, virtualmente, ma poi neanche tanto…
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I congiunti di Pellecchia, l’infermiere Antonio e il collega
Mario, della clinica privata “Raffreddore di Sigmund Freud”,
hanno spento per l’ultima volta il suo portatile nella stanza
dodici al terzo piano, reparto dei non autosufficienti:
trattamento deciso multivitaminico e blando di “Control”,
con permesso di comunicazione con l’esterno…
Che esterno avrebbe mai potuto vedere il loro assistito,
tetraplegico, deforme come un mucchietto di stracci, su una
sedia a rotelle?
Antonio e Mario sanno che non digiteranno più, non più
quello che veniva loro dettato con un filo di voce: non
sarebbero mai capaci di sostituirlo…
Si sono guardati muti e tristi: anche loro hanno perduto
Pellecchia…
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SCARABESISTENZA
Sto rotolando una pallina di cacca e sto riflettendo…
E’ forse un bene avere un’attività preminentemente
fisica senza impegno cerebrale: devo solo decidere se
fermarmi o andare avanti, a destra o a sinistra, e ho,
quindi, tempo di pensare e di ricordare.
Non riesco a pensare molto bene, ma ricordo qualcosa
di vago e indistinto…
Un letto, mi pare, e poi una luce abbacinante che
calamitava me e altre lucine tremule variamente colorate in
un bianco sfolgorante luminoso.
Dalla luce fuoriuscivano corpi di bambini sparati al
rallentatore verso una palla bluastra insieme ad animali e
piante e cose di ogni specie…
Mi sto stupendo del mio lessico: un’acquisizione
misteriosa…
Mi sta perseguitando una parola nella mente:
reincarnazione, e mi sento un perdente, un peccatore forse,
uno sfigato di diverse vite senza legge del compenso.
Mi sovviene ancora altro: fallito e suicida…non capisco
che significhi, ma mi ronza in testa, e un’altra figurazione…
scarabeo stercoraro… chissà… forse io… chissà perché…
Ho la sensazione di non avere mai compreso nulla,
neanche quando ero altro, stelo d’orzo, geometra al catasto
o insegnante presso una scuola elementare, lemure o
lichene grigiastro, foca ammaestrata o locusta vorace, e mi
chiedo anche adesso: che senso ha spingere una pallina di
cacca lungo un crinale, sapendo che rotolerà di nuovo giù,
per poi risospingerla ancora?
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LA VERA STORIA DI N.K.
Il Presidente dell’Associazione degli Scienziati concluse,
grave, il suo drammatico intervento:
“…Signori, si sta avvicinando, secondo le mie teorie e i
miei calcoli, un nuovo tempo per noi, un tempo che
cancellerà quanto prima la nostra civiltà…Bisognerà
prepararsi sollecitamente a partire dal nostro mondo…”
Venne sbeffeggiato dai colleghi scettici e vecchie rivalità
e invidie ridicolizzarono il suo autorevole discorso.
Solamente Jor-El annuì severamente e ritornò a casa
pensieroso.
Predispose, dopo notti insonni, con l’aiuto della moglie,
una piccola astronave per il suo unico figlio Kal-El, e attese
il previsto evento disastroso, senza speranza per sé ed il suo
popolo, ma fiducioso per l’avvenire del suo stesso sangue.
Il Presidente dell’Associazione ebbe, purtroppo, ragione
e nuovi fenomeni mai accaduti scossero il mondo immerso
in quella bolla protettiva di aria circondata da acqua…
Jor-El predispose la partenza del missile e salutò
accoratamente il figlio: “Figliolo, non sarai mai solo. Sarai
accompagnato da me e tua madre sotto forma di impulsi
che ti insegneranno tutto lo scibile nel tuo lungo prossimo
viaggio. Avrai un futuro da eroe del bene e della giustizia
perché al di fuori di questo mondo, all’esposizione diretta
dei raggi di sole che qui viene filtrato dalla cupola d’acqua
che ci protegge, acquisirai superpoteri. Vai, figliolo mio, e
che la forza della ragione sia con te…”
Il missile partì nell’istante della rovina del mondo.
Il vento d’autunno scosse la grande foglia e la staccò
dall’albero scuotendola in un vortice fresco: la goccia di
rugiada scivolò dalla superficie innervata e si frantumò in
minuscole piccole gocce mentre un granello impercettibile
esplose nell’aria verso terra.
Il piccolo Kal-El uscì incolume dal missile disintegrato
alle pendici di un piccolo formicaio e si guardò intorno
fiducioso nel proprio destino appreso durante il suo lungo
viaggio…
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Una piccolissima feroce ed agguerrita formichina rossa
lo sorprese in silenzio, lo serrò all’improvviso velocemente
tra le sue tenaglie e lo trascinò nel formicaio come provvista
per il freddo prossimo inverno.
Finisce qui la vera storia di Kal-El del mondo di
Krypton, conosciuto anche come Nembo Kid…
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CONTO ALLA ROVESCIA
“La morte è soltanto un aspetto dell’essere e, forse, neanche
quello definitivo”.
Nel duemilaottantanove comparve il Frequenzimetro
Vitale, una specie d’orologio da polso a cristalli liquidi.
Dopo il duemilacinquanta la scienza fece passi da
gigante nella conoscenza, e ripetute manipolazioni
genetiche di dna e di mitocondri aprirono la porta arcana
per determinare la durata della vita.
Un’ossessiva e martellante educazione filosofica a non
temere la morte, un misto tra stoicismo di Seneca e rigoroso
pragmatismo venato di fatalismo arabo, completò il quadro.
Il capitalismo dell’era dell’idrogeno ebbe il suo varo
naturale con la migliore organizzazione della vita nell’attesa
dell’ineluttabilità della morte naturale.
L’organizzazione di una popolazione planetaria si poggia
sull’organizzazione e la razionalizzazione di quotidianità
della base, del singolo, ed allora tutti, grandi e piccini,
ebbero il loro frequenzimetro d’ordinanza che indossarono
con ordinata rassegnazione sullo stesso polso appena sopra
l’orologio classico digital-barometro-contapassi.
Dopo qualche brivido iniziale, retaggio di tempi
trascorsi, nel vedere un numero di cinque cifre grande, i
giorni da vivere, e quattro più piccoli, le ore e i minuti della
giornata, che scattano a ritroso, ci si abitua e si diventa
indifferenti.
L’indottrinamento a non temere la morte e ad accettarla
con serenità e lungimiranza organizzativa nei confronti dei
cari che rimangono è stato instillato in maniera capillare e i
più vicini al traguardo, quelli che ormai hanno soltanto due
o tre cifre grandi, si preparano al salto verso uno dei pochi
misteri ancora da deflorare predisponendo ogni eventualità
al meglio per il permanere di persone care ed eredi.
Per le morti accidentali esiste l’Assicurazione planetaria
obbligatoria che risarcisce gli eredi per il dolore di una
perdita non prevista e non annunciata dal frequenzimetro.
Per i refrattari, inguaribili personaggi attaccati alla vita
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nonostante tutto l’apparato propagandistico, esiste, ma solo
per le ultime due ore di esistenza, una fiala di morfina
distribuita previa presentazione di ricetta medica dei
vitalmedici.
Mort è sempre stato un pigro e un menefreghista, di
poco senso pratico.
Sono tre giorni che ha il suo frequenzimetro spento,
forse guasto, e sono tre giorni che si dice che deve andare
nel laboratorio di quartiere per la riparazione e la
registrazione.
Rimanda sempre, per un ascolto rapito di buona
musica endocranica o per una intrigante videotelefonata
olografica con qualche sua amica simpatica e fantasiosa,
ma non può più rimandare oltre: ha già avuto un rimbrotto
dal
vitalvigile
di
quartiere,
che
è
responsabile
dell’organizzazione del quadrante B della città.
Facile!
Un polso con un quadrante nero in mezzo a tanti polsi
con cifre rosse che si muovono non passa certo
inosservato…
Eccolo là, Mort, davanti al banco del laboratorio di
fronte ad un addetto in camice bianco con il suo
frequenzimetro lucido e attivo.
“Sono tre giorni che non va…guardi un poco quello che
c’è da fare…riparate questo o me ne date uno nuovo?”
“Faccia vedere, lo devo esaminare, prima…”
Mort si sfila l’aggeggio e lo porge al tecnico.
“Quanto le era rimasto?”
“Da vivere?”
“Sì, certo…”
“Guardi, con precisione proprio non lo ricordo…mi pare
seimilacinquecento…”
Il tecnico annuisce e soppesa per il bracciale il piccolo
contatore, poi lo scuote delicatamente vicino ad un orecchio
per ascoltare chissà quale ingranaggio fuori posto.
“Che ne dice?”
26
“Non saprei: forse la pila nucleare è difettosa o forse lei
ha picchiato da qualche parte con il braccio senza
accorgersene…”
Il tecnico si gira indietro verso una enorme scaffalatura
a muro alla ricerca di uno specifico cassettino per prendere
una pila di ricambio e provarla.
Le riparazioni, in genere, si fanno sempre con il
concetto dell’esclusione: si esclude una possibilità, poi
un’altra, poi un’altra…
Fruga in un cassettino, guarda una pila, la ripone,
cerca con lo sguardo una etichetta informativa. Intanto
agita il frequenzimetro vicino all’orecchio: non si sa mai…
Un piccolo lampo di accensione: si materializzano delle
cifre.
“Ehi, ma è strano assai! Ora funziona, ma è curioso:
qualche microchip dissaldato forse…Segna tutti zero,
grandi e piccoli…”
Si rigira verso Mort, ma non c’è nessuno al di là del
banco di fronte a lui.
Si sporge.
Mort giace come un fagotto informe sul pavimento con
una curiosa aria sorpresa e gli occhi sbarrati.
Sarà un gran daffare per l’Assicurazione, di fronte agli
eredi, nell’ambito delle responsabilità…Si dovrà stabilire se
Mort
è morto naturalmente per come enuncia il
frequenzimetro o se sia rimasto vittima di qualche incidente
inspiegabile…
Mort, da vivo, pigro e menefreghista, non ha mai acceso
un’assicurazione facoltativa per incidenti extra previsioni:
reputava sufficiente l’assicurazione “Zero ore”…
27
TANTI PICCOLI EROI DI MONDI PARALLELI
Lo mise a fuoco.
Silvanòs Berluskonìdis, l’anziano austero presidente
greco, visita Istambul per il primo storico incontro
diplomatico ufficiale tra greci e turchi dopo la risoluzione
dell’annoso contenzioso sulla sovranità dell’isola di Cipro.
Il problema, squisitamente politico-strategico, è stato
recentemente risolto salomonicamente con il patrocinio e
l’egida dell’ONU.
Cipro è stata distrutta e affondata con la sistemazione
di novantasei ordigni nucleari prelevati dagli arsenali
atomici dei maggiori paesi produttori in una giusta
ripartizione proporzionale.
Clima festoso nella capitale economica turca nonostante
un’acquerugiola fosforescente e appiccicosa che scorteccia
la pelle.
Berluskonìdis, protetto da un grande ombrello in fibra
di piombo, si rivolge alla folla plaudente con un sorriso
severo e ampi gesti del braccio.
Il suo aspetto segaligno e allampanato, con il profilo
tipicamente greco e una corona di capelli argentei da
grande patriarca, ed il suo incedere lento, sorretto da un
bastone pomellato in argento, contrastano con la figura
bassa e rotonda del presidente turco, untuoso e vagamente
somigliante a Mussi, ma senza occhialini, con un
impermeabile militare stazzonato ed un fez rosso stinto…
Lo mise a fuoco.
Il successore di Gavroscìly, Maresciallo Silvàniy
Byerlùskoff, è eletto unanimemente dalla Duma per
acclamazione, per la prima volta in assoluta trasparente
democrazia, nella contingenza di dovere organizzare un
fronte comune contro la mafia russa, e visita le province
remote di Vladivostok, acclamato dalla comunità locale.
Il biondo premier, il più giovane della storia della Russia
e della confederazione delle repubbliche sovietiche, non
ancora quarantenne, ha attraversato in pochi giorni l’intero
comprensorio confederale e ha intrattenuto rapporti
28
improntati alla massima e fattiva collaborazione con
calmucchi e tagiki, turkmeni e georgiani e altri ancora, con
il suo sorriso felino e accattivante e la sua divisa di generale
di corpo d’armata perfettamente in ordine in ogni occasione.
Si sono scambiati freddi sorrisi di circostanza soltanto
con il rappresentante della Cecenia, il piccolo e tenace
Violanteff, per ovvi motivi: Byerlùskoff non ha ancora
metabolizzato l’ottenimento dell’autonomia del popolo
ceceno tramite la lotta indipendentista culminata con la
distruzione dell’Hermitage e dell’ala nord del Kremlino,
solamente tre anni prima.
Il giovane statista però, con astuta e consumata abilità
diplomatica,
ha
rovesciato
l’insuccesso
politico
trasformandolo in successo economico ed è riuscito ad
ottenere la cogestione perenne dei giacimenti petroliferi
della provincia recalcitrante in cambio di ottomila
distributori automatici di wodka-cola sul territorio.
Ma le ferite sono ancora fresche, come testimoniano un
occhio di vetro del premier ceceno, che sostituisce quello
perduto ad una proiezione propagandistica con Maria
Defilippìskaia Konstanzòva, e una mano di legno di
Byerlùskoff, frutto in un attentato che ha visto perire il suo
fidato guardiaspalla Emile Fedesky.
Lo mise a fuoco.
Conclude il suo discorso ricorrente del giorno del
ringraziamento con le parole “God bless America” nello
spiazzo antistante la Casa Bianca, davanti ad una selva di
microfoni.
E’ raggiante, Syl Bèrlooscon, e ammicca ai vari famosi
giornalisti presenti, con i pollici alzati e battute
scoppiettanti di tipico umorismo di concreto texano.
Alto e bello come un divo di Hollywood, Bèrlooscon è il
presidente con il più alto indice di popolarità fin dai tempi
di Kennedy.
E ora è lì, davanti alle televisioni di tutti gli Stati Uniti
d’America, a certificare il suo successo con il compimento
dell’ultimo atto politico della sua lungimirante capacità
29
visionaria ambientalista a prosecuzione di vecchi sogni del
suo vecchio maestro George W.Bush.
Mai più alcun incendio in America.
L’ultimo albero, l’albero simbolo, quello sotto il quale
aveva fatto alla nazione la sua promessa con la mano sul
petto, quello che resisteva nel centro di Central Park, a New
York, è stato abbattuto proprio oggi.
L’America non avrà più incendi devastanti di parchi
naturali e foreste, dall’Alaska fino in New Mexico, e la
produttività di fiammiferi e stuzzicadenti, per la protetta
industria americana, conoscerà impennate e successi
duraturi per i prossimi dodici anni con un incremento delle
esportazioni del duecentocinquanta per cento.
Bèrlooscon sorride felice abbracciato alla First Lady e
accarezza la sua mascotte, il simpatico criceto Faxinow,
appoggiato spaurito e tremante tra i microfoni.
Lo mise a fuoco.
E’ riuscito nel suo intento.
Siede pigro e assorto su un dondolo all’ombra di un
gigantesco patio in una faraonica villa di Bogotà.
Riflette, don Silvino Berluscones, in tuta mimetica,
fascio di muscoli e nervi addestratissimi, con lo sguardo
assorto perduto lontano, mentre una giovane campesina gli
carezza ‘los cocones’ attraverso la divisa sporca di fango e
sangue.
Guardie del corpo armate fino ai denti proteggono
quella strana intimità sciatta e distratta sorvegliando l’alto
muro di cinta e le siepi di canapa (indiana).
Berluscones, in realtà, sta provando un altro più
piacevole orgasmo.
E’ riuscito, finalmente.
E’ il padrone incontrastato dell’intero sud America.
Ha annesso alla Colombia, con il suo agguerrito esercito
rivoluzionario cocainese, il Perù, l’Equador, e poi il
Venezuela ed il Brasile, ed è sceso al Paraguay, all’Uruguay,
e ancora più giù al Cile e all’Argentina.
Le sue pupille sembrano quelle di Zio Paperone, con il
simbolo del dollaro, ma in realtà hanno stampata
30
l’immagine di enormi e innumerevoli foglie di coca di
sterminate piantagioni da Cuzco a Bariloche.
E’ stato geniale nell’aver compreso, finalmente primo
dopo tanti semplici rubagalline da pochi milioni di dollari,
che sarebbe dovuto scendere a patti con le varie
tentacolarità del potere capitalistico.
Ottenne
il
beneplacito
alle
sue
iniziative
espansionistiche, quello che voleva, con l’intuizione
brillante di una diversificazione della distribuzione.
Promise eroina e cocaina tagliate alla stricnina o alla
Coccoina, la colla, per le classi meno abbienti e più
ribollenti: pensionati al minimo della sociale, new global,
girotondini,
critici
sinistrorsi
clintoveltroniani,
intellettualoidi gramsciani e calvinisti (nel senso di Italo); e
garantì eroina e cocaina di primissima qualità per gli
allineati benestanti e produttivi, con premi in dosi speciali
per i migliori rastrellatori di spazi pubblicitari: un semplice
uovo di Colombo.
Ed ora è lì, in quel patio, solo con sé stesso ed il suo
trionfo, Berluscones, padrone del mondo, con quella
campesina
spaurita
che
cerca
di
spremergli
un’infinitesimale parte di successo…
Lo mise a fuoco.
Il primo santo vivente della storia della cristianità.
Sua Santità Papa Silvius I è proclamato santo in una
piovosa domenica di settembre con un’atipica celebrazione
liturgica dove il Pontefice prende parte come protagonista
eletto anziché elettore.
Il meccanismo di beatificazione e poi di canonizzazione
è cominciato anni prima, da quando fu visto camminare
sulle acque del laghetto di Milano 3 benedicendo i gabbiani
dell’idroscalo e intrattenendosi a parlare con i numerosi
cani spisciacchiosi del parco Lambro ed il sindaco Albertini,
tutti insieme e senza interprete.
Furono archiviati nuovi segnali della santità di questo
uomo fragile, quasi macilento, sempre malinconico e umile.
31
Fu visto imporre le sue mani su una povera vecchina
terremotata di una località sperduta dell’Appennino in un
sommesso e pio: “Mi consenta”.
La vecchina morì sul colpo accasciandosi tra le grida
isteriche d’ammirazione e celebrazione dei presenti.
Volle imporre le mani anche sul sindaco, della giunta di
centrosinistra, ma il primo cittadino si schermì con un
inchino rinculando velocemente.
E’ dato di sapere, consultanto gli archivi vaticani, che in
diverse benedizioni ‘urbi et orbi’ dalla finestra dello studio
che volge su Piazza S.Pietro, si sono avuti miracoli senza
alcuna spiegazione scientifica.
D’Alema ha cominciato a parlare in latino, Mastella e De
Mita, finalmente, in italiano; Bertinotti è divenuto frate
secolare laico e si è ritirato in un monastero tra le gole
dell’Irpinia e Marco Pannella è divenuto bulimico e ora pesa
centoventisei chili.
Il miracolo più grande di tutti, tuttavia, fu la
conversione all’islamismo dell’onorevole Bossi.
Sua Santità Silvius I ora benedice e benedice…
Lo mise a fuoco.
E’ circondato da un’aura celeste abbacinante ed il suo
capo chiostrato di una fluente chioma azzurrina cinerea è
sormontato da un triangolo d’oro splendente.
Cori d’angeli tessono lodi e canti al dio Silvio, unus et
unus, per evitare confusioni fastidiose e caotiche
ripartizioni di potere con Piersilvi figli e spiriti santi fini
(gianfranchi).
Spande il suo sguardo paterno a contemplare il mondo
e l’universo tutto, l’universo uno, l’universo due e l’universo
tre con piscina condominiale, e tremano gli eserciti ed i
popoli, in genuflessione e stridor di denti, per il peso della
terribile giustizia divina corretta dall’arcangelo Cirami, e di
dolorosi condoni fiscali.
Ed i fassinidi si pascono del dolore e della sofferenza
nella vita in peccato mentre in alto i cuori levano gli
storacidi e i tremontidi in comunione ai buttiglionidi soavi.
32
Ed Egli contempla la sua opera creata a Sua immagine
e somiglianza fin dalla presentazione, con la testa della
Medusa in cinemascope e le musiche di Ennio Moricone in
senso-sourround…
Fu bacchettato mentalmente, il distratto allievo Xur,
nell’asettico laboratorio scientifico dell’Istituto Stellare di
bioetica di Kmor, illuminato da pallide luci ultraviolette per
la lezione di biologia intrauniversale parallela che prevedeva
esperimenti in vitro extrastellari.
Il severo professore calò un tentacolo pesante ed
urticante sulla giovine schiena del maldestro studente
apprendista intento ad esaminare vetrini di culture di
mondi similari paralleli.
Fu sferzato da un telepatico richiamo stizzoso.
“Così non va, mio giovane inesperto Xur, non va.
Non poni la giusta doverosa attenzione nel maneggiare
quei vetrini: ti percepisco distratto e negligentemente
disordinato.
Stai correndo il grande rischio di mescolare i brodi di
cultura che già sono diversi per altre asinine commistioni di
tuoi colleghi allievi, rispetto a come furono creati in
laboratorio secondo astruse formule computerizzate e
calcoli perfetti.
Diventerà un’impresa impossibile il riuscire ad evolvere
una qualsiasi reazione chimica in maniera razionale e
soddisfacente.
Già un tuo collega zuccone del corso precedente
mescolò qualche vetrino contaminando le qualità
organolettiche di un mondo con un altro…
Ma tu lo sai che nel mondo B, ti dico di circa sei o sette
corsi precedenti, si poteva esaminare soltanto un piccolo
chansonnier su navi di crociera che era accompagnato al
pianoforte da un semplice batterio di nome Confalonieri e
nel mondo F uno statista tombolotto con il soprattacco
faceva le corna in fotografie ufficiali come un qualsiasi
goliarda dell’università ludofrenica di Mercurio?”
Il pallido Xur, vergognoso e timido, si profuse in
tormentate scuse, con la mente a soqquadro, ma il danno,
33
ormai, era stato commesso, e i mondi dall’A alla Q
divennero pressoché
inservibili ed inutili nel goffo
esperimento…
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LA GIUSTA CAUSA
Esce di casa, varato come una motonave, Josè Padilla,
non quello della musica lounge, oggetto anche di un lancio
classico di bottiglia, vuota, da parte di Clorinda, la moglie.
“Vai al sussidio, buono a nulla che non sei altro! C’è da
pagare la luce, parassita!”
Josè è un uomo normale di mezza età appena
sovrappeso, né bello né brutto, con due baffi e una mosca,
alto, pigro, mite sognatore o forse semplicemente
fancazzista.
Esce evitando miracolosamente lo pseudobattesimo da
varo e trotterella indifferente lungo il riposante immenso
ombrato vialone di tigli alla volta del centro.
Non si è mai compreso, con il senno di poi, se Josè sia
stato un giovane pensionato, un disoccupato, un
perdigiorno semplice oppure un perdigiorno di prima classe
con trascorsi di giocatore di carte e di biliardo e annessi
debiti o crediti.
Josè assorbe epidermicamente suoni e odori e colori
del viale: l’aroma dei tigli che stormiscono dolcemente ad
una leggera brezza, fumo disperso in refoli effimeri e fugaci
di sigarette d’ottima marca e popolari incatramate, urla
gioiose di bimbi che rincorrono una palla multicolore,
richiami salaci del venditore di cocco, fruscii di giornali che
si sgualciscono a letture più o meno attente, cadenze di
passi strascicati, decisi, oziosamente vaganti senza meta
oppure diretti qui o là.
Calura asfissiante in città e i tigli possono poco, anzi
stordiscono.
Tarda mattina e stranamente sempre meno gente, quasi
che tutti si voglia cercare riparo fresco dentro casa o dentro
un negozio provvisto, magari, di aria condizionata.
Josè arriva nell’immensa assolata piazza del Magnifico,
con in fondo la residenza del Magnifico, il Presidente,
riverberata dal sole come una maiolica e cotta da raggi
implacabili che lo scroscio delle due monumentali fontane
figurative postavanguardiste non rinfresca neanche in
metafora.
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Panchine marmoree bollenti e deserte, poca ombra sotto
giovani alberelli, sole quasi a picco.
Josè ha un improvviso dolore lancinante, luminoso e
puro, lungo il braccio sinistro fino alla spalla, e geme e
stramazza a terra: pensa ad un infarto e ride dentro di sé
amaro all’idea che non si vince nulla nell’indovinare.
Un raro passante con notevole riporto a banana, strano
oggi quanta poca gente c’è in giro, si avvicina e contempla
l’infartuato offrendo generici servigi, untuoso e timoroso
insieme, in pieno sudore, bagnato come una pantegana.
S’accosta marziale anche un alto uomo d’aspetto quasi
nobile di ‘hidalgo’, forse, di chi è abituato a comandare, e
spuntano fuori come funghi o elfi magici altre figurette di
persone curiose: un presepio estivo di comparse sudate
senza pecorelle e caldarrostaio.
Il Marziale ordina con voce stentorea baritonale:
“Aria: lasciategli l’aria da respirare, fatevi più in là, non
stategli troppo appresso!
E lei, Querula Pantegana, non stia lì ad agitarlo. Non si
dovrebbero muovere persone che hanno malori.”
Si fanno sotto un Gobbo Servizievole, che appone la sua
giubba arrotolata sotto il capo di Josè, e una Massaia
Materna che prende la mano del sofferente fratello in Cristo
e comincia a pregare sommessa sorridendo per infondere
coraggio con giaculatorie funeree sul regno dei morti tra
sporte piene di ciuffi di porri e peperoni verdi e gialli e frutta
di stagione.
S’avvicinano Ciuffetto Sfaccendato e Brufolo Vispo, due
ragazzi curiosi che non hanno soldi bastanti per un
ingresso alla piscina comunale.
Marziale ‘hidalgo’ impartisce ordini e organizza i
soccorsi come un Nelson in feluca estiva Nike con fodera e
retina traspirante.
“Ehi tu, Brufolo Vispo, corri al bar lì di fronte e ritorna
con una brocca d’acqua, e tu, Ciuffetto Sfaccendato, corri
alla cabina a telefonare al soccorso. Signora Materna
Massaia, non lo asfissi, per favore...”
Le guardie di scorta all’ingresso del poco lontano
palazzo del Magnifico allungano il collo per comprendere
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cosa stia succedendo e sembrano Smilzi Varani in
grigioverde: forse parlottano tra loro, oppure vibrano le
lingue all’aria torrida.
S’avvicina al gruppo pietoso Sergente Varano dal baffo
azzimato.
Materna Massaia inacidisce verso Marzialehidalgo
roteando gli occhi bovinfideisti:
“Cosa vuole capirne lei di gente che sta per morire? Gli
tengo la mano e prego la Vergine beata del Magnifico che
non soffra troppo…”
Josè è inquieto, ma debole, e soggiace ad un dolore
secco come un punteruolo nel cuore: fugaci pensieri di
vampiri resistenti alla luce, quelli nuovi di cinematografia
che non sa più cosa raccontare.
Ricordi di un’ultima partita a poker, di un debito da
estinguere tra pochi giorni, del macellaio Ramiro che
picchia con il batticarne i morosi sulle giunture delle
articolazioni, a fare male, e questa rompicoglioni cornacchia
con i porri che attira la sfiga del cosmo sul suo cuore nero
di paura di morire.
Un sospiro asmatico come scarburato.
Ritorna sollecito, Brufolo Vispo, con una brocca, seguito
da un personaggio nuovo con grembiulino nero, Barman
Pigro, che ha mollato la vecchia Faema argentata con tre
clienti punti interrogativi al bancone.
Si fa dappresso anche Passante Indifferente, un
dinoccolato informatico freddo nonostante l’afa, che
esamina Josè attraverso occhialoni spessi come fosse un
blocco di sistema a schermata blu con codici strani.
Marziale ordina vago, a tutti e nessuno o uno in
particolare:
“Forza, ragazzo, inumidiscigli la fronte, ma fallo
respirare…E lei, Sergente Varano, può sollecitare
un’ambulanza per questo povero essere? Quel Ciuffetto
Sfaccendato laggiù in cabina sembra incapace di fare una
telefonata…Gioventù d’oggi senza esperienza e voglia di
apprendere…”
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Il Varano urla qualcosa verso Indolente Iguana
Semplice al portone laggiù: Iguana Semplice s’irrigidisce e
scompare quasi subito all’interno di una palazzina.
Passanti radi, processionarie più o meno operose che
neanche si fermano, occhieggiano con braccia cariche di
sacchetti di supermercato variopinti, e tirano in lungo quasi
in fila indiana o, a piacere, in ordine sparso, e scompaiono
dietro le fontane che barbagliano e gorgogliano.
Innaturale improvviso silenzio d’umani: solo l’ansare
scoordinato di Josè del punteruolo e vago allungare di colli
di soccorrenti verso l’altro capo della piazza del Magnifico.
Vociare scomposto che si avvicina come una ola da
stadio con lo stesso brusio.
E’ un attimo: appare la testa di un corteo per un
capodanno cinese scaduto.
Urla e striscioni e filastrocche rancorose contro il
Magnifico: una manifestazione…
Marzialhidalgo si erge con fiero cipiglio a fronteggiare
l’anarchia planetaria verso la massa ancora lontana che
cresce e lievita di stendardi e cartelli ed elmetti e pentole.
Cerca consensi con stile e autorità da capitano, anche
coraggioso, di lungo corso: poche parole carismatiche con
voce grave per l’equipe di primo soccorso all’aperto che
assiste Padilla.
“Si dovrà andare via di qui, ma non lo spostate: ne va
della sua vita.”
Josè percepisce nel dolore che qualcosa sta andando
storto: sembra quasi che si sia rotta una catena di
S.Antonio della solidarietà e che ognuno pensi solo a se
stesso come di fronte ad un nuovo naufragio.
Visioni in delirio di salvagenti vivaci a paperella e
scrosci delle fontane che sembrano innaturalmente
minacciosi, come una risacca scontrosa su scogli.
Si sente per poco Josè ‘Titanic’ Padilla, con soccorritori
intorno, ma di fatto solo.
Massaia Materna prega seria, non sorride più, e
nemmeno lo guarda…ma scruta oltre verso l’angolo di
piazza occupato dai rivoltosi, preoccupata, e le sue litanie
ora sono multicomprensive ecumenicosmiche.
38
Pantegana Bagnata si sta allontanando furtivamente:
pare, a Josè, che stia anche squittendo qualche scusa
leptospirosica verso gli astanti attraverso quei radi baffi
spioventi, con il riporto che si sta sciogliendo come una
banana flambè.
Scuse perdute nel vuoto dell’inquietudine dei presenti.
Gobbo servizievole esita utilitaristico: ha la sua giubba
sotto il capo dell’infartuato e gli spiace lasciarla lì…ha bei
tasconi capaci e ha le zip che frusciano da macho.
Poi si decide: svuota solamente le tasche, da sotto il
capo di Josè, prendendo le chiavi di casa e le sigarette, e
s’allontana celermente a zigzag come un dromedario
ubriaco con la gobba che pare ondeggiare ai balzi di
vogliosa prudenza a mettersi al riparo.
Ciuffetto ha abbandonato la cabina telefonica, ha
puntato la folla come un furetto, una marmotta, e ha fatto
un cenno a Brufolo Vispo di andare via e velocemente: il
compare recepisce e si allontana senza neanche un augurio
o una scusa seguito da Barman Indolente, ora sollecito e
improvvisamente di nuovo professionale, che si precipita a
tirare giù la saracinesca del bar con dentro ancora i tre
punti interrogativi di un ristretto e due lunghi macchiati.
S’allontanano tutti come scialuppe impazzite.
Dalla parte opposta a quella dei rivoltosi fa capolino,
sferragliando come un gigantesco meccano, un’autoblindo
seguita da un muro embricato di plexiglas ed elmetti che
riluccicano al sole come testuggini con protezione solare
otto, quella media.
Boato di sfida tra cartelli agitati: prove di film mitologico
con scontri d’arena e pollici versi, e ruggiti di camionette e
rutti di prime bottiglie con cencio che brucia.
I Varani del palazzo del Magnifico dimenticano il quadro
samaritano della piazza assolata di poco prima e serrano i
cancelli, accorti, e si appostano dietro sacchetti di sabbia
sfilando le mitragliette: si difende una nuova neodiga dello
Zuiderzee dalla piena... mitragliette al posto di dita, nel
muro delle idee.
Il Sergente Varano lascia soccorritori e agonizzante
rimuovendo ogni afflato umanista e corre verso la garitta a
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riacquistare la sua posizione dove lo aspetta Iguana
Indolente Semplice che ora sembra appena più elettrizzato
rispetto al curioso tiepido di prima.
Massaia Materna lascia la mano di Josè che ormai
rantola e piange sommessa facendo l’appello di tutte le varie
Madonne conosciute e non conosciute in scansione
euristica: così almeno sembra al Passante Indifferente,
informatico, in disparte, che ora mette però le ali ai piedi,
leggero come un mouse, in cerca di un riparo.
Padilla gli è apparso come un crash di sistema, la
Massaia Materna non è poi così potente come antivirus e
l’hidalgo autoritario vuole solamente salvare la faccia, ma
frigge come una scheda madre difettosa.
Massaia Materna nota con rancore la fuga
dell’informatico senza cuore, si leva in piedi, poderosa come
una dispensa, esorta un’ultima Madonna e corricchia di
piedi piatti, tenendo le scarpe con le mani, verso un angolo
di piazza deserto: porri e frutta giacciono orfani accanto ad
un futuro concime nella piazza che ormai diviene un
conosciuto videogioco.
Marzialhidalgo considera strategicamente la posizione
indifendibile e si congeda con brusca signorilità dal povero
Josè che presagisce nebbiosamente guai sovrapposti ad
altri guai in una specie di punteruolo che scaccia un altro
punteruolo.
E’ terreo, Josè, e mormora appena un informale:
“Mi aiuti…, la prego…” all’indirizzo del Marziale che è
abituato a comandare.
Quest’ultimo pare avere dimenticato il suo vecchio
corso di ufficiale di complemento, dove si distinse nel
governare plotoni di reclute, e la sua carica di
responsabilità di presidente dell’assemblea condominiale.
Rincula con dignità, ma inesorabilmente, in indifferenza
colpevole
tradita
solo
da
uno
sguardo
quasi
commemorativo, verso l’angolo già battuto a piedi nudi
dalla Massaia Materna, lasciando perle di saggezza
speranzosa per il povero fancazzista infartuato: parole
dignitose d’esortazione, lapsus di condoglianze, ancora
esortazioni…
40
“Tenga duro, tenga duro…”
Josè rimane solo con il suo dolore mentre nell’immensa
piazza del Magnifico, davanti al palazzo del Magnifico, si
avvicinano, in schieramenti opposti, manifestanti contro il
Magnifico e la truppa della sua polizia.
Le autoblindo sono diventate sei, per magica
autoblindopartenogenesi, e si sono affacciati sulla scena
anche un carro armato e un camioncino con la pompa
dell’acqua.
Di là, in opposto, si va avanti spingendo cassonetti pieni
di materiale combustibile.
Urla, comandi secchi, provocazioni, qualche sparo…
Come andrà a finire, per Josè, non ha molta
importanza: sta morendo tra i due fuochi.
Ultima immagine per Josè, ultima visione: un mortaio
di marmo cimiteriale con pestello di legno...con lui pinolo o
foglia di basilico odoroso per un pesto da ultima cena.
Addio mondo crudele.
Josè, varato poco prima dalla madrina, sua signora
Clorinda, affonda come un Titanic qualsiasi, doppia coppia
di assi e re, di fronte a ad un tris di jack…
COLPO DI STATO
Il popolo oppresso dalla miope politica del Presidente
Magnifico si è ieri sollevato contro le ingiuste istituzioni
autoritarie ed ha conquistato il Palazzo governativo
travolgendo ogni resistenza delle truppe mercenarie della
Polizia e dell’Esercito.
Si lamenta un morto per la giusta causa: un nostro
dirigente del movimento, persona coerente di specchiata
onestà, Josè Padilla, non quello della musica lounge, che è
stato travolto da un’autoblindo mentre cercava il dialogo
con il comandante delle truppe di difesa del dittatore.
Il nuovo Presidente Marziale Hidalgo ha dichiarato che
la piazza del Magnifico sarà dedicata al nome dell’unica
vittima della breve e intensa rivoluzione e si chiamerà
piazza del martire Josè Padilla della rivoluzione di giugno.
41
SVENTATO UN COLPO DI STATO
Le truppe valorose fedeli al Presidente Magnifico hanno
respinto un proditorio attacco di pochi facinorosi decadenti
e privi di valori che hanno cercato di assaltare il palazzo
presidenziale.
L’atto criminale è stato respinto con determinazione
dalle truppe e anche da civili che si sono affiancati ai
militari nella difesa dei valori immutabili ed immensi della
politica di stato del nostro Presidente.
Purtroppo si lamenta un morto, un martire, tra i
difensori della legalità, un onesto uomo della strada che con
la sua vita ha fatto professione di fede nei confronti della
politica del Magnifico.
Il Presidente ha dichiarato che l’uomo, l’eroe, Josè
Padilla, non sarà dimenticato nella storia del nostro popolo,
e sarà celebrato in una sua data ricorrente come salvatore
della patria a difesa dei valori della famiglia e della
tradizione.
Il macellaio Ramiro è divenuto intrattabile in questi
giorni e nessuno al circolo ha il coraggio di organizzare una
partitina al poker con lui: ha già pestato con il batticarne
una Pantegana Bagnata con tristo riporto a banana che ha
fatto una battuta di spirito sui martiri civili che non
onorano i debiti di gioco.
42
LA PAROLA DI DIO
Il fondo scuro della vetrina di Olympic, in piazza San
Carlo a Torino, rimanda in effetto specchio la curiosa
immagine di un ometto traccagnotto tra camicie e pantaloni
variopinti in saldo.
Modesto, l’apologia del rotondo, con testone quasi
pelato, pancetta prominente, occhi bovini a palla,
espressione mansueta e pigra, esamina prezzi e capi di
vestiario nel primo pomeriggio di un giorno d’agosto come
un bue da sacrificare alla divinità Canicola.
Rumina perfino: una caramella alla menta.
Atmosfera magicamente irreale.
I portici della piazza e di Via Roma deserti con sagome
lente lontane, calura sfiancante e riverbero agostano
stordente.
Modesto si gode le vetrine all’ombra e il silenzio della
città svuotata dei vacanzieri e dei rimasti residenti occupati
in pacifiche pennichelle pomeridiane.
S’aggira per il centro in aberrante tenuta da cittadino
sconfitto: pantaloncini corti colore sabbia del deserto da cui
fuoriescono due bianchi sedani pelosi, canottiera bianca
sudormaculata, calzini blu marino su sandali e marsupio in
finta pelle.
Basta veramente poco per godere della vita, almeno per
certe persone che si amano e stanno bene in propria
compagnia.
Modesto strascica il passo senza fretta oziando davanti
all’edicola del giornalaio, alla boutique, al negozio di
ricercate ‘delikatessen’, Paissa, e si bea dei tagli di sole tra i
portici, un qualcosa di vagamente metafisico alla De
Chirico, senza persone, senza ostacoli alla purezza delle
sole linee geometriche di luce e di ombre.
Percepisce un lontano scalpiccio dietro di sé, ma non
vuole dargli importanza.
Trasale con un misto di rassegnazione, fastidio e ironia
all’udire una voce garbata e suadente.
“Vuole ascoltare la parola di Dio?”
Risponde fermo e arcigno, a scrostare socievolezze.
43
“No, grazie. Non mi interessa.”
“Non le interessa la parola di Dio?”
“Non mi interessa ascoltare lei che parla della parola di
Dio, per lo meno adesso: se ci pensa è molto diverso, no?”
“Eppure, gentile signore, questo dovrebbe essere un
buon momento per ascoltare me che le parlo della parola di
Dio: nessuno può distrarci e questi momenti potrebbero
costituire una splendida occasione di arricchimento per lei
che ascolta e per me che avrei l’onore di farmi portavoce…”
Modesto, fino a quel momento distratto da una bottiglia
di grappa dalla forma inconsueta, esamina immusonito il
volenteroso apostolo.
E’ un giovanotto dinoccolato altissimo e quasi
scheletrico con due enormi orecchie a sventola.
Viene quasi da ridere a Modesto, (da che pulpito), nel
notare l’abbigliamento tipico di circostanza urbanpastorale: camiciotto con colletto rigido monumentale anni
settanta, a quadroni vivaci del tipo canovaccio da cucina,
ficcato in pantaloni semiascellari con tasche alla carrettiera,
fuori moda e anche fuori stagione, pesanti, caldi, strozzati
da una cinta consunta ben sopra l’ombelico del giovane
perticone.
Costui ha anche un sorriso che vuole essere
accattivante, ma appare indisponente, giallo, molto giallo,
deturpato da un nasone spropositato sormontato da
occhiali a montatura pesante e a lenti spesse come culi di
bicchiere.
Un ciuffo appena untuoso a coprire una fronte ampia e
fruncolosa.
Modesto nota anche il colorito diafano, gessoso, del
ragazzone che sorride sfacciatamente sereno e malizioso
piegato verso di lui con una borsa nera carica
probabilmente di opuscoli propagandistici.
Ha un vago senso di repulsione, di diffidenza, e si
guarda intorno alla vista di qualche altro passante, ma
prende coscienza d’essere solo, solo con il pennellone dal
muso di talpa.
E si irrigidisce.
44
“Senta, le ho detto che non mi interessa, grazie. Mi lasci
in pace…”
Si rigira esageratamente interessato verso una piramide
di barattoli di frutta esotica sciroppata.
“Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del
suo giudizio…Apocalisse 14,10…”
Modesto è investito e sorpreso dalla citazione.
Il giovane diafandumbo, da sorridente che era, spara il
messaggio con voce stridula e atteggiamento ieratico e
partecipe, serissimo, con gli occhi spalancati attraverso i
due culi di bicchiere, in curiosa rappresentazione grottesca
di un Harry Potter cresciutello, terrorizzato e terrorizzante.
Assume poi un tono asettico e professionale nel citare la
fonte che obiettivamente, in genere, incute una certa
soggezione e inquietudine: con l’Apocalisse, infatti, il pelo
aggriccia e le mani corrono alle pudende in vaghi
laicoesorcismi.
Modesto, in effetti, si rigira frastornato verso il
giovanottone, quasi spaventato dalla veemenza della
citazione, pensieroso sugli effetti del caldo e sulla ricca
aneddotica di brutti incontri metropolitani, e cerca di
mantenere una disarmante freddezza.
Gli sibila un dignitoso:
“Mi lasci in pace! Non ho voglia e tempo di ascoltare
quello che dice!”
Perticone, strizzando quel condominio d’occhi e
abbozzando di nuovo un sorriso irritante, provoca con voce
bassa e innaturale.
“Non pensa che la sua inquietudine debba ricevere
conforto nell’accettazione e nella consapevolezza del
significato della parola di Dio?”
Modesto comincia ad avere voglia di urlare.
Non ne ha il tempo.
Avviene una seconda trasfigurazione.
Predicator lascia cadere pesantemente la borsa in terra
con un tonfo e si lancia a braccia levate in una nuova breve
filippica con voce ispirata di profeta di sventure.
45
“E’ avvolto in mantello intriso di sangue e il suo nome è
Verbo di Dio… dalla bocca gli esce una spada affilata per
colpire con essa le genti…Apocalisse 19, 13-15”
Pronuncia i versetti con occhi liquidi e spiritati e voce
rotta dall’ansia, quasi gridando, per poi planare nel citare la
fonte con stile da centralino per taxi e spianare la bocca
digrignante in un sorriso.
Le smisurate orecchie appaiono come ali pipistrellesche
e conferiscono al predicatore un qualcosa di gotico.
Modesto ha un susseguirsi di reazioni che dal fastidio
iniziale, poi intarsiato di sufficienza e poi di indignazione,
virano verso quel tipico adirarsi che si confonde con
l’impotenza e la paura.
L’adrenalina cominci a pulsare nelle tempie del
rotondetto sfaccendato che decide di troncare ogni contatto
con il giovane giraffone pazzo.
Gira i sandali e cerca di allontanarsi in signorile
indifferenza.
E’ immobilizzato lievemente da una mano artigliante e
soprattutto dalla solita voce stridula che raspa nel cervello
come carta vetrata.
“Serpenti, razza di vipere, come potete scampare alla
condanna della Geenna? ... Matteo 23, 33”.
Si rigira inviperito, è il caso di dirlo, verso il lungo
profeta di disgrazie, Modesto, indignato per il contatto
fisico, e volge lo sguardo a destra e a manca alla ricerca di
un vigile o di un passante per una comune crociata contro
il predicatorprevaricante.
Nessuno.
Negozi e bar chiusi.
Orario inclemente: buono solamente per sfaccendati
pigri e predicatori zelanti.
Si trova davanti al Caffè Torino, il più antico e
blasonato della piazza, chiuso per ferie, alle prese con un
invadente preoccupante lungo individuo che accende
sospetti circa la sua ecumenica volontà di affratellante
proselitismo.
46
Cerca di divincolarsi e di allontanarsi e strattona da sé
quella mano ossuta che lo brancica per l’ascolto della
parola di Dio.
Il movimento è scomposto, dettato da rabbia, e il gesto
nel divincolarsi è inconsulto e fa scivolare il buon Modesto
sui lucidi testicoli bronzei levigati del torello sul pavimento
davanti al caffè Torino.
E’ tradizione cittadina sabauda pesticciare con
noncuranza durante il passeggio, preferibilmente con il
piede sinistro, sui testicoli imponenti del torello bronzeo
rampante che è incastonato tra i marmi della
pavimentazione davanti l’atrio del vecchio famoso caffè
Torino di Torino.
Si dice che porti bene: prosperità e fortuna.
E’ inutile rilevare che il torello, ancorché di bronzo, ha
le sue fortunate appendici genitali consunte da secoli di
disinvolti strofinii, e le ha anche, quindi, scivolose e
leggermente avvallate.
Modesto slitta sullo scroto del toro e frana
pesantemente di nuca sul marmo tiepido vicino ad una
colonna di seggioline impilate e assicurate con catenella.
Ha una scarica di elettricità violenta, buio assoluto
nerissimo senza rumori e senza tempo, e poi penombra
disarticolata e confusa in una sensazione di scorrere di
liquido caldo dalla nuca nell’appannamento della vista.
Resta a terra inebetito strizzando gli occhi sempre più
vitrei mentre la vita sembra abbandonarlo.
Distingue la sagoma dell’alto predicatore pazzo che gli si
avvicina con il volto trasfigurato verso il suo viso.
Lo riconosce dalle orecchie e dagli occhiali massicci che
flirtano esteticamente con i quadroni sgargianti del
camiciotto.
Pare, a Modesto, di distinguere strani bagliori attraverso
le spesse lenti, di gioia zelante per una consapevolezza di
utilità.
Gli sembra di intuire un abbozzo di sorriso, ma
potrebbe essere anche una smorfia malvagia di
incontenibile gioia…
Chissà.
47
Modesto ha la consapevolezza di essere in balia del
predicatore, ma si sente troppo spossato e sempre più
svuotato di energia per pensare anche solamente di
contrastarlo.
Vede quella chiostra di dentoni gialli atteggiati ad un
sorriso, vede un lampo tra le lenti, e percepisce ancora il
freddo della stretta di quella mano artigliante fredda.
Ode la solita voce ossessiva che gli sembra quasi
garrula e felice.
“Chiunque adora la Bestia e la sua statua…berrà il vino
dell’ira di Dio…e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto
degli angeli santi e dell’Agnello…”
Modesto rabbrividisce in pieno agosto di freddo, del
freddo della vita che se ne va, e pensa in pochi attimi al
torello di piazza San Carlo e alle sue proprietà
taumaturgiche tramandate da secoli di superstizione.
Associa come blando esorcismo il torello all’Apocalisse e
al predicatore che dardeggia fieri sguardi volti a dare
maggiore significato a quanto recitato.
Chiude gli occhi senza porsi troppe domande, ormai allo
stremo, mentre la stridula voce ritorna piana e cita la fonte
dell’ultimo versetto:
“Apocalisse 14,10.”
Modesto, uscito per godersi il silenzio e la riacquisizione
di spazi in sua sola compagnia, muore, forse emendato dei
suoi peccati, ascoltando la parola di Dio.
48
MINISTORIE DI MORTI STUPIDE PER IL TROPPO
CALDO
Un’afa soffocante a suscitare ribellioni e buoni
propositi: positivizzare.
La nuova parola d’ordine di Giorgio: positivizzare.
Reduce da un periodo nero di incidenti, lutti familiari e
di amici, problemi di lavoro e di salute, il buon Giorgio,
giovane di tratti e modi gentili e di spiccata sensibilità,
decise che avrebbe dovuto instradare un inevitabile nuovo
corso di eventi con il suo pensiero positivo.
Serenità, dunque, e una maggiore armonia nella
quotidianità della sua vita, con tempi nuovi scanditi nella
calma, nell’assaporare sensazioni positive con tempi umani
liberi da forzature imposte dalle vecchie circostanze.
Giorgio, immobile nel suo letto bollente, fece progetti di
nuova vita.
Basta con il fumare, con i fast food di plastica, con la
fretta che immusonisce nell’insoddisfazione e nell’incapacità
di afferrare momenti belli della giornata che passano, sì,
passano, ma veloci e quasi sempre non recepiti tra gli
sguardi vuoti di colleghi o cipigli diffidenti di passanti
frettolosi e distratti per il prossimo.
Giorgio si disse: comincerò da domani.
E dormì, nonostante la calura opprimente, il sonno del
giusto, di chi è in pace con la propria coscienza.
Il giorno dopo si destò con lo spirito del saggio monaco
tibetano e si sorrise allo specchio con fiducia e complicità,
in benessere con se stesso.
Si vestì con calma: una vestitura da torero o da
samurai, piena di consapevolezze, rituale.
Consumò una frugale colazione, olimpico nella
consapevolezza di un buon assorbimento di prana,
masticando piccoli bocconi come pile di energia vitale da
sfruttare con saggezza per tutta la giornata.
Quasi faceva meno caldo, seppure fosse molto caldo.
Ed uscì pervaso di serenità, con il suo sorriso stampato
come nuovo distintivo sul suo bel volto incorniciato da una
nuova luce.
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Gli sembrava di essere parte del mondo, adesso, e
sorrideva alla città e ai passanti diffidenti e torvi
ferocemente rassegnati alla solita ripetitività senza anima
delle loro giornate.
Il sole di rame contraccambiava dispettosamente, ma
Giorgio non se ne curava.
Qualcuno sgranava gli occhi, qualcun altro li abbassava
quasi colpevolmente.
Qualcuno si sentiva inferiore…
“Che cazzo hai da guardare e da ridere… Ricchione…Sei
solo un ricchione!!!”
Forse fu troppa birra, forse l’insofferenza per il troppo
caldo, forse la provocazione di un sorriso troppo aperto e
fiducioso.
Giorgio si accasciò con gli occhi sbarrati verso l’azzurro
del cielo, con uno squarcio nel ventre, mentre la sconfitta
delle solite cose fuggì stringendo tra le mani un bollente
coccio di bottiglia insanguinato.
Il gigantesco sanbernardo trotterellava al crepuscolo
dietro il finanziere sul ciglio dell’autostrada del Brennero.
Caricò improvvisamente il suo istruttore che urtò con il
capo l’asfalto rimanendo esanime a terra.
Il cagnone si agitò con una curiosa frenetica danza sul
corpo del militare e riuscì a legarlo con il lungo guinzaglio di
cuoio, da cui si era liberato, al garde-rail.
Si allontanò, poi, nel buio, latrando sommessamente
con una intonazione corporativa appena malevola.
L’impatto fu abbastanza forte e il ragazzo ebbe un
contraccolpo che lo lasciò un poco stranito.
Tanta gente intorno: l’aria della sera appena più fresca
favoriva le uscite alla ricerca di un minimo di refrigerio.
Il ragazzo assunse un’aria amichevole, quasi allegra e
complice, dopo lo scontro, per affrontare con sportività e
civismo uno sguardo di persona abbastanza adirata.
L’adirato era uno di quei classici bulli palestrati di
periferia con il taglio di capelli alla tedesca, da terzino
sinistro di una squadra di Bundes Liga, cortissimi davanti
50
ed esageratamente lunghi e spianati come da una
motofalciatrice ben più sotto della nuca.
Aveva un tatuaggio enorme con la solita ragnatela sul
gomito, banalissimo, e una barba ispida di tre o quattro
giorni che evocava cavalli di frisia e filo spinato.
Era con una ragazza che sembrava su misura per lui,
come da catalogo Vestro: una burrosa rotondetta con
minigonna eccessiva che evidenziava due cosciotti da
porchetta frascatana insalamati in calze nere a rete,
truccata pesantemente a cazzuolate, con uno sguardo
malizioso e bovino insieme, e lo smalto scrostato, a tinta
violentissima arancio, sulle dita dei piedi con sandali alla
schiava, e delle mani in arrossamento perenne.
Il truce terzino cominciò a sacramentare rifiutando
qualsiasi complicità, cercando assensi tra gli sguardi
indifferenti del capannello vicino dei presenti.
“Brutta faccia di merda, vengo da destra, non lo sai?
La mia donna s’è sbucciata un ginocchio e s’è sfranta le
calze a rete…
Che cazzo hai da ridere? Gliele paghi tu le calze?
Ti diverti a rovinare le serate ai cristiani?”
La voce cresceva in un rauco squadernare di insulti
sempre più violenti e adrenalina sempre meno trattenuta.
Vennero chiamati all’appello la mamma del giovane e i
suoi defunti più cari.
Venne nominato il nome di Dio invano e in maniera
oscena.
Il ragazzo manteneva, con ammirevole autocontrollo,
fotoimpresso quel sorriso, ora più vacuo e smarrito, e aveva
sgranato gli occhi per l’esagerazione della reazione.
Guardava l’energumeno e la folla, la porchetta che
ruminava una gomma e contraccambiava lo sguardo come
se contemplasse un cassonetto straboccante durante uno
sciopero dei netturbini.
Fissava il ragnatelato che ormai aveva il collo turgido
prossimo all’ esplosione e lo sguardo iniettato di sangue.
Sperava in uno scherzo di cattivo gusto e auspicava un
cicchetto e una pacca sulla spalla con due birrette al bar
vicino.
51
Fu un attimo.
Non si rese conto di nulla.
Venne sbattuto contro la sbarra della corrente elettrica
che aveva dietro la nuca e fu subito buio con le ultime
immagini di denti arrotati in ruggito bestiale e una frangetta
corta corta da terzino tedesco mossa da una brezzolina
schizzata di saliva rabbiosa.
Poi il buio.
Venne estratto dalla sua vetturetta, floscio, da braccia
caritatevoli mentre una nuova scenografia dell’allegoria
della pietà si andò a creare tra le urla sconnesse della
bovina e le goffe scuse mormorate a fonemi gutturali del
toro da monta che venne caricato brutalmente su una
pantera della Polizia.
Il pubblico ritornò a casa tra l’annoiato e il divertito
apprezzando anche un leggero calo di temperatura.
Il Luna Park si spostò dopo due giorni verso una ridente
località montana.
Neanche un graffio o una ammaccatura sulle due
vetturette dell’autoscontro.
52
SUCCHIARE IN PERFETTA LETIZIA
Tra qualche anno, speriamo pochi.
Ognuno di noi, anche un onorevole peone di un
partitino sotto il cinque per cento, ha una sua storia
importante da raccontare, un suo aneddoto che gli ha
cambiato l’esistenza o il concetto di intendere la vita.
Omero Treossi, l’acuto figlio di un macellaio di un
paesino, mi raccontò la sua risalente al periodo scolare.
Castelsassofrassodisottosopravicinoalfiumesulcolle era,
allora, una ridente piccola comunità di poche centinaia di
anime ingenuamente spoliticizzate, con due spacci di generi,
alimentari e non, un bar ristorante circolo con annessa
bocciofila, una chiesetta, un ufficio postale e una scuola
senza spazi per le affissioni in periodo elettorale.
Il paesino era dunque un’oasi di serenità.
La scuola era anomala, rivolta alla comunità esigua e a
qualche ragazzo delle campagne circostanti. Era un basso
fabbricato, di quattro o cinque stanzette, dipinto di un giallo
sporco che non era riuscito a cancellare una vecchia scritta
“Vinceremo”.
L’edificio racchiudeva le sezioni di scuola elementare,
media inferiore e liceo classico, seppure rappresentato in
soli due anni, quelli ginnasiali.
Gli alunni, ovviamente eterogenei da un punto di vista
anagrafico, erano disposti tra le stanzette a gruppi di uno o
due o pochi, come stanchi partecipanti a quasi inutili
commissioni della Camera dei Deputati, con volenterosi ed
entusiasti giovani professorini precari che venivano dalla
città a giorni alterni per le lezioni: un giorno lezione e un
giorno incazzatura per lo “status” di precari.
Il piccolo Omero frequentava con discreto profitto la
terza media inferiore ed era il solo allievo della sua classe:
un caso di tenera cronaca di telegiornale studioapertico o
emiliofedista a stornare attenzioni da cortei di disoccupati
organizzati.
53
Una mattina, in pieno ripasso, aprendo il suo libro di
Geografia, quasi gratuito, notò qualche pagina curiosamente
bianca.
Alzò la mano, come un bravo allievo rispettoso e, al
cenno della sua insegnante, si avvicinò alla cattedra con il
libro per partecipare la sua scoperta.
Le pagine che riguardavano Cuba e la Palestina erano
totalmente bianche.
La pagina della Corea del Nord era molto sbiadita.
Inspiegabile.
Il piccolo si incuriosì alla ricerca di altre stranezze e
cominciò a sfogliare gli altri libri di testo.
Fu un susseguirsi di altre sorprendenti pagine bianche.
Sul libro di Storia mancava il testo sulla Rivoluzione
d’Ottobre e su quello di Educazione Civica stava scolorendo
buona parte di tutta la Costituzione a partire dall’articolo 1,
quello che oggi fa tanto ridere soprattutto in Basilicata.
Il testo di Latino era pieno di macchie bianche a
leopardo e tante altre pagine apparivano scolorite: era un
libro praticamente inservibile.
Sul libro di Matematica non vi era alcun accenno
all’insiemistica.
La professoressa uscì dall’aula, seguita dal piccolo
Omero, per andare a parlarne con il collega che insegnava,
per il biennio ginnasiale, a due svogliati contadinotti con la
mente perduta dietro al fienile insieme alla Zaira, la scema
del villaggio.
Lo stupore aumentò.
Anche i libri del ginnasio apparvero mancanti di note e
capitoli interi.
Il docente non riuscì a trovare testi su Marx e su Hegel e
i due ragazzi svogliati, elettrizzati dalla cosa insolita,
cercarono invano capitoli su San Francesco, su Robin Hood,
sulla Rivoluzione
Francese, ed il loro libro di testo di
Latino si aprì su pagine completamente bianche.
Perfino il libro di Chimica presentava un foglio bianco in
corrispondenza dei radicali liberi.
Si guardarono come allocchi, i due professori, senza
darsi spiegazioni accettabili, quando sopraggiunse la
54
materna signora della nutrita classe elementare, di ben sei
virgulti, tra maschietti e femminucce, che sventolava un
sussidiario con diverse pagine senza testo e due altri
libricini che risultarono essere un Corso pratico per l’attività
del Patchwork e un Manuale per la manutenzione di forni a
microonde, questi ultimi apparsi sui banchi dal nulla.
I corsi della giornata si conclusero bruscamente e i tre
docenti si avviarono presso la locale piccola stazione dei
Carabinieri presieduta da un solerte Maresciallo.
La scuola appariva addormentata, come tutto il paesino,
del resto, ma tutti erano appostati nel buio della notte a
cogliere eventi anomali o a scorgere arcane presenze.
Il piccolo Omero, con il padre a fianco armato di
coltellaccio per disossare quarti di bue, diede un sobbalzo.
“Guardate lassù…”
Qualche centinaio di occhi si volse verso il tetto della
scuola.
Una sagoma di deltaplano scura, con una scritta,
“Polisportiva Aviovolo Milano Due” stava planando sui coppi
dell’edificio.
Una figura snella inguainata in una tuta aderente nera
si sfilò l’imbracatura e scomparve tra gli abbaini della
soffitta della casa.
Il maresciallo mormorò a bassa voce:
“State all’erta, ma rimanete fuori: entro io che sono
armato”.
Si smarrì nell’aria qualche ave, pater e gloria del parroco
e di due o tre fedeli apprensive, e il tutore dell’ordine entrò
nella scuola con torcia spenta e Beretta regolamentare.
Si aggirò circospetto tra le stanze alla ricerca dell’intruso
che si era calato all’interno dal tetto.
Udì un rumore di risucchio provenire da un’aula.
Spalancò con un calcio la porta della stanza e accese la
torcia puntandola verso un angolo da cui proveniva il
curioso rumore.
Uno spettacolo raccapricciante: una sagoma nerovestita
rattrappita e ingobbita su una pila di libri.
Succhiava pagine da un libro aperto.
55
Si volse con un gemito di fastidio iroso.
Fu per il Maresciallo una rivelazione.
Era Letizia Moratti, ministro della pubblica Istruzione,
quasi irriconoscibile, inguainata in una tuta aderente nera
avvolta da un tabarro nero.
Non aveva più la sua riconoscibile cofana rossiccia
smorta in testa. Aveva i capelli irti, rosso fiamma, a mezza
strada tra lo stregone delle matite Caran d’Ache e la Medusa
coi serpentelli.
Aveva lo sguardo dell’invasata con due
occhi cerulei morti iniettati di sangue e un’espressione
malevola culminante in un sorriso innaturale di vampiro,
ma non la figura classica del vampiro con i canini
sviluppati.
Lei era un vampiro alla Murnau o alla Herzog, con i due
incisivi zatteroni davanti allungati come due spilloni, e
rideva con una vocina chioccia come uno studentello
sorpreso con il Bignami in mezzo alle cosce durante un
compito in classe.
Si erse in una certa fierezza dovutale anche dallo stato
di Ministra e soffiò selvatica come un gatto affamato
all’indirizzo del Maresciallo.
“Alzi le mani, signor Ministro, e stia ferma. Non mi
costringa a gesti di cui potrebbe pentirsi”.
La Moratti ghignò minacciosamente:
“Parlerò di lei al buon Pisanu: credo che il Gennargentu
possa esserle più adatto, visto che manca di rispetto ad un
rappresentante del Governo, che dico del Governo, del
Buongoverno.
Che cosa vorrebbe fare? Spararmi?
Ma lo sa lei, cribbio, che io sono immortale e sono anche
protetta da una oleosa pellicola invulnerabile impostami
dalle dirette mani dell’Unto d’Arcore?”
Il Maresciallo ebbe la presenza di spirito di tenerle
bordone, dandole filo per parlare mentre con la torcia
lampeggiava in alfabeto morse verso la finestra.
“Perché questi gesti, Ministra? Cui prodest? A chi
giova?”
“Eccoooooo, un altro comunista traditore che sa il
latino…
56
Le risponderò come l’onorevole Bondi: Vergognaaaaa,
vergognaaaaa…
Questa è una missione, questo è un esperimento.
Questa piccola scuola è per me un laboratorio per
sperimentare quanto vado propugnando da anni circa il
concetto di istruzione, circa il concetto del sapere.
Il piccolo padre, d’Arcore, disse, con un abbraccio al
popolo italiota, che nuovi tempi saranno per i nostri eredi, e
tutti i pargoli inizieranno il loro percorso di conoscenza a
cinque anni, almeno all’inizio, e ci sarà un computer in ogni
casa e l’inglese per tutti.
Arriveremo, almeno con due o tre legislature, (il
Maresciallo rabbrividì), a minicorsi formativi intrauterini con
auricolari e disegni di animazione per corsi di creatività con
le costruzioni Chicco.
Basta con le lingue morte senza praticità, basta con
teorie senza agganci pragmatici con la vita di tutti i giorni.
Produttività e imprenditorialità. Iniziative e investimenti.
E così “Gira la ruotaaaaaa oh oh oh”.
E’ tempo che ognuno sappia far funzionare un forno a
microonde e un decespugliatore per la sua villetta con il
prato all’inglese nel suo condominio del tipo di quelli di
Milano due e tre e quattro e cinque.
E’ giusto che si sappia parlare al prato all’inglese in
inglese e che si sia padroni della lingua.
E’ giusto che si vada a sfoltire il sapere di cose inutili
che sono solamente state indottrinate dai comunisti.
Chi era Karl Marx? Non era un pacificatore: era ed è
tuttora un pericolo.
Meglio Groucho con i suoi fratelli a riunire una famiglia
davanti a un’offerta quasi regalo governativo di un decoder
per apprezzare i nuovi corsi formativi di psicologia divulgata
quasi gratis alle masse da trasmissioni come Grande
Fratello.
Io plano da diverse notti in questa scuola per riscrivere i
libri di testo del futuro, che saranno offerti a peso in offerta
speciale in tutti i grandi magazzini.
Io sto succhiando inchiostri tossici di educatori
comunisti per liberare la gioventù dall’inutile e dal banale.
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“Ab ovo”? Molto meglio l’ovetto Kinder per una sana
merendina…
“Quoque tu, fili…”? Meglio Qui, Quo e Qua per una
spensierata giovinezza disimpegnata.
“Conosci te stesso” di quell’ex calciatore, quel Socrates?
Un plagio assoluto della nuova enciclopedia multimediale
che è offerta con comode rate e con il noleggio temporaneo a
prezzi stracciati di un tutor integrativo, con relativo numero
verde, a sostegno dell’ingrato precario comunista
ingiustamente scazzato.
Un nuovo futuro per i nostri figli: tanti Mulini Bianchi
requisiti per nuove scuole di origami, di decoupage o di
ikebana, di aeromodellismo, di collezionismo di schede
telefoniche, materie vissute e pratiche di una vita di tutti i
giorni.
Basta con vecchi stereotipi, viva gli impianti stereo!!!
E poi velinologia, tecnica del sorpasso in autostrada,
filosofia bancaria, insabbiologia applicata…le nuove materie
per il giovane di domani…”
Parlava stridula con gli occhi sbarrati in un sorriso
lucidamente folle e il maresciallo indietreggiava mentre il
mostro sembrava ingigantire di statura come se avesse
anch’esso dei soprattacchi come il suo protettore.
Si sentì perduto, il tutore del solo ordine, e cominciò a
raccomandarsi l’anima a Dio, sparacchiando qualche colpo
verso l’entità che rantolava divertita malignamente.
All’improvviso, però, come nei buoni vecchi films di una
volta, come nel film di Frankenstein, quando i villici armati
di bastoni e fiaccole irrompono nel castello del mostro, i
castelsassofrassesi sfondarono le porte, attirati dalla
decodifica dei lampi della torcia da parte del piccolo Omero,
che faceva anche un corso privato a pagamento a Scuola
Radio Elettra, ed entrarono nella sala dove stava per
consumarsi la tragedia.
La Moratti rimase di sasso senza frasso, sorpresa da
tanta proterva determinazione del popolino a remare contro,
e rinculò in difensiva, inorridita da tanta ingratitudine.
58
Arretrò anche per un insopportabile puzzo di aglio: i
contadini avevano addosso intere reste di grandi bulbi e
sembrava di essere ad una festa popolare hawaiana.
Avevano – “Horresco referens” – falci e martelli
sovrapposti a formare una sorta di croci che inquietarono il
mostro inchiodandolo verso un angolo cieco.
La Letizia aveva ora uno sguardo spaurito, di animale
braccato, al riverbero di lame che l’accecavano, nel mezzo di
un rumoroso coro di invettive.
I bagliori delle falci al chiaro di luna, concentrati sulla
sua figura, cominciarono a strinarla sulla criniera irta del
capo.
Divenne vieppiù rinsecchita e cominciò a perdere bave di
inchiostro dalla bocca atteggiata ad una orribile smorfia
dolorosa.
Vecchie citazioni latine e greche, autori biasimati, intere
nazioni ripresero il ruolo di una loro immortale esistenza, e
Fenoglio e Primo Levi e Gramsci si riaffacciarono
sull’antologia, e la storia recente rivide figure scomparse ed
episodi che la Letizia avrebbe voluto dimenticati, e vecchie
circolari scolastiche riguardanti il diritto allo studio e alla
gratuità di mezzi si gonfiarono innaturalmente di
ingombrante presenza come sotto effetto di anabolizzanti.
E la Costituzione brillò a fuoco nella penombra della
scuola, in pianto e stridore di denti del vampiro governativo
che si estinse in uno sfrigolio di cenere dispersa nel vento a
concimare melanzane.
La voce dell’Unto, pensieroso di fronte ad una sfera di
cristallo, mentre osservava quanto accaduto alla sua
emissaria,
ruppe
il
silenzio
della
concentrazione
dell’assemblea degli accoliti.
“Mi si consenta di dire che è solamente un incidente di
percorso ininfluente: da domani mandiamo in avanscoperta
la Letizia due, quella clonata con successo pochi mesi fa…”
Omero mi ha detto che gli svegli insegnanti precari di
Castelsassofrassodisottosopra stanno organizzando ancora
oggi, da allora, in strenua resistenza semiclandestina,
59
alternative gite scolastiche in Costarica e Cuba per lo studio
della geografia e di nuove formative lingue morte come il
Tolteco,
assolutamente
improduttive
sotto
l’aspetto
imprenditoriale, ma assai feconde di significati per uno
sviluppo di logica e ragionamento per una nuova civiltà.
60
COME E’ DELIZIOSO ANDAR…
Ogni tanto sorrido tra me e me a fantasticherie da
persona sadica, in un umorismo nero, senza pietà per i
soccombenti individuati come stupida gente senza recupero.
Spero sempre che una delle mie rappresentazioni
mentali, una delle più cattive, si realizzi in un prossimo
ipotetico futuro.
Un simpatico nonnino diafano con pochi radi capelli
candidi, su una voluminosa carrozzella a motore elettrico,
con le gambe ricoperte da una vivace coperta scozzese,
procede a velocità da paralitico in una splendida giornata di
sole su un marciapiede semideserto nella città d’agosto
svuotata dei vacanzieri.
Il fragile motorizzato, appena ronzante, traballa sulle
buchette del marciapiede, ma mantiene un sorriso pacioso
ed uno sguardo sereno e tranquillo.
Attraversa, rispettoso di un semaforo verde, un grande
corso…
Nel rientrare sul marciapiede di fronte, prospiciente un
bar ricevitoria pieno di vitelloni di ogni età nullafacenti, si
accorge di una automobile che ostruisce il suo passaggio e
lo blocca sulla strada.
Il vecchietto, senza scomporsi, alza un lembo della
coperta scozzese e mette alla luce un lustro bazooka
incorporato al lato destro della sua carrozzella.
Spara un colpo devastante, incendiario: la carrozzella è
ben costruita ed assorbe il rinculo tremendo accogliendo il
senilcommando nell’imbottitura dello schienale.
L’automobile si disintegra in un boato che richiama
fuori dal bar tutti gli avventori.
Uno di loro, oltre che sorpreso, è esagitato: è il
proprietario dell’automobile.
Si fa incontro all’artigliere, minaccioso con un
cacciavite.
L’anziana creatura scopre l’altro lembo della coperta, sul
lato sinistro, quello della mitragliatrice ultimo modello a
61
tanti colpi al secondo che spara a colpo singolo o a raffica:
spara una breve raffica.
I compari dell’ex automobilista rimangono indecisi tra la
vendetta di gruppo mediante linciaggio e la sola prudente
ingiuria urlata in più dialetti: optano per la seconda.
Il canuto nonno spara una raffica più lunga, a ventaglio
facendo perno su una ruota, sorridendo, senza una parola;
poi esplode altri due colpi di bazooka nel bar e lancia con un
certo insospettato vigore una bomba a mano…
Infine, tra una nuvolaglia nera acre e spessa e qualche
lingua di fuoco, tra gemiti e deboli rantoli di agonizzanti, il
veterano veteRambo sale sul marciapiede e continua la sua
passeggiata sulla carrozzella…
Accende più in là, come fosse successo nulla, uno stereo
sotto il sedile, con una bella mazurca romagnola a volume
esorbitante.
Fremono i vetri degli appartamenti sulla via; qualcuno
s’affaccia e scruta…
Una dolce vecchietta tremula, con un corsetto imbottito
e un dolce sguardo da affettuosa nonnina, è indecisa se
utilizzare un bel fucile da caccia grossa col mirino
telescopico, caricato a pallottole dum dum, o un ruspante
vaso di azalee ripieno di nitroglicerina, ma questa è un’altra
fantasia…
62
SUPEREROI AL FANDANGO CAFE’
Mi chiamo Ivo, creativo ed ‘alter ago’ di Sandra, la
regina della notte al Fandango Cafè di Mirandola.
In realtà sono anche il custode di segreti che oggi, però,
ho voglia di rivelare per non lasciare pensieri a metà in
persone sveglie che hanno intuito qualcosa di strano che
accade nel nostro covo: potrebbero arrivare a conclusioni
sbagliate e tutto questo sarebbe ingiusto.
Che cos’è il Fandango Cafè?
E’ un grande presepio profano, pieno di lucine
multicolori ed echi di musiche varie che adrenalizzano e
anestetizzano corpi e coscienze.
E’ un tempio della notte.
Si cerca un minimo di benessere sereno nella diversità
degli stili dei vari ‘dj’ che propongono musicalitinerari
diversificati per un benessere del corpo nel sudore della
danza e per il benessere dello spirito nello stupore di tutte
queste lampadine intermittenti variopinte che si riflettono
nel bicchiere colmo di ‘mohito’ che la regina della notte
ammannisce agli amici con disinvoltura deliziosa.
Il presepio si anima di figurine, neo pastorelli
metropolitani, artigiani, devoti adoratori di Lounge e Ska, e
il buio della campagna circostante si accende di stelle
anche sotto un terribile temporale che sembra voler
squassare le tende arabe sotto scrosci di tempesta.
Ma c’è dell’altro.
Il Fandango è come la grotta di Batman ed io sono come
Alfred, il maggiordomo del giustiziere vestito da pipistrello.
Ciò per dire che tutto è spesso diverso da come appare e
che l’abito non fa il monaco.
Vedete quel ricciolino al bancone del bar?
Pare una macchietta da commedia all’italiana degli anni
settanta, un Alvaro Vitali con la parrucca, ma è…tenetevelo
per voi…un supereroe che salva il mondo.
Si
chiama
Maggini,
forse
Formaggini,
forse
Maggiani…non ha importanza…
E’ la sua identità segreta.
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Si presenta tutte le sere verso le ventitrè al bancone del
bar che sembra un’astronave di Jack Daniel.
E’ un concentrato di tic e di stereotipi comportamentali
che lo rendono insospettabile nella sua goffaggine.
Cammina come un ‘pied noir’ marsigliese, ma con le
emorroidi
sanguinanti,
assumendo
un’aria
drammaticamente truce barbagliando sguardi carichi di
intensità sofferta a destra e a sinistra nel mentre che si
ravvia ripetutamente con ampi gesti la sua chioma
riccioluta.
E’ alto un cazzo e un barattolo, altro motivo di
insospettabilità, ma si erge a petto in fuori, circondato da
giacca sportiva color ghiaccio di una taglia più piccola,
rimboccata alle maniche, dalle spalle imbottite che gli
conferiscono un aspetto da piccolo ‘trumeau’.
Fuma una sigaretta dietro l’altra espirando con un
curioso gioco di labbra che convoglia il fumo dentro le
pupille.
Strizza quindi gli occhi ed inspira nervosamente come
un Humphrey Borgath con le piattole perché, mentre strizza
gli occhi affumicati, si palpa i pantaloni con studiata
indifferenza a carezzare un qualcosa che potrebbe apparire
un’anaconda.
Michael Jakson, al confronto, appare un catechista.
Ricciolo forse Maggiani, che si qualifica abitualmente
come ex giocatore del Milan, magari un Carneade delle
giovanili, si palpa a due mani, ad una mano sola, come se
spostasse un cuscino, guardandosi attorno, sbuffando nubi
di fumo, strizzando gli occhi, ravviandosi i capelli
ripetutamente con sguardo in tralice verso lo specchio.
Tutto
questo
contemporaneamente,
come
un
prestigiatore folle che aumenta il coefficiente di difficoltà dei
suoi numeri.
Nel frattempo parla con interlocutori vari gesticolando
animatamente come un commerciante di auto usate.
Luma qualche gnoccona di passaggio con occhio lubrico
e tattilità ripetuta dello strumento che assume ritmi
frenetici semimasturbatori.
Non ride mai.
64
Io so il perché.
E’ compenetrato nel suo ruolo di identità segreta e vigila
sulla comunità.
Sbircia, senza farsene accorgere, al di fuori alla ricerca
di un segnale che potrebbe comparire tra le nubi cariche di
pioggia.
Talvolta il segnale luccica.
Il sindaco di Mirandola, il paese poco distante dal
fantasmagorico presepio vivente del Fandango Cafè,
accende una luce proiettando nel cielo scuro di temporale
una sagoma illuminata di un riccio.
Qualcuno sta scassinando il bancomat dell’ufficio
postale e c’è bisogno di aiuto.
Ricciolo scorge il segnale nel cielo e schizza come una
pallina da flipper verso il piano di sotto, verso le ‘toilettes’,
per indossare ad ultra velocità il suo costume da supereroe.
Ho appena il tempo di buttare un cuscino di poltroncina
al piano di sotto: Ricciolo spesso inciampa al terzo gradino e
rotola a fine scale al piano di sotto facendo stridere vertebre
e cartilagini minori.
Io, Ivo, come Alfred di Batman, prevengo e assecondo,
creativo e impareggiabile.
Dopo pochi secondi una sagoma sfreccia da un
finestrino dei gabinetti del Fandango verso il cielo.
Una stranita ballerina, come nei fumetti classici,
esclama assonnata:
“E’ un uccello? E’ un aereo? E’ un lancio del nano?”
E il suo compagno, entusiasta, esclama:
“Ma no, cara: è Truzzoman che va a salvare il mondo e
va a difendere la gente onesta dai delinquenti”.
A volte, come in certi siti letterari internautici, dove
circolano personaggi con doppi pseudonimi, il nostro eroe
viene chiamato con il suo secondo nick: Super Truzzo.
Si intravede in una frazione di tempo infinitesimale,
sotto una mantellina rossonera, un pigiamone di flanella
aperto davanti con due bottoni enormi, come il costume di
Superpippo, e cade qualche mandorla pelata sulla folla che
attonita fissa il cielo dopo avere smesso per poco di agitarsi
sulla pista.
65
Crepitano allora applausi a scena aperta da parte di
tutti i ballerini: i ‘dj’ delle tende annunciano al microfono la
nuova missione, la regina della notte del Fandango gongola
per la pubblicità di ritorno e io mi commuovo e spando una
lacrima di tenerezza.
Truzzoman forse è già davanti all’ufficio postale di
Mirandola e anche oggi la gente onesta può uscire a
prendere il gelatino al bar senza timore di essere
importunata dai soliti delinquenti che sono già stati
assicurati al maresciallo della locale stazione dei
Carabinieri.
Me lo figuro, il maresciallo, con lacrime di commozione
e un sorriso complice:
“Grazie, Truzzoman, anche questa notte sarà
tranquilla…”
Il supereoe non proferisce una parola, anche perché ha
il fumo della sigaretta di prima che gli va di traverso e non
sta bene che un supereroe tossisca o si strozzi, e rivola a
razzo verso il Fandango seminando mandorle, uvetta passa,
noccioline e cicche di Marlboro.
Quando ritornerà, si ritrasformerà in un suonato ex
calciatore del Milan con un’anaconda in mezzo alle gambe:
io sarò lì e gli offrirò una flute di champagne.
Poi mi affretterò a frastornare con qualche battuta
brillante due o tre pulzelle con i jeans a vita bassissima che
cominciano ad avere qualche sospetto sull’identità segreta
di Truzzoman.
E farò uno sgambetto al Ricciolo che risale le scale, per
renderlo goffo e insospettabile, buono per le prossime
missioni a salvare il mondo.
Lancerà due sacramenti e mi guarderà male.
Poi capirà e si preoccuperà di ravviarsi il ricciolo
all’indietro.
E l’ex giocatore del Milan avrà ancora salva la sua
identità segreta che ora solo qualcuno di voi conosce.
Mi raccomando, amici: siate riservati…ssshhhhh…
66
EMICRANIA
Per prima saltò la scheda madre miniaturizzata del lobo
frontale sinistro.
Il sistema di videoscrittura si bloccò con uno sfrigolio
maligno e il visualizzatore multimediale collegato alle cornee
cominciò a funzionare solamente in bianco e nero.
L’indispensabile scheda era ancora in tagliando e mi fu
celermente sostituita con un modello coreano in
vantaggiosa promozione, ma il sistema non fu più stabile
come prima.
Mi trovai spesso in situazioni imbarazzanti, infatti,
incapace di distinguere modelli di lettere d’amore con
prospetti di spese condominiali e
reclami rivolti al
commercialista: una vera e propria macro confusione.
Poi, dopo pochi giorni, cessò di funzionare il filamento
dell’antenna digitale innestato nella narice destra e non
riuscii più a collegarmi con i programmi satellitari della
CNN e delle televisioni italiane e arabe.
Non fu una gran perdita, in definitiva: l’inconveniente
mi privò senza troppi rimpianti del Cyberprocesso del
Lunedì e mi fece rinunciare al telegiornale del pronipote di
Emilio Fede su Rete Quattro per i Bestioni d’Orione, e fui
poi impossibilitato a seguire le trasmissioni di Tele Yemen,
con sottotitoli cristiani per i non mussulmani.
Ma sicuramente il guasto costituì un fastidio: le
palpebre chiuse mi proiettavano un confuso effetto neve con
doppi contorni d’immagini memorizzate in precedenza nel
processo di sintonia.
Si fuse di colpo, in seguito, anche il filamento di
ricezione telefonica impiantato nella narice sinistra: a chi
voleva comunicare con me apparivo come utente in
apparecchio duplex sempre occupato.
Inoltre riuscivo a telefonare solamente a numeri verdi
archiviati nel database dell’ippocampo, e solo ed
esclusivamente in orari notturni.
I migliori cervelloni della Planet Digital International si
riunirono a consulto per esaminare il mio caso.
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Mi studiarono accuratamente con estenuanti prove di
laboratorio e provarono soluzioni alternative per i miei
problemi, inclusi procedimenti di galvanoplastica e
ricromatura della calotta cranica.
Per un breve periodo di tempo andai in giro perfino con
una curiosa antenna parabolica argentata fissata sulla
nuca come fosse un cappellino per proteggermi dal sole
radioattivo.
Nel frattempo, però, perdetti anche la capacità
comunicativa dei comandi di sintesi vocale, per una
persistente raucedine da anidride solforosa in eccesso
nell’aria, e conseguentemente non riuscii più a far
funzionare nemmeno il forno a microonde, il modello
semplice semplice con autoassemblatore d’ingredienti
impostato sulla ‘nouvelle cuisine venusienne’, e il ferro da
stiro autostirante con fischio di vapore overdrive modulato
su techno rock…
Oggi, tre settembre duemilacentoventisette, è scaduta
definitivamente la garanzia delle mie componentistiche
cibernetiche neuroinnestate e nessun tecnico vuole più
arrischiarsi a mettere le mani nella mia testa per
reimpiantare qualcosa di funzionante…
Mi sono ridotto, come una misera creatura d’esistenza
primaria semplice, a correre tutte le mattine sul rullo nel
giardino
pensile
idroponico
bonsai
del
terrazzo
condominiale, in compagnia del mio cane meccanico che
sembra vero, e trascorro le giornate ad accudire le mie
piante sintetiche sul balcone antiradiazioni.
Ogni tanto provo a leggere un vecchio libro usando
pittoreschi occhiali dalla pesante montatura in tartaruga, di
quasi due secoli fa, e per questo eccentrico passatempo
snob mi hanno soprannominato con sufficienza bonaria
“l’antiquario col cervello in pappa”.
Ho sempre un continuo lancinante mal di testa e mi
sento trivellato da fastidiosi ronzii in senso-surround dolby
stereo.
La mutua governativastrale mi passa, a contributo
parziale per redditi similbirmani, solamente l’aspirina con
estensione “com” da scaricare presso il sito planetario
68
sanitario “Doctor Use and Mabuse.Ohi”, ma il mio minimodem a fibra ottica collocato nel gran simpatico ogni tanto
fa i capricci e si blocca.
Neanche a dirlo: quasi sempre quando sono solamente
al trenta per cento dello scaricamento…
69
ALI DI FARFALLA E TERREMOTI IN CINA
Barth Foolish è un grasso coglione.
Sta usando l’asciugacapelli con i piedi, anche
letteralmente, con i piedi appunto dentro la vasca piena a
metà d’acqua, mentre il rubinetto continua a piangere
torrenziale.
Abita un minialloggio al ventitreesimo e ultimo piano di
un mega condominio in periferia di una popolare cittadina
della California.
Scivola sulla saponetta in agguato come un caimano sul
fondo della vasca e si lascia sfuggire dalle mani il phon che
cade nell’acqua frizzando come un barile bucato di birra,
ma senza schiuma.
Barth si dimena, come un rapper sotto exstasy, e crolla
nella vasca, curiosamente composto e seduto, sfrigolante
cadavere, a tappare lo scarico con il suo grosso culone
cellulitico.
I rubinetti non conoscono la pietà e la solidarietà con
un minuto di silenzio, e quello della vasca del panzone
continua dunque la sua sola semplice funzione di erogare
acqua.
Si viene a creare uno scheletro di classico problema
matematico: un rubinetto aperto fa uscire dieci litri d’acqua
in un minuto. Sapendo che la vasca di Ciccio Barth è
capiente per trecentottanta litri, quanto tempo ci vorrà
perché l’alloggio del coglione, di ottanta metri quadri, sia
allagato?
Nessuno risolverà mai questo problema, almeno
empiricamente, perché l’ex bagnante vive nel suo alloggio
da solo, e per altri motivi che saranno noti a breve.
L’acqua, tuttavia, cocciuta come un somaro, avanza su
piastrelle di bagno verdine, esplorando poi, con curiosità,
nuove pianure come la moquette del soggiorno zona-letto.
L’ambiente è ospitale e, se l’acqua corrente conoscesse
il latino, potrebbe fare sfoggio di cultura enunciando “hic
manebimus optime”, pur senza certezze circa la durata
della permanenza nell’appartamento, che ormai è solo un
contenitore.
70
Il mega condominio, infatti, è stato costruito a
risparmio su materiali e criteri di sicurezza.
Il pavimento è generoso, ma non sa e non vuole farsi
carico di tutta l’alta marea di lacrime per i problemi pesanti
dell’alloggio.
Ad un certo punto crolla, per idropisia, ed anche perché
sopraffatto da un esaurirsi della sua capacità di
sopportazione.
Precipita a peso morto sull’alloggio sottostante e
aumenta le preoccupazioni del pavimento collega del
ventiduesimo piano.
Si crea un effetto domino che velocemente, in una sorta
di scaricabarile burocratico, trasferisce ogni problema
sempre più giù e sempre più pressante, fino ad arrivare al
pian terreno in una macerazione non solo esistenziale di
cumulo di macerie.
Le pareti di un condominio popolare, per parte loro,
sono verticalmente invidiose dei pavimenti che si affrancano
dalle
responsabilità
con
personalità
autonoma
e
corporativa.
Decidono, quindi, di emulare certi comportamenti
orizzontali, accartocciandosi, anch’esse fino a terra, in una
nuvola pudica di calcinacci a nascondere le ultime vergogne
della casa.
Il crollo di un intero palazzo di ventitré piani, è notorio,
non è affare da prendere con leggerezza, soprattutto
partendo dall’argomento più semplice del peso.
Qualche migliaio di tonnellate di tutto il condominio,
ormai liofilizzato, va a premere su un punto del terreno che
anni prima fu giudicato edificabile in maniera molto
superficiale da qualche commissione tangentofaga.
E’ consequenziale, perciò, che il suolo sprofondi
rassegnato, offendendo le tubature più sotto: della luce e,
soprattutto, del gas.
Lo sanno tutti: il gas è permaloso e pretende rispetto.
Preso a pietrate, il gas s’incazza e alza la voce di
parecchio, a maggiore ragione se viene anche aizzato da
qualche scintilla di cavo elettrico lì vicino che cospira come
71
Iago, riportandogli i pettegolezzi del quartiere circa il fiato
putrido d’alitosi.
Ecco, dunque, che un tubo portante maestro esplode
con fragore spaventoso di macerie e un boato
sensosurround.
Volano ovunque, come proiettili, pietre e vetri appuntiti
e pezzi di cemento armato con tondini di ferro taglienti e
sporgenti.
Uno di questi ultimi, pomicione, vuole saggiare la
consistenza del metallo di un’autocisterna che, trecento
metri più in là, sta rifornendo uno dei più grandi
distributori di benzina della zona.
E’ una delusione totale.
L’autocisterna
è
anzianotta
e
in
uno
stato
convalescienziale, malaticcia: si apre, arrendevole, come un
kiwi molto maturo.
L’unica differenza è che un kiwi non esplode se a
contatto con mozziconi accesi o scintille.
L’autocisterna sì.
Il distributore di benzina è pieno come un ovetto di
giornata: quello sarebbe stato l’ultimo travaso.
Si creano, così, i presupposti per una gigantesca festa
nazionalpopolare, un’americanata classica con falò visibile
a chilometri di distanza, eccezionalmente senza musica
country.
Il problema dei falò è che hanno una fame da lupi e se
si avvicinano a cisterne sotterranee di distributori di
benzina, piene, non resistono alla leccornia, golosi, e
vogliono assaggiare.
E’ dunque d’effetto, in tutti i sensi, più potente di un
qualsiasi rodeo o partita di baseball, un’esplosione
similnucleare che espande la sua forza mostruosa in ogni
direzione.
Compreso il basso.
Proprio in prossimità della famigerata faglia di
Sant’Andrea.
Che soffre il solletico e che quindi si agita sfagliandosi.
72
Le varie piattaforme sedimentate, in pennichella, una
sull’altra, sono svegliate da questo scomposto agitarsi e si
adirano.
Inoltre questo violento spiffero proveniente dall’alto non
fa bene alla salute di nessuno.
Le varie placche starnutiscono e si ributtano nel loro
letto che, però, si è spostato più giù.
L’aspetto più evidente di questo riguardarsi in salute è
la sparizione dell’intera California nell’Oceano Pacifico.
Ecco: adesso un attimo di riflessione alla luce di una
teoria che affascina sempre…
Quella del battito d’ali di una farfalla qui che,
casualmente, nell’ambito della teoria dell’ordine nel caos,
dovrebbe generare un terremoto in Cina.
Si parla di Cina e le considerazioni sono quindi,
ovviamente, ciniche, in ipercinesi di situazioni.
Che caspita starà succedendo adesso in Cina, se tanto
mi dà tanto, a fronte di un tuffo d’asciugacapelli nella vasca
d’un alloggetto al ventitreesimo piano di un condominio
della California?
73
ALITI DI VENTO
Mi chiamo Vito, in arte Jean Paul, e gestisco un
negozietto di parrucchiere per signora in periferia.
Cambio spesso le shampiste, quelle classiche con la
faccia da porchetta e gli occhi bovini rimmellati a
cazzuolate, per preservare il mio segreto e non farmi
scoprire, oltre che per risparmiare sui contributi.
In realtà sono un supereroe, ma nulla d’iconografico
come Superman o Batman: io sono un supereoe schivo e
riservato, senza mantellina o maschera, senza costume dai
colori vivaci.
E non volo.
Ho solo un piccolo distintivo sul petto che raffigura una
A rossa in campo bianco, come gli Aspiranti della
parrocchia.
E’ l’iniziale del mio nome da battaglia di supereoe:
Alitix.
Ho scoperto di avere acquisito i miei superpoteri la sera
del dieci agosto, la notte di San Lorenzo, di due anni fa,
dopo una cena a base di peperonata fredda piena d’ogni ben
di dio, cucinata amorevolmente da mia madre.
C’erano le melanzane, i peperoni gialli e rossi, le patate,
i fagioli borlotti e i fagiolini, i fagioli piatti, tanto pomodoro e
tantissima cipolla, molto origano e una punta di
peperoncino.
Feci anche la scarpetta, uno stivalone, con una
pagnotta intera, pucciando il sughetto denso e appetitoso.
Mi sdraiai dopo cena su un prato a vedere le stelle
cadenti.
Quante ne vidi!
Le sentii anche cadere con dei rumori assordanti che
sembravano lamenti colitici intestinali.
Poi capii che ero io, pieno d’aria come una mongolfiera e
assai costipato per la cena da considerarsi in ogni tempo e
in ogni latitudine come indigesta.
Caddi in stato comatoso per qualche giorno ed ebbi un
accenno di blocco intestinale che mi lasciò lunghi
strascichi.
74
Ritornai gradatamente alla normalità, ma mi sentivo
strano, e dopo qualche settimana, casualmente, mentre
lavoravo in negozio su una massaia cicciottosa che
pennichellava su Novella 4000, ebbi un accenno di rigurgito
che soffocai educatamente con un singhiozzo strozzato.
La cliente grassoccia fu beneficiaria istantaneamente di
una serie splendida di brillanti colpi di sole e di una
permanente che pareva scolpita.
Io trasecolai dalla sorpresa e la signora uscì felice come
una pasqua con una testolina che era da sfilata pret à
porter.
Rimasi come un allocco a guardarla allontanarsi,
attraverso la vetrina, e sbadigliai.
La vetrina divenne tersa come un cristallo di gioielleria,
priva d’aloni, ditate, polvere, e luccicò al sole come un
diamante.
Nel mentre che fissavo il vetro, meravigliato
dell’accaduto, entrò un tossico con una taglierina per
rapinarmi.
Gli urlai in faccia, terrorizzato: “No! Non farlo! Ti darò
tutto quello che vuoi…”
Gli alitai con la forza della disperazione e gli occhi
sgranati di paura anche un ‘assassino’ pieno di sibilanti.
Strabuzzò gli occhi, come in crisi d’astinenza e mi
chiese, barcollante, un Alka Seltzer per digerire, disse
proprio così, il mio fiato denso che era tale e quale all’aroma
di una pantegana a fettine, stufata al vino dal sapore di
tappo, conegrina ed erbette spisciacchiate da barboncini
nani, con contorno di cavoli amari al catrame bollente.
Scappò via zigzagando, con una nuova acconciatura
punk a creste di gallo verdi e gialle.
Realizzai d’avere in me un qualcosa di nuovo, di
diverso, e cercai di impratichirmi nell’uso delle mie nuove
doti.
Riuscii a saldare due fili elettrici di un asciugacapelli
difettoso, solo schioccando la lingua con un lungo alitare.
Poi lucidai a specchio il pavimento con un soffio
robusto.
75
Riuscii a rinviare il pagamento dell’affitto del locale
semplicemente scusandomi, con aria mortificata, davanti al
padrone, che mi condonò gli ultimi due mesi a patto che
non lo trattenessi più per un braccio.
E aiutai il vigile di quartiere che rincorreva uno
scippatore: fronteggiai quest’ultimo, con le mani sui fianchi
e a gambe larghe in mezzo al marciapiede, e gli zaffai sulla
faccia un semplice “Fermo!” con la effe iniziale cintura nera
di karate.
Si cristallizzò come un membro dell’equipaggio di Star
Treck su un pianeta alieno e fu poi acciuffato dal vigile che
lo portò via piangente ed in preda a conati di vomito.
Ho quindi un ultra fiato.
E soffierò dove occorrerà, per salvare il mondo, o
almeno migliorarlo.
Sto già iniziando, discreto come sempre, senza troppo
farmi notare.
Intanto, quest’estate non ci sono zanzare in tutto il
quartiere.
Poi riesco ad accendere le sigarette dei passanti senza
accendino: è sufficiente che io dica che non fumo.
Al bar sotto casa hanno smesso di tenere acceso il jukebox fino a tarda notte: mi sporgo incazzato dal quinto
pianto gridando e sbavando di farla finita e dopo due o tre
minuti di apnea il bar chiude e si può tutti dormire
tranquilli.
Inoltre nessuno soffre più d’insonnia nel quartiere:
qualcuno ha intuito una parte dei miei superpoteri e a sera
c’è un pellegrinaggio di gente sconosciuta che mi bussa alla
porta di casa per chiedermi che ora è, o se ho del basilico o
il sale.
Io saluto chi mi sta davanti, che inspira come se facesse
le inalazioni a Salsomaggiore, e poi c’è un fuggifuggi
generale per le scale al grido di “buonanotte, buonanotte e
grazie tante…”.
E il giardinetto della piazza non ha più erbaccia.
A dire la verità non ha proprio più erba e gli alberi sono
spogli come in autunno inoltrato, anche se siamo a luglio.
Ho, tuttavia, delle contrarietà.
76
Non posso prendere l’ascensore per non allarmare i
condomini con l’idea di una fuga di gas; inoltre farei la
figura di un pollo fregato al mercato con l’acquisto di due
chili di pesce marcio.
E non posso neanche prendere il tram o l’autobus.
L’ultima volta che lasciai il posto a sedere ad una donna
incinta, accadde che partorì prematuramente sul bus un
bel bimbo che non smetteva più di piangere, con una
manina paonazza a tapparsi il nasino.
Sono gli inconvenienti di un supereroe che non ha più
una sua vita indipendente e deve mettersi al servizio del
cittadino…
E la calunnia è un venticello…
77
LETTERA DI SUPER INTENTI
Spettabile Redazione,
scrivo
per
testimoniare
un’esperienza
occorsami
recentemente e per avere una Vostra autorevole opinione
circa una mia futura condotta comportamentale.
Camminavo rasente i muri, qualche giorno fa, a notte
fonda, sotto una fitta pioggia, per calmare il mio spirito
inquieto.
Tuonava e lampeggiava sempre più violentemente e fui
costretto a cercare un riparo per non calmarlo, il suddetto
mio spirito, definitivamente con una prevedibile polmonite
fulminante.
Mi fermai sotto la tettoia di un’edicola di giornali, nel
mezzo di un corso alberato, e attesi che spiovesse.
Abbandonai
le
mie
riflessioni,
distratto
dall’intensificarsi della pioggia che era divenuta davvero
torrenziale, molto più di prima.
Fui investito improvvisamente da una scarica elettrica
dolorosa che mi lasciò tramortito a terra di fronte all’edicola
squarciata, tra riviste di culinaria con mestoli in omaggio di
Suor Germana e videocassette pornografiche coperte da
triangolini strategici.
Mi tastai febbrilmente e realizzai con sollievo che non
avevo subito danni fisici, a parte l’emanazione di un curioso
odore di bruciaticcio dalle orecchie e dalle narici.
Mi levai in piedi e guadagnai velocemente un altro
rifugio correndo per uno o due isolati, anche perché
l’edicola, provvista di efficace antifurto, ululava in maniera
accusatoria nella notte.
Nel frattempo il tempo migliorò e cessò di piovere.
Non proprio zuppo, ma abbastanza umido, decisi di
ritornare a casa per una doccia ristoratrice e un buon
sonno.
Mi incamminai lungo il marciapiede con questo
proposito.
Sentii una voce roca, assonnata, urlare infastidita: chi
è? Chi è?
78
Non c’era nessuno intorno.
Non mi posi molti interrogativi: avevo solo voglia di
ritornare a casa.
Un’altra voce ruppe il silenzio della notte e la cadenza
del mio passo svelto: chi è a quest’ora? Bastardo, qui c’è
gente che tra un po’ lavora!!!
Rimasi perplesso.
Una plafoniera per i citofoni, davanti a me, brillava e
diverse voci, insonnolite e irate, chiedevano chi avesse
suonato.
Accelerai il passo per non avere complicazioni, anche
perché qualcuno aveva minacciato di scendere in strada.
Rallentai presso un altro portone e udii distintamente
rumori lontani di campanelli.
Notai la plafoniera.
Tutte le targhette dei nomi lampeggiavano e udii altre
voci, sempre insonnolite o aggressive.
Il mio ritorno a casa fu costellato da una scia di
campanelli trillanti e da voci non proprio amichevoli che
chiedevano, insultavano o che promettevano brutali
esperienze sodomite.
Una voce si trasformò direttamente in una secchiata
d’acqua che mi sfiorò le scarpe e un’altra voce, la più
ringhiosa di tutte, si tramutò in uno sparo da un balcone,
che fortunatamente non mi colpì.
Arrivai presso il portone di casa mia e la plafoniera dei
citofoni si trasformò in un albero di Natale con le lucine
intermittenti mentre altre voci si unirono al coro delle
maledizioni di tutta la via.
Allora compresi, finalmente.
Rientrai precipitosamente in casa, silenzioso e veloce
come un capitone, e realizzai che quella scarica elettrica del
temporale mi aveva conferito un super potere come qualche
ultraeroe dei fumetti.
Facevo, e faccio tuttora, suonare le plafoniere dei
citofoni al mio passaggio!
Ecco, spettabile Redazione, perché scrivo.
79
Ho un super potere e potrei anche sacrificarmi e
proteggere il mondo dedicandomi con tutto me stesso al
benessere e alla tranquillità della società.
Ho pensato anche ad una divisa mascherata e ad un
rifugio segreto, ovviamente senza citofono, con un solo
portiere.
Sono soltanto perplesso circa le mie potenzialità: per
questo richiedo una Vostra opinione.
A che caspita mi può servire il fare impazzire tutti i
citofoni della città e come posso disciplinare questa mia
nuova dote per combattere la criminalità che imperversa
indisturbata?
Vi ringrazio per la cortese risposta e mi scuso per il
brusco interrompere questa lettera, ma ogni due o tre
minuti mi suonano alla porta.
E’ la ventisettesima volta che vado ad aprire, ma non c’è
nessuno…
P.S. Scusate se non firmo la presente, ma devo preservare
la mia identità segreta.
80
SOGNI A RISCHIO
Muzio ondeggia, nella scala dei valori descrittivi, tra
l’essere insignificante e il quasi repellente.
E’ un lungagnone quarantenne ingobbito, con un gran
pomo d’Adamo e due mele di coup-rose sulle guance
scavate.
Ha uno sguardo da erbivoro perseguitato e radi capelli
neri simili a filamenti di tungsteno forforoso.
Ha un soprannome poco lusinghiero nel quartiere, forse
per il suo frequentare Bruto in maniera troppo assidua.
Lo chiamano Muzio Prepuzio.
Bruto è un energumeno cinico con un torbido passato
di marchettaro per signore inquiete e adiposi commendatori
desiderosi di soffrire.
Manda avanti per pura sopravvivenza un’edicola sotto
gli alberi del viale: fumetti usati, videocassette e dvd, quasi
tutta roba porno, e gialli, nel vero senso della parola, unti e
bisunti accatastati in cassette di legno per la frutta.
Lo chiamano il pornaio per via della mercanzia che è
prevalentemente costituita da sfilatini, ciriole e baguettes
esposte, qualcuna sotto cellofan, insieme a rosette,
maggioline, pagnottelle più o meno grassocce e aperte, con
pelo e senza.
Muzio trascorre i suoi pomeriggi abbarbicato all’edicola
di Bruto e sfoglia qualche rivista per rifarsi gli occhi e dare
additivi alla sua fantasia di solitario.
L’edicolante yeti mastica amaro, però, in fondo, ha
anche un minimo di compagnia, per cui brontola, ma lascia
correre.
“Stai attento a non sgualcire quella rivista, altrimenti te
la faccio pagare…in tutti i sensi.”
Muzio Prepuzio è fuori di melone, sconvolto dalle grazie
di Kalaika, ‘nomen omen’, ungherese amante della
stereofonia e della quadrifonia, che è immortalata in pagine
che sembrano un vapoforno, con tanti sfilatini accatastati
sul suo poppabancone.
Anche gli erbivori si eccitano.
81
Muzio sfoglia le pagine, torna indietro per un fermo
immagine su un particolare di primo piano, avanza
frenetico, ripassa metabolizzando, gusta con soddisfazione
facendo frusciare la rivista esageratamente in emozione
preonanistica.
Bruto freme: permettere qualche sbirciata a scrocco per
la compagnia può anche andare bene, ma farsi rovinare la
merce è proprio da ebeti.
“T’ho detto di non rovinarmi la rivista…”
Esce dal gabbiotto e spintona a mano aperta l’airone
cinerino che nel frattempo ha abbandonato Kalaika al suo
destino di commessa fornarina sul bancone del pornaio.
Bruto che dà una spinta è roba da documentario: pare
che non faccia sforzo…
Allarga le sue manone e stende le braccia steroidee e
tatuate.
La vittima, specialmente se è dinoccolata e malferma
come Muzio, sembra portata via dalla bora e atterra
qualche metro più in là, generalmente seduta, tra lamenti
per la botta sacrale e scuse a scongiurare reazioni ulteriori
più violente.
Muzio Prepuzio atterra vicino ad una panchina e non ha
il tempo di scusarsi perché sviene accarezzandola con una
tempia.
Buio totale per tempo indefinibile.
Nel nero si apre una porticina e filtra una luce rossastra
insieme ad una voce suadentinguinale.
“Ciao Muzio.
Mi presento: sono Giorgina, Giorgina Spelvin, la porno
attrice protagonista del famoso film “Il diavolo in Miss
Jones”...
Ti ricordi di me?
Fu una prova di recitazione maiuscola: ma avevo anche
dei compagni di recitazione maiuscoli… in tutti i sensi…”
Ride disinvolta, la Giorgina, ed esce alla luce con la sua
bella capigliatura riccioluta e rossa e lo sguardo da
birbacciona che la rese tanto simpatica.
82
Muzio, anche nei sogni e negli svenimenti, ha una
buona memoria e si ricorda perfettamente della reginetta
del porno di qualche tempo fa.
“Sa-sa-salve, signora Giorgina.
Che-che ci fa qui adesso? Sono svenuto…”
“Ma carino, sono venuta qui per alleggerire le tue pene e
darti un poco di piacere, no?”
L’attrice si spoglia velocemente, senza un minimo di
erotismo, come in un filmetto di quarto ordine, diretta a
voler godere con lo svenuto Muzio che rimane imbambolato
a rimirare la scena.
Giorgina è ancora ben fatta, gallinella vecchia che fa
buon brodo, e conquista per i modi spicci e sbarazzini dritti
al sodo.
Muzio spera che sia veramente sodo e, cosa da
immaginare nel suo paradossale, chiude gli occhi nella sua
realtà di svenuto con gli occhi chiusi, lasciando ogni
iniziativa alla riccioluta rossa.
La goduria rem-traumatica viene interrotta dalla voce
grave di un medico di pronto soccorso che, mentre lo tasta
in cerca di fratture, chiede con indifferenza professionale:
“Come va, giovane? Ha preso una bella botta, lo sa?”
Ora le prescrivo un sedativo per lenire il dolore e
favorire il sonno: stia a casa qualche giorno e faccia bei
sogni…”
Muzio, tutto contento a casa sua con il miraggio di
qualche giorno di riposo e di tante fantasie indisturbate,
dopo aver preso una pillolina bianca, sorride alla sua prima
notte di mutuato sognatore.
Viene abbracciato dal nero mentre il suo cervellino
elabora e macina speranze e desideri.
Il Muzio onirico spera in un incontro con Kalaika o in
una rivincita con Giorgina Spelvin, ma è un sonno inquieto
e la porticina non si apre.
Filtra finalmente una luce, ma è un’atmosfera
opprimente.
La luminosità è opaca e di un innaturale colore violetto.
Il sognatore ode delle risatacce lontane, malevole, di
scherno, e voci canzonatorie in coro sguaiato.
83
“L’hai beccato, l’hai beccato, Prepuziaccio, l’hai
beccato…”
Si agita nel sonno, l’erbivoro, e suda con un
presentimento ricordando il suo incontro con la vecchia
volpe Giorgina…
Fece sesso senza protezione, cazzo, travolto dalla
passione e dalla Giorgina che pareva assatanata!
E adesso tutto il sogno è pervaso da una minacciosa
luce d’alone violetta, come di sogno infetto, come nella
pubblicità per la prevenzione dall’AIDS.
Inorridisce: i suoi sono sogni conclamati!
E’ terrorizzato e spalanca gli occhi in un pantano di
emozioni e sudore…
Muzio non sogna più, da allora, ed è triste e
terrorizzato.
Ha i suoi sogni a rischio ed ha perduto ogni speranza:
frequenta
una
rumorosissima
sala
giochi
aperta
ventiquattro ore su ventiquattro e ha paura di
addormentarsi…
Bruto trascorre noiosi pomeriggi da solo e ogni tanto ha
qualche crisi di rimpianto per la sua incontrollabile
violenza.
Non è dato di sapere se Giorgina Spelvin sia ancora
viva, ancorché ossuta vecchietta pensionata, o già icona su
lapide.
Kalaika, in un ambulatorio di Budapest, ha appena
ritirato le sue analisi che le notificano una inequivocabile
sieropositività…
84
ARISTOTELICHE MELE BACATE
UNITA’ DI LUOGO
E’ una piazzetta di ridente località turistica a
strapiombo sul mare.
Atmosfera da Rio Bo:
la piazza è acciottolata
irregolarmente, contornata da casette basse bianche di
calce luminosa con persiane di un bel verde brillante.
Balconcini traboccano di gerani rossi e surfinie bianche
e lilla e sovrastano di cornice un piccolo bar, con due
tavolini fuori, un negozio di generi alimentari e una
fontanella chiocchiolante.
Un muricciolo sghimbescio di pietra avvolge due
panchine con un melo striminzito e chiude la piazza, verso
il lato mare offrendo un senso di protezione rispetto agli
aguzzi scogli sottostanti.
Riposante rumore di risacca e odore salmastro.
UNITA’ DI TEMPO
Quasi tramonto: c’è ancora luce, ma le ombre
s’allungano tremolanti, come percorse da leggeri brividi di
brezza marina.
Cromatismi purpurei aranciati e spruzzi dorati qui e là
a risaltare l’azzurro carico d’amore di vita che il mare si
scambia con il cielo.
UNITA’ D’AZIONE
L’approccio è come da carica d’orologio manuale o di
pupazzo a molla: dalla staticità dell’immagine d’azioni e
figurine varie al caos piacevole di suono e movimento.
Un turista straniero con moglie sorride, beota,
contemplando uno scontrino: sta pagando due chinotti
come una notte presso un “quattro stelle”.
Il padrone del bar è sornione e indifferente: si direbbe
che da lui un chinotto costi abitualmente un mutuo…
La commessa della bottega di generi alimentari fuma
sulla soglia calcolando introiti eccedenti dovuti ad
un’opportunistica taratura della bilancia.
Una vecchia sul balconcino struscia energicamente due
pattine sul balcone.
85
Nevica d’agosto sul dehors del bar e sulla coppia di
turisti turlupinati.
Da un altro balcone un grassone in canottiera si
cimenta in giardinaggio: pota e getta di sotto rami secchi di
gerani e innaffia a pioggia le piantine e qualche passante
che smadonna.
Un cane sguinzagliato si accoccola vicino al melo.
Bisogno grosso.
Il padrone guarda il mare, assorto e assente, inalando
odore di poesia.
Peccati veniali, se si vuole, non certo la mela d’Eva…
La sera bussa alla piazzetta.
Ambarabà ciccì coccò: tre civette, di norma, sul comò.
Tre civette rumene, invece, con gonne grandi come
fazzoletti e rossetti esagerati, stazionano su una panchina
tubando tra loro fitto fitto, attendiste e scosciate a corrente
alternata, con occhio sfrontato sull’incombente struscio
serale.
A passo d’uomo compare un’auto che sembra un
sinistro presepe lampeggiante.
Brividi di fresco e d’altro per le tre civette.
Il presepe si blocca proprio davanti alla panchina e
smonta un alto pastorello in divisa che chiede i documenti,
accigliato.
Tre zampette porgono tre fogli che sembrano lenzuoli.
Nell’aria serale odore di pizza, anche se la bottega sta
per chiudere.
Il bar interloquisce con aroma di caffè e un dolciastro
d’orzate.
Le rumene scrutano il presepe come tre innocenti
caldarrostaie.
Attesa in rispetto quasi adorante.
I computers s’inceppano spesso: non parlano rumeno.
Voce dall’interno dell’auto lampeggiante:
“Chi è Elèna?”
Si leva dalla panchina la più smilza e alta delle tre,
pallida come la casa di fronte, e per di più senza persiane
verdi a ravvivare lo smorto.
86
Una mano fa segno di avvicinarsi.
Elèna ha la morte nel cuore.
E’agganciata da due occhi freddi ed è abbracciata da
una voce paterna che attende.
“Il permesso di soggiorno è scaduto.”
Silenzio.
Sensazione di baratro.
Il domatore delle civette, in realtà domatore di gazze
ladre, non sente ragioni: ogni sera c’è un tanto da portare a
casa o altrimenti cinghiate a sangue.
Ora, invece, c’è una mano ingorda che struscia pollice e
indice e minaccia più del domatore, almeno per l’immediato.
Elèna non può, non vuole, non sa.
Le altre due sono in regola.
Non possono fare altro che spollinarsi con la cipria
rivolgendole uno sguardo di solidarietà sterile.
Il domatore invece farà male: sarà una notte dolorosa.
La mano d’adesso, tuttavia, può fare male da subito.
Situazione senza uscita.
La civetta smorta non riesce più ad ascoltare il rumore
e l’odore del mare.
E’ sopraffatta da odore di ricordi, di formaggio di capra,
d’erba selvatica e cavoli, di rayon di calze smagliate.
Un muro, rispetto ad un cancello che deve essere
sempre aperto o chiuso, è concettualmente più elastico e
imprime più varie ricezioni, soggettive e contingenti.
Elèna vede il muricciolo come un trampolino rivolto
verso la libertà.
E’ una stampellona: sembra Olivia, solo più smorta.
Tre passi e un salto, senza una parola.
Raccapriccio disperato delle due civette superstiti per
ora in regola.
Isteria della coppia beota.
Indifferenza d’inquilini al balcone: una continua a
sbattere neve pelosa e l’altro ad imitare l’uomo della pioggia,
ma è quasi buio e forse non hanno visto.
Il padrone del bar ha la bocca che sa di ferro e s’affaccia
dal muro verso gli scogli ricordando due capezzoli che ora
chiamano fiele.
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Gracchiare di voci da una trasmittente.
Un fagotto di panni bianchi si confonde tra la spuma
del mare ora scuro.
Brezza.
Stormire di foglie di melo.
Sipario.
88
CINICA STORIA D’ASTOLFO SENZA LUNA
Uno che si chiama Astolfo non esordisce bene in
qualsiasi storia, per di più se è anche senza luna.
Se si aggiunge che è disoccupato, separato prossimo al
divorzio, esaurito e posseduto dal demone del gioco,
alternativamente black jack e ruota, con una sfiga cosmica
che lo manda in giro come un pezzente, la qualsiasi storia
diviene una tragedia tendente al grottesco.
Astolfo è anonimo e insignificante: è visto da chiunque
‘attraverso’.
Ha dalla sua soltanto un briciolo di fantasia,
convogliata sul monotematico gestire l’ipotetica vincita del
secolo, e una rassegnazione fatalista con un qualcosa di
mistico, tanto che Giobbe e San Gerolamo potrebbero
sembrare due volenterosi dilettanti. Facile preda del
mobbing, sul lavoro, frustrato nelle iniziative e negli
entusiasmi, è regredito, nell’ambito delle definizioni
professionali ufficiose e parallele, da impiegatuccio anonimo
di quart’ordine a pelandrone con mutua facile, da redimere
con tanti calci in culo.
Dopo alcuni richiami verbali, multe, accertamenti
sanitari, sospensioni temporanee sempre più lunghe, è
stato messo in strada con la classica scatola di cartone
piena di effetti personali di una carriera mancata.
Se n’è andato con la roulette di bachelite in scala
cinquanta a uno, con otto mazzi di carte e uno chabot, e
con una scatola di biscotti di metallo piena di fiches
variopinte.
La moglie, concreta e piena di buon senso, si è
trasformata in licantropo nel sapere che la magra
liquidazione ha preso il volo, ancora calda, tra Sanremo e
Saint Vincent, e ha tirato giù tutti gli altri santi con
pittoresche esclamazioni blasfeme.
Una parola tira un’altra, come le ciliegie, ma anche
come le bombe a mano e, all’incrocio senza semafori, il
frontale tra le parole ‘fallito’ e ‘stronza’ ha squassato come
con una mannaia un’unica storia in due storie parallele,
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intese in senso matematico, che non s’incontreranno mai
più.
Di qui l’esaurimento.
Astolfo surroga la solitudine con la ricerca del sistema
invincibile per sbancare tutti i casinò dell’orbe terracqueo e
si chiude in sé stesso parlando con le fiches e chiamandole
anche per nome con affetto e tenerezza. Talvolta le
accarezza e le bacia.
Non si vive, tuttavia, di solo sussidio di disoccupazione
e Astolfo, con una luna che più nera non si può, lavoricchia
per l’appunto in nero sfiancandosi nelle attività più
strampalate e faticose. Diviene un fenomeno da telegiornale,
unico bianco caucasico raccoglitore di pesche nel cuneese,
tra quattrocento cinesi e senegalesi che gli fanno per rivalsa
scherzi da prete delle loro terre d’origine, ma la bobina del
servizio televisivo per il Regionale prende fuoco
accidentalmente lasciando Astolfo anonimo, seppure con
qualche banconota per il disturbo.
Lo lasciano quasi subito anche le banconote, in una
brevissima seduta di ruota a Saint Vincent, ridente località
della Valle d’Aosta con un casinò, ridente solo per chi vince.
S’intestardisce sul rosso e, rigido sull’attenti, con una
mano sul cuore e una sui testicoli, si canta mentalmente
l’Internazionale in ispanocastrista fluente, ma il banco è
reazionario e sette uscite nere di seguito lo collocano
all’imbocco del casello autostradale per un autostop alle ore
ventitré che è anche paradossalmente, in alcune tradizioni
popolari di certe località, il numero cabalistico del culo.
E’ inutile aggiungere che piove come Dio la manda e che
Astolfo non ha un ombrello.
Dopo due ore d’attesa a bagnomaria in considerazioni
esistenziali di contrappasso che lo vedono, in altra
dimensione, dare una congrua mancia a Rockfeller come
compenso per una lucidata alle scarpe, Astolfo è risucchiato
dalla realtà di una macchina che gli si ferma accanto
schizzandogli addosso un pozzangherone gelato con due
tinche e un cavedano.
Rischia di essere risucchiato anche dall’autista, un
commerciante di Chivasso, pederasta in crisi d’astinenza, e
90
si produce nella sua migliore imitazione di stuntman
fiondandosi fuori dell’auto a centoventi in prossimità di
Torino, sotto il più epocale nubifragio degli ultimi venti
anni, con un braccio a proteggere il cavallo dei pantaloni e
l’altro aperto ad ala spezzata di passero per attutire il colpo.
In effetti, il braccio diviene un’ala spezzata, nel senso
che scrocchia all’impatto con l’asfalto e si frattura.
Il più significativo martire cristiano a scelta, di fronte
allo stoicismo rassegnato di Astolfo, viene retrocesso di
categoria.
Nella fradicia notte il nostro eroe s’incammina
zoppicando verso la città, centrato periodicamente, come
l’orsetto del Luna Park, da ghiaiottolini aguzzi e da schizzi
di pozzanghere da parte di automobilisti con mirino a raggi
infrarossi.
E’ schiaffeggiato nell’ordine da una carpa, da una
scarpa e infine da una scarpata, sul fondo della quale è
rimbalzato con i denti dopo uno scivolone, e perde tempo ed
energie per districarsi da un amo e da una lenza gettata da
un camionista.
Quasi all’alba, finalmente, Astolfo, ormai ritirato di
quindici centimetri e con una colonia di girini nelle scarpe,
nonostante la temperatura dell’acqua piovana sia solo di
sette gradi, è in prossimità della sua casetta.
E’ insonnolito, frastornato dalle batoste ricevute fin da
dentro il casinò, con quell’ossuta vecchina menagramo,
superstiziosa, che gli ravanava ripetutamente le natiche, ed
è ancora sognante, a dispetto di tutto, di un domani
migliore con una vincita stratosferica.
Attraversa una stradina anonima del suo quartiere
dormitorio.
Via Anacardo Spillaccheri.
Non c’è nemmeno una descrizione su chi è stato, che
cosa abbia fatto nella sua vita, se la sua vita sia stata breve
o lunghissima, se sia stato un martire, un eroe o un
pensatore, e viene da chiedersi se sia addirittura esistito.
L’unico dato oggettivo è che ha un nome e un cognome
da rigurgiti.
Piove sempre.
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Astolfo, ormai stremato, è travolto da un Porsche
Cayenne con paraurti rinforzato antilavavetri semaforici, di
uno che ha fretta, ha sbagliato strada e si è perso.
Anche Astolfo si sta perdendo.
I pezzi.
Sente freddo.
Pensa che ha perduto quattrocento euri al casinò, una
scarpa sull’autostrada, che ha quasi perduto la verginità e
un braccio, sempre in autostrada, e che adesso sta
perdendo anche la vita, carneade in una via anonima dopo
una scialba esistenza senza alcunché da tramandare ai
posteri.
Astolfo cerca la luna per morire con un bagliore di luce,
ma è notte senza luna e deve accontentarsi dei fari del
Porsche, anzi, di un faro solo perchè l’altro si è distrutto sul
suo bacino.
Astolfo pensa ad una vincita da sceicco del Brunei, ad
un trapianto di colonna vertebrale in oro tempestata di
rubini e s’illumina di luce propria in un sorriso che
anestetizza dal dolore.
Poi, però, un pensiero rovina un’agonia da potenziale
eroe a epilogo di una vita da sfigato.
Che cazzo di via è Via Anacardo Spillaccheri?
Pensa ad un altro mancato attimo di celebrità a
suggellare la sua esistenza.
Certo se stesse per morire nella centralissima Via Roma
o a Via Garibaldi, di sabato pomeriggio con i negozi aperti e
tanta gente in giro…
Ha ragione Wharol.
Con un sorriso estremo, però, Astolfo recupera una
buona morte.
Pensa ad una postuma Via Astolfo senza luna, anonima
come via Anacardo Comesichiama…materna e accogliente
per un nuovo supersfigato di turno centrato da carrozzino
elettrico di paraplegico ubriaco…
Poi buio.
Senza luna.
E senza Astolfo.
92
PER SENTIRSI MIGLIORI
Un suggestivo tramonto purpureo non può, da solo,
accendere i volti delle tre figure presso il portico del vecchio
cascinale: sono presenti anche sensazioni, emozioni.
La giovane sta parlando animatamente, con trasporto e
convinzione.
Ondeggia alla brezza la sua coda di cavallo bionda.
I genitori di lei, anziani e stanchi, ascoltano.
La mamma trattiene a stento il pianto: ogni tanto porta
un fazzolettino alla bocca a mascherare dolorosi stati
d’animo in maniera maldestra.
“Mi capite?
Devo crescere, scoprire, arricchirmi.
Devo conoscere il mondo e aumentare l’esperienza per
migliorare.
Non piangere, mamma: è un distacco provvisorio.
Ritornerò: magari più buona, migliore.
Andrò a fare del bene, laggiù, mamma.
Sono in tantissimi ad avere bisogno di chi possa
aiutarli: non hanno nulla...”
Lunghe pause di silenzio mentre la luce gradatamente
affievolisce.
Sguardi muti a chiedere altro non detto, nella
penombra, e a rispondere con bagliori decisi.
Poi una voce piatta, quasi rassegnata:
“Comincia a rinfrescare: ritorno dentro.”
Il padre lancia uno sguardo neutro alla moglie dagli
occhi lucidi e alla figlia che sembra brillare di una luce
nuova.
Gira la sua sedia a rotelle con le sue braccia ancora
energiche seppure ossute, con faticosa disinvoltura, ed
entra nella casa ansimando leggermente, con un cigolio
delle ruote tagliente come un rasoio.
93
SE MISS SFIGA VUOL FLIRTARE
Un giorno del duemilacentotrenta, la professoressa
Vanessa Levi Montalcini, di centosei anni, pronipote del
premio Nobel Rita del secolo precedente, dopo un ennesimo
passaggio dello spot pubblicitario televisivo olografico
riguardante Sguisch, il preservativo per i giovani, s’incazzò
come un crotalo scippato dei sonagli.
Forte delle sue conoscenze, professionali e derivanti
dall’importante parentela, la vegliarda promosse una
riunione clandestina presso l’istituto sperduto tra le
campagne del Chianti denominato “Casa di Cura degli ex
giovani schifati dalla Madonna della Porziuncola”.
Radunò canuti rappresentanti dell’Accademia della
Crusca, dei Lincei, le Pantere Grigie di vari quartieri
popolari urbani ed altre associazioni di terza età in odore
d’insofferenza e ribellione, occhieggiate con discrezione
dalla Digos, come “Orgoglio del pannolone”, “Dentiere
rampanti” “Gay con l’Alhzeimer” e “Portaerei in disarmo”.
La battagliera Vanessa tracciò una linea di sotterranea
rivoluzione per controbattere allo strapotere della gioventù
nella vita sociale di tutti i giorni e, come si sa, ogni
rivoluzione contempla gesti sanguinosi e si nutre di vittime.
Cominciarono
a
sparire
di
soppiatto,
quindi,
rappresentanti autorevoli della gioventù e del giovanilismo,
fautori di messaggi rivolti al popolo dei giovani, guide
spirituali, guru e maitres à penser del prepuberale, e la
cronaca nera si alimentò d’inspiegabili rinvenimenti
d’imberbi sfigurati e di veline massacrate, protagonisti di
Genius o della TV dei Ragazzi, trovati in cassonetti o in
angoli bui delle città.
Le autorità brancolavano nel buio, ma qualche virgulto
sveglio e intraprendente ebbe alcune intuizioni e organizzò
una controffensiva.
Uno di questi, in prima linea, fu Giovanbattista
Costanzo Vento, gran maestro venerabile della loggia
massonica P.38, bisbisbisnipote di Maurizio, di discendenza
spuria per una relazione adulterina, all’epoca, del popolare
94
anchorman e di una soubrettina di nome Flavia Vento, solo
acerba, anche di cervice, e nulla più.
Giovanbattista subodorò lo zampino di vegliardi
rancorosi, nelle sparizioni di suoi coetanei, e organizzò un
convegno volto a decidere una controffensiva.
I migliori rappresentanti della gioventù si diedero
appuntamento, come carbonari, nel retrobottega della
famosissima sala giochi “Erettils games” della capitale.
Erano presenti bande come i “Poppanti senza futuro”,
gli intellettuali del “Carpe diem”, in divisa sgargiante con
sospensorio fosforescente in bella mostra, e addirittura i
“DestriSinistri per la Gnocca unita”, i più ingovernabili per
le loro concezioni anarchiche, secondi a pericolosità
solamente al gruppo spontaneista “Noidurievoino”.
Dalla riunione scaturì un piano di reazione.
E cominciarono a scomparire anche vecchi malfermi.
Anacleto Ferrarotti, sociologo di tradizione come il suo
prozio, fu ritrovato senza la sua dentiera cavallina da
competizione in un orinatoio pubblico.
La nota gastronoma Germana quarta, di novantasei
anni, lontana discendente, da un primigenio frutto del
peccato, della famosa suora in relazione carnale con un
oscuro gastronomo dell’epoca di nome Bigazzi, fu rinvenuta
senza vita dietro il ristorante “Da Giggi er Cornacchione”,
senza toupet e deflorata con il matterello per le pappardelle
fatte in casa da cucinare al sugo di lepre.
Cominciò, dunque, una guerra sotterranea trasversale
di contrapposizione tra giovani e anziani, strisciante,
clandestina, senza esclusione di colpi, mentre i pubblicitari
fiutarono il vento e diversificarono finalmente i loro
messaggi.
A Sguish, il preservativo ‘casus belli’, fu affiancato
Sbreng, il preservativo della terza età, inamidato,
accelerante con turbo alla cordite, ai sapori di nocino, di
alkermes e di fernet Branca.
Si diceva, per l’appunto, che tutte le rivoluzioni si
nutrono sempre di martiri innocenti sacrificati in nome
della causa.
95
O forse le vittime sono soltanto persone assai sfigate…
Come Giobbe.
Un nome e una garanzia, in biblica associazione d’idee
di piaghe e relativi cocci per grattarsele…
Giobbe soffriva di crisi di panico e insonnia ed era solito
uscire ad ore da vampiri in cerca di distrazione e di schiaffi
d’aria gelida della notte a rinfrescare i lobi temporali
bollenti d’angoscia.
Nulla sapeva, il poveraccio, di quanto stesse accadendo
intorno a lui, troppo preso dalla paura del buio e di morire,
ansante in pellicola di sudore gelato una notte sì e l’altra
pure.
E una sera comparve Miss Sfiga, un’impalpabile
svampita bruttarella dai capelli stopposi, piallata come una
tavola, semicieca senza età con due culi di bicchiere al
posto degli occhiali.
Dopo lunghi appostamenti morbosi, gli bussò
direttamente ad una spalla per fare conversazione.
Giobbe non si sentiva molto socievole, tra una notte in
bianco e una con incubi tremendi, e declinò l’offerta, anche
perché l’interlocutrice fastidiosa aveva un alito da
pantegana.
Decise di uscire, anzi, perché prossimo a noti tremori.
Miss Sfiga, querula, si permise di insistere per due
paroline soltanto, tanto per passare il tempo, in simpatia e
cordialità.
Giobbe neanche rispose e si avviò per le strade deserte
in nuovo itinerario a casaccio.
Ed attraversò, senza saperlo, la terra di nessuno.
Di là, verso le villette rococò, lo seguivano con lo
sguardo presbiti pattuglie di pantere grigie in assetto di
guerra con dentiere d’acciaio inossidabile e pannoloni
rostrati.
Di qua, lungo il perimetro del palazzone prefabbricato in
cartongesso
dalla
linea
molto
avveniristica
e
mostruosamente moderna, era sorvegliato da malevoli
adolescenti dal brufolo esplosivo anticarro.
La signorina Sfiga, nel frattempo, appiccicosa come una
carta moschicida, si lamentava della sua solitudine
96
insistendo ancora per una piacevole conversazione e,
magari, anche un cicchetto in un bar per aumentare la
complicità.
S’aggrappò al braccio del suo prescelto.
Giobbe aveva le sue madonne ed era infastidito da
questa invadenza.
Strattonò il braccio per camminare da solo, ma invano.
In quel mentre fu agganciato da lazos, da qui e da là, e
fu stirato come un grissino torinese da una mandria di
vecchi bavosi pieni di propoli e ginseng e di giovani
energetizzati a merendine.
Entrambi i gruppi, strafatti in comune di ACE, lo
reclamavano come trofeo.
Fu interrogato.
Giobbe era confuso.
La Sfiga, sempre più svampita, incurante degli eventi,
gli biascicava all’orecchio vicissitudini della sua vita in una
confidenzialità assolutamente fuori luogo, innaffiando di
sputacchiazzi il timpano giù giù fino alla coclea.
“Quanti anni hai?”
La voce era stereofonica, catarrosa e tremolante da una
parte e squillante e ridanciana dall’altra.
“Cinquantatre. Perché? Che cosa ho fatto?”
Il catarroso nell’ombra sbottò come il Brontolo accigliato
di Biancaneve e i sette nani.
“E’ giovane, è giovane, lo sapevo: è nostro…”
La vocina squillante e impertinente, il Peter Pan della
situazione, interloquì:
“E’ irrigidito come un infartuato brizzolato, quasi un
morto, sicuramente rincoglionito assai, magari anche già
pensionato a sbafo: è senza dubbio nostro…”
Giobbe, per sopramercato, riusciva ad udire anche la
voce di Sfiga che gli proferiva amicizia eterna interessandosi
dei suoi problemi con attenzione esagerata e tatto sudato
colloso in palpamento similerotico.
“Di che mese sei?”
“Gennaio, ma che significa?”
Brontolo nell’ombra, ridacchiò:
97
“Significa che sei più vicino ai cinquantadue: sei
giovane, sei giovane…”
“Ti alzi la notte per pisciare?”
Peter Pan era strafottente.
“Qualche volta: soffro d’insonnia…”
“Ecco, lo vedete: soffre di prostata.
E’ vecchio ed è nostro…”
La Sfiga, intanto, perduta ogni timidezza, sfacciata, si
stava dichiarando con leggerezza e poesia sbattendo le
lunghe ciglia di occhi miopi da geco.
In Giobbe aveva trovato l’uomo per la sua vita, per
sempre…
Dalla parte di Brontolo si levò una voce pacata, ma
ferma, di uno che poteva anche sembrare Dotto o mastro
Joda dopo un corso di dizione.
“Non c’è una regola fissa per determinare lo status di
giovane o vecchio.
Bisognerebbe stabilirla in una riunione apposita.
Propongo, pertanto, nella considerazione che è stato
catturato nella terra di nessuno, che lui sia di tutti…”
Quel ‘lui’ presagiva poco di buono.
Inoltre l’esondante e passionale Sfiga si stava sforzando
di baciarlo sulla bocca con la lingua e Giobbe cominciò ad
avere una sudarella gelata diffusa e un tremore
incontrollato.
“Lo potete vedere: è giovane, magari anche drogato.
Guardate com’è in crisi…Strafatto di chissà che cosa…”
“Ma no: è vecchio. Guardate che tra poco si piscerà
addosso o avrà un aneurisma…E’ bianco come un pitale”.
Attimi di silenzio.
Solo un bisbigliare metafisico di Sfiga, con alitosi
incommensurabile da pozzo nero, che parlava di nozze e di
viaggi ai Caraibi.
“Che sia di tutti, allora…”
Dotto-Joda sancì il destino di Giobbe come una lapide,
e tutti urlarono selvaggiamente come contro una pattuglia
della Celere.
Giobbe si sentì trafiggere un fianco e si tastò una freccia
nel costato.
98
Poi fu colpito da una sassata ad una spalla.
Era immobilizzato dai lazos tesi come corde di violino.
I lampioni erano fiochi e l’umidità della notte
punteggiava di nebbiolina la strada.
Giobbe udì altre grida belluine e sentì altri colpi,
sempre più duri e dolorosi.
Era atterrito, tra le risate malvagie e il tentativo di darsi
una spiegazione circa quello che gli stava capitando tra
capo e collo, ed era confuso nell’udire l’inopportuna
petulante voce di Sfiga che parlava di arredamenti per un
salotto in stile vecchia america, cosa che non aiutava la
concentrazione verso la razionalità.
Poi fu il buio totale, con una sassata ad una tempia, e
fu il silenzio.
Ma prima del silenzio…
Giobbe udì ancora Sfiga che stava rigirando la frittata,
volubile e capricciosa.
“Forse è meglio che restiamo buoni amici, forse non sei
il mio tipo, non ti merito, mi sono spinta troppo in là, è
stato un momento di debolezza, ora che ti vedo meglio sotto
il lampione non sei il mio genere d’uomo anzi preferisco le
donne, ti pensavo un altro più somigliante a Brad Pitt, sarà
per un’altra volta, mi aspetta un mio amico guardia
notturna, accidenti a me e quando prendo certe iniziative,
forse sono io troppo superficiale, giuro che è solo una
sbornia passeggera, ti prego non pensare male di me, ho gli
ormoni isterici me lo ha detto anche il medico, ho una
miopia che rasenta la cecità e vado troppo spesso a tastoni,
oddio, so che non conta, ma sei davvero minidotato, scusa,
scusa, scusa…”
Giobbe morì a cinquantatre anni, rifiutato dai giovani e
dai vecchi, perseguitato dalla Sfiga e poi travolto da scuse e
ripensamenti, davvero sfortunato in nebulosa linea di
demarcazione sul suo essere, ma ebbe almeno l’ultima
magra soddisfazione di disegnare sulle labbra, non si sa
bene verso chi, un adirato vaffanculo che uscì, estremo
rantolo, se non come un esorcismo, almeno come una
liberazione.
99
ONIRICI PERCORSI E REALI TRAGUARDI DI ATTILA
ZAPPING
Esordì inconsapevolmente dopo una cena esagerata,
Attila Zapping,
ed entrò, russando con rumore di
betoniera, nel mondo dei sogni che sembrano veri, roteando
sotto le palpebre gli occhi basedowiani a palla.
Nel buio della sua cameretta l’aria divenne fumosa e
purpurea e una voce di roveto ardente, identica e
sovrapposta a quella di una pasta con le sarde ardente e al
dente, ovviamente con finocchietto selvatico, rimbombò nei
lobi temporali di Attila in fase REM con tono da non
ammettere repliche e da esigere sudditanza assoluta.
“Questo mondo sta disgregandosi
nei suoi valori
essenziali ed è necessario un processo catartico che
ripristini antichi fasti e indiscussa morale.
Tu sei il mio prescelto, Attila Zapping, il braccio della
mia ira giusta che dissolverà il marcio d’ogni dove…”
Attila tacque, nel sonno, comprimendosi l’addome che
sembrava volesse esplodere come una mina antiuomo e,
trasudando una bottiglia di vermentino troppo fresco,
assunse un’onirica espressione rispettosa nell’attesa di
ordini.
La stanza girava tra fumi e porpora come un calcinculo
in un Luna Park a tarda sera e la voce eruppe terribile e
ineludibile come un blob di zucchero filato in frontale su
una camicia di lino nuova nuova.
“Comincerai a sgrassare questo mondo secondo quello
che è necessario per ribadire antiche idee…
Sterminerai tutti i negri ebrei comunisti omosessuali
con l’AIDS, tanto per cominciare…”
Attila pigolò tra i guanciali, in zelo e perplessità:
“Esistono davvero? Tutti insieme in una sola persona?
Ce ne saranno tre o quattro in tutta la terra: dove vado
a prenderli?
In Wyoming o dove?
Ce n’è qualcuno in Wyoming?
Esiste un ‘low cost’ per il Wyoming?
100
E se ce ne fosse un altro in Australia o nelle isole
Tonga?”
“Uomo di poca fede: comincia dai comunisti, oppure
dagli omosessuali…
Se poi hai voglia di compiacermi guarda se esiste un
‘low cost’ per Nairobi o Monrovia, ché molto avresti da
lavorare…
…E dove tu passerai nel mio nome non crescerà più
l’erba…”
La voce era perfida e sottile, ora, acuminata come una
lisca di scorfano nella zuppetta di pesce che era seguita alla
pasta con le sarde, sempre ardente come un roveto, anche
perché pregna di peperoncino di Soverato, a bruciare le
pareti dello stomaco. La camera girava vorticosamente
centrifugando damigiane di sudarella gelida in aria spessa e
colori cupi e sanguigni.
“Mi attiverò presto per servirti, anche se non ho ben
chiaro il tuo disegno…”
“Mangerai la parmigiana multistrati con le melanzane e
la mozzarella alla mia destra…”
Attila si rigirò più volte come una sogliola alla mugnaia
nel sonno agitato, per armarsi, e aprì, sonnambulo, il
cassetto del comodino per prendere il cannoncino portatile
al plasma, uguale a quello di Doom. Strappò il lenzuolo a
motivi di fiori di campo e spighe e si cinse di una sua
striscia la fronte come un Rambo figlio dei fiori.
Frugò a tentoni con una mano sotto il letto a cercare le
cartucciere per il mitragliatore da tanti colpi al secondo.
Il caldo era da clima tropicale: uno squagliarsi liquido di
tensione emotiva e anche pesantezza intestinale che toglieva
il fiato in dispnee da palude. Attila si rotolava nel letto come
fosse tra massi e cespugli di una jungla e meditava di
intrufolarsi a spallate nel locale sotto casa, il “Night’s
Rejnas”, a depennare dal lunghissimo elenco di giustiziandi
il Trio Lescano, alias Armando, Ugo e Cosimo, tre ‘drag
queen’ alte e spigolose come granatieri di Sardegna,
bravissime nelle imitazioni di Madonna, Mina e Patty Pravo.
Cominciò a sparacchiare alla cieca raffiche di mitra nel
sogno e raffiche di vento nel reale buio.
101
Raggi violacei abbaglianti del cannoncino al plasma
incenerivano all’istante i suoi bersagli.
Udiva urla disumane, preghiere speranzose, singhiozzi,
e percepiva odore di carne bruciata, uguale a quello degli
spiedini d’agnello alla brace, sempre della cena, dopo la
zuppetta di pesce.
Cominciò ad esaltarsi, nel crepitio del mitragliatore e
nel vedere sagome crollare come birilli, in un delirio
d’onnipotenza da giustiziere della notte sotto alto patrocinio
e immunità diplomatica.
Rideva magnificamente malevolo al grido di battaglia
“Unno per tutti” e lanciava bombe a mano verso negritudini
e lazzaretti a riguernicare picassianamente in natura morta
consorzi sociali bacati.
La voce del roveto ardente, dello spiedino ardente, lo
incitava promettendogli gloria imperitura e lui, spiritato, si
gettava dietro una palma o sotto un tavolo senza mai
lasciare il grilletto, novello personaggio di Matrix balzellante
lungo pareti di locali notturni, ristoranti, banche, chiese,
sezioni Arci, gay e anche non, a Torino, Roma, Nairobi,
Amsterdam, ché anche i tossici avrebbero avuto il fatto loro,
e soprattutto Pechino, covo dei peggiori comunisti, e il
cannoncino bruciava tra le mani come una pentola
ribollente di pasta e fagioli afferrata senza presine.
Combattè tutta la notte, Attila Zapping, teletrasportato
dal Nepal alla Bolivia, dal Nebraska alla Namibia, e fece una
strage planetaria sputacchiando nell’aria qualche nocciolo
di ciliegia di troppo.
E venne alfine mattina.
Aprì gli occhi alla prima luce, zuppo e gonfio come una
rana, e inorridì per l’incubo.
Arrivò in ritardo, quella mattina, al Centro d’Assistenza
Anziani dove prestava opera come apprezzato volontario
armato d’inesauribile pazienza e disponibilità mite.
Era stravolto e incredulo sul suo inconscio violento, lui
che, a dispetto del nome, non avrebbe mai ucciso una
mosca, pacifico e sensibile verso i deboli e gli indifesi,
prudente e circospetto già solo al farsi la barba col rasoio
elettrico.
102
Si chiese se nella realtà sarebbe stato capace di
sprigionare un’energia distruttiva come nel sogno.
Ebbe la sua risposta poco dopo al Centro.
Vide una scena che gli mandò il sangue alla testa.
Un suo collega infermiere dall’aria laida pastrugnava
furtivamente una povera vecchietta stralunata e immobile
su una carrozzella per un ictus.
La poverina roteava gli occhi come un iguana,
terrorizzata e diafana, emettendo deboli singulti a
richiamare l’attenzione, ma invano.
Attila non stette troppo a riflettere.
Afferrò il tubo del catetere del suo assistito, lì presso
anche lui su una sedia a rotelle sottosaccottata, e lo strinse
al collo del collega.
Diede forti strapponi provocando gorgoglii multifonti da
parte dell’infermiere, agonizzante nel soffocamento, e da
parte del vecchietto, intubato col catetere, che fischiava
dalla dentiera, come un’aragosta bollita, nell’aria della
stanza impregnata di spisciacchiamenti vari di paura e
dolore.
E uccise.
Stavolta davvero.
Per una giusta causa reale.
Ma il Procuratore, in seguito, non ne volle sapere…
Un piccolissimo atto autonomo di giustizia reale,
rispetto ad una crociata onirica dettata da un roveto
ardente, fruttò dieci anni di galera per omicidio
preterintenzionale.
Nella considerazione del vitto nel penitenziario, ad Attila
non comparve più nei suoi sogni alcuna autorità a
comandare servizi catartici.
Anzi, smise anche di dormire le sue otto ore filate
sonnecchiando con un occhio solo:
un vigilare in
dormiveglia per guardarsi le terga dal suo compagno di cella
che, imitando la voce di un roveto ardente, gli chiedeva ogni
notte una sottomissione cieca e assoluta sibilandogli di un
dardo di fuoco e di un piacere divino e dirompente…
103
SURREALTRASH DI OCCASIONI COLTE E MANCATE
Vicolo Ombroso, uno stretto carruggio, potrebbe essere
anche una cartellina di poco valore di un nuovo Monopoli.
Echi di diversi programmi televisivi risuonano nell’aria
agostana della sera, troppo contigui tra gli antichi palazzotti
contrapposti tra loro per sole due o tre bracciate.
Le finestre spalancate per l’afa incorniciano bagliori
catodici intermittenti e canottiere inquiete.
Placido ragioniere Belvedere è stravaccato sul divano
con le palpebre pesanti di birra mentre lo schermo rimanda
chiacchiere tra sorrisi e insulse musichette e il vicino della
finestra di fronte, quasi astante in pochi metri d’aria, si
sventaglia con svogliatezza mista a rassegnazione e lo
squadra di tanto in tanto.
Dalla televisione di Placido, che aggrotta la fronte tra
l’incredulo e il curioso, improvvisamente proviene uno
sfrigolio più intenso e le immagini si distorcono in
luminosità azzurrina a rilievo che si espande nel buio.
Si materializza nella stanza la nota passerotta
Giusyornella Pappataci, velinotta seminuda, splendida e
soda, vedette della nota trasmissione trash “Sarò tua, come
li mortacci”, che urlacchia giuliva ed esagerata pro indice
d’ascolto:
“Mi hai vintoooooo, Placidooooo!
Se sei in regola con l’abbonamento alla card per le
trasmissioni dell’emittente ‘Tele Cogli One (Uan) – Cogli le
tue trasmissioni’ mi hai vinto e per questa sera starò con te,
e faremo cose da bollino rosso…”
“…Io?…Sì, sì, …Sono in regola con l’abbonamento: non
faccio altro che seguire ‘Tele Cogli One (Uan)’.
Non so che fare nelle serate d’agosto: sono solo e senza
amici…”
“Bene, bene, ragioniere bricconcello e morboso…
Ma come sei vestito?
Sembri Fantozzi dopo la famosa cipollata…”
“Eh? Uh, sono in tenuta estiva casalinga, dopo
cipollata, per l’appunto, e birra…”
104
“Ti si vede il pistolino attraverso la feritoia del boxer,
caro
Belvedere,
ahahah…
che
tenerezza
e
che
tenerume…Bleah…”
“Ah, scusa, scusa: il boxer è largo perché fa caldo e
sudo molto…”
“Gli imprevisti della diretta, ahahahah…
Sono preparata a questi spettacoli indecorosi, e anche
ad altro: indici d’ascolto, pollici, pollicini, ahahah...Beurp…
Piuttosto: sei contento d’avermi vinto?
Sei stato estratto tra oltre mezzo milione di abbonati…”
“Che bello…Sono frastornato…E ora?”
“Ora staremo insieme per tutta la notte e potremo fare
l’amore in sexy reality show: sei contento Placido?”
“Io…veramente…non so…mi sembra tutto irreale, non
so se sono pronto…preparato…all’altezza.
Dio, che caldo boia, stasera…”
Il ragioniere anguilleggia sul divano davanti alla
Pappataci.
Lei sorride lasciva passandosi la lingua sui denti
confetti e guardando studiatamente in camera.
Il vicino, troppo vicino, ha notato il tramestio e
occhieggia attento con i gomiti puntati sul davanzale, con la
pupilla lucida e un rivolo d’acquolina da lupo cattivo.
Maledice col pensiero il buon Placido, inadeguato, e la
sua fortuna cosmica, in abbozzo pronunciato d’erezione
attraverso elegantissimi slip verdini fosforescenti in
microfibra con scritta annessa in rosso “Provami e
diventeremo amici”.
Giusyornella Pappataci, vero animale da palcoscenico,
capta un precipitare d’eventi e di share: il ragioniere è
collegiale e molluscoide e il popolo dei telespettatori della
notte predilige programmi forti e d’iniziativa, soprattutto in
queste serate torride d’agosto.
Il tecnico del suono, ad un suo cenno, amplifica sospiri
mandrillici e risatine isteriche di sottofondo.
La passerotta, marmorizzata in un sorriso falso da
prestasoldi, cinguetta tra i denti in estremo tentativo:
“Allora Placido? Maialiamo? Non siamo più in fascia
protetta…”
105
Cambia poi tonalità di voce, la Giusyornella, da
Compagnia dei Taxi, molto asettica e professionale.
“Accettiamo proposte anche al numero 89912345678,
da telefoni fissi.
Chiamate, chiamate, chiamate… e scegliete per noi una
posizione bizzarra che esalti la trasmissione e accenda
passionalità nuove tra i telespettatori… e ricordate: ‘Sarò
tua, come li mortacci’, per le fantasie della vostra notte…”
Il vicino sospira e ghigna programmatico mentre Placido
si guarda intorno schiacciato da aspettative e timidezza.
“Non saprei, signorotta passerotta Pappataci…
Vogliamo fare una partitina a Scarabeo?”
La temperatura della stanza scende, e sbiadisce
l’intensità del sorriso della velinotta che si raffredda anche
in
propositi;
i
telespettatori
notano
un
vistoso
ammosciamento capezzolare e un atteggiamento colloquiale
più impersonale:
“Mi delude, ragioniere…
Il suo vicino di casa di fronte mi pare più promettente…
Credo che lei stia perdendo la sua vincita…”
Il vicino, difatti, ha gli occhi bianchi da cartone
animato, enormi, con le scritte: “Inserire la linguetta
nell’apposita fessura”, sulla pupilla destra, e “In caso di
emergenza rompere il retro”, sulla sinistra, e brontola
represso, ormai in doloroso accenno d’attacco priapesco.
Risuonano risatacce da caserma dei telespettatori e la
Pappataci ammicca, sguaiata, in puro avanspettacolo style.
Placido, invece, è artigliato allo scroto da un senso
d’oppressione e di liberazione insieme: ansia da prestazione
sconfinante nel terrore per la proposta d’erotica
performance, per gli inevitabili pettegolezzi del quartiere,
per la consapevolezza del suo essere minidotato, per il
disagio di doversi immedesimare nella parte di macho, non
consona a lui, timido peggio di un castoro.
La liberazione è nel sollievo di non vedersi più come
preda della Pappataci che ora punta il suo vicino di là del
vicolo, contraccambiata in crescendo di animaleschi
mugolii.
106
La passerotta, infatti, lascia uno sguardossimoro, carico
di cinismo e compassione, verso il ragioniere, e si lancia
dalla finestra verso la stanza del vicino, a non più di due o
tre metri.
Placido riesce solo ad intravedere un lesto balzo da un
lato di un paio di slip fosforescenti e poi uno sbattere di
finestra, accompagnato da una voce arrembante:
“Sono in regola con abbonamenti. Seguo da sempre la
trasmissione “Sarò tua, come li mortacci” e mi lavo due
volte al giorno con “Sapoglione”, il detergente intimo per
pistoni machi e parti basse competitive.
Dai, spogliati che ti adopro…”
La stanza di Belvedere ripiomba nell’oscurità abituale di
un televisore che trasmette normali programmi a ventuno
pollici.
La surrealtrasmissione ora si gira nell’altro alloggio.
Gli iniziali “Buuuhhh” corali di disapprovazione sono
rapidamente sostituiti da gemiti di pubblico appagato da
immagini forti e dal coretto delle altre passerotte velinotte
che intonano, allusive, un ritornello: “Sbav, sbav e dopo un
Vov”.
Placido scruta attraverso le tendine della finestra chiusa
e distingue le sagome di due corpi ballonzolanti alla luce
argentea del video.
Subentra una tranquilla eccitazione per il mite mancato
vincitore che riflette sul sapere osare e sulla sua mancata
occasione.
Fa spallucce, rassegnato nel caldo della tarda sera, e
sbircia ancora, allungando il collo, vagamente eccitato.
Di là, singhiozzi e urla belluine sono inframmezzati da
intermezzi pubblicitari ritardanti, applausi e telefonate in
diretta.
Di qui, invece, alfine, in perfetta solitudine, parte una
continuata carezza furtiva…
Come una furtiva lacrima...
E dal televisore, sintonizzatosi indipendentemente ora
sulla rete “Tele Canti e Tele Suoni”, Lucio Dalla, in piena
forma, canticchia magicamente solo per lui: “Disperato
erotico stomp”…
107
EXS
Il giovane Rufus “Double” ha una sua sensibilità,
propria del tempo, selvatica e poco sviluppata, cinghialesca,
semmai sia possibile verificare che esistano ancora cinghiali
in questo postatomico duemilanovantasei.
Si vive tra macerie, alla giornata, dopo un trentennio
abbondante di pioggia radioattiva e soli artificiali di
mezzanotte su cieli violacei fosforescenti.
La genesi di un lampo che ne richiamò altri è ormai
dimenticata, spazzata via, come allora lo furono corpi e
valori.
La vita, tuttavia, è tenace, anche se si è trasformata da
vite fertile in edera velenosa, e si abbarbica ovunque
qualcuno respiri, pur senza fertilizzanti per la mente e
senza il superato concetto classico di umanità.
Rufus è un figlio del suo tempo: è un mutante.
Il mondo ormai è popolato quasi solamente da mutanti
che si aggirano tra macerie con semplici bisogni primari
come mangiare, dormire, difendersi, prendersi piacere
senza alcun raziocinio, regressi a trogloditi.
Il giovane è chiamato anche “Double” per la sua curiosa
caratteristica di mutante: il suo organo riproduttivo è
sdoppiato sul pube in due protuberanze che divaricano
verso i fianchi, notevoli e interessanti da un punto di vista
femminile, se prese singolarmente, mostruose, però,
nell’insieme da deforme alieno.
Double non ha mai sentito nominare Bartolomeo
Colleoni, triorchide fascinoso della storia antica degli
uomini del vero medioevo, ma conserva un ancestrale
inconsapevole senso di superbia legato alla sua doppia
virilità sproporzionata, macho postmedievale di semplici
equazioni concettuali: due meglio di uno per un doppio
godimento, per una vita migliore, per il potere.
Vive cacciando topi e tutto quello che si muove, Rufus,
impegnato soltanto a sopravvivere.
Si nutre di topi, appunto, e d’altro che si muove, ad
eccezione di donne, di femmine: quelle servono per il
108
piacere, da sottomettere e ipnotizzare, semplicemente
calando i pantaloni mimetici.
Ne ha viste tante, di lerce, carine, abbrutite, disperate,
inebetite, sfatte, giovani e vecchie, spalancare gli occhi in
meraviglia terrorizzata, talvolta ingorda, e ne ha tratto
emozioni per nutrire il suo io nell’orgoglio e in un rozzo
complesso di superiorità.
La brunetta del garage sembra carina, sotto quello
strato di sporcizia che è una tuta unta di morchia.
Rufus la sta fissando mentre lei contratta con un
vecchio per quello che una volta poteva essere uno
spinterogeno.
Il vecchio impreca, ma lei ha già fatto il prezzo: prendere
o lasciare.
L’uomo lascia, minacciando qualcosa, e la brunetta,
senza parlare, gli punta contro una balestra apparsa da
chissà dove.
Il vecchio si ritira senza un briciolo di dignità.
Ora tocca a lui.
La ragazza vende anche sé stessa, a quanto si dice in
giro, ma Rufus conta sull’aspetto di bel ragazzo e sull’arma
segreta per sorvolare su una marchetta e magari anche
divertirsi.
La brunetta non manifesta emozioni.
Guarda Rufus.
E lo soppesa.
Il giovane sorride con sufficienza e provoca con voce
roca.
“Scommettiamo che faccio un giro gratis?
E scommettiamo che lo faccio per due volte?”
Il sorriso diviene risata irridente.
Il macho è pieno di sé e gesticola con i pantaloni per
proporre la sua mercanzia alla quale non si può resistere.
La brunetta è imperturbabile.
Immobile.
Con la balestra a portata di mano, ma tranquilla.
Rufus si abbassa i pantaloni mostrando due notevoli
erezioni, con gli occhi luccicanti rivolti alternativamente su
sé stesso, narcisisticamente ammirato, e sulla brunetta.
109
E’ impettito e gonfia il petto come quelle vecchie statue
d’eroi del passato, semidistrutte tra altre macerie.
“Hai capito ora perché mi chiamano “Double”, carina?”
Il suo sorriso di trionfo scolorisce, però, ad un ghigno
enigmatico della brunetta.
La ragazza guarda lo spettacolo con freddezza divertita.
Poi punta gli occhi sul giovane e armeggia colla tuta.
Double è un primitivo semplice e non sa cogliere le
sfumature: pensa che anche questa donna sta perdendo la
testa.
La brunetta mette in mostra due gambe tornite perfette,
appena unte di morchia.
E allarga le mani lentamente per un’eccezionale
presentazione di un triangolo magico: tre splendide vagine,
di cui due contigue poco sotto un ventre piatto ed elastico,
sopra quella che dovrebbe essere l’unica naturale, tutte
rosate, morbide, socchiuse, circondate da pelame riccioluto
lucido, eccitanti.
Lo fissa con un sorriso storto.
“Tutto lì, Double?
Sai come chiamano me, ragazzaccio presuntuoso?
Treppola, chè vuol dire tre volte trappola…”
Rufus rimane muto e immobile, incantato dalla visuale,
bastonato nell’orgoglio, e la sua doppia virilità ne risente
fino alla vergogna.
Treppola ride di gola con sarcasmo indicando i due
gommosi lombrichi violacei che pendono verso i fianchi del
giovane mutante e si riveste lentamente, sfiorandosi, con
sguardo torbido, mentre provoca il ragazzo passandosi la
lingua tra le labbra.
“Ci vuole altro per me, ragazzino…”
Rufus esce sconvolto dal garage e corre a perdifiato nel
crepuscolo verso il burrone, quello che era un parcheggio
sotterraneo, ora a cielo aperto, in una voragine profonda
decine di metri.
Corre e piange assaporando una nuova sensazione mai
provata di impotenza e sconfitta.
E’ strana e capricciosa la vita.
Sempre e in qualsiasi situazione.
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Glabra di sentimenti dopo il botto d’anni prima,
puramente vegetativa, soffocante come una liana ruvida, si
sta trasformando in un qualcosa di più complesso,
frastagliata da abbozzi di sensazioni e di valori, nuovi
germogli.
Forse per tutti.
Rufus è scottato dall’orgoglio.
Ritornano a galla vecchissimi concetti in letargo da
decenni.
Di superiorità.
Stavolta tradita.
E l’offesa è una mazzata di proporzioni planetarie, ché
una nuova ameba in evoluzione è stata colpita nel vivo con
tre taglienti trappole che hanno decapitato i due serpenti
del potere.
E’ strana e capricciosa la vita.
Offre consapevolezze in assenza di speranze.
E non fornisce supporti o puntelli a chi ha imparato la
verità; anzi, decide di abbandonare il campo.
Rufus, il nuovo macho, si lancia nel burrone profondo
inseguito dalle risate di scherno di una rivale che rinnoverà
l’antica lotta per il dominio del mondo.
111
SGUARDI E LAME NEL RISPETTO
La giovane albanese è una porchetta albina insaccata in
calze a rete. Guarda imbarazzata intorno a sé, saltellando di
pupille celestissime dalla pista da ballo al suo ragazzo col
ciuffo malandrino e gli occhi acquosi da predatore, fino ai
tavoli davanti e intorno nel locale.
La musica assorda e le luci ipnotiche e intermittenti
evidenziano fermi-immagine di sguardi che fuoriescono
dalla penombra colorata.
La ragazza si sente osservata ed è a disagio.
Pensa che è meglio prevenire determinate reazioni che
poi subirne di altre più dolorose.
Il suo ragazzo è di sangue caldo e picchia come un
fabbro per gelosie che, tuttavia, sono sempre ingiustificate.
Meglio prevenire...
“Enver, mi sento guardata in modo troppo insistente:
sono imbarazzata…”
“Chi è?”
“Quel ragazzo che ride laggiù tra tutta quella gente che
gli sta parlando…
Lo vedi? Lo hai proprio di fronte…”
“Sì, lo vedo…
Se continua, dopo averlo visto lo piangerò, quel
bastardo…”
“Stai calmo, Enver: te l’ho detto solo perché non si
creino equivoci.
Mi mette solamente a disagio la sua insistenza…”
Di là della sala, tra invasati zampettanti galvanicamente
a tempo, si squarcia asimmetrica l’immagine di una
comitiva che pare festeggiare un giovane sorridente, proprio
il tizio che imbarazza la pallida albanese.
Qualcuno indica la sala e i ballerini, o forse indica
proprio la bionda slavata a disagio; tutti ridono forte e il
ragazzo al centro del gruppo viene strattonato e si china
spesso a destra e a sinistra per captare messaggi mormorati
direttamente nelle orecchie, ad scansare i decibels della
musica.
112
Ride felice, annuisce, e tiene sempre lo sguardo fisso
verso il tavolo della coppia albanese.
Enver si sta innervosendo. E’ un sangue caldo senza
troppa riflessione e con molta passionalità istintiva.
Guarda il gruppo di fronte con espressione sempre più
torva.
Il ragazzo di là non batte ciglio e continua a sorridere in
penombra nel buonumore generale tra pacche amichevoli e
bevute con brindisi.
Enver si sente frustrato. Anzi, per meglio dire
brutalmente: preso per il culo.
Da un bastardo con una comitiva di gente che sta bene,
e lo si vede dai vestiti: granosi italiani con un lavoro
decente.
Tutti bastardi.
Accidenti a loro, ché lui sì è svenato una giornata e
mezzo di cantiere per portare la sua donna a ballare.
E si deve fare il sangue marcio in terra straniera e
inospitale, piena di arroganti che, soltanto perché hanno i
soldi, si possono permettere di guardare le donne degli altri
che stanno peggio.
Enver fa un gesto con la mano diretto laggiù: cazzo hai
da guardare?
Di là c’è adesso irrisione in indifferenza totale.
Si ride, si fissa da questa parte passando tra i ballerini,
si guarda con un’insistenza che è offensiva e merita d’essere
messa a posto.
“Stai fermo, Enver, ti prego…”
Il lamento è flebile, rassegnato, un belato senza
convinzione, ché la slavata ragazza conosce bene il suo
uomo dal ciuffo ribelle.
Enver si alza e si fruga in tasca alla ricerca della sua
sicurezza.
La ragazza piange senza che nessuno se ne accorga.
Lui avanza nella sala incurante dei ballerini tarantolati,
sfiorandoli, con lo sguardo gelato fisso al tavolo dei suoi
nemici felici. Si trova di fronte al tipo al centro della
comitiva, quello che ride sfrontatissimo.
“Lo hai capito che hai rotto il cazzo?
113
Lo sai che non si guardano le donne degli altri?”
Il ragazzo continua a sorridere, appena di meno, e
replica con voce quasi divertita:
“Pensi che valga la pena che io possa guardare la tua
donna?”
E’ una risposta strafottente pronunciata nell’imbarazzo
generale degli amici e delle amiche: tutti in apprensione per
la percezione istintiva di qualcosa di tremendo che sta per
succedere.
Il festeggiato, che sembra proprio un festeggiato,
continua a sorridere con un’aria stanca e l’espressione fissa
verso la ragazza bionda laggiù che piange.
Enver è ancorato a concetti d’onore montanaro, di valori
agresti di duro territorio da domare con il farsi largo a
proclami di rispetto.
Rispetto da ottenere e mantenere.
Estrae dalla tasca un serramanico e con la velocità di
un crotalo colpisce al torace due, tre, quattro volte, il
damerino che ride, senza dire una parola, guardandolo fisso
per volerlo vedere morire e vedere il rispetto nei suoi occhi.
La vittima s’accascia senza un lamento, senza
un’espressione particolare, solamente senza più sorridere.
Urla, disperazione, rumore di seggiole metalliche
trascinate a terra insieme a bicchieri e bottiglie.
“Disgraziato, che hai fatto?”
“Guardava la mia donna.
Mi ha offeso…”
Una ragazza con le mani nei capelli e una disperazione
senza sollievo mormora a mezza bocca come una cantilena,
con lo sguardo sperso:
“Era cieco, era cieco, era cieco, era cieco, era cieco…”
Enver non sa chiedere scusa.
Non è stato educato a chiedere scusa.
Lascia cadere la lama e rimane immobile come una
statua davanti alla sua vittima a terra.
E muore dentro…
Per non essere riuscito a vedere in due occhi morti il
rispetto nella confusa sensazione d’essere stato preso per il
culo da altro.
114
UN CASO UMANO
Caro Direttore/ cara Redazione/ cari Donna Letizia/
Nonna Firmina/ Zia Pina/ Dottoressa Birigozzi sessuologa/
Dottor Paolo Bidet psicologo/ Padre Bazed Boggio/ Suora
Eufrasia/ Frà Pistillo/ Don Lamazza, chiedo un consiglio su
come comportarmi a fronte di avvenimenti sconcertanti che
mi vedono, purtroppo, passiva protagonista confusa.
Sono una donna ancora piacente, dignitosamente
posizionata con un lavoro semplice, senza figli, molto
innamorata di mio marito anche se preoccupata per sue
recenti bizzarre manie.
Bat-tista, questo il nome convenzionale di mio marito,
scelto da qualche tempo proprio da lui che si chiama in
realtà Cosimo, è disoccupato da un’eternità e assai
fantasioso nel trascorrere piacevolmente il suo troppo
tempo libero.
Fin dall’infanzia è sempre stato un acceso ammiratore
di Bat-man e di lui, da sempre, tutto colleziona.
Ha perfino il tazzone di caffelatte con sopra scritto
“POW” a colori psichedelici, che è il fumetto del rumore di
un cazzottone dell’eroe verso la mandibola di un malvagio.
Possiede anche un cimelio rarissimo: la carta igienica
con le ali di pipistrello serigrafate made in Repubblica di
San Marino.
Bat-tista ha visto quarantasette volte il film “Bat-man il
ritorno”, per tacere le innumerevoli volte di tutte le altre
pellicole, colleziona tutti i fumetti che riguardano le vicende
di Gotham City e si documenta su qualsiasi fonte che parli
del suo beniamino.
Partecipa molto delle vicende di Bat-man digrignando i
denti con mugolii solidali e picchia i pugni sul tavolo
quando legge del Joker, del Pinguino e di Freezer che,
credo, siano nemici dell’uomo pipistrello.
Aggiungo solamente, tanto per rendere più concreta la
situazione drammatica anche da un punto di vista
economico, che abbiamo sottoscritto un abbonamento con
leasing presso un mobilificio per sostituire il tavolo
sinistrato almeno ogni due mesi.
115
Mio marito in questi ultimi tempi sta assecondando la
sua mania in un vero e proprio parossismo incontrollato.
Ha fatto modificare la nostra vecchissima Micra in una
sorta di bat-mobile e ha speso un mutuo dal carrozziere che
scuote la testa incredulo ogni volta che lo incrocia,
incredulo di tanta fortuna piovuta dal cielo, ché si è fatto
una Mercedes Kompressor metallizzata.
La Micra mi fa impressione, ché sembra uno scarafaggio
crestato punk, tutto nero, il colore della notte per come dice
mio marito, ma io ci viaggio per amore anche se Bat-tista
parte sempre sgommando con una seconda rabbiosa e lo
stereo a palla con gli U2 o il coretto di Prince (Batmaaannn) che fa rimbombare i vetri delle finestre vicine.
A ciò devo aggiungere particolari assai imbarazzanti:
Bat-tista, infatti, ghigna tutto goduto con una mascherina e
le orecchie finte a punta e prova a creare una cortina
fumogena con lo starter dell’aria ingolfando il motore, per la
gioia del carburatorista che ci vede assidui clienti e si sta
informando dal concessionario Mercedes del carrozziere.
Inoltre il paese è piccolo e la gente mormora.
Due settimane fa abbiamo traslocato in una grotta fuori
paese, che lui chiama bat-caverna: una fungaia umida e
buia che un bieco contadino ci ha affittato a prezzi da
strozzo.
Ho dovuto confezionare una tuta da Bat-man in
flanellona pesante per evitare al mio lui ricadute di sinusite
e recrudescenze di reumatismi.
Bat-tista, per scaldarsi e combattere l’umidità, si
gratifica con cinque e anche sei ore giornaliere di tapis
roulant e pesi per rinforzare la muscolatura e si esercita ad
agitare in superba iconografia il soprabito tagliato con le
forbici a foggia di ali di pipistrello principe di Galles.
Io, nonostante tutto, continuo ad amarlo.
Lui dice che mi ama.
Anche se ha fatto venire da Napoli un suo cuginetto alla
lontana, femminiello, Rosario detto Carmen, e lo chiama
Robin accarezzandolo con affetto.
Da due giorni mi sta facendo il lavaggio del cervello e
insiste che devo fare la donna di Bat-man e che devo bat-
116
tere lungo la tangenziale per pagare l’affitto della batcaverna e il carrozziere della Micra bat-turbo, ché mi ha
prosciugato tutti i risparmi.
Mi ha procurato una calzamaglia a rete nera con
sbrilluccichini e mi chiama in continuazione Cat-woman e
vuole che io faccia ‘miao’ con movenze sexy e poi gli
accarezzi la patta dei pantaloni felinamente per fare
un’esercitazione.
Come posso uscire da questo incubo?
Ho pensato di rivolgermi a Flash, il fotografo sulla
piazza della chiesa, nostro amico di famiglia, ma il paese è
piccolo e la gente mormora.
Lo scemo del villaggio, mica tanto scemo secondo me,
s’è offerto volenterosamente d’aiutarmi e mi ha dato un
orologio che fa ‘zee zee zee’, come quello di Superman
regalato a Jimmy Olsen, per chiamarlo in caso di bisogno.
Lo scemo del villaggio si fa chiamare Membro Kid e gira
sempre con una mantellina e tre gambe nude.
E altri ancora hanno messo gli occhi su di me.
Al circolo ARCI del paese, per esempio, ci sono quattro o
cinque tipacci sempre arrapati che si fanno chiamare la
Legione degli Ultra-eroi.
Spacciano dietro la scuola l’eroina e si toccano gli
ultrapacchetti ogni volta che passa una donna come me
vestita con gli sbrilluccichini, e qualcuno dice anche di
avere un superpotere da provare.
Aiutatemi.
Vi prego.
Non vivo più tranquilla e faccio brutti sogni, sogni che
da erotici iniziali degenerano poi in un incubo, ché sono
spesso violentata dall’incredibile Hulk, proprio quando è
verde e arrabbiato, e mi sveglio sempre sudata e con
qualche livido.
E trovo Rosario/Carmen/Robin a ridosso del lettone,
col rossetto dark, che mi guarda geloso con gli occhi
iniettati di sangue sormontati dalle mie ciglia finte e si
sfrega le nocche delle mani arrossate mentre Bat-tista russa
come un bufalo chiamando nel sonno l’Enigmista perché
non riesce a risolvere le parole incrociate.
117
E si agita per difendere Gotham City.
E colpisce all’impazzata.
POW. POW. Come sul tazzone di caffelatte.
Colpisce il mio stomaco e talvolta anche più in basso.
Esiste un antidoto per l’insana passione di mio marito?
Una specie di kriptonite o un’arma segreta che lo faccia
rinsavire?
Vi prego ancora: aiutatemi con buone parole e onesti
consigli.
In fede
Cat-woman disperata, nell’aria, triste: Cat-etere.
118
ARRIVANO I BRIGGHEDOVIGI
Tutto va storto oggi, a Tommaso, e l’attendere il proprio
turno nella sala d’aspetto di un ambulatorio medico per
fastidiosi dolori generici non agevola il ritrovamento del
buonumore.
La stanza è depressogena, con le sue seggioline di
plastica giallo uovo imbullonate tra di loro come in un
cinema all’aperto. Alle pareti spiccano le solite stampe di
fari nella tempesta, di pesci tropicali, di vedute di città
sparite, di manifesti che invitano ad un controllo prostatico
o minacciano anatemi a fumatori e promiscui omosessuali e
non.
Inoltre c’è un pienone di gente che rende l’aria viziata e
appiccicosa.
Parlano tutti insieme accavallando concetti e resoconti,
accalorati ad arricchire un qualcosa che sembra una saga
misteriosa per iniziati.
Tommaso capta qualche parola nel mucchio,
squadrando fisionomie, senza comprendere bene di cosa si
stia discettando.
Percepisce soltanto eccitazione preoccupata di tutti.
La vecchietta di fronte, ossuta, con due culi di bicchiere
per occhiali, biascica sdentata:
“Mia nuora è andata al supermercato a fare la provvista
dell’acqua minerale con il furgone di mio fratello.
Caricheremo tutte le provviste e ce ne andremo al cascinale
in collina. E speriamo bene: mio cognato sta già scavando
delle trincee sul posto…”
“Ah, c’è solo da sperare, signora mia: da sperare su
tutto, ché anche le provviste stanno scarseggiando. I
discount hanno ormai gli scaffali vuoti e c’è già chi sta
speculando alla borsa nera sulla pasta e il riso. Al
supermercato sotto casa mia, stamattina, c’è stata una
rissa per uno scatolone di succhi di frutta all’ACE e c’è
scappato un morto, lapidato con barattoli di tonno sott’olio.
Un mortonnato.”
119
Enuncia queste informazioni una signora imponente,
massiccia e severa come un trumeau, conscia della gravità
della notizia che ha appena dato ai presenti.
Si gira intorno sussiegosa e con lo sguardo sollecita
interazioni.
Un omone pelato dal collo taurino, con gli occhiali alla
Matrix, mascelluto di benitiana memoria, impreca
sommesso e poi spara le sue opinioni:
“Bisogna solo aspettarli. Ma organizzati. E poi sparare
subito ad uccidere. Anche io ho fatto provvista, ma
dall’armaiolo vicino alla stazione: tutta roba legale e
registrata. Ho anche, però, altra robetta extra per
accoglierli, i bastardi…”
Tommaso fatica a focalizzare l’argomento di cui si parla.
E’ allarme confuso traboccante di reazioni spontanee,
ma riguardo a chi o a che cosa?
Un vecchio pensionato cadente come la sua giacca su
spalle troppo scavate mormora:
“Speriamo che il dottore non faccia troppe storie
burocratiche per i controlli sanitari e per la prescrizione
degli antibiotici. Di fronte a certi avvenimenti non è giusto
risparmiare sulla salute, no?”
Incalza la vecchia talpa sdentata sputacchiando:
“Ma no, figuriamoci: scoppierebbe una sommossa. Gli
ospedali sono presi d’assalto per avere chinino e vitamine e
per le analisi del sangue. Gli infermieri sono docili perché
hanno paura di reazioni scomposte. All’ospedale di San
Prospero della Peronospera hanno impiccato a furore di
popolo un medico che faceva storie, con i lacci delle
fleboclisi, e si sono accaniti sulla sua infermiera con un
clistere bollente di catrame. Anche la televisione ha detto
che bisogna cautelarsi e che il problema è serio… Con la
salute non si scherza…”
Tommaso frigge di curiosità.
“Scusate: ma di cosa state parlando?”
Voci in coro dei presenti, incredule.
“Ma come: non lo sa?”
“No. Cosa dovrei sapere?”
120
“Ma non la vede la tele, non legge i giornali, non parla
con nessuno?”
“Veramente faccio vita molto ritirata. Che è successo?”
“O mio Dio, come siamo messi, povero lei! Non sa,
dunque, che stanno arrivando?”
“No, non so nulla: chi sta arrivando?”
Coro liberatorio all’unisono, urlato con raccapriccio.
Manca solamente il tuono scenografico da film ad
esaltare emozioni.
“I brigghedovigi.”
Refrattarietà di Tommaso, stridente, scettica per come
lui si chiama.
“Ah. E chi sono?”
Alla domanda, peraltro legittima, nella sala d’aspetto del
medico si crea un’atmosfera di diffidenza e irritazione per
l’improntitudine senza rispetto di Tommaso.
Inoltre è palpabile il turbamento generale ad un notare
discrepanze nella simultaneità delle risposte.
La vecchina occhialuta infatti prorompe: “Marziani.”
L’omone mascelluto mastica: “Comunisti islamici. Forse
pure omosessuali e malati.”
La signora severa enuncia: “Extracomunitari armati e
infetti.”
Il vecchio pensionato dimesso: “Una mutazione
incontrollata di un batterio letale, Dio ci scampi.”
Lo dice sottovoce con segno della croce accluso e
sguardo rivolto alla parete, disperso tra un faro nel mare del
nord e un avvertimento contro gli ictus.
Aleggiano mormorii di altri presenti e un senso di
straniamento per le variegate definizioni di
questi
“brigghedovigi”.
Tutti si guardano interrogativi, vagamente in cagnesco,
e Tommaso si lascia scappare un risolino di scherno.
“Mi pare che abbiate le idee piuttosto confuse, eh?”
L’omone pelato è nervosissimo e digrigna i denti:
“Ecco un altro disfattista che non crede a nulla e
demolisce tutto con il sarcasmo. Crede in qualche cosa, lei?
A Dio padre, alla famiglia, ad una vita serena senza
minacce? O anche lei è un comunista culattone?”
121
Tommaso si fa guardingo senza retrocedere:
“Vorrei solo sapere con esattezza chi sono questi
brigghecosi…mai sentiti finora…”
“Brigghedovigi, brigghedovigi, signore mio, e lei deve
stare molto attento a questa sua leggerezza, ché potrebbe
bere tra qualche giorno acqua contaminata o mangiare
verdura radioattiva…”
La vecchia semicieca è apocalittica.
Il pensionato salice piangente rincara la dose:
“Si parla già di qualche migliaio di morti, in Cina e a
Singapore, e il laboratorio di malattie infettive di Parigi ha
già messo le mani avanti dicendo che un vaccino non sarà
approntato prima del quattordici aprile del duemilaventotto
alle ore dodici e venti. Per ora andiamo avanti con la
vecchia penicillina sperando che sia sufficente. E avanti con
tante vitamine.”
Tommaso curioso.
“Ma non era chinino? Ah, penso d’aver capito. Ma allora
è una malattia o cosa?”
La signora imponente scuote il capo con decisione e
striduleggia:
“Sono barconi pieni che approdano dappertutto, pure
davanti a Fregene e Fiumicino. La Protezione Civile sta
meditando di mobilitare motosiluranti alla faccia di quelli
della Caritas.”
“Quelli della Caritas, lo si dovrebbe ormai sapere, per il
sangue di Cristo, sono tutti cattocomunisti e dovrebbero
essere affondati insieme ai barconi. Sono tutte barche con
le bandiere rosse e la mezzaluna. Si ingroppano tra di loro
nelle stive, porci schifosi senza Dio, mi scusino, gentili
signore…”
L’omone pelato s’incupisce.
Poi esplode in piedi attingendo dal borsellone nero una
rivoltella enorme che pare un cannone.
“Ecco come devono essere accolti i brigghedovigi.”
Tommaso si raggomitola per istinto di conservazione e
cancella all’istante il suo sorrisetto di sufficienza.
Il vecchio pensionato guarda l’omone come per la prima
volta e poi mormora:
122
“Una forma di virus mai vista, enorme e resistente,
carnivora, dicono: un nuovo batterio negro africano…”
La vecchia con i culi di bicchiere sbotta:
“Infettano tutta l’acqua col cianuro e la loro pipì per
cattiveria e per la loro religione o per loro usi e costumi.”
La donna severa:
“Imbrattano tutti i campi coltivati con i loro escrementi
e mordono le mucche direttamente vive dentro le stalle:
un’atroce agonia per quelle povere bestie…”
Tommaso pensa alle pisciate religiose e alle mucche
azzannate da indefinibili zombies vestiti da stafilococchi e
non ce la fa più. Sbotta e ride aperto di gola piegandosi in
due sulla seggiola gialla mentre gli altri inorridiscono per la
reazione.
La donnona:
“Mio Dio: che questo giovane non sia già stato infettato
tramite qualche puntura d’insetto o sulla metropolitana o in
qualche circolo vizioso Anpi Acli Dadaumpa? Gli ha preso al
cervello direttamente. O che non abbia bevuto acqua da
una fontanella collegata all’acquedotto…”
L’omone armato brandisce il suo cannone:
“Questo qui è una quinta colonna che aprirà un varco
agli altri. Deve essere dell’Arci Gay: guardate che pantaloni
stretti e che capelli lunghi. Vaffanculo ai senzadio: io gli
sparo, io mi difendo…”
Esplode due colpi, poi tutto il caricatore su Tommaso
che rimbalza come una pallina di ping pong sulla parete
schizzando di sangue sedie, parete e mutuati vicini in
attesa che si agitano come meduse per asciugarsi e ripulirsi
subito, nella speranza di non essere stati contagiati dal
sangue impuro.
Tommaso s’accascia in terra senza un lamento,
disarticolato, con occhi vitrei marmorizzati in incredulità,
mentre s’allarga una pozza di sangue sul pavimento della
sala d’aspetto.
Il vecchio pensionato si porta un fazzoletto alla bocca:
“Adesso bisogna stare attenti a respirare, ché il contagio
è per via aerea…”
123
Tutti i presenti, compresi quelli che hanno paura del
contagio da sangue, si tamponano subito la bocca con
fazzoletti o salviettine di carta.
Il mascelluto assassino, efficentissimo, tira fuori dal
borsone una mascherina antinfortunistica e ricarica la
rivoltella senza smettere di guardare Tommaso esanime, per
paura che possa risvegliarsi come un inestinto assetato di
sangue coi canini vampiri.
La vecchia quattrocchi si fa il segno della croce:
“Mi sento un pochino più tranquilla, ora, ché questo
giovane non mi piaceva tanto. Troppo strafottente. E poi chi
non ha paura di nulla vuol dire che la semina, la paura…”
La donna trumeau:
“Chi semina vento raccoglie tempesta. Qualcuno guardi
se ha i documenti e se è italiano: dall’aspetto mi pare un
cipriota o un polacco o uno zairese albino. Frugatelo, ma
solo se avete dei guanti…”
S’affaccia il medico dal suo studio, piccolo e pallido, con
aria rassegnata e un elmetto da minatore giallo come le
sedie della sala d’aspetto, richiamato dagli spari.
Fa capolino dietro di lui una paziente in sottoveste,
mammellocadente e con lo sguardo torbido da gaudeamus
igitur di ultima spiaggia.
Il medico, forte anche di una specializzazione, sentenzia
l’evidenza:
“E’ morto.”
Qualcuno
dei
presenti,
assorbito
da
altre
preoccupazioni ché non un morto sforacchiato in un
ambulatorio medico, accende una radiolina sintonizzata su
un radiogiornale, per aggiornarsi sulle ultime notizie.
Mormorio di tutti.
“Cosa dice dei brigghedovigi? Cosa dice?”
Il medico fiuta l’aria guardingo e getta in aria confezioni
gratuite di antibiotici vari e tubetti di vitamine.
Sgattaiola fuori dello studio con insospettabile
dinamismo, sempre con l’elmetto, mentre una voce appena
tremula si diffonde dalla radio e cattura l’attenzione di tutti
i presenti:
124
“E’ notizia dell’ultima ora. I brigghedovigi sono sbarcati
anche sulla penisola italiana. Il Commissario della
Protezione Civile nutre un certo ottimismo e ha dichiarato
che l’esercito sta setacciando le campagne alla ricerca di
qualche esemplare vivo da interrogare e studiare da vicino.
La Caritas sta approntando campeggi di prima accoglienza e
lancia un appello alla solidarietà di tutto il popolo italiano
per la donazione di coperte e capi di vestiario. Il ministro
della Sanità ha annunciato una commissione di studio per
la predisposizione di un vaccino e ha richiesto al Consiglio
dei Ministri uno stanziamento extra di fondi dal tesoretto
per la profilassi dei brigghedovigi con sulfamidici generici
importati direttamente dalla Svizzera. Il Ministro della
Difesa smentisce il Commissario della Protezione Civile
assicurando una vigilanza assidua di tutto l’esercito alle
frontiere alpine, per i brigghedovigi montani, con il riutilizzo
delle casematte della prima guerra mondiale. Il Ministro dei
Beni culturali ha promosso una sovvenzione per un
progetto di film documentario da utilizzare a scopo didattico
per il prossimo anno scolastico. Il problema, ha rilevato, è
cercare un regista giovane, sano e combattivo, che abbia
voglia di riprendere da vicino l’evoluzione dei brigghedovigi
fino dalle cellule staminali.
Vi terremo informati con il prossimo notiziario.”
Scambi di sguardi apprensivi, nella sala d’aspetto del
medico disertore.
C’è poi un arraffare frenetico di mani adunche a
ghermire tubetti, blister, scatolette di medicinali, garze,
cerotti, profilattici, supposte antinfiammatorie, sciroppi per
la tosse e altro esposto nella vetrinetta dello studio,
indipendentemente dall’uso che se ne potrà fare in seguito.
La paziente mammellocadente si riveste con calma
nascondendo nei mutandoni quattro o cinque scatole di
carnitina e integratori di magnesio e potassio.
Il cadavere di Tommaso, intanto, comincia ad irrigidirsi
nella sala d’aspetto.
Tutti i pazienti lo scavalcano preoccupati di non
inzaccherarsi le scarpe di sangue ed escono urlando isterici,
125
come nella scena della fuga dalla sala cinematografica,
quella del vecchio film “The Blob”.
Per la paura dell’arrivo dei brigghedovigi...
Qualcuno scruta il cielo plumbeo.
Il pelato assassino, ormai vaccinato sul campo, spara a
qualche piccione in volo e poi ad una pantegana che fa
capolino da un tombino.
Centra infine un prete in clergyman, troppo moderno
per essere un vero prete, forse comunista, forse islamico,
forse pedofilo…
126
BRACCHI E DUGONGHI
Il dugongo è caposala: si evince dal golfino blu che
fascia una divisa immacolata.
Legge le analisi senza tradire emozioni.
Il degente interessato, di fronte a lei, si rassetta
nervosamente il pigiama cascante sul corpo scheletrico e si
passa una mano sui pochi capelli residui.
La caposala sorride al mughetto balsamico, equa e
solidale.
“Bene, benissimo, caro: adesso l’accompagnerò nel
laboratorio analisi per qualche altro prelievo. Lei è una
roccia. Nulla di preoccupante.”
Il paziente, vecchio bracco mansueto, annuisce
speranzoso: se avesse la coda, l’agiterebbe festosamente
mendicando con lo sguardo una grattata dietro le orecchie.
Il dugongo assume un’aria marziale stringendo al petto
la cartella clinica e modula l’espressione secondo il
protocollo ‘indiscutibilmente professionale’.
Flauteggia con voce che non ammette repliche:
“Mi segua da vicino. Dobbiamo andare solamente in
fondo al corridoio.”
Il malato uggiola in annuire sommesso.
La caposala spalanca la porta e s’immette nel corridoio
che è invaso da carrozzelle, lettini, infermieri affaccendati,
parenti di pazienti, bimbi queruli, madri lacrimanti, uomini
pensierosi, medici veloci in movimenti galvanici.
Il degente si rattrappisce dietro il golfino blu che fende
la calca, Pollicino di corsia.
La caposala è un bulldozer, ma il corridoio è davvero
intasato d’ogni genere di umanità.
Il dugongo barrisce:
“Permesso, permesso, fate largo.
Attenzione: uomo morto che cammina.
Uomo morto che cammina…”
I presenti si appiattiscono verso le pareti e con sguardi
sgomenti accarezzano il piccolo bracco che si guarda
intorno frastornato.
127
Il dugongo si volge indietro con un’impercettibile
strizzata d’occhio che vorrebbe essere complice.
Così almeno recepisce, spera, il già prima definito
roccia.
Molto confuso.
Con un groppo alla gola e la proiezione, in pochi attimi,
di un’intera vita sullo sfondo del corridoio, sulla porta del
laboratorio analisi.
La voce insiste:
“Permesso, fate largo: uomo morto che cammina…”
128
PRIMO MAGGIO 2003 – POLVERE DI FOGLIE
Cielo splendido al largo di San Diego, California.
L’azzurro intenso, come polarizzato da un potente filtro
fotografico, si fonde con il blu cobalto dell’oceano, un
tappeto di foglie spumeggianti appena increspato da una
brezza insistente e piacevole.
Il ponte della portaerei è gremito fino all’inverosimile.
Il Presidente è raggiante:
“Vi ringrazio tutti sentitamente. Ammiraglio Kelly,
Capitano di Vascello Card, ufficiali e marinai della portaerei
Uss Abraham Lincoln, miei concittadini Americani: la fase
principale dei combattimenti in Iraq è terminata. Nella guerra
in Iraq, gli Stati Uniti e i nostri alleati hanno prevalso. E ora
la nostra coalizione è impegnata nella ricostruzione e nel
garantire la sicurezza del Paese. In questa battaglia,
abbiamo combattuto per la causa della libertà e della pace
nel mondo. La nostra nazione e la coalizione sono orgogliose
di questa impresa, e siete stati voi, le Forze Armate degli
Stati Uniti, ad averla compiuta. Il vostro coraggio, la vostra
determinazione nell'affrontare il pericolo per il vostro Paese e
l'uno per l'altro, hanno reso possibile questo giorno. Grazie a
voi, la nostra nazione è più sicura. Grazie a voi, il tiranno è
stato sconfitto e l'Iraq è libero…”
Garriscono all’aria salmastra striscioni di benvenuto, e i
pantaloni e le casacche dei marinai si animano, concitati,
sui corpi di una gioventù attenta e orgogliosa, ingaggiando
una lotta giocosa con il vento.
E’ tutto un incrociare di sguardi, tra soldati e
comandanti e autorità, in commistioni di gratitudine e
fierezza per consapevolezze e intenti parimenti sconfinati.
“...Uniti difendono questi principi di sicurezza e di libertà
con tutti i mezzi della diplomazia, della polizia, dei servizi
segreti ed economici. Stiamo lavorando con un'ampia
coalizione di nazioni che riconoscono la minaccia e la nostra
comune responsabilità nel far fronte a tale minaccia.
129
L'impiego della forza è stato e rimane la nostra ultima
risorsa. Tutti, amici e nemici allo stesso modo, sanno che la
nostra Nazione ha una missione: reagiremo alle minacce
rivolte contro la nostra sicurezza e difenderemo la pace…”
Bart è defilato, timido.
E’ lì presente con uno strano agitarsi di sentimenti
nell’intimo.
“…Gli uomini che abbiamo perso sono stati visti per
l'ultima volta mentre compivano il loro dovere. La loro ultima
azione su questa Terra è stata quella di combattere un
grande male e di portare la libertà agli altri. Tutti voi, in
questa generazione di militari, avete accettato la più grande
responsabilità della storia. State difendendo il vostro Paese e
proteggendo gli innocenti dal male. Ovunque andiate portate
un messaggio antico ma sempre valido. Usando le parole
dette dal profeta Isaia "Ai prigionieri: ‘Uscite!’, e a quelli che
sono nelle tenebre: ‘Venite alla luce!’…”
E’ un tripudio di applausi e di berretti lanciati in aria.
I militari si abbracciano sull’immenso ponte della nave
lasciando che il protocollo e la disciplina si dissolvano per
un attimo nell’incontenibile gioia per l’adempimento di una
missione importante.
Qualcuno improvvisa una danza, qualcun altro saltella
per riuscire a carpire tra le tante teste lo sguardo commosso
del Presidente laggiù tra i microfoni.
Bart è urtato violentemente da un gigantesco mulatto
imponente come una sequoia e perde l’equilibrio
annaspando sul bordo del ponte.
Un piccolo portoricano, nello sbracciarsi, gli assesta
una gomitata allo sterno.
Bart indietreggia risucchiando aria e poggiando il piede
sul nulla…
Nessuno si accorge di niente, al momento: del resto,
rigogliose foglie verdi avide di vita, nervose e tese, o
masticate come berretti, non portano il lutto per una foglia
ingiallita che diviene estranea alla comunità…
130
Non se ne accorgono neanche, forse, impegnate a
sostenersi vicendevolmente nella compagnia e nell’unica
comune funzione di succhiare linfa e offrire ombra e riparo.
Il cadere da una portaerei è come precipitare da un
palazzo di oltre dieci piani e l’impatto con il mare, da oltre
sessanta metri, è per lo più definitivo e non morbido come
si potrebbe credere.
E’ un’altezza, tuttavia, che permette di elaborare ultime
perplessità e di impadronirsi di estreme verità contingenti,
avvolte nel terrore della fine, sulla bontà di un discorso e su
certezze e reali valori della vita: quel famoso avanzamento
veloce nel ralenty che relativizza il tempo rimasto a
disposizione.
“…Grazie per il servizio prestato al nostro Paese e alla
nostra causa. Dio vi benedica e continui a benedire
l'America.”
13.04.2005
131
FIGLI E FIGLIASTRI DELLA STORIA
Ci piovvero addosso parole sferzanti come acqua gelida.
Il Comandante Li Pa era un idolo di pietra:
“Non dovrà essere tollerata alcuna forma di resistenza e
siete stati istruiti su come dovrete comportarvi.”
Fu una riunione brevissima con ordini secchi e
indiscutibili nella loro cruda chiarezza.
Ci guardammo tra noi, sgomenti dentro e impassibili
fuori, professionali, con l’angoscia di qualche tiro mancino
organizzato dal destino.
Avremmo potuto trovarci di fronte qualche nostro
parente o amico: sapevamo che non avremmo potuto fare
eccezioni.
Dal comando arrivò un segnale paterno, un abbraccio
consolatorio affinché il nostro morale restasse saldo e la
nostra determinazione incrollabile nel rispetto degli ordini:
fu servito tè al gelsomino e birra di riso.
Si bevve senza parlare tra noi, gravati da macigni di
responsabilità, speranze, irragionevolezze, echi di un
monolite a scolpire la mente con ordini.
Poco dopo urla rauche di comando ci frustarono
riportandoci all’azione.
Abbandonammo tazzine e bicchieri, e ci precipitammo
fuori ai nostri mezzi con uno scalpiccio paradossalmente
disordinato di passi calcati nella disciplina.
E si fece il mio destino, il destino di Wot Vo Dao,
carrista della settantottesima Brigata corazzata di stanza a
Pechino, il tre giugno del 1989.
Ci dirigemmo verso la Piazza Tien An Men sferragliando
lungo gli immensi viali semideserti.
Ci fu un confabulare tra il nostro capo colonna e
qualche ragazzo esagitato e piangente.
Vedevo dalla feritoia un gesticolare frenetico con
espressioni tristi, ma non mi era concesso indugiare in
riflessioni.
Un carrista dell’esercito cinese del 1989 poteva
solamente essere devoto a Deng nel ricordo, forgiato da
Deng, di Mao Ze Dong.
132
Ricordo un’aria pesante quel tre giugno: per il caldo
afoso e per il fumo dei nostri carri, che rendevano
l’atmosfera irrespirabile.
I giovani si ritirarono verso la piazza distante dietro di
loro.
La colonna avanzò con prudenza, ma regolarmente.
All’improvviso vidi davanti a me una camicia
sventolante al vento, uno stendardo con due occhi che
erano un manifesto di dignità.
Scorsi lo sguardo: freddo, determinato, parente degli
sguardi dei nostri comandanti alla riunione in caserma,
parente degli sguardi dei miei commilitoni nel mentre che
sorseggiavamo la birra di riso e il tè al gelsomino.
Dovetti frenare per non travolgerlo.
Cambiai rotta spingendo il mezzo a destra, ma anche il
giovane si spostò a destra sempre davanti al carro.
Aveva due sacchi di plastica che lo bilanciavano, come
fossero zavorre, e per un attimo pensai che fossero pieni di
libri, di sapere, utili per conferirgli stabilità ed equilibrio.
Sembrava un vigile, con i due sacchi appesi alle due
braccia aperte.
Deviai a sinistra, per sorprenderlo e avanzare.
Anche lui scartò a sinistra.
Non rideva, non scherniva.
Il suo ciuffo gli copriva parzialmente la fronte, ma gli
occhi con cui fissava me dietro la feritoia erano decisi: non
mi avrebbe fatto passare.
Avevo una visuale limitata.
Il mitragliere Go Chen, sopra la torretta, urlava e
bestemmiava all’indirizzo del ragazzo e m’invitava a
procedere, anche se sul suo corpo, ma non sparò neanche
una raffica.
Io non potei: percepii quel giovane come un mio fratello.
Poi lo perdetti di vista e potei proseguire.
Non mi posi molte domande: dovevo prendere posizione
sulla Piazza Tien An Men.
Non mi chiesi, quindi, se fu travolto, mitragliato,
arrestato, ucciso.
133
Ritornai in caserma con la colonna, dopo qualche
tempo, depresso per le troppe idee confuse che agitavano la
mia mente.
I miei superiori erano furenti: quel rallentamento fu
ripreso dalle televisioni di tutto il mondo.
Dissero per colpa mia.
Go Chen dimostrò che la mitragliatrice era inceppata e
mi fissò come se contemplasse un’anatra crocefissa
cosparsa di miele per la laccatura.
Parlare di processo è un azzardo: si parlò d’esempio.
Fui schiaffeggiato in pubblico, davanti ai miei
commilitoni, e poi fui trascinato, dopo essere stato privato
della camicia con le mostrine, al centro dell’immensa piazza
d’armi della caserma, davanti a tutta la truppa schierata.
Qualcuno mi tese una coppa di vino di riso.
Fui fatto inginocchiare e fui bendato.
Udii, preso alla sprovvista, solamente lo sparo,
inaspettato in irragionevole speranza di clemenza.
Poi fu il buio immediato, dalla nuca ad avvolgermi
nell’eco del rimbombo, a dissolversi nel silenzio più assoluto
mentre mi accasciavo in avanti.
E ora, da allora, sono condannato a cercare quel
giovane e non avrò la pace della mia anima finché non
l’avrò trovato.
Grande è Pechino e grande è la Cina, e non è vero che i
morti sanno tutto: non tutti, almeno…
E non mi dà conforto l’essere un martire come lui,
perché io non ho una fotografia o un filmato o un articolo
sui giornali, come lui, perché solamente io so d’essere un
martire.
Graffia, l’invidia, nell’inevitabilità di quello che mi è
accaduto, e mi rode dentro crudelmente.
Non ho ucciso un innocente, in dispregio agli ordini di
Deng e dei miei generali, e ho per questo pagato con la mia
vita.
Sono stato condannato a morte nell’infamia, e il mio
corpo giace nella terra argillosa dietro la caserma, senza
contrassegni e senza un nome da piangere nel tempo.
134
Ma la mia condanna spirituale, quella peggiore, per
come posso dirlo ora che so, è nello scontare l’invidia verso
quell’ eroe sconosciuto, eppure famoso per sempre nella
storia degli uomini, con il non sapere dove può essere, quel
giovane senza sorriso, dove stia vagando la sua anima
probabilmente liberata con un uguale colpo alla nuca.
E continuerò a cercarlo, dunque, fino a quando non
avrò modo di ritrovarmelo di fronte e leggere nella sua
ombra una verità che ho solo intuito; continuerò,
angosciato e tradito dalla storia, senza calcoli o riferimenti
circa il tempo, per trovare la mia pace.
135
136
RACCONTI LONG SIZE
137
138
MUSICA ROCK
Dalla pagina Cultura e Spettacoli del “New Day Boulletin”
3 novembre 1999
ROCK MALEDETTO VENTI ANNI FA I VALDEMAR’S
BROTHERS
“Quasi tutte le fonti informative nell’ambito della storia
del rock tralasciano la musica e l’immagine dei VALDEMAR’S
BROTHERS, ma è indubbio che le loro sonorità, la loro
particolare preparazione musicale e la loro inconsueta
formazione, unite alle vicende uniche vissute al di fuori della
sala di incisione, hanno scolpito il totem di un gruppo di
culto, maledetto, al di fuori di tutti gli schemi conosciuti nel
panorama della musica contemporanea.
La loro storia comincia nel 1976 a Chelsea, quartiere di
Londra,
in
uno
scantinato
umido
ed
arrangiato
artigianalmente a sala prove e luogo di incontro. Quattro
studenti di ceto abbiente, tre di Arte ed uno di Filosofia, Brett
Wind, John Bradley, Ben Cross e Jonas Green, amici da
tempo per il loro comune interesse per la musica e l’esoterica,
decidono di costituire un gruppo musicale rock, anche se la
loro formazione non si può certo definire ortodossa: chitarra
elettrica, organo Hammond, violoncello e percussioni esotiche
varie come tabla indiani e jembe africani. I loro tentativi di
amalgama dei suoni e delle ispirazioni si alternano al loro
passatempo preferito di discussioni e approfondimenti degli
aspetti più nascosti e magici delle religioni orientali.
Il più carismatico dei quattro, Jonas Green, il ‘filosofo’,
pungola il gruppo alla finalità della creazione di uno stile e di
una
sonorità
accentuatamente
originali:
“Noi
non
apparteniamo ad alcuna scuola o corrente musicale; noi
siamo una corrente musicale ed abbiamo un nostro stile,
musicale e di vita, con i nostri interessi per la magia e le
religioni, e la nostra ideologia decadente, o se volete,
nihilista, nell’osservazione del mondo che ci circonda.”
Questa dichiarazione di intenti diventerà nel 1978 una
presentazione alla stampa in occasione del primo ed unico
139
disco “PRESENCES”, edito da una piccola casa indipendente
londinese, la Skull’s Jewels Records, specializzata nella
scoperta e nel lancio di gruppi definiti ‘maledetti’ per il loro
stile di vita o per la loro musica fuori dai canoni
classicheggianti
dell’
hard-rock,
esente
da
commercializzazioni, zuccherose e altre volte dozzinali, sia
come musica che come testi.
Il disco, otto pezzi tra cui una suite di 21 minuti, senza
appoggi mediatici e senza una ragione precisa, sfonda in tutti
i mercati cogliendo impreparata anche la piccola casa
discografica che si deve appoggiare alla ‘major’ Wong per la
distribuzione ed il soddisfacimento delle innumerevoli
richieste nel mondo. Si conteranno 19 milioni di copie
vendute e per un primo disco sono tante.
Il successo è inspiegabile, ma il disco entra in tutte le più
importanti classifiche, vi permane per moltissime settimane e
diventa l’argomento di discussione di salotti sociologici in
TV, di rubriche radiofoniche e di quasi tutta la stampa,
specializzata e no. La rivista Rolling Stone dedica al gruppo
uno speciale con interviste, fotografie, la pubblicazione dei
testi del disco in un inserto straordinario di cinquanta
pagine, onore mai riservato prima nemmeno ai Beatles. Si
moltiplicano i ‘fans clubs’ nel mondo e si discute nei consigli
di amministrazione delle case discografiche del fenomeno, da
un punto di vista strettamente musicale.
La musica, supportata da testi non banali ed inquietanti
che celebrano descrizioni suggestive di strani riti iniziatici e
di templi antichi e sperduti, effettivamente è originale,
struggente ed irritante, diabolica ed ipnotica; in una parola:
sulfurea. Farà proseliti ed imitatori in tutto il mondo con
discreti risultati commerciali che, però, non si avvicineranno
mai al prototipo dei “VAL”.
Il perché è riconducibile al gruppo stesso, alle personalità
dei quattro, alle loro stravaganze e capricci, al loro modo di
pensare che è stato come quello di una sola persona. La
causa principale del loro successo è dovuta al loro
affiatamento in sala di incisione, con i loro suoni omogenei ed
integrati tra di loro come un unico pazzo e mostruoso
strumento, ed al loro affiatamento nella vita con
140
atteggiamenti e pensieri espressi anch’essi da tutti e quattro
come un solo individuo.
Il fenomeno esplose musicalmente e si sviluppò
socialmente nell’immagine che il gruppo rifletteva verso un
mondo giovanile in fermento, privo di certezze (come sempre
del resto), alla ricerca di valori o sensazioni tali da dare un
senso all’esistenza.
I quattro cominciarono a prendere gusto al successo e lo
alimentarono con interviste scandalose sui loro interessi
esoterici, sulle loro sperimentazioni nella penombra del loro
scantinato con invocazioni a questa o a quella spiritualità.
Diedero il congedo all’inibizione e si presentarono, forti del
loro carisma, come effettivamente avevano desiderato anni
prima, discutendo su demoni iraniani o su sanguinarie sette
indiane: diedero di loro, con esibizionismo e senza vergogna,
l’immagine di un gruppo sdradicato dalla realtà e perduto
verso suggestioni decadenti, di un gruppo privo di quella
morale benpensante che avrebbe potuto rassicurare tanti
genitori, di un gruppo appunto ‘maledetto’, e rafforzarono
questa immagine con estemporaneità di gusto dubbio, ma di
facile presa su ragazzi superficiali in cerca di icone da
prendere a modello.
Brett Wind girava per le vie di Londra con un grosso gatto
nero su una spalla e indossava solo ed immancabilmente
abiti viola, comprese stole di preti cattolici. Ben Cross si
faceva notare spesso seduto a gambe penzoloni sui cornicioni
di qualche alto palazzo del centro con un paio di occhiali da
sole a forma di pipistrello, schermati all’esterno con carta
stagnola, che lo rendevano di fatto cieco, con un crocefisso
legato ad una caviglia, a testa in giù. John Bradley era
l’esibizionista più efferato e non perdeva occasione, in
pubblico, di mostrare le sue parti basse decorate con amuleti
africani ed ex-voto d’argento finemente cesellati o con
‘piercing’ di spille indiane: raccapricciante! Jonas Green
sembrava il più sobrio, ma il suo atteggiamento
silenziosamente tenebroso mascherava una condizione di
trance ipnotico quasi permanente dovuta a qualche strano
fungo peyote messicano.
141
Erano quindi quattro personalità alquanto disturbate,
almeno secondo i canoni di valutazione ‘normale’, ed anche
le loro ossessioni, le loro manie ed il loro comportamento si
integravano perfettamente tra di loro. Si presentavano quasi
sempre in quattro e si diceva che vivessero tutti e quattro
insieme in un nuovo scantinato completamente rimesso a
nuovo ed arredato come una sala per sedute spiritiche, con
mobili turchi, asiatici ed una invidiabile biblioteca dell’occulto
con manoscritti e libri antichi per provati iniziati al mondo
della magia.
La loro popolarità nel 1979 ha dell’incredibile se si
considera che avevano prodotto un solo disco e non avevano
presenziato mai ad un concerto o ad una apparizione come
musicisti in TV!
Il 2 novembre 1979 avvenne l’episodio che li distrusse e li
consacrò definitivamente nella storia del rock. I VALDEMAR’S
BROTHERS si suicidarono tutti e quattro insieme lasciandosi
andare dai merli del castello di Windsor, dove erano ospiti
del Principe ereditario, e si sfracellarono ai piedi dell’alto
muro di cinta morendo tutti sul colpo.
L’autopsia rivelò che erano tutti sotto effetto di un
particolare tipo di mescalina ed erano morti recando in bocca
una giada indiana ed un pezzettino di legno proveniente
dall’Egitto. Sui freddi tavoli dell’obitorio venne fuori un’altra
scoperta: avevano le schiene tatuate con simbologie atzeche
e sui loro petti erano altresì tatuate delle strane scritte in
ebraico e altre lingue a prima vista sconosciute. Si riuscì a
sapere, mesi dopo, che quelle scritte erano invocazioni
demoniache, ma non credo sia il caso di approfondire
l’argomento.
Si può, però, con certezza affermare che il macabro
evento generò una impressione ed un senso di sgomento tali
che per molti altri mesi si parlò del gruppo maledetto.
Poi, come tutte le vicende umane, il fenomeno si attenuò,
si ridusse ad un pettegolezzo, una critica musicale, una
recensione sul testo di un brano di quell’unico disco, un
trafiletto di cronaca nera su un pazzo che si era gettato dal
balcone di casa sua con in mano una foto di quel gruppo.
142
Oggi si ascolta raramente quel disco e gli estimatori del
VALDEMAR’S BROTHERS sono una ristretta cerchia di
persone a caccia di suggestioni diverse dalle solite, malvista
dai nuovi fruitori di musica, levigata, elettronica ed anonima
nelle sue sonorità, ritmata quel tanto che basta per muoversi,
stordirsi, non pensare. I testi dei brani musicali di oggi
parlano di minimalità quotidiane che nulla hanno a che
spartire con le descrizioni di antichi templi affogati nella
jungla in Cambogia o con la cronaca rapita e sanguigna di
un sacrificio umano presso una comunità Maya in un
plenilunio sulle Ande.
Quell’unico disco ormai è sbiadita storia della musica
rock e la fugace attenzione data da qualche testo
sull’argomento è solo il ricordo ed il rispetto musicale di
qualcuno che ha vissuto quegli anni con tante emozioni, ma
senza i coinvolgimenti estremi che distrussero i VALDEMAR’S
BROTHERS”.
BOB LAKE
Willie era strano. Aveva sedici anni, l’età del vero clown
sbruffone e ridanciano, l’età dei primi amori e delle prime
sfide ingenue alla società all’insegna della ribellione, l’età
della logorroica gioia di comunicare al mondo la propria
esistenza.
Era strano, o per lo meno, appariva strano perché tutte
queste caratteristiche tipiche dei sedici anni non c’erano,
forse ancora non c’erano, ma tutto lasciava istintivamente
pensare, soprattutto ai suoi compagni di scuola, che non ci
sarebbero mai state. I suoi compagni, come tutti i
sedicenni, non davano valore alla loro età con discorsi di
clown, sfide, gioia di comunicare, ma con una parola più
semplice: un neologismo. ‘Ficaggine’.
Willie non era proprio quello che si dice un ‘fico’, un
‘grande’, o quello che si vuole per descrivere un ragazzo
socievole, comunicativo, simpatico, frizzante, amico per i
compagni e terra di conquista per le compagne. Era sempre
serio, accigliato, ed il suo sguardo profondo di occhi neri e
inquieti non era mai fermo per troppo tempo su questo o
143
quella: trapassava ed andava oltre, quasi non ci fosse
niente di interessante da soffermarsi a vedere.
Tutto sembrava non interessare a Willie, soprattutto
tutto ciò che interessava al branco: il pomicio, il cinema, la
spinellata a casa di questo o quell’amico in assenza dei
genitori, un videogioco o un collegamento ad Internet, il
tempo per la caccia alle rane o il campionato degli Spurs o
dei Red Sox davanti alla TV con una birretta e patatine
calde e croccanti.
Era un ragazzo alto, dinoccolato, riflessivo quasi nei
suoi comportamenti, anche quelli più istintivi; bello a suo
modo, se si può definire bella una faccia piena di brufoli,
con l’accenno di una lieve peluria, incorniciata da una
chioma esagerata fino alle spalle, anni ’70, con
scriminatura in mezzo alla fronte e un vezzoso piccolo
anello d’argento a forma di teschio dietro l’orecchio destro
che prendeva una ciocca dei capelli e la identificava nella
sua diversità, perché tinta di verde cupo.
L’abbigliamento abituale, jeans e maglietta o felpa, a
seconda della stagione, scarponcini Nike e un giubbottino di
panno leggero con impressa la figura della mummia degli
Iron Maiden col dito medio in un inequivocabile messaggio,
lo rendevano inconfondibile anche a distanza e a scuola lo
avevano soprannominato ‘Bruce’, come Bruce Dickinson, il
cantante degli Iron Maiden.
Il soprannome era stato dato per una immediata
identificazione, non per simpatia o cameratismo e scorreva
su Willie come una cosa senza importanza: l’avrebbero
potuto chiamare anche Gengis Khan o Lazzaro, per quel che
gli importava. Il suo sguardo inquieto ed indifferente allo
stesso tempo si animava di accesi bagliori solamente
quando si parlava di musica. Willie era l’esperto di musica,
quella strana, vecchia, dagli anni ’60 agli anni ’80 esclusi,
che lo rendeva ai suoi compagni appena interessante per
qualche superficiale quesito o richiesta di parere, per altro
non vincolante.
Non aveva quindi, con la sua strafottente indolenza,
grandissime qualità nell’apprendimento scolastico – “può
dare di più, signora” – né particolari interessi sportivi e
144
sociali, un mediocre fra mediocri, anzi il mediocre dei
mediocri, ma se si parlava di musica…..di certa musica….
S’illuminava non per la disco o per pop commerciale,
non per afro ritmata o jazz, ma solo per un tipo particolare
di musica, forte, violenta nelle sonorità e nei testi, ‘metal’,
come si definisce, ed aveva qualche lampo di interesse per
tutto ciò che evocasse alla sua mente mondi estranei ed
antichi ormai scomparsi come qualche cosa di psichedelico
o new age o la musica celtica, ma tutto alquanto tenebroso
ed assolutamente non solare, come tanto ne è stato
prodotto.
Era fiero della sua collezione musicale stipata in
un'unica grande parete della sua stanza, tutti i cd allineati
per il dorso in verticale, in ordine alfabetico, su scaffali da
lui spolverati regolarmente che incorniciavano un superbo
impianto stereo ‘esoterico’, un misto dei più bei singoli pezzi
di varie marche, che veniva esaltato da un’amplificazione
sapientemente distribuita ai quattro lati della stanza, in
modo strategico per un ascolto emozionante, ‘da sballo’, con
i tweeter piccoli in vista su mensoline ed un magnifico
subwoofer a scomparsa sotto la poltroncina di ascolto posta
di fronte alla parete opposta ai cd, tappezzata di stampe di
Frazetta, fantastiche ed inquietanti, belle nel loro genere,
alternate ad un poster di Hendrix e a manifesti delle
copertine dei dischi degli Iron Maiden, dei Megadeth, dei
Sepultura e dei Metallica.
Che bella la sua stanza buia, schermata da una pesante
tenda cremisi che nascondeva tutta la parete della finestra!
Willie vi respirava la sua atmosfera sdraiato sul suo letto o
stravaccato sulla sua poltrona ascoltando questo o quello
dei suoi gruppi preferiti alla fioca luce porpora del suo abatjour velato con una vecchia sottoveste color prugna trovata
chissà dove, fissando un puntino bianco di neon della
lampada di emergenza, disattivata, posta sopra i manifesti,
tra parete e soffitto, ed il puntino lattiginoso sembrava
l’occhio del capo branco di tutti quei personaggi appesi al
muro che lo guardavano truci o beffardi.
Una mattina di novembre plumbea per un imminente
temporale, fredda, ma non ancora troppo, mentre si avviava
145
a scuola con uno striminzito zainetto sdrucito e pieno di
scritte e simboli, con il suo giubbottino sopra una felpa
nera con la scritta “SEE THE PRESENCES”, incontrò Ron,
il suo compagno di banco.
“Ciao Ron”
“Ciao Willie”.
Esitazione, poi:
”Stamattina la Sig.na Steinfield interroga ed io non so
proprio un cazzo; non l’ascolto da un mese buono e poi
siamo rimasti noi due o forse anche Lisa e Jerry; ho paura
che scorrerà il sangue. Tu che fai, entri?”
Willie lo guardò di traverso, poi rispose:
”Non lo so, non me ne frega niente… e tu?”
Ron sgranò gli occhi terrorizzato:
“Io non posso non entrare: se mio padre lo viene a
sapere mi brucia il culo con la fiamma ossidrica e tu lo sai
che lo farebbe, vero?”
Il padre di Ron, idraulico, era una montagna di muscoli
governata da Bud in lattina fredda gelata che gli dava ordini
su come vivere, ed a scuola tutti conoscevano i metodi
correzionali che la birra suggeriva a quell’armadio.
“Allora in bocca al lupo. Ma io non ho problemi se non
entro: mio padre e mia madre sono in Florida al sole e
contenti per un’eredità. E’ morto mio zio e tre giorni fa è
arrivato un telegramma da uno studio notarile. Io penso che
me ne andrò a vedere Hoacks, se gli fosse capitata qualche
cosa di strano, poi me ne tornerò a casa. Ti telefonerò oggi
pomeriggio per sapere come è andata; salutami anche Lisa
e Jerry.”
Ron invidiò il suo compagno mentre si allontanava dalla
parte opposta e lo gratificò con un commento gridato da
lontano
“Che culo che hai, stronzo!”
Willie ridacchiò dentro di sé per il messaggio in
lontananza e proseguì in direzione opposta a quella della
scuola.
Dopo tre o quattrocento metri la sig.na Steinfield ed i
suoi compagni di scuola erano già fantasmi persi in una
lontana brughiera e Willie pensò ad altro guardando senza
146
particolare interesse le nuvole nere che si accalcavano sulla
cittadina, la via che percorreva, con le sue case di legno di
uno o due piani dipinte in modo sgargiante e le vetrine e le
persone affaccendate in andirivieni, le macchine in sosta ed
in circolazione.
Disprezzo e gioia nel sentirsi diverso ed incompreso:
“Schiavi che siete” pensò rivolto ai compagni di scuola e
forse anche ai tanti passanti, indaffarati come formiche.
Si portò al fondo della via e scantonò in un vicolo più
piccolo, tranquillo, ma anche più sporco e mal tenuto.
“HOACKS HA TUTTO”. In fondo una piccola insegna lo
chiamava.
Il titolare era uno scorbutico vecchio sdentato e sudicio
che alitava zaffate di birra e gin. Aveva avuto un passato
turbolento di sensibile studente umanista, infaticabile
romantico mozzo ed ora aveva definito i suoi rapporti con la
vita e la società come bottegaio. Willie era un cliente
assiduo di Hoacks e spesso lo andava a trovare in quel
negozietto dove il vecchio commerciava roba usata di tutti i
generi, di tutte le provenienze e di tutti i prezzi che, però,
erano sempre concorrenziali con quelli della via principale
della cittadina. Il ragazzo si trasformava in un cane
antidroga ogni volta che entrava nel locale ed andava alla
ricerca solamente di ciò che poteva interessargli: dischi, cd,
musicassette ed occasionalmente stampe, manifesti,
locandine.
La bottega di Hoacks era uno stanzone di circa settanta
metri quadrati abbastanza squadrato da poter contenere tre
file di scaffalature piene zeppe di tante cose funzionanti e
guaste, piccole e grandi, fragili e indistruttibili, ma
comunque piene di polvere di giornate e giornate inerti e
sempre uguali. Alle pareti laterali all’ingresso quattro mobili
con vetrine, bassi e lunghi, due per lato, scortavano le tre
file degli scaffali fino in fondo dove troneggiava un bancone
di quattro o cinque metri. I mobili bassi erano tutto un
luccichio, nelle vetrine, perché contenevano piccoli oggettini
di bigiotteria, giocattoli di latta, specchietti e perline, ma i
loro pianali superiori, scoperti, erano pieni di scartoffie,
147
libri, fumetti vecchi, alcuni ben tenuti, calendari ed altre
testimonianze cartacee del tempo andato.
Dietro il bancone, sormontato da un vecchio e
malandato registratore di cassa, c’era Hoacks, sempre
seduto ed appoggiato al muro su due delle quattro gambe di
una decrepita sedia Tonet capitata lì chissà come, mezza
spagliata, con una bottiglia di gin che sporgeva da un
cassetto ed una lattina di birra aperta in un altro. Un
vecchio portacenere da grandi magazzini, alto un metro e
pieno di cartaccia e lattine vuote, ammaccato in più punti e
pieno di cicche in cima, fungeva da ultimo arredo per la
postazione del vecchio. Dalla parte opposta, la porta a vetri,
piccola, con un campanello che suonava appena si apriva, e
la vetrina, assolutamente vuota con un cartello uguale
all’insegna dipinto in rosso su fondo bianco.
Tutto era avvolto nella luce spettrale del neon centrale,
annegato in una nube grigio-azzurrognola di fumo
stagnante di sigarette Senior Service senza filtro che Hoacks
consumava, tra una sorsata di gin e una di birra, in ragione
di trenta o quaranta nella giornata di lavoro. La pulizia non
era di quel posto, se non di rado, ma la polizia lo
frequentava spesso nella figura dello sceriffo di Contea
Jennings per controlli sulla provenienza di qualcosa che,
magari somigliante, compariva nelle descrizioni di furti
nella zona. Tutto comunque andava pigramente per il suo
verso, con lo sceriffo benevolmente diffidente e guardingo, il
vecchio sempre scorbutico, sempre più asmatico, ma in
fondo un buon diavolaccio, e la clientela: curiosi, studenti
in cerca di dischi o cd, massaie non tanto agiate in cerca di
piatti o stoviglie, ‘bricoleurs’ con pochi soldi in cerca di
utensileria varia, hobbisti e collezionisti in genere. Willie
apparteneva alla seconda ed anche all’ultima categoria ed
Hoacks lo conosceva bene.
Il campanello della porta suonò.
“Ciao Hoacks, come te la passi?”
Il vecchio deformò la bocca sdentata in quello che
poteva essere anche un sorriso e triturò due o tre parole
che Willie non capì. Il ragazzo girellò tra gli scaffali ed i
banchi esaminando tutto quello che vedeva senza
148
apparente attenzione sotto lo sguardo sornione del vecchio:
Hoaks si stava divertendo e pregustava un maggior
divertimento nel vedere la faccia del suo giovane cliente
appena avesse tirato fuori da un cassetto del bancone un
articolo per lui sicuramente interessante. Willie si accorse
dell’espressione del vecchio:
“Hai qualcosa per me Hoacks? Qualcosa che vale la
pena di ascoltare?”
Il vecchio, con gli occhi luccicanti di birra, gin e
malcelata soddisfazione, rispose:
“Conosci bene un gruppo degli anni ’70, i Vandemar’s
Brothers? Li conosci bene bene?”
“C’è poco da conoscere Hoacks: purtroppo hanno fatto
solo un disco, il più bel disco che ho, e amen.”
“Questo lo so, il disco te l’ho venduto io. Io ti ho chiesto
se li conosci bene come persone, oltre che come musicisti.”
“Poco, Hoacks. Non si parla mai di loro e non li conosce
più nessuno, o fanno finta perché non ne vogliono parlare.”
“Bene, allora ti dirò qualcosa prima di farti vedere
qualcosa.”
Si alzò dalla sedia, si diresse alla porta, la chiuse a
chiave e mise il classico cartellino ‘TORNO SUBITO’.
Tirò la tendina e si volse verso Willie:
“Sai quanti anni ho Willie? Me ne danno settanta, ma
ne ho cinquanta scarsi, mal portati certo, ma vedi, io bevo,
fumo e… altro. Hai letto l’articolo di ieri sul New Day
Boulletin sui Val? Un articolo pietoso e superficiale: una
merdata, sissignore, una cartocciata di merda lanciata sulle
tombe di quei ragazzi. Tu non lo sai, ma io li ho conosciuti
ed ero un loro amico di bisboccia. E’ stato più di venti anni
fa, quando ero mozzo in Inghilterra e loro non erano
nessuno, quattro studentelli con pochi soldi e tanta sfiducia
e odio nel prossimo e nel mondo intero. A prima vista erano
degli stronzi, sai? Grandi stronzi pieni di sé. Consideravano
gli altri come mongoloidi ed avevano giudizi per tutti, dai
comuni mortali ai professori ai politici ai religiosi: non se ne
salvava uno e la loro stima incondizionata si spostò sempre
più marcatamente verso un'altra dimensione, un altro
mondo popolato di creature soprannaturali, intelligenti,
149
diaboliche, ma evidentemente superiori in qualsiasi
confronto con i miseri omuncoli di qui. Il loro interesse per
l’occulto si allargò a dismisura verso tutto quello che
rappresentava per loro la grandiosità, la maestosità,
l’originalità opposte alla banalità, al quotidiano, al trito e
ritrito della vita impastoiato dai principi morali, dagli
obblighi, dalla solidarietà. Jonas mi descrisse alcuni
esperimenti di evocazioni che avevano fatto su un certo
Libro dei Morti di non so che popolo, non egiziani, e mi
provocava ad aggiungermi al gruppo: eravamo molto affini
nell’ambito del bere e del fottere: dello sperimentare, come
diceva Brett. Ma al di là di queste piacevoli cose, non avevo
altri punti di contatto con quei ragazzi e i loro discorsi mi
rompevano i coglioni a lungo andare: loro credevano in una
redenzione dalle miserie umane attraverso il sangue, la
pulizia intesa come soppressione di inutilità, la grandezza
maestosa del male contro quello che anche oggi si chiama
bene ed è un’accozzaglia di meschinerie, insincerità,
ipocrisia e quant’altro. Dicevano così, e si immedesimarono
sempre più in un loro ruolo di aspiranti giustizieri e
vendicatori per conto di forze che pensavano di conoscere
molto bene. Divennero sempre più intrattabili e anche come
compagni di bisboccia diventarono insopportabili: erano
casini grossi se qualcuno li contraddiceva, sia che si
discutesse di musica che di altro. La loro megalomania
insieme alla loro sensibilità assolutamente superiore a
quella di chiunque li portò a creare quel capolavoro che
conosci: testi nuovi, originali, tremendi perché veri, e
nessuno li vuole conoscere: parole scolpite nella roccia della
loro disperazione! E la loro musica: quei dialoghi strazianti
tra quel violoncello e quella chitarra tirata allo spasimo,
l’Hammond con il leslie che cementava quegli urli di dolore
evidenziati da quei campanelli beffardi, da quel tamburino,
da quelle sbarre di tek percosse con violenza e rispetto per
la natura, crudele, diabolica, ma alta anni luce ed
inattaccabile da qualsiasi ometto, fosse anche Prometeo,
sempre ometto. Il suono, la sperimentazione, l’innovazione,
tutto conosci dei Val, ma non puoi cogliere in pieno quegli
stridii e quelle successioni indiavolate di accordi e note
150
perché non li hai conosciuti personalmente. Io lo so, anche
se uno o due mesi dopo l’uscita del disco li mandai a cagare
tutti e quattro perché non li reggevo più: non volevano più
essere interrotti in qualsiasi cosa facessero, suonassero o
dicessero, e divennero maniaci di questa regola che da tutti
doveva essere rispettata. Provarono altre sonorità ed altri
accordi e testi per un secondo disco che volevano uscisse a
Pasqua del 1979, come prova della loro resurrezione dallo
stato di larve a quello di uomini. Assistei ad una sola prova
in quello scantinato di cui parla quel cazzone di Bob Lake e
rimasi sconvolto, non tanto dalle musiche e dai testi,
sempre all’altezza del loro primo disco, se non superiori,
quanto da strani rituali in lingue sconosciute. Erano chini
su dei libroni di carta pergamena, vestiti con mantelli neri e
viola, incappucciati come il Klux, e salmodiavano delle
cantilene lugubri da accapponare la pelle. Me ne andai
disgustato pensando che si erano bevuti il cervello; non
capivo che dal loro punto di vista, sbagliato o giusto non lo
so e non mi interessa, stavano raggiungendo un traguardo,
una meta più alta di quella ottenuta con il loro primo disco.
Me ne andai e non li vidi più. Seppi da un tecnico dello
studio di incisione della Skull che il loro disco era stato
bocciato da un pirillo in giacca giallo canarino e cravatta a
papillon celeste e immaginai che non l’avessero presa molto
bene. Infatti le cronache di quei giorni, se mi ricordo bene,
furono costellate da episodi di violenza becera e gratuita dei
Val in locali di prima, seconda e infima categoria con
baldracche di ogni età. Peyote e pasticche a valanga e
torrenti di whisky, gin e birra. La loro autodistruzione era
pari al loro disprezzo per tutto il genere umano. Una
mattina verso le sei, nel porto di Manchester, davanti ad
una bancarella notturna di hot-dog e panini vari che stava
per chiudere, ti vedo Jonas, ondeggiante come la bandiera
dei pirati sotto una leggera brezza, vestito tutto di nero,
incerto su cosa chiedere. Il venditore era impaziente e lo
guardava con degnazione e scoglionamento. Poi cominciò a
chiudere gli sportelli della bancarella, indifferente al fatto
che aveva un cliente davanti che doveva decidere cosa
mangiare. Jonas non reagì, non disse nulla, si voltò e mi
151
vide. Mi venne incontro senza calore e mi salutò come se ci
fossimo visti il giorno prima. Col tono di uno che riprende
una conversazione interrotta da una sorsata di birra mi
disse:
“Tu non condividi, ma almeno capisci vero?”
Non risposi, lo guardai soltanto e lo vidi stanco e deluso
di tutto.
“Noi non siamo stati capiti, ma non ce ne frega niente
perché la nostra resurrezione è prossima.”
Infilò una mano dentro il mantello nero e tirò fuori una
cosa scura:
“Tieni questo cd per ricordarci. E’ il nostro secondo
lavoro. E’ stato bocciato e non avrà un futuro. Questo è il
master e non esistono copie.”
Mi porse un cd dalla copertina nera con sopra scritto di
traverso in bianco WARNING e basta, senza titoli, senza
nomi.
“La scritta non è il titolo, è un reale avvertimento. Tu ci
conosci e sai che non ci piace mai essere interrotti.
Ascoltalo come ci piacerebbe che lo ascoltassi.”
Girò i tacchi e se ne andò nella nebbia. Il gorno dopo
lessi che i Val partivano per Windsor ospiti del principe. Il
resto lo hai letto sul giornale.”
Willie stette per tutto il tempo del racconto con il respiro
fievole, quasi a non turbare l’atmosfera affascinante e
maledetta che si era creata con l’evocazione della storia dei
suoi miti. Seguiva le parole smangiate dal vecchio e al di là
della sua spalla vedeva il film della storia raccontata e le
sue pupille si ingrandivano nello sforzo della percezione di
tutti i particolari. Non interruppe mai Hoacks, rapito, e lo
seguì con lo sguardo alla fine del discorso fin quando prese
qualcosa dal cassetto del bancone. Allora il suo sguardo
divenne elettrico come un temporale estivo, pieno di lampi e
luci improvvise tra le nubi. Vide il cd nero con la scritta
bianca di traverso.
“E’ per me, Hoacks, dillo, è per me?”
Il vecchio si commosse:
“Sì Willie, ho pensato tanto a chi darlo; non vendo solo
per commercio: io sono anche un romantico e voglio che
152
certe cose che ho vadano a chi sicuramente le apprezzi. Sì
Willie, è per te e te lo regalo: accettalo come un omaggio al
milionesimo cliente. So che lo terrai come una reliquia e
questo mi basta. Io non ho più la forza e la volontà di
capire, di cercare di comprendere i giri tortuosi di questi
qui: mi sto rincoglionendo e mi rilasso quando posso con
della merda condita con ARP Odissey, Yamaha, Obherheim
ed altre menate elettroniche. Tum, tum, tum, tum.”
E mimò un’ipotetica batteria house, monotona come un
rosario. Willie sorrise e si volse verso la porta:
“Ti porterò una stecca di Senior, Hoacks, grazie.”
“Ricordati, ragazzo, l’avvertimento: non interrompere
mai quel cd se sta suonando e lascialo andare fino alla fine”
Lo sceriffo Jennings guardò con indifferenza il suo
aiutante da dietro un mucchio di scartoffie poste
disordinatamente sulla sua scrivania:
“Barney, va a spostare le auto sotto la tettoia: Laurie dal
Meteo mi ha telefonato che è in arrivo una grandinata di
quelle buone. Non salveremo i campi di quel rompiballe di
Scat e nemmeno la bancarella di Sue al mercato, ma
almeno risparmieremo le spese del carrozziere.”
Willie era in fregola e tagliava a lunghe falcate la grande
via frequentata per tornare subito a casa. Aveva gli occhi di
un febbricitante, lucidi ed eccitati per quell’inaspettata
sorpresa di Hoacks. Aveva tantissime aspettative e speranze
– solo chi è collezionista può capire lo stato d’animo di un
individuo che è venuto in possesso di qualche cosa di raro,
anche se solo per pochi, o per lui solo – e nella sua mente
danzavano selvaggiamente pensieri di trionfo, orgoglio e
soddisfazione.
Tagliò sull’erba del prato antistante
la casa per
abbreviare il percorso, non salutò la vicina intenta a
spazzare le abbondanti foglie gialle perché le passò davanti
come una meteora senza vederla, ed entrò in casa come un
guardone con la nuova pornocassetta stretta al petto,
mentre qualche rado gocciolone di pioggia cominciava a
picchiettare in terra.
153
Si impose la calma ed il controllo dell’eccitazione per
poter meglio assaporare il momento: adesso ti sfili il
giubbotto, prendi una bella lattina dal frigo – ma sono le
dieci e mezza del mattino: e chissenefrega! – vai in bagno,
pisci, ti lavi le mani, scaldi lo stereo, accendi un bastoncino
alla vaniglia, inserisci questa meraviglia, Gesù, questo
tesoro, questa chicca, ti siedi sulla tua poltrona e fissi il tuo
puntino; e ti lasci andare verso Orione o Machu Picciu o la
Terra del Fuoco e vada in culo il mondo! Sembrava un
monaco tibetano per la calma e la meticolosità dei suoi
gesti, ma dentro friggeva ed immaginava un attacco
suggestivo sulla falsa riga della suite del primo disco:
quanti pezzi saranno? Ci sarà una suite, una novità
espressiva: che so, una risata agghiacciante, un rumore di
fondo strano e ricercato? Mi deluderanno? No, mai!
Fuori ormai pioveva a dirotto e qualche tuono
interrompeva il rumore deciso dello scrosciare della pioggia.
Inserì il cd, regolò il volume ad un livello di accettabile
piacevole stordimento, ed attese, seduto ad occhi chiusi, poi
aperti a fissare intensamente il mostro del poster dei
Metallica, quello di “Jump in the fire”, poi Jimi, poi il
barbaro di Frazetta.
Ed il suono fu.
Suono, non melodia, puro suono di leslie fischiante
accompagnato da campanellini impertinenti mentre la voce
grave del violoncello discuteva animatamente con
un’isterica chitarra dalla muta scalata, più fluente nella
stiratura di note magiche. Willie era perso dietro a quei
discorsi a quattro voci: ognuno di loro aveva da dire la sua
opinione, autorevole ed intelligente, nel descrivere le
immense poderose colonne di un tempio birmano nel folto
di una inestricabile foresta piena di pericoli striscianti e
velenosi. La cantilena di antichi monaci, o maghi,
accompagnava un carro, un affusto circondato da fascine e
fiori violacei tirato da due coppie di yak coperti di ghirlande
e dipinti con strani simboli. Il misticismo delle scene
incalzava e diveniva parossistico: ora Willie vedeva l’affusto
dall’alto, con sopra adagiata una donna bellissima ed
inanimata, ma la scena era già variata e la processione era
154
diretta verso una piramide atzeca scolpita di tante figure
stilizzate e minacciose e bagliori di lame ed ossidiana si
riflettevano sulla radura in un silenzio sepolcrale rotto
solamente dai passi del corteo.
Altre immagini, altri suoni, altre parole urlate,
sussurrate, recitate.
Poi il buio. Ed il silenzio.
Fu buio solo per due o tre secondi, poi si accese la
piccola barra del neon di emergenza e la stanza fu
illuminata
di
una
luce
fievole
bianco-verdastra
accompagnata dal sottile ronzio regolare della lampada
accesa. Fuori ora tuonava violentemente e la pioggia era
mista a grandine e picchiettava con fragore su tetti, auto e
marciapiedi.
Willie imprecò sottovoce, rimase per alcuni secondi
disorientato, come riportato alla realtà da una seduta
spiritica o di ipnosi. Si voltò verso l’impianto stereo e vide i
led spenti. Non c’era logica in questo: era spento anche
l’abat-jour sul comodino! Quindi era vago, impercettibile,
diffuso senso di panico per qualcosa che stava per
accadere:
“Ricordati, ragazzo, l’avvertimento: non interrompere
mai quel cd se sta suonando e lascialo andare fino alla
fine”.
“Grazie tante, Hoacks, ma che cazzo ne so se
sopraggiunge un black-out? Fanculo al tempo!”
Volle allentare l’inquietudine e prese la lattina di birra
per una sorsata; alzò la testa e gli parve di scorgere
qualcosa di inconsueto. Jimi Hendrix, dal suo manifesto del
disco “Axis: bold as love”, quello sgargiante che lo
raffigurava con gli Experience al centro di un’iconografia
indiana con divinità e cobra, lo squadrava sogghignando e i
due Experience alternavano il loro sguardo ora su di lui ed
ora sui serpenti schierati dietro di loro in parata, quasi
volessero trattenerli. A Willie si gelò il sangue e
freneticamente cercò dentro di sé giustificazioni e scuse per
la violazione di una prescrizione, di un ordine, che gli era
stato dato:
“Non è colpa mia, non è colpa mia, non dipende da me!”
155
Fissò ancora la parete e vide, ed inoltre sentì. Vide il
barbaro guerriero di Frazetta che sembrava venire verso di
lui al di fuori del manifesto e percepì il mulinare nell’aria
della sua ascia insanguinata e sentì lo scricchiolio delle
ossa frantumate dei suoi nemici sotto i suoi passi. I suoi
occhi erano fiammeggianti e l’espressione dello sguardo
sembrava determinata a schivare la pietà e la
comprensione. Venne poi distratto dai vari manifesti delle
copertine degli Iron Maiden: tutte quelle mummie
ridacchiavano chiocce, beffardamente, e lo indicavano con
quelle oscene dita bendate. Ascoltava quel misto di squittio
e singhiozzi goduti paralizzato sulla sua poltrona. Poi vide
distintamente il Golem del manifesto dei Metallica che si
piegava attraverso il manifesto verso di lui e lo indicava con
la sua mano gigantesca ed artigliata mentre una voce
possente e baritonale gli imponeva:
“Stai fermo, non muoverti.”
In quell’istante dal nulla fuoriuscirono dei cavi metallici
che immobilizzarono Willie sulla poltrona: corde di chitarra
e di violoncello che segavano la giovane e tenera pelle del
ragazzo a sangue. Willie stava per gridare. Una manciata di
tasti d’organo, bianchi e neri, perfettamente lucidi nella
penombra verdolina, si materializzò dal nulla e riempì la
bocca del ragazzo fino alla gola, mentre una mano ed un
braccio scheletrici, sporchi d’erba e fango, fuoriuscirono
dallo sfiato del subwoofer sotto la poltrona; la mano artigliò
il ragazzo ai testicoli ed una voce eruppe dai tweeter ai lati
della stanza:
“Stai calmo Willie, è tutto scritto e non ti puoi opporre.
Non hai dato retta al nostro amico, non ci hai capito
neanche tu.”
Willie avrebbe voluto discolparsi e giustificarsi, ma i
tasti in bocca gli comprimevano la glottide e non riuscì che
a mugolare disperatamente, agitandosi per quanto era
possibile, stretto dalle corde metalliche. Allora pianse
silenziosamente di dolore, terrore e rassegnazione e calde
lacrime cominciarono a scendere sulle sue guance brufolose
con accenno di peluria. Due piattini di ottone, due
strumentini musicali etnici di qualche orchestrina medio-
156
orientale apparvero dal niente e coprirono gli occhi del
ragazzo premendo a sangue sui globi oculari, ma Willie,
stranamente, nel dolore lancinante, poteva continuare a
vedere, seppure coperto dai due dischetti lucenti.
Forse sarebbe stato meglio non vedere, ed anche non
sentire.
Dal Golem del manifesto la voce di Jonas Green parlò,
terribile e cavernosa:
“Ora, in omaggio alla tua goffa devozione, potrai
ascoltare tutto il cd, poi sarai nostro.”
E l’impianto stereo cominciò a funzionare e a diffondere
quella musica maledetta, mentre fuori continuava a piovere
e l’energia elettrica ancora non era tornata, e Willie potè
ascoltare tutto il cd con le sue atmosfere ed i suoi incubi,
ma non fu in grado di apprezzare pienamente quella musica
terribile, nel dolore di strette metalliche e viscide, mentre
nell’aria della stanza si diffondeva un miasma che copriva
l’aroma della vaniglia del bastoncino d’incenso con fetore di
carne in decomposizione, palude e fiori morti. Sembrava
che anche i personaggi dei manifesti andassero a tempo con
la musica. Le mummie, ed i guerrieri di Frazetta, si
agitavano impercettibilmente al tempo delle tabla e
atteggiavano le labbra in quello che poteva essere un sorriso
di beatitudine e soddisfazione, ma in realtà era un ghigno di
sadico piacere. Le armi dei guerrieri tintinnavano, e
frusciavano macabramente sensuali le bende di quelle
oscene mummie, confondendosi con il suono metallico e
stridente della chitarra, mentre rivoli di sangue colavano da
sotto i piattini dorati posti sugli occhi di Willie e purpuree
strie allargavano e slabbravano la pelle delle braccia e delle
gambe del ragazzo.
Si spensero le ultime note dell’ultimo brano dei
Valdemar’s Brothers e solo la pioggia battente ed il ronzio
sottile del neon di emergenza riempivano la stanza, oltre al
sordo battere del cuore impazzito di Willie e al suo respiro
costretto ed affannoso. I cavi straziavano il petto: la felpa
era lacerata, ma stringevano ancora sulla carne viva.
I cobra di Hendrix si mossero serpeggiando insieme e
saettarono le loro lingue verso la poltrona; le mummie
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ciangottavano come scimmie ed erano freneticamente
agitate. Il Golem era ormai fisso e così il barbaro ed i
guerrieri, quasi appagati dai loro tentativi di venire fuori dai
manifesti. Jimi Hendrix urlò:
“Purple haze” seguito dal coro dei due Experience.
Fu un urlo disumano, disperato come lo fu la sua vita,
eppure un comando imperioso e non contrastabile. I
serpenti dietro di lui puntarono su Willie e, avvinghiandolo
tra le loro spire e mordendolo ripetutamente sul viso e su
tutto il corpo, lo risucchiarono nella parete con un forte
rumore di risacca. Il ragazzo, intorpidito dal veleno e dal
dolore pungente dei morsi dei cobra, entrò letteralmente
nella parete schizzando di sangue i manifesti e l’intonaco e
frantumando i mattoni del tramezzo in un rumore di crollo
di macerie mentre cavi metallici, tasti d’organo, piattini
d’ottone e la mano artigliata del subwoofer scomparivano
nel nulla in una risata agghiacciante, di quelle che avrebbe
sperato ascoltare Willie, magari più comodo e disimpegnato.
Quel riso freddo e repellente non riuscì a smorzare il
rumore delle ossa del ragazzo frantumate nell’impatto col
muro, né quel rumore, simile all’accartocciamento di una
pallina da ping pong, della testa schiacciata tra i mattoni.
Tutto finì e tornò come prima. Tornò l’energia elettrica,
ma l’impianto stereo era ormai spento ed anche l’abat-jour
non diffondeva la sua luce purpurea. La parete sembrava
intatta, senza sbreghi né chiazze di sangue, con il suo
intonaco immacolato ed integro coperto da tanti poster e
manifesti allineati, inanimati, belli da vedere. Fuori
continuava a piovere, ma tutto era tornato come prima,
tranne il fatto che Willie non c’era più.
Una o due ore dopo qualcuno entrò furtivamente senza
fare rumore nella stanza di Willie: era Hoacks. Sapeva cosa
fare: estrasse delicatamente il cd nero dall’impianto stereo,
diede un’occhiata penetrante alla parete in direzione della
copertina del disco “The best of the Iron Maiden” popolata
di tante e tante mummie con buffi travestimenti, ridanciane
ed isteriche, e vide ciò che voleva vedere: una minuscola
mummia sul fondo del disegno, semicoperta, ma
158
inconfondibile, con un ciuffo verde cupo dei suoi capelli
sporgente dalle bende insanguinate, trattenuto da un
minuscolo anellino d’argento raffigurante un teschio! Non
c’era espressione in quella minuscola mummia. Aveva gli
occhi coperti da due dischetti dorati e la bocca era coperta
dalle bende, eppure per Hoacks aveva un aspetto
conosciuto. Sorrise sinistramente, poi si rivolse verso una
foto sul comodino: i Vandemar’s Brothers in uno dei loro
momenti più fulgidi della loro carriera, e mormorò:
“Jonas, con questo fanno tre. Al quarto lasciami in
pace!”
Dalla fotografia incorniciata in ebano tra ciondoli esotici
di poco prezzo, attraverso il vetro pulitissimo e brillante che
la copriva, uscì una voce scostante e divertita allo stesso
tempo:
“Ti lasceremo in pace Hoacks, per sempre. Avremo altro
da fare, nuovi tentativi e nuovi esperimenti con un nuovo
nome.
Ascolta, Ben dice se ti potrebbe piacere il nome
Purgatorio per il nuovo gruppo: ti va?”
159
CONSULENZE PREMATRIMONIALI
Premetto che la presente analisi è solamente uno
stereotipo di esempi comuni abbastanza generalizzato ed
esemplificato, assolutamente incompleto.
La presente ricerca, per aspiranti conviventi legalizzati
o meno, può essere consultata, senza obblighi vincolanti,
come una sorta di vademecum di scelta di vita nell’esame
sommario delle tipologie delle coppie più comuni di oggi.
Si dovrà avere solamente lo spirito di considerare che si
era stati avvertiti quando un domani si sarà recepito di
avere preso una grande fregatura
La
folgorazione
futura
della
consapevolezza
dell’ineluttabile trappola in cui ci si sarà cacciati non
contemplerà l’obbligo di ridere sportivamente da persone di
mondo: quindi se ne può approfittare ora, sempre che ci sia
da ridere.
COPPIA SPORTIVA
Lui, da ragazzo, faceva la bandiera alla palina del
segnale di divieto di sosta, ponendosi in orizzontale con la
sola forza delle braccia, e ci restava paonazzo per almeno
due minuti sforzandosi di sorridere naturalmente.
Lei, da ragazza, faceva footing al parco per salutismo
dinamico e per attirare sguardi maschili sul suo personale
veramente plastico.
Lui, ora, per imitare quell’attore che salta le staccionate
in piena forma, si è causato già un danno di dodici milioni
di dentista.
Lei, ora, corre pochissimo perché si è già procurata una
mastite per il vizio di non voler mettere il reggiseno
nonostante abbia una quarta misura, pendula.
Entrambi, tuttavia, non demordono e si sottopongono a
torture varie sotto forma di piegamenti, flessioni, torsioni e
saltelli vari.
Spenderanno in avvenire un pozzo in attrezzi ginnici e
cyclette per il mantenimento della forma fisica.
160
Potrebbero avere un sereno futuro di soddisfazione con
una duplice partecipazione alle Olimpiadi degli Ottuagenari.
L’esperto prevede affiatamento, in terza età anche con
bombole d’ossigeno, e complicità salutista.
COPPIA INTELLETTUALE
Lui, da ragazzo, componeva versi sciolti ermetici
inseguendo qualche poeta enigmatico particolarmente
arrabbiato col mondo ed in ogni discorso metteva sempre
almeno una parola tra “positivismo logico”, “permeazione”,
“decerebrazione mediatica”.
Lei, da ragazza, leggeva Kerouac e Ginsberg e aveva un
aspetto
costantemente
incazzoso-sognante,
tipico
dell’esistenzialista incompresa.
Lui, ora, scivolato pigramente da florilegi di poeti slavi a
Mogol, quello di Lucio Battisti pre-Panella, che rispetto al
suddetto Mogol è indubbiamente più emetico che ermetico,
si addormenta dopo due minuti di un qualsiasi talk show o
salta col telecomando da TVEROS, dove danno “Giovannona
coscialunga”, a Piero Angela e ad un suo documentario sui
marsupiali, spesso confondendosi.
Lei, ora, legge Bovè e oscuri romanzieri turkmeni e
prepara per cena solo ed esclusivamente minestre di miglio
biologico: cene tristissime e pallide col riassunto del libro
turkmeno.
Futuro oscuro e in bilico, a seconda dell’affiatamento,
per il Consulente prematrimoniale: se lui scendesse al
Corriere dello Sport come unica lettura si potrebbe arrivare
al divorzio.
L’esito infausto potrebbe profilarsi anche con
l’intercambiabilità dei ruoli, con lei che legge solo Donna
Letizia e lui che legge solamente Alberoni, sforzandosi poi,
ahilui, di applicarlo al pratico.
COPPIA SOCIEVOLE
Lui, da ragazzo, metteva insieme complessini musicali
partendo da due chitarristi a caso, organizzava gite, sapeva
161
le date e i prezzi di tutti i concerti e conosceva tutti gli
ostelli della gioventù.
Lei, da ragazza, era la reginetta del Piper e di tutte le
feste e non stava mai più di tre minuti senza ballare mentre
fumava e beveva e parlava, tutto simultaneamente, con uno
dei suoi innumerevoli spasimanti.
Lui, ora, socializza al bar, allo stadio o davanti alla TV
con i suoi amici in occasione della partita della Nazionale: è
campione regionale di rutto alla birra ed un accanito
giocatore di ramino con entrata al raddoppio.
Lei, ora, quando lui va al bar o allo stadio, è la regina
madre della balera del quartiere confinante, ma balla molto
meno perché, con quella quinta di seno, per i suoi cavalieri
il ballo è solo un pretesto. In compenso è semialcolizzata e
ha i denti color liquirizia per quanto fuma.
Vari studi di valenti ricercatori ipotizzano un futuro
infausto per questa tipologia di coppia, per debiti di gioco di
lui, al video poker o in estenuanti partite a carte o al
biliardo al bar, e per voli pindarici di lei, rimorchiata da
baldo pensionato con coupè color vinaccia.
Sono, infatti, ragionevolmente prevedibili diverse risse
da pronto soccorso, di lui, e relazioni adulterine o semplici
minimalismi di corna su corna da sala di ballo, di lei.
L’esperto
consiglia,
in
pervicace
volontà
di
mantenimento d’una così pericolante relazione, di evitare
la procreazione, per scoraggiare l’aumento di bastardi bari o
di figli di madre poco seria, campioncini di tip tap.
COPPIA CONFIDENZIAL-SCATOLOGICA
Lui, da ragazzo, sapeva a memoria le date di ricorrenza
di tutti i cicli mestruali delle sue compagne di scuola,
calcolate con elaborate formule empiriche sulla base della
brufolosi periodica frontale e, sollecitando cameratismo e
complicità goliardica, sganciava qualche puzzetta nell’ora di
latino perché la vecchia professoressa era sordastra.
Lei, da ragazza, precocemente maliziosa e molto
sportivamente femminile (vale a dire poco), sapeva
riconoscere un’erezione di un suo compagno di scuola fin
162
da cinquanta metri, talvolta divulgava a voce alta con
commenti sarcastici l’accadimento del poverino, e ruttava
come un camallo di Genova dopo tre lattine di chinotto.
Sotto il suo banco esisteva un insieme di depositi otorinici
appiccicati a più riprese a palline, e talvolta anche a piccole
sculture, che avevano una funzione curiosamente prensile e
minacciosa verso gli ignari distratti compagni di scuola,
come un insieme di piante carnivore.
Lui, ora, gira per casa nudo con pancia da piccolo
Buddah, con lo scroto ad altezza ginocchio, e prova a fare
modulazioni polifoniche simultanee tra sopra e sotto.
Lei, ora, si pone in posizione ad uovo sul water ridendo
gaiamente a lui che si tura il naso mentre si taglia le unghie
dei piedi.
Il consulente prematrimoniale ipotizza un’unione
perfetta nel trionfo della brutalità, nel genere splatter o
pulp, fino allo scoppio della bolla del sogno e dell’irrealtà: se
i due, però, prendessero coscienza della loro situazione
nella realtà, potrebbero far sfociare la loro relazione in
degenerazioni omicide o suicide.
COPPIA PIA
Lui, da ragazzo, schivava i compagni con gli occhi
cerchiati, dormiva nella posizione di Don Bosco, a pancia su
con braccia conserte, su lenzuola gelate, ed evitava gitarelle
promiscue al mare.
Lei, da ragazza, invece dei pannolini, usava i ciripà che
poi rilavava e stirava per fare un fioretto, aveva capelli da
prima spremitura di frantoio per annullare qualsiasi
tentazione ed era segretamente innamorata dell’insegnante
di religione.
Lui, ora, gira col cilicio sotto la camicia, come
Formigoni, e considera molto peccaminoso carezzare la
guancia di sua moglie alla presenza dei due figli (due copule
in trenta anni, al buio, alla missionaria, vestiti).
Lei, ora, si confessa a giorni alterni, ogniqualvolta
prende accidentalmente a calci nelle gonadi suo marito nel
sonno.
163
Sono una coppia molto unita, a parte le gonadi di lui,
internamente frantumate e sempre più illividite da calci
isterici notturni.
Il sabato pomeriggio è festa grande in casa loro con la
recita del Rosario in ginocchio sui ceci.
Alcuni ricercatori pongono il dubbio sulla durata della
cementazione di questa tipologia di coppia con il volere
rilevare le uniche due nubi all’orizzonte che potrebbero
essere rappresentate dalla conoscenza fortuita, da parte di
lui, della collega dell’Ufficio Prestiti che, di sera, fa la
spogliarellista e deve pagare urgentemente un mutuo per la
casa, disponibile come un’infezione, a prezzo trattabile, o
dalla visione assolutamente fortuita, da parte di lei, dei
California Dream Men.
Ovviamente l’unica nube, a scelta indifferentemente tra
le due precitate, potrebbe diventare un temporale con
grandine in arrivo se si frequentano amici comuni goliardi e
sabotatori che godono sadicamente nel presentare colleghe
disponibili o California’s boys.
COPPIA MODERNA (esiste anche la rivista, vietata ai
minori)
Lui, da ragazzo, aveva gli occhi cerchiatissimi, girava
con chili di calendarietti da barbiere pieni di donne nude e
spiava le compagne di scuola nel gabinetto.
Lei, da ragazza, si chiudeva per ore nel bagno della
scuola per pratiche, solitarie e non, con otto-dieci compagni
più grandi e intervenivano sempre pattuglie di bidelli
sambernardo per ritrovarla; a volte faceva sfoggio di mania
esibizionista aprendo le gambe quando era interrogato il più
emotivo della scolaresca che cominciava a recitare Dante a
tempo di rap.
Lui, ora, gira sempre a bischero sciolto, in casa e fuori,
ha tre denunce per atti osceni in luogo pubblico, non
distingue più una donna da un uomo da una capra,
presenta in continuazione nuovi amici, amici carnivori
carnali, alla sua lei, e ha prenotato, con intelligente lucida
164
preveggenza, un posto letto fisso al sanatorio di mezza
montagna più vicino per l’immediato futuro.
Lei, ora, gira sempre con le calze a rete, però è
ingrassata per troppe pillole anticoncezionali e sembra un
culatello ben accuratamente fasciato; è maliarda, non
distingue più un uomo da una donna da un somaro e
presenta al suo lui le peggiori trappole che si possa
conoscere: roba da camminare con gli stivaloni da pesca nel
fiume!
Tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che questa
è una coppia veramente affiatata finché regge l’aspetto fisico
e l’animosità entusiastica delle prestazioni.
L’unico neo sarà costituito dal sopraggiungere della
vecchiaia che renderà la coppia patetica, anzi, peripatetica,
alla ricerca di piacere ormai solo più a pagamento.
Prevedibili mutui di Viagra ed estratti di yoyoba e
ginseng.
COPPIA LAVORATRICE
Lui da ragazzo studiava anche la notte dormendo solo
due o tre ore, faceva le ricerche in otto volumi, conosceva a
memoria i primi tredici tomi della Treccani e faceva già
domande di concorsi per un lavoro sicuro e gratificante.
Lei, da ragazza, alternava letture semplici e divertenti di
svago come l’Enciclopedia Britannica e letture impegnative
come “La cibernetica applicata alle macchine” “Crollo del
cervello bicamerale” “Corso di swaili-ungherese con
notazioni in croato” e scriveva curricula vitae di trenta
pagine.
Lui, ora, trascorre tre ore in casa con la sua lei, in una
settimana, sperduto tra concorsi come esaminatore, corsi
da master, conferenze e convegni, e gira con portatile di
sessanta chili con l’unica concessione erotica nella sua vita
che è il salvaschermo di Pamela Anderson in bikini.
Lei, ora, sovrintende a tutte le riunioni parrocchiali di
volontariato e frequenta corsi di cucito, patchwork, cucina
tailandese e primo soccorso ai criceti in difficoltà. A tempo
perso fa la guida turistica delle vestigia di Appio Numanzio
165
nella necropoli etrusca più vicina e la critica
cinematografica per gli intervalli nelle riunioni di
condominio di tutta la zona nord della città.
E’
considerata
unanimemente
una
coppia
eccezionalmente stabile fino a che lui non capisca che
esistono donne come la Pamela Anderson che possono
sfilarsi anche il bikini.
Anche lei, del resto, potrebbe avere uno shock salutare
nello scoprire che il graffito sulla parete rupestre
raffigurante lo scettro del re in realtà è un altro scettro.
COPPIA CON PROLE
Lui, da ragazzo, odiava i bambini e non perdeva mai
l’occasione di picchiarne qualcuno. Smise quando trovò un
bambino di sette anni campione juniores di karatè.
Lei, da ragazza, sognava di avere otto, dieci pargoli tutti
allattati naturalmente e sognava felicemente ingenua una
famiglia rumorosa e felice.
Lui, ora, dopo il primo errore, per sua imperizia ed
eccessivo entusiasmo, al suo primo “coitus interruptus”, e
dopo i continui successivi sabotaggi di lei che gli ha bucato
sistematicamente tutti i profilattici, alterna brevi periodi in
casa con i suoi dieci figli a lunghi periodi di riposo presso la
casa di cura “Madonna del dolore progestormonale” e ha
curiosi scatti di riso irrefrenabile che lo trasfigurano in un
coguaro della Patagonia.
Lei, ora, perfettamente soddisfatta e realizzata come
donna e come madre, ha solo l’inconveniente di avere due
capezzoli come vecchie trombette di bicicletta della nonna,
per l’appunto a peretta e neri.
Coppia indecifrabile, di difficile studio, ancora non
perfettamente esplorata in senso compiuto: lui potrebbe
rinsavire e diventare un bravo padre di famiglia dopo
opportuna castrazione chimica, ma potrebbe anche lasciare
la sua lei vedova dopo un tuffo nel vuoto della tromba delle
scale della casa di cura.
Lei, a volte, abbandonata la maschera della mammina
entusiasta, soprattutto con i figli ritornati a casa dalla
166
scuola, tutti e dieci, ha delle crisi che possono sfociare nel
cannibalismo o nell’autoflagellazione.
Il sottoscritto consulente prematrimoniale, al pari della
plebiscitaria maggioranza dei suoi colleghi, considera
questa tipologia di coppia ad altissimo rischio.
167
PICCOLI UOMINI
Eravamo due ragazzi inseparabili, Karl ed io,
accomunati dalla passione per interminabili partite di calcio
e per le belle studentesse disinvolte del nostro liceo.
Le
nostre
inclinazioni
ed
interessi
culturali,
profondamente diversi, ci separarono per diversi lidi: io mi
tuffai con anima e corpo sullo studio della letteratura e
filosofia medievale e Karl, più pragmatico, s’immerse nel
mondo della fisica e della chimica attirato dalla possibilità
di usufruire d’attrezzati laboratori di ricerca.
Il destino, come sempre sovrano e capriccioso, ci riunì,
da uomini ormai fatti, nell’Università, come docenti: io di
letteratura medievale, e Karl di fisica e chimica.
Esercitavo la mia professione in un’austera aula fredda
con polverose enormi vetrate di fronte ad una frotta di
occhialuti ragazzi posati e rispettosi della storia e dell’antico
in genere e godevo di una certa fama di piacevole
conversatore.
Karl invece era poco conosciuto perché era davvero
blindato dentro un laboratorio quasi inaccessibile
dell’Università ed usciva molto raramente, sempre più
emaciato, con uno sguardo spiritato d’eccitazione e di
febbrile curiosità infantile da ragazzino ingordo di dolciumi.
I primi capelli brizzolati e le prime avvisaglie d’artrosi
non ci fecero dimenticare il nostro rapporto d’adolescenti, e
la sorpresa iniziale si tramutò in un confortevole prosieguo
di conversazione appena interrotta, seppure quasi quindici
anni prima, in una magia di relatività di tempo.
La scintilla dell’amicizia riaccese vecchi sentimenti
sopiti ed il motore tossicchiante della comunicazione riprese
a rombare fluido con tanti giri di disinvolto piacere e
curiosità nel raccontarsi e nel raccontare le proprie
aspettative e i propri interessi presenti.
Colpii solamente di striscio Karl con il mio entusiasmo
per il medievalismo mitteleuropeo nella letteratura e nella
filosofia: assentì per cortesia mal celando una qualche
distrazione per assillanti suoi problemi segreti e sorrise con
168
una partecipazione al mio entusiasmo, che mi apparve
decisamente fittizia.
Mi raccontò di sé, poi, e i suoi occhi grigi si accesero di
fiammelle entusiaste come per una sagra domenicale del
nostro paese di ragazzi rubacuori calciatori in erba.
Fu vago: mi parlò di un progetto, di esperimenti su
cavie, di rivoluzionaria scoperta, ma non approfondì mai
troppo quanto mi decantava.
Quello che mi raccontò sommariamente fu soltanto un
omaggio alla vecchia amicizia rinnovata e alla necessità di
aprire appena un poco la valvola dello sfogo con un amico
per allentare la pressione di progetti forieri di tensioni ed
angosce.
Ci si frequentò con regolarità, per quanto lo potessero
permettere i nostri orari, le mie lezioni ed i suoi
esperimenti, e si evitò, tacitamente d’accordo, di insistere
su argomenti professionali. Ci rifugiammo in piacevolezze
da scapoli, argomentando su studentesse vivaci e sulla
qualità di questa o quella birra e sul campionato di calcio e
sul rincaro dei prezzi dei concerti e dei soprabiti in loden:
banalità, per l’appunto, per trascorrere qualche ora nella
bambagia di una piacevole compagnia disinteressata
proiettata su antichi affetti e complicità.
Cosa volere di meglio?
Trascorsero diversi mesi e poi qualche anno.
Eravamo una consolidata coppia d’amici, leggermente
più rotondi, sempre scapoli impenitenti, ma discreti e
riservati donnaioli, sempre presi dalle nostre professioni, io
dal mio medievalismo e Karl dai suoi misteriosi esperimenti.
Era imbolsito leggermente, anche lui, ma in maniera
diversa da me, con un viso affilato e teso a contrasto con il
corpo appena più cascante. Il suo sguardo era sempre
febbrile e assorto per sue riflessioni parallele. La sua
disponibilità di tempo per le nostre birre in qualche taverna
diventò sempre più ridotta e il suo comportamento alquanto
sfuggente.
Scomparve del tutto, improvvisamente, per un lungo
periodo, e mi rassegnai a bere il mio boccale da solo
169
meditando
su
antiche
concezioni
dell’uomo
e
approfondendo le mie lezioni per i giorni a seguire.
Dopo qualche mese fui avvicinato da Karl, una sera
ventosa e fredda, mentre uscivo per una buona cena calda.
Apparve dal buio di un vicolo, si materializzò davanti a me,
intabarrato come un sicario d’altri tempi, con uno sguardo
luccicante di eccitazione, e mi bisbigliò velocemente delle
scuse e un invito a casa sua per meravigliose rivelazioni.
Si accese anche allora quella scintilla che alimentò il
motore appena più rugginoso della nostra amicizia; accettai
con una fanciullesca curiosità nella consapevolezza di
riuscire ad aprire, forse, per quella sera, un grandissimo
metaforico barattolo di marmellata. Sorrisi dentro di me
immaginando Karl come un barattolo di confettura di
mirtilli e lo seguii in silenzio verso il suo alloggio poco
distante.
Era il tipico appartamento da scapolo spesso assente.
Un ingresso che dava in una sala piena di riviste e libri
sparsi da ogni parte.
Un divano in fondo alla parete con una coperta a
testimoniare qualche notte trascorsa a rimuginare su
qualche astrusa teoria.
Qualche piatto pieno di briciole, lì in terra, e là, sul
tavolo, vicino alla lampada di vetro verde, accanto ad
appunti scritti fitti fitti con formule incomprensibili.
Su tutto stagnava un insopportabile odore di cattivo
tabacco e di chiuso, quel chiuso polveroso che una sola
giornata di pallido sole non potrebbe mai dissipare
completamente con le finestre aperte.
Mi indicò una sedia a dondolo in noce, pesante e solida
e mi accomodai di fronte a lui che sprofondò nel divano
giallo stinto fiorato di vinaccia.
La mia attenzione fu attratta da un pestello di bronzo
sulla scrivania a fermare una risma di fogli zeppi d’altri
appunti e formule e mi soffermai sulla fattura dell’oggetto,
molto sobria, e sul luccichio caldo come la luce bassa e
soffusa di una lampada a stelo a fianco dell’orrendo divano.
Fui imperiosamente catturato da parole frenetiche che
eruppero nella stanza caoticamente a raffica.
170
“Ce l’ho fatta, Robert, ce l’ho fatta: la rivoluzione della
creazione, della storia dell’uomo, il cambio delle prospettive
per il futuro dell’esistenza di tutti…ce l’ho fatta, finalmente,
dopo anni e anni di tentativi e sacrifici…ce l’ho fatta,
Robert…”.
Tesi le mani a difesa per proteggermi da quella valanga
in piena d’entusiasmo e imposi la calma e l’ordine per una
quieta esposizione degli avvenimenti; gli sorrisi e lo invitai a
calmarsi.
Comprese la situazione di stallo che aveva creato e
chiuse gli occhi per riordinare le sue idee; inspirò
profondamente e si appoggiò con una certa rilassatezza allo
schienale del divano.
Poi rivelò frenandosi nell’isteria dell’entusiasmo:
“Ho inventato un qualcosa che cambierà la storia
dell’uomo e dell’ambiente e migliorerà la qualità della vita di
tutto il mondo.
Robert, ho inventato il dimensionatore molecolare”.
Le mie cognizioni di fisica e chimica sono state sempre
risibili e quindi aggrottai le sopracciglia come un cugino di
un volgare pitecantropo eretto.
Mi spiegò con l’entusiasmo di un padre che descrive il
sangue del suo sangue.
“Ti ricordi Gulliver? Qualche racconto di fantascienza
dove gli uomini possono mutare le loro dimensioni? Riesci
ad immaginare una macchina, la mia macchina, quella che
ho costruito, che rimodella istantaneamente le molecole di
un uomo e le dimensiona secondo un preciso piano di
programmazione? Riesci ad intravedere i vantaggi
dell’umanità per questa invenzione che rasenta il divino?
Ho definito un marchingegno che sembra una vecchia
macchina fotografica su un treppiede.
L’ho sperimentato su qualche topo…
Funziona! Funziona veramente!
Ho tarato le dimensioni volute per il mio topo e ho
attivato il dimensionatore molecolare: sono riuscito a
miniaturizzarlo e ad ingrandirlo a piacimento senza alcun
effetto sgradevole collaterale. Il topo è divenuto piccolo come
171
una capocchia di spillo e poi grande come un vitello: una
sensazione esaltante e di onnipotenza.
Capisci quello che può significare per il genere umano,
Robert? Ti rendi conto dei benefici rapportati agli annosi
problemi di sovrappopolazione, di fabbisogno alimentare ed
energetico? Non provi brividi lungo la schiena all’idea di
potere sfruttare illimitatamente quello che la natura offre
ora in maniera sempre più insufficiente?
Prova ad immaginare: una intera città in un orto di
pochi metri quadrati, con ministrutture particolarmente
resistenti ad eventi sismici e con architetture più compatte
a prova di qualsiasi catastrofe naturale, e risorse alimentari
infinite e abbondanti per popolazioni che con due o tre
piante di pomodori e di peperoni possono superare il
problema dell’approvvigionamento.
Poi l’acqua…
Il problema dell’acqua risolto per sempre con
abbondanza…
E l’inquinamento…
Cosa mai può inquinare una popolazione numerosa
come quella della città di Shangai o di Mexico City in
un’area equivalente a mezzo campo di calcio?”
Parlava velocemente e sparava raffiche di concetti
fantasiosi illuminandosi nel viso, già raggiante di suo nella
soddisfazione,
all’aggiungere
ipotesi
mirabolanti
di
sopravvivenza agiata e d’esistenza tranquilla per tutto il
genere umano.
Mi prese per mano e mi guidò nel suo mondo perfetto;
mi espose aspetti di funzionalità mai immaginate e rideva
contento come un bambino nello svelare al suo amico
profano piccoli segreti di un nuovo grande gioco.
Le sue parole si accavallavano nella mia mente come
una ribollente risacca rombante e si sostituivano violente a
preesistenti concetti, nuove onde fragorose che coprivano
altri concetti ancora come altri flutti schiumanti in una
caletta seminascosta e buia circondata da rocce aguzze.
Ho detto risacca, ed era proprio come una risacca,
sempre più incalzante…
172
Le sue ondate, ritirandosi per fare posto ad altre ondate
di pensieri sconvolgenti, lasciavano per un attimo nella mia
mente quel tipico vuoto che scopre per pochissimo, in un
piccolo specchio d’acqua, pericolosi scogli affioranti e ruvidi.
Le sue parole scoprirono dentro di me obiezioni e
perplessità che si accesero improvvisamente con una luce
sinistra e con associazioni innaturali ed irriverenti.
Karl parlava e parlava, ma io ascoltavo sempre meno
perduto dietro altre mie interne sonorità che evocavano altri
scenari ed altre immagini possibiliste.
Mentre Karl si affannava con l’entusiasmo del venditore
d’enciclopedie porta a porta e mi decantava i vantaggi di
una globale miniaturizzazione o di qualche ipotetico
macroingrandimento a scopi scientifici, io venni catturato
da sequenze documentaristiche di file turbolente di accesi
tifosi ad una partita di calcio di cartello, da code estenuanti
ad uno sportello postale, da incroci urbani intasati per
qualche malfunzionamento dei semafori.
Mi figurai un autista od un pedone o un acceso
ammiratore impaziente.
Immaginai un piccolissimo bagliore di un oggettino
personale da polso ed una istantanea crescita di una
sagoma umana di furbo meschinello tendente a prevaricare.
Ebbi una visione di un altro impercettibile bagliore e di
un’altra sagoma ancora più grande volta al ripristino
dell’ordine sociale, ed ancora bagliori vari di schieramenti e
di solidarietà verso la prima o la seconda sagoma umana,
bagliori preludenti a crescite disumane come dimensioni e
violenza di intenti.
E mi si affacciò alla mente il ricordo di un vecchissimo
cartone animato di Tom e Jerry, ora angosciante, alle prese
con una pozione magica che li rendeva sempre più grandi
fino all’insufficienza surreale di contenimento, da parte del
pianeta Terra, delle loro enormi figure minacciose ed
egotiche a cavalcioni dei due poli in una eterna ed allora,
solo allora, esilarante scazzottata.
Karl continuava a parlare, ma ormai, per me, in pieno
incubo, erano solo più farneticazioni.
173
Alle sue parole di progresso e collaborazione tra simili
contrapponevo dentro di me l’atavico concetto della
prevaricazione dell’uomo sull’uomo e antichi roghi medievali
sfavillavano nella mia mente per purificare il genere umano
dal genere umano in un delirio crescente di violenze,
sangue e stragi in eterne guerre con un’arma fenomenale ed
estrema in più rispetto a prima.
Karl esitò, per un attimo, ad esporre così
baldanzosamente il suo progetto: dovevo essere terribile da
vedere con il mio cervello nudo e marcio corroso dai vermi
della sfiducia e dell’assenza di speranza.
Mi levai di scatto dalla materna sedia a dondolo e lo
colpii come una saetta con la prima cosa che ebbi tra le
mani: il luccicante pestello di bronzo.
Infierii con la violenza della pietà, per finire tutto presto,
per me, per Karl, per tutto il genere umano, e non smisi
neanche dopo che il mio amico rimase esanime e riverso su
quell’orrendo divano: il sangue si confuse con quegli orridi
fiori vinaccia e mi schizzò sulle mani provocandomi un
sentimento di pulizia interiore, come se fossi stato lavato
per un sacrificio.
Ora sono qui, davanti ad un meccanismo nuovo che
sembra una vecchia macchina fotografica su un treppiede.
Sto fissando quello che sembra un obiettivo e stringo
tra le mani una peretta di un lungo cavetto nero, come per
volermi fare un autoscatto.
Sono convinto di avere salvato l’umanità da un tristo
futuro, ma sono anche convinto che per amore di giustizia e
mia pace interiore io debba pagare per avere ucciso il mio
amico Karl che è lì sul divano e che sembra mi guardi da
quella maschera di sangue che è la poltiglia del suo viso.
Ho bruciato ogni suo appunto con tutte quelle formule
per me incomprensibili ed ho legato la peretta alla mia
mano…
Quando
la
schiaccerò,
trascinerò
quell’osceno
strumento con me verso il basso, verso una tinozza che ho
riempito di acido per distruggere questa arma finale.
Forse nella caduta sarò attirato, legato come sono,
dentro la tinozza ed avrò una atroce, ma misericordiosa
174
morte rapida, o forse verrò sbalzato in qualche angolo della
stanza dove attenderò…
Attenderò un topo che forse mi sarà grato per certi suoi
incubi ai quali ho messo la parola fine e, magari, mi vorrà
manifestare il suo apprezzamento…
175
IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA
Sono sconvolto…
Non dormo da tre notti e tre giorni, terrorizzato da
qualcosa che potrebbe essere una mia allucinazione o la
scoperta di una terribile verità…
Una persona amica mi aiuti asciugando la mia fronte
imperlata di sudore ghiacciato, e vegli e vigili per difendermi
da incubi tremendi.
E’ cominciato tutto quattro notti fa.
Mi accingevo, insonnolito, a dormire.
Accesi il piccolo stereo sul comodino per lasciarmi
cullare da qualche melodia riposante.
A poco a poco si confusero, nel dormiveglia, immagini,
paesaggi, progetti, idee caotiche senza senso e ordine.
Avvertii anche qualcosa di nuovo nel buio, con il
perdersi della musica: un progressivo aumento di un brusio
indistinto di molte presenze in attesa di un evento.
Poi udii una voce calda, baritonale.
“Preso atto del numero valido dei partecipanti a questa
assemblea, dichiaro aperta la presente riunione di
condominio e propongo la candidatura alla presidenza del
sottoscritto signor Cervello.
Nominerò il signor Stomaco e il signor Fegato come
segretari.
L’ordine del giorno della presente riunione verterà sulle
pericolose fughe di gas nella cantina dello stabile, sulla
manutenzione del suddetto stabile e su varie ed eventuali.
Se nessuno ha da eccepire sulle candidature, si può
dare inizio al dibattito.”
Mi agitai nel letto temendo l’inizio di un brutto sogno,
con una spiacevole arsura, e udii altre voci tra cui una
stridula e acida.
“Era ora che si parlasse di quelle fughe di gas, signor
Cervello!
Uno di questi giorni salteremo tutti in aria.
Lo dico da sempre e sono diventata verde di bile, ma
mai nessuno che mi ascolti…”
176
“Non dica questo, signora Milza, perché io, nel mio
piccolo, solidarizzo: si figuri che quello spiffero quasi
continuo mi sta creando anche gravi problemi infiammatori.
Piuttosto gli altri, quelli dei piani alti: direi che sono
proprio insensibili ed egoisti.”
“Non cominciamo a promuovere la rissa del tutti contro
tutti, egregia signora Emy Orroide.
Le parlo da moderatore: ognuno ha i suoi problemi.
Che dovrei dire io che ho due vicine mezze sorde che
ascoltano musica snervante a tutte le ore del giorno a
volume da discoteca?
Anzi, visto che sono il presidente di questa assemblea di
condominio, metterò a verbale anche che ci si debba
moderare con i rumori molesti.”
“Cosa vuole mettere a verbale?
Guardi che io ci sento bene. E’ la vicina di pianerottolo
che è sorda, ed è di destra, prepotente e fascista, senza
rispetto per alcuno, col volume a palla anche quando tutti
dormono.
Che c’entro io?”
“Ha
parlato
la
compagna
racchia
orecchia
sinistra…come se non fossimo tutti sulla stessa barca,
…fascista a me, poi?
Perché sono a destra nello stabile?
Guarda, carina, che ho anche io la staffa, e pure il
martelletto, e con una falcetta sarei una comunista doc.
Modera le parole prima di accusare e di dare qualifiche
politiche a casaccio.”
“Signore e signori, calma, calma, per favore…”
S’impose, su tutte, la voce del cervello, del mio cervello,
autorevole, – ma un cervello non ha solamente la voce della
coscienza o della ragione? –
Mi rigirai nel letto inquieto.
Chi parlava sembrava vero, vivo e, soprattutto,
autonomo, e la cosa non mi piacque affatto.
“Presidente…”
“Dica pure, signor Fegato.”
“Sto rodendo me stesso dalla rabbia.
177
Mi dolgo per le signore orecchie, comuniste o fasciste
che siano, e per l’infiammata signora Orroide, ma torniamo
a bomba, ai gas.
Lei dovrebbe assumere l’iniziativa e lanciare un qualche
messaggio al portinaio affinché vada in farmacia e acquisti
del carbone vegetale: dicono che sia una mano santa.
Tra l’altro, tutti si faticherebbe meno nello smaltire
quella fastidiosa corrente, e Tino, il signor Tenue, ci
guadagnerebbe anche in salute nel parcheggiare dentro il
garage quelle merde di macchine inquinanti.”
“Vero, vero, caro signor Fegato.”
“Coinvolga anche il signor Aquilino Naso, presidente, e
condizioni il portinaio a porre rimedio a questo schifo.”
Ebbi la sensazione angosciante che il portinaio fossi
considerato proprio io, me medesimo, immobile e teso come
una corda di violino a captare il più piccolo sospiro nella
notte e nel buio della mia stanzetta.
Cominciai a sudare copiosamente.
“Bene, allora.
Signor Naso, le trasmetterò comunicazioni olfattive
inequivocabili sull’inconveniente e faremo pressioni
congiunte sul portinaio perché acquisti il carbone vegetale.
Scriva pure, signor segretario Stomaco, verbalizzi, e
passiamo quindi senz’altro ai problemi di manutenzione…”
Verbalizzare da parte di uno stomaco…
Cominciavo a credere in un sabotaggio del barattolino
dell’origano in cucina, forse con qualche fungo messicano
strano e nocivo.
Pensai – se questo è l’inizio della pazzia, è alquanto
bizzarra e imprevedibile ma, al contempo, mi posi
domande sull’efficienza del mio portierato, se avevo
spazzato bene, se avevo passato la cera, lo straccio, se
avevo pulito bene vetri e finestre.
Risi irrispettosamente all’idea di essere soltanto il
portinaio di un condominio turbolento, ma il presidente
dell’assemblea mi richiamò all’ordine e al rispetto
procurandomi una fortissima emicrania che mi si affacciò
improvvisa e dolorosa e mi consigliò l’immobilità in attesa di
tempi migliori.
178
“Aspetti, signor presidente.
Ho taciuto con mio fratello fino ad ora, ma adesso parlo
perché non ne posso più.
I vetri fanno schifo, puliti soltanto quando capita con
degli stracci sudici.
Io e mio fratello vediamo lungo, ma non si può tollerare
che il portinaio pulisca i vetri senza lavarsi le mani dopo
avere potato le unghie dei signori Piedi: suvvia, un minimo
di decenza, no?”
“Cosa avrebbe da dire su di noi, signor Bellocchio
destro?
Sia prudente con certe affermazioni: abbiamo tutti
bisogno di manutenzione, mica solo lei e suo fratello.
Non abbiamo colpe se la pulizia viene fatta in maniera
approssimativa o disorganizzata.
E poi non si lamenti e ricordi qualche anno fa, quando
era molto peggio.
Il portinaio puliva tutto lo stabile con una sola spugna
ruvida e rosicchiata
e con la stessa acqua saponata
sciacquava piani alti e piani bassi.
Meno male che ora usa la pompa a getto, sicuramente
più igienica.
Mi domando e dico: perché avremmo dovuto sentirci più
puliti, prima, con la stessa acqua che serviva per
sciacquare anche quei due Coglioni del piano di sopra…”
“E adesso che c’entriamo noi? Non ci rompete, eh?”
“State zitti voi, coglioni Coglioni!”
“Ma come vi permettete, piedacci puzzolenti di cacio! Li
piedacci vostri, Piedi!”
“Signori, per cortesia, un poco di contegno, vi prego…”
L’emicrania mordeva col ruggito delle voci alterate che
si insultavano.
Tutto assurdo: organi del mio corpo che parlavano,
autonomi, critici, litigiosi…
“Vorremmo interloquire anche io e mio cugino Paul
Mone, signor presidente.”
“Prego, esponga signor Ai Mone.”
179
Troviamo inammissibile che il portinaio abbia deciso di
spostare la guardiola in questo quartiere malsano e pieno di
gas di scarico.
Abbiamo una certa età, ormai, e ci siamo molto
sacrificati per migliorare il nostro stato di efficienti mantici,
smettendo perfino di fumare, per rispetto nostro, del nostro
amico, il signor Amore Cuore, e di altri inquilini.
Ci è dovuto un minimo di riconoscenza e collaborazione.
Concorda signor Cuore?”
“Mi associo, mi associo: sacrosante parole.”
“Solidarizziamo anche noi: stiamo molto meglio da
qualche anno grazie ai signori Paul e Ai Mone, ex fumatori,
inquilini civili e degni di rispetto.”
“Grazie signori Guido Reni e Tony Renis.”
“Anche se…”
“Dica signor Guido…”
“Questo pelandrone di portinaio innaffia poco, beve
robaccia e ci sottopone a sforzi ripetuti che, ormai, alla
nostra età, dovrebbero essere dosati sobriamente, per
quando ne vale davvero la pena, magari in compagnia…ma,
signor presidente, invece, … costui agisce prevalentemente
da solo…
Ed inoltre è ghiotto di asparagi: un ‘tour de force’ in
certi periodi.
Roba da non credere. ”
Rabbrividii.
Seguivo la grottesca assemblea, soggiocato, e recepivo
interventi scontenti e mugugni, ma arrivai ad impermalirmi
per questa sfacciata esposizione di mie abitudini segrete.
Che
diamine!
Un
minimo
di
riservatezza
e
comprensione!
E poi volevano cambiare aria…
I soldi non li fabbrica neanche Rockfeller:
quindi
appartamentino in periferia sporca di smog, cari signorini.
Vincessi al superenalotto ve la farei vedere: chalet a
mezza collina con orto e alberi e cani da guardia e…
…E poi sarò padrone di abbuffarmi di asparagi, almeno
a stagione?
La testa mi stava scoppiando.
180
“Intraprenderemo
un’azione
sindacale,
signor
presidente.
Ogni tanto, senza preavviso, cesseremo di respirare o
tossiremo la nostra protesta nella colazione di quell’essere,
quando ha le mani occupate. Lo metteremo alle strette:
traslocherà prima o poi.”
“Vi darò una mano anche io, cari vicini. E’ sufficiente
che mi metta a zoppicare e che qualche volta faccia
l’imitazione della coratella del macellaio sul banco di
marmo: l’amico se la farà addosso… sempre che non sia un
duro insensibile e non mi faccia crepare…”
Un cuore crepato di crepacuore: una situazione alla
Jonesco, surreale.
Ridevo istericamente dentro di me nonostante il dolore
lancinante alle tempie.
Avevo gli occhi lacrimanti: pizzicavano come per
qualche bruscolino sotto le palpebre, ma non osavo
sfregarmeli, neppure delicatamente, perché mi ero appena
grattato soprappensiero altre parti, basse, e temevo una
reazione o una vendetta.
“E poi dovrebbe muoversi di più questo portinaio: é
pigro.
E’ un sedentario e la spazzatura rimane tutta sullo
stomaco – vero signor Stomaco? – e anche io faccio fatica a
smaltire i rifiuti. In più ho anche quei problemi di
parcheggio di cui si parlava prima… del resto lo spazio è
quello che è: o aria o altro no?…”
“La capisco, Tino, oh, scusi la confidenza, signor
Tenue…”
“Ma no, si figuri, diamoci del tu.”
“Beata l’appendice Beatrice che ha osato ribellarsi e ha
piantato tutti… ”
“Lo farei anche io e non escludo in futuro di prendere in
esame la possibilità…”
“Brava, signorina Fellea, però, dico io, è anche ingiusto
che qualcuno possa andarsene e qualcun altro no: le solite
sperequazioni tra figli dell’oca bianca e bastardacci!”
“Che le devo dire, signor Pancreas: è la vita che è così,
ingiusta e sperequata di suo.
181
Non se la prenda con me: in fondo la decisione mi
costerebbe sacrifici immensi.
Potrei finire in bocca ad un gatto vicino al Policlinico.
Lo sa la fine che ha fatto la signora Milza del
condominio della sorella del portinaio?
E’ stata sezionata e poi bruciata: una fine orribile…”
Percepii terrorismo psicologico nella voce arrogante
della signorina Cistifellea che si rivolgeva al signor Pancreas
con il sussiego di chi è pieno di boria e calcoli, soprattutto
calcoli.
“Signori, è tardi, cerchiamo di concludere.
Proporrei di verbalizzare che il condominio si adopererà
affinché venga effettuata una più accurata pulizia e venga
spostata la sede della guardiola, magari verso la campagna.
Indiremo a breve una assemblea straordinaria per
organizzare scioperi selvaggi per il conseguimento dei nostri
scopi, con le buone o con le cattive, e qualcuno di voi
cominci a studiare qualche piano concreto di sabotaggio.
Per quanto mi concerne, offro fin d’ora tutta la mia
disponibilità a convogliare qualsiasi messaggio verso il
portinaio in maniera che venga recepito senza discussioni o
resistenze.
Prima di chiudere qualche altra domanda?”
“Scusatemi tutti se sono ignorantello, tutto muscolo e
istintività, ma non si fa prima a cambiare portinaio?
Morto un portinaio se ne fa un altro, no? Lo dice anche
il proverbio…”
Non compresi subito da dove provenisse quella vocina.
Mi resi conto, però, che il cervello si stava adirando
violentemente…
“Eccolo qua: la solita testa di cazzo!
Lei parla, parla, e dice solo minchiate, signor mio!
Se riflettesse invece di fare soltanto ginnastica, sempre
su e giù, probabilmente riuscirebbe a comprendere che il
portinaio non si può cambiare e che queste sono le regole!
Ci teniamo questo imbecille e possiamo solamente fare
in modo che cambi qualche idea, entro certi limiti
ragionevoli, perché quando interviene lei, solita testa di
cazzo, la ragionevolezza va farsi benedire.
182
Faccia silenzio, …e si adopri per sole funzioni innocenti.
Lei, un giorno, ci rovinerà tutti con la sua esuberanza
imprudente e ignorante!
Basta ! Chiudiamo qui l’assemblea.
Ci aggiorneremo nei prossimi giorni.
Per ora buona notte a tutti…”
Percepii un battimani, (un battimani?) di commiato
cortese: mi resi conto, sempre nel dormiveglia, che era un
battere di denti.
Spalancai gli occhi all’alba, ansante e seduto sul letto.
I piccoli led dello stereo mi fissavano nemici o almeno
questo era il mio stato d’animo: mi sentivo minacciato da
tutto e da tutti, soprattutto da me stesso, da dentro.
Urlai di raccapriccio all’idea che tutti i giorni scarrozzo
fuori organi ostili che rispondono a mie sollecitazioni, che
godono di sensazioni piacevoli e soffrono per dolori
improvvisi.
Ho realizzato, infatti, che non è così, almeno per me.
Sono loro che scarrozzano me!
Forse voi non ne avete ancora coscienza, ma siete solo
dei portinai di condomini formati da litigiosi inquilini
scontenti, in lotta con voi per i ‘loro’ diritti.
Pensavo di essere un padrone di qualcosa, del mio
corpo, della mia vita, del mio destino.
Sono soltanto un portinaio, invece, un dipendente da
licenziare, e chi comanda sono i miei organi.
Mi sovviene il vecchio apologo di Menenio Agrippa.
Forse anche lui, poveruomo, ebbe i miei incubi sulle
rive dell’Aniene: chissà se trovò un aiuto…
Aiutatemi, vi prego, e guardatevi dentro: potreste essere
ancora in tempo per una soluzione, semmai ne esista una…
La vita vera è fuori…o è dentro?...
183
SI MUORE UNA VOLTA SOLA?
“No! Ti prego, non farlo, non farlo…”
Sussurrò stranito con gli occhi sbarrati dalla paura.
Davanti a sé, nella penombra luccicante di neon pallidi
e di pioggia nel vicolo, era presente una bocca di rivoltella e
poco dietro, alla distanza di un braccio proteso, un ghigno
malvagio di una figura scura coperta da un cappellaccio che
non riusciva a nascondere un bagliore di sguardo cattivo.
“No! Ti prego, non farlo, non farlo…”
Monotono come un disco rotto, rallentato dalla paralisi
del terrore, implorante e carico di persuasione speranzosa,
stridulo nell’isteria dell’impotenza: si ascoltò mentre parlava
e si dibatteva mentalmente tra la consapevolezza del suo
essere ridicolo e ripugnate senza dignità e la speranza
d’essere convincente.
Stagnava odore di paura mescolato a quello dell’asfalto
bagnato e di spazzatura fradicia accatastata vicino a
cassonetti straboccanti.
Percepì il brillare di una capsula d’oro di quel ghigno
malevolo, e il rumore secco dello scatto del cane della
rivoltella che s’alzava sotto la contrazione delle dita.
Fu un attimo: un caleidoscopio di schegge d’immagini e
situazioni.
Avvertì lo schiocco asciutto della percussione,
l’azzannare del cane rabbioso, e fu assordato dal rombo di
un tuono e accecato dal lampo di una vampata aranciata.
Ruotarono intorno a lui lucido asfalto nero e lattiginose
presenze di luci fredde nel buio fitto.
Ancora sensazioni: una brevissima fitta dolorosa nel
costato, scalpiccio di passi lontani, pensieri incoerenti a
ruota libera al di fuori dello spazio e del tempo…
“Mio Dio, che succede ora?
Pensavo di sentire male, dolore insopportabile, e invece
un colpo brevissimo e improvviso come un pugno e poi più
nulla…
Che freddo strano: mi sento come un termosifone che è
spurgato e svuotato dell’aria…sto rilasciando calore e mi sto
184
imbevendo di freddo…ossigeno che brucia i polmoni, acqua,
aria, umidità maleodorante…
Com’è bagnata e fredda questa strada…com’è duro
l’asfalto contro il mio corpo…”
Aprì gli occhi, dopo attimi senza tempo, e rivide il vicolo.
Si rivide in piedi nel vicolo, sorpreso, poi incredulo, poi,
infine, terrorizzato nell’angoscia dell’inesplicabile.
Ebbe ancora la percezione della notte, ma in un’altra
atmosfera, come se un bravo regista con un valente
direttore di fotografia avessero adottato un nuovo filtro per
un effetto speciale di nuovi giochi di luce.
Tutto virava su un celeste azzurro algido, metallico,
quasi cromato, con infinite variazioni, dall’acquamarina
chiarissimo al blu petrolio quasi nero, in una strepitosa
variazione monocromatica, come un dagherrotipo, di quelli
vecchi ingialliti color seppia, ma di un futuro cibernetico di
alluminio anodizzato e acciai.
Si esaminò perplesso con un rapido colpo d’occhio: in
piedi, (strano, no?), di nuovo nello stesso vicolo, davanti ad
una bocca di pistola cobalto, impugnata da una figura
celestina, più scura, con un sorriso acido stampato nel
volto bieco bluastro.
‘Dejà vu’ su tonalità celeste.
Fredda: quasi asettica.
Supplicò di nuovo, considerò naturale il supplicare
come prima, sbigottito nell’irragionevolezza della situazione,
e rivisse lo stesso tormento e le stesse sensazioni del vicolo
pozzangheroso di pioggia e puzzolente d’immondizia.
Movimenti appena rallentati, quasi in un agitarsi
sott’acqua, aria appena meno mossa, velocità ridotta di
reazioni, suoni, colori, odori: già, odori…
Odore d’ozono a bruciare la gola e gli occhi lacrimanti
stille celesti fredde d’incomprensione sgomenta.
Udì lo sparo, di nuovo, come prima, con un’eco
immensa a squassare corpo e tensione, e scorse l’attimo
della vampata, stavolta di metano verde, dalla bocca di
fuoco, e il ghigno solito, e si riaccasciò inerte in confusione
d’idee.
185
“Che mi sta succedendo? Non ero già morto? Quanto
tempo è trascorso? Perché questa seconda morte in questo
nuovo mondo di dimensione tutta celeste? Perché nessun
dolore fisico, ma accresciuta angoscia interiore?”
Seppe, lo sentì intimamente, mentre si arrovellava con
domande e supposizioni, che avrebbe potuto riaprire gli
occhi: i bulbi oculari fremevano nelle orbite come in un
nuovo stato REM, un nuovo incubo.
Si scoprì a fissare nella mente un concetto non molto
divertente: un nuovo incubo.
Contò mentalmente fino a tre e spalancò gli occhi,
pronto ad ogni evenienza, ma tutto fu oltre ogni attesa: si
guardò intorno sforzandosi di non urlare.
Fucsia. Lampone. Vinaccia. Lilla. Porpora. Viola.
Rivolse lo sguardo atterrito verso il vicolo conosciuto,
nuovo vicolo come un tramonto purpureo di “Via col vento”
con un acciottolato innaturale color mirtillo e una luce
violacea come di cattedrale, come filtrata da vetri
pregevolmente lavorati da valenti artigiani.
Fu preso dal panico per l’incomprensibile e curiosità per
l’impossibile da definire.
Percepì odore di marmellata, dolciastro, di vaniglia,
forse di sangue fresco, anche stomachevole, in una realtà
immutata se non nel colore e nelle sue tonalità di colore.
Immutata.
Già.
La vide prima con gli occhi della mente e poi verificò con
le pupille dilatate: la stessa rivoltella spianata su di lui,
stavolta rossa, e uno sguardo viola, come quello della
locandina di “Hannibal”, luccicante d’odio con un sorriso
assomigliante a quello di un vampiro assetato di sangue.
Si ascoltò ancora una volta supplichevole, convincente
in modo fallimentare.
Velocità variabile, a scatti, nevrotica, delle preghiere e
del susseguirsi di scene già viste: il cane alzato ancora una
volta, lo sparo secco, la vampa nera come uno sbuffo di
fuliggine da una caldaia di vecchia locomotiva a vapore, il
cadere in un limbo senza colore, forse ancora per poco, in
un confondersi di passi e odori che si dileguano come i
186
colori, tutti risucchiati da un’invisibile cappa di grande
cucina d’albergo che ronza confusamente nei sotterranei.
Nel buio dei suoi occhi chiusi seppe che avrebbe veduto
qualcosa di diverso ancora ed ancora e pensò con
raccapriccio che quell’incubo sarebbe stata la sua
condanna eterna per la sua vita dissoluta (quale vita?
Quella multicolore, quella celeste, quella rossa? E quanto
durano queste vite? E per quali finalità?).
Si trattenne dal riaffrontare una nuova luce
sconosciuta: si cullò un attimo in più nella pace del silenzio
buio senza odori dei suoi occhi chiusi.
Anche stavolta perdette la nozione del tempo e
dimenticò: eoni, anni, anni luce, parsec, secondi, attimi…
Si limitò a considerare dentro di sé, ormai rassegnato,
che era trascorso del tempo.
Percepì la presenza di qualcuno davanti a sé e si
preparò ad affrontare il suo nuovo incubo.
Riaprì gli occhi ed ebbe davanti a sé un mondo verde
dal muschio alla palude allo smeraldo all’acqua di un mare
mosso e sporco in un odore d’alghe, d’erba tagliata fresca
che stordiva.
La luce irradiata di questo nuovo inferno era come
quella di una sala operatoria sfalsata dai numerosi camici
verdi cerati d’infermieri e chirurghi.
Associò nel verde i pericoli di un’intricata foresta
sconosciuta piena di strida e di rumori di animali allertati
per la caccia o la difesa.
La mente fu invasa da giganteschi iguana, ramarri,
camaleonti dalla lingua saettante e dagli occhi
mostruosamente indipendenti…da silenziosi mamba in
attesa acciambellati tra rami nascosti da foglie e foglie di
tante tonalità di verde, chiari, scuri, cupi, brillanti, freddi di
brina e rugiada stillante come lacrime di solitudine.
Lo vide ancora una volta, il suo carnefice: verde come
un basilisco o una malvagia creatura di un bosco di fiabe
per adulti.
Non rideva stavolta.
Si lasciò cadere in ginocchio fissandolo e singhiozzò
verso la sua rivoltella diretta contro il suo viso:
187
“Pietà, ti prego! Che sta succedendo? Quanto durerà
questo inferno?”
L’essere armato parlò con voce grave.
“Sta per finire, non avere paura. Anche i fantasmi
devono morire, prima o poi…”
Percepì lo sparo e in un attimo vide il viso del suo
giustiziere, serio stavolta, e girovagò nei meandri della sua
mente alla ricerca d’ultime intuizioni e risposte cadendo
senza alcun dolore nel verde sempre più cupo.
Ebbe l’ultima immagine di una vampa rossa e l’ultima
percezione di un odore di prato bagnato.
Poi una sensazione cullante di pace e di serenità che
affievoliva sempre di più.
Poi il nulla.
Anche i fantasmi devono morire, prima o poi…
188
LA POLTRONCINA N.123
“Al fuoco! Al fuoco! Sta bruciando il Lux! Accorrete,
presto!”
Lingue di fuoco serpeggiavano oltre i tetti della piazza
verso il cielo nero della notte e l’aria era piena di pulviscoli
di cenere che si diffondevano vorticosamente su tutto il
paese tra la concitazione della gente che accorreva verso il
cinematografo per dare una mano, curiosare, vedere la fine
dell’evento. Dopo diversi minuti accorse l’autopompa dei
vigili del fuoco della vicina città, a sirena spiegata, ed il
brusio divenne un urlo liberatorio: “Eccoli, eccoli: ma forse
sarà tardi, sta bruciando tutto e cominciano a crollare le
travi del tetto!” I vigili, efficienti ed indifferenti al dramma
del paese, indirizzarono le loro pompe sul fabbricato e
diressero gli scrosci d’acqua dove pareva che il fuoco avesse
fatto più presa. Domarono le fiamme verso l’alba e tutto
quello che rimase della sala cinematografica fu solamente
un cumulo di macerie bagnate fumiganti circondate da
ormai pochi curiosi nottambuli e da qualche passante che
si avviava al lavoro.
Tutto questo ieri.
Il mio paese è proprio quello che si può definire in uno
stereotipo documentaristico “una ridente e gaia località
dell’entroterra abitata da gente operosa e schiva, ricca di
interessanti spunti artistici e di meravigliosi scorci
paesaggistici.”
Mi piace il mio paese, tranquillo seppure a pochi
chilometri dalla città. C’era tutto anche cinquant’anni fa: il
cinematografo, il negozio di dischi, la biblioteca, piccola e
ordinata, il negozio di abbigliamento con sfizioserie alla
moda, il meccanico carrozziere che riparava anche le moto,
e tanti altri negozi e servizi che rendevano piacevole e
comoda, nel sapersi accontentare, la vita. Certo, ho saputo
che oggi c’è addirittura il negozio dei telefonini e il centro
servizi informatici, ma anche allora non ci si poteva
lamentare ed io lì ho vissuto per ventidue anni con la mia
mamma, che Dio l’abbia in gloria, dal 1944 al 1966.
189
Abitavamo in un vicolino a ridosso del centro del paese
dietro la chiesa seicentesca di S.Venanzio in un piccolo
appartamento in tufo a piano terra con un cortiletto
antistante piantato a rose e salvia: un quadretto idilliaco
per noi due, soli purtroppo, in quanto mio padre, mai
conosciuto, era ancora disperso in Russia. Mia madre
lavorava come una schiava e faceva le pulizie per le scuole
materne, la panetteria e presso due o tre famiglie, le più
abbienti del paese. Sopportava pazientemente i capricci del
destino e i suoi dolori di angina che a momenti inattesi la
facevano soffrire con smorfie di dolore. Io studiavo e non
avevo tanti grilli per il capo, se non una incontenibile
passione per il cinema.
Trovavo il modo di intrufolarmi al Lux ogniqualvolta
cambiava il programma, con la pioggia, il sole, il caldo e il
freddo, sia che avessi finito i miei compiti o fossi rimasto
indietro, sia che avessi qualche spicciolo o che fossi in
bolletta. Ho visto tantissimi films, d’avventura, del terrore,
d’amore e di fantascienza e tutti mi sono rimasti impressi
nella memoria insieme al giorno in cui li ho visti per la
prima, ma anche seconda o terza volta. Entravo tra i primi,
al primo spettacolo, e mi piazzavo al mio posto, sempre
quello, in fondo alla sala con stucchi ingialliti e tende logore
color vinaccia: la poltroncina 123, la penultima dell’ultima
fila a sinistra. Aspettavo senza fretta lo scorrere delle
diapositive pubblicitarie, allora non c’erano ancora i piccoli
cortometraggi, guardavo con distrazione il cinegiornale, la
“Settimana
Incom”,
mi
facevo
più
attento
ai
“prossimamente” e mi immergevo in un altro mondo
dall’inizio dei titoli di testa della pellicola fino alle musiche
struggenti della fine.
Ne ho viste tante! Ho cominciato a frequentare il Lux
verso i dieci anni ed ho riso con Totò e con Sordi in bianco e
nero, ho pianto con Visconti e sono rimasto senza parole
con Fellini. Ah, le emozioni dei films di Val Guest: “I vampiri
dello spazio”, “L’astronave atomica del dottor Quatermass” e
il mio Dracula preferito, Cristopher Lee, quello alto alto, e
quel grande istrione, Vincent Price ne “La maschera di
cera”! Non tralascerò poi i polpettoni storici della serie di
190
Ursus e di Maciste: erano avvincenti, ma scomparvero come
stupidaggini senza importanza quando entrarono in scena
gli americani: “Ben Hur”, “Cleopatra” ed altri ancora,
colossali, anzi ‘Kolossal’ secondo le cronache d’allora. Poi
vennero i primi films psicologici di Antonioni, sociali di
Bellocchio e Germi, e la commedia all’italiana, e si cominciò
a far spazio la cinematografia inglese
e francese,
quest’ultima relegata ad un ruolo marginale fino allora con i
soli films di Jean Gabin e di Renoir.
Per fare breve il discorso, dirò che ho visto tutto quanto
era possibile vedere al cinema del mio paese, senza perdere
uno spettacolo, anche a dispetto dei divieti ai minori, e che
la mia passione, andando avanti negli anni, si trasformò
sempre di più in monomania. Mia madre mi rimproverava,
ma senza forze, ed io, che nel frattempo avevo smesso cogli
studi, arrivai ai miei diciotto anni facendo lavoretti saltuari,
aiutando mia madre, e non perdendo mai una prima al Lux
al primo spettacolo seduto su quella scomoda e dura
poltroncina di legno in ultima fila.
Quello che accadde nel novembre del 1966 cambiò
radicalmente le mie concezioni su ciò che è l’esistenza.
Mia madre non stava molto bene, ormai ingrigita dagli
anni e dalle fatiche, ed un giorno mi chiese, mentre uscivo,
di portarle delle gocce che aveva ordinato al farmacista, un
nuovo ritrovato per la sua angina che la tormentava sempre
più spesso. Non ricordo bene ciò che le risposi perché
avevo i miei pensieri rivolti altrove: al Lux. Il figlio del
proprietario del cinema era subentrato al padre nella
gestione della sala ed era entusiasta del suo lavoro a tal
punto che aveva progettato, sullo stile di alcuni cinema
d’essai della città, una volta a settimana, una
programmazione tematica di quattro pellicole diverse per
quattro spettacoli, films non recenti, a basso costo di
noleggio quindi, ma di qualità, inerenti una tematica
particolare, fantascienza o dramma sociale o altro, oppure
un omaggio ad un grande maestro o attore del cinema. Per
quella
disgraziata
settimana
era
prevista
una
programmazione che avrebbe avuto come comune
denominatore Bette Davis. Si sarebbero tenuti solamente
191
tre spettacoli, invece di quattro, per l’indisponibilità
dell’operatore alla cinepresa e la prima proiezione sarebbe
avvenuta alle ore 17. Che peccato! Mi consolai pensando al
valore dei tre titoli: “Eva contro Eva”, “Che fine ha fatto
Baby Jane?” e “Piano, piano dolce Carlotta”: tre capolavori
da rivedere molto più che volentieri!
Mi avviai a passo deciso verso il cinema.
Eravamo quattro gatti, i soliti sfaccendati, il nostalgico
di Bette Davis, ed io, il cinefile, l’amante del cinema per il
cinema, sempre solo nella mia poltroncina 123 in fondo,
nella penombra delle luci abbassate, ma non ancora spente,
in infantile frenesia nell’attesa dello spettacolo. Vidi tutte e
tre le proiezioni e dimenticai ovviamente l’incombenza della
commissione per mia madre. Non sto qui a commentare
quelle immagini, quella fotografia in bianco e nero, quelle
musiche avvincenti e quella recitazione superba: non ne ho
più voglia da allora…
Ritornai a casa verso tarda sera accompagnato dallo
sferragliare della saracinesca del cinema che la maschera
ormai tirava giù per la fine della giornata. Ero spensierato,
purtroppo, ed ancora annegato nelle atmosfere tragiche e
drammatiche delle tre vicende che avevo rivissuto da
spettatore appassionato per un’ennesima volta. Aprii l’uscio
di casa e ebbi la folgorazione che avevo dimenticato
qualcosa che mi aveva detto la mamma… sì, la medicina
per la sua angina! Povera mamma, pensai, la prenderò
domattina presto. Camminavo a passi leggeri per non
svegliarla: era tutto buio. Inciampai in qualcosa di
imprevisto; accesi allora la luce e vidi il corpo di mia madre
a terra, con il volto tirato in una smorfia di dolore e gli occhi
sbarrati in un’espressione di sofferenza. Gridai aiuto,
chiamai i vicini, scossi il corpo della mia vecchia per cercare
di rianimarlo e la coprii di baci e parole senza senso dettate
dall’emozione e dalla consapevolezza di averla perduta per
sempre. Nello scoprire che non era più, fui pervaso da un
gelido senso di rimorso e di rimpianto: forse era stata colpa
mia, forse tutto si era verificato per la mia negligenza!
I vicini accorsi avevano chiamato il medico.
192
Il buon uomo cercò di rincuorarmi: “Era inevitabile,
prima o poi, sai? Probabilmente avrà sofferto molto poco. Sii
forte e cerca di pensarla felice e libera da quel peso al
petto.”
Non ricordo più cosa accadde nelle ore successive: mi si
affastellano alla mente immagini spezzettate di vicini
consolatori, del medico, dell’ambulanza che portava via mia
madre, del silenzio della mia casa, del buio e della mia
solitudine. Ero distrutto e sconvolto per l’angoscia del mio
futuro da solo e per quel tarlo che rodeva il mio cuore: avrei
potuto salvarla ed ero al cinema. Diventano ora più nitide le
immagini. Girovagai senza meta per tutta la notte e l’alba
mi trovò piangente ed infreddolito sul cavalcavia della
circonvallazione del paese mentre si spegnevano le luci del
distributore di benzina giù in basso ed il sole cominciava a
baluginare da dietro il colle sovrastante il paese. Ero fuori
di me, come lo può essere un figlio molto unito alla madre
cui ha appena fatto un torto. Nel rimescolio tormentato dei
miei pensieri, sconclusionato e privo della freddezza
necessaria in tale occasione, ricordo che improvvisamente
mi lanciai nel vuoto dal parapetto del cavalcavia, senza una
parola e senza un’emozione. Avvertii un forte colpo alla
testa e riuscii a percepire, solo per un attimo, un rumore di
pane raffermo che si spezza; poi il buio ed il silenzio in
un’incosciente, anch’essa per un attimo, sensazione di una
carezza calda sul mio viso: il mio sangue che colava dalla
testa schiacciata.
Poi più nulla.
Come si può definire nel mio stato la cognizione del
tempo?
Trascorsero attimi o secoli, non lo so, ma dopo, e dico
solamente dopo, sentii un rumore indistinto, sembrava il
rombo di una cascata, od un tuono, e stentavo a
riconoscerlo. Aprii gli occhi e notai tutto intorno a me una
nebbiolina spessa e fredda, lattiginosa, che sul cavalcavia
non c’era. Mi guardai le mani e mi tastai il corpo e la testa:
avevo le mani verdastre dalla pelle avvizzita e umida ed
individuai subito la deformazione del mio cranio,
semiaperto fin sopra l’occhio sinistro, rinsecchito e, strano
193
fenomeno, senza sangue nonostante l’ampio squarcio.
Avvertii una sensazione di tranquilla sorpresa e capii di
trovarmi nel metafisico, in un ambiente al di fuori di ogni
immaginazione mentre quel rumore di tuono o cascata
assumeva distintamente la tonalità di una voce possente e
penetrante.
“Vigliacco! Hai voluto sfuggire il rimorso nel più ingiusto
dei modi. Pensi che la tua misera vita abbia compensato
anni di sofferenze e di delusioni che tu, prevalentemente
solo tu, hai arrecato a tua madre?”
Si materializzò dalla nebbia in un piano sibilare di refoli
d’aria gelida l’immagine di mia madre, grigia, muta che mi
guardava tranquilla con due occhi sereni, ma accusatori.
Avrei voluto correre da lei, abbracciarla, gridarle tutto il mio
amore ed il mio dispiacere doloroso, ma non potevo… mi
sentivo legato, anzi inchiodato al mio posto. Mi guardai
intorno e, nella nebbiolina che si diradava, distinsi un
ambiente a me familiare semibuio con un odore
caratteristico di fumo, detersivo forte e celluloide: il Lux!
Mia madre scomparve nel nulla e rimasi solo io, spettro
invisibile ai vivi, nella sala cinematografica che era stato il
mio rifugio e la mia essenza della gioia di vivere.
Avvertii dolori lancinanti ai polsi e alle caviglie
rinsecchite: ero fissato con grossi chiodi rugginosi di
cantiere ai braccioli ed alle gambe della mia poltroncina di
legno, la mia solita poltroncina da vivo, la 123, e non potevo
assolutamente muovermi, compresso anche dallo schienale
rigido che rendeva il sedile veramente scomodo: ora che ero
costretto in una posizione statica notavo la differenza. Dai
fori dei chiodi ai polsi, e presumo anche dalle caviglie che
non potevo vedere, non fuoriusciva sangue. Vedevo
distintamente i tendini che, scoperti, insieme ai muscoli
della mano e alla carne, erano diventati scuri, marrone
scuro, e a contrasto con la mia pelle verde rinsecchita
davano alle mie braccia e alle mie mani una fisionomia di
mostro di palude… “Il mostro della palude nera” mi scoprii
a citare. Le capocchie schiacciate dei grossi chiodi
comprimevano le mie membra sulla superficie di legno della
poltroncina e non avevo possibilità di muovermi: i miei
194
tentativi goffi di schiodarmi, con rotazioni dei polsi e leve
tra gambe e schiena contro il sedile mi procuravano fitte
atroci alle carni già martirizzate. Potevo girare solamente la
testa ed osservare l’ambiente circostante: il mio caro cinema
deserto e semibuio con i fregi più grandi nella prospettiva
della penombra e le tende più scure ed immobili. Questa
possibilità di limitato movimento mi sembrò quasi un
lenitivo rispetto alla situazione dolorosa e pensai che, dopo
tutto, la mia penitenza per le mie colpe, se tale era, era
fisica e non assoluta.
Come mi sbagliavo!
Risuonò la terribile voce di prima, molto prima,
poc’anzi, non so: il tempo aveva cessato di esistere.
“Espierai in ciò che ti è stato più caro, più caro di tua
madre, e perderai il senso di ciò che per te era più
significativo, e solamente quando avrai ben chiara nella tua
percezione la sproporzione che hai dato ai valori della tua
vita senza meriti, potrai conoscere la pace eterna dello
spirito.”
Furono colpi di maglio quelle parole, colpi che
affossarono ancora più profondamente i miei resti in quella
poltroncina, con i chiodi che premevano e procuravano fitte
lancinanti lacerandomi la carne ed i nervi già scossi dalla
mia riconosciuta colpa. Una forza invisibile mi immobilizzò
la testa devastata rivolgendola verso lo schermo della sala
ed artigli, uncini invisibili, mi strapparono le palpebre dagli
occhi striandomi luminosamente il cervello di un dolore
indicibile. Cercai di urlare, ma nessun suono uscì dalla mia
bocca storta ed udii soltanto le pulsazioni del mio dolore
che battevano e battevano sullo squarcio della testa. Ristetti
lì per qualche tempo, inviso a me, ed invisibile al mondo
dei vivi.
Nei giorni appresso ebbi modo di capire che il mio sedile
appariva ora chiazzato di qualche sputo o macchia di
gelato, ora scheggiato o con qualche chiodino sporgente: la
poltroncina 123 rimase sempre vuota, non occupata da
alcuno, amante del cinema o sfaccendato. Giorni e giorni
trascorsero in un susseguirsi di proiezioni e in un alternarsi
di spettatori, alcuni vicinissimi a me, che parlavano tra loro
195
dei fatti loro, commentavano, si emozionavano e si
immedesimavano
nelle
vicende
delle
innumerevoli
proiezioni. Percepivo i palpiti e l’angoscia dei miei vicini
nell’assistere a scene drammatiche e captavo il loro
buonumore di fronte a situazioni esilaranti e positive.
Alla prima proiezione, dopo la condanna senz’appello di
quella voce roboante, pensai, con una piccola perfida gioia
meschina, tutta da vivo, con la logica del vivo, che le mie
sofferenze, tutto sommato fino ad allora solo fisiche, si
sarebbero stemperate nella curiosità ed interesse per i
nuovi spettacoli che avrei dovuto presenziare forzatamente.
Ma ancora una volta mi sbagliavo, e me ne resi conto in
avvenire, al punto tale che ho riveduto completamente il
mio metro di giudizio sul concetto dell’estetico assaporare la
vita tramite la cinematografia.
Sono rimasto inchiodato come un’anatra per molto
tempo ed i miei tessuti invisibili agli altri fuorché a me
stesso si sono deteriorati progressivamente in una figura
purulenta e fetida, sempre vigilato da un continuo dolore
fisico – che contraddizione di termini, vero? – che mi ha
percorso l’intimo come una scarica elettrica o un taglio
lento di lamiera rugginosa come i miei chiodi. Questo è, e lo
ripeto, il mio contraddittorio supplizio fisico per la mia
entità assolutamente spirituale, ma un ben altro martirio
mi ha sconvolto la mente procurandomi atroci fitte al
cervello già provato molto tempo fa: mi ha straziato, più di
tutto, il cinema, certo cinema, sempre più deteriore e
commerciale, banale e volgare, disimpegnato e velleitario.
Sono stato costretto, ho dovuto assistere a proiezioni
indegne che, nello scorrere del tempo, si sono susseguite
come parodie di capolavori, scimmiottamenti di pietre
miliari nella storia cinematografica. E queste pellicole sono
scese a livelli sempre più beceri ed escatologici in un
crescendo di volgarità gratuita di linguaggio ed in una
crudezza di immagini che hanno debellato la forza
dell’immaginazione con rutti, scoregge ed ammiccamenti del
peggiore avanspettacolo di rivista di quart’ordine. Il buon
cinema di una volta si era rarefatto al Lux ed il buon film
spiccava come una gemma, nella sala semivuota, tra altre
196
proiezioni di basso valore che trascinavano verso il fondo
anche la sensibilità del pubblico. Anche i presenti erano
contaminati dalla malata inventiva dei nuovi registi e dalla
rozzezza dei nuovi attori ed il livello qualitativo del pubblico,
da un punto di vista di educazione cinematografica,
scendeva di giorno in giorno con commenti ad alta voce,
risa sguaiate e disamore che tradiva una semplice fruizione
di un prodotto per passare il tempo senza alcuna
motivazione. Il proprietario della sala, quello che aveva
organizzato quelle splendide sedute d’allora, fiutò il vento,
da buon animale commerciale, e si adeguò ai gusti della
massa. Il vecchio fascinoso cinema d’essai venne sostituito
da ‘maratone’ di pellicole tagliate in malo modo per
prendere più spazio, accavallate l’una all’altra in una babele
di situazioni pecorecce e squallide alle quali partecipava
anche qualche bravo attore, mio vecchio idolo, ora in
disarmo.
L’antico dolore dei vecchi chiodi su quella che ora mi
appariva una massa putrescente indistinta era ormai poca
cosa rispetto al montare dell’indignazione, della delusione e
del senso di schifo che il mio cervello provava
quotidianamente nel vedere abbraccicamenti di servette con
vecchi satiri, violenza gratuita per il gusto di schifare e
pseudo-ideologia venduta come verità di vita assoluta,
tradotta in situazioni grottesche e senza senso in un
intercalare di ‘stronzo’, ‘vaffanculo’, ‘bella figa’ ed altro
ancora tra peti e cagate, stupri e stragi in un mare di merda
e sangue che hanno violentato ed ucciso l’arte, la poesia, la
vita stessa.
Ho dovuto subire un castigo atroce, con le palpebre
asportate per vedere obbligatoriamente tutto quello che
scorreva sullo schermo, immobile e scomodo, straziato nel
mio essere anche da colonne sonore vuote, sparate sui miei
timpani da un nuovo sadico operatore. Ho dovuto
memorizzare, come prima, ben altri titoli e situazioni e
vicende. Per un “Decameron” di Pasolini, forse un gesto di
pietà del mio giudice, mi sono dovuto sorbire una teoria di
bagasce col prurito vaginale, uno stuolo di stupidi cornuti
con la diarrea e fratacchioni gaudenti e tante altre
197
piacevolezze in un sottofondo di musichette insulse da
caserma piene di doppi sensi. Ho goduto di altri gesti
misericordiosi ed ho partecipato alle atmosfere piene di
dolore di “Grazie zia” di Samperi, e poi ho dovuto
soccombere nella rassegnazione piena di astio di fronte a
plotoni di zie, nonne, in sottoveste, nude, cellulitiche e
volgari con nipoti odiosi e brufolosi, repellenti nel fisico e
nel comportamento. Avevo apprezzato Totò e la prima
commedia all’italiana rispettosa del vivere civile e civile
nella sua rappresentazione ed ora sobbalzavo nell'assistere
a squallide situazioni di periferia urbana, forse anche vere
nella realtà quotidiana della vita, ma girate con svogliatezza
e con quell’ammiccamento ed invito disgustoso al ridere per
ridere nel vedere un culo flaccido o un’erezione mancata
con conseguenti maledizioni in brutale lessico.
Questa era la mia vera punizione e a poco a poco ne
presi coscienza e dai miei occhi vividi senza palpebre
colarono sempre più frequentemente calde lacrime salate
che bruciavano sulle mie ferite ed acuivano la mia
sofferenza.
Poi una sera la catarsi, la purificazione definitiva.
Non so quanto tempo sia trascorso: ho smesso ben
presto di contare i giorni sopraffatto dal dolore e dalla
costrizione su quella poltroncina 123.
Le pellicole si
susseguivano alle pellicole in un cicaleccio nella sala
sempre più maleducato ed io friggevo nella mia postazione
sperando, pregando e sperando.
Una sera, finalmente, e lo dico partendo da due
considerazioni distinte, terminò l’ultima proiezione e
terminò il mio castigo. Nella penombra della sala ormai
vuota si smaterializzarono nel nulla i chiodi, all’improvviso,
e mi sentii libero: mi guardai i polsi e mi sporsi per vedere
lo stato delle mie caviglie, ma distinsi solamente un’aura
bianca e lattiginosa come quella nebbiolina di tanto tempo
prima. Il dolore era scomparso di colpo e non avevo più la
percezione della testa squarciata e degli occhi senza le
palpebre. Mi abituai subito alla nuova condizione e vidi me
stesso come ero, integro e sano, in una luce fievole. Ero
pervaso da una calma olimpica come se tutto quello che
198
avevo sopportato non fosse mai accaduto e vidi da lontano
la mia vecchia mamma , anch’essa ora trasformata in una
pallida aura bianca, che veniva verso di me tranquilla e
serena. S’accostò a me, radiosa ed eterea e mi indicò con
un sorriso un mozzicone acceso, tre seggiolini più in là del
mio scranno di tortura. Ebbi la folgorazione del supremo
volere e le contraccambiai il sorriso con immutabile affetto e
con la frenesia interiore, smodatamente felice, del mio
prossimo affrancamento.
Mi chinai verso quella piccola brace fumante che si
distingueva nel buio tra carte di gelato e fiocchi rinsecchiti
di pop-corn e presi quella cicca con delicatezza. Mi avvicinai
al pesante tendaggio lungo il lato della sala ed accostai il
mozzicone al tessuto polveroso. Nel silenzio della sala vuota
udimmo il sottile sfrigolio della cenere ardente che mordeva
la stoffa e distinguemmo un cerchietto nero orlato da una
fiammella che si allargava velocemente scoppiettando in
una voluta di fumo azzurrino. Il cerchio si sformò in varie
direzioni e la fiammella si moltiplicò in lingue impertinenti
ed invadenti che si sparsero per tutte le direzioni: la tenda
oltraggiata ondeggiò, toccò e fece partecipi le altre tende
della sua sventura, poi, a brandelli roventi e fumanti, cadde
sopra la fila di seggiolini davanti a quella del mio 123: uno
scoppiettio, uno sfrigolare più intenso ed un acre fumo di
legno stagionato.
Allora partimmo, abbracciati ed uniti come un unico
essere, mia madre ed io, senza più rimpianti e rimorsi per
esistenze che si potrebbero configurare in un film, forse
bello o forse insignificante, ma vissuto con tutta l’anima.
Tutto questo ieri.
199
LE STRAORDINARIE DISAVVENTURE DEL MIO AMICO
LEOPOLDO
Sono rimasto profondamente influenzato, da giovane,
nel leggere un particolare piccante sonetto del Belli, il libro
“Io e lui” di Alberto Moravia e ancora quei fumetti molto
stilizzati di Willy della serie “Il mio migliore amico”.
Ho successivamente improntato i miei rapporti
personali con la mia “attrezzatura di piacere” ad una
amichevolezza colloquiale venata da affetto e complicità
buffamente antropomorfe.
Ho cominciato subito con un battesimo ed un solo
nome mi è venuto spontaneo e perfettamente attagliante:
Leopoldo.
Leopoldo è un nome elastico, accorciabile con graziosi e
leziosi diminutivi, ed è anche un nome importante che
rende l’idea di una presenza che può contare e dire la sua
in ogni momento: è un nome forse impropriamente quasi
onomatopeico, per come lo si possa pronunciare, evocativo
dell’ aspetto fisico associato al nome stesso.
Si può partire da un normale Poldino o Poldo ad
indicare una creaturina simpatica ed indifesa che dorme,
un Poldino che evoca tenerezza, carnalità rosea da puttino,
odore di borotalco e immagini di innocenza.
Si può proseguire ad indicare aspetti subdoli di una
personalità contorta: Leo, irrisolto, scandito come una
fucilata di altolà, ad evocare un essere guardingo indeciso
se tornare a dormire il sonno dell’innocente o attaccare
briga più o meno insolentemente e tuffarsi nei gorghi del
piacere della vita.
Chiamato Leo, il mio migliore amico si barcamena
nell’eterna indecisione tra il dire e il fare, tra il comportarsi
da cicala o da formica, tra il rivelarsi allegro compagno di
bisboccia o esangue poeta spiritualista.
Leo è eternamente a metà strada con un piede
(perdonate l’arditissima metafora) su due staffe tra la
pigrizia sonnolenta e il voler fare tanto con (è il caso di dirlo)
dura attività.
200
Si può ancora variare finendo di chiamare il mio
migliore amico con il nome importante delle grandi
occasioni: Leopoldo, scandendo bene le sillabe con voce
stentorea che annuncia il presentarsi di una figura altera e
importante che può e deve suscitare ammirazione e timori
(ma non è detto che ciò possa sortire un effetto automatico).
Quando chiamo il mio amico con il nome di Leopoldo,
con il nome per intero e calcando l’accentazione sulla ‘o’ di
mezzo appena più aperta del normale, omaggio la fierezza e
la nobiltà dei ‘bassi’ intenti, la generosità e l’entusiasmo per
la vita e per ciò che è vitale, ed il mio amico sembra
compenetrato nell’onere della sua mansione e si pone in
posa impettita di maestoso aspetto, almeno fino a che non
prevarrà su di lui, come su tutti, il tempo perfido e tiranno
o una più semplice risata di scherno o disprezzo di
estimatrici di ben altre individualità.
Perdonate il dilungarmi su una banale presentazione,
ma l’affetto nell’amicizia fa tracimare in logorrea che,
peraltro, può rendere simpatico il mio amico e può rendere
più agevole una sua identificazione nell’ambito della
rievocazione di certe sue disavventure occorse tempi
addietro.
Circa venticinque anni fa…
DI QUANDO LEOPOLDO VENNE ACCECATO
RIPETUTAMENTE
Qualche dotto medico trasalirà di un certo malsano
piacere nel leggere la citazione di una infezione da
“staphilococcus àureus”, il volgare e subdolo italianizzato
stafilococco della famiglia di quei cocchi dalla forma
vagamente a grappolo che ha sintomatologie variabili e
diverse localizzazioni.
Quello di cui fui affetto io, ‘àureus’, si localizzò presso il
mio amico e ci tenne per diversi mesi in ambasce con
fastidiose manifestazioni che si ripercossero come un
maglio sul capino del povero Poldino riducendolo ad uno
201
stato pressappoco lombricaceo in un deserto di congetture
apprensive che soffocarono i cattivi pensieri goderecci.
Svolazzai come ape, di fiore in fiore, ma molto meno
felice e compensando con l’Enterogermina, assaggiando
varie assortite qualità di antibiotici prescritti da un bonario
anziano urologo, ma non si riuscì a trovare il bandolo di
questa perfida infezione che non dava dolore, ma inibiva me
ed ancora di più Poldino, rispetto a naturali pratiche che
alla luce dell’affezione si rivelavano imbarazzanti.
Trascorse un’estate, la stagione migliore per fortificare
lo spirito ed il morale del mio amico, nella più completa
casta malinconia, con un Poldino sempre più smorto e
depresso, e sopraggiunse l’autunno che portò i primi freddi
e le prime bronchiti.
Fui avido dei primi e delle seconde e curai quest’ultime
con un nuovo antibiotico che miracolosamente e
casualmente mi rimise a nuovo i bronchi e anche gli slip.
Ci guardammo, dopo qualche giorno dell’ennesima
cura, come due naufraghi in vista di un’isola, Poldino e io,
ma aspettammo giudiziosamente di festeggiare al dopo di
una visita di controllo presso il bonario anziano urologo.
Era, costui, un candido vecchietto severo e poco alto
con un’aria di mitezza assoluta.
Ci facemmo esaminare con trepidazione e malcelata
soddisfazione del buon esito di questa cura casuale e
interrogammo il vegliardo, io a voce e Poldino, quasi Leo,
con un rinnovato colorito roseo di speranza ed un
monosguardo curioso.
“Allora ce l’abbiamo fatta, dottore? E’ finito questo
calvario finalmente…”
“Calma, calma: siamo a metà strada…:l’infezione ha
sformato il condotto uretrale ed è nostro compito porre
rimedio…”
Mi fece sdraiare con i pantaloni a mezz’asta, sempre
innocuo, mite e candido, su un lettino con una strana
vaschetta in zona tattica, e si girò, dandomi le spalle, verso
un carrellino.
Sentii uno sferragliare di attrezzi e fui pervaso da un
certo senso di inquietudine.
202
Leo ridiventò velocemente Poldino e si fece piccolo
piccolo a nascondersi come un tremebondo criceto sotto
una foglia di insalata.
Si girò, il vegliardo luminare, e mi diede l’impressione
che avesse mutato impercettibilmente espressione, appena
più dura, con un sorriso forse vagamente monnalisico senza
particolari significati.
Aveva in mano un tubettino di pomata di nome Uretral.
Per chi non sa: l’Uretral è una pomata in tubetto che si
applica in zona genitale in presenza di infiammazioni
all’uretra, come può presumersi dal nome stesso. Il tubetto
è provvisto di cannula che dovrebbe essere inserita nel
condotto uretrale. Dico ‘dovrebbe’ perché non ho mai avuto
il coraggio di spingere questa cannula per più di tre o
quattro millimetri in occasione di una precedente uretrite…
L’anziano urologo afferrò a tradimento Poldino che
cercava di mimetizzarsi da foruncolo e inserì al brucio
(proprio al brucio) la cannula strizzando il tubetto.
“Dovrebbe fungere vagamente da anestetico” mi disse
con voce sempre più severa e impersonale mentre estrasse
dalla tasca del camice un gigantesco mollone in ferro.
Prese Poldino per la collottola (che c’è da ridere?) e lo
murò vivo nella sua pelle brancandolo con il mollone che
aveva denti voraci e molla molto funzionante e
dolorosamente costringente.
Non riuscii a sentire le reazioni di Poldino, Dino a
questo punto, forse Ino, in piena overdose di crema uretrale
forse anestetica: gemetti io, anche per lui, mentre il laido
medico mi ridiede le spalle e disse perentoriamente di stare
fermo mentre grufolava tra altri ferri strani.
Cominciò una sudarella innaturale per il mese di
novembre: spacciarla per sudore di commozione per il
giorno dei morti trascorso da poco mi parve irrispettoso.
Era proprio e solamente strizza, paura, inquietudine,
timore.
Il candido mostrino si rigirò verso di me con un ferretto
da calza ricurvo…
203
Presagii il giusto con qualche chilo di pere ruggine di
sudore che colavano dalla fronte e tremai per il mio povero
lombricriceforuncolo Dino ormai esangue.
Il vegliardo tolse di colpo il mollone di ferro che aveva
sbranato tessuti come una chiusura lampo tirata su troppo
di fretta e attese una frazione di secondo per dare una
sadica illusione di benessere nello stordimento psichedelico
uretralico in pomata da spaccio in discoteca dietro
l’ospedale.
Dino si sentì riavere, come me del resto, e aprì l’occhio
lacrimoso, forse per individuare un cameriere e ordinare
due birre, ma il perfido urolocanuto lo brancò a tradimento,
sempre per la collottola, e lo accecò all’istante con il ferro da
calza.
Seppi che il ferro da calza era una specie di catetere, ma
non seppi apprezzare in quel momento l’ampliamento della
mia conoscenza con il sordido vecchio che rigirava il ferro
poggiandosi su di me in maniera da tenermi abbastanza
immobilizzato sul lettino con la vaschetta strategica. Capii
istantaneamente a intuito il perché della vaschetta, ma
strenuamente feci resistenza con il cervello invaso da
immagini eroiche di Enrico Toti e la sua stampella
conficcata nella fronte dell’urologo, con Nino Bixio, con i
fratelli Cairoli e con l’eroe dei due mondi in camicia rossa
come la mia vista nei confronti di quell’essere repellente che
stava arrecando sofferenza a me e al povero Ino ai minimi
storici.
Il dramma, nella solita relatività di tempo che intercorre
in casi drammatici come questo, cessò all’incanto con
l’estrazione del ferro.
Il povero Dino si accasciò su sé stesso per tirare il fiato
(per come può tirare il fiato un Dino) e anche io mi rilasciai
soddisfatto e fradicio per l’ardua prova superata.
Fu sensazione di brevissima durata: attimi.
Il naziurologo si rigirò verso di noi con un catetere
(prego voler notare la proprietà conoscitiva, ora, dello
strumento) appena più grande e disse con impersonalità
beffarda, non so se a me o a Dino: “Non abbiamo ancora
finito, stia calmo…”
204
E’ autolesionista, per me e per Poldo, rivangare l’intera
seduta su quel lettino con vaschetta che, ci tengo a dirlo,
non fu utilizzata, con quel vecchio macellaio che rigirava
cateteri sempre più grandi di diametro, come cacciaviti,
nell’occhio del povero Poldo.
Fui attorniato dagli spiriti di santi uomini che mi fecero
coraggio…
Il San Sebastiano di Raffaello mi batteva una mano
sulla spalla, ma non si rendeva conto che con un
moncherino di una sua freccia mi trapassava un fianco…
No!!!
Era il figliendrocchiologo con un catetere in tasca
ancora di una misura più grande…
Aveva quasi fretta di terminare l’operazione, il
bastardavicenna, paventando mie reazioni inconsulte del
tipo calci alle gengive o cintura alla base della nuca con
sbattimento al tappeto.
Oggi, con la mente più sgombra ed una certa ironia di
fondo tipica del passato pericolo, posso dire che mi sono
vaccinato, ammesso che possa esistere un vaccino, contro
la polmonite, la pleurite e quant’altro possa interessare i
polmoni: sembravo uscito da una doccia, colante sudore
freddo freddo novembrino in uno studio medico costituito
da una stanza a soffitti molto alti e quindi fredda e anche
umida.
Il piccolo Poldino era ormai terrorizzato ed aveva
assunto le sembianze ambigue di un involtino e poteva
benissimo confondersi con qualche interiora di pollo o
cartocciata di trippa.
Come Dio volle tutto finì al quinto catetere del diametro
di un mignolo di piccolo scolaro di scuola elementare.
Invano Poldino reclamò del collirio a damigiane.
Si chiuse allora in dignitoso silenzio, avvolto su sé
stesso nel suo dolore lancinante che, però, smorzava a poco
a poco.
Il luminare, appena scomposto per la fatica di tenermi
fermo e di agitare le sue ferramenta, mi mise in mano un
pacco di ovatta a tamponare la pomata che fuoriusciva
205
come la mayonnaise dei tubetti da un esausto Poldino in
coma, e mi dette qualche consiglio bonario.
“Adesso prenda un taxi e vada subito a casa senza
prendere molte scosse e stia tranquillo aspettando il
momento di fare la pipì…: sentirà un poco di bruciore…”
Tutto qui, dietro pagamento di oltre lire cinquantamila
di venticinque anni fa.
E attesi serenamente il mio ultimo momento di ormai
piccola sofferenza, preparato psicologicamente, trepido e
affettuoso verso il mio amico che era, forse a ragione, più
diffidente di me.
Mi sembrava di sentirlo, Poldo: “E’ un nazi fottuto quel
medico…Siamo sicuri che finisca con un poco di bruciore?
Mah…..Boh…..Mahhhhh”
Quando si dice la ragione dell’istinto…
Mi piazzai a denti stretti davanti al water, nel momento
topico, e attaccai.
Bruciore sì, ma poi…ne abbiamo passate ben altre vero
Poldo?
Il criminale esperto in ‘catetering’ omise di dirmi che
aveva frantumato qualche centinaio di vasi capillari…
Trasformai il water in un set di Dario Argento e quasi
svenni in associazione alla musica di “Profondo Rosso”.
Mi fa molto senso il sangue: soprattutto il mio.
Maneggiai il mio sempre più piccolo amico con due sole
dita utilizzate come pinzette da entomologo per i successivi
quindici giorni, con la paura di rompere un piccolissimo
puttino di porcellana Capodimonte pallido pallido che solo
io ascoltavo squittire come un impaurito coniglietto
implume monocolo…
DI QUANDO LEOPOLDO VENNE AFFETTATO PER IL SUO
BENE
Si dice che dopo i venticinque anni comincia il declino
fisico di un uomo.
Si evince da particolari trascurabili: a volte la caduta
dei capelli, un abbozzo di impercettibile pinguedine, un
affaticamento
della
vista o un qualche aspetto
206
infiammatorio delle articolazioni, un primo colpo della
strega o un primo attacco di artrosi…o una minore
elasticità della pelle…
Venni estratto dal fato cinico e baro per l’ultimo premio
e il presentatore della manifestazione di premiazione, un
onirico Pippobaudo che popolava i miei incubi, pronunciò la
fatidica frase: “The winner is… Leopoldo!!!”
Povero Poldino: rabbrividì di piacere o forse di inconscio
dispiacere e divenne tutto rosso.
Era qualche tempo che si aveva qualche problema,
Leopoldo ed io.
Notate: il problema riguardava Leopoldo, non Poldo o
Poldino o Dino, ed era moderatamente imbarazzante ed
anche alquanto doloroso.
Per riassumere in poche parole: nell’ambito di una
minore elasticità della pelle, scoprimmo che Leopoldo, nel
massimo delle sue “performances”, era meno elastico di
anni prima e tendeva a screpolare il suo piccolo guinzaglio
che era diventato liso e fragile in una fenomenologia
chiamata balanopostite (complimenti alla fantasia del
nominatore: roba fina, vagamente esotica, evocatrice di
avocados e papayas).
Il suo piccolo guinzaglio aveva un nome buffo, simillatino, Frenulo, alquanto plebeo e ridicolo.
Frenulo, probabilmente permaloso ed invidioso del
successo della belva tenuta al suo freno, si divertiva a fare
dispettucci screpolandosi sul più bello oppure ostacolando
estetiche spinte armoniche di rappresentazioni teatrali
private della carica dei seicento che, spesso, si riducevano
ad una farsa di carica dei centouno o di mesta parata di
quarantaquattro gatti.
Valenti dermatologi consigliarono le creme idratanti più
costose ed esclusive e mi feci una certa cultura di marche
valide e di prodotti sintetici e naturali.
Arrivai a spaventare con la mia competenza giovani
ruspanti farmaciste che ebbero di me probabili concetti
errati di estremo dandy decadente o di inveterato pederasta.
Ma erano solamente palliativi che sopperivano sempre
più precariamente al problema di fondo che veniva
207
procrastinato nell’essere affrontato: Frenulo diveniva
sempre più inadeguato e tendeva a rovinare prestazioni da
applausi a scena aperta del mio amico Leopoldo che spesso
era impossibilitato anche a dare corso anche ad una sola
richiesta di bis.
Fu un periodo imbarazzante.
Si dovette arrivare ad una soluzione drastica:
sopprimere Frenulo in un intervento chirurgico di
frenuloctomia.
Poldino aveva una fifa blu – in fondo era affezionato al
suo guinzaglio - e ci vollero giorni e giorni di lavaggio del
cervello (!?!) per fargli capire che era una cosa necessaria.
Le tentai tutte per convincerlo.
Gli parlai malissimo di Frenulo che calunniai con le
dicerie più infamanti; lo blandii con il fargli balenare la
possibilità di esaltanti nuovi successi, neanche fosse stato
un direttore di orchestrina afrocubana, gli proposi tournèes
all’estero, ricchi premi e cotillons, e lo interessai con dicerie
di speranze di maggiore sviluppo e maggiore potenza…
Abboccò come un bambino scemo o come un
veteromaschilista ancora più scemo: la prospettiva di
aumentare le sue dimensioni e ‘performances’ lo convinse
ad accettare, ‘obtorto collo’ (e non ridete, dai) la realtà, un
poco come quei tanti internauti che bazzicano quei siti che
promettono allungamenti prodigiosi della canna dell’organo
con quelle perette e quelle campane di vetro o con i pesetti
da legare in cima…
Si fissò quindi una data e già ci furono i primi
ripensamenti e le prime perplessità nel conoscere alcuni
futuri particolari dell’intervento: anestesia locale.
Tremai per il mio povero amico e anche, se permettete,
per me che sono provvisto di fervida fantasia e che mi
giravo nella mente la filmografia del mio futuro intervento.
E’ qui che si vede il coraggio dell’uomo: nel come si crea
le sue motivazioni giuste per affrontare le avversità della
vita.
Io mi motivai e motivai soprattutto Poldino con la
prospettiva di tempi lunghi di vacche magre e di digiuni
ascetici di fronte alla scelta di un rifiuto di intervento.
208
E venne il fatidico giorno.
Entrai nella sala e ci fu il primo momento di panico:
tante donne, infermiere, assistenti all’operazioncina in
qualità di appetibili (in altre occasioni) universitarie.
Fu la mia fregatura: prevalse la dignità della sofferenza
nel modello iconografico dell’uomo statico e tetragono di
fronte al dolore in presenza di pulzelle.
Ne approfittò un’infermiera Labrador, la più massiccia e
meno femminile, la più somigliante ad un fratino del
seicento: mi fece l’anestesia locale con un’iniezione a
tradimento sul capino del povero Poldino che, frastornato e
intimidito da tutta quella gente che guardava, era
praticamente del volume di una cornea e fissava la sala con
il suo monocolo pallido e assorto come un aspirante suicida
in piena crisi depressiva.
Fu più l’impressione che il dolore.
L’impressione rimase in me mentre Poldino si fece una
dormita coi fiocchi inerte come un lumacotto dei boschi
novembrini, uno di quei lumacotti senza guscio che sono
soggetti ad essere schiacciati da trattori e da contadini e
montanari ubriachi.
Il dottore che operava chiese imperiosamente il bisturi
elettrico e io impallidii: ero rimasto fermo all’immagine della
sedia elettrica…al massimo al tostapane…
Armeggiò con una cosa che sembrava un coltello
elettrico per affettare l’arrosto e si piegò verso di me ed il
mio povero amichetto.
Si diffuse nell’aria uno sfrigolio sinistro accompagnato
da un nauseabondo odore di barbecue e di carne alla brace
senza spennellature di olio e senza ramoscellate di
rosmarino.
Sembrava di essere al pic nic di Pasquetta in qualche
località agreste del Canavese e mi aspettavo da un
momento all’altro di ascoltare la hit parade da qualche
radiolina a palla.
Finì tutto alla svelta invece, con me sdraiato che venivo
medicato e il piccolo Poldino imbavagliato con una garza.
Fui mandato a casa, anche questa volta senza troppe
spiegazioni, e lasciai riposare il più possibile il piccolo
209
tremebondo coniglietto garzato fino al momento di dover
cedere a richiami impellenti di quello che si chiama anche
natura umana o bisogno di mingere.
Inorridii anche questa volta nello sbendare il piccolo
Tutan-poldino.
Al posto del volgare Frenulo aveva un crostone nero che
gli dava un’aria da piccolo profugo vietnamita orbo
sopravvissuto ad una bordata di napalm.
Lo maneggiai con la stessa cura dell’altra volta, ma
stavolta per circa un mese, provando una lontana
sensazione di attesa da lebbrosario nel percepire il distacco
del crostone bruciaticcio.
Il povero Poldino venne trattato a immagini di nonne
defunte e di evocazioni antieccitanti inerenti la fame nel
mondo per diversi giorni e si immalinconì non poco sempre
col capino reclinato e una bella fasciatura candida e
morbida.
Io cominciai a capire vagamente lo stato d’animo di
Leopardi e la sua situazione fisica di rachitico con gobba,
ma non scrissi nulla per esorcizzare quello stato d’animo:
tanta era la paura di un qualche strappo ribelle del piccolo
faraone imbalsamato…
DI QUANDO LEOPOLDO PATI’ DISAGI CONDOMINIALI
Si affacciò un altro problema, tempi dopo, per il mio
tartassato amichetto.
Non riguardò propriamente lui, ma i suoi due cugini del
piano di sotto: problemi di coabitazione e di densità
abitativa.
Fino ad allora si era trovato un armonico convivere tra
me, Poldino ed i suoi due parenti al piano di sotto: non
esistevano problemi di condominio, come succede spesso in
tanti comprensori che sembrano popolati da brave
integerrime persone che si sbranano una volta a semestre
per ridicoli contenziosi.
Non esistevano problemi di parcheggio, di consumo
d’acqua o di energia, di riscaldamento, e tutti si andava
d’amore e d’accordo nel pieno rispetto di tutti anche se ho
210
sempre avuto molta più confidenza con Leo che non con i
due suoi cugini.
Un giorno, comunque, accadde qualcosa di strano e
inizialmente irrilevante.
Un pelazzo inguinale si trasformò in serpe in seno, forse
meglio dire in serpe in inguine, e si rivolse, adirato per
chissà quale motivo, contro appunto l’inguine del
sottoscritto per trascendere a vie di fatto con una
punzecchiatura appena fastidiosa sotto pelle.
Doveva essere veramente invelenito per motivi seri, quel
pelazzo, perché fece diventare rosso il mio inguine che
cominciò a sentirsi vagamente a disagio.
Non si diede molto risalto a questa prima bega di
condominio, mai avvenuta fino a quel momento, e si cercò
di minimizzare l’accaduto con secchiate di acqua fredda per
sbollire gli animi.
Fu un’analisi superficiale, da portinaia ignorante che si
crede geometra…
Il rossore si concentrò in un certo particolare punto
dell’inguine, vicino al cugino di sinistra di Poldino, e si
venne a creare un fenomeno lento e costante di clandestina
appropriazione abusiva di alloggio, un qualcosa come
occupazione di esponenti di centro sociale o di infiltrazione
di rumeni in qualche capannone abbandonato.
Sta di fatto che il mio inguine, lungi dall’essere un
capannone, non era neanche abbandonato e il cugino di
sinistra dovette appoggiarsi in maniera invadente sul
cugino di destra mentre un imbarazzato Poldo guardava
dall’alto una situazione incresciosa senza potere intervenire
se non con qualche segnalazione di disagio in slip
progressivamente sempre più stretti e scomodi.
Nel giro di qualche giorno, all’insegna dei vecchi detti:
“aggiungi un posto a tavola” oppure “dove si mangia in tre,
si mangia anche in quattro”, mi ritrovai a fissare con un
certo sgomento e con una certa preoccupazione i miei piani
bassi ed un inizio di dolore nel constatare che i cugini
stavano diventando tre e che si stava veramente pigiati
come datteri natalizi.
211
Leopoldino, che è sempre stato abituato ad avere una
certa libertà di movimento, era praticamente relegato in un
angolo a stretto contatto con i suoi cugini mentre il nuovo
inquilino, sempre rosso di rabbia e livore, si espandeva
come un ultracorpo di fantascienza americana degli anni
cinquanta ingrandendosi come un rotondo baccellone e
procurando un certo fastidio anche a me che cominciai ad
avere problemi di postura.
Provai a mandare un ufficiale giudiziario per uno sfratto
sotto forma di una pomata all’ittiolo, prima, e di qualche
altro intruglio più forte, poi, ma senza esito.
Ed intanto avevo qualche difficoltà ad accavallare le
gambe, a sedermi, a coricarmi di fianco nel letto, a farmi
una doccia con una bella insaponata di spugna strofinata
sopra pensiero senza eccessive attenzioni.
Poldino cominciò a diventare ombroso e malinconico e i
due cuginetti divennero intrattabili.
Poveretti!
Fate conto di vedere due individui abituati da sempre in
un locale spazioso piazzati improvvisamente senza alcuna
spiegazione in un loculo mentre un nuovo vicino si frega
anche l’armadio quattro stagioni: intollerabile.
Decisi, anche in qualità di amministratore dello stabile,
di porre radicalmente rimedio al sopruso, anche perché
cominciavo ad avere dei seri problemi di deambulazione,
ormai alla cavallerizza, e di postura sia seduta che sdraiata.
Avvertivo inoltre un tambureggiamento interno
continuo, tipico dell’infezione da ascesso, a tutte le ore, e a
nulla potevano valere i soliti appelli stizziti: “Silenzio che qui
c’è gente che dorme e che domani va a lavorare!!!”
Optai per il Pronto Soccorso con il tremebondo Poldino
che mi tirava dall’altra parte invocando interventi più
diplomatici.
Si fece una votazione democratica e ottenni l’appoggio
incondizionato dei due cugini che erano veramente allo
stretto pre-marmellata.
Poldino si rassegnò e ci avviammo verso una nuova
disavventura.
212
Un’astanteria di Pronto Soccorso è un qualcosa di
indefinibile tra un lazzaretto, un mercatino delle pulci, una
corte dei miracoli medievale con litanie in gramelot e un set
televisivo della TV del dolore senza Cocuzza o Costanzo:
gemiti, lamenti, sirene, rotelle di lettighe che girano
freneticamente e ti striano i lobi temporali immersi nelle tue
preoccupazioni e ti lasciano galleggiante e stordito in un
pungente odore di alcool tra mormorii e giaculatorie.
Una cosina allegra che dura una media di tre o quattro
ore a seconda della gravità delle tue condizioni.
La condizione “pelazzo che provoca ascesso inguinale
cucurbitaceo doloroso” è praticamente agli ultimi posti,
prima solamente di unghie incarnite e cedente dentino da
latte: praticamente maglia nera rispetto a spettacolari
incidenti con ossa esposte, infarti, profonde escoriazioni
cruente con fabbisogno di punti di sutura a seguito di
episodi di cronaca nera, testimonianze di armi da fuoco o di
incendi più o meno dolosi e dolorosi.
Mi rassegnai, dunque, insieme ai miei amici, con la sola
consolazione di un imminente drastico sfratto dell’intruso,
terzo incomodo tra i due cugini, che mi rendeva somigliante
al vecchio Bartolomeo Colleoni, nobile capitano di ventura
curiosamente famoso anche per essere un triorchide, cosa
che ha acceso bizzarre fantasie presso l’immaginario
collettivo femminile.
Dopo tempo immemorabile venni introdotto in un
bugigattolo che fungeva da antisala operativa e attesi su un
lettino, sdraiato come un verme, frettolosamente svestito da
un distratto infermiere, che cessassero le urla di dolore
della sala vera e propria oltre un tramezzo.
E’ strano come nulla mai abbia contorni definiti.
Era una situazione drammatica: luce pallida e fredda di
neon, odore di etere, urla belluine di dolore a pochi metri,
fantasie sanguinose e andirivieni assente e febbrile di varia
umanità, eppure mi sentii imbarazzato in una veste leggera
di ridicolo con i miei due cugini all’aria insieme
all’usurpatore e un Poldino che avrebbe voluto travestirsi da
anonima suppostina piretica per neonati, piccolissima, per
213
poi sparire in un magico ‘puff’ anche dentro uno slip di
Cicciobello, il bambolotto che parla e vomita.
Eravamo adagiati su un lettino, io ed il condominio.
Ogni tanto passava qualche infermiere o, peggio,
qualche infermiera.
Davano un’occhiata professionale più o meno
interessata alla zona depressa e sparivano verso altri lidi
alla volta di altre urla di martiri.
Qualcuno/a allungava il collo e avvicinava il viso a
esaminare meglio il triste spettacolo; un becero odioso,
forse neanche diplomato e solamente portantino, ardì anche
toccare e strizzare la parte dolente e pulsante e rimediò un
gemito scomposto che avrebbe potuto nascondere anche
una maledizione permanente.
Entrò improvvisamente il ‘deus ex machina’ in camice
verde appena imbrattato di conserva.
Esaminò
a
colpo
d’occhio
la
situazione
professionalmente, seppure giovine e non particolarmente
navigato.
Emise una sentenza con ordini che, alla luce di
conoscenze e approfondimenti successivi, si rivelarono
asinini: ordinò un’iniezione anestetica sull’ascesso, la
bestia.
Un infermiere mi mise in bocca un legnetto da mordere
mentre un ago cercò invano di darmi la pace nella zona di
guerra.
Sentii un impercettibile ‘zziiiccc’ tipico di incisione da
bisturi e rabbrividii mentre il già piccolissimo Poldino
recitava la fiaba della Principessa sul pisello imitando un
vero gelido minuscolo primavera Findus: imitazione perfetta
anche per il colorino verdastro del mio amico protagonista.
L’imbarazzo di essere al cospetto di giovani tettute
praticanti bonazze scomparve di fronte al dolore
preternaturale di una strizzata selvaggia della parte per una
sana spremitura liberatoria assolutamente sadica, quasi
cambogiana.
E poi finì velocemente il tutto con l’introduzione veloce
di qualche decimetro di garza a drenare l’incisione…
Una firmetta e l’invito a ritornare dopo una settimana…
214
Non ebbi, come in altre precedenti occasioni, a
fronteggiare effetti collaterali sorprendenti, a parte una
buffa anomala inclinazione nella minzione per il tirare della
garza.
Ritornai a cuore leggero, dopo una settimana, con lo
spirito sereno di una ritrovata armonia nel condominio, con
i due cugini di Poldino ritornati al loro spazio vitale naturale
e con Poldino stesso sempre meno diffidente seppure
ancora inquieto: quando si dice l’animalità istintiva che
prevede le sventure…
Mi presentai nella stanza che mi fu indicata per il
controllo e la rimozione della garza e la conquista di una
agognata normalità dopo l’invasione debellata degli
ultracorpi.
Una stanza spoglia con una brandina e un tavolino di
ferro con scartoffie, una boccia di alcool, pinze, qualche
cerotto e altre cosette appena sinistre per me sprovveduto e
meno animale del mio amichetto sensitivo.
Dietro il tavolino presenziava una virago radamente
baffuta come un’otaria che associai idealmente ad un Volvo
Turbo Intercooler con cabina-notte e aria condizionata.
Fu sbrigativa: neanche un ‘buongiorno’ di risposta al
mio, ma solo un gesto risoluto del capo a metà tra un
picciotto di Sciacca e un graduato prussiano con elmo e
chiodo.
“Giù pantaloni e mutande.”
Un
poco
come
dire
lugubre
e
integralista:
“penitenziàgite”…almeno mi parve…
Si avvicinò a me imbarazzato ed esaminò lo spettacolo
di un condominio ordinato e pulito con i sigilli di garza
sporgenti della polizia giudiziaria per lo sfratto eseguito
qualche giorno prima.
Il mio amico, inspiegabilmente Leo in quel momento,
chissà perché, si calò subitaneamente nella parte di Poldino
che più ino non poteva essere e guardò la megera con
crestina campionessa di greco-romana con un certo odio
monocolo mentre i due cuginetti si raggrinzirono dalla
timidezza e dal freddo.
215
La bieca infermiera, in realtà, forse, scaricatore di porto
a Livorno operato maldestramente a Casablanca, afferrò il
mozzicone di garza sporgente dalla incisione ormai
abbondantemente drenata e diede una tiratina decisa a
sfilare il nastrino inaugurale per un nuovo varo di future
attività goderecce.
E’ superfluo raccontare che il drenaggio avvenuto aveva
seccato la garza nella ferita e l’estrazione così disinvolta fu
come una ceretta gigante a strappo sui peli pubici o una
strofinata cattiva a due dita sopra i baffi o le basette: da
provare quanto è dolorosa!
Mi piegai su me stesso in un timido dignitoso ‘offff’
appena sussurrato e ebbi modo di incrociare lo sguardo mio
liquido di dolore con quello monocolo ridanciano di Poldino
che pareva mi volesse dire: “Lo sapevo che sarebbe finita
così…”
Gli sorrisi, solo mentalmente, per non ingenerare
equivoci con la Volvoinfermiera, e gli mandai un affettuoso
messaggio mentale…
“Stasera andiamo a festeggiare, Leo, e se ti comporterai
bene e mi farai fare bella figura, facciamo anche il bis e ci
divertiremo un mondo. Sei contento, Leo?”
Una vocina interiore mi rispose semplicemente con un
misto di avidità e divertimento : “Urca…sarebbe anche
l’ora…devo recuperare e nonostante questa vecchia padella
baffuta qui davanti mi sta venendo un certo appetito…”
216
LA SENTINELLA
E’ abrasivo e non ride mai; è di pochissime parole, ma
la comunità, se proprio è esagerato dire che gli vuole bene,
lo rispetta, se non altro per gratitudine, e lo tiene in
notevole considerazione.
Il vecchio Amos, dai capelli folti di argento e piombo,
asciutto e spigoloso come un pruno, sempre in salopette di
jeans e camicia a quadri, impolverato e unto di morchia,
vive ai margini della nostra Contea, verso il deserto rivolto
al New Mexico, sulla camionabile per il confine, in una
roulotte presso una baracca che funge da stazione di
servizio e officina,
all’imboccatura della gola degli
Shoshones.
Non c’è molto traffico lungo quella strada e Amos non si
prende l’ernia ammazzandosi di lavoro.
Si cuoce sotto una tettoia di fogli di bandone scacciando
mosche fastidiose, fumando e bevendo bottigliette di Coke,
stringendo gli occhi di ghiaccio al riverbero di rame del sole
per la polvere e per focalizzare l’imboccatura della valle
angusta che introduce in un canyon stretto quasi
inaccessibile che finisce in un precipizio.
Ogni mattina, a turno, qualcuno della comunità della
Contea lo va a trovare per portargli qualcosa da mangiare
preparata da qualche nostra donna: pasticcio di tacchino
con fagioli, sformato di mais con uova, due fette di crostata
di frutta, una tazza di cioccolata semifredda.
Il fornitore di turno scende sbrigativo dal pick up con
un capace cesto di vimini, coperto da una tovaglia che
sembra un’altra camicia del benzinaio, e allunga un braccio
all’interno della cabina di guida per prendere i soliti due
pacchetti di Lucky Strike con un esagerato numero di
scatole di fiammiferi.
Non mancano mai, per Amos, scatole di fiammiferi, tutti
i giorni.
Al sabato, invece, tocca sempre a me, di fisso, andare a
trovarlo, in qualità di sceriffo della Contea, per sincerarmi
delle sue condizioni e per altro.
217
Gli porto, allora, oltre al solito cesto di viveri e alle
sigarette con i fiammiferi, due casse di Coke in bottigliette,
quelle verdastre spesse scanalate come bombe ananas, e
una puttana già contrattata e pagata dal nostro sindaco
qualche giorno prima.
Solo il sabato, quindi, Amos abbozza un sorriso, anche
se storto, guardando in tralice la ragazza mai bellissima,
sempre curiosa e spaesata, sempre silenziosa perché le si
raccomanda di non parlare troppo.
Il sabato equivale a doppia razione di tutto, per quanto
riguarda viveri, sigarette e fiammiferi che sono già molto
abbondanti nei giorni normali. Nessuno, infatti, va a trovare
Amos alla domenica: la comunità si raduna nella chiesetta
battista vicina alla scuola e prega innalzando canti
tremolanti a Dio; poi tutti si sparpagliano verso le loro case
instradati da scie di odori di capretto allo spiedo con patate
o di bistecche affumicate al barbecue.
Il lunedì si ricomincia con la solita spola verso il
distributore di benzina tra lo sterrato e la polvere di lato alla
camionabile che taglia la radura come un rasoio scuro.
Amos è sempre là.
Solo.
La puttana del sabato non c’è più.
Quando il concittadino buon samaritano ritorna al
paese viene subissato di domande circa quella peccaminosa
presenza che è divenuta assenza.
Poi tutti si torna alle nostre incombenze quotidiane con
un impercettibile senso di sollievo, facendo finta che tutto
sia normale.
Gli autisti su quella strada brulla sono comprensivi e
offrono passaggi, soprattutto a ragazzette facili che possono
pagare in natura: almeno ci fa piacere pensare che sia così,
ipocritamente.
Ma sappiamo che non è vero.
Però Amos è importante per noi: ha potere.
Il potere della sentinella. Il potere di chi ci protegge e
rischia per la nostra tranquillità.
Chiunque venisse un sabato con me verso quella specie
di accampamento si porrebbe diverse domande.
218
Perché la Coke in bottigliette e non in pratiche lattine?
Perché tutti quei fiammiferi?
Perché quegli stracci sul fondo del cesto dei viveri?
Perché quella pochissima socievolezza e confidenza nei
confronti della ragazza che è, tutto sommato, amichevole e
simpatica?
A tutte le domande esistono risposte, anche se a volte
alcune di queste ultime sono difficili da assimilare.
Si deve fare una breve premessa, per soddisfare queste
curiosità, e si deve partire dalla stretta valle che volge verso
il canyon.
Quel posto arido e terroso, sovrastato da rocce rossastre
che al tramonto diventano viola, è l’anticamera di un
enorme ossario di indiani a cielo aperto.
Vennero spinti nella gola oltre un secolo fa da un
arrogante esercito regolare e vennero sterminati senza pietà
per risparmiare su concessioni di territori da adibire a
riserva.
Non si ha molta voglia di parlarne, giù al paese, forse
per evitare di riesumare ricordi di cui non si dovrebbe
essere fieri, forse direttamente per vergogna.
Si sparò molto, con mitraglie e fucili automatici, e i
pochi non colpiti trovarono la morte con un volo disperato
nel precipizio, in fondo alla stretta vallata, tra pietre aguzze
e sterpi taglienti, cibo per corvi e avvoltoi.
Il vecchio Amos è la sentinella alla gola e sorveglia
l’angusto sentiero che si addentra verso il canyon
respingendo o placando, secondo le volte, l’irrefrenabile ira
di spiriti che risalgono dal baratro, ingiustamente relegati in
quella landa inospitale senza una dovuta sepoltura.
Gli Shoshones di un tempo, alteri e impavidi con
tatuaggi e pitture sul corpo che conferivano loro potenza e
coraggio, sono divenuti esseri inquieti e feroci di aria spessa
e polvere e cercano una vendetta per calmare la loro sete di
rivincita.
L’osservatore attento può notare che il vigile custode
gira sempre con una bottiglietta di Coke dentro una tasca
dei suoi logori jeans, una bottiglietta strana di un colore
anomalo rossastro, con uno stoppaccio al posto del tappo,
219
imbevuto di benzina, e un tascone della camicia è troppo
pieno di fiammiferi per un pacchetto avviato di Lucky
Strike.
Tutto il perimetro dell’area di servizio è disseminato di
bottigliette di Coke riempite di benzina, semisepolte nel
terreno, con lunghi stoppacci sporchi di morchia, come se si
fosse in una fantasiosa trincea munita di armi per
contrastare attacchi.
E il sabato sera avviene un rituale atroce.
Si prende il suo piacere, Amos, con la sgualdrina in
soggezione per lo strano ambiente che sgocciola
inquietudine nella sera, e leva grugniti e rauche grida che
liberano il suo corpo e mettono sull’avviso gli spiriti che lo
spiano oltre il sentiero. I suoi versi animali si mescolano
con i singhiozzi di un piacere, spesso finto, della ragazza
pagata dal sindaco, e di là del passo sagome di aria cupa,
dipinte con colori di guerra, si ridestano e risalgono dal
precipizio in fondo al canyon.
Nel momento culminante del suo orgasmo, sempre
all’aperto dietro la roulotte sotto una tettoia, su un
materasso sporco, Amos si prende per sé maggiore piacere
ricevendo contrazioni più violente e incontrollate nel mentre
che taglia a sorpresa e tradimento la gola della sua
occasionale compagna con una fulminea rasoiata.
E’ un rito rapido, violento, collaudato e consolidato nel
tempo, ogni sabato con una donna diversa, e l’uomo si leva
con un peso ancora palpitante tra le braccia e si reca con
occhio spiritato verso lo stretto valico a depositare il
cadavere ancora tiepido su un ciglio del dirupo.
Un’aria innaturale riesce a spostare il povero corpo
esanime e lo spinge giù dove altra aria confusa si muove in
immaginifico digrignare di denti.
Amos ritorna alla sua officina con un mormorio di
rantoli nelle orecchie, di spiriti che si compiacciono
soddisfatti nella loro sete di sangue e vendetta.
Ecco perché per noi Amos è importante.
E’ la sentinella che tiene a bada le belve, il guardiano
che le alimenta e che ha stabilito con loro un rapporto di
mostruosa confidenza.
220
E finché sarà così poche volte dovranno essere
incendiate piccole bottiglie di Coke a monito per gli spiriti
più esagitati e smaniosi e la comunità sarà tranquilla e la
Contea sarà salva.
Ma io so, come sceriffo di questa zona, che i tempi
stanno cambiando…
Una specie di tam tam sotterraneo pare che si sia
diffuso nell’atmosfera, e sempre più difficoltoso è per il
sindaco il trovare qualche donna di piacere ignara che
voglia guadagnarsi una congrua somma per un sabato di
lussuria nel deserto. La Contea sta diventando un posto per
persone costumate e timorate di Dio, ma i mostri del
canyon strepitano la loro brama di carne.
Il vecchio Amos parla con loro e ha esposto le difficoltà
della nostra comunità.
Ci sono stati bagliori di sorrisi malevoli nell’aria densa
della notte al gran burrone.
Una vecchia iena crivellata a suo tempo da un rilucente
Remington, alla luna, ha proposto, con supponenza
fastidiosa che non ammette repliche, che i guerrieri
potranno accontentarsi anche di pie massaie, di buone
donne che preparano pasticci di tacchino o torte di frutta.
Il loro capo, dipinto con colori confusi nel buio, ha
balenato le zanne con un concetto ineccepibile: la carne
palpitante e tiepida di morte recente non ha connotazioni
particolari o ceto sociale…
La sentinella ha annuito e mi ha riferito le nuove
condizioni.
Serio e laconico. Come sempre.
Il suo sguardo grave strinato da polvere e sole ramato
non ha tradito emozioni o pietà: questo è il prezzo della
pace di una comunità maledetta come la nostra e solo lui è
il tramite accettato per il mantenimento di questa
tranquillità che costa sangue.
Ha fatto un primo nome, sommesso, di una nostra
concittadina che tutti conosciamo molto bene…
…E’ toccato a Grace, come ha suggerito Amos.
Si è deciso in una riunione maledetta.
221
C’ero io, che sono lo sceriffo, il sindaco insieme al
pastore battista, il farmacista e qualche altro ometto con
uno spaccio d’alimentari o una quarantina di cavalli in un
pascolo dietro le spalle.
Grace è vedova, oltre che vecchia, senza parenti a
reclamarla o a vendicarla, semmai sia possibile.
Vive di una pensione onesta e si diletta al cucito.
Ci siamo trovati tutti d’accordo.
Sono andato a prendere la poveretta con il mio vice, a
notte fonda, per portarla in una cella del mio ufficio, pronta
per sabato, imbavagliata perché il paese non sentisse, pur
sapendo tutti ogni cosa, tranne che lei.
Sembra tutto ipocritamente naturale, anche se è una
roulette russa.
Si è concertato per il futuro di preferire le donne sole,
zitelle o vedove, con precedenza per quelle più avanti negli
anni.
Poi toccherà alle altre anziane e qualche marito o figlio o
nipote dovrà chinare il capo, sottomesso.
Poi si scenderà d’età senza guardare tanto per il sottile.
Il sindaco ha promesso che amplierà il suo giro di
reclutamento di puttane anche in altre contee, se non altro
per ritardare questo stillicidio.
Io, però, che vedo lungo, respiro nell’aria rassegnazione
e sgomento, e tremo per Sally, mia moglie, per quando sarà.
Non trascorrerà tantissimo tempo: non abbiamo figli e
resterebbe solamente una persona per piangerla.
Io.
Sto ribollendo giorno dopo giorno, mentre aspetto il
prossimo sabato per portare la vecchia Grace ad Amos.
Resterà
impassibile,
lui,
ma
ghigneranno
di
soddisfazione gli spiriti della gola vicino al distributore di
benzina sulla camionabile per il New Mexico.
Gli Shoshones già sanno quello che accadrà e gli spiriti
di morti senza giustizia hanno l’eternità per aspettare la
loro vendetta attraverso concetti di tempo che noi vivi non
potremo mai comprendere.
M’irrita l’atteggiamento del villaggio: il non sapere o non
volere uscire fuori di questa situazione.
222
Mi appare meno puro anche Amos, la sentinella, l’uomo
che tiene a bada gli spiriti offrendo loro carne fresca ancora
pulsante di passione vitale in un ultimo orgasmo.
Lo odio, ora che so che alla fine si scoperà mia moglie
per poi tagliarle la gola nel momento dell’orgasmo e offrirla
ancora calda agli spiriti del burrone per soddisfare la loro
sete di vendetta.
Mi chiedo se potrei fuggire con Sally, incurante di tutto
e tutti, e se sarei riacciuffato, e da chi...
Altre idee mi striano dolorosamente il cervello, in questa
notte d’incubo, per risolvere in modo definitivo questa
agonia senza fine.
Mi rigiro nel letto, sudato, e ipotizzo che cosa potrebbe
essere la nostra vita senza Amos o senza la settimanale
offerta votiva.
Potrebbero arrivare fino alle nostre case?
Potremmo difenderci?
Sapremmo difenderci con sufficiente sangue freddo?
Ho l’angoscia nel sospettare che possano, prima o poi,
servirsi da soli, senza rituali, dilaniando direttamente da
loro carni di vivi senza distinzione di sesso, tenuti a freno
solamente fino a quando esisterà la sentinella e si protrarrà
questo assurdo rituale che umilia pronipoti di dispensatori
di giustizia.
Ho portato Grace alla stazione di servizio.
L’ho dovuta colpire col calcio del fucile: si agitava
troppo.
Un livido può essere anche un modo per rendere più
incosciente e accettabile un ultimo giorno di vita.
Ho chiesto una cosa alla sentinella.
Lui è rimasto sempre impassibile, ma stavolta ha
tradito un qualcosa d’inquieto nel suo sguardo.
Mi ha risposto che se ne riparlerà per la prossima
settimana.
Eccomi ad un nuovo sabato di passione, con una nuova
vittima, la signorina Pendleton, quella che cucina, che
223
cucinava, per essere preciso come un becchino
professionale, il più buon pasticcio di tacchino della contea.
Ho trascorso una settimana infame ad arrovellarmi sul
piano che salverà la mia Sally dall’inevitabile suo destino.
Sarò deciso, chiaro, definitivo.
Amos ha preso tra le braccia il corpo svenuto della
vecchia Pendleton e mi ha fatto un cenno di consenso.
E’ stato accettato l’incontro.
Il benzinaio chiude la donna nella sua roulotte e mi
porge una bottiglia di Coke invitandomi ad accendere il
sigaro.
Rifiuto.
Ho i miei perché…e anche un fucile a pompa tra le
mani…
Amos si stringe nelle spalle, indifferente, e mi fa strada
verso la gola degli Shoshones.
Sul ciglio del burrone, nel crepuscolo che scurisce, si
materializza lentamente un’aura spessa che prende i
contorni di guerrieri dagli occhi avidi di vendetta e di
sangue.
Salgono dall’abisso con colori di guerra che stravolgono
lineamenti in una nebbia densa che sa di putrido, e
ghignano digrignando denti che sembrano zanne.
Mi trovo di fronte alle antiche vittime di miei
predecessori massacratori nel nome della giustizia e della
legge.
Ho la pelle d’oca e ho una paura fottuta.
Loro lo sentono: gli spiriti dei morti convivono con la
paura e la riconoscono nell’aria.
Devo essere deciso.
“Uno scambio.”
“Che significa, Sceriffo?”
Il capo ha un tono beffardo e la sua aura scintilla
fosforescente nel buio, circondata da occhi, tanti, lucidi
nella penombra, malevoli.
“Tutto: per me e mia moglie. Tutto insieme.”
Risata di gola aperta, di trionfo, di tutti gli spiriti.
Amos mi guarda con diffidenza, in disparte di lato.
224
“Sembrerebbe che la giustizia stia per fare il suo corso,
lunghissimo, certo, ma inesorabile, Sceriffo, e tu dovresti
essere il rappresentante della legge del compenso, di
adesso…”
E’ un parlare che mi ferisce, sarcastico, ma devo
corazzarmi con l’indifferenza, per Sally, per me.
“Allora?”
“D’accordo, Sceriffo.”
Amos ha compreso che sarà esautorato dal suo incarico
e sta cercando un fiammifero per accendere la sua
bottiglietta e ripristinare gerarchie e funzioni nel potere
della sentinella.
Lo centro in pieno petto con un colpo solo, sparato
quasi a sorpresa senza mirare, e lo mando ad urtare le
rocce dietro di lui con violenza come una marionetta senza
fili.
Giace inarticolato con gli occhi di ghiaccio ormai vitrei
che continuano a guardarmi accusatori.
Gli spiriti osservano impassibili.
“Questa notte, dunque, al villaggio, per poi sparire per
sempre.”
Assensi divertiti.
Si avviano lievi in un branco numeroso senza spessore
verso la roulotte dove è rinchiusa la signorina Pendleton.
Il corpo di Amos viene avvolto da una nube grigia che si
tinge di purpureo nel rumore di uno squittio inquietante di
topi voraci.
Non voglio soffermarmi a pensare alla sentinella, che ho
ucciso a tradimento, a quella donna e a quello che le
faranno.
Non posso, ora.
Metto in moto il furgone come un automa e mi dirigo al
villaggio.
Tutto è pronto.
Ho saccheggiato tutta la dinamite disponibile della
miniera di zolfo poco distante e ho avuto tempo a
sufficienza per minare ogni casa del villaggio.
Ho riposato pochissimo durante questa ultima
settimana.
225
Sally dorme.
Non sa nulla: è innocente e dorme da innocente
respirando come una bimba.
Esco verso il garage.
Lì c’è il detonatore che innescherà le esplosioni in tutte
le case.
Basterà spingere una leva verso il basso.
La mia Sally sarà salva e veglierò su di lei per sempre
come una sentinella, una nuova sentinella innamorata.
Ecco: basta spingere…
Dio mio, che cosa ho fatto!
Per di più inutilmente.
Sono assediato da spiriti che vogliono entrare in casa e
prendere anche me e la mia Sally, stordito da urla
guerresche lontane attutite dalla notte e da un odore
nauseante di bruciato e di morte.
La sete di vendetta non si è placata con il sangue di
tutto il villaggio al bagliore di fuochi e di lamenti e gli spiriti
dei morti che hanno avuto torti dalla giustizia non
riconoscono patti e restituiscono l’inganno con gli interessi.
Avrei dovuto pensarci prima.
Ora non posso fare altro che evitare sofferenze maggiori
della semplice morte.
Preferisco così che assistere impotente al dilaniare la
mia adorata moglie, nell’attendere una sorte identica per me
stesso.
Ho ancora il fucile a pompa.
Adesso a Sally, gioia mia, dal sonno alla pace.
Fortunata lei: si sta agitando nel sonno come sotto un
incubo, si lamenta per qualcosa che percepisce senza
vedere, ma è incosciente, grazie a Dio, e non soffrirà.
Poi a me, se avrò il coraggio, se non altro per espiare i
miei errori di velleitaria sentinella e di meschino uomo di
legge…
226
PASSIONI E PASSIONI
Le giornate cominciavano ad allungarsi ed il primo
pomeriggio era più che tiepido per una primavera in boccio
di metà aprile.
Lo sguardo dell’uomo, smontato dall’Alfetta senza
contrassegni, era uno specchio di mare, scuro e appena
increspato, come quello alla fine di una giornata serena
d’estate: quasi un precorrere i tempi per insopprimibili
desideri di refrigerio nel caldo precoce.
Osservò pensieroso l’edificio di fronte, il commissario
Luca Sperlozzi: una palazzina degli anni cinquanta di
quattro piani, dalla facciata granigliata verdina stinta ed
intrisa di smog grigio, una delle tante della zona.
Il quartiere Italia di Roma, parlando in termini
superficiali d’architettura, è piacevolmente vario.
Per erte e declivi ornati di rododendri e robinie, dall’alto
della dritta Corso Regina Margherita e della sinuosa Via
Morgagni, fino alla stazione Tiburtina, in basso a ridosso
del cimitero del Verano, si susseguono casermoni di case
popolari del ventennio, villette patrizie decadute o rimesse a
nuovo per sedi di consolati e ambasciate, immerse nel
verde, e diverse tranquille
palazzine dell’immediato
dopoguerra.
Delle ultime, questa verdina si stagliava tra due alti
pini, come rispettabile condominio, con la porta a vetri dalle
rifiniture in ottone, l’atrio in penombra con le piante di ficus
appena rinsecchite ai margini di una dignitosa guida stinta
color vinaccia.
Il commissario ignorò un capannello di gente curiosa e
il suo mormorio da anticipato rosario vespertino, fece un
cenno al piantone che salutò deferente, e sgusciò nel
piccolo ascensore vetrato, ingabbiato in una rete metallica
annerita dalla polvere, che aveva ancora, dalla parte della
tastiera dei piani, l’impronta giurassica della gettoniera a
cinque e dieci lire, legno chiaro su pannelli scuriti da fumo
e tempo.
Tutti hanno una dote fisica che può rendere seducenti:
Luca Sperlozzi aveva gli occhi, variabili di tonalità cromatica
227
secondo le emozioni, dall’acquamarina al blu petrolio, con
uno sguardo intenso, spesso liquido e febbricitante,
inafferrabile per una mobilità che metteva a disagio.
L’uomo, normolineo, appena brizzolato con taglio a
spazzola cortissimo, atletico e apparentemente svagato,
lasciò scorrere, dall’ascensore lento, la vista in parata sui
quattro piani semibui di marmi chiari cinerini, vagamente
funebri, con piante grasse e altri ficus sui pianerottoli.
Ebbe un leggero moto di buonumore nel notare
sottovasi pacchiani di tinte accese giallo uovo o aragosta a
trasgredire su quanto d’austero e rispettabile, proprio della
casa severa.
Una vecchia minuta in vestaglietta, terzo piano, al
passaggio dell’ascensore, incrociando gli occhi del
commissario, chinò rispettosamente la testa in un saluto
garbato e partecipe della ferale novità.
Vaghi odori di conegrina, soffritti e mele cotte
volteggiavano su per la tromba delle scale con echi di note
compresse in volume civile, allegre e ossessive, dell’ultimo
DJ Francesco, provenienti da chissà quale piano, esaltate in
bassi gravi ad accarezzare lo stomaco.
Le portiere dell’ascensore, rumorose e classiche a molla,
si richiusero da sole con un fastidioso sbatacchiare dietro
Sperlozzi, all’ultimo piano.
L’uomo entrò in un alloggio con la porta aperta a metà,
passando davanti ad un altro agente che sorvegliava
l’ingresso.
Il portone di fronte a quello sorvegliato fremette appena
per l’emozionante cosa insolita recepita da una coppia di
mezza età curiosa attraverso uno spiraglio.
All’interno dell’alloggio da esaminare si respirava tanfo
di chiuso mascherato da deodorante di falso bosco.
Un sommesso fischiettare attirò il commissario verso
una stanza in particolare.
Era il solerte fotografo della Omicidi, già da qualche
tempo sul posto, vispo e gesticolante in saluto
confidenziale.
Scattava garrulo qua e là con il flash, fischiettando:
immortalava,
con
la
disinvoltura
e
l’indifferenza
228
dell’abitudine, i particolari oggettivamente più rilevanti della
scena del delitto.
Già.
Il commissario Luca Sperlozzi era lì, in servizio, per
indagare su un omicidio, e stava ispezionando
l’appartamento di Nora Guasconi, nubile, trentanove anni,
impiegata al catasto, incensurata, trovata morta dalla
portiera dello stabile incuriosita, durante i suoi giri di
ronda, per la porta dell’alloggio inspiegabilmente socchiusa
a tarda mattina.
La defunta padrona di casa giaceva seduta
scompostamente su mattonelle sbiadite, appoggiata ad una
parete vicino ad un divano in similpelle nera, con la lingua
penzoloni e gli occhi sbarrati, in una posa innaturale del
collo, probabilmente sbattuta più volte contro il muro, a
giudicare da una stria di sangue che da un’altezza di circa
un metro e sessantacinque colava rada fino alla nuca
scarmigliata della vittima sul pavimento.
Luca lasciò il suo sguardo brado in esplorazione
distratta della stanza.
Fu poi attratto dall’espressione del viso della donna e
cominciò a ricamare d’intuito professionale.
Era scostante e altera, seppure morta, con un
aggrottare di fronte che sembrava volesse fare notare il
disappunto per un volgare comportamento perpetrato nei
suoi confronti.
Gli occhi erano di vetro opaco, spalancati, grigi e fondi
senza espressione, ma le sopracciglia parlavano come per
dire ancora a qualcuno in un impossibile discorso postumo:
“Com’è stato possibile che si sia permesso di strozzare
proprio me?”
Il cadavere aveva, in effetti, dei lividi violacei sul collo.
Apparve, a Luca, come una donna non troppo
significante: una calza velata calata al polpaccio, due
bigodini sopra la fronte a vigilare su un’eccentrica frangetta,
una sottoveste lilla morbida che le conferiva, con la
scollatura che lasciava intravedere un seno appena
afflosciato, un qualcosa di sciatto.
229
Ebbe un leggero moto di fastidio, il commissario, nel
notare anche le due logore ciabatte di stoffa: pensò con
irriverenza che mancavano solamente le classiche pattine di
feltro per preservare la cera del pavimento.
La bocca della vittima, aperta vanamente a risucchiare
aria, con la lingua di fuori, era atteggiata ad un ghigno, a
metà tra lo stupore e il disprezzo, che lasciò in Luca
l’impressione di un’epidermica antipatia, come al pensiero
che fosse solo appisolata, seppure con gli occhi aperti, e
che, appena da sveglia, avrebbe subito piantato qualche
grana.
La immaginò da viva: supponente, altezzosa, in netto
contrasto con l’aspetto fisico non proprio signorile e
alquanto già sfiorito.
Sguinzagliò di nuovo lo sguardo all’intorno, da segugio
allenato, alla ricerca di qualche indizio.
La stanza era un insieme di mobili radunati con gusto
discutibile e con la presunzione di un certo senso estetico
che oggettivamente mancava del tutto.
Una libreria rustica, poco fornita, riempita a metà di
tascabili e di qualche libro d’arte troppo nuovo per essere
stato apprezzato, era accostata al divano nero di stile
svedese, con le gambe striminzite in ferro battuto nero
squadrato con orrendi supporti ottonati di base.
Due poltroncine di fronte al divano, dello stesso stile e
colore, e alcune stampe dozzinali di famosi acquerelli,
appese al muro con evidente pigrizia, conferivano alla sala
l’aspetto di un salotto banale senza palpiti di vissuto.
Più in là un tavolino, che fungeva da mobile bar, con
alcune bottiglie d’amari e di brandy e, aspetto assai più
interessante, due bicchieri mezzi pieni, vicini ad un
portacenere che evidenziava due tipi diversi di mozziconi di
sigarette.
Nora Guasconi probabilmente doveva avere fumato
leggero: lo testimoniava un pacchetto semivuoto e qualche
cicca nel portacenere.
L’assassino, o almeno l’ospite che aveva bevuto dal
secondo bicchiere, aveva fumato invece una sigaretta forte e
senza filtro, ‘papier mais’, di carta gialla, francese.
230
Un primo sottile brivido per l’inquirente attento.
Il fotografo si congedò, sempre fischiettando, con un
sorriso, e lasciò la scena del delitto al solo commissario che
a piccoli passi misurò la sala alla ricerca di fotografie
incorniciate, di biglietti, di lettere, di testimonianze: un
breve passeggiare iniziale per avere un quadro di sintesi su
cui cominciare ad elaborare una storia e magari anche un
movente.
Sperlozzi sollevò con una penna qualche carta e aprì
con un fazzoletto alcuni cassetti a caso.
Tra poco sarebbero arrivati quelli della Scientifica e
avrebbero frugato con maggiore sicurezza a preservare
l’integrità di qualche eventuale impronta.
Poi l’emozione interiore di un cospicuo inaspettato
bingo.
Tra le tante cose era talmente in primo piano, sopra il
tavolino delle bottiglie e del portacenere, che a prima vista
nemmeno lo aveva notato.
Un registratore.
Era piccolo, di quelli vecchi da battaglia, con il
microfono incorporato, monofonico, a pile, poggiato tra le
bottiglie, tenuto lì da tanto, senza la sua custodia di pelle
nera, impolverato alquanto.
Fremette, Luca, in una sua speranza.
E a volte le speranze diventano concrete certezze.
C’era dentro una cassetta: era alla fine, già ascoltata o,
meglio ancora, forse registrata.
Il commissario sperò che la vittima avesse registrato un
dialogo per un qualche motivo di chiarimento e che il
registratore si fosse spento da sé a fine nastro.
Pigiò il tasto di riavvolgimento della cassetta con un
fazzoletto e attese incrociando le dita.
Nel frattempo curiosò sopra una mensola dove
campeggiava una foto sfocata che, però, gli parve
curiosamente familiare.
Ritraeva la donna con un uomo davanti ad un molo: era
lui, con un giaccone alla marinara, il familiare a Sperlozzi,
che trasformò il suo sguardo in un mare in tempesta con
onde spumeggianti.
231
Pescò dentro di sé nella memoria, indietro nel tempo,
fino a suoi vecchi trascorsi di ex marinaio, subito dopo il
servizio militare, prima della scuola di Polizia, e si
illuminarono scorci di La Spezia, di Napoli, di Malta, solari e
mossi da una brezza indimenticabile.
I suoi occhi si sintonizzarono e si fusero con altri, ora:
occhi neri affascinanti, e il processo della memoria lo
catapultò sotto un sole cocente, in un odore di salsedine
penetrante, tra nomi, giorni, luoghi lontani, sensazioni
intense e convivenze forzate in lunghe rotte di navigazione
d’alto mare.
Si riagganciò alla realtà con il rumore dello scatto del
piccolo registratore che aveva ricaricato la cassetta all’inizio.
Si concentrò sul punto rosso del led luminoso e
schiacciò il pulsante d’ascolto con impazienza frenata a
stento.
Udì un tramestio, un ciabattare sommesso strascicato,
il rumore di un riempire bicchieri, lo scatto di un accendino
e l’aspirare di una sigaretta e provò ad immaginare
visivamente la scena.
Lasciò andare la fantasia chiudendo gli occhi ed ebbe
l’impressione che la donna strizzasse i suoi, profonde
macchie di bitume, urticati dal fumo.
Poi ascoltò l’echeggiare di un lontano rumore di chiavi
inserite nella serratura del portone d’ingresso, una cadenza
di passi decisi e pesanti, un sospiro vicino che era uno
sbuffare, e poi ancora una risatina nervosa e ammiccante, e
una voce mascolina, che lo fece trasalire, rivolta alla donna
con un saluto freddo metallico.
Quella voce…
Armando Gotiri: l’uomo sfocato familiare della foto.
Nella mente del commissario s’accesero le lampadine
bluastre notturne del mercantile “Subazia”, e poi
balenarono gli ottoni di un cargo cipriota e di una rugginosa
petroliera ucraina insieme a trascorsi di navigazione,
episodi di giovinezza non tanto recente, e un affiorare di
ricordi di un periodo di crescita e di esperienze.
Era la voce di Armandino: la stessa voce fredda e
metallica d’allora, ombrosa e gentile sulla difensiva, sempre.
232
E ancora una voce: stridula, acida, sarcastica.
La voce di Nora Guasconi, malignamente divertita.
“Ti stavo aspettando, ammiraglio, e ti stavo preparando
anche da bere: dovere d’ospitalità...
Accomodati.
Me ne dovrai raccontare di cose, di persona, perché al
telefono ci si fraintende e perché ti voglio proprio vedere in
faccia mentre me le dirai…”
Sperlozzi udì una risatina malevola della donna e un
sospiro dell’uomo, poi percepì lo scatto di un accendino e il
suo sguardo corse al portacenere dove era evidente un
mozzicone giallo.
La donna proseguì.
“Allora, ammiraglio, bell’Armando, ho inteso bene quello
che mi hai confessato al telefono ieri?
Dobbiamo mettere una bella pietra sulla nostra storia di
passione devastante che ci ha accompagnato per questi
mesi deliziosi?
Ho il sospetto, lo sai che sono sospettosa e piena di
fantasia, che tu mi stia scaricando con un nuovo sistema
pittoresco per poter continuare una tua vita di puttaniere
con qualche nuova conoscenza di qualche altro lido.
I marinai sono tutti uguali o no?
E poi, te lo dico francamente, non credo molto a queste
conversioni sulla via di Damasco: di San Paolo ce n’è stato
uno solo, mi pare, e poi tu ti chiami Armando e non mi
suona bene la folgorazione di Armando sulla via di
Damasco…”
La donna rideva di gola come una iena, crudelmente, e
l’uomo che l’ascoltava taceva.
“Spiegami, dunque, questa crisi mistica, questo nuovo
flusso della coscienza che ti sta indirizzando verso altre
scelte di vita, scusa, no, che ti reindirizza verso la tua
vecchia vera scelta di vita, verso il tuo originario essere a
tuo agio con te stesso.
Cerca di convincermi che hai scoperto, dopo anni di
incoscienza, di essere un’altra persona e che io ho perduto
tempo prezioso con un uomo sbagliato.
233
Sei un uomo sbagliato perché sei un farfallone incallito
che si è trovato un’altra donna o perché hai realizzato di
essere in realtà un ‘ricchione’?”
Il commissario trasalì per quest’ultima frase udita forte
e chiara, diretta come uno schiaffo, carica di disprezzo e
tagliente nel tono, con un sarcasmo a ferire profondamente.
Udì il rumore di un bicchiere poggiato sul tavolino, forse
quello di Armando, e un sospiro lungo, forse volto a
riordinare le idee per una spiegazione, per una confessione
definitiva e limpida a chiudere una relazione troppo
sfaccettata di ombre e dubbi.
Ascoltò la voce di Armando Gotiri, pacata, ma decisa.
“Se sono qui è per ribadire quanto ti ho detto al
telefono: non ho paura dei miei fantasmi.
Gradirei, però, il rispetto: almeno lo stesso rispetto che
ti porto…”
“Rispetto?
Per uno come te?
Dopo che mi hai illusa per diversi mesi?
Io dovrei credere nel tuo rispetto, in te che una mattina
all’improvviso mi telefoni e mi comunichi che non ti senti
più di avere una relazione con me perché stai percependo la
tua vera natura di, come dici tu, ‘gay’?
Parliamoci chiaro, caro Armando.
Se non è vero quello che mi racconti, sei un ammirevole
bastardo fantasioso, una persona che sorprende, e, di fatto,
mi hai sempre sorpreso piacevolmente in più occasioni.
Allora ci diamo un taglio.
Ora.
Mi dici che hai scherzato e che frequenti in verità
un’altra donna.
Io capisco, soffro, ti tiro un bicchiere o un portacenere,
ti maledico, tu ti offendi e te ne vai, io piango e mi dispero,
poi me ne faccio una ragione nel futuro e, magari, tra un
anno ci facciamo anche una rimpatriata e ci faremo morire
a vicenda per come lo abbiamo fatto parecchie volte.
D’accordo?
Ma se è vero quello che mi hai confessato, puoi dirlo
con tutte le parole appropriate che ti pare, rimani ai miei
234
occhi sempre e solamente un frocio che mi ha preso per il
culo, e io odio essere presa per il culo, soprattutto se mi
affeziono e se comincio a fare qualche castello in aria
sull’avvenire.
Lo sai che non sono così emancipata e moderna.
Cosa vorresti che ti dica?
Che capisco?
Che la cosa mi eccita?
Che sono disposta anche a vedere e a partecipare?”
“Io non voglio nulla, Nora, a parte il fatto che tu non sia
volgare…
Ti ho detto di certe mie intimità che sono ancora vive e
pulsanti, ti ho detto di me in tutta sincerità proprio per il
rispetto che ti porto.
Mi considero a posto con la coscienza e libero da un
peso: non posso più sopportare una doppia vita, ora che ho
chiari determinati concetti, diviso tra mie amicizie e te in
uno sdoppiamento di personalità con continui cambi di
travestimento mentale.
Non c’è alcuna presa in giro, quindi, ma solo onestà,
che potrà anche farti male, ma che dovrebbe essere
apprezzata, seppure rude e inattesa…”
“Apprezzamento di che?
Del fatto che mi scarichi per qualche giochino dentro un
cinema o in un parcheggio con qualche altro finocchio come
te?
Mi fa incazzare che ho perduto tempo, tempo prezioso
con te, mentre la vita va avanti e s’invecchia, e lo scoprire
che adesso devo ricominciare tutto da capo, perché il mio
uomo preferisce i maschietti alle donne, è avvilente e mi
lascia con un senso d’amarezza che deve trovare uno sfogo.
E poi te l’ho detto: non ci credo.
E’ una scusa per troncare meglio: tu sei un bastardo
che non ha il coraggio delle sue azioni. Preferisci coprirti di
ridicolo piuttosto che ammettere che sbavi per qualcun’altra
parcheggiata chissà dove.
Ma io ti sego, parola mia.
235
Io non sono una santa donna comprensiva che capisce
e benedice: io ti sputtano per mari e per monti e arriverò ad
affiggere manifesti dappertutto.
Non puoi trattarmi così, non me, non ora, non dopo così
tanto tempo…”
“Che vuol dire ‘io ti sputtano’?
Vuoi farmi del male, di compensazione, perché io non te
ne voglio fare con il fingere?”
“Tu mi stai facendo malissimo, Armando.
Mi stai abbandonando come una scarpa vecchia, come
una cosa che non ti serve più, senza sensibilità, senza
pensare a come mi lasci.
Per una donna è dura accettare i quaranta, soprattutto
da sola, ed è ancora più difficile nella memoria di un
qualcosa che è stato e che non sarà più, forse mai più.
E tutto questo casino che mi stai facendo crollare
addosso, caro il mio maschione, è causato da un qualcosa
che è una scusa bella e buona per i tuoi porci comodi,
oppure da un qualcosa che per me è doppiamente offensivo,
per il tempo che ti ho dedicato e per la mia femminilità che
è insultata dopo mesi di tue finzioni.
Io ti sputtanerò, Armando: sarò cattivissima e ti
rovinerò.
Aspettati una mia visita alla Capitaneria di Porto di
Civitavecchia, aspettati di vedere sorrisetti di compatimento
dei tuoi amici e colleghi.
Li avviserò tutti e a tutti dirò chi sei veramente: un
frocio bastardo che prende per il culo una persona che lo ha
amato.
Ci penso da ieri, mentre sto bollendo di rabbia, a come
devo fare per rovinarti.
Lo vedi? Sono una persona civile: ti ascolto, ti faccio
accomodare in casa mia, la casa che conosci come le tue
tasche per tutte le volte che l’hai girellata di stanza in
stanza nudo, ti offro da bere, cerco una composizione
pacifica, una spiegazione razionale che possa permettermi
un recupero.
Forse sbaglio anche io, no?
236
Se ho sbagliato in qualche mio comportamento sono
disposta a ravvedermi.
Sono stata soffocante?
Troppo impegnativa?
Non credo di essermi comportata come una che asfissia
il proprio uomo: non sono mai stata a chiedere il perché e il
per come di certe assenze di settimane, non ho mai fatto
domande sul tuo lavoro, sui tuoi imbarchi, sui tuoi
spostamenti.
Ed ora mi devo sorbire una pappardella edificante di
buona coscienza sull’onda della quale devo farmi una
ragione che tu mi molli definitivamente per qualche
maschietto?
Come
donna,
secondo
te,
dovrei
prenderla
sportivamente?
Converrai con me che, quando mi vendicherò, sarà
solamente una reazione normale.
Del resto ho una mia dignità, di donna, di donna che ha
amato e ha dato i suoi sentimenti, con una certa età e
reputazione da salvare, con anni futuri da rimettere in moto
con inizi faticosi sempre più in salita: avrò sicuramente
buoni motivi per essere avvelenata, no?”
Luca ascoltava con lo sguardo intenso rivolto alla foto
che ritraeva una coppia sfocata, felice e sorridente.
Pensava, in maniera professionale, che l’inchiesta stava
andando tutta in discesa, con una cassetta registrata che
costituiva la prova di un omicidio e spiegava il movente, e
soprattutto portava, per coincidenza fortunata, ad
identificare l’assassino per nome e cognome.
Si immobilizzò nel cercare di ascoltare rumori, reazioni.
Udì la voce dell’uomo, un soffio grave.
“Mi dispiace osservare certe reazioni da parte tua, Nora,
soprattutto con la coscienza di essere a posto e di averti
detto la verità.
Nessuna scusa pittoresca, nessun’altra donna in caldo
da qualche parte.
Sto maturando delle convinzioni, in certi momenti
anche dolorosamente, e le sto portando alla luce per il mio
237
processo di crescita, perché non cresci e invecchi solo tu,
Nora…
Vecchi fantasmi, demoni, comunque affascinanti, si
stanno riaffacciando nella mia vita e ci sto facendo i conti
per sapere chi sono e cosa voglio.
Sono ‘gay’.
Lo sono sempre stato, probabilmente, solo che prima
ero in letargo o in bilico e non avvertivo dentro di me una
piena consapevolezza.
E’ tutto vero, te lo ripeto definitivamente: nessun
trucchetto per scaricarti a favore di un’altra donna.
Puoi chiamarmi come più ti piace: ti capisco.
Ma non posso permetterti altre reazioni che esulino da
quello che è la nostra complicità e la nostra intimità.
Che c’entra la Capitaneria di Porto? Gli amici e i
colleghi?
Questo è rancore di persona che tende solamente a fare
del male e io mi devo difendere”.
Sperlozzi sentì l’uomo alzarsi in piedi dalla poltroncina,
captò un rumore molto sommesso dello schiacciamento
della sigaretta nel portacenere, un lieve muoversi di questo
sul tavolino, e udì la donna.
“Chiamati ‘gay’ o chiamati come altro ti pare, per darti
una verniciatura di rispettabilità: per me sei un frocio
bastardo che mi ha preso in giro e te la farò
pagare…e…cosa vuoi fare?
Credi di farmi paura?
Vuoi fare la rappresentazione dell’uomo con le palle?
Non mi fai paura, ricchione, non mi fai… ah… ah…”
Il commissario annuì: ci siamo, ecco.
La donna era stata brancata per il collo da una stretta
ferrea, cercava di reagire con il carisma della femmina
adirata, più che con risposte di carattere fisico, incredula.
Sperlozzi la sentì rantolare e sbattere contro il muro con
più tonfi accompagnati da singhiozzi e risucchi d’aria
nervosi.
Provò ad immaginare il suo sguardo grigio acceso di
paura e odio, senza profondità, senza più passione, già
morto prima della vera morte.
238
Armando Gotiri la stava strozzando picchiandola
violentemente contro la parete per farla tacere, e intanto le
stringeva il collo.
Lei reagiva per come poteva, con sibili rauchi e
muovendosi scompostamente, intontita dalle testate nel
muro, accesa solo da istinto di conservazione.
Risuonò un tintinnare delle bottiglie sul tavolino, forse
sfiorato, un rumore del divano urtato e un suo conseguente
cigolio di sfregamento dei piedini sulle mattonelle.
Ancora il sibilo della donna, scarico, quasi un fischio,
tra i tonfi al muro sempre più radi.
Poi il silenzio, quasi irreale, rotto da un respiro solo.
Udì solamente un rifiatare affannoso e si figurò
Armando Gotiri che cercava di ricomporsi prima di uscire
dall’appartamento.
Riconobbe poco dopo, infatti, un rumore affrettato di
passi e il cigolare della porta d’ingresso aperta e non
richiusa.
In ultimo un lontanissimo discendere le scale.
Poi ancora un lunghissimo silenzio: il solo fruscio del
nastro che girava e girava fino alla fine e lo scatto secco del
registratore che si spegneva.
Il commissario Luca Sperlozzi pensò con la fronte
aggrottata che, per stavolta, aveva avuto una bella dose di
fortuna.
La Scientifica avrebbe confermato, anche se con
maggiore dovizia di particolari, quello che lui aveva appena
ascoltato ed ampliato con
immaginazione ed intuito,
lampante e veramente semplice.
Era stato un delitto passionale, sì, di passioni e
passioni, non premeditato, una reazione ad un annunciato
ricatto con un colpevole da rintracciare e catturare.
Luca scrutò di nuovo la foto, la coppia, il suo vecchio
amico Armando Gotiri sorridente.
Il suo sguardo si fece cupo come un lago in ombra, e
molte immagini e ricordi si agitarono su un fondo senza
fine, frenetici nel voler venire a galla, compressi troppo a
lungo in uno stato di apnea dolorosa.
239
Fu il ritorno del passato, sepolto e quasi dimenticato, a
reclamare il suo posto con prepotenza nella disarmante
sfacciataggine dell’assoluta sincerità almeno con se stesso.
Si rivolse ancora una volta verso la vittima appoggiata
alla parete, Luca Sperlozzi.
Si confermò le sue impressioni iniziali: una donnetta
che avrebbe potuto suscitare anche un’infinita pena
samaritana.
Le coprì pietosamente il volto con un centrino posto
sopra il divano.
Lasciò poche raccomandazioni secche al piantone sul
piano, nell’attesa dell’ascensore per scendere.
Si avviò, poi, stanco e pensieroso, all’ingresso giù al
piano terra, ad attendere la Scientifica all’aperto, a
respirare aria pura senza correzioni di lavande o di sughi a
sobbollire per qualche pastasciutta.
Fu circondato da tanti caotici pensieri abbracciati ad
immagini, odori, sapori di tempi andati.
“Ti dovrò dare la caccia, adesso, Armandino…
Sei indifendibile.
Spero tanto, però, di non riuscire a prenderti…caro…
Metti gli oceani tra noi, Armandì, e non ti fare
beccare…”
Al portone della casa, travolto da fantasmi e ricordi, si
mise gli occhiali da sole, per avere una sua intimità umida
in un accenno di pianto liberatorio, e nell’attesa, ignorando
i curiosi, si accese una sigaretta francese, ‘papier mais’, di
carta gialla senza filtro: una comune passione di
affascinanti tempi andati di altre passioni.
240
ACROSTICO PELOSO
Talvolta accade di trovare libri o giornali su una
panchina ai giardini pubblici, dimenticati o, sovente,
abbandonati lì volontariamente per una gioiosa voglia di
condivisione.
Ieri mattina presto, come ipnotizzato, in preda ad un
irrefrenabile desiderio di uscire che non so giustificare,
anche io ho rinvenuto su un muretto un eccentrico
quaderno dalla copertina a fiori e dalle pagine color fucsia
trattenute da anelli, molto appariscente, vergato da una
fitta grafia a mano, chiara, ordinata, con brani preceduti da
date, come un diario.
Sembrava che aspettasse me o che io fossi certo di
trovarlo.
Avido di curiosità, l’ho ghermito con eccitazione e mi
sono precipitato a casa per immergermi nella lettura e per
sapere…
“30 giugno
S
veglia all’alba: è il momento migliore per andare a
cercare rocce interessanti per la mia collezione.
La luce radente evidenzia meglio le venature e le
sfumature di colore di ciottoli che, con il sole alto,
perderebbero certe loro caratteristiche nel riverbero del
giorno.
Ho scoperto da pochissimo una piccola radura pietrosa
quasi inaccessibile, poco distante dalla mia baita isolata.
Sto ambientandomi da poco in questo posto dimenticato
da Dio e dagli uomini: è una recente scelta di vita per uscire
da una mia situazione di fragilità e di esaurimento.
Vivo da eremita e ricarico le batterie in solitudine:
coltivo il solo interesse di raccogliere pietre belle e non
comuni, almeno per me.
Oggi è stata caccia grossa in questo luogo che sembra
magico.
Ho trovato dei sassi mai visti, sferoidi, assolutamente
lisci, con particolari sfumature che li fanno somigliare a
241
piccole melanzane luminose, quelle rotonde bianche e
violacee.
Ne ho raccolti di diverse grandezze e ho provato un
formicolio incontrollabile ed un’oppressiva inquietudine.
1 luglio
I
nnaturale appetito: l’averlo mi stupisce e mi rende di
buon umore.
La calma del posto trasmette entusiasmo e rende
positivi.
Stamattina ho riassaporato antichi piaceri di una
maggiore cura per il mio corpo.
Mi sono gratificato con una doccia frizzante d’acqua
fredda, a lasciare senza respiro e a tonificare la pelle, e con
un’accurata rasatura.
Ho notato un pelo nero sul naso e ho sorriso indulgente
allo specchio con una fatalista meditazione effimera sulla
vecchiaia che avanza e che si manifesta anche con
ipertricosi superflua.
Ho cercato invano d’estirparlo con una pinzetta.
Il pelo era saldamente abbarbicato al naso ed il tentare
di strapparlo mi ha procurato delle fitte come di spillo a
pungere.
Per un attimo ho avuto l’impressione che il pelo ‘volesse
evitare’ la presa delle pinzette.
Non ho permesso di rovinarmi la giornata per così poco.
Sono andato in giro per le pietraie senza insistere.
2 luglio
A
ppena sveglio ho avvertito un forte bruciore al naso.
Sono rimasto sorpreso, davanti allo specchio,
scorgendo il pelo di ieri più spesso e più lungo.
Ho prurito con un solletico che si dirama all’interno
delle narici fino ad arrivare al seno paranasale.
Ho applicato alla radice una pomata all’ittiolo per
venirne a capo empiricamente, ma un comando interiore mi
ha ingiunto di lavare il viso.
242
Pencolo confuso tra disagio e tranquillità non convinta,
immerso in riflessioni angosciose che s’affacciano come
fossero evase da un campo recintato, e sono blandito da
voci interiori rassicuranti che verniciano con una patina di
naturalezza e di serenità la realtà che mi sta occorrendo.
3 luglio
M
i sento inquieto: oggi ho cominciato ad avere
paura.
Alle prime luci dell’alba ero già davanti allo
specchio del bagno per vedere quello che avevo sentito
formicolare per tutta la notte in agitato dormiveglia.
Non esiste più il pelo, almeno nell’accezione ordinaria
del termine.
Al suo posto un piccolo cavetto elettrico nero e lucido:
sporge dal naso che è gonfiato arrossandosi.
Ho provato ad afferrarlo con le dita per strapparlo, ma
ho percepito una scossa dolorosa e ho notato che il pelo, il
cavetto, la cosa, inequivocabilmente si muove di sua
iniziativa.
Sono sopraffatto da un’emicrania furibonda.
Da dentro mi si ordina di non pensare e di sdraiarmi in
veranda: obbedisco spossato.
La giornata si è dipanata tra incubi, forse generati dalla
mia fantasia, e inaspettati bagni di benessere interiore, volti
a rasserenarmi, in serotonico cullare di pensieri
tranquillizzanti da parte di qualcosa o qualcuno nella mia
testa.
Ho il cervello in condominio con altre presenze: lo
avverto in momenti di lucidità, sempre meno frequenti,
come quando mi accorgo di mangiare carne cruda
sanguinolenta direttamente dal piatto nel frigo.
Non comprendo cosa stia accadendo: forse tutto ha
attinenze con quelle pietre levigate che sembrano piccole
melanzane…
4 luglio
243
O
dio dividere la mia esistenza con questa cosa
schifosa e viva che continua a crescere sul naso.
Lei percepisce il mio odio e credo che lo
contraccambi.
Vorrei scendere in paese, andare da un medico, in
farmacia, per risolvere il problema ma questo verme nero,
perché ormai è un lombrico vivo, m’impone di rimanere alla
baita e di mangiare.
Ignoro se sia lui che mi parla e mi gestisce come un
pupazzo: so soltanto che ascolto voci che non ammettono
discussioni o contestazioni.
Odo dentro di me messaggi suadenti, rivolti con
gentilezza ma categorici, e mi sovviene la vicenda sui riflessi
del cane di Pavlov: se non assecondo con pronta decisione
inviti e comandi, sono percorso da dolorose scariche
elettriche.
Ho difficoltà respiratorie: avverto il condotto nasale
pieno, probabilmente di quel verme che mi sta scavando il
cervello.
Vorrei scappare, ma sono costretto a scrivere.
E’ deciso, non so se da me, che qualcuno dovrà
sapere…
5 luglio
D
eliziosa è l’elica del ventilatore che gira e rinfresca:
non esco quasi più.
Passo il giorno nella baita ad ascoltare la
crescita del verme, respirando con la bocca, con un
insopportabile mal di testa.
M’infastidisce la luce ed ho socchiuso le persiane.
Faccio la spola tra letto e frigorifero anche se ho la
sgradevole sensazione di essere diventato io stesso cibo per
questo essere che mi scava dentro e che non è più neanche
gentile come i giorni scorsi.
6 luglio
244
E
spiro ed inspiro affannosamente.
Mi sento come un automa senza volontà, inerte
sul letto o a scrivere questo resoconto.
Ormai rantolo con un senso d’oppressione nel petto e la
testa mi sta scoppiando.
Mi sono sorpreso a piangere in un barlume di lucidità
sempre più raro.
Sto scrivendo di questa sofferenza, anche se intuisco
che quella cosa lucida nera può comprendere quanto io
registro.
Potrebbe impormi di cancellare queste ultime righe e di
bruciare la pagina ed invece lascia fare.
Ci sarà un perché anche per questo, credo…
7 luglio
N
ell’armadietto farmaceutico del bagno ho due
confezioni di Tavor.
Tante volte, stanotte, ho pensato di farla finita: il
verme, ancora più grande, pareva dormire.
In realtà ha controllato, vigile, ed ogni volta che ho
provato a levarmi dal letto mi ha tramortito con micidiali
scariche elettriche.
Piango senza saperlo, forse mangio, probabilmente
dormo.
Di certo esiste solamente il fatto che la cosa cresce e si
espande dentro di me, nella mia testa.
Sono suo.
8 luglio
T
rattengo a fatica un brivido di raccapriccio.
Il naso è quasi scomparso, ridotto ad un ammasso
gelatinoso purpureo.
Vi si agita sopra sinuosamente un’anguilla nera, lucida,
viscida, che saggia l’aria e la temperatura, che, non so
come, vede e ispeziona l’ambiente circostante e sorveglia i
miei movimenti.
Si stanno moltiplicando le voci dentro di me.
245
Nella lucidità sempre più rara e scheggiata sono
sopraffatto dal concetto evangelico di Legione e ipotizzo di
possessioni diaboliche.
Non riesco più a distinguere se sto respirando
autonomamente, così otturato ed oppresso, e se sto
scrivendo per mia volontà o su commissione di chi vuole
diffondere questo resoconto raggelante per un suo disegno.
Il cervello ormai non mi appartiene quasi più: l’ho
realizzato con la certezza di un san Paolo folgorato dalla
rivelazione della verità.
Sono bersaglio di endorfine elargite secondo criteri che
a me sfuggono, per continuare a vivere senza troppo
soffrire, senza troppo riflettere, soprattutto senza reagire.
Non riesco a pensare fino a quanto durerà e cos’altro
dovrò vedere.
Vegeto anestetizzato.
9 luglio
R
ido isterico nell’impotenza agghiacciante a reagire.
Sono sfinito, debolissimo: respiro sibilando e
deglutisco con infinita pena.
Mi è stato ordinato di scendere al paese a notte fonda e
di lasciare questo quaderno su una panchina o un muretto
del giardino pubblico.
Comando perentorio.
Ho
rarissimi
sprazzi
sempre
più
brevi
di
consapevolezza: scrivo con l’impressione di essere guidato
con suggerimenti e di non essere in pieno possesso delle
mie facoltà anche se ho un’estrema speranza d’autonomia.
Sto chiedendo aiuto, nonostante tutto…
Annoto, tuttavia, le impressioni come se presentassi un
vademecum comportamentale, un manuale d’istruzioni.
Ho un presentimento che si sta trasformando
rapidamente in certezza: domani sarà il mio ultimo giorno
di vita da umano.
L’anguilla, il serpente, s’impossesserà completamente di
me ed attuerà nuove tattiche di sopravvivenza per
mimetizzarsi in questo nostro mondo.
246
Sono troppo stanco perché immagini un suo nuovo
stadio di vita: mi vengono alla mente lezioni di biologia con
spiegazioni di metamorfosi d’insetti, nomi scientifici…,
larva, pupa, crisalide…, livrea, cambio della muta dei
rettili...
Mi assilla, tuttavia, una semplice domanda: sarà
convivenza, tra me e lui, o loro, semmai possa chiamarsi
tale, non voluta, dolorosa e parassitaria, o conquista
colonizzatrice?
Mi sento come la carcassa-dispensa di un insetto ferito,
ancora vivo, che funge da rifugio per larve di vespa,
nutrendole con il suo corpo.
Tra poco scenderò a valle...”
10 luglio
O
ggi, in totale indifferenza, sono stupito di come sto
soccombendo senza reagire a quanto è successo: mi
sento un ingranaggio insignificante.
Ho scritto a comando su questo quaderno ridicolo e
adesso lo abbandonerò su un muretto di un giardino per
comunicare la mia storia a qualcuno che dovrà avere
informazioni e conferme su qualcosa che sta avvenendo.
Mi sento un passacarte passivo ossessionato di
riassumere quanto accadutomi in questi ultimi giorni.
E’ questione di qualche istante ancora e poi morirò,
anche se non so come...
Che Dio abbia pietà di me.
Addio.”
Ora so.
Ho un ritorno d’immagini con due piccole pietre rotonde
bianche e viola lisce.
Le ho raccolte qualche tempo fa sul greto del fiume,
mentre ero a pescare, affascinato dalla forma e dal colore
sgargiante.
Lascerò questo quaderno, appena letto, in un altro
giardino, stavolta in città.
247
Dovrò solamente avere cura di coprirmi il volto con una
sciarpa, anche se fuori stagione, e di scegliere un orario in
cui si possa incrociare meno gente possibile.
La mia anguilla è irrequieta.
Il messaggio letto, tuttavia, pare tranquillizzarla.
Siamo stati, da notare il plurale, attenti e abbiamo letto
un diario che lascia trapelare un’inquietante verità.
Un altro più spaventoso messaggio, tuttavia, si legge tra
le righe, tra le pagine del quaderno, come un diabolico
acrostico…
L’invasione è davvero cominciata…
248
GLI ARTIGLI DELLA NOIA
Prologo.
Mi sono appropriato di una storia, una sorta di
messaggio in bottiglia, e vorrei condividerla.
E’ un insieme di vicende intrise di violenza, malessere
esistenziale, stati d’animo mutevoli, ricordi, riflessioni.
Potrà suscitare fastidi, forse, in animi benpensanti.
Spero, invece, che provochi considerazioni più profonde
intessute sui concetti della comprensione e della pietà, intesi
come il volere essere sempre di sostegno accanto all’uomo, in
ogni caso fino all’estremo.
E’ infatti intendimento coraggioso e nobile l’amare
concretamente il prossimo, aiutandolo in qualche modo, in
questi tempi bui fondati sulla mancanza del rispetto, della
dignità, e sul calcolo a proprio favore per ogni cosa del
quotidiano.
1. Pomeriggio.
Il cammello che deve passare per la cruna dell’ago.
Ecco.
Ogni sabato pomeriggio il mio cammello deve espletare
un ‘check in’ esistenziale, trotterellando fra diverse
riflessioni in un ripercorrere ricordi, alla ricerca di un’oasi
dove dissetarsi e trovare riposo.
Ogni volta, purtroppo, s’accascia prima e sprofonda in
sabbie mobili o si perde in miraggi pelosi ormonalmente
tentatori, o ancora con ‘cattive’ amicizie, per come dice
sempre mia madre.
Rido divertito per l’ardita immagine, in questo sabato
pomeriggio arancione a poltrire nel letto.
Cambio sovente posizione: ora fetale, ora distesa al
limite dello stiramento dei tendini, nudo sotto le coperte,
con i reni che d’istinto e senza cognizione spingono l’uccello
a svolazzare.
Attendo la decisione del bradipo satrapo per una doccia
che lavi ogni pensiero ricorrente.
249
S’affacciano eterne domande, proprio in momenti come
questi, quando il cervello abbassa la guardia distratto, non
impegnato dal lavoro, oppure è stordito da qualche altra
meraviglia di carattere amichevole o vaginalcopulereccio.
Chi sono, dove vado, che faccio, perché, a che scopo…
gli eterni quesiti da massimi sistemi… o da pippe mentali…
Mi sento un testimone legato ad una sedia, coinvolto di
presenza alla recita di un rosario di vecchine
arteriosclerotiche.
Eppure ogni sabato pomeriggio comincio sempre così e
recito idee e pensieri come madonne, anche se poi non mi
rispondo ‘ora pro nobis’.
Mi frega l’istruzione, o nozionismo che sia, quel
qualcosa che assomiglia a cultura con quel minimo di
sapere che nutre istinto e logica corrosa dal cinismo.
Forse è solamente spettacolarizzazione a quiz, con
crocette da apporre in esame di scuola guida, ma non tanto
e non sempre, e soprattutto senza vincite o premi o ancora
attestazioni.
Ho frequentato un buon liceo classico senza infamia e
senza lode e ho appreso qualche verità occidentale,
raramente qualcun’altra orientale, per un futuro carico di
ipotetiche soddisfazioni.
Adesso sghignazzo amaro ad occhi chiusi.
Mio padre sognava l’avvocato dal sangue del suo
sangue.
Mia madre, sorella senza tempo di Frate Indovino,
s’adeguava, ché per lei basta la salute e la serenità.
Io, invece, ho piantato tutto senza troppe spiegazioni,
proprio dopo il diploma, frantumando le preziose e delicate
porcellane cinesi da sogno di famiglia: la classica rottura di
ming.
Ho lavorato, quasi subito, come magazziniere, la prima
attività trovata che non m’istigasse al suicidio immediato.
Lo scopo principale di tale scelta banale era quello di
uscire di casa per essere indipendente, per non subire il
malessere quotidiano di una televisione accesa su stronzate
con montepremi o tronfie opinioni discordanti strillate
senza vergogna, per non dovere ascoltare pettegolezzi su chi
250
non sa vivere, su chi è peggio, per non essere scorticato da
lamenti e ricatti.
Il mio “Disco inferno”:
Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te pensa ai tuoi
genitori è tutto per il tuo bene è una buona famiglia abbi
cura di te non eravamo così i nostri tempi erano migliori
ringraziamo dio per non essere come siamo migliori di tanti
altri dovremmo faremo farai dovrai la vita è sofferenza
ascolta l’esperienza i capelli bianchi la vita è sacrificio
bisogna avere fede una brava ragazza l’educazione è tutto il
rispetto per gli anziani ci vuole un minimo di ordine la vita è
disciplina il sudore del lavoro l’impegno buoni proponimenti
la spina dorsale tirare fuori gli attributi per farsi valere
bisogna sapersi comportare olio di gomito sudore della
fronte se comandassi io i soldi non crescono sugli alberi
una vita sana concretezza le chiacchiere stanno a zero non
bisogna cullarsi sugli allori il mondo è pieno di furbi non
fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te fregatene di
tutto i sani compromessi molti nemici molto onore i figli
bastoni della vecchiaia i valori di sempre dio vede e
provvede il tuo futuro il tuo futuro il tuo futuro il tuo futuro
Cazzo: ogni endovenosa era accompagnata da un mio
cazzo esclamativo interiore ad invocare il dio del silenzio.
E ora occupo questo alloggetto all’ultimo piano,
ammobiliato, ché mi costa un pozzo, ma mi permette di
spararmi una sega, talvolta mentale, talvolta semplicemente
fisica, ogni tanto, senza complessi di colpa e nella
convinzione che non diventerò esaurito o cieco.
E un problema credo d’averlo risolto.
Però rimangono i distillati dei classici, non facilmente
rimovibili come quelli dei miei vecchi.
Mi perseguita quel sadico di Socrate, per esempio, da
cui tutto parte, forse, con il suo ‘conosci te stesso’.
O Cartesio: ‘cogito, ergo sum’.
251
Mi domando se Cartesio abbia avuto davvero certe
convinzioni solo per il fatto di porsi delle domande, o forse
credeva alla cicogna.
Anche io mi pongo domande, infatti, ma non sono poi
così tanto sicuro di esistere, anche se non mi chiamo
Cartesio, in slancio raro di umiltà cosmica.
Perché le aspettative erano altre, in maniera piana,
sotto tutti i punti di vista: il bastante per tutto senza
drammi e voglie del di più.
E invece, per come recita il regolamento, si deve vivere
lavorando la terra col sudore e si deve partorire nel dolore:
una ruota della fortuna completamente inceppata dalla
ruggine, almeno secondo il triangolo luminoso con l’occhio
iracondo.
S’affacciano anche tutti gli altri dispensatori di verità
nella storia dell’uomo, poeti, narratori, uomini macerati
nella dispepsia mentale, peggio degli psicofarmaci, ad
ingannare con concetti d’amore, di donne angelicate, di
amicizia nel tempo, di verità conquistate nella macerazione
della sofferenza, di valori più o meno di valore.
E bussa alle tempie anche la storia, ‘magistra vitae’, che
ha sempre avuto una classe d’asini ripetenti, alla faccia di
Vico, vero fico.
Mi rigiro nel letto da sogliola in olio bollente e il rumore
dei pensieri sfratta quello lontano del traffico sotto casa.
I pensieri fanno più rumore di certi silenzi.
I miei latrano come una muta di cani rabbiosi e
affamati.
Spolpano ricordi sputandone filamenti bavosi come
fossero bistecche avariate e a me tocca raccattare il tutto
con lo scopino spelacchiato della mia logica, da
preoccupato, rivivendolo.
Anche se non ne ho troppa voglia.
In effetti sto da qualche tempo esemplificando la vita su
concetti primari che mi consentano di vivere poche
necessarie emozioni senza complicarmi la vita con
confezioni in carta regalo o fiocchi e nastrini che
nascondano spille avvelenate.
Pochissime verità, dunque.
252
Il lavoro da affrontare stoicamente per la necessità di
pagare tutto.
La figa per le emozioni: cicciotta, odorosa e ospitale.
Gli amici per non essere soli.
Il resto sono soltanto chiacchiere da bar.
Me lo dico con vigore stringendo i pugni dentro il letto,
ma una vocina perfida di qualche figura retorica, che sia
coscienza o sia noia o sia la fatina merdona rompicoglioni,
che deve frantumare il buonumore per contratto
sindacalesistenzale, mi ronza che tutto è più complesso.
E il cammello del sabato pomeriggio zoppica tra le dune
abbacinanti d’un sole basso che infastidisce.
Anche perché io sono notturno, infatti.
Amo il neon, le luci artificiali, le disco, i pub, la notte
che risveglia gli ormoni nella tentazione del non vedibile e
del non essere visto.
La notte rende il mio cammello un ruminante mannaro
con voglia di sangue e di violenza per dimenticare il vicino
di caffè al bar che soffia sul suo cappuccino lungo con la
schiuma e la spolverizzata di cacao, per dimenticare sguardi
tristi di problemi d’affitto, di lavoro, di pene d’amore, di
macigni da rotolare avanti, di spese, di salute.
La salute, già: cartina al tornasole tra la vita e la morte.
Fossi stato San Giovanni Bosco, che sapeva quando
uno era malato prossimo a morire, già al solo vederlo, mi
sarei impiccato dopo cinque minuti.
Con la notte, soprattutto al sabato sera, compaiono a
fianco gli amici.
E non sono più solo.
Sniffy, simpatico e fragile, sistematicamente senza una
breccola, con un nomen omen circa le sue narici devastate.
Carlomagno, un fighetta brillante pieno di lira e di
spade per uso personale, con donna in agguato che sa
attendere.
Il Serpe, il più brutale e sanguigno, sano nella sua
violenza, senza un passato, senza un marchio che non sia
quello del suo cric che si porta sempre appresso.
Mi chiedo da sempre come ci siamo assortiti e dove.
Non lo ricordo più.
253
Forse in sala biliardo o attorno ad un tavolo di ramino
con rientro a raddoppio.
O forse allo stadio, in curva, sgomitando e saltando
come ossessi in un urlare morti e madonne a squarciagola
contro tutti i fuori tribù.
O ancora dal Gobbo in autoavvelenamento cosciente da
panini sulla soglia del metafisico.
Non ricordo più, e chissà perché.
So solamente che con loro mi sento in armonia con la
vita, per come la intendo, e sono pronto a castigarla e a
dimostrare a tutti, compreso il direttore barbuto di questo
Luna Park, che posso fregarmene d’ogni legge naturale.
Ma ne sei sicuro davvero?
La solita vocina stronza.
E’ quel tipo di domanda che rompe il dormiveglia
piacevole, che spezza ritmi e fantasie, che ammoscia
l’uccello che sta gonfiandosi sotto le coperte in prove
d’otturazione.
Pensa anche lui.
Pensa a fighe disponibili, a labbra prensili come le mani
delle scimmie, di morette pallide e corvine con quella
peluria da rendere luccicante di saliva, di rosce sfacciate
con gli occhi verdi, di bionde slavate e viziose con qualche
spilla sulle grandi labbra da ciucciare con buona volontà
per una ricompensa.
Vaffanculo alla vocina.
M’accendo una sigaretta e guardo il soffitto in attesa di
figure e ombre che si materializzino da mostruose macchie
d’umidità.
Per vedermi un film.
Di qualche sabato trascorso o di quello che sta per
accendersi.
E’ ancora presto, ma la luce vira sul porpora e la
fibrillazione sta cominciando; il rumore del traffico sta
riproponendosi scacciando pensieri di verifica fatti con il
bilancino truccato.
Lo so che è truccato, oppure è solamente quella vocina
che è stata creata per la sola funzione di rompere i coglioni,
ma ora s’avvicina la sera ed è già buio.
254
Gli amici tireranno fuori dalle sabbie mobili il mio
cammello e stasera andremo a prendere a calci in culo la
noia per dimenticare il non senso di questa vita di merda.
Tutto rimandato al prossimo sabato, allora, cara vocina
stronza.
E vaffanculo.
2. Ore 22
Gli urlo strozzato:
“Porca puttana!
Vaffanculo, Sniffy, a te e anche a Carlomagno e al
Serpe: mandaceli da parte mia!”
Frantumo il cordless a terra in ira incontrollata
ruggendo
di delusione e scazzo contro dio e qualche
madonna.
Picchio anche due cazzotti nel muro perché sono
immediatamente consapevole di avere causato un danno,
ché un cordless buono costa un tot, e soprattutto perché il
vicino ha da dire qualcosa di lamentoso: bercio un
vaffanculo anche a lui, il mio piatto di minestra che non si
nega mai a nessuno.
Poi intono a voce alta, isterico e provocatorio, qualche
coro da stadio – vieni, vieni, vieni a pescare con noi: ci
manca il verme - e saltello a piedi pari sul letto sfatto
facendo ballonzolare i coglioni, belli tosti e attaccati, ché
sono ancora nudo, umido di doccia, e devo sbollire
l’incazzatura.
Non fa piacere prendere bidoni dagli amici, soprattutto
il sabato sera, all’ultimo momento, poco prima del rito della
vestizione e delle decisioni.
Ogni sabato sera è creato per stare tutti insieme.
Ma questo di oggi no.
La diserzione generale era nell’aria da qualche
settimana, dopo un periodo prolungato di stanca, e
prevedevo che prima o poi sarebbe avvenuto lo sbarco
generale, anche se facevo finta che tutto andava per il
meglio comunque.
255
Forse Sniffy è il più giustificato di tutti: ha una
prelazione cui non può sottrarsi per annosi problemi
d’ordine finanziario che vanno a stridere con la sua
passione per le piste.
Senza che lui sappia sciare.
Da pochi giorni Sniffy coltiva figa importante, di
inquieta ragazza innamorata con molto grano al seguito.
Il mio amico spera, con opportune future mietiture, di
superare fastidi economici per acquistare strisce di neve dal
Moretto che, talvolta, fa credito, solo se gli dai il culo, ma
che ha una terza gamba che mette paura.
Carlomagno, a differenza di Sniffy, non ha problemi
economici, ma sta combattendo per amore una guerra di
logoramenti mentali.
Sta delirando da qualche tempo di cambiamenti e sta
lottando senza le sue due spade giornaliere: prova a farsi
chiamare semplicemente Carlo, disarmato e con qualche
crisi dolorosa.
Sorseggia meta di tanto in tanto, per non vomitarsi
l’anima addosso, e sta spendendo un botto di psico-Girmi, il
migliore in elegantissimo studio al centro, da centoventi a
seduta.
Si fa centifrugare il cervello in positività costruttiva per
fare contenta Verena, dal nome enigmatico e dal sorriso di
iena.
La sua donna sbava ed è contenta: ha potere e un
ascendente da Giove in ottima forma e personalità, mentre
Carlo è un semplice Urano cagone.
Lo frolla da ingorda con marinature di giacca e cravatta
e discorsi seri di matrimonio e prospettive concrete di
scrivanie e belle conoscenze.
E così, proprio oggi, il bastardo egoista senza spade,
Carlo semplice, ha deciso una conversione a U rispetto alle
vecchie abitudini di cameratismo sociale di fine settimana.
Il Serpe, invece, dopo critiche sempre più pesanti al
gruppo, ha deciso, anche lui in questo sabato, per lo
strappo definitivo e ha mandato a dire a Sniffy che cambia
territori e compagnie: siamo troppo morbidi e lui si
considera un duro.
256
Chissà che cosa intende per concetto di duro…, ché
una cicatrice lungo una guancia fino al mento non
costituisce necessariamente carta d’identità, anche perché
il taglierino ha colpito senza affondare troppo.
E poi va a finire che il vero duro sono proprio io che non
ho bisogno di strisce e spade o del cric del Serpe, il suo
unico vero amico, per come dice lui, quando spranga
vetrine o parabrezza o crani.
Io assumo solamente qualche mentina con figurine
strane a rilievo, quasi soltanto di sabato, quel tanto per
sentire l’adrenalina che smeriglia come carta vetrata dentro
le vene, una specie di idraulico liquido che stura i condotti
mentali intasati da anestesie quotidiane.
E ho il vezzo della bottiglina piatta di metallo, piena di
qualsiasi roba oltre i quarantacinque gradi, per oliare
l’impianto di riscaldamento.
Si fottano. Basterò da me.
Mi autoeleggo presidente e dichiaro aperta la riunione
di condominio per discutere l’ordine del giorno su come
governare questo sabato sera di merda.
Nel frattempo mi guardo allo specchio e penso che con
questo sguardo torbido e questo colorito d’alabastro pallido
non ho età.
Faccio prove di esibizionista: mi scappello l’uccello
spalancando il terzo occhio e assumo posizioni plastiche e
ambigue
da
rivista
patinata
underground
similpornointellettuale.
Mi dico giudiziosamente d’andarci piano, però, ché sono
già barzotto e carico e non mi sembra giusto spandere seme
a raggiera istoriando lo specchio per poi rimanere
gocciolante e appiccicoso negli slip per tutta la notte,
magari poi anche a secco di fronte a ipotetiche occasioni.
La tentazione, tuttavia, è forte, e indugio in tre o quattro
colpetti di polso sciolto, ipnotizzato dalla magia del paguro
alla cocque che scompare e ricompare tra la mia mano
come per un gioco di prestigio.
Intanto medito sull’abbigliamento da solitario del sabato
sera in funzione di programmi vari che prendano a calci in
culo la noia.
257
Opto per una tenuta pratica che non impacci movimenti
e mi faccia sentire a mio agio in qualsiasi momento:
classico denim e giubbotto di pelle con tasche capienti.
La riunione del condominio è ancora ferma ai
convenevoli civili con offerta di salatini e del prosecco.
Sotto sotto, però, prevedo bagarre, ché l’essere da solo
aumenta ed esalta fantasie e inventiva, quando non
deprime.
Il paguro, nel frattempo, sta diventando un’aragosta
accesa e dura ed è meglio che smetta e che m’infili gli slip
museruola.
Mi sorrido esagerato, accendo una paglia e strizzo gli
occhi per il fumo, e penso che ho un’accattivante faccia
come il culo.
Indosso i jeans, provo sguardi, espressioni facciali col
mozzicone pendulo, e mi sistemo il pacco come un’icona
con le reliquie di un santo.
Poi, per caricarmi meglio, faccio il personaggio
multitasking.
Accendo lo stereo a palla per trovare concentrazione e
conforto e rivolgo un pensiero grato ai Judas Priest
d’annata che bruceranno emozioni in eterno.
Nel contempo poppo dalla boccia smezzata sul
comodino.
E mi deodoro anche: mi si accendono odori che
richiamano figa e piastrelle di doccia alla vaniglia, e la
museruola ha un fremito.
Fantasie da immolare per questa nottata, spero.
Indosso una felpa nera
come un paramento per
celebrare la messa.
Funebre per le vittime.
Una manata di gel da grufolare nei capelli con quel
qualcosa di inespresso tra caos e marchio.
E ancora pensieri.
Adesso stanno indossando l’elmetto da soccer e giocano
ad evitare lo scazzo montante, per il bidone della brigata, e
gli artigli della noia, da spuntare con forbici esplosive di ira
da kamikaze.
258
Mi preparo per una meta esaltante alla faccia di chi ha
bisogno del meta per fare wrestling con i suoi problemi.
Controllo il corredo: sigarette, accendino, chiavi
dell’auto, tirapugni affilato di recente, fazzoletti, cellulare,
mentine con il rilievo di quadrifoglio, che portano bene, e la
bottiglina piatta piena di grappa, che è la mia copertina di
Linus.
I condomini nel cervello cominceranno a dire la loro
mentre scenderò le scale dinoccolato, con le due teste
formicolanti di strane idee.
Anzi già parlano: sento dire che non ho troppi soldini e
che la macchina è in riserva e il cellulare anche.
Carlomagno brilla per la sua assenza e per la sua Alfa.
Del cellulare posso fare a meno perché stasera non
squillerà da parte di nessuno e sono troppo incazzato per
socializzare con qualche numero.
Mi calo nella parte del personaggio dignitoso, del
samurai metropolitano, e lascio telefonino e le chiavi
dell’auto sul comodino sibilando concetti astiosi generali
sull’indifferenza di dio verso gli umani.
Quindi stasera programma pedonale, contemplativo,
alla ricerca della sorpresa fai da te con poco, delle nozze coi
fichi secchi, a zonzo per vedere varia umanità e riflettere su
come invertire il volano della sfiga per i prossimi sabati.
E vaffanculo al condominio, ché sento la noia che mi
sta artigliando una spalla.
3. Ore 23
Può cominciare a pulsare la notte.
Esco di casa e non appena mi richiudo il portone alle
spalle sono colto dallo smarrimento di un capo di cotone in
centrifuga.
Il cervello esplode in sinapsi caotiche.
Il rombo delle automobili e del traffico serale si
assomma alle facce degli automobilisti e pedoni: la squinzia
assente con un vacuo sorriso che fa le bolle con la gomma
dietro un parabrezza acquario, l’autista impaziente che sta
259
due automobili più dietro, col cappelletto dalla visiera ad
abbaino, marine hip hop in libera uscita.
Poi ci sono i pedoni: pochi, ostili o morbosamente
curiosi, quando non menefreghisti ad occhi bassi e passo
svelto.
Ronzano i pensieri e le sensazioni.
Mi sento orfanello, stasera, senza i miei amici, senza
macchina, senza pila, trasognato in prospettive di
galleggiamento per le prossime ore, senza troppe curiosità
ed entusiasmi da euforia di situazione diversa, ché la novità
da soli rende spesso esitanti.
Un piccolo sorso di bumba mi scalda ed equilibra
addolcimenti e tristezze.
Ricordi di altri sabati si sovrappongono, in piacere e
rimpianto, al passo con la mia andatura sotto un porticato
di luce gialla che scalda ed estranea al tempo stesso.
La riunione interna di condominio è al culmine nella
discussione del primo, fondamentale e unico ordine del
giorno: che fare?
Una voce sopra tutte, della signora Trippa del piano di
sotto, graffia stridula: nutrirsi e vedere gente, tanto per
cominciare.
I condomini, stranamente tutti d’accordo, urlano
all’unisono: dal Gobbo, dal Gobbo…
Mi dirigo deciso verso un chiosco mobile all’aperto,
parcheggiato tutte le notti in una piazza vicina, con seggiole
e tavolini di plastica anche a meno quattro, con automobili
in tripla fila, con una scia di odori che rasenta la fumeria
d’oppio farcita con oli d’essenze esotiche.
L’olio d’essenza del Gobbo è quello di semi, usato al
limite della mutazione in morchia per macchinari vari:
spande un odore nauseante che ti impregna anche gli abiti,
in friggitoria di cose aliene.
E’ accompagnato dall’afrore di salamini e wurstel alla
griglia che rilasciano grasso come bombe ad orologeria,
dall’aspro nell’aria di crauti acetati con acquaragia, dal
muffo di panini dai companatici fantasiosi ed improbabili,
unti di sciolina.
260
So quindi come farmi male, ma almeno vedrò qualche
volto amico abituale e mi sentirò meno solo.
Magari avrò modo di combinare qualcosa con altri.
Accelero il passo in preda ad una fame da licaone, buon
segno di voglia di dire e fare e baciare.
Il chiosco è un presepio con lucine variopinte e neon di
stelle comete schizzate di sugna.
Il Gobbo armeggia con palette e coltelli e dal pulpito
fumigante guarda sornione la platea degli affamati sotto di
lui.
Prepara panini con una sigaretta in bocca, si gratta il
culo o i coglioni, prende i soldi, tocca il pane e afferra un
wurstel con le mani callose, sacramenta contro il freddo o
contro chi paga con banconote da cinquanta.
E’ una serata di vaffanculo anche per lui, dunque, e mi
sento solidale.
Ordino la mia razione di sopravvivenza, o anche
sopramorienza, a seconda delle prospettive: grassi, tanti,
proteine, qualche carboidrato naufrago e minacce assortite
per il fegato.
Mi guardo intorno: poca gente.
O tutti già andati a fare danni, o ancora non arrivati per
il rifocillamento.
Al tavolino in fondo c’è Samantha, con l’acca, che
smangiucchia una piadina ripiena come un canotto di
clandestini.
Mi tengo distante: non mi va di fare discorsi esistenziali
seri sul concetto d’identità.
Samantha, in effetti, si chiama Oronzo, è alto un metro
e novantadue e pesa centoquindici chili.
E’ un omone mite e stempiato di buon appetito.
In realtà sotto il cappotto e il maglione indossa
biancheria intima femminile e sotto i pantaloni di fustagno
ha calze a rete con la riga dietro e culottes color lampone, di
quelle scosciate di fianco, con lo spacco.
Come cazzo abbia fatto a reperire taglie per il suo
corpaccione, è un mistero gaudioso.
Si esibisce pochissimo, gratificato dalla sua essenza
femminile riservata, e non conclude mai sul concreto un
261
qualche incontro perché non è convinto ed è timido: una
donna cannone angelicata del dolce stil novo o del circo del
Gobbo, con uccello che non è dato di sapere quanto sia di
carattere.
Ogni tanto si confida, quando è particolarmente
malinconico, ed è delicatamente umano a dispetto della
stazza da mercantile, con occhi messaggi che luccicano in
bottiglia.
Quando si esibì con noi, alcuni mesi fa, seguiva
attentamente discorsi sul senso della vita dello Sniffy, alle
prese con i suoi soliti problemi finanziari.
Cominciò a parlare anche lui, non invitato, ma aveva
una voce cullante e ha un aspetto che incute soggezione,
perché se s’incazza potrebbe farti male male.
Parlò di smarrimenti, di ricerca di una tranquillità
interiore, di equilibri.
Poi tirò giù la zip della felpa accollata e ci fece vedere il
negligé colore avorio con annesso reggiseno, riempito di
qualche fazzoletto, tra biondi pelazzi trogloditici.
Sorridemmo come beoti, non troppo apertamente, ché le
mani di Samantha sono due badili, e fummo catturati da
quel fare dolce e dentro le righe a contrasto dell’aspetto di
camallo in libera uscita.
Samantha mi ha visto e mi saluta con un cenno.
Gli agito la mano rimanendo presso il Gobbo in attesa
del panino.
Non ho voglia di fare discorsi impegnati stasera: già
girano i coglioni per conto mio.
E poi, tra pantaloni di velluto e scarpe, intravedo calze
velate fumè e penso che oggi sia sul sentimentale torbido.
Mi guardo intorno e faccio l’appello: c’è il tamarro con
figa insaccata in pelle nera, pronti per la disco, il minitour
dei puttanieri con stereo a palla, i quattro del poker di
mezzanotte, studentelli assortiti che si credono coriacei e
navigati solo perché mangiano qualcosa dal Gobbo che
spignatta e smadonna in mezzo ad un fumo sempre più di
categoria euro uno.
Pago, sbocconcello distratto, tirato per il braccio da
pensieri e programmi tra i più disparati.
262
Scuoto la testa da solo, insoddisfatto ed annoiato, con
le immagini del branco dei sabati scorsi che mi perseguita e
m’immalinconisce.
Bisogna reagire, cazzo, che è senz’altro meno elegante di
“in piedi, soldato”, di Matrix, mi pare...
Centro la pattumiera con mezzo panino gocciolante e mi
dirigo verso la stazione.
In una stazione c’è sempre da vedere, da fare, e verso
mezzanotte arrivano le prime edizioni dei quotidiani.
Ecco, mi frego da solo: sono un semplice magazziniere
con studi interrotti per pigrizia, ma mi piace leggere, amo
documentarmi, discutere, controbattere, farmi idee
personali.
E ho sviluppato lessico e dialettica che male si sposano
con l’aggressività e la voglia di non sapere per stare meglio.
Mi merito un vaffanculo anche io.
Accendo una paglia riparandomi contro un muro e
m’incammino, gobbo come il Gobbo, ma senza panini, verso
la stazione, azzannato da pensieri del passato e scorticato
dal presente con la noia uggiolante che mi lecca i polpacci e
graffia con i suoi artigli.
Malessere e incazzatura montano a neve e ora proprio
non ho bisogno di mentine strane, ché sono bello carico e
aggressivo che basta e avanza.
Mi accontento di bagnare appena le labbra alla mia
bottiglina piatta: la mia camomilla personale che mi fa
tendere pacificamente un braccio alla vita senza che io
debba per forza spezzare il suo.
Anche se vorrei picchiare qualcuno e i pretesti si
rimpiccioliscono passo dopo passo fino a divenire
insignificanti.
Per stare meglio e convogliare una certa ferocia urbana
nel cosmo in armonia con questo mondo violento.
Mi batto una mano sulla spalla per congratularmi per la
bella immagine con un sorriso verde acido.
E me la prendo con una lattina maltrattandola a calci
stizzosi.
263
Il buon ragazzo lavoratore dei giorni feriali sta lasciando
il posto ad una bestiaccia notturna di savana che fino a ieri
cacciava in branco e adesso deve fare tutto da sé.
Dio, che palle…
4. Ore 24
La stazione ferroviaria, a mezzanotte, ha qualcosa di
irreale, sospesa tra uno scenario di film dell’orrore e il luna
park che ingolosisce i bambini viziosi a caccia di emozioni
forti.
I tossici escono dai tombini nella nebbia della notte,
replicanti zombies di Michael Jackson in ‘Killer’, e le
puttane, i trans e i finocchi lanciano richiami da sirene,
sbattendo le ciglia lunghe di gazzelle da macellare e
sculettando con brio.
Altri guardano altri per come si può guardare qualche
prosciutto che cammina, da spolpare fino all’osso.
Qualche sabato fa avrei avuto l’uccello di marmo, pieno
da scoppiare, e mi sarei trovato nella stazione con i miei
amici facendo finta d’essere davanti al banchetto del
venditore di dolciumi del mercato rionale a decidere il gusto
della caramella da rubacchiare.
Oggi, invece, mi sento bastonato dentro, demoralizzato
senza complici, risate cameratesche, fantasia di gruppo,
orfanello dalle unghie rosicchiate e dai polpastrelli
inoffensivi.
Mi guardo intorno in attesa di un’erezione mentale che
non arriva, nonostante stimoli vari nascano da ogni parte.
E penso al da farsi mentre m’accendo una sigaretta.
Il più bieco da farsi per alleggerirmi di tossine
d’angoscia.
Non è la stessa cosa, tuttavia, il prendere a calci, senza
compagnia, un barbone isolato in un cantuccio semibuio,
soltanto perché dorme avvolto nel cartone e russa come un
maiale.
Non si ride poi tanto, difatti, da soli, e il puzzo del piscio
e del vino del cartoccio non trasmette l’abituale buonumore
264
acido e la voglia di vendetta contro la natura così crudele,
seppure per interposta persona.
Manca il fiato degli altri soldati di ventura con cui
condividere la sortita e la conquista di un piccolo territorio
occupato dal nemico.
La vittoria ha bisogno d’essere divulgata e celebrata
insieme ai compagni di spedizione punitiva.
Il vecchio laggiù, quindi, per questa sera è salvo, e mi fa
pena, stranamente, adesso che manca la voce perfida del
Serpe che studia castighi da somministrare con la
scientificità di una vivisezione.
La mancata vittima è circondata da sacchi di plastica di
supermercato pieni di stracci: è il manuale vivente del come
dormire avvolti da un armadio quattro stagioni portatile per
tenersi caldi e avere a portata di mano l’intera proprietà.
La lumaca metropolitana col guscio di cellofan che
puzza di sudore e vomito.
Mi recito un rosario di vaffanculo allo schifo di certe
situazioni e alla rabbia che richiamano.
Ci fosse anche solamente quel fighetta di Carlomagno,
gli ammollerei un calcio nei denti, a quel vecchio, tanto per
vederlo contorcersi e per omologarmi ancora una volta nel
concetto che la vita è crudele, la mia piccola verità da non
dimenticare, appresa da autodidatta cui piace leggere senza
sistematicità.
Scaccerei anche quella rompicoglioni che è la noia, che
sbraita nel cervello come una madre apprensiva per
ricordarti di mettere la sciarpa con questo freddo.
Fanculo anche a lei, non mia madre, o forse anche lei,
ma soprattutto alla noia.
Il pisciatoio al binario venti attira attenzioni di vario
genere: dalla pisciata semplice ad altro di più complesso.
Riverbera d’una luce bianca intervallata dall’andirivieni
scuro di sagome elettriche.
Sembra la casina, anzi, il cesso di Hansel e Gretel: un
posticino da fiabe perverse luminoso nella boscaglia nera
della città di notte.
In gruppo, solitamente, germogliano idee di malignità,
da attivare con creatività sadica.
265
Oggi, da trovatello quale mi sento, invece è mortorio.
Infatti non è la stessa cosa andare da soli a far finta di
pisciare bilanciando l’uccello gommoso davanti agli occhioni
di una mammola in libidine che sbava e spera nel colpaccio
mentre srotola la lingua per farti capire e promettere.
Qualcuno, ogni tanto, di quelli più vaccinati di altri,
s’inginocchia di colpo e prende di sorpresa, con la bocca che
è una pompa idrovora, e la faccia come il culo, di fronte ad
altri che guardano tra invidia e immedesimazione e si
segano più freneticamente del solito, in rituale collettivo.
Spettacolo smanettatorio che neanche al Mugello.
Ricordo il Serpe che si materializzava all’improvviso da
una cabina di cesso chiuso, che era una palude per
l’intasamento dello scarico, e cominciava a dare scappellotti
dietro la nuca di qualche aspirapolvere in ginocchio, sempre
più forti, ridacchiando cattivo senza dire nulla, fino a che la
sorpresa era sfrattata dal dolore e poi dalla paura.
Sniffy faceva la faccia truce e mostrava il tirapugni
luccicante e Carlomagno minacciava con modi civili e
ineluttabili da ragioniere della mala.
Era l’età della tangente sul pompino.
Riscuotevamo successo.
Portafogli grassocci passavano di mano.
La paura sgocciolante si confondeva lungo le maioliche
bianche istoriate da schizzi di liberazione.
Qualcuno, ma molto raramente, godeva di più e
mugolava implorando anche qualche pedata, e noi si era
generosi oltre la filantropia e calzavamo gli anfibi con la
punta di ferro.
E ora?
Potrei solamente subire un tarantolato che succhia, per
passare dieci minuti, per una forma di eretica pietà, e si
esaudirebbe
una
botta
di
culo
vagheggiata
dall’inginocchiato che ha evitato il castigo della sorte e sta
sgodazzando con il torcicollo.
No.
Oggi è troppo avvilente e poco divertente, per me, e non
mi farebbe effetto neanche un quadrifoglio sotto la lingua:
troppo depresso anche per le mentine che portano fortuna.
266
Meglio andare laggiù, verso i fattorini della cooperativa,
a vedere se ci sono già le prime edizioni dei quotidiani.
Raffredderò cattivi pensieri con l’occhieggiare qualche
titolo, arraffare una copia e leggere alla luce del lampione
immediatamente fuori della stazione.
Starò tranquillo per qualche minuto.
I tossici che squadrano tutto come squali ubriachi
sanno che è meglio evitarmi per un concetto metropolitano
innato, darwiniano, di selezione della specie.
Eccomi alla luce smorta, con un’altra sigaretta
penzolante.
Cerco d’interessarmi allo spaccio delle verità, con la
noia che da dietro una spalla mi sgomita troppo da vicino e
curiosa su qualche titolo dicendo, non richiesta, la sua in
disincanto totale.
La noia è un brutto cliente per parlarci assieme: è
tuttologa e sempre troppo piena di sé.
Ecco perché rompe i coglioni.
Annuso l’odore del piombo e dell’inchiostro fresco della
stampa, nella notte, e i polpastrelli rossi per il freddo
s’anneriscono diventando milanisti.
Scivolano auto di passaggio con rumori ovattati dalla
notte.
A momenti tante.
Ora poche.
Si muove incessantemente la corte dei miracoli che
muta in soggetti, ma non in categorie: passanti frettolosi,
esseri barcollanti, portaerei rossicce che ancheggiano sotto i
portici sfarfallando la borsetta in classica iconografia del
puttanesimo.
Continuo a sfogliare le pagine distrattamente, con
l’uccello barzotto per pensieri liquidi che sono passati dal
pisciatoio e si stanno espandendo negli slip e sotto i portici.
Accarezzo l’idea di una pompa etero, senza preliminari,
senza corteggiamenti e smarronamenti, tanto per
svuotarmi, trascorrere un quarto d’ora, alleggerirmi da
tensioni, scandire e cazzottare il tempo con colpi ripetuti
come le succhiate.
267
Mi frega la desolazione del portafogli rispetto ad una
marchetta appena decente.
Mi
incarto
dentro
e
appallottolo
il
giornale
rabbiosamente in simmetria.
L’ingiustizia della vita e della natura umana passa
anche nel mancato svuotamento delle palle, soprattutto
quando se ne ha voglia, nell’inadeguatezza tra la domanda e
l’offerta in transazioni di carattere sessuale, e anche nelle
complicazioni affettive, se non si pensa a puttane, ché ci si
illude che storie d’amore possano durare per sempre e
invece ploppano dopo due o tre settimane per assenza di
dialogo.
La verità è che non si parla.
Soprattutto a bocca piena.
Soprattutto a testa premuta sulla pancia in
trivellazione dell’esofago.
Mi guardo intorno con astio verso il mondo, senza
troppi soldi, senza stimoli, con pensieri tristi e senza
speranza.
Perché chi vive sperando, muore cagando.
Non mi faccio, dunque, illusioni, e gironzolo per qualche
tempo fuori e dentro la stazione, con idee confuse che
s’accatastano pesanti.
Guardo la varia umanità, qualche rara figa svelta, e
sogno soprapensiero la principessa che dopo mezzanotte
non si trasforma in zucca, o roba del genere, ma incrocio,
per lo più, soltanto facce sfatte, viaggiatori assonnati, due
madame arcigne per il turno di notte e tante puttane torve
che pensano che la vera zucca sono proprio io.
Vaffanculo ancora a tutti, ché questa è la serata dei
vaffanculo perché sta andando in vacca e in completa
solitudine.
Cacciare di notte da soli è faticoso e richiede risorse che
oggi non ho: soldi, pazienza, crudeltà, fame.
Stasera, invece, mi sento romantico, anche se sono
passato per praterie di immagini di pompini assortiti, e mi
sento fragile, incalzato da voci che potrebbero provenire
dalla via di Damasco, e mi chiedo di dubbi e di ciò che è
giusto e sbagliato.
268
Gironzolo ancora, inquieto, fanculizzando anche i prioni
della filosofia che s’agitano dentro il mio cervello frizzantino.
Bisognerebbe parlare…
5. Ore 1
“Serata fredda…”
Cerco di imbastire uno straccio di civile conversazione.
La porchetta fluorescente rumina una gomma e mi
guarda attraverso senza dire nulla.
“Rilassati: ti faccio compagnia e ci facciamo due
chiacchiere…”
Tiro fuori la bottiglina piatta per celebrare la nascita di
un’amicizia con un cicchetto in comune, ma vengo gelato di
brutto.
“Con quella faccia mi spaventi i clienti.
Che cazzo vuoi?
Non lo vedi che sto lavorando?
Non ho mica tempo da perdere coi sognatori rompipalle.
E vattene, dai…”
Mi scoppia qualche vena sparsa tra cuore e cervello e
tiro un calcio ad una colonna.
Mi faccio anche male ad un alluce e le bestemmie si
inanellano con sciolta facilità.
“Sei proprio un catrame, stronza sifilitica di merda.
Uno cerca di essere educato, di rompere il ghiaccio con
gentilezza, senza che si debba andare necessariamente a
prendersi lo scolo a casa tua, e tu mi ripaghi con la cortesia
di un caimano.
Proprio vero: questo è il sabato dei vaffanculo.
E tu stai vincendo anche la bambolina che ti ficcherei
tra quelle chiappone da cinghiala…”
La porchetta non appare per nulla impressionata.
Continua a ruminare.
Poi con voce stanca mi spiega come stanno le cose.
“Il mio amico sta laggiù dentro il Mercedes: la vedi la
sigaretta accesa?
Ecco: tu adesso te ne vai senza dire più nulla.
269
Altrimenti io fischio in maniera strana e lui viene qui
per sapere se ho bisogno di aiuto.
Non gira a mani nude e nemmeno con un tirapugni, ma
ti buca veloce e da seduto lì dentro non si vede bene che è il
doppio di te.
Fidati.
Alza i tacchi e vattene, stronzetto, che mi sta scappando
la voglia di fischiare…”
Alzo, beffardo, la bottiglina per un brindisi, a lei e al suo
pappa laggiù, tracanno un sorso robusto, e mi squaglio con
dignità, rigido come uno stoccafisso, sotto lo sguardo
compassionevole di altre lavoratrici testimoni.
Fischietto “piccolo grande amore” per darmi un tono,
per sfregio, per incazzatura mia personale assai bruciante,
con la voglia prepotente di scalciare, ruotare frenetico le
braccia coi pugni foderati di anelli contro qualche stronzo
mulino a vento di passaggio.
La depressione si sta facendo strada nelle pieghe del
cervello col passo del leopardo e a spallate robuste.
Sì: perché l’ira sta andando a braccetto con la voglia di
fare due chiacchiere da tranquilli con qualcuno qualsiasi,
per il gusto di stare in compagnia, di dire, di non essere
solo.
Mi sento uno zabaione sbattuto a cucchiaiate violente,
tra la voglia di far piangere qualcuno per odio e il desiderio
di entrare nel mondo di qualcun altro, o magari anche lo
stesso odiato, per comprendere e magari riappacificarmi.
Bello, il termine ‘pacificarsi’.
Cazzo, che memoria: è un termine usato nel film “Bird”,
la biografia di Charlie Parker, un’anima sola e inquieta.
Puttana Eva, è brutto assai sapere di Charlie Parker,
amarlo come musicista, amarlo come persona, conoscere la
sua biografia.
E’ la conferma, mi dico, di quanto si stia meglio senza
sapere un cazzo di nulla, beati gli ignoranti, diceva
qualcuno, mentre io sono sempre troppo curioso, anche se
disordinato e troppo personale in senso naif.
270
Cammino a testa bassa e non mi accorgo che ho
valicato la zona delle mignotte per entrare in quella delle
‘regine’.
Potrebbe andare bene anche fare due chiacchiere con
un trans o un travesta, ché ho intuito spesso in varie
occasioni che hanno anche loro una sensibilità, anche se
adesso provo imbarazzo al pensiero di quella volta che
spogliammo la vecchia Cinzia giù ai Mercati Generali.
Cinzia è Vitaliano, un vecchio frocio in disarmo che
cerca di raccogliere un pranzo e mezza cena a forza di
pompe senza dentiera, vestito da soubrette degli anni
cinquanta.
Più che una gazzella, è un bue muschiato, grosso e
grasso, ridicolo, privo di gusto, con una vocina chioccia che
trasuda un buonumore falso a nascondere fame e
disperazione.
Lo mettemmo in mezzo facendolo parlare della sua vita,
di quando era la regina dei Mercati e dettava legge a forza di
sculettate.
Parlava con orgoglio di giorni andati e non si rendeva
conto del tempo impietoso.
Serpe lo faceva bere da un cartoccio di vino.
Quando Cinzia si impappinò di fisso nelle descrizioni e
cominciò ad appoggiarsi a Sniffy e a me, Carlomagno
dichiarò aperta la stagione di caccia e fece la telecronaca,
con voce appassionata, di una corsa tris da milioni.
E noi spogliammo Cinzia lasciandola con i mutandoni
della nonna a rabbrividire nel freddo della notte.
Chiedeva pietà, piangeva e chiamava le tante madonne
del rosario, ché i travesta sono in genere molto pii, e le
chiamava tutte per sé.
Il Serpe, ad ogni invocazione, faceva il verso del
collezionista di figurine – ce l’ho, ce l’ho, mi manca…-.
Poi Carlomagno terminò la telecronaca dichiarando la
Turris Eburnea come doppione e ce ne andammo dopo aver
fatto un falò del capetto da boutique di Cinzia.
Si dissolvono le immagini di imprese andate dell’allegra
brigata, si diluiscono in vaghi rimorsi di verme solitario, e
271
mi viene incontro un piccolo capannello di tre trampolieri
dalle giunture velate e nodose su tacchi a spillo esagerati.
O meglio, a dire il vero: sto andando io incontro a loro.
Stanno parlando animatamente di qualche sgarbo o di
qualche sensuale algerino da dividersi nel tempo libero.
Sono vistosi e sgargianti, truccati come mascheroni,
esaltati sotto la luce crudele dei lampioni senza ombre di
altra gente intorno.
Gesticolano, marcano il tono della voce, ché penso
sempre a Wanda Osiris sotto amfetamine, teatralizzano con
improvvisi colpi di testa indietro a smuovere capelli
vetrificati da chili di lacca, forse autentici e forse no, rossi
lampone, verde alga, neri corvini.
E’ uno sbrilluccicare di anelli che sono armi improprie e
fasciano dita di boscaioli, e ridacchio dentro di me
pensando alle seghe in associazione doppia di idee.
Sono così preso dal guardare il terzetto delle grazie
isteriche che non mi accorgo che quella che sembra
Satanik, la rossa lampone, ha un doberman al guinzaglio,
piuttosto inquieto.
Graziella e Graziealcazzo mi vedono venire incontro e si
scostano appena guardandomi maliarde.
Vengo investito da una corrente d’aria in un esagerato
sbattere di ciglia.
Satanik mi è di spalle e non s’avvede del mio incedere.
Lei no.
Ma il cane sì.
Ed è animale da difesa.
Lancia un abbaiare veloce d’avvertimento, una specie di
banzai canino, o latra un Geronimo, urlo di guerra di cane
pellerossa, e s’avventa ad un braccio.
Sento un ‘cric’ che forse è uno ‘strap’.
E mi sento il braccio indolenzito.
Satanik, che è alta un metro e novanta buoni e
potrebbe partecipare alle Olimpiadi nella lotta grecoromana, tira una strattonata che quasi strozza il coyote
mannaro.
Poi mi squadra con altezzosità e mi biascica un
affettato:
272
“Scusssa…”
Proprio con tre esse, e in falsetto.
Mentre io mi tasto il braccio, mortificato e anche
appena impaurito, troppo frastornato per mandarle un
vaffanculo diretto.
Volevo fare due chiacchiere, vaffanculo sì, ma a me…
Il braccio non è rotto, ma il giaccone di pelle sulla
manica sembra una grata da clausura.
Graziella
e
Graziealcazzo
mi
sorridono
con
commiserazione e qualche flebile segreta speranza
consolatoria dietro pagamento d’una marchetta in amicizia.
Satanik ha già archiviato il piccolo incidente, forte
anche del porto d’armi a quattro zampe, e si è già girata
verso di loro e continua un accalorato discorso su quel
cazzo di algerino che dovrebbe avere le orecchie che
fischiano come locomotive.
Il doberman ghigna sputacchiando pelle di giaccone,
mortacci suoi.
E io m’allontano con un braccio formicolante, un
giubbotto da buttare, il morale sotto i tacchi e la bottiglina
che è quasi finita.
Insoddisfatto e sempre più velenoso.
Potrei anche uccidere, adesso.
Anche se è un discorso di marea: potrei anche uccidere,
ma adesso sbollisce e ho voglia di parlare, però prenderei a
calci qualcuno, ma poi vorrei sapere qualcosa di lui, e che
cazzo c’entrano le ultime notizie del giornale di prima?
Confusione.
Penso al giornale zeppo di notizie deprimenti, al
pisciatoio, al Gobbo, a Samantha, e mi scolo l’ultimo sorso.
Accendo la penultima paglia, ché sono in debito anche
di queste.
Che staranno facendo i miei amici?
Sniffy e Carlomagno stanno scopando.
Il Serpe o scopa o picchia.
Io sto scappando inseguito dalla noia che morde peggio
di quel merdoso di doberman.
Gran bella serata…
273
6. Ore 2
Non so proprio se l’uscire da solo in questa nottata di
merda sia stata una bella idea.
Mi gratta tutto sulla pelle, e in modo molto diverso
rispetto agli altri sabati con i miei amici.
E’ un percepire abrasivo, quasi tagliente, e problematico
con risvolti dolorosi rispetto a consolidate convinzioni.
La violenza programmatica di membro di un branco, poi
riciclata in violenza di scazzo furibondo da solitario, si sta
trasformando ancora in qualcosa d’altro che è una violenza
particolare, rivolta contro di me, nel guardare le stesse
situazioni di sempre con altri occhi.
Mi sento impreparato, debole.
Ruggisce qualcosa dentro, ma come il leone dei films,
verso un punto non ben centrato, con la voglia di azzannare
per ritrovare le mie verità confermate, e il dubbio, che si sta
affacciando, sul fatto che certe teorie forse non sono esatte
e non c’è nulla da azzannare.
Che palle: si sta mettendo in moto un processo di
revisionismo circa le spedizioni punitive notturne.
Cammino ristretto nelle spalle, con il braccio
indolenzito, senza più fumo, senza più bumba, con pochi
dindi e una certa prepotente voglia di scopare
all’abbandonata, con qualche delicatezza e due parole, fare
l’amore, insomma, locuzione che tanto mi ha sempre fatto
ridere mentre ora mi da l’impressione che possa essere il
raggiungimento di un’oasi.
E’ probabile che la mia atavica assenza di romanticismo
sia dipesa da squinzie in saldo che assomigliavano a
salamelle, da ragazze troppo pretenziose e avide di
sentimento rispetto ad una semplice veloce cavalcata a sud
sudest.
Resta il fatto che adesso ci vorrebbe per me una
bimbetta di quelle meno smandrappate del reame, di quelle
che poi ti dicono con voce da catechismo che ti vogliono
bene.
Minchia, che spappolamento di vecchie convinzioni, e
come mi sto ammorbidendo: mi sento uno stracchino fuori
274
frigo, comincio ad avere la gola secca e faccio un pensierino
su un piccolo quadrifoglio da sciogliere sotto la lingua.
Ma poi mi dico: a che pro?
E procedo, attendista e vigile, col passo della pantera
rosa in erezione…
Dal buio mi si materializzano due pipistrelle stivalate,
nere nere, piene di borchie e spilloni, che mi vengono
incontro chiacchierando a voce bassa.
Magari vanno ad imbucarsi a qualche festa.
O ne sono appena uscite.
Faccio la faccia del simpatico, duro, ma simpatico, e
sorrido storto con aria di bravo giovane vissuto e di mondo.
Quando mi passano a fianco azzardo un approccio che
è quasi un capolavoro di cameratesco galateo di strada.
“Dove andate, ragazze?
Serata interessante?
Posso aggregarmi a voi, se volete…
Ho qualche mentina da sballo…”
Non sprecano neanche un garbato rifiuto.
Accentuano soltanto indifferenza condita di risatine,
quelle piccole stronze che pensano di avere inventato la figa
dell’era moderna.
Poi, a distanza di sicurezza, sotto la luce di lampioni,
con altra gente abbastanza vicina e rassicurante, sparano
l’obice di mortaio:
“Vaffanculo, sfigato…
Le mentine usale come supposte e ficcatele nel culo…”
Mormoro i morti al loro indirizzo, senza neanche la
grinta sufficiente per urlarlo all’intera strada.
Maledico i miei amici assenti, ché sarebbe andata in
altro modo, se ci fossero stati: si sarebbero udite soffocate
invocazioni di pietà e di aiuto, delle troie portajella, nel
rumore di pugni dentati sulla loro ferramenta attaccata con
le spille da balia.
Poi mi dico che sarebbe anche incominciata in altro
modo, così, tanto per farmene una ragione: il branco non
parte tanto con l’idea di cercare dialoghi e compagnia
quanto con l’intento di divertirsi alle spalle di chi deve
275
espiare qualche peccato, a insindacabile giudizio
dell’assessorato alle violenze metropolitane.
Magari il Serpe avrebbe anche esibito il suo uccello e
Carlomagno avrebbe fatto il banditore d’asta per l’asta, con
me e Sniffy piegati in due dalle risate con un formicolio tra
le cosce e la voglia di ammucchiare le corvacce contro una
colonna del porticato per sentire il rumore di tessuti
strappati.
Scuoto la testa tra ipotesi e realtà, sempre più confuso,
e strascico la mia camminata verso il fiume alla ricerca di
persone che conosco e per ricaricare il thermos di bumba.
Il lungofiume è pieno di localini zeppi di fauna fino
all’alba. Il paradiso di chi vuole farsi qualche pera umida, di
chi, bello cotto a quarantacinque gradi, vuole poi dormire
dodici ore di seguito per svegliarsi con un mal di testa
stratosferico, il paradiso di chi a volte tocca il paradiso
afferrandolo per i peli d’una figa passabile e ospitale.
Mi stupisco di non averci pensato prima.
I costi, dal contabile magazziniere che è in me, sono
analizzati all’istante come contenuti e sopportabili: qualche
birra e qualche tequila, magari un panino…
Poi basta fare il brillante con gli amici degli amici degli
amici sperando che tra loro ci sia la famosa pelosa
inguinale che occorre per concludere degnamente la notte.
Stronzo bradipo che sono, di tardi riflessi e reazioni.
S’accende un barlume di entusiasmo, camerata di
diffidentissima speranza, perché una voce insistente,
proveniente da dentro o da dietro le chiappe, mi soffia che
andrò in bianco.
So chi è: la riconosco subito perché mi insegue da tutta
la sera.
La fanculizzo anche a voce alta, e suono per sfregio
cinque o sei campanelli di una citofoniera già mezza
penzoloni d’un palazzo che sembra una cripta.
Ma sì, al fiume, al fiume, verso la musica latina, lo ska,
la birra, la figa, altri amici, la gente, il clan, la tribù di
ognuno per sé e dio per tutti, ché poi, a ben pensarci, si
fanno tutti i cazzi loro e chi ha figame sottobraccio non
pensa certo a dividerlo con il conoscente brillante di turno.
276
Mi sa che la voce fanculizzata ha ragione. Stasera ha
sempre ragione, pare…
Incrocio altri rari passanti.
Una troia enorme che mi fa l’occhiolino, e tremola il
budino che copre i polmoni con scossoni che dovrebbero
arrapare.
Una coppia che tra poco s’attaccherà a corrente
continua, ché sento odori di carne eccitata.
Una guardia notturna…
Le guardie notturne sono tra le persone che odio di più,
con quelle facce sempre incazzate, che ti guardano come se
tu fossi una merda o un delinquente matematico.
Si fanno forti della trentotto e della radio: li vorrei
vedere a culo scoperto dietro la stazione…
Monta l’odio, l’incazzatura sta facendo free climbing tra
i miei pensieri: buon segno, perché vuol dire che riprendo
quota.
Dai, soldato, al fiume a scaldarsi colla bumba.
Dai che forse riprendiamo la situazione in mano e ce la
togliamo dal culo, che brucia assai...
7. Ore 3
“Vuoi fumo? Neve? Altro?”
Il
supermercato
parlante
potrebbe
essere
napoletangiamaicano o semplicemente marocchino. Mi spia
senza eccessivo timore: non ha nulla da perdere.
E’ un disperato guerrigliero di tutte le notti e ha odiosi
capelli rasta che puzzano di zolfo e resine e gli fanno da
elmetto per le sue battaglie in trincea.
Odio i capelli rasta: li associo a stronzi che escono dal
cervello invece delle idee, in costruttività che non mi è
sintonica.
“Guarda che non ho nemmeno paglie. Ne hai?”
“Abbiamo tutto, qui, fratello…”
Ride storto, e penso che è meglio essere figli unici.
Mi molla due rolli unti già fatti, prelevati direttamente
da un qualcosa che sembra la cartucciera di Rambo in
astinenza, sotto un giaccone.
277
Pago e lo squadro: forse mi frega o forse no.
Forse ha intorno amici in attesa di un segnale d’allarme
per sbranarmi. Forse non succederà nulla, ché sto in fase
depressogena, a questo punto della notte.
Le lucine lungo il fiume, la musica di vario genere e gli
occhi scintillanti di bumbe assortite di vari esemplari di zoo,
quasi tutti in via di autoestinzione, non mi caricano a
sufficienza per come avrei sperato.
Idea fottuta, quella di venire fino qui: non c’è nessuno
che io conosca e mi sento più solo di prima, sempre
artigliato dalla stronza dama di compagnia.
In effetti il mio sguardo passa oltre, verso le luci della
città dall’altra sponda del fiume, sopra i mulinelli
dell’acqua, scuri e luccicanti, vivi di piccoli nuotatori con
leptospirosi, ebbri di felicità per il raggiungimento della fine
tra danze e canti in rimasugli di lattine di birra.
Il cervello sta diventando onirico e surrealista.
Le pantegane hanno le cuffie nere con la barra bianca
trasversale fosforescente, con la scritta ‘Rari Nantes sani’, e
rodono incessantemente la riva di pietra e cemento per farla
crollare nel fiume e farne territorio di conquista.
Avrebbero vita facile e vitto abbondante, mi dico
guardando i tavoli straboccanti di comitive allegre e
ciarliere.
Non solo quelle, però, che s’intersecano anche storie
nere d’emozioni cupe.
Brillano occhi rapaci di pensieri, di vendette, di rancori
verso altri o anche solo verso la vita, e le bollicine delle birre
deflagrano come mine antiuomo, anche se siamo davvero
pochissimi, nel mondo, che riescono ad ascoltarne i boati.
Non so se sono partito, per la bumba scolata del tutto o
per il rollo che sto fumando con indifferenza.
E’ uno stato d’animo particolare, tra la resipiscenza e la
debolezza dell’indifferenza di un malato grave rassegnato.
In effetti mi sento un malato grave, inguaribile, con la
fatina merdona rompicoglioni travestita da infermiera che
insiste per farmi un clistere di verità spinose o di realtà
nude ustionanti.
278
Sento che potrebbe farmi bene, ma mi brucia il culo per
l’essere solo, annoiato, senza amici chissà dove, con odio
montante per tutti, da quei due che stanno pomiciando
laggiù nella penombra fino a quel buon samaritano rasta
del cazzo che gioca a fare il piccolo imprenditore dopo che
ha fatto il piccolo chimico.
Il fumo che mi ha venduto fa cagare.
Lui mi guarda da lontano, sornione, a metà tra il
sogghignante per il fatto che io adesso so, e lo sfacciato che
vuole la rissa per guadagnare qualcosa di più con uno
straordinario o un cottimo.
Sostengo lo sguardo e poi entro in un locale per
rimboccare la mia copertina di Linus.
Il barista non fa una piega.
Indico una boccia di grappa con le foglioline dentro e
poi indico la mia bottiglietta di metallo.
Glugluglu.
Riempie
fino
all’orlo;
io
pago,
sorseggio
abbondantemente da subito per trovare sollievo in
surrogato di calore umano mancante.
Mi guardo poi intorno: buio e luci violente a faretti,
musica trance, odore di merda del fiume, chiacchiericcio
vicino senza significati particolari, risate esagerate,
brancicamenti furtivi, forse qualche uccello all’aria
accalappiato da manine lazos.
Dovrei eccitarmi mentre invece mi porto appresso tra le
gambe un cadavere, anche se laggiù in fondo una squinzia
senza vergogna è china di sguincio sopra un filetto con
l’osso di un selvaggio che mugola.
Fanno tutti finta che non esistano: lei mormora
sissignore varie volte e lui invoca il dio delle squinzie
ringraziandolo per la grazia santificante che è piombata su
di lui questa notte.
Non so cosa io stia facendo qui dentro: ho la sensazione
di perdere tempo in una dimensione dove il tempo non
esiste più, sfrattato dal già.
Già visto, già vissuto, già accaduto, già metabolizzato.
Già.
Un incubo.
279
Il buio degli occhi chiusi spegne lucine, immagini,
rumori, odori, e scompaiono fighe paffutelle, occhi lucidi di
desiderio, sensazioni di potere, amici, amici, amici.
Sniffy, Carlo, Serpe, vaffanculo: dove siete?
Dove sei, ragazza volenterosa di percorrere la strada
accidentata dei miei pensieri?
Dov’è la tua manina esitante e poco esperta che mi
gratta con le unghie maldestre i coglioni per afferrarmi
l’uccello?
Dov’è il tuo sorriso pallido e vergognoso di risposta a
mie oscene proposte disperate per avere pace?
Mi sento uno stupidello ragazzo viziato, ora, che vuole i
giocattoli tutti per sé, che vuole avere ragione, che vuole che
la noia anneghi nel fiume e nessuno la senta per salvarla.
Esco dal locale, confuso, in pieno malessere.
Qualche tavolino è vuoto adesso: gli onesti amanti del
divertimento senza pensieri stanno portando le loro fighe a
casa.
Qualcun altro farà un ultimo tour a mignottilandia, più
giù verso gli ospedali, dove a quest’ora passeggiano
solamente le più disperate balcane ancora palpitanti
d’aborti freschi, già sulla breccia, perché si vuole così
dall’alto del ministero della pianificazione puttanesca.
Ancora musica, in tono minore con l’ora tarda, e un
pigro sciabordio lungo la sponda del fiume.
Rasta è ancora là, con una birra in bottiglia e gli occhi
lucidi.
Il figlio di puttana mi ha ripuntato e ora ride.
Sono troppo incazzato e sfatto per potere essere anche
socievole: gli sfilo uno dei miei migliori medi degli ultimi
tempi, un vaffanculo muto che rimbomba tra le lucine a
ottomila decibels.
Rasta si scuote.
Viene verso di me, serio adesso.
Dovrei allertare i sensi in organizzazione d’accademia
militare: tirapugni tra le dita, sguardo vigile sulle mani del
nemico, soprattutto su quella della bottiglia, analisi
dell’ambiente circostante a individuare complici e altri
nemici potenziali.
280
Invece me ne sto fregando, ché il cervello è pieno di
bumba, di figa, di ombre di amici che mi sorridono in un
andare e venire nel buio tra musica, fumo, risate varie.
Me lo dico come se mi schiaffeggiassi: sono ciucco,
porca puttana.
Rasta ha uno sguardo da alieno con gli stronzi in testa,
da vendicatore.
“Perché il dito?”
“Perché il fumo che mi hai venduto è merda di
cammello, stronzo.”
Glielo biascico, impastato, con un urlo liberatorio per
sfogare da qualche parte tensioni e malessere.
La noia pare ritirarsi, ché sento altre sensazioni nelle
gambe e nello stomaco.
Qualcuno si volta per seguire il dialogo, qualcun altro fa
finta di nulla o addirittura si scosta sentendo puzza di
rissa.
Rasta non dice nulla. Scatta in avanti all’improvviso e
avverto rumore di cocci e tagli uniti da un dolore alla fronte.
Un sapore amarognolo di birra mi cola lungo il viso in
bocca insieme a sangue.
Mi sento spinto indietro e perdo l’equilibrio.
Annaspo cercando una presa ad un tavolo, ad una
sedia.
Trovo il nulla puro e luminoso. Davanti e dietro.
Dietro, soprattutto, ché è lì che sto cadendo.
All’improvviso impatto nell’acqua del fiume.
E’ fetida, dal sapore di merda e petrolio, densa, fredda,
molto fredda.
E mi dico che sono fregato. Non so nuotare.
Mi sembra che alghe vadano a imprigionare le mie
gambe per trattenerle verso il fondo, e ho la sensazione che
le pantegane mi stiano guardando come ad uno spettacolo
da circo e che battano le zampe per un bis.
Potrei chiedere aiuto, ma ho paura ad aprire bocca.
Penso che potrei inghiottire uno stronzo di geometra
della periferia nord o di una massaia obesa di due isolati
più in là, e poi non voglio dare soddisfazione a quel rasta di
281
merda che mi sta guardando dalla sponda con occhi
selvaggi.
Sta respirando forte, in frenesia a fiotti, e qualcuno lo
sta tirando per un braccio.
Ecco, mi dico: vedi che esistono gli amici?
Poi ci sono fighette che urlano – salvatelo, salvatelo. –
Sono deterrenti per il mio orgoglio: farei una figura del
cazzo a chiamare aiuto ora.
La corrente mi trasporta via come un sacco di stracci e
le figure rimpiccioliscono in urla sempre più ovattate
sommerse dallo sciabordio dell’acqua e dal mio mulinare
frenetico delle braccia.
Vado a fondo e ritorno in superficie, risucchiato da un
fiume pompinaro, anche se mi sforzo di rilassarmi e di fare
il morto a galla.
Poche chiacchiere: tra poco, lo so, sarò morto sul serio e
verrò ripescato molto più in là, gonfio come una zampogna,
magari sbocconcellato come trionfo di ciccia alla merda,
nuova specialità del giorno, della casa, per topacci di fogna.
Si distorce la percezione del tempo, mentre annaspo,
zavorrato dal povero giubbotto bistrattato: la percezione di
morire tra poco, nitida, mi proietta nella mente il film della
mia vita.
Scorre una storia neorealista metropolitana davanti agli
occhi che bruciano di nafta.
Mi scopro, con sorpresa, menefreghista, circa le estreme
conseguenze, e bendisposto, sempre verso le stesse.
Va bene così: grazie tante e vaffanculo a tutti.
La ruota gira veloce, sempre più veloce, tra i mulinelli
d’acqua melmosa.
Ci si innesta l’immagine di un criceto che corre, isterico
nel cervello, tra urla di eccitazione di vecchie zie grasse di
cui ho perduto la memoria, quelle che ti succhiano il
pisellino mentre sei nella culla in attesa che ti cambino il
pannolino, e fanno il verso del tacchino represso di libidini.
Ciao pà e mà bell’affare che avete fatto e ciao Sniffy e
Carlo e Serpe e figame vario di poche sere e padrone del
magazzino e città di morti che non sanno di esserlo io lo sto
282
per diventare e lo so e adesso mi sento migliore e figo ché
non vale la pena sbattersi per cosa soldi successo figa
piacere con la noia che poi vince sempre perché mancano
significati e spinte e dove riposare sereni senza pensare e
senza porsi domande vaffanculo alla fregatura che è questa
esistenza ché non mi sbatto un cazzo di vivere se deve
vincere il rasta o il pappa dentro il mercedes o il gobbo che
t’avvelena ogni notte ho altro in testa io da sempre e oggi ho
scoperto che non è possibile ottenerlo e gli amici sono
un’aspirina per un mal di testa cosmico che nessun
pompino riuscirà a scacciare per cui è meglio che mi tolga
dai coglioni anche perché non voglio dare soddisfazione a
questa stronza noia che continua a ripetermi mentre
sprofondo che ha ragione lei ha ragione lei ha ragione lei ha
ragione lei e spero che esista il dio del buio per non
continuare a rimanere solo ché ho paura in fondo anche se
non me ne frega più nulla ché voglio smettere di pensare e
soffrire ragazzi dove siete accidenti a voi che mi avete
lasciato solo e ora farei due chiacchiere con Samantha per
sprofondare giù meglio con coraggio e anche una regina
andrebbe bene a menarmelo mentre tocco il fondo felice di
scamparla e raggiungo il mio cammello nel deserto e guardo
l’orizzonte a cercare palme ma vedo sole e luce che squarcia
il buio della nafta bella presa per il culo
saranno quasi le quattro
adesso
e stanno scoppiando i polmoni e i pensieri
nel nulla nero
m’accendo di un’estrema verità che mi fa sorridere perché
sta smettendo di farmi paura
si vive soli e si muore soli
ultimo vaffanculo
283
NUOVA IMPRENDITORIA
Le palpebre a mezz’asta mi lasciano intravedere il
lardoso Larry, roscio sbiadito confusamente in una luce
verdognola.
Mi scuoto poco a poco per comprendere il perché, il
cosa, il da quanto, il come e riprendere il controllo delle mie
facoltà.
Gli occhi stanno abituandosi alla luce: è un neon
pallido in una camera dalle pareti lattuga.
Comprendo, dal lavandino, da un armadietto e da un
alberello di fleboclisi vicino a me, che è una stanza
d’ospedale e io sono a letto, e faccio mente locale di quanto
accaduto e di quanto dovrà accadere.
Tasto il materasso lungo il mio fianco, sotto le coperte, e
mi tranquillizzo al pensiero che tutto torna.
Mi rilasso, allora, e sorrido con espressione beata di
puerpera che ha provato un’immensa soddisfazione in
evacuazione dopo sofferenza e sforzi sovrumani.
Larry ha la camicia sbottonata a mezzo petto per il
grande caldo e mi spia con curiosità trepidante facendo
ballonzolare una catena d’oro, di diversi etti, con santino
accluso. Si accorge di me cosciente, e ansima, sudato:
“Grande Phil.
Bingo, finalmente.
Sei presente, vero?
Guarda chi c’è: il tuo amico Larry. Ti ricordi di Larry?
Non ti chiedi perché sono qui? Vuoi che ti accomodo meglio
il cuscino? Hai bisogno di qualcosa? Da bere? Vuoi
dell’acqua? Hai bisogno dell’infermiera? Lo sai? Qui ci sono
infermiere da sballo: bel postaccio, davvero. Ci si può
morire senza troppi dispiaceri. Lo sai perché sono qui, Phil?
Mi senti, Phil? Lo senti zio Larry?”
E’ un frantoio di punti interrogativi e mi annega di
parole gommose.
Ho la bocca impastata, ma riesco a mormorargli, torvo,
un – piantala – con occhi levati al cielo da Giobbe che
chiede pietà per le piaghe ulcerose, ancora senza un coccio
per grattarsi.
284
Rifletto a velocità della luce, studio l’ambiente, tendo
l’orecchio a rumori e prendo confidenza con il corpo
tastandomi sotto le coperte, toccando qui e là.
Gli mormoro con voce stanca e rassegnata:
“Perché sei qui?”
E’ viscido e ributtante, il cassonetto dai rossi capelli. Si
deterge la fronte imperlata con un fazzoletto da quarantena.
“Ma perché ti sono amico, Phil…”
Pasturo nel vago.
“Cioè?”
Tracima per come voleva, e lo voleva da tanto tempo, da
fin quando mi hanno portato in questo ospedale privo di
sensi, da chissà quanto prima ancora.
“Io penso agli amici, soprattutto quando sono in
difficoltà come te, Phil, mi capisci?
Ecco, Phil.
Lo sai di che cosa mi occupo adesso, vero?
Sì, sì, sempre nel campo dei morti, ma con altro stile e
altra imprenditorialità.
Grande gente, gli arabi.
Mi dirai: che cazzo c’entrano gli arabi col tuo lavoro di
sarto d’asole?
E io ti rispondo: c’entrano, c’entrano.
Hai presente i loro kamikaze?
Ecco, se c’entrano.
Mi sono detto: cazzo, Larry, perché non cambiamo
registro e diventiamo puliti, inattaccabili, immacolati di
bucato con candeggina della migliore qualità?
E’ l’uovo di Colombo, mi sono detto.
Mi tengo vicino ad un ospedale, magari ad un ospedale
oncologico, che è meglio, e attendo con calma i ricoverati.
Li studio, esamino la loro situazione finanziaria,
m’informo sulle loro aspettative, speranze, desideri,
necessità, personali e familiari.
Poi intervengo.
Li recluto per il mio lavoro.
Da killer semplice divento titolare di un’impresa di
killers che dopo il lavoro scompaiono nel nulla, capisci?
Tutto pulito.
285
Non ci sono legami, concatenazioni, moventi, prove.
Chi mi commissiona il lavoro paga di più, molto di più,
per la catena di montaggio che ho messo in piedi, ma
usciamo tutti puliti, capisci?”
Me lo guardo da dopo sbronza.
“Non ho capito un cazzo, Larry.
Fammi un disegnino.”
“Dai, Phil, è semplice: adesso ti spiego.
Devo ammazzare un qualche figlio di puttana perduto
da qualche parte per conto di un altro figlio di puttana che
paga tanto e bene, ma vuole essere tranquillo circa il fatto
che nessuno mai arrivi a lui, okay?
Io so dov’è il figlio di puttana da ammazzare.
Lo potrei ammazzare io stesso, come ho sempre fatto
fino a poco tempo fa, mi segui?
Però l’errore umano è sempre in agguato: potrei
commettere qualche minima stronzata e potrei farmi
pizzicare, e chi paga potrebbe trovarsi in brutte acque e
potrebbe anche incazzarsi direttamente con me, prima di
finire spremuto dagli sbirri come mandante.
Ebbene: nulla di tutto questo, Phil. E lo sai perché?
Perché vado a trovare mister sfiga inevitabile,
all’ospedale, con faccia deferente e buone intenzioni.
Gli parlo amichevolmente, gli faccio una proposta
indecente, lo recluto.
E’ abbastanza facile: devo trovare il quasi terminale che
ancora si muove e che ancora è lucido.
Vuole figa da sballo prima di morire?
Io gliela procuro. Per due o tre notti di fila? Va bene. Di
quelle proprio zozze e viziose che fanno le peggiori cose?
D’accordo: mi segui?
Oppure vuole iscrivere il figlio all’università, ma piange
miseria? Ecco zio Larry che paga la retta.
O ancora vuole un bel conto in banca per la futura
vedova che ancora lo tromba mentre lo piange? Nessun
problema: paga la ditta Larry.
In cambio, Larry il capoufficio chiede che venga sbrigata
una pratica.
286
Io sono per la verità della medicina nei confronti dei
malati.
Perché mentire, illudere, prendere per il culo chi soffre?
Io certifico la verità, onestamente, senza troppi fronzoli
o enfasi.
Io dico, con tranquillità di lago di sera – Amico, stai
morendo. Avrai sì e no qualche settimana. Realizza i tuoi
sogni e concludi alla grande e senza dolore la tua esistenza.
Amico, io ti offro ricchezza o realizzazione dei tuoi più
intimi desideri, e tu mi fai un favore.
Ti sbarazzi di un figlio di puttana che mi vuole fare del
male, nel modo che ti dico io.
Tutto qui.
E poi, invece di soffrire ancora e di bucarti di morfina
per non rotolarti coi morsi nella pancia, ti schiacci questa
capsuletta rossa tra i denti e muori felice in modo rapido e
indolore.
E io sistemo tuo figlio, tua moglie, ti riempio di figa da
oggi a domani per tutta la notte, ché ti fanno uscire gli
occhi fuori delle orbite e i coglioni dalla pelle avvizzita –
Capisci, Phil?
Io gli canto questo con voce soave.
La quasi salma mi guarda di merda, almeno all’inizio.
Poi riflette.
Se ho la botta di culo, che proprio in quel momento gli
si è liberata la mandria dei cani rabbiosi nello stomaco o nel
polmone, sono a posto.
Si contorce soffocando qualche madonna nel dolore e
comincia a considerare le cose dal mio punto di vista.
Una quasi buona azione remunerata con una buona
morte e con tanti soldi o tante scopate per una notte da
sballo eterno.
Mi capisci, Phil, adesso?”
Strabuzzo gli occhi e mi irrigidisco in una smorfia di
dolore.
Poi esalo:
“Che cazzo c’entro io, Larry?”
287
Spegne il sorriso beota e sfodera un’aria contrita: è un
duttile imprenditore furbo che potrebbe vendere auto usate
senza cambio automatico anche ad un focomelico.
Dà un’occhiata alla cartella clinica appesa alla sponda
del letto e scuote la testa: assume l’aria dell’allevatore di
maiali con la fattoria decimata dalla peste suina.
“Stai messo male, Phil.
Te lo dico da amico, in tutta sincerità, per quello che
leggo qui.
E non mi sei piaciuto tanto, in questi ultimi tempi al
bar, sempre stanco, caracollante, con occhiaie che
sembrano calamari e un aspetto sfatto.
Stai messo male, davvero.
Qui leggo di metastasi allo stomaco e prossima
dimissione: ti faranno morire a casa, Phil, e mi dispiace.
Ti hanno fatto analisi varie d’urgenza, da che stai qui.
Tutto con maledetta professionale fretta per riprenderti
almeno per i capelli.
Cazzo, se mi dispiace, Phil, ma la vita è fatta anche di
gomitate nei denti da parte della morte, no?
Sei crollato da Bart, al pub, come un sacco vuoto.
Ma io ti tenevo d’occhio, sai, perché zio Larry pensa
sempre agli amici…”
Sorride d’un pallore parrocchiale apprensivo.
Bestemmio sottovoce un cristo, per contrappasso.
“Mi stai reclutando, ciccione di merda?
Sto messo proprio così male?”
Si alza dalla sedia.
E’ pesante, sudato, goffo, eppure si sforza d’essere
leggiadro e sereno.
“Ti danno poche settimane, Phil.
Ho parlato con un dottorino sveglio di questa astronave
che è di quel bastardo del dottor Gonzales.
Purtroppo sì, amico mio: sei messo malissimo.
E ho pensato a te.
Ti serve qualcosa?
Vuoi figa, fumo tosto, roba pesante? Hai gusti
particolari e preferisci un maschio con tre gambe? Hai
288
problemi economici per la tua famiglia? Devi sistemare
debiti o affari andati a male?
Larry, il tuo amico Larry è qui, Phil: parla e sarai
esaudito.
Mi devi solo promettere che mi toglierai di torno un
figlio di troia che mi procura problemi, proprio Gonzales,
vaffanculo a lui e a tutti i messicani che non sanno stare al
loro posto.
Lui non ascolta niente e nessuno: vuole fare
l’imprenditore oltre che il primario, fanculo a quel naso da
mostriciattolo dei boschi.
Questo è un lavoro per me, non per altri: ti
commissiono per me stesso, mi capisci? Capisci gli amici?
E io ti prometto il paradiso sotto tutti i punti di vista…”
Ha lo sguardo del cane bastardo, speranzoso, e se
avesse una coda la dimenerebbe uggiolando con schizzi di
bava dappertutto per l’eccitazione.
Me lo figuro che da un momento all’altro possa zompare
la sponda del letto vicino alla testata, come se sia un
polpaccio di donna mestruata.
Bene, bene, mi dico inespressivo: Larry ha parlato e ha
spiegato esaurientemente quello che per me era già
nell’aria.
E però la concorrenza è forte in tutti i campi, anche in
quello delle potenziali salme su ordinazione.
Tasto il materasso lungo il mio fianco, come prima da
appena sveglio, e confermo il ritrovamento di quello che
dovrebbe esserci.
Sfilo il braccio da sotto le coperte, impugnando una
Glock con silenziatore già avvitato, parcheggiata lì da
quando mi hanno ricoverato.
Caro dottor Gonzales, efficiente come uno svizzero a
dispetto del nome da manzo con chili.
Ingordo dottore che non s’accontenta dei proventi di
primario e vuole diversificare i suoi affari con molta mano
d’opera in casa a basso prezzo.
Larry adesso ha uno sguardo da acciuga sott’olio e suda
copiosamente indietreggiando di due passi.
289
Balbetta interiezioni lamentose senza avere proprio ben
compreso tutto, ma intuisce che qualcosa non quadra.
“Che cazzo fai, Phil?
Cosa vuoi fare?
Io ti ho fatto solo una proposta: puoi accettare o
rifiutare e siamo amici sempre come prima.
Cosa vai a pensare?
Io non ti farei soffrire, Phil. In cambio del tuo lavoro ti
darei una capsula di quelle infallibili: dieci secondi in tutto.
Neanche te ne accorgeresti: è cianuro puro.
Che fai? Metti giù quella pistola. Stavo solo parlando
con un amico…”
Divento
sveglio
nel
massimo
splendore:
una
trasfigurazione miracolosa, modello Emmaus.
Mi siedo sul letto e tengo una lezioncina sul perché e
percome con voce piana e accademica dottorale, soprattutto
con la pistola spianata e ferma.
“Nulla di personale, Larry, ci mancherebbe, ma io sono
già stato pagato.
Mercato concorrenziale, capisci?
Il dottor Gonzales è arrivato prima di te e mi ha
rimpinzato il conto in banca. Mia moglie sarà contenta,
almeno di questo.
E poi, Larry, le tue puttane sifilitiche non possono
competere con le infermiere di questo posticino.
Il tuo rivale in affari ha provveduto anche sotto questo
aspetto, qualche giorno fa, in una stanzetta appartata per
controlli: un vero signore e un invidiabile datore di lavoro.
Sono svuotato ancora adesso, pensa un po’…
Dai, Larry, fattene una ragione: hai perduto.
Sono anche io per la verità ad ogni costo: hai perduto,
ché negli affari nuovi si vince, ma spesso si perde anche.
Però anche io non ti farò soffrire: sono un ottimo
tiratore e tu non lo sapevi…”
Lo centro, ancora catatonico, prima sul pomo d’adamo e
poi al corpo grosso.
Stunf. Stunf: sospiri ovattati e quasi carezzevoli.
Schizza zampilletti dappertutto come un clistere in
mano ad un’infermiera ubriaca, e mi immagino le
290
bestemmie multietniche della filippina che passerà per le
pulizie.
Ciccio roscio Larry defunge laboriosamente: rotola a
terra con grugniti da macelleria suina per lo sfiato della
trachea che prende aria in stereofonia.
Si scuote un poco per poi rimanere immobile e
raffreddarsi gradatamente in una pozza di sangue nero.
Poso la Glock sul comodino, apro l’armadio e ficco una
mano in una tasca del soprabito.
Mi siedo sul letto.
Pigio il campanello.
E attendo.
Dopo poco tempo s’apre la porta della stanza ed entra
un naso spropositato di colorito messicano, olivastro, con
sotto due baffetti neri spioventi.
E’ seguito immediatamente da una siepe untuosa di
capelli corvini appiccicosi a incorniciare uno sguardo da
coyote che abbraccia la stanza e si sofferma sul cinghialone
a terra.
E’ in camice bianco, molto professionale, il dottor
Gonzales, con le mani intrecciate dietro la schiena e uno
stetoscopio che esce dalla tasca sul petto, dove è appuntata
la targhetta con le generalità.
Mormora circospetto con fare serio diagnostico:
“Tutto bene senza problemi?”
“Tutto bene, Gonzales.”
“Ora toccherebbe a lei, senor Phil…”
Sfila dalla tasca del camice una scatolina e l’apre per
prelevare una pasticca rossa.
Lo squadro severo e poi gli sorrido aperto.
“C’è un cambiamento di programma, Gonzales.
Ho deciso anche io di aprire una nuova attività, da solo,
dato che la concorrenza sta sparendo velocemente…”
Si irrigidisce: Ha compreso tutto al volo, ma non si sa
spiegare il come. Lo assecondo:
“Le spiego tutto io, dottore.
Lei teneva d’occhio Larry e il grassone puntava lei, ma
io tenevo d’occhio tutti e due, con discrezione. E avevo le
idee che friggevano in olio bollente.
291
Mi sono detto: basta pasturare prima l’uno e poi
l’altro…”
“Le analisi…”
“False, Gonzales. Io, finora, godo di ottima salute.
Glielo può certificare Consuelo, l’infermiera della scorsa
notte: l’ho rivoltata come due calzini e probabilmente si
rinfresca le cosce ancora adesso dopo tutti i graffi e i morsi
che ha rimediato, Si è anche divertita, credo, anche se tutto
questo non è importante, ora.”
“Che cosa vuole? Soldi? Che io abbandoni la piazza?”
“Di più, o di meno, a seconda delle prospettive, dottore.
Lei adesso muore, senza soffrire, ché me la cavo
discretamente come tiratore, e poi simuleremo una piccola
tragedia.
Avevo una seconda pistola nel cappotto dentro
l’armadietto, questa, silenziata pure lei, e documenti falsi
per ricominciare daccapo.
Vede, Gonzales: eravamo tutti amici, siete stati tutti
amici, pressanti, vicini, premurosi, ma senza sapere un
cazzo di me.
Non ho moglie, non ho figli, però conosco bravi falsari e
amiche di cuore che si prestano a fare scherzi a lunga
scadenza.
Costano poco perché sono gente che si sa accontentare
di poco, in fondo onesta.
Complimenti, comunque, a Larry e a lei, ché avete
individuato un nuovo businnes davvero interessante…”
Porta avanti le braccia a farsi schermo, ma ha la fronte
spaziosa ed esposta.
Stunf.
Unico e solo.
Fiorisce una rosellina tra gli occhi che diventano tre di
cui due fissi di bambola, vitrei, e uno infiammato.
Crolla senza un lamento, più dignitoso di Larry, anche
se devo riconoscere che qui ho lavorato in maniera più
pulita.
Mi cambio, con calma, studio traiettorie e scena, e
accomodo i due imprenditori falliti nella maniera tale da far
292
sembrare tutto un regolamento di conti tra malato e
dottore.
Cancello accuratamente tutte le mie impronte.
Metto la Glock tra le dita rattrappite di Gonzales.
A Larry infilo la mia casacca da malato e gli lascio sul
comodino i miei documenti contraffatti con la sua foto:
muoio io per la legge.
Gli incastro tra le dita la seconda pistola tiepida facendo
aderire bene i polpastrelli.
Prelevo il suo ferro, raduno i suoi abiti insanguinati e
getto tutto in una sacca che abbandonerò più tardi in
qualche cassonetto lontano.
Io divento un altro: Emmaus due il ritorno, alto,
slanciato, vigoroso, elastico nel passo, con il sorriso
accattivante del bravo cacciatore di teste per cacciare,
appunto, altre teste, con nuovi documenti crocchianti che
di vecchio hanno solamente il nome di Phil.
Ho in tasca due agendine zeppe di commissionari clienti
facoltosi, vigliacchetti e pigri, e di malati ancora validi, ma
prossimi ad una dipartita, e qualche caramellino letale
dentro due scatolette di metallo.
Tra qualche annetto mi vedo a Papeete a mangiare
scampi e aragoste con splendido figacciume locale e
d’importazione.
Ché il delitto, se ben compiuto, paga: eccome.
Esco
silenziosamente
dalla
stanza
e
saluto
mentalmente, con una certa dose di affetto e comprensione,
il coyote unto e il chinghialone roscio, aspiranti
imprenditori, vittime di nuove economie di mercato, finiti in
bancarotta.
Alhoa, gente.
293
FAI L’IRRIVERENZA, PAGA PENITENZA
Pirlandelliana tragedia in matto unico, anzi no
L’inguacchio a seguire è un parto, nel senso di partire di
testa, concepito inizialmente come atto unico teatrale per
cercare di emulare un lavoro a quattro mani che ho divorato
con curiosità ed interesse, intitolato “Drammaiale”, di Malos
Mannaja, cui va l’affettuosa dedica di quanto scritto, e Lapo
Orage.
Col tempo, lo sfrigolare delle idee in una parvenza di
caotico ordine mi ha fatto considerare l’ipotesi espressiva di
una struttura più aperta, ‘hellzapoppiniana’ o, per dirla
meglio,
ma
senza
allarmare
troppo,
anarcoitoinsurrezionalista.
Le famose unità aristoteliche sono state prepensionate senza
neanche la mobilità da un desiderio di surrealismo
ioperrealista (non è un refuso) che mi ha consentito maggiore
libertà di movimento senza costrizioni.
La pièce è divenuta un insieme di sipari fuori contesto,
legati tra di loro nel loro essere slegati. Ogni scena galleggia
nel vuoto del nulla o si confonde nel tutto del tutto: un
insieme di eventi in tragedia, senza punti di riferimento
esistenzialmente certi, un poco come nella vita, ma con i miei
limiti espressivi: per l’appunto una stragedia pirlandelliana
in atto unico, anzi no, come da sottotitolo.
Personaggi e interpreti
L’INTERVISTATORE, alias il giornalista o i giornalisti, alias
lo psicanalista, alias la coscienza, alias il confessore, alias il
medico, alias la vicina di casa della porta accanto, alias a
scelta… E’ il provocatore-spalla di quel dialogo che tanto
piace a qualcuno per vivacizzare i pensieri
L’INTERVISTATO: spesso cybbolo, a volte casualmente
qualcun altro a misura di cybbolo. L’essenza del narcisista
o dell’affogando che chiede un salvagente senza amarena
IL CORIFEO: tipico di ogni tragedia che si rispetti, composto
di quattro omologatti più quattro veteri inani, ovviamente
complementari
294
S’alza il sipario sulla scena nera.
Dal buio si fa strada una fioca luce che disegna la
sagoma di una persona che si sporge verso un’altra con un
registratore portatile.
Rumore di mormorii, di orchestra che è in procinto di
eseguire un concerto, di urla lontane di bambini d’asilo
miste a urla di manifestazione o di protesta a scelta: contro
il precariato, per la pace nel mondo o la difesa del
difendibile indifeso, contro la cassa integrazione, in corteo
oppure in girotondo insieme ai bimbi di poco prima,
pacificamente o sgrillettando contro le forze del bene e delle
more del partito dell’amore.
Silenzio all’improvviso mentre mugghia il corifeo dei
quattro omologatti con i quattro veteri inani, gli uni che
scandiscono slogans pubblicità progresso:
Due fustini is mej che uan,
Ma fan finta, fioei d’un can
mentre i veteri inani controcantano, con alzate di spalle
gobbartritiche, interiezioni celtiche del tipo “vadavielcu” in
accordo minore, per l’impossibilità di comprendere,
essenzialmente per pigrizia o egoistica distrazione, le ultime
funzionalità informatiche, motoristiche, televisive, e relativi
libretti di istruzioni.
Le scosciature delle veline, inoltre, sempre più
inguinaluterine, incupiscono i veteri inani.
Si sentono infatti defraudati degli ultimi brandelli di
moralità moralista e vedono rosso come il mancante bollino
televisivo preservinfanti. Esiste tuttavia anche una
possibilità di bieca semplice invidia andropausica.
Ammutolisce, infine, anche il corifeo variegato e scende
un silenzio carico di aspettative.
Poi la voce, beffarda, giornalistica, paracula.
“Da dove vogliamo cominciare?”
“Direi ‘(z)ab ovo’: il mio zabaione esistenziale preferito,
energetico e sferzante.
295
Dall’alba dei dinosauri che è già confluita, ma che per
me confluisce ancora e forse confluirà anche in eterno, nel
tramonto dei dinosauri.
Siamo tutti dinosauri, del resto: da sempre e per
sempre.
Abbiamo un premier tirannosauro, fortunatamente rex
solo in pectore, almeno per ora; e siamo circondati da
brontosauri erbivori ingombranti e inconcludenti e da tanti
dimetrodonti che pignoleggiano su tutto lo scibile
puntualizzabile…”
“Tu che dinosauro pensi di essere?”
“Uno stego… no: un misegosauro, nel senso che mi
sfinisco di pippe mentali ponendomi quesiti esistenziali che
vanno dall’alba dei tempi alla fine del mio tempo.”
“Beh, è coerente: un misegosauro eccitato da fantasie a
tripla ics d’alto contenuto egotico vietate ai minori di
diciotto eoni, pardon, neuroni.”
“Guarda che io sono di una umiltà cosmica: è mio padre
che si preoccupa del genere umano tra quattromila anni e
ha aneliti di sofferenza all’idea di una estinzione dello
stesso, neanche fossero tutti sua progenie da uno
spermatozoo di centoventisette chilometri, del peso di
qualche tonnellata.”
“Che fregnaccia!”
“Appunto: quella che mai potrebbe accogliere quella
bestia mostruosa. In questo caso, altro che pillola abortiva:
ci vorrebbe un quintale di dinamite.”
“Torniamo alla tua comica umiltà cosmica…”
“Mica del tutto vera, ora che ci penso meglio. Alterno
umiltà a coscienza democritea, quella della scintilla divina,
per poi ritornare sinusoidale all’umiltà, in pianto e stridore
di denti al buio, ché la scintilla fa sempre cilecca dopo
qualche punto interrogativo e mi si bagnano le polveri
sottili.”
“Beh, te ne devi rendere conto: non sei divino, ma sei
umano, no?”
“Più che umano, upiede, anzi uàllera, ché i quesiti
irrisolti lasciano l’autostima in guardaroba e perdi anche lo
scontrino per ritirarla.”
296
“Sei già stanco di parlare, vero?”
“Non saprei. Il fatto è che da sempre, a livello
semiconscio, e da tempi recenti, addentato da un nano ad
un polpaccio, modello in cretaceo, tanto per continuare a
dinosaurizzare, pensierini sotto la cenere cui ritornerò, e
immagino e sogghigno con simpatia per il mio lettore
contento e solidale cui dedicherò questo coacervo di lucciole
semidee che sono null’altro che risultanze di simbiosi
scambiate in regolari telefonate settimanali e troppo rari
incontri di persona, assai ricchi.
Parto bello carico, stavolta, forte di accumuli in mesi di
riflessione e di astinenza vergale, (Ahahah che hai capito?
Non scrivo da tanto tempo).
Voglio divertirmi con giochi di parole meditati, con
accostamenti metadialettici arditi e sorprendenti, con la
memoria rivolta a tante concettualità scambiate come le
figurine, riguardanti il tutto e il nulla, cui mi piace
aggiungere o togliere paradossalmente ancora un qualcosa
anche se qualcuno, lo so, scuoterà la testa.
Epperò ecco che capolineggia di nuovo l’umiltà: cui
prodest questa torrenziale eiaculazione?
Una terapia antidepressiva a surrogare un periodo di
solitudine o a festeggiare un ritorno d’euforia?
Un dispiegare le ali di pavone per sollecitare applausi o
quanto meno benevola attenzione di qualche cricca come
quella di Mirò?
Ah, queste esigenze di catalogare, di definire…
Mi chiedo, e questa è una ulteriore domanda, che senso
abbia che io esprima i miei tormenti, anche perché prima di
me ben più brillantemente sono passati Geremia, Torless e
Portnoy e financo Marcello Marchesi mallopparo oltre a
chissà quanti altri ancora.
Continuo, dunque, solo per vedere l’effetto che fa.
E continuo anche per fare un minimo d’ordine per
iscritto, una sorta di testamento spirituale, se vuoi, da
rileggermi tra quindici o venti anni, scandalizzatissimo e
devastato dalla demenza senile.
297
Invece, magari per scherzo del destino, mi applaudirò
fino a spellarmi le mani, radicato in convinzioni che ora
sono solamente intuizioni che mi vedono titubante.
Sempre da vedere, beninteso, di arrivarci…”
“Allora vai avanti e la butti sul filosofico?”
“Sai, per Hobbes, partendo dal semplice clito, l’origine
del mondo, ché amo la carnalità edonista della vita, sono
approdato a Eraclito, già scherzo paradossale profetico e
semantico.
Mi sono detto: sciò, sciò filosofia, ma Schopenauer,
equivocando su un possibile richiamo, si è inserito nel
Cartesio lasciandomi rose e Spinoza in esigenze
trascendenti ancorché confuse.
Hai voglia a dire Kant che ti passa: un Vico secco!
E il vecchio Karl è stato, ahimé, soppiantato dal più
frizzante Groucho. Poi sono sopraggiunti i cinepanettoni e
Boldi, Bondi, non ricordo bene, e tutto è precipitato, ma
questo è un altro discorso.”
Nel gioco delle luci e delle ombre, dopo che si è
ripristinato il sipario, precipitato anche lui alla parola
Bondi, una sorta di jattura in lingua antica mai del tutto
decifrata, il registratore si trasforma in una penna.
Il giornalista si siede su una poltrona ora visibile e
prende appunti, assorto, divenendo un analista.
L’intervistato si sdraia su un divanetto materializzatosi
dal nulla: ecco, occasionalmente, un esempio di nulla con
l’aggiunta di qualche cosa (ahahah).
Il corifeo swingeggia, per quanto riguarda i quattro
omologatti:
I tormenti della filosofia
Nulla son per la buonanima di zia
E per quanto si discerna su Platone
Nulla esime dal sentirsi un po’ coglione
L’altra metà del corifeo semplicemente flatuleggia
all’unisono, ché i quattro veteri inani sono diventati
superficiali circa la filosofia, troppo presi come sono dal
298
mantenersi abbarbicati alla vita, e il vecchio adagio “Tromba
di culo, sanità di corpo: chi non scoreggia è un uomo morto” è
divenuto il loro nuovo vangelo esemplificato, abbozzo
d’avanguardia del ministro delle esemplificazioni circa i
nuovi rapporti con la Santa Sede, da definire.
C’è da dire che lo scatolone dei ricordi, dopo un certo
crinale anagrafico, si riempie di scatologia spicciola di varia
consistenza, sempre più unico e interesse vitale pressante
in tutti i sensi.
E’ da notare, comunque, che in impeto di fattiva
collaborazione, vanno a tempo, in levare aria, come
similtromboni d’orchestrina dixieland.
“Dunque lei pare che stia divenendo aggressivo, vero? Si
sente aggressivo?”
“In un certo senso sì.
Anzi. In più di un certo senso: in tanti sensi.”
“Mi spieghi, per favore: la ascolto.”
“Cominciamo con il dire che non so nuotare e che
tuttavia vivo perennemente a galla sul livello del bicchiere
mezzo pieno o mezzo vuoto. Galleggio, sentendomi anche
naturalmente un poco stronzo, riflettendo sul fatto che mi
girano gli zebedei per la vita che mi abbandona poco a poco,
mentre mi piacerebbe vivere a lunghissimo, ma in salute e
vigoria, fisiche e mentali.
E allo stesso tempo rimugino sul fatto che tutto questo
non ha un senso e che sono prigioniero di parole, luoghi
comuni, regole scritte e non scritte, bon ton, modi di dire e
di fare, baciare, lettera e testamento, retorica, lapidi di
lemmi scolpiti nella storia che sono quanto di più vuoto ed
inutile, spesso utopico, anzi tricerautopico, tanto per
rinfrescare di nuovo l’allegro mondo dei dinosauri e non
recidere il filo erettile.
E io da misegosauro mi trasformo in apatosauro (esiste,
esiste) senza più voglie.”
“Quindi una sorta di dibattimento tra lo spassarsela,
con la consapevolezza che non durerà efficientemente in
eterno, e l’approfondimento sul perché si possa o meno
spassarsela, mantenendo la stessa consapevolezza alla
299
quale se ne aggiungono altre che riguardano l’ignoranza,
l’utopia, l’impotenza circa il padroneggiare lo spasso.
Mi aiuti: è così?”
“Più o meno: diciamo che è un incubo per come la si
rigira. Più passa il tempo e sempre meno efficacia hanno
certi luoghi comuni riguardanti la primavera in fiore, il
sorriso di un bimbo, il cinguettare di un uccellino, il sentirsi
leggero dopo una buona azione, lo sguardo di un cane, il
profumo rasserenante del pane fresco, il tepore di un corpo
accanto, etc., etc., etc…. datemi un secchio ché vomito…”
“E questo monta malumore?”
“Monta a neve una incazzatura che guarnisce tutti i
possibili tiramisu della migliore pasticceria del paese, per
essere proprio sinceri.”
“Ha voglia di scendere in dettagli, in esempi?”
“Adesso proprio no: sono sfiancato. L’argomento in sé,
lo scegliere le parole accuratamente, il riguardare più volte
quello che si è scritto attento alle sfumature, il cercare di
non ripetersi in maniera arteriosclerotica: sono tutte
operazioni che liofilizzano qualche etto di neuroni.
Aggiunga che devo porgermi in maniera interessante,
magari anche molto autoironico, ché fa simpatia, e allora si
renderà conto che lo sforzo è davvero da ernia al lobo
frontale, semmai esista, ché ho a che fare pure con un
lettore medico puntiglioso.
Ma tanto è metafora…
Mi viene in mente Nicola Insauna, un personaggio del
brano teatrale Grammaiale: mi sento a lui affine, in qualche
modo, con le idee che mi sfuggono metafora dalla fontanella
riapertasi sulla sommità del cranio. E non c’è verso di
riprenderle se non già cambiate e spesso quasi
irriconoscibili: tutto scorre, compresa la memoria.
Ed ecco l’umiltà cosmica che sopraggiunge di nuovo: le
mie idee sono probabili cazzate che spuntano metafora
dalla patta dei pantaloni lasciata aperta per l’incipiente
smemorellite
acuta
detta
anche
più
volgarmente
rincoglionimento.”
Il Corifeo, con i soli veteri inani, si produce in una salva
di pernacchie ad esaltare lo scorrimento del tutto.
300
Gli omologatti ridacchiano, amari come cavoli, alla loro
prima resipiscenza di tante future altre: la resipiscenza nel
culo, che assai li forgerà.
“Rimandiamo a domani quello che si può fare male oggi:
lo faremo peggio, o meglio, a seconda delle prospettive che,
però, non sono incoraggianti.”
La luce cala velocemente mentre tutto il Corifeo, voci in
falsetto miagolanti dei quattro omologatti, e baritonali
scatarranti dei quattro veteri inani, intona una ninna
nanna seguita da melodie zuccherose oltre la soglia
diabetica del tipo ‘Bella, dolce cara mammina, la più bella
del mondo, duduuannnnnn…’.
Poi attaccano, chansonniers citazionisti di Gipo
Farassino, il celebre motivetto: ‘Sono contento di morire, ma
mi dispiaceee. Mi dispiace di morire, ma son contentooo…’,
ma sullo stile di un austero funebre coro greco-ortodosso.
E’ ora di un momento di digressione per conoscere
meglio il Corifeo di questa stragedia pirlandelliana.
I quattro omologatti, una volta detti anche quattro mici
al bar, sono giovani cespuglioni brufolosi con una bella aria
da boyscout e un’espressione vitellonesca innocua, dallo
sguardo occhialuto sospeso tra speranza e meraviglia, quel
tipico connubio che produce nel tempo i veri figliendrocchia
con un pulloverino di pelo sullo stomaco.
Per ora indossano magliette variopinte che ricordano la
bandiera della pace e credono a buona parte di tutto anche
se non proprio tutto, ché, per esempio, tale Noemi è
incredibile e anche indifendibile insieme a papy.
I quattro veteri inani sono gli omologatti di cinquanta
anni prima, all’ultimo stadio di cinismo sorretto da
problemi
intestinali
e
vascolari
che
richiedono
concentrazione nel disperato tentativo di restare aggrappati
alla vita. Ci sarebbero anche diversi problemi cerebrali
nell’alveo della demenza senile, ma questi riguardano
sempre altri.
Non hanno più rispetto, inibizioni e buona creanza,
all’insegna del “tanto c’è chi fa peggio di me, meno male che
Silvio c’è” da cantare stipati in sei milioni dentro una
301
piazza, da fonte di questore ubriaco, accompagnati da la
russa con un bocchino, grattandosi i maroni mordicchiati
da formiconi verdini...
Sono brutti, non di natura, ma imbruttiti da gocce
cinesi d’esperienza che hanno scavato rughe, sollevato
gobbe e acceso dolori reumatici.
Non parlano: borbottano acri, meteorizzano maligni per
far sapere quanto “sa di sale lo pane altrui”.
Guardano storti, ascoltano male e quasi soltanto quello
che riguarda loro e basta.
Tutti e otto, pazienti ancora per poco e spazientiti da
tanto, provengono dal medesimo studio, dallo stesso
protolaboratorio ancestrale pieno di fiale, pasticche,
gabbiette, manuali e mangimi promozionali, una stanzetta
con un lettino di metallo, un microscopio e un computer a
registrare le diagnosi perfide per il Fido di turno e una
stampante ad emettere ricevute fiscali, sempre, come rese
di conti.
Coesistono tutti e otto, con i primi a cercare
d’apprendere dai secondi, pessimi maestri. Sono tutti uniti
da qualche cosa di estemporaneo costante, come profughi
di un’ennesima isola dei Famosinonfamosichisselifrega,
l’isola che in realtà non c’è, ora neanche più nelle favole, e
cercano di sopravvivere rompendosi a vicenda le noci di
cocco.
Il Corifeo offre loro un’occasione di visibilità nell’ambito
della comunicazione di un disagio e di una protesta, ma il
ministro
dell’esemplificazione
sta
riducendo
loro
progressivamente ogni spazio vitale e ogni parte per
qualunque tragedia, perché tutto va bene, madama la
marchesa, e bisogna pensare in rosa capezzone, pardon,
capezzolo, sorridendo positivi, anche se sieropositivi.
Il Corifeo sarà dunque destinato in futuro a
comparsate, magari in supplenza di qualche corista
influenzato, durante l’esecuzione pubblica dell’inno della
libertà di Goffredo Apicella.
Lo sparo accende il buio.
302
Esplode il silenzio a cancellare urla scomposte e brusii
poi sostituiti da un ronzio uniforme metallico.
Poi, di nuovo buio in sala, rotto dal solo ronzio continuo
fastidioso.
Solo voci nel nero.
“Dove sono? C’è qualcuno?”
“Stai calmo: ci sono io.”
“Chi sei? Non riesco a vedere nulla…”
“Ah, l’umana curiosità irrefrenabile. Mi senti e siamo al
buio: accontentati almeno per ora.”
“Cosa è successo?”
“Hai urtato una pallottola.”
“Sono morto? Siamo nell’aldilà? Sei Dio? San Pietro?
Berlusconi? Bonaiuti? Pupo?”
“Come corri. Diciamo che sei in una situazione per cui
sarai obbligato a fare delle scelte: una specie di Lascia o
Raddoppia, di Rischiatutto, di elezione anticipata per
autoincaprettamento in lodi vari e assortiti o anche per
scandalo con veline o escort bituminose. Una situazione, a
seconda di come la vuoi vedere, magmatica o smegmatica,
mi capisci?”
“Beato te che sei così allegronzo. Io ho mal di testa e
tanta confusione. Cosa dovrei scegliere?”
“Se vivere o morire, per esempio.”
“Ah!... Ma non è già tutto scritto?”
“Certo che lo è, ma manca la tua certificazione ufficiale,
il tuo ‘Dichiaro di voler vivere’ oppure ‘Fanculo a tutti, sono
troppo stanco per continuare’.”
“Una specie di ’notaio conferma’? Lo sai? Mi stai
cominciando a divertire oltre che ad affascinare: chi
cazzarola sei?”
“Sono te: è per questo che ti piaccio…”
“Se così fosse, mi staresti sulle scatole: io mi odio
alquanto.”
“Frasi di circostanza, bello. Vittimismo e falsa modestia.
In realtà ti ritieni simpatico, divertente, più intelligente
della media a rasentare lo snobismo più sarcastico. Sei un
istrione innamorato di te stesso, cioè anche di me.”
303
“Dio, che confusione. Mi pare di comprendere, dunque,
che siamo in coma e che devo scegliere se uscirne da vivo o
da cadavere, vero?”
“Siamo, siamo: parole scomposte. Sei in coma. Io ti sto
assistendo.”
“Ah: sei la mia coscienza allora, eh?”
“Chiamami come vuoi: coscienza, aura, angelo custode,
spirito guida turistica, tutor, carta jolly, ospite d’onore, voce
interiore a recuperare…”
“I valori di una volta.”
“Non farmi ridere, vecchio maiale. Tu conoscevi solo Iva
e Lori, quella coppia scambista di Cantù molto disponibile.
Tu non devi recuperare nulla. Devi solo scegliere se
continuare a vivere o se vuoi morire.”
“E’ allora tempo di bilanci? Come si può riflettere e fare
un bilancio con questo ronzio del cacchio che mi trapana il
cervello?”
“Il ronzio del cacchio serve a farti respirare e tu sei stato
trapanato da un calibro trentotto.”
“Chi è stato il bastardo? Perché? Così gratuitamente…
E perché riesco a ragionare compiutamente nonostante
tutto?”
“Ha qualche importanza? Non depistare il tuo scopo.
Pensa ad una stigmata larga come un buco di culo
piacerecentrico, da portare con una certa dignità almeno
fino alla tua scelta.”
“Va bene: allora bilancio sia.”
“Mi fa piacere sentirti propositivo: forza, cominciamo…”
“Da dove cominciamo?”
“Suggerirei il sistema frattale, minimalista, quello
secondo il quale tutte le strade portano a Roma, se non
altro per muoversi dall’impantanamento su problematiche
da massimi sistemi.”
“A parte che ho perplessità notevoli proprio circa i
massimi sistemi, ché non ho capito a cosa serva la mia
certificazione di scelta su un qualcosa di già scelto: il solito
sgaiattolare confessionale eh? Un colpo al divino e un colpo
all’umano, eh?
304
Beh, comunque non vorrei partire dalla vecchia megera
che sgrulla tutte le mattine il suo lercio tappeto dalla
finestra proprio mentre passo io sotto…”
“E perché no? Un frattale vale l’altro: la vecchia megera,
il truzzo che ti imbottiglia con l’auto in doppia fila per fare
colazione, l’onorevole che parla di moralità dopo avere
patteggiato una, si badi bene, modesta condanna per
qualcosa di famigerato e schifoso, la biondina del Grande
Fratello, il bavoso senza arte né parte, essenzialmente ricco
solamente di sfiga, che rifiuta l’offerta di quindicimila euro
nella speranza di pescare un pacco da mezzo milione alla
trasmissione a premi, e poi ancora ed ancora ed ancora…
Hai solo l’imbarazzo della scelta circa il punto di
partenza del bilancio.”
“Sai cosa c’è? Una estrema confusione.
E’ lei che comanda e soffoca. Parto da stupidaggini che
mi creano malessere e mi dirigo come un salmone isterico
per la riproduzione verso la sorgente dei soliti triti e ritriti
problemi esistenziali con gli annessi quesiti classici: chi
sono, da dove vengo, perché, per come, e compagnia bella.
Poi ritorno sulla terra davanti alla venditrice di broccoli al
mercato rionale, che ti frega sistematicamente dieci o venti
centesimi con la bilancia truccata o con il resto sbagliato,
una specie di giochino delle tre carte, e mi carpio in doppio
avvitamento verso l’alto per cercare di riuscire a carpire
anche solo un sommesso russare di Dio, o dio, o quello che
sia, senza esito, ovviamente.
Intanto irritano i confronti con i cari, coi meno cari, coi
carini, coi cariati, tanto per aggiungere confusione alla
confusione.”
“Che vuoi dire?”
“Lo sai meglio di me che cosa voglio dire, per tutti quei
mal di stomaco dal nervoso che mi sono sorbito. Il concetto
lo abbiamo di comune accordo battezzato paura della
proiezione.
Vedi un vecchio, noti le sue manie, pensi che prima o
poi succederà anche a te, semmai arriverai ad essere
vecchio.
305
Ma è paura generica: il vecchio è un bavoso sconosciuto
con lo sguardo privo di familiarità.
Poi posi gli occhi su tuo padre, o tua madre, o qualcuno
di conosciuto di famiglia in odore prossimo (pessimo) di
pannolone.
E la paura, che nel frattempo si è evoluta in sommarie
conoscenze della legge del Mendel, diviene terrore al
pensiero che proprio quelle odiosità, odiosità odiose per
affetto, possano trasferirsi come un raffreddore nel tuo
cervello che ha già qualche crepa di suo per un discorso
semplicemente anagrafico. E da qui la consapevolezza che
tutto gira fuori della tua logica che cerca una scappatoia
soprannaturale senza trovarla e s’impegola sempre più nelle
contraddizioni della realtà che assomiglia sempre più ad un
incubo.
O anche viceversa.”
“Continua che mi interessi: sono cose già dette
un’enormità di volte come un disco rotto, ma stavolta ci stai
mettendo espressività. La potenza di un buco nel costato
che arieggia meglio i tessuti e ossigena con corrente d’aria
fresca ahahah.”
“Sarai anche la mia coscienza, ma sei davvero stronzo.”
“Più o meno quanto te, caro Agostino in sedicesimo...”
Qualsiasi metodologia volta alla ricerca di risposte
riguardo il libero arbitrio del comatoso viene a cadere per la
rottura della macchina che tiene in vita lo sfigato con il
ronzio fastidioso.
Il rumore cessa allargando il silenzio nella sala
semibuia del teatro, sgomentando il pubblico.
Perfino il Corifeo rimane silente e disarmato.
La scena muta nella penombra con la comparsa d’un
confessionale.
La voce, inizialmente beffarda, poi interessata, poi
ancora complice, diviene apprensiva, di quell’appiccicoso
che vorrebbe essere samaritano.
“Parlami, dunque, figliolo, diletto cybbolo, e liberati…”
“Cominciamo con il dire che non sono solo, ma siamo
tanti cybboli, quasi tutti molto incazzati, anche coscienti
306
che forse di questi tempi, invece di chiamarla ‘padre’,
preferiremmo essere orfani. Noi siamo, alla facciazza sua,
Legione.”
“Ommisignur, Madonnina benedetta, sant’Alfonso de’
Liguori protettore del prepuzio! Percepisco dell’astio…”
“Astiooo? Ostiaaa, altroché, papy.
Mi fioriscono battute che scambio con
il più
anticlericale di noi: lo sa perché piazza San Pietro è
interdetta alle automobili? Perché è zona pedo-nale: del
resto i bimbetti a piedi si brancicano meglio di quelli col
motorino…”
“Figliolo, figlioli, turba, legione, ascoltatemi…”
“Ci dica, ci dica, papy.”
“Siamo tutti addolorati, qualcuno di noi s’è anche
beccato l’AIDS o l’epatite, ché i bambini di oggi sono
promiscui e poco amanti dell’igiene. Io ho il petto
sanguinante e il fiato corto e mi prostro di fronte
all’umanità per scusarmi a nome di tutti gli altri servi di
Dio.”
“Lei ha il petto sanguinante per giochetti sadomaso di
frusta o di alabarda spaziale con qualche moccioso
travestito da Goldrake, ha il fiato corto postorgasmo da
rotterdam di implumi terga e l’unica cosa credibile che
possiamo prendere per buona riguarda la prostrazione della
sua prostata infiammata dall’abuso dell’uso del fuso.
Circa i servi di Dio, ci piacerebbe che Dio cambiasse
impresa di pulizia.
Ci sono ancora, secondo lei, margini di dialogo?”
Il confessore singhiozza sommessamente mentre si
levano cori gregoriani da parte del Corifeo, dagli omologatti
con voci squillanti e apocalittiche:
Dio vi vede, Dio vi vede
Mentre vi ingroppate prede
Tenerelle ed innocenti,
Mentre digrignate i denti
ai quali rispondono gravi i veteri inani, in sinergia
complementare coi bietoloni, carichi di sguardi livorosi
307
verso il confessionale che si restringe fino ad apparire come
una bara, ingobbiti vieppiù:
Dio potrebbe incenerirvi
Bombardarvi, annichilirvi
Ed invece nel clichè
Siete vivi e Lui non c’è
La scena cambia in porpora a confondere il porporato
nella cassa che si dissolve poi nel buio più siderale.
Dopo buio e brusio, utili a cambiare la scena, spiove
una luce verdina di neon su uno studio medico.
La voce è professionale ed è una voce difficilissima da
riprodurre: curiosa, ma il più possibile asettica,
tranquillizzante, ma acoinvolta, anche se forse è tutto un
cine, circa l’assenza di coinvolgimento, ché certi medici si
sentono, e fortunatamente lo sono, buoni pastori.
“…Allora, mi dica ancora: va di corpo?”
“Faccio lo stronzo molto spesso, dottore, anche se uno
stronzo diverso rispetto a quello galleggiante nel bicchiere
dell’analista, lì inteso come idiota o come uno che si sente
tale nell’impotenza.
In altre contingenze faccio lo stronzo in tutti i sensi.
In senso metaforico paraculeggio con il debole per
ritirarmi col forte, al volante, al bar, dove posso,
trascurando rispetto ed elargendo pietà a mio piacimento:
nessun problema di stitichezza, ché faccio lo stronzo tutti i
giorni, magari anche senza saperlo. Stronzeggio regolare.
In senso classico, invece, tanto per aumentare
l’autostima, una sorta di guardarsi allo specchio e farsi
l’occhiolino ammiccando, mi sollevo dalla tazza e guardo
quel piccolo relitto in sessantaquattresimo della Moby
Prince adagiato su un fianco. Lo contemplo con aria
accigliata e poi esclamo con disprezzo malcelante trionfo e
orgoglio: ‘Sei proprio uno stronzo’.
E tiro la catena rinfrancato.”
308
“Allora i suoi problemi non sono intestinali… Lei ha
qualche difficoltà in campo emozionale… soggetto ansioso…
autostima… depressogeno… “
“Mi sa di sì, dottore, e lo dovrebbe evincere dallo
sguardo fiducioso di bracco che rivolgo a lei come ad un
demiurgo.
Lo sa? Un mio amico, suo collega, mi chiama Pippo,
Pippo Condriaco, per le mie ansie, ubbie, per il mio
preoccuparmi d’ogni sensazione fuori posto spiata con zelo.
E il bello della faccenda è che penso tutti i santi giorni alla
morte sperando che sia lieve, improvvisa, apoplettica, che
non mi faccia soffrire, ché ho terrore del dolore.
E poi scaturiscono domande. Perché si deve soffrire?
Che senso ha? Credo che il ministro della esemplificazione,
figura che mi colpisce tanto di questi tempi complicatissimi,
sia in ferie alle Canarie o a bruciare scartoffie con il
cannello dell’acetilene e non può rispondere. Neanche lei
può rispondere. E il quesito ne genera altri a macchia d’olio,
tutti viscidi e soffocanti.
La decisione di soffrire o non soffrire a chi spetta?
Parliamo di Nonno Libero Arbitrio e della sua fiction?
Subire: la parola da tanti milioni in montepremi, che
pochi conoscono nel suo peso che sotterra. Perché subire?
In ossequio a quale legge galattica non scritta e forse mai
neanche spiegata per saecula et saeculorum?
Io sono magnanimo, a volte. Posso comprendere il
subire una classe politica che viaggia in auto blu con la
ruota d’escort e pretende di darci lezioni di morale, posso
comprendere una prevaricazione che mi possa inquadrare
come vittima, un sacrificio, una restrizione, finanche
Brunetta che mi prende per invidia a calci negli stinchi o a
testate nelle palle, ché sono un omone di un metro e
ottanta, ma perché devo subire dolore e striature cocenti
nell’animo in contemplazione di un non sense generale su
come va il mondo e su come va la mia persona invecchiando
e perdendo denti, capelli e colpi di tutti i generi?”
“Lei è torrenziale, amico mio, e fagocitante: la sala
d’aspetto è stracolma di supposte, di bustine, di
viagradipendenti, di sartani (sarta chi può e chi non può
309
zompa). Lei sta facendo subire ad un microcosmo, senza
rendersene conto, una sfibrante attesa che nessuna rivista
di Novella Duemila o Panorama può anestetizzare o quanto
meno lenire …”
“Ci ho pensato, invece, e mi sono detto ‘vai in monade’.
Siamo troppi e forse potrei dare l’esempio e togliermi dai
coglioni per primo, ma senza soffrire, istantaneo come un
caffè che non sa di nulla…”
“Ma no, è tutto molto più semplice: le prescrivo delle
goccine che la metteranno in condizione di combattere le
sue ansie e paranoie fregandosene bellamente.”
“Ma le goccine, dottore, sono un interruttore on/off…
Leggo ogni tanto che scoprono sempre nuovi
interruttori: la molecola x aumenta la voglia di trombare, il
gene z inibisce la voglia di mangiare, la molecola pdl
aumenta appetiti di onnipotenza, la molecola pd provoca
piacere nel tafazzarsi lo scroto. Sono sgomento, dottore: è
mai esistita una reale, autonoma, sana voglia di decidere
senza condizionamenti chimici, naturali o artificiali che
siano, senza un codice genetico, senza una educazione
precotta precostituita preprostituita? Che disegno c’è sotto?
Si muore in ansia e di ansia: hanno provato a
tranquillizzarci fin da bambini con le caprette che fanno
ciao a Heidi, ma io sono sempre atterrito da Heidegger.
Aiuto, dottore: risposte, non farmaci…”
“Prenda queste gocce e se ne faccia una ragione…”
“Questa è dipendenza. Ho smesso di fumare, per paura
di soffrire nel soffiare, ho smesso di bere, per paura della
dipendenza dalla pendenza, e lei me ne offre un’altra sotto
forma di gocce per stare tranquillo? Non potrebbe darmi
l’eutanasia, o almeno l’ignoranza, o l’oblio, o il ritorno ad
uno stato fetale predinosaurico al di fuori del nulla o del
tutto?
Va bene, va bene: considererò la sua prescrizione come
un
vaccino,
come
un
training
autogeno,
come
un’anticamera, rispetto ad un qualcosa di più definitivo…”
Il medico sorride pallido e benevolo alzandosi dalla
sedia e accompagnando gentilmente alla porta il paziente
che sventola come un ventaglio i fogli rossi delle ricette per
310
l’ipertensione, per la depressione, per il morbo di e per la
sindrome di, perlana, ammorbidito, ma anche confuso e
felice per una vita di plastica.
Cala la luce e sopraggiunge il nero.
E’ d’uopo, ora, una breve digressione sul pubblico
presente in sala, mentre si approntano cambiamenti alla
scenografia.
Quelli del pubblico con simpatie politiche destrorse,
maggiori o minori che siano, tranne qualche eccezione
conciliante o in preda a sonno comatoso, sono già usciti dal
teatro, smadonnando in celtico, sghignazzando in sfida
sguaiati, battendo ironicamente le mani, soprattutto
spernacchiando, e non sempre nello stesso tempo e a
tempo del Corifeo dei veteri inani.
Qualcuno pronuncia oscure minacce, qualcun altro
grida il solito crudo messaggio ‘andate a lavorare’, qui molto
più innocuo e comodo rispetto al contesto dell’ex carcere
della Maddalena.
Lì, a fronte dello stesso messaggio, si trascorrerebbe la
notte combattendo i morsi della fame e del gelo con spiedini
alla brace di destrorsi imprudenti: sarebbe l’evoluzione della
specie che una volta mangiava bambini, perché oggi i
bambini, per moda, sono solamente abusati, proprio nel
senso di buso.
E comunque la sala si è tristemente svuotata di più
della metà degli spettatori, come da abituale ‘trend’ di
partecipazione elettorale.
Chi rimane pisola, applaude fuori tempo, sempre o
quasi sulle scoregge dei veteri inani già troppo citati, (lo
scatologico è sulcesso) oppure annuisce scuotendo la testa
in complicità fittizia, ridacchia nervosamente perché non
capisce il vero senso di quanto recitato. O perché, più
semplicemente, si annoia, ma non trova elegante gridare
che il re è nudo ad una pièce teatrale dove dal palcoscenico
si grida in continuazione che il re è nudo.
Si informa anche, en passant, che certi re, escludendo
l’ovvio Pipino il Breve, hanno anche il pisello piccolo, ma
311
assai vorace, ma questo è un altro breve, di altezza, ma
purtroppo non di durata governativa.
Poi, tra i rimanenti, c’è quello attento, quello che è
arrivato a leggere fino a qui, e l’altro attento, a non dire
minchiate, che sono io che sto concludendo la digressione
col dubbio di avere detto già troppe minchiate…
L’intervistatore di turno si è moltiplicato per
intervistogenesi ed è un folto gruppo di persone armate di
microfoni davanti ad una tribuna alla Cetto la qualunque
da dove uno ieratico similcybbolo nero, e non soltanto di
umore, sta per declamare.
“I have a dream. Ho fatto un sogno. E non sono
Veltroni.
Ho visto distintamente un’assemblea di vassalli in
riunione di condominio (riunione protetta) per la
discussione del tema: lotti(mi)zzazione delle potenzialità del
paese.
Tal Calderoli, con Brunetta al fianco come una spina,
ad altezza fegato, con un Tremonti al tramonto della sua
inventiva in finanza creativa, e un Sacconi con quel testone
buono pieno di segatura cattiva, e la Gelmini appena
rientrata dal suo viaggio di nozze. Ha tagliato anche questo
di quattro giorni come tutte le spedizioni di cartoline, per
una certa coerenza comportamentale coi tagli alla scuola. Si
mormora che per risparmiare vieppiù si sia tagliata da sola
i suoi reggiseni con le forbicine delle unghie e li abbia fatti
cucire da una bidella precaria di una scuola materna di
Cinisello Balsamo. Si teme, o forse si auspica, che possa
decidere di tagliarsi in futuro prossimo anche le vene.
Sono tutti seduti intorno ad un tavolo, con il solo
Brunetta in piedi ancorché apparentemente seduto.
I dialoganti verranno citati per comodità con la sola
iniziale, per esemplificare, come richiede da subito
Calderoli.
C.: “Vorrei parlare subito del recupero funzionale della
Rupe Tarpea per l’esemplificazione di alcuni problemi
d’ordine sociale e sanitario, circa gli immigrati clandestini e
coloro che gravano enormemente sul bilancio delle spese
312
sanitarie con handicap di vario genere, fastidiosi per tutti,
ma soprattutto per gli albergatori delle nostre belle valli.
Avrei tuttavia in animo una prioritaria interrogazione
alla signora collega G. circa un problema ipotetico di
confusione o sovrapposizione nell’ambito del mio progetto di
esemplificazione del linguaggio. Se chiamassi il ministero
dell’esemplificazione con il più semplice ministero dell’Es.
incorrerei in spiacevoli equivoci psicanalitici?”
G.: “Non saprei, caro C., e dovrei approfondire il
problema dall’alto della mia incommensurabile ignoranza,
che mi scuso se non è pari alla sua, ma penso che non
dovrebbero sussistere problemi.
Al massimo, in eventualità negative da accertare, si
potrebbe esemplificare in altro modo grafico, per esempio in
ministero del Les…”
S. scuote il testone in diniego con curioso rumore di
sfregamento di segatura su acciottolato: “Assolutamente
non è possibile questa ultima proposta: si potrebbero
ingenerare equivoci con una patologia chiamata appunto
Les, una malattia autoimmune, il Lupus Eritematosus. Sai
che tristezza fare le esemplificazioni con la fiamma
ossidrica, roba da pianto greco, affetti dalla sindrome di
Sjogren, senza una lacrima da poter versare, oppure
esemplificare il giro delle escort con la sindrome sicca, che
poi è una banale, ma in questo caso disastrosa, secchezza
delle fauci che dovrebbero essere sbavanti all’inverosimile.
No, no, assolutamente no…”
B.: ”E se esemplificassimo con creatività, quindi non
necessariamente dall’inizio, e partissimo da qualche sillaba
dopo, chessò, a caso, da fica? Suona anche bene, stimola i
bamboccioni e i fannulloni e s’armonizza con il partito
dell’amore: il ministero della fica. Eh? Eh?”
C.: ”Non mi opporrei: è anche celodurismo padano
ahahah.
Che ne pensi T.?”
T.: ”Intevessante. Penso agli sviluppi pev un dopo, pev
un futuvo migliove. Una tassazione sui pvoventi della fica…
in genevale, in pavticolave.”
C.: ”Guarda che sono ministro senza portafoglio…”
313
T.: ”Tu sì, ma tutti i puttanievi che conosciamo…”
B.: ”Non pensiamo a loro, ché tanto non pagheranno
mai neanche se intercettati, ma ai bamboccioni segaioli
senza la paghetta di papà per andare a puttane…”
T.: ”Geniale, B.: aumentiamo il salavio ai padvi facendo
contenti anche i sindacati e tutte le pavti sociali e poi
istituiamo una tassa sulle paghette ai bamboccioni e una
tassa sulle fvequentazioni mignottesche, da suddiviveve tva
clienti e, vivaddio, anche sulle tvoie, ché è ova che paghino
le tasse anche lovo. La cavtolavizzazione del mevetvicio,
sbav, sbav, sbav...”
G.: ”Sì, che paghino, paghino anche loro, che
guadagnano un pozzo senza un minimo d’istruzione
promuovendomi un sistema culturalfilosofico alternativo, a
me antagonista…”
C.: ”Allora vada per il ministero della fica?
B.S.G.T. in coro: “Vada, vada…”
C.: ”Sarà contento anche il boss. Me lo vedo con gli
occhi lucidi che annuncia in conferenza stampa il
perfezionamento del primo parto del partito dell’amore: il
ministero della fica. Pota, che spettacolo! Altro che aborti!
Bersani morirà di pugnette ahahah.”
B.: ”Sta già morendo di pugnette, se hai visto le borse
sotto gli occhi dopo le elezioni… indipendentemente…”
Rumore caotico dei giornalisti che si sovrappongono in
una babele di domande e richieste di spiegazioni sul sogno.
Il similcybbolo nero, in realtà, ha voluto soltanto fare
una discutibile satira becera di alleggerimento apparente
che ha svegliato gli ultimi due destrorsi del pubblico, quelli
in sonno letargico, che sono usciti senza rimpianti
nonostante la chiusa impietosa sul povero Bersani che
avrebbe dovuto strappare almeno un ghigno.
Il Corifeo, che in genere dovrebbe esaltare gli eventi,
dorme in una massa informe quasi fusa di omologatti e
veteri inani tra fischi, sibili e squittii da incubi ingestibili.
Tutto diventa nero come il similcybbolo.
Dal buio delle quinte emergono due sagome di porte
aperte.
314
Davanti a una c’è il cybbolo in tuta vecchia riciclata per
casa, piena di buchetti vari che lo rendono triste come un
Tuttouncamolo imbalsamato.
Davanti l’altra c’è un meraviglioso mammifero di sesso
femminile completamente nudo che squadra la mummia
con occhi maliziosi e tette che sfidano la legge di gravità e
un triangolo di peli così bello da sembrare trascendente.
La nuda cinguetta con voce velinica:
“Salveee, sono la sua vicina di casa, l’innocente ragazza
della porta accanto. Piaceeereee della sua conoscenza…”
“Salve… Sono frastornato per tutto questo bendidio e
non mi capacito: sogno o son desto? Sa, io sono molto
spesso dietrologo…”
“Ehhhh, come corre, porcellino. Già s’interessa a
pratiche trasgressive sul lato B?”
“Nooo, per carità, per quanto, ora che mi ci fa
pensare…No, mi scusi: è che sono sospettoso, diffidente,
credo sempre meno a tutto, compresi i colpi di fortuna, e
temo soprattutto l’invidia degli dei.
Poi credo nella legge di compensazione per cui a fronte
di una botta di culo simile, il suo culo per l’appunto, dovrò
per lo meno prendermi un ictus da priapismo (sarà mai
possibile?) o un’infezione venerea o anche soltanto un
definitivo banalissimo infarto…
E poi, soprattutto, queste cose non accadono mai nella
realtà. Quindi sto vivendo un sogno, ma Calderon e William
mi stanno pungolando i neuroni in cavalcate selvagge e
quindi mi comincia a scoppiare la testa nel tentare di
discernere… Mi capisce?”
“Veramente no: io sono solamente l’innocente ragazza
della porta accanto e la guardo con fare ammiccante. Lei mi
capisce?…”
“Forse sì, forse no. Forse lei è il risultato di un
rimescolamento galattico molecolare, un’allucinazione da
peperonata, forse la realtà è altro: lei è una stortignaccola
gobba cingalese che mi sta tendendo la mano scheletrica
per avere un tozzo di pane. Oppure forse lei è Madre Teresa
resuscitata che vuole sottopormi a qualche prova a premi
metafisici e io confondo tutto con il sogno di Pamela
315
Anderson sull’isola deserta sola con me in pratiche fellone
di fellatio.
O viceversa, of course.”
“Ma che dice? Sono vera, autentica, se mi permette, e
anche soda: tocchi, tocchi, sprimacci …”
“Lo farei a piene mani invocando come attenuante
generica la Bibbia, i grappoli d’uva, le spighe e i covoni, ma
ho paura che ci si stia muovendo in terreno acquitrinoso
malsano. Già mi pare di sentire accuse di maschilismo,
nonostante non sia ben chiaro se questo è sogno o realtà.
Sento le voci: ‘ecco, ecco: sempre la solita situazione della
femmina puttana e del maschio cacciatore che subisce
fascini e feromoni’.”
“Guardi che questo è solo uno spettacolo: mi trasformo
istantaneamente in maschione con tre gambe, l’innocente
ragazzo della porta accanto con lo straripante manico del
macho vileda tra le mani…Cambio anche voce, baritonale
come una carta vetrata… Ssalve, piacere della sua
conoscenza: che fa? Guarda il pacco?”
“Salve… Sono frastornato per tutto questo bendidio e
non mi capacito: sogno o son desto? Sa, io sono molto
spesso dietrologo…”
“Stiamo ricominciando in loop? Si sta alloopando?”
“No, guardi sono confuso, sempre più confuso. Adesso
dovrei, per par condicio, rispondere da verginella con
vampate di rossore e le sise tremolanti d’emozione…
Mi sta scoppiando un mal di testa terribile. Quel
cacchio di William con tutte le sue fisime sulle
rappresentazioni, le maschere, le trasposizioni tra sogni e
realtà, oddio…
Credo che mangiasse davvero pesante…
Fosse vivo oggi, lo tratterei come John Lennon.
Da ammirato fan, rovinato nell’esistenza per tutta la
vita che potrei vivere beatamente seguendo la ruota della
Fortuna e Chi vuol esser miliardario.
E invece ancora quesiti…
“Ritorno la ragazza innocente della porta accanto, tanto
per non stressarla ulteriormente.
316
E mi vesto istantaneamente per non procurarle crisi da
misegosauro, ché la conosco, sa, e ho tenerezza e pietà per
lei…”
“Che ne sa un sogno di ciò che è reale?
E come si può pilotare un sogno verso i propri desideri?
Lo sa? Matrix, il film, per me è quasi istigazione al
suicidio, forse perché le scene sono più romanticamente
grandiose di quelle di un Capezzone decadente che con la
faccia del bravo compunto ragazzo fa il punto della
situazione bacchettando qui e là e dando ganascini a destra
e mai a manca.
Con Capezzone, con i portavoce in genere, ché anche di
là non si scherza, più che suicidarsi viene voglia di ridere.
Amaro, ma ridere.
Credo che si possa morire dalle risate amare, per un
attacco di bile mentre ci si strozza increduli e indecisi se
considerare tutto questo come tutto o nulla, sogno o realtà,
con tutti gli annessi e connessi del totem del non sense,
della sofferenza, degli accostamenti bizzarri tra una realtà
birmana, tanto per dire, e un week end di ferragosto sulla
Salerno-Reggio Calabria…”
“Si calmi, si calmi, caro vicino di casa. Guardi: mi sto
incartapecorendo per solidarizzare con lei e le sfodero un
mesto sorriso guardandola con occhi stanchi mentre mi
ravvio la crocchia grigia: è contento?”
“Vaffanculo, vicina di casa della porta accanto,
chiunque tu sia.
Sto esplodendo di cose trattenute non dette che faticano
a essere vomitate fuori. Mi sembra d’essere stato già fin
troppo esaustivo, oltre che estenuante. Mi sento anche io
una istigazione al suicidio, seppure vivente…”
“Si calmi, la prego, le sto anche tremoleggiando la
voce…”
“Vaffanculo al quadrato!
Qui tutto sta divenendo paradossale e stanno
mancando punti di riferimento, certezze, verità.
Deflagrano i luoghi comuni e il frocio è anche di destra,
il razzista è di sinistra, il pacifista è armato.
317
Tra qualche anno ci sarà financo l’ostensione
alternativa da parte di una mafia inequivocabilmente
imperante senza dubbi alcuni: sarà l’ostensione della
tazzina da caffé con le impronte corporali di Sindona.
La verità unica e assoluta è l’assenza di verità unica e
assoluta e da tutto questo, dal tutto, scaturisce il nulla più
totale.
Mi dica, caro essere innocente della porta accanto: io
dove sono? E soprattutto: che ci faccio? E ancora: perché?”
“Non ho risposte per lei, caro vicino della porta accanto.
Le volevo solamente fare compagnia per rendere meno
paurosa l’esistenza, stordendola con la mia innocenza
pelosa e poco innocenteeeeee… “
Le figure sbiadiscono nel buio mentre si chiudono le
porte con due tonfi sommessi e la scena ritorna nera come
l’anima di chi scrive, ammesso che esista un’anima.
Il corifeo ormai tace, ché nulla è più da evidenziare e
nulla più vuole evidenziare, sconfitto e piegato.
Nel silenzio di smarrimento e riflessione di fine
spettacolo uno sparo echeggia nella sala e uno del pubblico
s’accascia sulla poltroncina: il solito debole che capitola da
subito alla prima consapevolezza sofferente, al primo
stormir di foglie e alla prima rottura di coglioni.
Cala nel contempo, quasi rispettosamente per la
contingenza, il sipario con un fruscio sinistro non
necessariamente di sinistra: un fruscio trasversale.
Gli attori, il corifeo e il residuo pubblico s’affannano
verso la poltroncina fumante per un tentativo disperato
d’ultimo soccorso con esclamazioni addolorate, pietiste,
scomposte, madonnemistiche, ossignordamoreaccesiche e
compagnia cantante.
Qualcuno, magari il più curioso, ipotizzo io
perfidamente, s’appoggia con la mano allo schienale e non
sa che si è beccato l’AIDS per il contatto casuale col sangue
schizzato che contamina un polpastrello mangiucchiato
fino alla carne viva, solito ansioso essere che qualche
psicologo dice che è bisognoso d’affetto. Le probabilità che
318
questo avvenga sono di una a un milione, ma il fato cinico e
baro che governa l’umanità così ha deciso.
L’onifago autocannibale uscirà dal teatro, ignaro, e farà
proseliti del nuovo credo di distruzione, prossima verità tra
le tante galleggianti in assenza di verità.
Il Corifeo ha un ultimo sussulto e i quattro più quattro
si ergono sull’attenti davanti alla salma del suicida,
sghimbescia sulla poltroncina, e salutando militarmente
intonano in loop infinito la seguente frase:
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli!”
319
320
RACCONTI NERI
321
322
GIALLO ESTETICO
“Lui è sempre stato molto attento all’aspetto fisico ed al
suo modo di porgersi per cui si è plasmato con estenuanti
esercizi in palestra, si è vestito dai migliori sarti e si è
forgiato il carattere con persone piacevoli e intelligenti e con
letture gratificanti lo spirito.
Lei è sempre stata fiera del suo personalino svelto e fine
e lo ha esaltato con capi d’alta moda e un trucco discreto e
intrigante ed è sempre stata orgogliosa della sua sensibilità
e ironia: due belle persone, intelligenti e ricche di
spiritualità, innamorate di loro stesse oltre che del
prossimo, in un vivere piacevole e molto sociale per la gioia
di apprezzare, apprezzarsi e sapere di essere apprezzate.
Si sono conosciuti ad un vernissage di un comune
amico pittore e si sono piaciuti dopo pochi sguardi di intesa
reciproca.
Hanno mescolato gli effluvi di Eau Sauvage e Eau
d’Issey in un’unica appagante fragranza dopo un
matrimonio semplice e sobrio davanti a pochi sceltissimi
amici e hanno diviso momenti piacevoli a lungo e
intensamente.
Hanno commesso solo un errore, ma grave, tutti e due:
sono rimasti invischiati nell’abitudine di giorni e giorni di
quotidianità e hanno perduto quella rigorosa lucidità
estetica che li contraddistingueva per adagiarsi in una
tolleranza sempre più giustificativa.
Un giorno hanno riaperto gli occhi della loro antica
sensibilità e hanno visto i loro corpi ormai sfatti da
cocktails e cene esotiche, stanchi e rugosi, avvolti in pigiami
o vestaglie che mai potrebbero accostarsi al concetto di
erotismo e si sono uditi, dopo anni di silenzio, per una
prima volta, lui con i suoi rutti dopo una birra davanti alla
televisione e lei con le sue esclamazioni di cittadina che
protesta, querula, acida, in lotta col mondo intero.
Hanno scoperto di aver dimenticato come si ama
carnalmente, come si amavano, perduti in sfibranti
preliminari poi sostituiti anno dopo anno da un rapido
anonimo contatto solo meccanico.
323
Si sono resi conto dell’errore tutti e due, nello stesso
momento, e si sono specchiati uno negli occhi
dell’altra….hanno avuto uno sprazzo di pietà, no, direi di
amore, sì, ancora amore.”
“Lei dice che è andata così, dottore?”
“Sì, penso proprio di sì.”
Il medico legale, psichiatra, annuì allo Sceriffo e alzò gli
occhi da documenti che aveva consultato sbirciando ancora
una volta fuggevolmente i due corpi abbracciati con due
coltelli conficcati nel torace che si guardavano ancora con
occhi vitrei in un ultimo soprassalto di complicità perduta.
Ebbe un fremito che forse era di invidia…
324
DEVOZIONE
Non può chiamarsi paese, e nemmeno villaggio, Okoote,
nel centro del Ruanda: può, forse, definirsi comunità, con
quattro o cinque grandi capanne, una tettoia e il bungalow
della missione che funge da ospedale, chiesa e centro di
aggregazione di un gruppo di qualche famiglia hutu ancora
dimenticata dal mondo civile (quello della guerra civile) nel
mezzo di una impervia foresta lussureggiante e
inestricabile.
Oggi è festa grande ad Okoote: è stato superato, almeno
per qualche giorno, il problema della fame, atavico, e le
donne sorridono, mentre allattano i loro piccoli, con i seni
penduli, e battono radici ed erbe in rudimentali mortai di
legno per farne una pasta da accompagnare alla carne che
arrostisce lentamente allo spiedo.
I guerrieri masticano soddisfatti foglie di tabacco e
curano il fuoco guardandosi con soddisfazione e gli occhi
stretti a fessure per il fumo acre di legna verde. E’ diffuso
nell’aria un penetrante aroma di incenso che non sembra
provenire dal bungalow di Don Pietro…
Manca stranamente alla festa proprio il solo Don
Pietro…
Uno sguardo appena più attento farebbe scorgere,
vicino al gigantesco spiedo che gira, una tonaca nera
fermata al vento da un grande messale; ci si chiederebbe,
inoltre, il perché di un certo gioioso e irrispettoso
andirivieni di bambini dal bungalow del prete, tutti con
qualche oggetto in mano che esaminano con curiosa
spensieratezza: ampolline da messa, una radiolina, una
padella, scatolette di medicinali…
Ora di pranzo, alfine… Il capo della comunità, un
vecchio hutu sdentato e rugoso, intona, con voce ferma e in
stentato italiano, una preghiera, tra il gruppo compunto:
“Signore, che Ti sei manifestato nella frazione del pane,
benedici la nostra mensa e santificaci con la Tua
presenza…”
Il gruppo mormora nel suo dialetto: “Grazie, Don
Pietro…”
325
GIALLO IN DUE TEMPI E DUE SPAZI
UNA GRAVE PERDITA
Oggi pomeriggio, nella piccola cappella dell’Addolorata,
alla destra del transetto del duomo del ricco centro
brianzolo, si celebrerà una novena di preghiera: ricorre il
trigesimo della scomparsa di T., ragioniere, impiegato di
banca.
Se ne è andato, tra i migliori, come sempre in genere,
improvvisamente, trenta giorni fa lasciando un vuoto ed
una perdita incolmabile nella comunità.
Era benvoluto e stimato dai colleghi e dai clienti,
amatissimo dalla moglie e dai familiari, tutti, ancora oggi,
distrutti e uniti nel dolore.
L’Interpol ipotizza che possa trovarsi in Giamaica o in
qualche altra isola caraibica.
Si presuppone che sarà molto difficile rintracciarlo,
considerando che si è dileguato con un importo di circa
quarantacinque milioni di dollari…
DARK LADY
Il ragioniere T. si affacciò con la testa nel bagno
maiolicato pieno di vapore.
B. era una cosa sola con una stimolante doccia tiepida
che esaltava gli aromi di spezie esotiche del bagnoschiuma.
“Esco per un poco, ma ritorno…stai tranquilla…” e
scomparve ridendo con due enormi valige rigide.
Ritornò nell’elegante bungalow dopo due ore circa, si
cambiò con un completo di lino bianco, stazzonato
leggerissimo, e raggiunse B. presso il bar del villaggio
turistico: lei era appena un poco soprappensiero,
vagamente inquieta e apprensiva…
“Tutto a posto: esistono anche qui le banche…” e rise
guardandola maliziosamente.
Rise anche lei, meccanicamente, sospirando di sollievo e
pensando a un momento propizio per la seconda parte di
un piano, la parte che conosceva solo lei.
326
Il ragioniere ordinò champagne e poi ancora
champagne: si ironizzò parecchio nell’immaginare varie
facce al di là del mondo sorprese dolorosamente per quel
colossale ammanco in banca; si rise molto nell’ipotizzare
reazioni scomposte e isteriche…
Lui le sussurrò qualche segreto e lei sorrise…un sorriso
freddo da iena…
Poi andarono teneramente abbracciati fino al faro sulla
scogliera, nell’aria frizzante della sera, immersi in propri
pensieri cullati dalla risacca.
Contemplarono il mare da lassù, onnipotenti, forse più
onnipotente B. del ragioniere che era sul ciglio del burrone
e guardava in basso le rocce aguzze…
B. spinse con freddezza e ristette ad ascoltare il colpo
sordo.
Individuò il corpo disarticolato del suo ex compagno di
viaggio, semi coperto dalle onde, e corse via con un satanico
entusiasmo, raggiante, al bungalow per recuperare la
pesantissima carta di credito nella cassetta porta valori:
sapeva il codice, sapeva conquistare la fiducia in
pochissimo tempo, sapeva vivere, voleva vivere, però
indipendente, sola, senza legami…
Nella cassetta blindata elettronica non c’era nulla, solo
due o tre mazzette di banconote…
Ritornò al faro come un’invasata e si calò con svelta
prudenza febbrile tra le rocce per frugare un corpo…
Sono molto voraci i granchi tropicali…
Alla luce della luna vide un corpo straziato che
sembrava ghignare di trionfo e un tesserino magnetico
sminuzzato da imparziali chele…
327
TROPPO IN ANTICIPO AGLI APPUNTAMENTI
Roberto ebbe modo di comprendere che non si dovrebbe
mai arrivare con molto anticipo agli appuntamenti.
Era stravaccato su una panchina sotto un albero, al
crepuscolo, e attendeva amici per una pizza in compagnia.
Rumore uniforme di scroscio di fontana e urla gioiose e
discorsi accalorati tutto intorno.
E’ bello lasciarsi andare in queste occasioni a pigre
osservazioni sul mondo minimale che ci circonda con i
pensieri in libertà senza guinzaglio.
E’ ancora più bello se ogni tanto, nell’ambito di un’afa
insopportabile, si leva un refolo di aria che dia l’illusione del
sollievo.
Roberto si guardava intorno e ipotizzava su situazioni a
venire mentre osservava il presente intorno a lui.
Altre panchine.
Una piena di marocchini con un cartone di birre; una
con due innamorati alla moda con piercing e tatuaggi vari;
un’altra con speculare sfaccendato dall’aspetto, però, più
truce e trasandato.
E intorno bambini chiassosi, qualche mamma pettegola,
musi di faina semisepolti dalle ombre più lunghe degli
alberi: varia umanità.
La notò subito all’altro capo del giardino della piazza.
Immagine di capodoglio ferito grigiazzurro.
Arrancava con un bastone pratico , ma poco elegante.
Aveva
una
chioma
argentea
spettinata
corta
apparentemente della consistenza del filo di ferro: Roberto
ironizzò interiormente su uno splendido taglio a ‘scodella’.
Strascicava il passo bilanciandosi tra il bastone e una
sporta semipiena.
Si sentì scrutato.
La vecchia, corpulenta e sfatta, colava verso di lui con
una vestaglietta leggera celestina a piccoli fiori, tipica delle
vecchiette che non si spostano molto dal loro quartiere.
Si fermò davanti a lui con uno sguardo indagatore,
anche esso celestino e freddo come la vestaglietta, seppure
senza fiorellini, e atteggiò un sorriso umile di circostanza.
328
“Mi permette, bravo giovane, di sedermi un poco alla
sua panchina?
C’è troppa brutta gente in giro e io sono vecchia e mi
reggo a stento in piedi…”
Roberto si scostò verso un capo della panca
educatamente e con un sorriso di solidale condiscendenza.
La vecchia parve rinvenire nell’aria buonumore, alzando
il naso verso le cime degli alberi come un cane da caccia,
poi si volse verso l’ospite improvvisato con sguardo
ghiacciopuntuto.
Ansimava per una cattiva respirazione, quasi
risucchiava l’aria come per uno sviluppato enfisema, e il
petto budinoso ondeggiava sotto la vestarella leggera.
“Meno male che esiste anche la brava gente.
Almeno non mi sento proprio sola e in balia di chi vuole
fare del male.
E’ pieno di gente che ce l’ha con i vecchi.
A cominciare dai figli…Ma quand’è che si toglie di torno
‘sto rudere? Dicono così dentro di loro, sa?
E una povera vecchia come me, piena di acciacchi e di
dolori, si sente sola sempre di più, e anche inutile.”
Roberto per cortesia si era girato verso la vecchia che
parlava.
Sentiva il suo curioso modo di ansimare risucchiando
l’aria e percepì un sentore di liquirizia e menta.
Pensò alla nonnina troppo vicina con quella probabile
dentiera, gialla, e quello sguardo che chiedeva qualcosa ed
era al contempo di ghiaccio con bagliori freddi alla luce del
crepuscolo.
Assentì benevolmente alle lamentele dell’anziana
persona con un sorriso vacuo e un leggero fastidio per
essere stato interrotto nel suo processo di rilassamento
solitario.
Anche un vago inspiegabile malessere.
La vecchia tracimava con maggiore calore e risucchiava
l’aria come un mantice.
“Le gambe non mi reggono più. La farmacia qui dietro è
chiusa per ferie e dovevo prendere delle medicine. E’
329
passato il giovane avvocato che abita nel mio stabile, quello
là di fronte, una casa tranquilla, per fortuna.
Si è offerto di fare un salto fino all’altra farmacia in
fondo alla via.
Era esitante, forse pensava che non l’avrei pagato.
Io gli ho dato la ricetta e anche i soldi, compresi gli
spiccioli: non mi faccio certo guardare indietro, io, sa?”
Assunse un’aria grottesca di bambina offesa col broncio
e la ragnatela di rughe divenne più evidente e impietosa.
Roberto era fisicamente a disagio: troppa afa, l’aria che
mancava, ed era anche imbarazzato per il torrenziale
debordare della nonna che continuava a raffica.
Ebbe un impeto di evangelica tolleranza buonista e fece
finta di nulla, seppure trafitto come una farfalla dallo
sguardo indagatore acuminato come una spilla.
Ah, questi vecchi diffidenti, fragili, rompicoglioni!!!
Nuovo risucchio.
“Vede quel signore laggiù? Ha ottantadue anni! Lo
direbbe mai? Guardi che passo…
Io ho tanti acciacchi, ma mi difendo ancora: ho
settantasette anni.
Mi tengo benino perché mangio poco: stasera, per
esempio, un pezzettino di formaggio e un bicchiere di latte o
un frutto.
Non bevo vino e non sciupo soldi per certe robacce che
si mangiano oggi.
Nulla è più buono dell’insalata…”
Roberto cominciava ad essere stordito.
Le chiacchiere invadenti, quel curioso rumore di
risacca, quell’aroma indefinibile di liquirizia e menta e la
luce che si abbassava nell’afa che opprimeva.
Guardava sempre più frequentemente l’orologio da
polso sperando in una irragionevole sgroppata del tempo.
Sudava copiosamente stuzzicato da un persistente
crescente mal di testa.
La vecchia sembrava più tonica, forse per la minore
luce che non riverberava più dalle finestre oblique di fronte,
forse per la soddisfazione di avere trovato compagnia ad
alleviare la sua solitudine.
330
Parlava e parlava: di flebite, di diete, di figli ingrati, del
quartiere e della gente malvagia che lo aveva invaso.
Roberto si sentiva ora decisamente male, a corto di fiato
e debilitato.
Inventò su due piedi la scusa più banale.
“Mi scusi tanto, signora, ma devo proprio andare…”
La vecchia farfugliò qualche scusa con una voce
esageratamente tremula e sorrise debolmente, con gli occhi
comunque sempre vigili e senza espressione.
Roberto si levò dalla panca con enorme fatica e cercò di
allontanarsi verso la fontana.
Caracollava quasi come un cavallo azzoppato, svuotato
di energie e desideroso solo di tanto riposo.
Si diresse alla fontana con passo malfermo per
rinfrescarsi il volto.
Vide riflesso sulla superficie dell’acqua il suo viso e
rabbrividì di raccapriccio.
Era una faccia di pergamena, rinsecchita e asciugata
come uno stoccafisso, grigia, come una mummia
imbalsamata disidratata da tempo immemorabile.
Ebbe un mancamento e scivolò in terra con lo sguardo
rivolto verso la panchina dalla quale si era levato poco
prima.
E comprese.
La vecchia lo squadrava da lontano con indifferenza e il
suo corpaccione aveva ora una maggiore tonicità e
consistenza: sembrava più grande e più soda, massiccia e
granitica come un monumento.
Pareva quasi che sorridesse beffarda con labbra
avvizzite violacee e con quella dentiera gialla che ora,
nell’immaginifico del sofferente, appariva da vampiro.
A Roberto venne in mente la mutazione del capodoglio
nella strega-piovra grigia e neroviolacea enorme del film
d’animazione “La sirenetta” e si chiese se la vecchia gli
avesse rubato proprio tutte le energie, con quell’asmatico
inspirare, e lo avesse precipitato verso un punto di non
ritorno senza neanche la possibilità di mangiare ancora una
nuova pizza con amici.
331
Delirò di ultima cena, di dovere richiamare i pensieri
bradi, di mentine e canini e di soffi ad aspirare energia
vitale, vita vera e propria.
Pensieri incongruenti, illogicità, deliri canicolari.
Scroscio della fontana come rombo a lavare il cervello e
a cancellare grida e risate.
Calò la sera e fu buio.
332
LA SERENA VITA DEL BORGO
Il borgo è piccolo e raccolto, un piccolo quartiere che
sembra un paesino staccato dalla città, e molta gente viene
appositamente da fuori per assaporare magiche atmosfere
di tempi andati.
Casupole basse con i balconcini pieni di gerani dalle
tinte accese, le persiane di un bel verde smeraldo e piccoli
portoni sormontati da ‘vasistas’ di vetri lavorati offrono il
respiro di un’aria bohemiènne tra odori e vetrine intriganti e
acciottolato irregolare e pulito.
Occhieggia dal fondo della bottega del caffè il rubizzo
Mario, il barman e padrone del bar vineria, che mette in
bella mostra ogni mattina croccanti vaporosi croissants e
tramezzini ben farciti.
La panettiera Marta sorride soddisfatta da dietro il
bancone, piacevolmente stordita da un penetrante odore di
pizza appena sfornata.
Il giornalaio del piccolo chiosco tipico, come quelli di
una volta, con la banderuola a galletto, scruta il movimento
del borgo con un saluto per i conosciuti passanti.
Dalla finestra al quarto piano la vecchia signora Cesira
ritira le lenzuola di un bianco accecante sotto l’occhio
indulgente del buon Vincenzo, il vigile, perché non è ora di
bucato e non si dovrebbe tenere biancheria appesa ai
balconi.
Escono da un portoncino
le due vecchie sorelle,
l’istituzione del borgo, le sorelle Paciocche.
Sono due candide vecchine che suscitano tenerezza e
simpatia, avvolte in due scialli uguali di lana violetta, con
un involto sotto le loro braccia ossute.
Percorrono il breve tratto di via del borgo con aria
serena, salutando tutti e prenotando la spesa per il loro
ritorno.
Armando il macellaio assente con un cenno e anche
Marta dà la voce per il pane.
Le due anziane sorelle arrivano al fondo della via e
spariscono verso il caos della città: chi non le conosce
333
potrebbe preoccuparsi per quei due fragili esseri tremuli
che escono dal paese delle fiabe.
Gli abitanti del quartiere, invece, tornano alle loro
faccende sapendo con fiducia che, al massimo, ritorneranno
nel primo pomeriggio.
Sono due adorabili zitellone, le sorelle Paciocche, Elisa
ed Emma.
Trascorrono la mattinata fuori casa per fare del
movimento e tenersi in forma, camminando a lungo verso le
antiche rovine archeologiche in una salubre passeggiata, e
soddisfano la mania tipica di molti anziani di portare
qualche avanzo da mangiare ai loro animali preferiti.
Elisa ha simpatia per i piccioni.
Emma per i gatti.
Escono tutte le mattine con il loro pacchetto sotto il
braccio: pane tritato, di Elisa, e carne macinata, di Emma.
Sono contente: oggi, poi, è bel tempo e c’è un sole
tiepido che scalda.
Ritornano di solito verso la tarda mattinata o appena
prima dell’ora del sonnellino pomeridiano.
Ritirano la loro spesa da Armando che chiude sempre
per ultimo.
A quell’ora poca gente è in giro, soprattutto quella che
viene da fuori.
Il buon Armando fa trovare loro un pacco di carne
macinata, due fettine, anche la busta del pane di Marta,
una bottiglia di vino e talvolta un barattolo di caffè per la
moka da parte di Mario.
Le due arzille vecchiette passano dietro il bancone del
macellaio e depositano sulla pesa bassa le loro borse della
spesa…
Molti vengono fin dall’altro capo della città a servirsi dal
macellaio Armando che è famoso per i suoi piccioni
ruspanti e per il coniglio che fa venire direttamente dal
contadino…
334
DICE LA SABBIA DEL DESERTO
Spero che tu possa comprendere il significato della
carezza del vento del Sahara e le parole sussurrate dalla
sabbia di questo deserto che punge delicatamente la tua
pelle, sotto questa brezza al morire del giorno, in discorsi
d’avvertimento.
Ti vedo assorto e rapito, accoccolato sul crinale di
un’altura, ad osservare una teoria di dune che scuriscono
al tramonto mosso, mentre l’aria raffredda e le ombre
allungano una scura coltre su palmizi lontani.
Il cielo è terso ora, senza riverberi, con il sole che
rapidamente scompare all’orizzonte, e i colori sono più
accesi in un purpureo espandersi che stupisce e lascia
sgomenti.
Sensazioni già da me provate, splendide, di
struggimento che invoglia a piangere di gioia per la
grandezza della natura anche nei suoi aspetti più desolati.
Spero che tu possa apprezzare l’ultimo mio abbraccio di
polvere e granelli di rena che il vento sospinge laggiù oltre
quella gobba più pronunciata di altre.
Ascoltami prima che io mi allontani.
Non oltrepassare mai quella duna.
Ascolta lo spavento dei saggi berberi che non osano
avventurarsi oltre, verso quella landa che si perde in quelle
lontane gole rocciose.
Non insistere per dirigerti di là.
Leggi in quei volti smerigliati, di cuoio, la paura che
salva l’esistenza nel rispetto di ciò che si conosce e si teme.
Io non volli prestare loro attenzione, derisi l’antica
sapienza dei popoli del deserto, e ora non posso che
avvertirti mentre accarezzo i tuoi abiti sudati che odorano di
benzina e latte fermentato di cammella.
Ti pizzico la pelle del viso e cerco di chiuderti gli occhi
irrequieti per evitarti il mio stesso atroce destino.
Ero come te, non tanto tempo fa: baldanzoso ed
entusiasta della vita, curioso come quei babbuini che vidi a
Gibilterra, impertinente e sfacciato come quei ragazzini
svegli di Tunisi dal sorriso candido come sale marino.
335
Sfidai le terre aride.
Ero bene equipaggiato: cammelli e dromedari, guide,
viveri e acqua.
Mi sentivo il signore del deserto e mi pavoneggiavo in
abiti non miei come se fossi a casa mia.
Gli accompagnatori indigeni scuotevano il capo tra
compianto e divertimento incredulo.
Essi sapevano chi è il vero padrone delle zone che avevo
deciso di esplorare.
Cercarono di dissuadermi dal continuare oltre queste
dune che ora tu contempli al tramonto.
Mi parlarono sommessamente del Signore degli
Scorpioni e del suo territorio da non profanare.
Li apostrofai come servi codardi, senza rispetto per il
loro sapere, impudente, e mi avventurai orgogliosamente da
solo oltre quella gobba, a tardo pomeriggio, con il fresco,
ignorando brezze carezzevoli e sabbia sul volto che mi
scongiuravano di non proseguire.
Ahimè: non conoscevo il linguaggio del vento e della
sabbia.
Avevo deciso di pernottare in prossimità di una gola,
quella laggiù lontana, che sembrava quasi a portata di
mano in un effetto ottico traditore delle deboli percezioni
umane.
Avevo con me poco bagaglio e un dromedario che
stranamente recalcitrava, neanche fosse stato un altro
zotico berbero della mia carovana.
Procedevo a piedi e lo trattenevo per la cavezza; ero
costretto a strattonarlo, di tanto in tanto, per evitare che
s’impiantasse nella sabbia finissima che stava raffreddando
velocemente al crepuscolo, curiosamente rossastra in un
contrasto cromatico splendido e inquietante.
Mi venne in mente un’associazione d’idee pittoresca,
con immagini di mummie polverizzate di antichi musei:
avevo la sensazione, infatti, di camminare nella polvere
sedimentata e solidificata di secoli di storia.
Il rossiccio, con l’incedere del buio, assunse toni violacei
di sangue.
336
Il cammello improvvisamente scartò per qualche ombra
o per un cedimento del passo e mi sorprese disattento.
Mi sfuggì il laccio dalle mani e vidi la bestia fuggire,
verso la direzione da dove eravamo venuti, in un galoppo
sfrenato di animale impaurito.
Valutai con freddezza che non mi ero allontanato poi
troppo, ma che non avrei dovuto proseguire oltre: avevo con
me solamente una borraccia e uno zainetto con pochi viveri
e un caffettano arrotolato per affrontare i rigori della notte.
Mi volsi intorno ed ebbi i primi avvisi d’ansia per nuove
percezioni mai provate prima.
Rumori.
I rumori del deserto nella sera incombente illuminata da
una luna che appariva come un ghigno storto a deridermi
per l’imprudenza e la superficialità.
Tutto intorno a me ormai dominavano i colori blu
petrolio, violaceo sempre più scuro, nero e un fievole
baluginare lattiginoso che conferiva al paesaggio un’aura
spettrale.
Percepivo
nell’atmosfera
circostante
un
odore
persistente di polvere e di terra riarsa che rifiatava.
E ancora i rumori…
Uno sfregare sommesso di creature che fuoriuscivano
dalla sabbia nel silenzio di un’aria morta senza più vento.
Alla luce fioca distinsi piccole sagome luccicanti di nero
e rabbrividii: scarabei…e scorpioni…
Mi maledii per il pressappochismo e per la smania di
curiosità non disciplinata dalla prudenza.
Mi posi in difensiva, attento a non pestare nulla che si
agitasse, scrutando nel buio febbrilmente un riparo che mi
concedesse il piacere di sdraiarmi per riposare.
Le dune parevano scomparse: solo un’immensa scura
distesa piatta e uniforme brulicante intorno a me di
impercettibili strofinii.
Poi avvertii altro e la mia inquietudine cominciò a
trasformarsi in vera paura.
Udii un sordo brontolio grave e notai il riaffiorare di una
nuova brezza, gelida, che smuoveva il terreno in sbuffi.
337
Mi stavo abituando alla poca luminosità e potei
osservare, con raccapriccio, intorno a me, in controluce, un
muoversi ondeggiante a pochi millimetri dal suolo,
uniforme, scuro lucido molto frastagliato, di zampe,
d’antenne, di chele, di pungiglioni.
La brezza aumentò d’intensità sollevando mulinelli di
sabbia umida e luccicante di umori di insetti.
I mulinelli si cercavano e si univano tra loro sospinti
dall’aria e la sabbia acquistava una sua consistenza propria
che aumentava d’altezza e che pareva dotarsi di sua
autonomia nel movimento.
Mi coprii il volto a proteggermi dal vento che stava
diventando violento: sollevava sabbia e insetti e davanti a
me si stava materializzando qualcosa.
Distinsi un essere grottesco e orrendo, un impasto di
sabbia densa e fine impalpabile come cenere, frammisto a
gusci lucidi di scarabei luccicanti e di chele e corazze di
scorpioni neri brillanti alla luna.
L’essere creato dal vento si concretò come un gigante,
rispetto a me, dalle movenze controllate e severe e da una
sua fisionomia umana minacciosa.
Mi fissava sogghignando.
I bagliori delle sue pupille erano due grandi scarabei
fosforescenti nella notte.
La sua sagoma somigliava al corpo di un lebbroso, con
insetti che individuavo come ulcere e ferite su una pelle di
talco granulato spesso, ora violaceo.
Poi trasalii di raccapriccio nel concentrarmi ancora su
quello che ipotizzai fosse il volto.
Allo sguardo maligno si era aggiunto un profilo
disegnato da vari tipi di scorpioni e la bocca del mostro era
una chiostra di scorpioncini albini con due lunghi
innaturali pungiglioni bianchi al posto dei canini per il più
mostruoso dei terrificanti vampiri.
Compresi agghiacciato.
Era il Signore degli Scorpioni, il principe del Male di
quel territorio che io stavo profanando con la mia presenza.
Rimasi immobile, affascinato dalla visione, terrorizzato
come un lèmure.
338
La creatura si riscosse di vita propria e il suo sguardo si
palesò vivo mentre il vento cessò d’incanto evidenziando di
nuovo l’eco di un incessante brulichio, discreto e
assordante insieme, in schizofrenica percezione della realtà.
Venne verso di me, il mostro, con quello spaventoso
ghigno di cheratina rilucente, diabolico Arcimboldo
sahariano.
Mi sentii avvolgere e stringere da un abbraccio di talco,
polvere, sabbia, mentre percepii un risalire dai miei piedi
d’altre creature che mi zampettavano sui polpacci.
Subii, all’improvviso, innumerevoli punture, tutte
insieme, lancinanti, per tutto il corpo, che mi paralizzarono
nel terrore, e vidi il mostro chinarsi su di me con il suo
volto orribile.
Urlai e urlai a perdifiato nella notte, inascoltato.
Poi ebbi la percezione dello smarrimento di me, della
mia figura come uomo in carne ed ossa e sangue, nella
consapevolezza di una condanna ad una maledizione per la
mia superbia.
Mi disfeci nel dolore e nella sofferenza.
Semplicemente.
Mi decomposi in una metamorfosi che trasformò la
carne di uomo in cibo per le creature del deserto, per poi
mutare ancora in sabbia polverosa fina che è quella di ora
che ti mormora consigli, condannata ad essere viva e
sospinta dal vento.
Ora posso solamente avvertire i curiosi che passano da
queste parti sperando che m’intendano.
Posso solamente sperare di riuscire a salvare un’anima
per riuscire a trovare pace con la mia anima nell’eterno
riposo in questo terribile deserto.
Salvati, ti prego.
Ascolta il mio soffio per quello che conserva d’umano.
Salvami, ti prego…
339
PECCATI DI GOLA
“Il solo modo di liberarsi di una tentazione è cedervi”.
Citò teatralmente Oscar Wilde con voce calda e
baritonale, levando un calice scintillante per un brindisi, e
rise fissandola ironico e tagliente negli occhi.
Lei si abbandonò ad una sguaiata risata di gola priva
d’inibizioni rispondendo allo sguardo con malizia di altro
sguardo febbricitante lucido.
Erano a cena, seduti ad un massiccio tavolo di rovere
finemente apparecchiato con una tovaglia immacolata di
Fiandra, al lume di candele innestate su argenti lucenti.
Rossori montavano sui loro volti accaldati illuminati dai
bagliori del vino rubino che rifrangeva purpurei raggi dai
trasparenti calici di cristallo.
Le fiamme scoppiettanti del camino sollecitavano calore
e intesa nella passione.
L’immenso salone nobile e austero, nella penombra,
sembrava rimpicciolirsi accogliente in complicità di
prospettive per la coppia intenta ad un pasto erotico e
vorace.
Piluccavano con le mani, direttamente da una leccarda
di peltro brunito, brani d’arrosto saporito e scuro, cotto in
vino aromatizzato con chiodi di garofano e alloro e bacche di
ginepro, e un effluvio appetitoso d’intingolo denso stordiva
le narici frementi dei due convitati.
Sorrisi maliziosi d’emozioni intense, per i due amanti, e
atmosfera intrigante a solleticare attimi lussuriosi, sugo
colante sulle mani e sui volti accesi in sorrisi felini con
lampi di canini avidi: era vivida, nell’aria spessa, l’animalità
e la condivisione di consapevolezze nella resa a tentazioni
vagheggiate e subite con voluttà.
Il marito di lei, intrigante tentazione e arrosto sugoso,
impotente ed ancora tiepido, era muto testimone, ad ogni
morso minore…
340
APOCRIFO VANGELO
Si può definire una scalinata come difficoltosa e
anarchica?
Questa lo è: immensa, interminabile, larghissima e
ripida senza mancorrenti.
E’ di un bianco accecante di marmi e travertini lucidi:
riverbera una luce che abbacina per come è naturale che
sia tra le ore quattordici e le quindici di un giorno strano di
fine aprile, afoso e pieno di sole, straordinariamente caldo.
In cima ad essa svetta un edificio massiccio che appare
come un rifugio solido, un luogo di culto per importanti
simbologie, un tempio dedicato ad una pretesa verità
assoluta.
Grandi colonne semplici, senza rastremature, con
capitelli squadrati senza ornamenti, incorniciano una
facciata candida e austera sormontata da un frontespizio
d’architettura neoclassica privo di qualsiasi decorazione.
Si direbbe proprio un tempio, concettualmente nudo,
per una pretesa verità assoluta che, semmai esistente,
nuda dovrebbe essere sempre rappresentata.
Rumori ovattati e sfiniti nella calura soffocante.
Folla che sale e che scende in sommesso strusciare o
picchiettare di suole sulla pietra calda: tanta gente,
indifferente, perduta nei meandri delle proprie esigenze e
dei propri pensieri.
Sal, detto anche Nazarè, ha appena ricevuto qualcosa
da un gruppo di personaggi vestiti di nero in fondo alla
scalinata, vicino ad un’automobile importante scura con i
vetri schermati.
E’ molliccio, efebico, quasi femmineo, e si distingue
facilmente tra le varie sagome degli armadi scuri senza
sguardo, nascosti da occhiali da sole.
Deve portare il pacchetto in cima, dentro l’edificio, e
guarda la ripida sequenza scoscesa dei gradini con
preoccupazione.
Suda.
341
E’ rasato, con il cranio lucido, ha un orecchino
scintillante all’orecchio sinistro, vari tatuaggi sulle braccia,
una barba di pochi giorni trascurata.
Veste una canottiera mimetica, bagnata a chiazze sul
petto e sotto le ascelle, e un paio di pantaloni verdini leggeri
con tante tasche.
Uno degli uomini in nero gli prende improvvisamente il
mento con una mano, rudemente, e lo fissa attraverso
occhiali da sole scurissimi con fare minaccioso e
autoritario.
Un altro lo sgomita sfottente mormorandogli qualcosa
all’orecchio.
Una spinta di un altro ancora e Sal s’incammina senza
voltarsi e comincia a salire la scalinata sotto il sole cocente
strascicando i mocassini usurati.
Canicola estiva fuori stagione: manca il respiro e il
giovane ansima, senza abitudine a sforzi fisici.
Incespica su un gradino e sbatte un ginocchio
dolorosamente puntellandosi con un braccio.
Viene sorretto ed aiutato a rialzarsi da un passante che
conosce.
“Grazie, Cirenè.”
Il pacchettino pesa ad ogni gradino sempre di più:
sembra scottare al tatto.
Il caldo e l’erta rendono problematico l’equilibrio.
La salita sembra non finire mai e le colonne antistanti
l’entrata del tempio appaiono ancora distanti.
Da una finestra prospiciente l’immenso slargo con la
scalinata, ad un piano alto di un palazzo severo, un uomo
scruta il passaggio della folla mentre avvita disinvolto un
mirino telescopico ad un fucile di precisione.
Ribarcolla e s’affloscia ancora una volta, l’efebo in
canotta mimetica, davanti ad una signora accaldata che
trasale d’apprensione per una possibile rovinosa caduta.
La donna l’aiuta a rialzarsi, materna, e gli asciuga il
viso con un fazzoletto di carta.
Sal la guarda con riconoscenza e cerca di continuare il
suo percorso.
342
Si ferma improvvisamente per un attimo ed estrae da
una tasca dei pantaloni un cellulare.
Guarda in basso verso il lontano gruppo in nero che lo
sorveglia ed effettua una chiamata.
Parla concitato.
“Perché io, pà?
Sono stanco ed ho paura…”
L’uomo del palazzo di fronte, con il fucile ormai poggiato
su un treppiede, dalla finestra, nota la sosta del giovane e
sogghigna amaro scuotendo il capo.
Sal, stravolto, continua a dirigersi verso la cima, rigato
in volto dal sudore, nell’indifferenza di chi sale e di chi
scende, scrutato in basso dai lupi neri e in alto dal killer.
Altri quattro o cinque scalini bollenti.
Eco di uno schiocco secco nell’aria, e un nugolo di
piccioni spaventati s’alza in volo da un cornicione.
Stramazza, Sal, detto Nazarè, colpito al costato,
sbilenco sulla scalinata, con lo sguardo sbarrato e le
braccia aperte a croce come le ali spiegate di un altro
piccione che vuole volare via.
Il pacchettino che stringeva tra le mani rotola giù senza
che alcuno lo voglia raccogliere.
Si rannuvola il tempo, ora, e s’alza un vento capriccioso
a creare piccoli vortici di cartacce e foglie secche.
Lassù, all’ombra delle gigantesche colonne, in una luce
adesso grigia, qualcuno ignaro sta chiudendo le porte del
tempio.
343
UNA SOLA ZANZARA
Il corridoio era interminabile e angusto, semibuio di
piombo.
Aveva porticine di ferro brunito numerate, a destra e a
sinistra, e intervallate regolarmente, come un angosciante
albergo da incubo.
Risuonavano passi cadenzati sull’umido pavimento
d’ardesia, di lui e del secondino che lo precedeva con un
sinistro sferragliare di chiavistelli.
Era, costui, una figura scheletrica altissima, macilenta,
che si voltava indietro di tanto in tanto per controllare di
essere seguito, pur senza alcuna preoccupazione che lui
potesse fuggire.
Aveva un volto patibolare, grigio e scavato, con un
ghigno beffardo pensieroso.
Si arrestò davanti ad una porta e l’aprì.
Con un solenne gesto del braccio gli fece cenno
d’entrare.
Annunciò grave:
“Qui dentro sconterai i tuoi peccati.”
Gli richiuse la porta alle spalle con un lancinante
cigolio.
Lui udì al di là il grattare della chiave nella serratura e i
passi allontanarsi.
Poi solamente silenzio pesante.
Si volse intorno ad esaminare il luogo.
La cella era un cubicolo senza finestre, due metri per
due per altri due metri e mezzo d’altezza, con una lampada
pallida incastrata nel soffitto e protetta da una ghiera con
un vetro antisfondamento.
Notò una particolarità curiosa, esaminando la porta:
bordi gommati a combaciare strettamente con gli stipiti.
La serratura non lasciava filtrare luce da fuori: era
schermata da un piccolissimo pannello aderente esterno.
Una minuscola presa d’aria al soffitto permetteva il
ricambio dell’aria senza riuscire, però, a cancellare un tanfo
di muffa e chiuso.
344
Era circondato da pareti bianche, immacolate, a dare
risalto ad un pavimento d’ardesia grigio come quello del
corridoio senza fine.
Nessun tipo d’arredamento.
Non esisteva un letto, un comodino, un armadietto, un
bugliolo per inevitabili bisogni fisiologici: solo quattro pareti
schiarite crudamente da una lampadina incastrata al
soffitto, e una sagoma di porta di ferro gommata ai bordi.
Si sentì sotto vuoto, isolato, e fu preso dal panico.
Subentrò poi a fatica una tiepida rassegnazione e
qualche abbozzo di progetto, per puro istinto di
conservazione, per sopravvivere alla noia del nulla.
Si lasciò andare a ricordi e a pensieri senza ordini logici.
Fu distratto dallo scorgere una zanzara in alto sulla
parete di fronte: risaltava nitidamente sul bianco
dell’intonaco.
Accadde in un attimo: un gesto di ribellione, di
reazione, d’attestazione d’essere ancora vivo e decisionale,
nonostante tutto.
Smanacciò la parete all’improvviso a schiacciare
l’insetto.
Risuonò nel loculo il rumore dello schiaffo dato a mano
aperta sul muro.
La ritirò subito, sorpreso, come se si fosse scottato.
Dalla macchiolina nera sul muro fuoriuscì un getto di
sangue abbondante, illogico e innaturale.
Gli schizzò sulla mano.
Rimase
stupito
a
contemplare
il
fenomeno,
indietreggiando di un passo, chiedendosi perplesso che
stesse accadendo.
Il flusso, quasi uno spillare di vino novello vivace e
luccicante, non accennava a diminuire, anzi, sembrava
aumentare d’intensità, ed un mormorio di scroscio regolare
sul pavimento, come di rubinetto aperto, riempì il silenzio
del piccolo locale.
Rimase come un allocco a guardare spruzzi di rimbalzo
spargersi a raggiera sulla pietra grigia.
Pensò ad una tubatura dell’acqua, rugginosa,
sottotraccia a pelo della parete, ma lo zampillo era rubino,
345
luminosamente chiaro, e la cella cominciò ad essere
pervasa da un odore disgustoso e penetrante, tipico di un
mattatoio.
Quello era inequivocabilmente sangue.
Ebbe una reazione isterica: urlò ed urlò fino a rimanere
senza fiato, rauco a strozzarsi, arretrando contro la parete
opposta.
Di fronte, dove prima era una minuscola zanzara nera,
una fonte sgorgava dal muro allagando la cella, ormai
torrenziale, e maculando di schizzi scarlatti le pareti e le
sue gambe.
Si volse intorno per cercare qualcosa a tamponare
quella fuoriuscita devastante.
Nulla.
Rimase immobile, ipnotizzato dall’emorragia, fissando il
muro e la cascatella purpurea brillante, fluida e insieme
densa.
Fu pervaso dall’inquietudine, dopo qualche tempo,
quando percepì una sensazione di fradicio colloso all’altezza
del polpaccio.
Realizzò con orrore che la cella si stava allagando, che
non riusciva più a distinguere il pavimento e che,
soprattutto, il flusso non accennava a fermarsi e il livello
del sangue tumultuosamente continuava a salire.
Aveva l’impressione di essere in una vasca o in un tino
pieno di mosto ribollente in fermentazione.
Sbirciò angosciato la porta, la serratura, la presa d’aria
sopra di lui.
Si sentì di colpo in trappola: la consapevolezza della
morte del sorcio, con o senza spiegazioni razionali.
Bussò freneticamente sul muro, sui muri, per dare un
segnale di vita all’esterno, per richiamare l’attenzione, e
gridò per ricevere un aiuto.
Nessun accenno di vita da fuori, e nella cella risuonava
il rombo di una vivace rapida sempre più violenta e
abbondante.
La mostruosa marea era ormai alla vita, fredda,
anomala, stordente di un lezzo di morte.
346
Cercò di chiudere con le mani il punto da cui
fuoriusciva, premendo isterico e febbrile, senza ragionare.
Ne ricavò un aumento del getto, a catinelle, che lo
inondò in volto.
Tossì e sputò qualcosa di dolciastro nauseabondo.
Il livello, nel frattempo, aumentava e si ritrovò ad
annaspare prigioniero di una massa liquida appena
vischiosa che lo attanagliava al petto.
Gridò ancora a squarciagola ripetutamente, sempre
meno convinto, sempre più sconfortato, e cercò di
rimuovere la piccola griglia del bocchettone dell’aria sul
soffitto, saltellando per come poteva, scivolando sul
pavimento viscido, frenato come se ci fossero state alghe a
circondargli e trattenergli le gambe.
Si ferì dolorosamente le mani, ma la griglia rimase fissa
e solida.
Nel frattempo cominciò ad essere lambito alle spalle da
onde in un raccapricciante spumeggiare di bollicine mosse.
Cominciò a piangere in singhiozzi convulsi e chiamò
ancora disperato il secondino.
Riecheggiò la profezia del suo accompagnatore:
“Qui dentro sconterai i tuoi peccati.”
Cominciò ad annaspare con il sangue alla gola, e saltò
ancora più volte, frenetico, strappandosi le unghie alla
ricerca di un appiglio agli stipiti della porta nella cella.
Poi fu il nero, inevitabile, con una sensazione sgradevole
di galleggiamento, di nausea, di soffocamento.
Reagì con un’estrema apnea, poi subì l’invasione
lacerante dei bronchi e perse conoscenza in un’implosione
crudele.
Il nulla...
Ebbe un’inquietante sensazione inspiegabile di dejà vu,
ma senza riuscire a disciplinarla in ricordi specifici e nitidi:
solo impressioni impalpabili prive del supporto della
memoria.
Percorse, oppresso nel petto e d’umore tetro, nella
convinzione di una prima volta, un corridoio infinito e buio
347
che riecheggiava dei passi pesanti di lui e di un secondino,
stranamente familiare senza motivo.
Lui si chiedeva del perché ghignasse malignamente: non
poteva saperlo.
Il secondino lo precedeva tranquillo e sicuro scandendo
mentalmente, per un’ennesima volta, numeri per un rituale
d’espiazione.
Sorrideva disincantato e implacabile, talvolta volgendosi
all’indietro quasi distratto a controllare se era seguito,
immerso in suoi complicati calcoli interiori che prevedevano
sottrazioni di milioni d’annegamenti ad altri infiniti milioni
di scorte a peccatori presso una celletta spoglia con una
sola zanzara straordinaria, sempre viva e poi schiacciata,
pressoché eterna nel suo rigenerarsi per una volta ancora.
Dopo…
Una zanzara per scontare peccati.
348
SCENOGRAFIA PER UNA FESTA DI COMPLEANNO
L’inquadratura è dall’alto, in grandangolo, ad
abbracciare
l’intera
stanza
nera
con
particolari
ambiguamente distinguibili.
Fotografia seppiata tendente al giallo.
Camera sopra le pale di un ventilatore da soffitto, che
girano lentissime impallando ad intervalli regolari
volutamente la ripresa.
Sonoro d’aria mossa.
Si apre una porta e una lama di luce trafigge il buio
della stanza.
Una vecchia negra, grassa, vestita con un ampio
gonnellone a colori sgargianti e con un fazzoletto annodato
sul capo, entra silenziosamente nella penombra con un
secchio d’argilla violacea.
Veloce cambio d’inquadratura sul volto in primo piano.
Ha una smorfia di disgusto che ricaccia indietro
nell’iniziale quieta naturalezza.
Le pale del ventilatore al soffitto non riescono a
disperdere un lezzo di morte e putrefazione.
Camera a girare lentamente nell’ambiente indugiando
in particolari.
Sopra una branda, su un materasso sporco e cimicioso,
giace composta una giovane africana nuda, cadavere in
incipiente stato di decomposizione, con la bocca e gli occhi
socchiusi.
E’ stata una bella donna: slanciata e proporzionata.
Ora è un corpo che comincia a cedere ai segni della
putredine.
Cambio inquadratura con la camera a livello del
comodino, orizzontale, a riprendere la vecchia che depone il
secchio a terra.
La ‘maman’ scioglie, da una bustina di carta, una
polverina che sembra cenere in un mezzo bicchiere d’acqua
sul comodino accanto al letto e la rimescola con un dito che
ha un’unghia esageratamente lunga, smaltata di verde
smeraldo, rilucente nell’ombra.
349
Si allarga il campo di ripresa sulla gestualità della
vecchia.
Costei bagna delicatamente le rigide labbra screpolate
della ragazza e le fa filtrare il liquido con pazienza nella
bocca immobile.
Le cosparge, poi, d’argilla il corpo ulcerato e corrotto,
salmodiando una nenia inintelligibile a bassa voce.
Le massaggia, infine, le tempie con i polpastrelli,
parlandole dolcemente, materna:
“Oggi sia la tua festa…”
Inquadratura di primo piano sul volto del cadavere.
Gli occhi della morta si spalancano per pochi istanti con
una sinapsi di sinistro bagliore fluorescente.
Si spengono, poi, nella solita indifferenza insensibile di
sempre.
La scena si dissolve in nero con il rumore del ventilatore
in eco a scemare.
Inquadratura fissa dall’interno di un’automobile, in
soggettiva, a riprendere un finestrino appena abbassato.
Fotografia in blu nitido con illuminazione fredda esterna
di neon.
Voce fuori campo impersonale.
“Quanto?”
Si stampano cinque dita nere sul finestrino dell’auto.
Tonfo sordo sul vetro.
Dissolvenza nel silenzio dal blu al nero.
Inquadratura lenta e particolareggiata, molto precisa e
nitida: la camera si muove con regolarità esasperante,
senza mai fermarsi, verso un punto indefinito in avanti su
sfondo nero.
La fotografia è sul blu con giochi cromatici tra le diverse
fonti d’illuminazione.
La luna piena rischiara un vicolo cieco fondendo la sua
luce lattiginosa con quella gialla dei fari di un’automobile
abbandonata con gli sportelli spalancati.
350
Luccicano vicini alla vettura, a terra, un paio d’occhiali
da miope, con una lente incrinata e una stanghetta
deformata come per un violento strappo.
Bitume grigio piombo.
Di sfuggita un muro sbreccato che costeggia la
stradina, istoriato di scritte e graffiti d’arte metropolitana.
Un cellulare trilla monotono invano sull’asfalto poco più
là, lampeggiando in sincrono con la suoneria.
Poi un braccio: staccato e solo, innaturale, con brandelli
di maglietta, in una stria di sangue che s’allunga oltre verso
il fondo della via nel nero.
Di seguito sono ripresi ancora una scarpa slacciata ed
ancora dopo brani di stoffa.
Non si riesce a distinguere con certezza se questi ultimi
sono ciò che rimane di un paio di pantaloni: sono chiazzati
di sangue.
La fotografia cambia impercettibilmente virando dal blu
al rosso nel procedere della camera verso il fondo della
scena rappresentato da un muro scuro che appare
progressivamente di un inquietante colore ruggine a
dissolversi nel nero.
Seduta in fondo, appoggiata al muro, scomposta in
terra come una bambola, una giovane negra sta
addentando vorace un cuore.
La camera fa uno zoom lentissimo ad avvicinare in
primo piano la donna e i particolari circostanti.
Un uomo è inerte tra le sue gambe aperte in una pozza
di sangue: ha un’espressione stupita con occhi sbarrati di
vetro.
Il corpo seminudo è coperto di morsi ed ha il torace
squarciato.
Un rumore di masticazione e di strappo di tessuti
rompe il silenzio della notte.
La camera allunga il campo molto lentamente, mentre il
rumore è amplificato in eco con un sovrapporsi di battito di
cuore che rimane poi solo a diradarsi, esaltato in frequenze
basse, in dissolvenza fotografica dal rosso al nero per
ritornare di nuovo ad un rosso sangue uniforme e acceso.
351
Sopra il sottofondo ad esaurimento, una voce calda e
naturale, fuori campo, recita:
“Una puttana festeggia il suo compleanno perfino se è
una schiava negra e zombie.
Deve solamente appartenere ad un padrone buono,
giusto e comprensivo, come la ‘maman’con il secchio
d’argilla…”
La voce, dopo qualche attimo di silenzio esitante,
esplode in una risata irrefrenabile, diabolica, pastosa, che è
amplificata al massimo in dissolvenza fotografica da rosso a
nero.
Questa non è una novità: è un effetto come quello del
videoclip “Thriller” di Joe Dante, con Michael Jackson,
sempre, tuttavia, efficace e disorientante.
Il nuovo è nel calare progressivamente di volume, senza
arrivare alla soglia del silenzio, in sovrapposizione ad un
coro infantile di bimbi in crescendo che canta festosamente
“Happy birthday”.
Chiusura della scena ad imitazione dello spegnimento
di un televisore: linea brillante bianca, molto intensa,
orizzontale a mezzo schermo, che diviene un punto
accecante a centro inquadratura che sfuma nel nulla.
Leggero sfrigolio.
Poi il nero assoluto con il silenzio.
E, forse, una nuova diffidenza per le puttane…
352
IL POZZO
Si sporse troppo e un senso di vertigine gli fece perdere
l’equilibrio.
Cadde giù nel pozzo con un urlo lacerante amplificato
dall’eco.
Fu un tuffo interminabile e doloroso, con urti abrasivi
lungo le pareti disseminate di pietre aguzze.
Sprofondò nell’acqua nera con un tonfo pieno e quei
momenti d’apnea, nel mentre che risaliva in superficie,
indolenzito, gli parvero senza fine.
Gli bruciavano gli occhi e la pelle, ed avvertiva un
curioso odore d’acido con una spiacevole sensazione di
corrosione.
Guardò in cima all’imboccatura del pozzo, alla luce,
strizzando gli occhi, ed evidenziò qualche sporgenza nel
cunicolo: decise di issarsi su prudentemente.
Non fece caso ad un luccicare nerastro e bruno lungo il
condotto del pozzo.
Quando appoggiò una mano su una parete, per saggiare
la presa, ebbe una puntura lancinante che lo riprecipitò in
acqua.
Scolopendre: lucidi neri centopiedi velenosi, urticanti e
viscidi.
La mano gonfiò subito tambureggiando fitte sorde che
traforavano il cervello.
Urlò isterico in incipiente panico.
Ebbe poi un’altra inquietante impressione: che le pareti
del pozzo si muovessero.
Razionalizzò il fenomeno come un’illusione ottica dovuta
alle migliaia di chilopodi brulicanti lungo il tunnel.
Si ricredette presto.
L’acqua acida aveva strani riflussi che cercavano di
tirarlo a fondo e il cono di luce in cima a volte sembrava
scomparire come per un restringimento delle pareti
anguste.
Gli venne in mente una parola: peristalsi.
Impazzì di paura invocando aiuto, tenendosi a galla con
movimenti scomposti e frenetici.
353
Il pozzo, in effetti, vivo, deglutì ancora una volta tirando
giù nell’acqua centinaia di vermi.
L’uomo non poteva sapere che la sua carne, ora frollata
dalla paura, risultava più tenera e appetitosa.
Fu risucchiato in fondo nell’acqua ribollente,
terrorizzato, carico d’adrenalina, e perse conoscenza in una
morte ambigua: forse annegato, forse divorato, forse ancora
direttamente digerito da un pozzo vivo e famelico.
354
IO NON FESTEGGIO HALLOWEEN
Sono trascorsi sei anni, ma ricordo ancora.
Fu davvero straziante ciò che si presentò alla vista dei
soccorritori dopo l’incendio.
La vecchia “Derek’s Coffins”, la fabbrica delle bare che
serviva tutta la Contea, bruciò violentemente in pochissime
ore senza dare la possibilità d’intervenire ad alcuna
squadra di vigili del fuoco.
Dentro era pieno di segatura e trucioli sparsi.
L’ambiente era da sempre disordinato, con le bare
ammonticchiate, le une sulle altre, vicino alle cataste di assi
da lavorare con la sega circolare e con la pialla elettrica.
Il buon Booth, lo Sceriffo, aveva spesso rimproverato il
signor Derek affinché provvedesse ad una maggiore pulizia
dell’ambiente e ad un maggiore ordine.
Per la sicurezza, diceva.
Riceveva degli assensi cortesi, ma infastiditi, e i due
ragazzi alle prese con la sega e la piallatrice continuavano
imperterriti a fumare le loro sigarette fatte a mano davanti
al loro principale che masticava, peraltro, il suo immenso
sigaro cubano.
L’incendio rimosse ogni rimandare incenerendo tutto
come stoppia.
Il bancone di lavoro fu ritrovato carbonizzato, rovesciato
con tutti gli utensili sparsi intorno, abbrustoliti, nerastri o
lucidi di fiamma.
Il coroner esaminò i corpi dei due ragazzi e del signor
Derek.
Avevano cercato di fuggire tra le fiamme e il fumo denso
che li accecava, ma non avevano fatto in tempo.
Non fu dato di sapere più alcun particolare: il medico
legale fece una faccia scura e sibillina e si abbottonò per
sempre sull’argomento.
Patirono di sicuro una morte orribile, ma forse anche
misericordiosa, nel morso atroce del fuoco, ma anche in un
soffocamento velocissimo per il fumo acre e spesso.
Nessuno ebbe modo di osservare i tre cadaveri.
355
Dopo poco tempo non se ne parlò più, per pudore ed
orrore.
Neanche quando otto mesi dopo, all’ultima sera
d’ottobre, ad Halloween, morì lo Sceriffo nel rogo della sua
casa.
Il suo corpo non fu mai più ritrovato e l’evento terribile
fu attribuito ad un corto circuito che aveva avuto buon
gioco sulla vecchia casa di legno.
Io, invece, m’insospettii per qualcosa che sentii dire in
giro.
Si vociferava di tre bambini che giravano per le case,
intabarrati fino ai piedi da brandelli scuri bruciati.
La vecchia signora Higgins affermò che dalla finestra
aveva visto che indossavano delle maschere scurissime,
quasi nere, davvero spaventose, e che camminavano con
un’andatura strana ballonzolante, anche se non poteva
scorgere i loro piedi coperti da quegli orribili stracci.
S’affacciò dopo il loro passaggio e percepì un disgustoso
odore di carne bruciata.
Da allora in poi, ogni anno, la sera di Halloween, una
casa del paese brucia sempre inspiegabilmente insieme ai
grandi fuochi della festa e non si riesce a recuperare la o le
vittime del rogo.
Qualcuno dice di avere scorto gironzolare tre ragazzini
mascherati, tutti in nero, che gridano contro le case
illuminate il loro classico “Dolcetto o scherzetto” con
innaturali voci cavernose…
E’ per questo motivo che in prossimità di ogni
Halloween, dalla morte di sei anni fa dello Sceriffo Booth,
diffidente come sono e con la mia sensibilità molto ricettiva,
parto verso la fine di ottobre e ritorno dopo la festa dei
morti.
Quei tre bambini mi puzzano tanto di spiriti adulti
affamati e vendicativi, morti bruciati vivi in un denso fumo
nero, con le gambe tranciate da una sega circolare
impazzita di una fabbrica di bare andata a fuoco molto
tempo fa…
356
NON DI SOLO FRASSINO…
Patzholu, il vampiro con nome di demone assiro, aprì gli
occhi iniettati di sangue al morire del giorno.
Era compostamente adagiato in una sobria bara di
legno incatramato deposta all’interno di una grotta
riadattata a stalla.
Assi di legno tarlato coprivano l’imboccatura
dell’accesso in una parete con una porticina.
Il vampiro si levò dal suo sarcofago e si scrollò la
polvere dal suo caffettano scuro.
S’avvicinò cautamente ad una feritoia tra due assi per
contemplare l’avvenuto calare della sera.
Vide le luci fievoli del paese poco lontano e cullò voraci
pensieri passandosi meccanicamente la lingua sulle labbra
riarse.
Si sarebbe presto saziato di sangue caldo per
allontanare il freddo dicembrino che merlettava sulle ossa
con
continue
fitte
sotto
il
tabarro
appoggiato
negligentemente sulla veste.
Udì uno scalpiccio di passi e zoccoli e s’appiattì contro
una parete, seminascosto da una greppia.
Accarezzò l’unica mucca per tenerla tranquilla.
La porta si spalancò con una spallata data dall’esterno,
e una voce ruppe il buio:
“Vieni, donna: questo è un riparo.
Non è un granché, ma c’è tepore, una mucca da
mungere, e del fieno per riscaldarsi.
Scendi dall’asino e non affaticarti oltre: non vorrei che
ne patisse il bimbo”.
La donna s’affacciò e si guardò intorno.
Poi sorrise stanca e si adagiò sopra un mucchio di
paglia tenendosi la pancia enorme prossima al parto.
“Credo che sia l’ora, uomo… Sta spingendo: è
irrequieto”.
Lui legò l’asino e si volse apprensivo.
Poi trasalì per un rumore proveniente da dietro la
greppia.
“Chi c’è? C’è qualcuno?”
357
Emerse dall’oscurità Pathzolu, col suo caffettano scuro,
avvolto nel mantello nero, con sguardo severo e di rapina.
Si presentò altero con voce possente di bassi toni.
“Che cosa fate qui?
Siete entrati senza permesso e vi siete accomodati come
se foste a casa vostra…”
Si genuflesse, in segno di rispetto, l’uomo, con voce
contrita, e rispose battendosi il petto:
“Perdonate, mio signore: la notte è fredda e la mia
donna sta per sgravarsi.
Abbiamo pensato che la stalla fosse deserta e
abbandonata.
Non abbiamo veduto luci e non abbiamo udito rumori di
vita dall’esterno.
Faccio appello al tuo senso d’ospitalità per permettere
alla mia donna di dare alla luce mio figlio.
Ti prego, mio signore, acconsenti affinché si possa
trascorrere la notte presso di te al coperto…”
Il vampiro occhieggiò sopra la spalla dell’uomo ad
esaminare la donna cristallizzata in una smorfia di dolore.
Ebbe la mente attraversata da molti pensieri.
Ricordò vaghi sapori di tempo immemorabile, del
sangue di donne gravide e di bambini appena nati per la
sola funzione d’essere di nutrimento a creature della notte
come lui.
Scacciò immagini d’avidità golosa e la sensazione
inebriante del potere sulla vita e sulla morte con un senso
d’inspiegabile inquietudine, sopraffatto anche da un fetido
lezzo d’aglio che si sprigionava dalla figura inginocchiata.
“Levati in piedi, uomo, e tranquillizzati.
La mia nobiltà d’animo m’impedisce d’essere tracotante
e privo di sensibilità nei vostri confronti.
Trascorrerete qui la notte, nel tepore contro il freddo.
Abbi solamente la buona creanza di depositare fuori di
qui la tua resta d’aglio sotto il mantello.
E’ un odore odioso che m’ammorba…”
L’uomo si levò con un sorriso di gratitudine:
“Non ho reste d’aglio, mio signore.
358
L’odore che percepisci è dato dal mio mantello che tante
reste ha avvolto ultimamente, e probabilmente dal mio alito:
solo di pane azzimo ed agli ci siamo nutriti in questi lunghi
giorni di peregrinare”.
La creatura notturna storse il naso, infastidita,
pensando che non avrebbe potuto chiedere all’uomo di
posare fuori il mantello: faceva davvero freddo in quella
sera.
La donna, nel frattempo, gemeva sommessamente, per
le prime serie doglie.
Pathzolu valutò prossimo il parto e fu ripercorso da
strani cattivi pensieri ingordi che cercò di dominare.
Si passò la lingua sui canini frementi in brividi di
trattenuto piacere e fissò, curioso, la donna che stava
distendendosi sulla paglia premendo le mani sul grembo in
smorfie di dolore.
Qualcosa di misterioso, intimamente, cancellò ogni
pensiero: ridivenne il padrone di casa.
“Presto, uomo, corri a prendere quella brocca piena
d’acqua.
La tua donna è prossima al parto: dobbiamo aiutarla.
Accenderò una fiaccola affinché si possa vedere e
prestare aiuto”.
Staccò una torcia dal muro e si girò di spalle verso la
parete, mentre l’uomo prendeva la brocca e la donna non
guardava.
L’accese con uno sguardo di brace e la fissò a tre sbarre
poste a cono sulla parete, dalla parte della partoriente, a
rischiarare la stalla.
La donna ebbe un fremito d’inquietudine, nel vedere un
volto esangue, di pergamena giallastra, malevolo o quanto
meno serio e minaccioso, ma fu sopraffatta da ultime fitte
dolorose al ventre.
Il suo uomo, nel frattempo, s’avvicinò con la brocca e
panni di lino sottratti dal magro bagaglio sulla groppa
dell’asino.
Trasalì anche lui, apprensivo, nel vedere alla luce la
figura imponente presso di loro.
359
Metteva soggezione, in effetti, Pathzolu, col caffettano
scuro, altissimo, magro, avvolto in un tabarro spesso, nero,
con uno sguardo febbricitante d’occhi arrossati e una pelle
d’avorio che sembrava morta.
La donna gemette ancora, più forte, e cominciò a
respirare con affanno, premendo il ventre e spingendolo, in
sudore copioso per lo sforzo.
Il suo uomo s’inginocchiò presso di lei e le tenne la
mano tra le sue. Poi le asciugò il bel volto distorto dalla
sofferenza con uno dei panni di lino.
Il vampiro non ebbe più tentazioni, in quel momento,
cui pensare.
Si chinò sulla donna e cercò di aiutarla nel parto.
“Ecco, ecco: ci siamo quasi…spingi, donna, che sta
uscendo ed ha voglia di vivere…
Forza, donna, ci siamo quasi: un ultimo sforzo…”
La donna lanciò un ultimo grido liberatorio che scivolò
nella stalla come il suo sudore ad annunciare nuova vita.
Il suo uomo s’affrettò a farle sentire la sua presenza
stringendole la mano e Pathzolu tirò verso di sé con
delicatezza il corpicino del bimbo che stava nascendo.
Si meravigliò, il vampiro, di una strana luce aleggiante
nella stalla, ora, proveniente dalla coppia e soprattutto dal
bambino coperto di sangue e placenta.
Si lasciò togliere di mano il bimbo, senza reazioni, dal
padre, che recise rapidamente il cordone ombelicale e che
diede una piccola pacca sulle terga del neonato.
Il piccolo urlò a squarciagola di vitalità.
La donna sorrise esausta e disse al marito:
“Lascialo in braccio al nostro benevolo signore, affinché
lo scaldi con il suo pesante mantello…”
L’uomo offrì il piccolo al vampiro che lo afferrò
meccanicamente per avvolgerlo tra le pieghe del suo
tabarro.
Il neonato emanava un’innaturale luce che cominciò a
diventare sempre più intensa.
Pathzolu ne fu abbagliato e provò un senso di malessere
crescente, di calore cocente, frastornato dai suoi soliti
360
cattivi pensieri, stordito dal fetore dell’aglio, inquieto per i
sorprendenti sviluppi che la vicenda stava prendendo.
La luce divenne sempre più forte e la creatura della
notte cominciò ad avere paura nel provare un dolore
lancinante che recideva nervi e arterie e muscoli, morti e
non morti che fossero.
Sensazione di dissoluzione in assenza di sangue.
Depose con un senso di sfinimento il bimbo sul ventre
della madre e si schermò gli occhi a ripararsi dalla luce
abbacinante.
La coppia assisteva attonita all’evento senza darsi
spiegazioni.
Il bimbo osservava il vampiro, tranquillo.
Pathzolu si sentì sciogliere dentro, privo d’energia, e
presentì rassegnato la sua fine.
Contraccambiò dolorosamente lo sguardo del neonato e
poi fissò la coppia con dignità a mascherare un indicibile
dolore intimo d’autodistruzione e disfacimento.
Riuscì soltanto a mormorare poche parole d’augurio alla
coppia con voce rotta di sofferenza in un soffio fuggente.
Cadde nella paglia senza un gemito, decomponendosi in
polvere fina che si confuse col terriccio della stalla.
Così morì Pathzolu, il vampiro col nome di un demone
assiro, terrore della Galilea, la notte del venticinque
dicembre, presso una stalla di Betlemme.
Non morì tradizionalmente per un paletto di frassino nel
cuore…
361
RIFLESSI E RICORDI
Mi è servito molto praticare judo, qualche anno fa…
Ha sviluppato la prontezza dei miei riflessi, fisici e
mentali: lo sa che ero un fenomeno al flipper?
Facevo scommesse con i miei compagni di scuola e
integravo la paghetta settimanale di mio padre adottivo.
Mi è stato utile più volte in diverse occasioni: per evitare
qualche automobilista distratto o folle, per mantenere
l’equilibrio, fisico in posti traballanti, o psichico in
situazioni che normalmente richiedono autocontrollo.
E mi è stato utile anche ieri: per autodifesa.
Il tizio già non mi piaceva da lontano.
Beccheggiava come un peschereccio con mare a forza
sette, con uno sguardo vacuo ed un aspetto trasandato.
Sembrava che fosse il cane a portarlo a spasso e non il
contrario.
L’animale era uno splendido esemplare di pitbull,
pezzato bianco e nero, elastico e muscoloso, dallo sguardo
dolce e intelligente.
Ne parlano male, di questa razza, ma io sono convinto
che sia una questione di padroni: sono loro che forgiano il
carattere di queste bestie che, per natura, lo dicono anche
gli etologi, sono tranquille e affettuose.
Il padrone, invece, offriva un’aria da sudicio, con i
capelli lunghi e stopposi da spremuta di frantoio, con la
barba di qualche giorno, una giacca a vento militare
stazzonata piena di macchie, jeans sdruciti e scarpe da
ginnastica del color grigio umanità indifferente.
E puzzava come una capra.
Mi venne da ridere al pensiero di una capra che portava
a spasso un cane.
Me lo vidi venire incontro: il cane tirava da ossesso
ansando come un mantice, con la lingua penzoloni e un filo
di bava.
Mi soffermai con un sorriso: dedicato solo al cane, mi
creda.
Il tizio mi squadrò malevolo e mi disse, proprio così,
come glielo riporto adesso:
362
“Cazzo hai da guardare?”
Cercai d’essere conciliante.
Non amo attaccare briga: non si sa mai come può
andare a finire.
Gli risposi sorridendo che mi piaceva il cane e che era
una bella bestia.
Mi urlò di farmi gli affari miei, non disse proprio così, e
si chinò verso l’animale, mentre la sua voce saliva di tono,
senza motivo, sono sincero, e cominciò ad insolentirmi fino
ad insultarmi.
Rimasi senza parole, interdetto, pensando che l’uomo
dovesse avere dei problemi.
Lui, nel frattempo, aveva sciolto il pitbull, gridando
ancora verso di me, incitandolo con delle pacche rudi sulla
testa e indicandomi.
Il cane, lo notai subito, cambiò espressione e fu
sollecitato nell’eccitazione.
Vede che tutto combacia con il discorso dell’educazione
che si dovrebbe impartire a questi animali?
Vede che è una questione di padroni e non di bestie?
L’animale cominciò a ringhiare e a fissarmi minaccioso.
Il suo padrone m’indicava e gesticolava gridando frasi
sconnesse.
Lo percosse con il guinzaglio.
Il pitbull scattò verso di me.
E’ qui che entra in gioco la prontezza dei riflessi e la
memoria di qualche anno giovanile di palestra.
Vidi la sagoma dell’animale lanciarsi con un balzo verso
la mia gola.
Mi spostai prontamente di lato con il tronco, con
invidiabile tempismo, e nello stesso momento serrai al volo,
con le mani, il cane alla gola lasciandomi trascinare dal suo
slancio verso terra.
Caddi sopra la bestia, con un colpo di reni in torsione,
senza abbandonare la presa, con una morsa ferrea, e
strinsi.
Premetti ancora sul collo fino a che il cane cominciò ad
essere in debito d’ossigeno.
363
Uggiolò penosamente, ma non avrei certo più potuto, a
questo punto, permettermi di lasciarlo libero.
Il suo sguardo si opacizzò e l’uggiolio divenne un
rantolo che si smorzò in un soffio.
Il cane giacque esanime e io allentai la presa con
prudenza.
Il padrone della bestia cessò progressivamente d’urlare
insulti ed incitamenti come se si fosse scaricata una molla
dentro di lui.
Immaginai che avesse una chiave dietro la schiena,
come un pupazzo meccanico, e che ormai i giri fossero alla
fine.
L’uomo ormai sillabava frasi mozze, sillabe, sconvolto
dalla mia reazione, con uno sguardo perduto verso il suo
cane a terra immobile, e con un’espressione di sorpresa
mista a dolore e a paura.
Penso d’essere apparso terrificante.
Mi sentivo i muscoli del viso tesi e le mascelle
dolorosamente serrate.
Ero, inoltre, dispiaciuto e contrariato per quanto ero
stato costretto a compiere, seppure per difendermi.
L’adrenalina scorreva a fiumi nelle mie vene, ed avevo
un tremore incontrollabile nel cercare di imbrigliare i molti
pensieri che s’affacciavano alla mente.
L’uomo aveva cercato di uccidermi tramite il suo cane.
Era un folle.
Io mi ero difeso.
Era stata una necessità.
E’ solamente questione d’educazione, per tutti, uomini e
animali, e l’ambiente familiare marchia un individuo nei
suoi comportamenti per tutta la vita.
Forse era razzismo, una banale questione razzista.
Non avrei mai creduto che potessero verificarsi ancora
episodi d’intolleranza simile.
Deve credermi: non è piacevole sentirsi apostrofare,
dopo anni di dura integrazione, come ‘sporco negro’.
Mi sono laureato qui in Italia, sono quasi quaranta anni
che vivo qui, mi sento perfettamente integrato nella
364
comunità: ho un lavoro, ho una famiglia…mi sono sposato
con un’italiana…ho dei figli italiani…
Non so, poi, che successe, commissario.
Forse fu quello ‘sporco negro’, gridato più volte con odio
e disprezzo, ad accendermi vecchi ricordi, dimenticati e
sepolti, della mia primissima infanzia nel villaggio natale.
Si accesero consunti nascosti interruttori di confuse
immagini sfocate, d’abitudini della mia famiglia di sangue,
quando forse non ero ancora in grado di comprendere
perché troppo piccolo.
Le ripeto, non so cosa mi accadde.
Squadrai l’uomo che ancora balbettava qualcosa sui
negri, fissando ora me ed ora il suo cane morto, e lo
attaccai per farlo tacere.
Poi non ricordo più nulla, commissario.
Lei mi sta parlando di un uomo divorato da vivo, a
morsi, ferocemente, mentre io ho memoria di una bestia da
cui difendersi, di un nemico da abbattere.
Io ricordo soltanto crudeli epici scontri lontanissimi
dentro una foresta inestricabile, con nemici enormi e
spaventosi, e mi rivedo dietro un masso, terrorizzato,
piccolissimo, tremante per urla disumane…
Stento a crederlo, commissario, ed ho orrore di quanto
mi dice: mi considero una persona mite, controllata, …e da
molto tempo sono vegetariano…
365
VOLONTARIATO
Padre Julio Cardamomo è un anziano gesuita diafano e
asciutto come una pallida tamerice ed il suo volto è
intagliato nelle rughe di una vita intensa a contatto con la
sofferenza e il dolore.
Guarda immobile Basilio che gli rimanda un sorriso
stanco e speranzoso da un letto troppo grande.
Basilio è un vecchio sfatto dagli occhi buoni di bambino
e da tempo immemorabile lavora per la comunità come
volontario: ha fatto di tutto, sempre sereno, con un sorriso
pacioso appena meno stanco di quello di ora.
Padre Cardamomo è il responsabile della struttura, la
Casa, un qualcosa a metà tra un centro d’accoglienza e un
piccolo ospedale per bisognosi, e conosce Basilio fin dagli
inizi.
Lo fissa impenetrabile, agitato da ricordi d’entusiasmi
antichi e da pensieri presenti volti a preoccupazioni future.
Basilio è molto malato e non è dato di sapere per
quanto dovrà giacere nel lettone.
Il gesuita ripercorre nebbiosi sentieri di memoria
perduti tra paesaggi assolati o temporaleschi.
Quaranta anni fa, forse…
“Padre, mi chiamo Basilio.
Sono senza casa e senza famiglia.
Potrei rendermi utile qui dentro presso di lei, se vuole:
mi piace aiutare il prossimo…”
Ricorda un corpo più magro e nervoso e una voce
limpida, e rivede la situazione di quei giorni d’esordio.
Quanto c’era da fare!
Si stava cominciando allora, in assoluto precariato,
sorretti da entusiasmo e incrollabile fede, spinti dall’energia
della
gioventù
ancora
non
contaminata
dalle
incomprensibilità della vita.
Il giovane padre Cardamomo accolse l’imberbe Basilio
presso la comunità e fece un prezioso acquisto per i
successivi quaranta anni.
Basilio aveva inventiva, oltre che entusiasmo, e
possedeva capacità organizzative fuori del comune.
366
L’anziano padre rievoca aneddoti che hanno scandito
momenti
esaltanti
e
deprimenti
nel
plasmare
l’organizzazione umanitaria e nel dare una fisionomia reale
alla Casa.
Basilio è sempre stato in prima linea, combattente alla
baionetta di fronte alla disperazione, alla malattia e alla
morte: il braccio secolare del prete scavato da rughe di
tormento nel dubbio e nell’incertezza di fare bene.
Ed ora è abbandonato sopra un letto grande e attende il
suo destino con un sorriso stanco di speranza riposta nella
mente del diafano giunco che lo fissa senza espressione
come un totem.
Padre Julio Cardamomo è dibattuto tra affetto per il suo
collaboratore di sempre e tra considerazioni pratiche che
pongono la struttura da lui creata al di sopra d’ogni cosa.
Volge le spalle con decisione al vecchio volontario e
versa una bottiglietta di succo di frutta in un bicchiere di
carta.
Versa anche poche gocce d’altro e nell’aria si diffonde
un odore inusuale di mandorle amare.
Offre il bicchiere con un sorriso meccanico al vecchio
Basilio, padre Julio Cardamomo, con occhi liquidi senza
espressione.
Per stasera ci sarà un posto in più per un disperato che
bussa, come tanti, ogni giorno alla Casa ed un letto grande
si renderà utile.
Basilio beve fiducioso con uno sguardo di gratitudine…
367
INTOLLERANTE VECCHIA ZIA
Dopo una certa età, in genere, si comincia ad avere
paura del nuovo nella consapevolezza nebulosa di una
propria fragilità fisica e mentale scandita dal tempo.
Non è stato d’animo di tutti, sia ben chiaro, ma di molti.
Si comincia ad avere nostalgia di tempi andati, meno
elastici rispetto a novità e mode, diffidenti rispetto alla
tecnologia, timorosi rispetto all’intero genere umano che si
pensa che congiuri da Vladivostok a Tenerife contro la
propria persona.
Più avanza l’età e più si acuisce tale modo di sentire.
Mia zia, per esempio, veleggiava per gli ottantanove
anni.
Parlava con Dio come se fosse una voce interiore di
roveto ardente e raccontava ispirata di avere ricevuto il
messaggio che non era ancora la sua ora, benché
affardellata da un reimpianto di protesi femorale e da
un’artrosi galoppante più di Varennes.
Diceva che non aveva paura di morire, ma stava
attentissima alle correnti d’aria, a mangiare poco e a non
stancarsi troppo.
Odiava nell’ordine: i negri, i cingalesi, gli arabi e tutti gli
immigrati extracomunitari, gli ebrei, i comunisti, i preti, i
vicini di casa (ebrei), l’amministratore del condominio (forse
della Margherita), chi le parlava troppo svelto o a voce
troppo bassa, perché era sorda come una campana, gli
spendaccioni e, in generale, tutto il mondo senza distinzioni
tra religione, razza, ceto sociale, quoziente d’intelligenza.
Diceva che eravamo troppi, forte del fatto che la voce
interiore divina le ribadiva sovente che non era ancora la
sua ora, e invocava una guerra totale o una pandemia a
potare rami secchi.
Con queste premesse, il successivo passo di rimpianto
per una giovinezza in orbace fu più breve di quello di una
quaglia.
All’insegna del classico ‘quando c’era lui…’, perfezionò
una cantilena da ripetere a volontà come un disco rotto e
favoleggiò un’età dell’oro senza delitti e senza droga, senza
368
finocchi, senza comunisti, nell’ordine e nella disciplina più
ferrei.
A quell’epoca lei pedalava felice in bicicletta circondata
da uno stuolo di corteggiatori, tutti bravi ragazzi di buona
famiglia, e faceva più sacrifici di Santa Teresa per mettere
soldini da parte, tranquilla, tuttavia, perché poteva girare
da sola senza essere importunata da malintenzionati.
Era migliore l’aria, era migliore l’acqua, i pomodori
avevano un altro gusto e la carne faceva ancora ‘muuu’ nel
piatto.
Funzionava tutto, dai treni ai rifugi antiaerei per i
bombardamenti, e c’era rispetto per gli anziani e per tutti, a
parte gli ebrei e i negri.
Le prime volte che ascoltavo queste rievocazioni da Film
Luce, mi stupivo che Heidi non era stata ancora inventata e
che il mondo potesse essere bello anche senza le caprette
che ti fanno ciao.
Inveiva contro il presente generalizzato sparando a
raffica, per fortuna solo metaforicamente, su tutto il
Parlamento, non risparmiando nessuno, né quello con l’erre
moscia, né quello secco come uno scheletro e alto, né l’altro
traccagnotto e unto dal Signore, di cerone, col riportino dei
capelli tinti a miracolosa crescita annuale.
Gracchiava con voce stridula come una cornacchia,
nelle
sue
invettive,
perché
dimenticava
sempre
l’apparecchio acustico, e copriva le notizie del telegiornale
che ascoltavo già di per sé a volume da concerto metal.
Inoltre
mi
ballonzolava
davanti
allo
schermo
gesticolando mentre commentava le notizie.
Annuivo distrattamente col capo a darle ragione, forte
di conoscere a memoria tutta la solfa replicata da anni, e mi
contorcevo come un capitone per cercare di vedere oltre che
di sentire.
Lei continuava, intollerante e saccente, depositaria del
verbo della giustizia e della saggezza, probabilmente
convinta anche d’essere fatta di spirito di prima qualità,
trasparente come il cristallo.
Si dipanavano quindi proposte di stragi e fucilazioni di
massa, deportazioni nel deserto, affondamenti di traghetti,
369
bombe assortite e menefreghismo totale nei confronti di
qualsiasi tipo di bisognoso, all’insegna del motto ‘ognun per
sé e Dio per quasi tutti’.
Io ascoltavo il telegiornale con un orecchio e mia zia con
l’altro, camaleonte nell’udito, oltre che nello sguardo, con
occhi e orecchie indipendenti.
E mi stranivo, mezzo strabico e mezzo rincoglionito.
La vegliarda era una macchinetta che parlava a
stantuffo e non c’era verso di potere staccare la spina.
La sua intolleranza era irritante come la sua vocetta
sgraziata e piagnucolosa.
Un giorno mi sostituii con decisione al suo roveto
ardente e decretai che era arrivata al capolinea.
La soffocai con un cuscino senza troppa fatica e senza
preoccuparmi di cosa potesse pensare nell’ultimo istante.
Mi caricai al pensiero di essere stato forse, in tempi
precedenti, una delle tante sue vittime designate anche io…
La resistenza fu breve, da vecchina dimessa di
ottantanove anni, disperatamente scalciante e attaccata alla
vita, e la morte fu attribuita successivamente ad un infarto.
E ora, finalmente, in completa tolleranza verso il genere
umano, posso ascoltarmi in santa pace il telegiornale, agli
albori della mezza età, ecumenicamente comprensivo verso
tutto e tutti, con piccoli embrionali odi in incubatrice e una
personale voce interiore di roveto ardente che mi dice, per
ora, che ho quasi sempre ragione…
370
UN VOLARE D’AIRONI E PIPISTRELLI
Sera di periferia urbana.
Chitarra distorta proveniente dal quarto piano in assolo
di “In-a-gadda-da-vida”.
Ritmartello ossessivo e note lancinanti come un barrito
d’elefante atterrito.
Ubriacatura di suoni e tribalità.
Nell’aria lezzo dolciastro di cassonetti.
Tremolio verdineon in insegne tristi.
Voci.
Zaffate di fumo e birra.
Timbri crudeli.
Confabulare.
“E’ buona questa roba?”
“La migliore. Potenziata in laboratorio. Olanda.
Gratis…Sballo straordinario…”
“Dov’è la fregatura?”
“Domani o dopodomani al massimo verrai a leccarmi il
culo per riaverla.
E pagherai anche per oggi.”
“Così cara?”
“Già.”
“Bene, dammi, e che dio ti stramaledica.
Vaffanculo.”
“Vedremo poi chi dirà vaffanculo…”
Fuma/Tira/Punge una vena.
La stanza è in penombra con mattonelle esagonali rosse
e blu che tanfano rancido di latte rappreso.
Intermittenza arancio: l’insegna della pizzeria all’angolo.
Rosso sangue: scorre attraverso le palpebre sconvolte
da venticinque watt di lampadina da comodino.
Respirare convulso.
Sensazioni.
Emozioni.
Sensazioni di spinta centrifuga, di concetti che
insistono contro le pareti del cranio, che premono sui lobi
frontali, che scavano a bucare i timpani dall’interno, che
371
urtano i globi oculari per scalzarli, che intasano le narici e
la gola.
Dolorose.
Epistassi: un rigagnolo di sangue dal naso.
C’è pressione crescente… dentro.
Presenza, presenza: non lasciarsi dominare del tutto.
Immagini, voci: in piedi soldato, non ho tempo di
sanguinare, voglio scendere, lo stiamo perdendo...
Urla distorte in eco di jungla: prede o predatori.
Angoscia per l’ignoto nascosto tra la macchia.
Odori amplificati da parabola nasale di Palomar: sapone
di Marsiglia laggiù nel bagno incrostato di ruggine,
sugopronto alle olive stuccato su tre piatti giurassici
nell’acquaio, odore di calcare, tenue, da una galassia
lontana, polvere…idee rigettate…
Ancora sensazione di violenza sempre più forte da
dentro.
Flash di voliera con uccelli impazziti che sbattono
contro le maglie di una rete indeformabile.
Fotogrammi in avanzamento veloce.
Becchi sanguinanti.
Ali ferite.
Ferite.
Primi piani in fotografia sgranata e colore sbiadito.
Sangue.
Poi deflagrazione.
Silenziosa: ancora più spaventosa…uno scoppiare
muto…
Nero.
Esalazione di polvere di sempre.
“Coprite quello schifo, diosanto!”
“Subito, Commissario.
Ha ragione: mai visto nulla di simile”
Puzza di morte.
L’agente ricopre con un lenzuolo il corpo riverso sul
pavimento, in un mare di sangue, con la testa sbocciata e
aperta a fiore come per un’esplosione interna: uno
372
spettacolo raccapricciante esaltato dalla simmetria fredda e
cromatica di esagonali mattonelle rosse e blu di terraferma.
Esce in preda a conati di vomito.
Il Commissario si muove circospetto, vigile di fronte ad
una scena da incubo mai immaginata, tutta intorno.
Le pareti, la cornice della finestra, i regolini del soffitto,
tutto quanto ad una certa altezza, insomma, è agganciato
da pipistrelli avvolti nelle loro ali, a testa in giù, tremanti
per il freddo o la fame, sconvolti per la luce del lampadario,
unico trofeo non conquistato.
Il Commissario s’avvicina prudente verso la tenda ad
esaminare un pipistrello scuro che pare fissarlo tra le ali
accartocciate con occhi dilatati di lemure.
Odore d’umido e tiepido: orina e grotta sotterranea.
“Da dove sbucano fuori questi?”
Una voce prende forma, forma, sì, nella stanza.
Proviene dal pipistrello.
“Dalla testa.”
“Ma che succede?”
“Dalla testa: eravamo prigionieri e volevamo uscire dalla
gabbia.
Una gabbia troppo piccola, limitante.
Eravamo costretti.
Soffrivamo impotenti.”
“Impossibile. Sto diventando matto…”
“No. E’ solo una favola per adulti.
Siamo idee.
Siamo concetti.
Abbiamo pudore e siamo timidi, ma amiamo la libertà e
l’indipendenza.
Stanotte voleremo via nel buio e troveremo una mente
libera dove nidificare.
Chissà: forse un giorno voleremo alla luce come
aironi…”
Gli infermieri portano via il cadavere senza curarsi
dell’ambiente, in fragranza di lisoformio e lattice
borotalcato.
373
I pipistrelli sono immobili, la luce del lampadario è
spenta e la stanza balugina soltanto della lucina gialla sul
comodino.
Presumere di scorgere pipistrelli è morboso.
L’agente è dabbasso.
Il commissario spalanca la finestra facendo entrare aria
frizzante e aroma di pizza e forno a legna, e chiude dietro di
sé la porta della stanza.
Senza sbattere, …delicatamente.
Idee nella notte screziate d’arancio…
374
OCCHI BLU
“La carrozzina, fuori mano nel centro commerciale,
beccheggiava lievemente e appariva incustodita.
Andai a curiosare.
Un fagottino s’agitava piano farfugliando divertito suoni
senza senso sotto una trapunta, avvolto in una sciarpa che
gli lasciava visibili soltanto gli occhi.
Fui colpito: aveva due occhioni di un blu particolare
profondo come l’oceano, con venature pervinca, innocenti e
curiosi, liquidi e fragili, mobilissimi.
Intravedevo le ciglia aggrottate nel tipico modo di porsi
domande dei bimbi che ancora non sanno parlare.
Avvicinai una mano per carezzarlo.
Una trasformazione improvvisa mi lasciò senza fiato.
Il piccolo emerse dalle spire della sciarpa trasfigurato in
un viso rugoso da demone livido, ghignando giallastro e
malevolo, e m’azzannò la mano staccandomela di netto.
Fui proiettato a terra contro una parete da una forza
nervosa di reazione, troppo sorpreso per provare dolore,
mentre l’essere, seduto dentro la carrozzina con la bocca
rigata di sangue, mi fissava sfidandomi con occhi cobalto
ora gelidi e disumani.
Si spinse fuori della mia vista come un paraplegico
isterico, colle mani adunche, rotolando le ruote
freneticamente, ansando con un brontolio di belva braccata.
Provai ad urlare, ma non riuscii, sentendomi mancare
nella paura e nella sorpresa di quell’incubo.
Svenni…”
Contemplo il moncherino fasciato, maculato di sangue,
che risalta tra le lenzuola, e la flebo che stilla lenta.
Poi guardo il medico, e l’agente che sta prendendo
appunti.
Sono stanco e debole.
Non so chi m’abbia raccolto, come qualcuno si sia
accorto di me esanime senza una mano e con un braccio
zampillante sangue.
375
Ora giaccio in un letto e sto rendendo una deposizione
incredibile su un bimbo mostro con innaturali occhi blu che
mi ha strappato una mano a morsi.
Terribile.
E m’accorgo, solo ora, che il dottore e l’agente hanno
occhi blu, di un blu riuscito a definire solamente una volta,
e che mi guardano con attenzione sollecita e comprensione
esagerata.
Sorridenti.
Ma noto che per un attimo i loro sguardi si sono
incrociati.
E m’è parso di intuire un impercettibile cenno d’intesa...
376
BUCATO CHE PIU’ BIANCO NON SI PUO’
E’ un garrire al vento di lenzuola bianchissime, visto
dalla finestra della caserma dei Carabinieri, nel sole più
accecante.
“Impensabile davvero questa vicenda, vero maresciallo?”
“Già.”
“E poi inimmaginabile la persona…
Ma vai a conoscere il mondo…”
“Vero: la meno sospettabile. E poi per quale movente…”
“La vecchia Filomena: fragile e minuta, baffuta e
sdentata come una vecchia megera.
Se non avesse confessato di sua spontanea volontà, non
l’avremmo beccata mai, forse…”
“Chissà. A volte si arriva alla verità anche per altre vie
che non siano una confessione: esiste la deduzione, il
ragionamento, e parlano anche gli indizi.
Per esempio quel continuo apparente bruciare di
stoppie…”
“Certo però che…”
“Ascolta bene, Quagliarulo: sono convinto che ci
saremmo arrivati lo stesso, prima o poi.
Quando in un paesino spariscono persone con cadenza
ciclica regolare, alla fine la verità è obbligata a venire a
galla.”
“Ha ragione, maresciallo, ma qui, nella considerazione
delle motivazioni che hanno spinto la vecchia Filomena a
fare ciò che ha fatto, la verità sarebbe venuta a galla molto
poi, senza il suo confiteor.
E poi perché?
Per il bucato più bianco, alla faccia di due fustini in
cambio di uno, nel rispetto della tradizione antica, oltre che
nella pazzia più assurda…”
“Quagliarulo: nei paesetti come questo si fa il bucato al
torrente ancora oggi.
E c’è una rivalità accesa tra lavandaie sul candore delle
lenzuola.
E si lava ancora col ranno, con la cenere…”
“Sì, ma…”
377
“Ma le vecchie tradizioni occulte sepolte in polverosi
messali blasfemi, le vecchie ricette e i filtri e le magie, per
alcune vecchie mammane, non muoiono mai e la cenere di
cristiano, è cosa risaputa fin dai tempi delle streghe, rende
il bucato più bianco della neve…”
“Due più due, maresciallo, vero come il sole.
E anche sedici morti accertati, per tacere di altri bucati
che forse non sono stati confessati…”
“Bucati candidi, però, Quagliarulo: come nessuno
mai…”
Le lenzuola di neve, fuori, sembrano assentire, scosse
dal vento.
378
INDIANE SOTTRAZIONI
Aria depurata e luci soffuse rossastre.
Gorgogliare di reazioni chimiche e ronzii di macchinari.
Odore di formaldeide, etere, alcool.
Presenze e voci in penombra: una innaturale.
“Come ti senti, Charan?”
“Bene: ho una sensazione di leggerezza.”
“Dolore? Fastidio?”
“No: sto bene…”
“Ti senti lucido?”
“Sì.”
“Ricordi… Hai ricordi nitidi?”
“Sì…Nitidi…”
“Potresti rievocarli? Ne saresti in grado?”
“Penso di sì…”
“Raccontati
dall’inizio,
allora:
una
sintetica
autobiografia, se vuoi…”
“Sì…dunque…Fatemi sintonizzare…
Ecco, sì.
Mi ricordo interminabili partite a pallone su un terreno
fangoso vicino al fiume, padre Gange, subito fuori Benarès,
con una palla di stracci, in tantissimi, venti o trenta contro
venti o trenta, allegri nell’indigenza, rumorosi e felicemente
sudici nell’essere impiastricciati di fango…
Mi rivedo pieno d’escoriazioni: mai una partita senza
ferite e brandelli di pelle e qualche grammo di carne lasciato
tra brecciolino rado, ma aguzzo, sul campetto in riva al
fiume…
Mi ricordo del piccolo Kishore: di quando andò a
raccogliere il pallone finito tra il canneto del fiume…
Rivivo il balzo della sagoma nera, l’urlo, lo sguazzare
d’acqua limacciosa, lo schizzare del sangue e il rumore di
un frantumarsi d’ossa: maledetto coccodrillo…”
“Cerca di rimanere calmo e di non lasciarti coinvolgere
dalle emozioni…”
“Provo ancora adesso un dolore cocente…”
“Dobbiamo sospendere questo colloquio?”
“No, no: ho desiderio di comunicare.
379
Voi non sapete quanto…”
“Mantieni la calma, allora, o saremo costretti a
smettere…”
“D’accordo.
Vado oltre nel tempo: una scansione naturale…
Anni dopo: esercito, sparatorie, sangue.
Mi ricordo di quando fui inviato con il mio plotone a
fronteggiare una manifestazione nell’immensa piazza del
mercato contro una folla che era la forza della disperazione
e dell’odio.
Toccavo la paura tastandomi litri di sudore rappreso
nella divisa.
I coccodrilli del fiume facevano meno paura di quella
folla affamata per odi e rancori oltre che per fame…”
“Ci rendiamo conto delle emozioni dolorose: vuoi andare
avanti?”
“Sì: ce la faccio.
Qualcuno sparò inciampando sui nervi fragili e fummo
sommersi da mascelle affamate che vollero vendicare fin da
subito piccoli corpi scheletriti senza vita.
Fu buio, doloroso, attorno a me.
Mi svegliai nell’ospedale di Benarès con una sensazione
d’assenza nel dolore più atroce, anche perché mancavano
antidolorifici…
E scoprii quanto può essere difficile rigirarsi lentamente
in un letto senza un braccio e mezza gamba.”
“Sì, possiamo comprendere.
Lo sappiamo: leggi di fisica e medicina.
Continua…”
“Ho in me il marchio di pianti e lacrime salate e
rieducazione sempre più frettolosa e indifferente.
Poi l’emarginazione ingrata, il sostare intere giornate,
interminabili come un rivolo di resina lungo un albero,
accovacciato, presso il mercato, a sorridere mesto, ché è
esercizio difficile per un orgoglioso come sono sempre stato,
e attendere qualche piastra o una rupia di manica larga da
cuori compassionevoli.”
“Sì, ti abbiamo raccolto proprio lì…”
“Infatti mi ricordo di voi e della vostra proposta.
380
Eravate partecipi delle mie disgrazie, complici e solidali
nel comprendere; e sorridevate rassicuranti…
Mi convinse lei, dottore, o lei, dottoressa?
Questo non lo rammento bene, ma credo che possa
essere stata lei, dottoressa, con la sua voce materna e dolce
e la promessa di coperte calde e di un pasto decente sotto
un tetto al riparo dal monsone insistente…
Parlaste difficile vendendomelo come facile e glorioso.
Raccontaste di progresso, d’esperimenti, di nobiltà
d’animo per lo sviluppo dell’umanità, di medicine nuove, di
test, di soldi, e faceste leva sulla mia indigenza e sulle mie
mutilazioni…
Eravate gentili e tutti i giorni v’intrattenevate con me e
m’incoraggiavate, anche se mi lamentavo per dolori
lancinanti.
Voi sorridevate in un fare consolatorio.
Io precipitavo nel buio di un’iniezione abbracciato dai
vostri sorrisi…
Poi mi svegliavo nell’orrore.
Una volta mi destai senza l’ultima mano, poi senza
l’ultimo piede, poi bendato per tutto il torace con
insopportabili formicolii al moncherino della gamba
superstite, gonfio, livido, smaniante.
Mi gonfiai come un otre e avevo difficoltà nel respirare.
E voi mi rincuoravate sorridenti inalberando il vessillo
del progresso.
E’ tutto chiaro e ancora bruciante: come fosse ieri…”
“Ed ora cosa pensi?”
“Penso che sarò costretto ad esservi ancora utile, la
migliore cavia umana che voi abbiate mai avuto…
Ma penso anche che siete d’una crudeltà inaudita e vi
odio, per quello che mi è possibile, intensamente, perché
non potete immaginare quanto io abbia sofferto e quanto
soffro…
E, gonfio da scoppiare, spero d’esplodervi in viso, per
intrufolarmi nelle vostre bocche, nelle vostre narici, nelle
vostre orecchie, e cominciare a corrodervi dall’interno,
contagiandovi del nulla che mi avete infettato…”
381
“Basta ora: stai perdendo il controllo e le tue emozioni ti
danneggiano…
Chiudiamo qui il nostro colloquio.
Lo riprenderemo domani, se e quando ti sarai calmato.
Per ora ti aiuteremo noi con farmaci.
Poi dovrai aiutarti da te e collaborare…”
Il click di un pulsante premuto.
Il cessare d’ogni voce: una è sintetizzata da impulsi
elettrici mediante astrusi e complessi marchingegni da
laboratorio del dottor Moreau.
Pare proprio d’essere lì, in quel laboratorio maledetto,
con i due medici assorti e professionali che annotano con
freddezza dati chimici e spengono lo speciale registratore.
Abbassano poi la luce, i due medici.
Il laboratorio s’immerge in una luce violetta riposante e
sinistra.
E l’abbarbagliare del grande cilindro, colmo di liquido
amniotico e formaldeide, intricato di cavi ed elettrodi, in cui
è imprigionato un cervello pulsante, appare meno vivo e
impressionante, nel laboratorio farmaceutico per le
sperimentazioni su cavie umane di New Delhi.
382
ADESSO SANNO, E SANNO ANCHE ATTENDERE
Non si può fuggire dai propri demoni: ti rincorrono e ti
riprendono sempre, inattesi e sorprendenti, anche quando
sembra che hai finalmente trovato la pace e la serenità
interiore.
E dilaniano peggio di prima.
Ero convinto d’averli seminati, i miei demoni, nascosto
da quattro giorni in una stanzetta sordida di un motel di
frontiera.
Avevo una scorta di lattine di birra, una stecca di
sigarette e qualche genere alimentare per la sopravvivenza
secondaria.
Ascoltavo i rumori del traffico della statale, sdraiato
sopra un letto sfiancato come un’amaca, fumando,
bevendo, con i nervi tesi a captare segnali che solo io potevo
percepire.
La portoricana con l’aspirapolvere, quella del servizio in
camera, con i capelli come uno zerbino di cocco, si teneva
lontana dalla mia stanza, dopo un primo tentativo
d’intrusione castrato con qualche bestemmia cavernosa.
S’era segnata, pia, roteando gli occhi da serva scema di
‘Via col vento’, e da quel momento cominciò a ciabattare nei
pressi della mia porta in punta di piedi come per un saggio
di danza.
Il padrone del motel, un uomo di mondo, già saldato per
due settimane riguardo la camera, sapeva stare al suo
posto, in portineria.
Io ero solo, dunque, e speravo che non mi
riacciuffassero...
Non aiutano, di notte, se si è inquieti, le luci
intermittenti dei neon dell’insegna di un motel: avessi avuto
una pistola, o anche solo una fionda, avrei risolto il
problema in maniera drastica.
Ero, invece, sciabolato da schizzi violetti, poi arancio,
poi ancora verdini, con una pausa nera per lo scoppio di un
neon probabilmente celeste.
383
Una mia verità discutibile: alle due e mezza anche gli
autisti più nottambuli si fermano, in genere, per un
sonnellino.
Assaporavo, quindi, solo fumo e silenzio.
Cigolò all’improvviso un’anta dell’armadio.
Mi dissi, arreso e stanco, che forse il mio scheletro
d’armadio era di nuovo alle mie costole.
Distinsi la sagoma di una donna scarmigliata tra i
lampi colorati dell’insegna di fuori.
Lei.
Aveva un aspetto maggiormente spettrale, in riverberi
d’arancio e verdino, e macchie scure su una pelle disfatta e
diafana, ulcerata profondamente, ributtante al solo vedere,
con occhiaie profondamente infossate e uno sguardo mesto
e severo, liquido.
Inutile l’agitarsi, per me: non era più una sorpresa da
qualche tempo.
Stavolta,
però,
m’apparve
con
un’espressione
maggiormente determinata.
“Non potrai mai sfuggire ai tuoi rimorsi, Al.
Gli scheletri degli armadi conoscono le ante di tutti gli
armadi del mondo e viaggiano velocemente in equilibrio
sull’onda dei ricordi di chi cerca il dimenticare…”
La figura rantolava un qualcosa che voleva essere un
risolino malinconico.
Mi preparai per il ripasso: sfibrante e doloroso.
La donna ricominciò a parlare con voce dimessa e roca.
“Riesci a vederle queste macchie scure nella penombra,
Al?
Lo sai che cosa sono, vero?
Lividi, e ferite coagulate.
Sono anche gli urti contro la porta della cantina, dove
mi seppellisti viva: ricordi?
E’ stato terribile. Perché lo hai fatto?
Avresti
potuto
abbandonarmi
lasciandomi
un
messaggio, una lettera: avrei compreso.
Avrei sofferto, ma avrei rispettato la tua decisione e me
ne sarei fatta una ragione giustificandoti.
384
Invece mi hai causato una sofferenza indicibile e una
morte orrenda.
Cerchi di dimenticare alla periferia del mondo, ma non
riesci, vero, Al?
In effetti, è impossibile: è stata una fine troppo
crudele…”
Inutile controbattere: era un copione già vissuto.
E poi non avevo attenuanti: ero stato davvero un
bastardo.
“Stavolta sarà diverso, Al…
Sono stanca di correrti dietro per cercare di smuovere
un briciolo di rimorso dal tuo cuore di ruggine.
Stavolta capirai.
Definitivamente.
Hai commesso una leggerezza, nel tuo liberarti di me in
maniera così crudele, lo sai?
Li hai educati a odori e sapori.
Hanno apprezzato.
Adesso sanno, e sanno anche attendere, come hanno
pazientato con me, per giorni e notti, stringendomi in un
angolo buio di quella cantina, curiosi, senza sapere ancora
nulla.
Da stanotte conoscerai la verità sul come sono stata e
forse il tuo cuore sarà scalfito da una stilettata di pietà.
Adesso vado, Al…
Tanto ci rivedremo tra poco tempo…”
Si ritrasse impalpabile nell’armadio lasciandomi
nuovamente solo con le luci intermittenti, tra il fumo e
l’odore leggerissimo della birra, di quando intiepidisce.
Cercai di pensare ad altro.
Mi aveva ripreso. Mi avrebbe ripreso ancora. Per
sempre.
Forse no.
Stavolta aveva parlato di capolinea.
Non sapevo se esserne contento o maggiormente
inquieto...
Tutto ebbe inizio, poco dopo, con un rumore di cracker
spezzato, quasi impercettibile, nella danza tra buio e luci da
luna park dentro la camera, attraverso la tapparella.
385
Non diedi molta importanza al rumore.
Lo scricchiolio, tuttavia, si ripeté: un biscotto, una
galletta sbriciolata, stavolta accompagnato da un
leggerissimo fruscio e dal cigolio dell’anta dell’armadio che
si schiudeva.
Mi rizzai a sedere sul letto e diedi un tiro alla sigaretta,
ma forse più una poppata disperata ad un capezzolo.
Premetti più volte l’interruttore della lampada sul
comodino, ma la stanza in quel momento era senza corrente
elettrica.
Fuori, invece, l’arancio, il verdino e il violetto, con la
pausa del celeste scoppiato, saltellavano una macumba
contro l’anta lucida dell’armadio.
Mi parve di intravedere qualcosa di luccicante che si
muoveva.
Il rumore dei crackers frantumati ora era continuo e
stava tramutandosi in un rumore di pop corn frugati da
una mano febbrile dentro un bicchierone di cartone al
cinema.
Il fruscio era aumentato in un brulichio, in una
spiacevole sensazione di creature in movimento.
Premetti più volte l’interruttore della luce, nel panico.
La lampadina all’improvviso s’accese, fioca, ma
impietosa e raggelante.
Il pavimento era cosparso di scarafaggi lucidi e frenetici.
Uscivano a frotte dall’armadio, come se all’interno ci
fosse stato un disinfestatore con un badile che li scaricava
fuori.
Stavano invadendo l’intera stanza occupando ogni
spazio tutto intorno al letto.
Rimasi senza fiato, inorridito da una visione così
schifosa.
Mi resi conto che l’impatto visivo era frastornante, che
gli scarafaggi sono repellenti, sì, ma anche sostanzialmente
innocui, e però fui richiamato ad una vigile attenzione dalle
ultime parole di lei – adesso sanno, e sanno anche
attendere -.
Continuavano ad uscire dall’armadio, vomitati a
plotoni, stratificandosi intorno a me in un tappeto lucido e
386
zampettante che cresceva e s’alzava verso le sponde del
letto.
Il ripiano del comodino era già invaso da uno strato
uniforme nerastro che sembrava fissarmi.
Distinguevo antenne rivolte verso di me.
Mi stavano guardando.
Mi stavano aspettando.
Attendevano la mia morte per inedia, per paura, per un
infarto.
Per poi assaggiarmi nella memoria degli odori e dei
sapori che ricordavano di lei.
Inutile agitarmi: sarebbe stata una fine inevitabile a
meno di non uscire dalla stanza.
Ma erano troppi, schifosi ed elettrici, e non avevo il
coraggio di scavalcarli pestandone qualche centinaio con
quel rumore che raschia la spina dorsale.
Il livello degli scarafaggi cresceva in una promiscuità di
zampe, antenne, corpi umidi e luccicanti alla luce fioca
della lampadina, semicoperta sempre da loro, in una
girandola di colori esterni, ora infernali da sopportare.
La notte scivolò estenuante in sgocciolio di sudore e
pensieri, e con la prima luce dell’alba sperai in un miracolo
e nel ritorno alla normalità fuori d’ogni incubo.
Cessarono soltanto le luci dell’insegna del motel che si
spense.
Crebbe ancora, invece, il livello degli insetti.
La stanza era invasa fino all’altezza del materasso e
l’anta dell’armadio era ormai quasi del tutto aperta sotto la
spinta di una miriade di altri scarafaggi.
Mi sentivo naufrago su un’isola deserta, circondato da
una marea bruna che sciabordava lungo le sponde del letto
con un curioso rumore di sfregamento, in paziente attesa.
Cominciai ad urlare, a pregare, a bestemmiare, a
chiamarla per porre fine al tormento dell’attesa, ma il
ruggito di un aspirapolvere coprì le mie invocazioni d’aiuto e
il padrone del motel era davvero uomo di mondo per
scomodarsi a curiosare.
Allora piansi.
Come un bambino.
387
Piansi per me, per la paura di morire divorato dagli
scarafaggi, e non fu, dunque, un pianto di liberazione e
redenzione.
Il brulicare di milioni di zampette continuò a graffiare il
cervello già tagliuzzato dai continui sbriciolamenti di
biscotti e gallette.
Ero senza fumo, senza birra.
Perdetti la cognizione del tempo, con altre girandole di
colori intermittenti, con altro muoversi ipnotico d’antenne
sempre più lunghe e di zampette sempre più
intraprendenti.
Vigilanza, vigilanza, resistere… Svegli…
Ma le palpebre diventavano sempre più pesanti.
E il mare di scarafaggi s’increspava in onde nere
brillanti scricchiolanti che inducevano all’arrendersi e
all’abbandonarsi in sfinimento.
Mi osservavano, zampettando vicini, e attendevano la
mia morte.
Non avrei potuto resistere all’infinito.
Sopraffatto dalla stanchezza e dalla tensione, dopo
tempo estenuante, finalmente chiusi gli occhi…
Sto bene, adesso, in questa stanza bianca.
Il bianco rasserena e sbiadisce ricordi allucinanti e
sensazioni dolorose.
Sono tranquillo, intontito da qualcosa che m’inebetisce,
ma solido di una pesantezza sfinita che mi tranquillizza.
La stanza è imbottita fino al soffitto altissimo ed è
illuminata a giorno da una luce calda e uniforme.
E non ha armadi…
Sono finalmente sereno: forse ho pagato…
M’inquieta soltanto, a volte, un lieve sfregare sotto il
pavimento imbottito...
Ma cerco di scacciare, a fatica, pensieri…
388
I COLLEZIONISTI
E’ particolarmente doloroso ricordare…
Quando, tra le luci strobo e i faretti psichedelici di una
discoteca, martellato da una musica ossessiva, si riesce a
notare uno sguardo di giada fisso su di te con attenzione, si
è autorizzati a pensare che la serata possa prendere una
piega gradevole.
Mi accadde proprio questo.
Lei aveva una criniera fulva che agitava compostamente
nel ballo. Era un bel tipo: alta, slanciata, molto tonica e
sensuale nelle movenze.
Ballava e mi fissava con un’espressione tra il sognante e
l’analitico.
Le sorrisi e fui abbagliato da una chiostra di denti
candidi in lampi verdi di sguardo magnetico.
Si dipanò l’approccio classico da discoteca: due
chiacchiere direttamente dentro le orecchie, a trasmettere
sensazioni e tepore d’alito in cambio d’odori di splendida
pelle sudata e profumo, un drink a schermare occhiate
avide reciproche, e poi la fatidica proposta.
“Vuoi venire a vedere la mia collezione?”
Non mi chiese in cosa consistesse la mia collezione e la
naturalezza dell’accettare la situazione mi piacque e
m’eccitò.
Mi si aggrappò al braccio e si fece pilotare verso l’uscita,
completamente fiduciosa.
La bestia feroce dentro di me cominciò a fremere in
cattivi pensieri e proiezioni mentali d’immagini forti.
Il viaggio verso casa mia fu soprattutto troppo lungo,
ma finalmente arrivammo.
Abitavo da solo in un villino in stile liberty con ringhiere
di ferro battuto piene di ghirigori inquietanti e col portone
lavorato in spirali e incisioni morbide.
La introdussi direttamente nella sala della collezione,
buia, nello scantinato, dopo pochi gradini dall’ingresso.
Lei si dimostrò docilissima e curiosa.
389
Quando accesi la luce pregustai una reazione di quelle
a me molto care, seppure prevedibili, d’urla isteriche e
suppliche.
L’immensa stanza, dal soffitto a volta e con, in fondo,
un enorme letto a baldacchino con lenzuola nere di seta,
era tappezzata da corpi di donne nude imbalsamate.
Erano accovacciate, infilzate al muro con robuste aste
d’acciaio, con i volti appoggiati contro la parete, come
fossero insetti di una spettacolare collezione.
Un lavoro pulito.
Avevo appeso ogni preda con un’unica sbarra
appuntita, a bloccarla a metà della schiena raggomitolata
contro la parete, con le ginocchia piegate e le braccia tese
sulla testa posta di profilo con occhi vitrei.
Le avevo dissanguate e poi svuotate delle interiora, da
perfetto imbalsamatore, ed ogni giorno le spolveravo con
accuratezza ravviando le loro capigliature e ritoccando
l’incarnato con un buon fondo tinta.
La donna della discoteca, tuttavia, non ebbe reazioni
fuori controllo.
Osservò le pareti così originalmente arredate senza
lasciare trapelare la benché minima emozione.
Le afferrai un braccio per legarla al letto.
Ero sconcertato dal suo reagire che aveva qualcosa
d’affascinante.
Mi dissi in tumulto interiore: ecco una donna con
carattere e personalità, finalmente, ecco forse una complice
da risparmiare, chissà…
Reagì, invece, all’improvviso, strattonando il braccio e
liberandosi, mentre con l’altra mano mi mise davanti al viso
una rivoltella brunita.
Mi sorrise enigmatica con una certa aria di sufficienza.
“Interessante, davvero…
Ma non intendo fare parte della tua raccolta, caro il mio
collezionista.
Piuttosto sai che facciamo ora?
Andiamo a casa mia, e ti farò vedere cosa colleziono io:
sono convinta che rimarrai stupito.
Sono un tipo originale anche io…”
390
Rimasi imbambolato dalla sorpresa e lei approfittò per
rendermi inoffensivo con un paio di manette apparse dal
nulla.
Sorrideva sempre, maliziosa e sensuale.
Forse quella sera avrei avuto finalmente la botta di
fortuna che un uomo cerca sempre per tutta una vita circa
il concetto di complicità.
Era seducente, elegante nel portamento, controllata
nelle reazioni.
Contemplò ancora una volta l’enorme salone decorato
dalle tante donne imbalsamate e spillate alla parete.
Poi mi spinse via con gentilezza, premendo appena la
pistola contro un fianco, senza più parlare.
Salimmo in auto, ma stavolta guidò lei, con una mano
sola, senza mai abbandonare l’arma con l’altra.
Abitava in una casa con un muretto di cinta
seminascosto da alte siepi, isolata, poco fuori la città.
Anche lei non accese subito la luce.
Mi condusse verso la cantina illuminando le scale con
una torcia.
Mentre scendevamo la rampa, la sentivo ansimare e
pensai, in stupido narcisismo, che forse certi miei desideri
si sarebbero potuti esaudire in ogni modo con l’esaltazione
delle sensazioni in un gioco di coppia.
M’introdusse in una sala immensa che in penombra
luccicava solamente per una miriade di specchi tutto
intorno a quello che presumevo dovesse essere un letto.
Mi spinse, sempre ammanettato.
Era il letto, in effetti, rivestito di un drappo di latex
rosso fino a terra.
Con cautela mi legò alla testiera in pesante ferro
battuto.
Poi cominciò lentamente a spogliarmi, con delicatezza,
mentre mi vezzeggiava facendo le fusa con voce roca.
Mi tolse le scarpe e le calze.
Poi mi sfilò i pantaloni e gli slip, sospirando appena.
Infine materializzò dal nulla un rasoio e lacerò la
camicia senza scalfirmi, con attenzione.
Nello scuro notai il suo sguardo di gioia farsi febbrile.
391
Accese infine la luce.
E vidi.
Una stanza mostruosa.
Aveva le pareti foderate di specchi, come il soffitto.
A parte il letto, era arredata solamente da un numero
esagerato di mensole, su ognuna delle quali era poggiato un
gran barattolo di vetro.
L’orribile era nei vasi.
Ognuno di questi conteneva una testa d’uomo in una
soluzione trasparente.
Alla luce, ora che mi stavo abituando, potevo notare
occhi spalancati, labbra stirate in un’ultima espressione di
dolore, di sorpresa, di paura.
Non riuscii a contare quante teste ci fossero in quella
stanza che ora luccicava in un rimando di immagini di
specchi.
La donna mi sorrise con un fare equivocamente
materno.
“Ti piace la mia collezione?
E’ originale quanto la tua, vero?
Nasce dal fatto che fin da bambina ero soprannominata
‘Mantide’, per il mio modo di trattare i maschietti…”
Non mi disse più nulla.
Urlai impotente, in adrenalina pura, mentre la donna
balenava il rasoio alla luce.
Supplicai e piansi, e infine proposi, atterrito e disperato,
un sodalizio.
Lei tagliò l’aria con un gesto rapido e vissi l’ultima
sensazione del fiato che si disperde senza più pressione
mentre la vista diviene opaca e la vita s’affievolisce in un
soffio di trachea.
Un colpo di tosse, fiotti di sangue, un vano risucchiare
aria.
Poi il buio con ultimi bagliori di lama nel cervello,
specchi, luce e riverberi di vasi e pupille spente che mi
guardavano.
E’ doloroso ricordare, senza più il corpo, chissà dove,
affogato per il capo dentro un barattolo di vetro poggiato su
392
una mensola, talvolta osservato con un’espressione che a
suo modo potrebbe essere chiamata anche d’affetto, dalla
mantide fulva dagli occhi di giada, e talvolta testimone
dell’acquisizione di un nuovo esemplare per una collezione
da completare per chissà quando…
393
394
RACCONTI PER RIDERE
CHE MAMMA HA FATTO I
GNOCCHI
395
396
TRAGICOMICA STORIA DI UN PULITORE DI VETRI
IMMIGRATO CLANDESTINO KENIOTA
Vorrei farvi partecipi di un surreale diario-sfogo di uno
sfortunato keniota immigrato clandestinamente in Italia.
Il concepimento delle situazioni sfigatissime accadute
all'immigrato è avvenuto verso gennaio del duemiladue
nell'ambito di uno spazio adibito a protoblog o, forse, forum
a margine dello spazio riservato alle chat sul sito di Publiweb
che allora frequentavo.
L'iniziativa ebbe
un certo successo ed un notevole
seguito e si verificò una divertente interazione con altre figure
create da brillanti altri frequentatori dello spazio: nacque
quindi un avvocato trafficone per il permesso di soggiorno, un
altro clandestino slavo con un suo tipico slang, una
segretaria dell'avvocato.
Si dipanò quindi una serie di vicende che vennero
raccontate con una cadenza quasi giornaliera.
Poi, come tutte le cose, anche questa finì e cambiai rotte
di navigazione.
Ho riletto in questi giorni qualcosa e mi sono scoperto
ancora divertito dalle mirabolanti avventure di Mombasa
Tunctu, il protagonista.
Ho deciso quindi di proporre la sua storia sotto forma di
diario.
Si può sorridere, forse, o ridere apertamente delle
disgrazie surreali e comiche di qualcuno, lo si è fatto fino dai
tempi di Plauto, ma, nei confronti di Mombasa Tunctu, il
keniota del provocatorio esondare di parole e slang
fintonegro, credo che si rida verde, si rida amaro in una
accettazione impotente, fatalista, ancorché riluttante di certe
realtà osservate con un occhio ingenuo e candido, ma non si
sa quanto.
L’intento della divulgazione, del resto, è anche quello di
fare leggermente pensare.
Buon divertimento a chi avrà voglia di seguirmi.
397
Comincia la sagra di Mombasa Tunctu
Mi
sdo
ambiendando
rabidamende
in
Idalia,
meraviglioso baese.
L’aldro ieri un'agenzia inderinale mi ha ghiesdo gosa
sabessi fare e io risbosdo ghe sono laureado in ingegneria
gibernediga gon gabagidà di galgolare logaridmi e
drigonomedria a memoria.
Mi hanno mandado ai mergadi generali a sgarigare le
gassedde di aggua minerale ghe fa fare i galgoli.
Ghe sbiridosa addinenza!
Allora mi sono ingazzado e ho gomingiado a vendere
semafori
all'erba
gogli
aggendini,
no
forse
mi
gonfondo....non sono angora moldo bradigo della lingua.
Ora mi arrangio vendendo aggendini e sigaredde di
gondrabbando berò faggio boghi affari.
Sarà berghè sono vigino ad un dubergolosario
brovingiale?
Bulisgo vedri di audo al semaforo, sembre davandi
all'osbedale, ma le audoambulanze non riesgo ad
agghiabbarle e ho danda fame.
Ho, gomungue, smesso guasi subido di lavare vedri: ber
drobba siggidà.
Infaddi ieri sdavo lavando vedro di jaguar a sbudazzade,
ma badrone jaguar non ha gabido e gradido e mi ha dado
dande legnade su grobbone: sono duddo saggagnado e
livido...Mi ha faddo ..nero.
Allora adesso vendo aggendini, fazzoleddini di garda,
ogghiali da sole.
...Non vedo l'ora ghe arrivi giugno con i suoi drenda
gradi berghè adoro moldo la sdagione invernale: adesso ghe
sdagione è, gon guesdo freddo della madonna?
A volde mi domando: siamo duddi fradelli o siamo
duddi figli unigi? ...e magari anghe orfani?
Beadi idaliani guando vanno a Malindi, ghe mangiano
minesdra ghenioda di brodo di fagogero e nogi di goggo: non
si diga ghe fa sghifo!
Essa è digeribile.
398
Io ho sullo sdomago da ieri sera dre aggendini e un
ogghiale di falso sdilisda, e non erano neanghe buoni. Dovrò
brogurarmi un alga-seldzer (ber la gronaca, gli aggendini
erano garighi e ogni volda ghe mi viene da fare un ruddino
sbrugiagghio il malgabidado ghe mi sda di fronde)!!
Ora vado all'ingrogio a dare il gambio a Sdanilslaw e mi
sa ghe sdasera divendo riggo. Sdanislaw infaddi sda
vendendo caramelle, ma non dige ghe sono burgadive: oggi
io, invece, sono garigo di dandissimi fazzoleddini di garda...
Vida amara ber Mombasa, gome gagghi.
Adaddamendo e gombendio
Ho avudo soddobango a brezzi insosdenibili in nadura
un biglieddo di bresendazione a solerde funzionario di
bubbliga sigurezza ber mio visdo di soggiorno: burdrobbo,
gosdui è moldo avido e drobbi aggendini e rolegs findi dovrò
vendere ber soddisfare le sue brame (vuole gombrare
jaguar!!!).
Gomungue
non
mi
sgoraggio
e
gomingio
subidaneamende...
Nel fraddembo gon moldo affeddo benso a mio
benefaddore e brego mio grande sbirido ghenioda ber lui e
ber suo fuduro brosbero e sereno.
“Signore, boni dua bodende mano su gabo di nosdro
fradello.... ma non galgarla
drobbo......grazie!”
Biù dardi, in sobrassaldo di orgoglio ghenioda, ho
abbrondado un Gombendio gombordamendale ber idaliani
riguardo a exdragomunidari di golore.
Vorrei gonosgere il barere di idaliani, da amigi, brima di
brendere il foglio di via insieme a dande legnade.
GOMBENDIO BER IDALIANI SU COMBORDAMENDI DA
DENERE DI FRONDE A EXDRAGOMUNIDARIO.
1.) Dare del du è moldo demogradigo, ma bredendere il
Voi e il didolo di bwana o badrone è veramende eggessivo.
399
2.) Mai sdrofinare ai bandaloni la mano gon la guale si è
sdredda la mano dell'exdra, neanghe furdivamende.
3.) Un gabo di vesdiario regalado berghè smesso non
deve avere bughi gome dana di fagogero: è guesdione di
dignidà.
4.) Non è obbligadorio gomingiare a fumare da ora ber
giusdifigare l'agguisdo di aggendino; benso ghe l’offerda di
un lavoro onesdo, umile e in nero (gioè biango) sia miglior
gesdo di benefigenza ghe si bossa fare.
5.) Evidare di meddere mano alla fondina del bisdolone,
se avede il bisdolone, al solo udire ghe l'exdra barla arabo,
viene beggado aggovaggiado su dabbedino, gira gon Gorano
soddo braggio. Se non avede bistolone non gorrere a gambe
levade verso biù vigino Gommissariado.
6.) Abbiade bresende sembre ghe duddo mondo è baese
e l'exdra davandi a voi magari ha due lauree e un
G.I.(guoziende indelleddivo) risbeddo al guale voi fare figura
da imbala: l'abido non fa l'exdra-monaco.
7.) Evidare biedismi del dibo: bovero negro.
E' evidende ghe duddo giò va gendellinado sembre
senza generalizzazione, nè bosidiva, nè negadiva.
Ghe mio gombendio sia urlo di gondendezza ber aver
vendudo duddi fazzoleddini a semaforo.
A gaggia di nuovo lavoro
Sdamaddina vado per un nuovo lavoro a vedere:
gergano gualguno ber la barde di un re mago ber la
brossima ebifania. Se la sfango devo dirare avandi solo fino
a digembre a bulire vedri e vendere aggendini, boi gambo di
rendida gon la nodoriedà, obbure bosso rigiglarmi nel
Grande Fradello nove, dado ghe sono biù simbadico
dell'aldro fradello Mandingo. Gome uldima aldernadiva
bodrei sgalzare fradello Idris da gualghe drasmissione
delevisiva, ma io faggio difo ber sguadra bolisbordiva
Nairobense: inderesserebbe a gualguno gui? Gredo brobrio
di no...
400
Offresi lavamagghine
E’ andada male anghe oggi: il re mago lo hanno breso e
non sono io. Il regisda, un bogo sdrano, voleva brendere me,
ma mi sono obbosdo berghè mi voleva gonosgere
bibligamende.
Bazienza! Domani un aldro giorno gome digeva Rozzella.
Ho già in mende aldra addividà. Se nel fraddembo gergo
gualguno ghe abbisogni di avere la sua jaguar bulida, ber
boghi
euro
lugido
e
sdriglio
garrozzeria:
sono
addrezzadissimo gon brusga da gavalli e garda vedrada.
Mi bresendo
Mi rendo gondo ghe non mi sono angora bresendado
ber ghi leggerà gueste annodazioni: io sono Mombasa
Tunctu, ghenioda figlio di ghenioda, alguando sfigadello, ma
sembre allegro e bieno di sorbrendendi drovade ber gergare
di bodere vivere dranguillo.
Io sogno fuduro garigo di gomodidà, gome leone re di
foresda, ma io, a differenza di leone, vorrei dande gose
eleddronighe e audomadighe all'uldimo grido di nuovo
gadalogo iGhea: forno eleddrigo per guginare zebra in
umido, sgaldabagni eleddrigo per fare doggia galda in gasa
senza fare bagno in sdagno bieno di gaimani, rasoio
eleddrigo ber fare barba e
gamuffarmi davandi a
gommissario ghe fa aggerdamendi ber visdo di soggiorno...
Non voglio solo sedia eleddriga ber una mia bardigolare
avversione ingonsgia...
Ber il resdo, saludo amigi daliani e egsdragomunidari,
siano ladino-amerigani, siano bolagghi, siano albanigi, ghe
mi vogliono regludare solamende ber gosedde bogo ghiare...
Un albanigo mio amigo mi ha brobosdo lavoro di sgorda
e aggombagnamendo lungo Adriadigo ber gide di gomidiva
in biggole grogiere gon ebbrezza della folle velogidà: mi
disbiage ma non so nuodare e se ganoddo si sgonfia o viene
Finanza bosso solo bregare mio sbirito di grande
ibbobodamo...e boi, sghiavisda o gondrabbandiere gon
salvagende a baberella, sarei veramende ridigolo.
401
Gomungue grazie dell'offerda, gome grazie a offerda di
fare gaddivo uomo nero diedro lambione in sdrada ber
sbavendare ghi viene ber molesdare donne ghe lavorano su
dangenziale vesdide gome se fosse sembre esdade, ma io
non mi sendo gaddivo, semmai solo nero, guesdo sì....
E ora mi faggio un bel brindisi gon liquore di goggo
fermendado gon ladde di gammello e guano di iguana:
delizioso....digono i sopravvissudi.
Gin gin e brosberidà.
Mi do da fare
Oggi moldo da fare ber garigare furgongino Ford
DransiD del sessandaguaddro revisionado ghenioda ber
andare a mergadino fierisdigo.
Digono ghe inguina, ma io benso ghe bianghi sono
razzisdi ber baura di gongorrenza gommergiale: io gugino a
vabore wursdel di andilobe davandi marmidda, per gui...
Ho ogni gosa ber domani: brododdi ardigianali gheniodi
faddi a mano gon sblendidi magghinari in laboradorio di
Seddimo Dorinese.
Venderò buff in belle d'imbala a forma di ibbobodamo,
sguldure di indigeni gheniodi in legno di sandalo, moldo
soddili e sdilizzade, ghe donne sbordive bossono usare gome
bundina da disegno su sedia, bubazzi
raffigurandi
gammelli e dromedari.
Ber me la differenza dra gammello e dromedario sda
solo nelle legnade ghe hanno breso: anghe io avevo gobba
guando rubbi biaddi che lavavo in risdorande.
Mi saggagnarono a dovere!
Sbero dando ghe domani affari vadano bene anghe
berghè devo bagare affiddo di monoleddo in monologale ber
dodigi bersone: monoleddo sembra gome gasa-vaganze
berghè gi dormiano in dre, ma non insieme.
Sono oddimisda gomungue berghè ho anghe gli
indramondabili aggendini e ogghiali di falso sdilisda ghe
vanno sembre e boi ho bordamonede ber euro, faddi in
legno di teg a forma di iguana dormiende gon goggodrillo
402
vigino ghe sda ber divorarlo: una gosina di gusdo e moldo
originale.
Ho anghe eurogonverdidori euro-gonghiglie, imbordadi
da Ghenia, ma guelli mi sa ghe ne vendo boghi boghi.
Alba risplende su bolveri fini
Sdanodde ho avudo un brovino gome disg-joghey in
logale di brovingia denominado "Polvereden", non so se mi
sbiego. Mi sono bresendado gon gabelli afro (barrugga su
desda rasada dibo brima versione di gandande Seal ghe
aveva desda gome melanzana, sgura sgura e lugida), e
fagevo fighissimo, gon soddo braggio miei disghi di mia
derra, Ghenia, ber far ballare damarri e druzzi logali.
Volevano asgoldare, berò, solo musiga deghno (sgusate
se non bronungio bene Tekno) e non hanno abbrezzado
miei disghi di AlBaobab e Romina, Ballo del Guà Guà,
Gugini di Savana, e Viddoria (non guella delle Sbige Girls,
ma guella del lago).
Mi hanno faddo dando male gon boddigliade di
magnum, fordunadamende vuode, su sballe e balle e mi
sono dovudo defilare dravesdendomi da bortacenere:
purtroppo sono sdado usado e ora sono bieno di
andiesdedighe brugiadure.
Gi vorrebbe bomada di Uanna Marghi, ma non si riesge
biù a drovarla...
Brasiliano invege sì...
Ora lavora in guartiere bene di Dorino, la nodde, gon
nome di Gonsuelo...Ghe vida ragazzi.
Ora vado fare sbesa ber nudrirmi.
Moldo ringarado zebu ber golba del freddo o della
siggidà o della filiera imbazzida, ma io ribiego su sbezzadino
di armadillo: g’è bogo da ridere berghé zebu e armadillo
sono garni ghe idaliani mangiano duddi i giorni, solo ghe le
ghiamano ingonsabevolmende vidella, ghissà berghè boi.
Sembre un bo di biù arena di da ....Barola di Frangesgo
Amadori....10+
403
Sgonfordo e brogeddi
La realdà è ghe ormai guesda derra sda divendando
inosbidale...io vorrei emigrare ber il mio eldorado, il mio far
wesd....
Gaserda, Gasaldibringibe, bosdi di oberosidà e immense
disdese di nadura e bomodori.
Gi si deve meddere d'aggordo solo gon gaborale ghe
organizza durni
Sfiga guodidiana
Gome solido anghe oggi gagga salida fino garodide e
devo sdare addendo a non fare onda. Al mio semaforo sdavo
bulendo vedro a magghina ferma.
G'era dendro sblendido mammifero gon ogghi verdi e
belle da laddigino di gabra ghenioda. Mi sono imbambolado
gome guando asbiro funghi sdrani di beriferia Nairobi e
sono affogado in suoi ogghi. Boi le ho deddo: "Sblendida
greadura, volere du fare oloduria (gedriolo di mare) gon me
duo baguro bernardo ber ederna simbiosi?" Mi è sembrado
di essere boedigo ghenioda e avevo sorrisone di
ginguandasei dendoni bianghi, ma il mammifero si è
drasformado in alligadore digrignande e ghiamado vigili,
bolizia, gommissariado e bassandi vari. Io sgabbado gon
moldi lividi e bozzi, boi faddo berdere mie dragge
travesdendomi da dombino in via limidrofa.
Segondo me la bella idaliana fadda danda gonfusione e
eguivogado gon gedriolo...Bovero guore sbezzado di
ghenioda...
Buona domenica
Bodrebbe sembrare ghe io sia uno di guelli ghe la
domeniga maddina suona a gambanello e vuole dare buon
giorno e gadalogo agenzia viaggi (non è gadalogo?) e viene
ringorso gon mazza di baseball o gesoie da giardino o viene
mandado direddamende a gagare.
404
Beh io sono un bò diverso; indando io gomingio a
gomunigare alle ore nove e drenda bassade, guasi le diegi,
invege delle sei di guelli, e boi sono allegro e non ho faggia
breoggubada gome guelli ghe sembra siano sembre gol
dubbio del gondo gorrende sgoberdo o di aver lasgiado
rubineddo di gas aberdo in gasa: sono sembre drisdi, ma
anghe gaboggioni berghè ogni domeniga sono lì davandi a
sdesso gambanello (dranne guelli beggadi da sobragidada
mazza di baseball).
Oggi domeniga egologiga e io disoggubado a semaforo
deserdo. Farei gualsiasi lavoreddo diedro bagamendo di
boghi euro. Mi fischiano oregghie ber baddudaggie da
gaserma e sendo ghe non viene abbrezzada volonderosidà di
bravo ghenioda.
Lavoro noddurno
Guando gende normale si alza io vo a leddo sdango
mordo ber mio nuovo lavoro di sabadi e domenighe sera.
Io faggio uomo-nero ber denere buoni bambini ghe
fanno basdardi gon baby-sidders ghe vogliono fare drombodrombo gon loro fidanzadi.
Sbiego: gobbia di genidori vuole fare bagordi di sabado
sera gon amigi al ginema, al risdorande, al brivè ber
sgambio gobbie egg. egg. gome iene ridens in savana a
blenuilunio e lasgia sua o sue gradure in mano a giovane
babysidder sembre garuggia ma gon dandi brufoli.
Brufoli sono solo dembesda ormonale di garenza
d'amore e babysidder abbrofidda della serada in alloggio
signorile gon fornido mobile bar ber gombensare garenze
gon suo ragazzo ghe abbare dobo mezz'ora ghe gobbia è
andada via, gome sgiagallo affamado.
Se greadura affidada dorme dranguilla gome gazzella va
duddo bene, ma se biggolo basdardo rombe marroni gome
bedulande biggolo sgimbanzè, allora babysidder ghiama me
e io ber modiga somma faggio uomonero ghe sbavenda
biccolo basdardo e mi meddo anghe dendi findi da vambiro
e ringorro greadura per sdanze alloggio fino a ghe boverino
405
non si nasgonde in dazza del gesso e gi rimane fino a
tardissima sera addormendandogisi.
Gli affari vanno benino berghè molde babysidders
vogliono fare drombo-drombo al sabado sera e ber guesdo
mese affiddo è sdado già pagado.
Sbero solo ghe bimbi sgassamarroni non delefonino a
delefono azzurro berghè aldrimendi devo gombaddere gon
genidori ingazzadi gome grodali di deserdo nabimiano e
devo invendarmi aldra gosa fandasiosa e birodegniga.
Ah, geniale invendiva ghenioda!
Meglio i gani ber prossimo lavoro
...Gome demevo. Arrivado sdamaddina a gasa ber
dormire, dobo avere faddo baby sidder, ho drovado genidore
ingazzado gome elefande imbizzarrido ghe mi asbeddava
gon asgia.
Ho fadigado moldissimo a seminarlo, gon gorse
brolungade da bravo bodisda degli aldibiani, gon ingegnosi
dravesdimendi da semaforo, da gassoneddo e da banghina
di giardineddo...
Sono drafelado e sdanghissimo.
Da domani gambio lavoro e gambio anghe indirizzo per
evidare aldri ingontri ghe una volda fagevo solo in sdagno
baludigo vigino Nairobi.
Da domani faggio dog sidder e bordo fuori vendi,
vendigingue gani alla volda al giardineddo, memore di gome
guando fagevo in ridagli di dembo in Ghenia basdore di
gnu, gabre e fagogeri addomesdigati: e ghe gi vorrà mai?
Borderò gon me langia gon veleno dossigo paralizzande
ber gagneddi biù vivagi, e bolbeddine di iguana ber avere
duddi soddo gondrollo.
Ai gani biagerà l'iguana?
Sbero solo di non ingondrare vigile ghe fa mulde a
possessori di gani senza saggheddino ber guano di gane.
Io non bosso bordarlo con vendi gani: mi gi vuole
bedoniera!
Beh sberiamo bene, male ghe va farò mio solido sorriso
gharmand (sdo imbarando frangese da amigo senegalese) e
406
gergherò di fargli ghiudere ogghio, obbure glielo ghiuderò io
gon aggendino. Aggeso.
Gambierò angora
Dornado adesso da basseggiada gon vendi gani nel mio
nuovo lavoro di dog sidder: insuggesso gombledo e dovrò
angora gambiare! Moldo diffigoldoso infaddi bordare a
sbasso biggolo yorgshire duddo beli ghe sembra dobosgi
insieme ad alano gon sella e briglie e a masdino naboledano
gon museruola di didanio...
In biù boi anghe boxer, ghe guando gammina lasgia
sgia di bava gome gamaleonde indisbosdo di sdomago, gollie
isderigo berghè si sende drasgurado, roddwiler geloso di
naboledano berghè freguenda balesdra e ha addominali biu
svlubbadi e ghihuahua ghe si infila nei bughi di gulo dei
sobragidadi gani grossi ber fare sgherzo di gulo e io divendo
bazzo.
Ho dovudo dranguillizzare gon langia dossiga un
pasdore dedesgo e due basdori sardi ghe volevano fregarmi
il tedesgo e ho dovudo fare fuggi-fuggi vedendo da londano
vigile ghe misurava aldezze guani dei gani gon gendimedro e
masghera andigas.
Ghe vidaggia. Ora gergherò aldro da fare e gomimgerò la
giornada a semaforo gon amigo Sdanislaw: lavoreremo in
dandem. Uno lava e l'aldro asgiuga....
Mi do sembre da fare
Sdo sgabbando ber andare in Gomune. Ieri è nevigado e
benso ghe gergheranno bersone ber bulire giddà da neve
affinghè vegghieddi non gadano gome zebre ubriaghe vigino
enodega ghe vende liguore di goggo. Io, da bravo ghenioda,
gergo di inserirmi nel dessudo gonneddivo della sogiedà
(l'ho gobiada da draddado sogiologigo e mi bare ghe suona
bene). Mi offro volondario e magari gonosgo anghe sindago
Giuffeddino (ha una desda ghe sembra un govone di fieno)
Ghiambarini...
407
Dungue vediamo se ho duddo: guandi OGH, biumino
OGH, berreddone baraoregghie OGH, forgone....
Soddisfazione (almeno demboranea)
E' un miracolo che io parli con perfetta padronanza
lessicale Alighieriana, Boccaccesca, Manzonica e con
pronuncia da speaker del TG?
No!
Solo applicazione e sacrificio e maratone notturne al
CEPU.
Ho studiato nella mia stanzetta con dietro le spalle, in
piedi, un tutor che non ho mai capito se mi voleva assistere
amorevolmente o sodomizzare e quindi ho imparato molto
in fretta.
Nella stanzetta a fianco c'era Del Piero. Credo sia un
gran ciuccio a scuola perchè il suo tutor lo ha bacchettato
spesso sulle dita dei piedi e lui piangendo urlava: "La prego
no, signor tutor, coi piedi ci mangio!" Il tutor gli diceva:"Del
Piero, due più due fa quattro e non tre, e poi sulla tua
maglia tu hai scritto dieci e non IO, somaro!"
Alla ricreazione facevamo merenda insieme, io con il
mio panino con fettina di gnu e lui con il budino danone
(alla purga) che gli manda il suo nemico Inzaghi.
Gli ho toccato colle mani la faccia per vedere se la sua
barbetta e basette elaboratissime se le facesse col
lampostyl: sono vere!
Allora gli ho detto che conosco degli spacciatori molto
più onesti perchè tagliano meglio.
Ora vado a fare la spesa.
Mi sa, berò, che forse dimendigo tuddo alla
svelda...sono fordi mie radigi di negridudine...
Farò abbonamendo a GEBU...
Imbrendidore
Sdamaddina mi sono messo d'aggordo gon Sdanilsaw a
semaforo e ho lui deddo: berghè lavare solo vedri di audo e
bensare in biggolo?
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Faggiamo imbresa di lavaggio vedri di negozi o uffigi no?
Sdanislaw si è allora fiondado in vigina enodega per fare
brobosda e padrone ha aggeddado, ma voleva pagare solo in
vodga. Sdanislaw ha aggeddado, io no berghè a me biage
solo rafiagoggo, liguore garadderisdigo ghenioda la gui
rigedda è segreda e dale rimane anghe ber sobravvissudi. La
sogiedà si è già sgiolda e io faggio imbrendidore ber me da
solo. Sdo andando a ghiedere in luminoso negozio-uffigio
vigino a ingrogio: dudde vedrine verdi e grande insegna di
Badania libera....dande bersone gon allegri fazzoleddi verdi
ghe barlano in idioma ingombrensibile... Sberiamo bene,
ma io sono sembre oddimisda e su segnalazione di giovane
allegro ghe rideva gome maddo sdo andando da onorevole
Borghezio ghe, mi hanno deddo, ama moldo fare biageri a
egsdragomunidari gome me, simbadigo ghenioda.
Mi bresenderò dra bogo e gli dirò: "Eggellenza, bosso
fare gualgosa ber lei?"
Sberiamo ghe non mi risbonda il solido: "Va a gagher"
berghè mi indrisderei.
Una ne fo e gendo ne penso
Dorno adesso, dobo berigliosa nodde, da studio di
Eggellenza
Borghezio
ghe
boi
mi
ha
mandado
effeddivamende a gagare.
Suoi amigi invege mi hanno faddo gorrere gome gazzella
inseguida da leone gon fame arredrada.
Ora sdo rifleddendo e riordinando idee...
Devo fare gualgosa ber meddere insieme il bane e lo gnu
ber domani a branzo.
Benso che dovrò bassare da agenzia inderinale ber
lavoro a dembo...
Allora.... Al mergado generale è bassada la Finanza ghe
ha faddo mulde (duddi in nero, ahahahah, nessun ghenioda
berò), guindi no; duddi sdanno smeddendo di fumare guindi
non vendo biù aggendini; vedri da bulire basda berghè al
semaforo adesso gi sda Sdanislaw gon masdro Lindo...
409
Sdo bensando di fare gigolò nero mandingo in logale
nighd ber fare ballare annoiade donne idaliane in gerga di
mozioni fordi.
Mumble mumble....sdasera basso a logale alla moda....
Forse ardisda
Gome volevasi dimosdrare.... ho aggalabbiado, da solido
sfigado, solo assessore a durismo, sdrano, ghe gon mano
brensile di gorilla delle nebbie mi doggava soddo gonnellino
di foglie di banano, abbundo il banano, dra sguardi di
disgusdo di vegghie garambane rugose ghe sembravano
babbagalline gon giuffo.
Sono sgabbado gome musdelide seguendo gonsiglio di
amiga, dravesdido da Dony Manero, di febbre di sabado
sera, ghe ha faddo drobba
lambada (no ballo,brobrio
lambada gon aggendo su brima a).
A usgida da logale drendy ho faddo gonosgenza gon
guaddro simbadigi fradelli
nigeriani ghe mi hanno
brobosdo di unirmi a loro ber fare numero di
nighd, sdrib masghile: i Nigerianafro dream men....
Gi devo bensare, berò, berghè mi hanno deddo ghe è un
numero duddo giogado su dre gambe di ognuno, sono
moldo esuberandi gome addrezzadura di biagere, e io
addualmende ho brosdada gome gozzo di belligano ghe fa
indigesdione e boi sono mandingo gon emme minusgola
(solida sfiga)...
Al massimo bodrei fare masgodde...
Medafisiga ghenioda
Ghenioda è moldo addraddo da broblemadiga
esisdenziale, sobradduddo guando viene morso da vibera
gornuda in zona deserdiga o girgondado in savana da
brango di ligaoni digiuni da due seddimane.
Varie
sguole
di
bensiero
sbaziano
su
varie
inderbredazioni sulla medafisiga.
Sguola di reingarnazione
410
Si ibodizza ghe si bossa morire in savana durande
bennighella divoradi da brango di leoni e gi si bossa
ringarnare in sgadoledda Scimmiendhal, obbure in gnu, se
moglie non era drobbo fedele, obbure in sgarabeo
sdergoraro se si ha molda sfiga: gheniodi sfigadi girano
munidi di zaino gon maschera andigas e guandi da
eleddrigisda ber ibodesi biù sfigada.
Sguola glassiga di baradiso e inferno.
Si vuole ghe guando si muore si vada in baradiso o
inferno o burgadorio a segonda di gondodda in vida: se
ghenioda da vivo ha fornigado anghe fuori sua unione gon
moglie, viene bunido gon legge di daglione in inferno e verrà
sodomizzado ber l’edernidà da feroge fogoso mandrillo…
Guando, ber abidudine, biagerà mandrillo, verrà
sodomizzado gon ramo nodoso di baobab agidado da diavolo
ghenioda ghe sghignazzerà a sendire urla di dolore,
aldrimendi ghe inferno è?
In baradiso solida noia gon gongerdi dribali e nessun
drombo-drombo, al solido…
Burgadorio vedrà ghenioda sosbeso dra benefighe
sensazioni di fresga garezza di erba di savana su viso
sberanzoso e dorrenziale bibì di elefande di bassaggio,
sembre su viso sberanzoso…
Sguola adea
Si gollega gongeddualmende al nulla, rabbresendado
boedigamende da bugo di gulo di negro a mezzanodde in
nodde senza luna in una garbonaia, invisibile,
inesisdende…
Sguola animisda
Alla morde gi si dramuda in maderiale ghe gondinua a
fare barde di universo ghenioda: giodola di mais, guano
d’iguana, ombrellone di baglia ber villaggio durisdigo,
gambiale in brodesdo…
411
Anghe in guesdo gaso è solo guesdione di sfiga e
ghenioda animisda ghe sda ber morire ingrogia anghe dida
dei biedi e langia al gielo abbassionadi lamendi in swailii.
Baradiso
Immagino
paradiso
gome
grande
infermeria
funzionande fornida di duddi andibiodigi possibili, gon
leddini rifaddi bulidi gon lenzuola bianche gome faggia di
Mighael Jagson.
Immagino comodino vigino a leddo gon boddiglia
d’aggua bulida invece ghe giodola di bozzo biena di
greadurine di dio ghe gi sguazzano dendro gome bisgina
fagendo fanghi ber loro reumadismi.
Belle infermiere bassano gon babbagallo, guello ghe non
ganda dra fresghe frasghe di foresde gheniode, sono gendili,
offrono bisgoddi Gendilini e dazza di ladde, non guello in
bolvere ghe sembra forfora.
Ogni dando bassa doddore, gon barba bianga e
driangolo diedro desda maesdosa e dige: “Duddo bene
Mombasa? Duddi gondendi figli miei?” e non ordina mai a
infermiera di fare me glisdere di galabroni, ber miei meridi
di bravo ghenioda gui in derra…
Gualguno invece ha glisdere di galabroni berghè non
drobbo buono brima: si ghiama glisdere burgadorio… o
burgadivo? Mah!
Forse sono sdado drobbo redorigo: influenza di libri
redorigi afrigani ghe barlano di buoni sendimendi.
Uldimamende ho leddo “Guore”, “Biggole donne
gresgono”, “Sdadisdiga dissenderia dra bambini biafrani”
“Bugiardino ghinino ber gurare malaria”: dudda roba
isdruddiva.
Mai gabido sdoria di gammello e ago: brovado io, ma
mio gammello urlava dando forde berghè sbaddeva gobba in
gruna.
Allora faddo bassare ago dendro cammello: cammello
mordo bugado gome ganoddo gon gobbe sgonfiade.
412
Gendosessandasei
Su falsa riga di messaggi dendendi a greare benessere,
sberando ghe si gugghi e si guadagni, e sobraduddo ghe si
grei anghe ber me benessere, broverò anghe io a fare
bubbligidà a mia figura in biena iniziativa imbrendidoriale
fandasiosa e greadiva...
“Gara donna idaliana gazzella, esberdo mandingo
felinide gon fame arredrada fin da dembo di bermanenza in
Ghenia dove, bovero negro, andava anghe lì in biango, di
sda gergando ber fare guello ghe brima della sdagione delle
grandi biogge fa fagogero gon fagogera, zebro gon zebra,
leone gon leonessa, babbone gon brodedda nigeriana.
Sono felinide, sgaddande, e odoro di savana (non dobo
bassaggio di mandria di gnu).
Se sei dudda un fermendo di ormoni imbazzidi solo
all'idea ghe io bossa sfiorardi gon miei labbroni dumidi,
delefona al numero cendosessandasei29.14 di ghenia....boi
mio fradello masai mi manderà bergenduale. Sgondi ber
gomidive. Rigghi bremi e godillons.
Faggio anghe sdrib levandomi gon mosse sensuali e
brovogandi gonnellino di foglia di banana e rimango nudo
gome sgimbanzè sgordigado da leone bardigolarmende
ingazzado. A buona indendidrige...
Giao ... sgrivede numerose anghe a mia e-mail
[email protected],
non
mangherò
di
risbondervi e di allegare mia fodo ribresa di nodde senza
luna in savana mendre bascolo iene ridens.”
Fandasia ghenioda senza limidi (gosa non si deve fare
ber mangiare anghe solo due basdongini findus o
sgadoledda di donno).
Due guori e una gabanna
Si dige sbesso: due guori e una gabanna.
Bosso offrire una gamionada di gabanne, a ghi vuole.
413
In Ghenia è bieno di gabanne ghe lì si ghiamano dugul,
non nel senso del duo, ma brobrio nel senso di dugul.
Sono fadde dudde gon fango e guano d'iguana e biume
di dugano e foglie di banano. Sono biene di inseddi
svilubbadi ghe arrivano ad avere anghe fino a dodigi
zambedde fornide di zoggoli e mordono gome vambiri in
grisi di asdinenza di blasma e biastrine.
Manga galdobagno berghè fa galdo di suo ber gui vai a
gagare in mezzo a savana dra iene e serbendelli non brobrio
amighevoli.
Manga anghe agua gorrende e allora vai a lago a
brendere segghio bigghiando goggodrillo imberdinende....
Gredo, frangamende, ghe sarebbe meglio baida in val
d'aosda gon moguedde alda come belo di sgimmia e
imbiando sdereo ghe diffonde musiga da bomigio, gon
segghiello gon boddiglia di liguore di goggo.
Ghiudo ogghi e immagino: admosfera romandiga gon
Baobabbobby Solo ghe ganda "Brendi guesdo in mano
zingara"...
Adoro bersone romandighe.
Erodismo ghenioda
Leggo sbesso su rivisde dimendigade in gassoneddo o
asgoldo a MaurizioGosdanzoshow vigende moldo erodighe e
mio animalesgo isdindo bergebisge l’essenza dell’arazzosidà,
dedda anghe arrabamendo, ghe aleggia dra guesdi
eggidandi messaggi e gonfessioni.
Gerde dorride desgrizioni mi ribordano alla mende
vegghi rigordi di mie brime iniziazioni sessuali gheniode gon
mia inseparabile bandegana di sedigi ghili ghe viveva gon
me in mio dugul a Nairobi dre guando ero bambino…
Rigordo ghe giogavamo a infermiera e doddore e mi
diverdivo a garezzare suoi lunghi baffoni mendre lei mi
guardava sognande sguiddendo gon un bel sorriso da
roditore a due dendoni due.
Imbarai bradighe sadomasoghisde gon mia amande
bandegana: le facevo nodi marinari alla goda e lei gemeva di
dolore e biagere…
414
Le meddevo soddo naso grosso bezzo di formaggio di
gabra ghenioda e guando lei brovava a mordere lo facevo
sgombarire imbrovvisamende e lo mordevo io facendola
soffrire: ero già un biggolo ghenioda basdardo dendro e
rimasi folgorado da induido di dandi audisdi a semaforo di
giddà idaliana dobo moldi anni guando mi ridissero ghe ero
basdardo dendro: duddi moldo induidivi idaliani!
Le regalai gombledino di foglia di banana da nodde ed
era moldo sexy la mia amiga, dudda grigia gon goda
riggioluda e ammiggande: buro erodismo ghenioda.
La mia bandegana si brese ber me una godda
mosdruosa.
Io, invece, mi bresi la lebdosbirosi e sono vivo ber
miragolo…
Boi, gome dudde le gose, anghe guesd’amore finì e io mi
bresi una godda drasgressiva ber una dolge dimida iguana
gon lunga lingua vorace, ma guesda è aldra sdoria
d’amore…
Arde bovera
Non berdo mai di visda mie origini, dra mie moldebligi
addividà, e benso ad arredare mia gabanna in villaggio a
beriferia di giddà nadale, ber guando ridornerò riggo e
famoso: Nairobi dre, villaggio duddo nuovo gon nuove
infrasdruddure e servizi aggiornadi ed effigendi.
Bassa ogni gingue minudi navedda ghe borda in gendro
giddà: beggado ghe gon guesda siggidà la navedda dendro
ganale asgiuddo la dobbiamo garigare in sballa noi
bendolari…
Dandissimi dugul, villedde a sghiera, indonagade
fresghe fresghe gon guano d’iguana d’imbordazione, fango
di brima gualidà e bambù a norma GEE (Ghe E’
Eggezionale).
Ho aggeso muduo vendennale e devo arredare ora mia
umile ma gonfordevole dimora.
Gualguno ha aggeso disdraddamende sua umile dimora
e ora bagherà ber vendanni a vuodo…
415
Mi fa ridere gongeddo idaliano di “Arde bovera” riferido
ad arredamendo: gosda un ogghio della desda e lasgia
agguirende gome bagnande su lago Viddoria girgondado da
gaimani, ovvero smarrido e gonfuso…
Gui in Ghenia arrediamo guasi duddo gon arde bovera
ghenioda: di siedi e dormi e mangi e gobuli ber derra su
sduoia bovera indreggiada di ginesdra e beli di rinogeronde
e biume di gagadua.
Ber derra è duo armadio quaddro sdagioni (nosdro
armadio è due sdagioni berghè non esisdono biù mezze
sdagioni), dua gredenza e disbensa è buga in fondo ghe è
anghe duo frigorifero ber gosa da gonservare in fresgo: non
devi farlo sabere berò a bandegane e bibisdrelli gigandi e,
gosa biù imbordande, non devi gonfonderdi gon aldro bugo
ghe serve ber duoi bisogni aldrimendi mangi male e fai duoi
bisogni sobra mandria di bandegane e bibisdrelli affamadi
ghe di sdanno fregando mais.
Eggo arde bovera ghenioda: biù bovera di gosì… e gosda
veramente bogo, a meno ghe du non voglia sduoia firmada
da grande arghideddo ghenioda Le Gorbusier…indreggiada
gon giunghi, liane e sguame di goggodrillo a sgargianti
golori di Mosghino o Dolge e Gabbiano…
Dele Ghenia
Sdo bensando, gon vulganiga fandasia imbrendidoriale
di giovane ghenioda rambande, a una drasmissione
delevisiva di gioghi a sguadre sullo sdile di “Gioghi senza
frondiere”.
La ghiamerò:”Medigi senza frondiere”.
Bardegiberanno Ghenia, Uganda, Gongo, Giad, Nigeria
e Ghana. Sono un fermendo di iniziadive e brevedo già
gioghini moldo diverdendi.
Gosdruzione di modello di audomobile gon sabbia
mobile: le sguadre, munide di salvagende a baberella e
basdone gaggia-bidone (serbende) devono fare modello di
audomobile gome fosse gasdello di sabbia, senza affogare e
sobradduddo senza fare imidazione di basdo galdo ber
alligadori voragi di balude.
416
Fil rouge: vinge gongorrende ghe bassa addraverso
villaggio abbandonado in balia di bandegane di seddanda
ghili esberde di garadè senza brendersi besde bubbonica o
golera.
Gorsa a ibbodromo gon gavalledde da sella, moldo
comuni in gambi goldivadi di Ghana. Uniga differenza è ghe
non si vinge ber ingolladura, ma ber andennadura.
Gara di daglio gabelli gon maghede: favoridi ugandesi
ber molda bradiga in animade discussioni dribali di gualghe
dembo fa…
Gara di vagginazioni dra medigi senza frondiere: si deve
baddere regord di oddogendo iniezioni andigolera all’ora di
medigo di Zambia ghe guesd’anno non gongorre berghè
mordo di dengue…
Vorrei boi meddere gualghe personaggio di variedà a
gondorno a manifesdazione sbordiva: bensavo a Banariello
ghe fa numero di marsubio, ma gui riderebbe nessuno
berghè siamo duddi biù o meno gon sdesso marsubio ghe fa
dando ridere voi idaliani.
Andrebbe forse meglio Galeazzi, gome rigedda
domenicale in drasmissione dibo “Sereno Variabile”: il
Galeazzi al forno gon erbedde.
Gon un Galeazzi al forno gon erbedde gi mangerebbe
indero villaggio masai ber dre giorni gon gandi e balli e
ringraziamendo animisda al dio dell’abbondanza ber boveri
gheniodi.
Rigghi bremi e godillons… Le ossa di Galeazzi
verrebbero boi dade in benefigenza ber gosdruzione nuova
sguola elemendare di villaggio
Bizzeria
Sdo govando mio sogno di abrire bizzeria dibiga
ghenioda.
Ho già breso gondaddi gon mio amigo di Nairobi ber
abbrovigionamendo ingrediendi dibigi ber dibighe bizze alla
ghenioda e sdo sgrivendo in buona galligafria il menu da
soddoborre a gliendi.
417
Bizza gon funghi
I funghi, moldo bardigolari di golore verde e viola,
provengono da bendigi Ruwenzori e vengono gonsumadi
brevalendemende in Ghenia da sgiamani e sdregoni medigi
in villaggi masai in oggasione di fesde e funerali.
Si vogifera ghe diano alluginazioni, ma io, a barde mio
gugino ghe si è messo a ballare fox drod gon goggodrilllo in
balude, non mi sono aggordo mai di nulla, anghe berghè
non so ballare e ero indendo a vorage bedding gon iena
ridens ghe si è diverdida assai: io meno berghè mordeva
drobbo e rideva in gondinuazione gome se soffrisse
solledigo.
Bizza gon iguana
E’la bizza glassiga di Ghenia, fargida gon iguana ghe da
sapore bardigolare.
Bizza gabriggiosa
Si fa gon guello ghe rimane in gugina, a gabriggio del
pizzaiolo: uova di belligano, iguana, gode di bandegane ghe
mangiano in redroboddega senza bagare affiddo, gavalledde
e scarabei sdergorari (sono guelli ghe sembrano olive nere)
Bizza guaddro sdagioni
E’ guella brugiada berghè da noi esiste solo esdade e fa
moldo galdo
Bizza del mandrillo
Non è bizza gon beberongino biggande ber asbirande
gobuladore idaliano, ma bizza gon vero gulo a sdrisge rosse
e blu di mandrillo, moldo gromadiga e abbedidosa, se è
d’aggordo mandrillo.
Da bere: ladde di gammello fermendado gon guano
d’iguana e dadderi, bevanda gradevole ber ghi sopravvive,
indigada sobradduddo su bizza gon funghi: gualghe gliende
riesge a gamminare su baredi o deglama a memoria indera
obera omnia di Leobold Senghor in senegalese andigo a
dembo di darandella di Malindi.
418
Boggale biggolo, medio, magnum (gol boggale magnum
viene dada anghe vasghedda vomidoria).
Rimane solo broblema di finanziadore: gualguno di voi è
disbosdo a bardegibare?
Bage
Gosì non va.... duddi drobbo eleddrigi e lidigiosi.. e
bensare che sono felige: vendudo quaddro euroconverdidori
a semaforo, boi abro ledderina e leggo gose che rimesgolano
sensibilidà di ghenioda.
E bensare ghe si bodrebbe assaborare bage inderiore
asgoldando l'emozione di guore ghe badde gome galobbo di
imbala felige berghè ha abbena drombado imbalessa.
Brobongo di sdemberare animi gon bevuda di gheniodi:
ladde fermendado di fagogero mesgolado gon guano di
drambolieri di balude e dadderi. Ber gemendare boi
brogesso di bage gonsiglierei di broseguire gon riduale
masai dendro gabanna gon movimendi ghe vengono
ghiamadi gome 'ansimare di giraffa ghe fadiga in amore gon
goggodrillo'(di gredo...).
Beh, mio barere ho esbresso e sbero sia asgoldado.
Semandiga
Sdo gomingiando ad abbrezare sfumadure linguisdighe
idaliane gergando di leggere moldo.
Mi ha golbido moldo gongeddo di 'onomadobeiga', forse
berghé anghe noi gheniodi ne faggiamo moldo uso in nosdro
linguaggio: basda leggere nosdro boeda Balazzesghi nel
brano "Rio Baobabo".
Da noi in Ghenia, ber esembio, villaggio ghe brugia ber
drobba siggidà lo ghiamiamo sfriggg, e masai sghiaggiado
da elefande imbizzarrido lo ghiamiamo sfriddd.
Bersona malada di grave infezione drobigale, senza
sberanze, non la ghiamiamo: alziamo solo ogghi al cielo,
linguaggio di gorbo.
419
Invege bambino grassoddello sberdudo in foresda e
rinvenudo da gaggiadore ghe non mangia da dre giorni lo
ghiamiamo mmmmmhhhhhhmmmmbono gon sguodimendo
di gabo e rodolamendo di ogghi umidi di gommozione,
esembio di linguaggio onomadobeigo e di gorbo.
Guando gi si agguadda diedro gesbuglio ber brobri
bisogni, invege, anghe gui gon linguaggio misdo, ghiamiamo
l'oberazione col nome di uuuuummmmmmmffffffff e
sdringiamo froge naso in buffa smorfia ber odore ghe
sembra somigliare a budrefazione di resdo di gazzella dobo
basdo di giaguaro di guindigi giorni brima.
Semandiga swaili...
Gongorso a gonservadorio
Abbena dornado ber ferie (uffigialmende rimbadriado
berghé sbrovvisdo di bermesso di soggiorno), mi sdo
imbargando in dudda fredda su garredda di mare insieme
ad aldri fradelli berghè mio amigo mi ha gomunigado ghe
Rai di Dorino ha indeddo gongorso ber bosdo di suonadore
di jembe, nosdro damburo ghenioda, nell’ambido
dell’Orghesdra Sinfoniga della Rai.
Buoi gabire se mi lascio sgabbare oggasione, io,
bolisdrumendisda valende bardigolarmende bravo nel
suonare jembe.
Jembe si suona gon mani, ammesso ghe iene abbiano
lasgiado sdare due falangi guando basgolavi gabre in
savana, aldrimendi mano, sola, obbure si berguode gon
femore di imbala, ber marge gravi e solenni, gon gubi
rindogghi e aria seria di ghenioda addolorado, obbure si
berguode gon due gosgioddi di gavalledda gigande essiggadi
ber fare jazz afrigano gon molde rullade e swing ghenioda
indervallado da esblosioni di gioia ghe gulminano in urleddi
dribali dibo: “EEEHIAAAA”, “AAAHHHAALAAAYOUUUUU”
eggedera, baddendo biedi nudi su derreno in feligidà
animalesca, evidando berò sgorbioni e vibere gornude ghe
non amano danda esuberanza.
Bianghi indelledduali ghiamano giò musiga edniga, ber
noi è musiga sgaggiadueballedinoia.
420
Ora mi imbargo gon guore gonfio di speranza…
Mi sembra di sendire musiga di leggenda di bianisda
dell’ogeano indiano, grosso suggesso ghenioda brimo in
glassifiga in Madagasgar, ma bianoforde è sgordado, nel
senso di dimendigado, a derra…
Malingonia di emigrande gon emigrania e mal di mare…
Gongorso non suberado
Gongorso a gonservadorio, dando ber gambiare, è
andado male. Eravamo ginguemila dra negri suonadori di
jembe, negri findi suonadori di jembe, gualghe biango,
rumeno o albanese, suonatore (gredo findo) di jembe, duddi
senza permesso di soggiorno, e un brofessore di jembe
(jembologo). Siamo sgabbadi a gambe levade, dibo
inseguimendo in savana da barde di rinogeronde arazzado,
ber due buoni modivi. Il brimo era commissario gon blodone
gelere ghe chiedeva dogumendi e garigava furgoni di
sbrovvisdi; il segondo era il gondraddo finalmende in
ghiaro ghe la Rai soddoboneva a suonadori di jembe. Uniga
rabbresendazione in un anno, gon unigo golbo di jembe
dado gon femore di imbala in margia funebre nuova
gombosda ber vegghia gesdione Rai ber un gombenso di due
euri al neddo di dasse: roba ghe guadagno il dobbio a
semaforo in boghe ore soddo Nadale o fesda di solidariedà a
poveri gheniodi…
Duddo da rifare dungue…
Sdo bensando di drovare bresdanome ber abrire
risdorande o bizzeria dibiga ghenioda, mio vegghio
insobbrimibile ballino.
Oldre ghe bresdanome, berò, mio sogio deve bresdare
anghe moldi euri berghè ho sbeso duddo ber
invesdimendi...
di
bandegane:
basda
gon
le
sgadoledde...invege ghe Simmen-dhalba semigiega, del vero
gibo fresgo...
421
Adozioni e dentiere
Sono biuddosdo ingavolado oggi berghè ho avudo la
folgorazione sul signifigado dell’ indendere idaliano
“adozione a disdanza”.
Italiano vuole adoddare a disdanza, indeso gome
disdanza… di sigurezza, berghè avede baura di adoddare
bambino gannibale e demede ghe se dendede a lui mano o
braggio gon affeddo ridornade a gasa monghi e
sboggongelladi.
In realdà italiano buò sdare dranguillo: bambini
gheniodi perdono dendi da ladde a due anni e dendi da
garne a guaddro anni ber garenze vidaminighe, sgorbudo e
biorrea infandile.
Meno male ghe in Ghenia esisdono omogenizzadi di
fagogero e gazzella: sarebbe dura masdigare bragiole, anghe
se i bambini bisognosissimi di affeddo si mangiano le
unghie gon le gengive.
Gi guadagnano dendisdi gheniodi ghe fanno brodesi a
buon brezzo gon dendi di iguana.
Sdavo bensando di imbordare bolveri ber bulizia
dendiere di iguana…(solida fandasia di imbrendidore
rambande)…
Obbure Masdro Lindo ber dendiere…Esisde?
Gome fissadivo ber dendiere gon dendi di iguana
usiamo invege SuberAddagg o Saradoga, guello ber la
doggia di guella gnoggona…
Ho sendido barlare di giliegi in fiore ber la brimavera…
Gui gi si berde ber baobab in fiore…
Giri in bigigledda felige gome uggello del baradiso in
baradiso senza avvoldoi affamadi e vedi solo fiori: in realdà
gobrono drongo nodoso enorme di baobab.
Guando arrivi a sendire aroma fiori è drobbo dardi:
smarrisgi dua dendiera di iguana su grande drongo e vai
avandi ber gualghe mese a semolini di miglio ghe freghi a
belligani o dugani di foresda in beriferia di Nairobi: solida
sfiga di giovane ghenioda fragile gome giovane zebroddo ghe
deve ringorrere bisgione (anghe in Idalia zebroddi inseguono
bisgione, mi bare, vero? O è gondrario?eheheh)…
422
Auguro nodde serena a idaliani: ghe abboggino
dendiere dendro bigghiere su gomodino: domaddina
gualguno, o meglio gualgosa sorriderà non abbena aberdo
ogghi e duddi gomingeranno bene giornada…
Gendro New Age
La mia imbrendidorialidà sda avendo sboggo finalmende
e un mirabile gendro newage sda ber sorgere ber benessere
sdanghi e sdanghe di benisola.
Vulganiga fandasia ghenioda mi bermedde di
soddoborre a dua addenzione (noda:do del du fraderno),
garo leddore o cara leddrige, novidà gheniode già abbligade
a gendri benessere vigino Nairobi.
Fanghi dinamigi: gon sabbie, mobili, biene di animaleddi
dra gui sanguisughe ghe brogurano benefigo massaggio in
immersione. E’ gonsigliabile salvagende funzionande dibo
Didanig.
Massaggio ghenioda Sghiandu: lo fa un mio gugino alla
londana, Bongo Roggo Siffredo, ber lei, forse ber lui, boh,
devo ghiedere a Roggo. Massaggio donifigande, defadigande,
drombifigande.
Grisdalloderabia ghenioda: si brendono duddi grisdallini di
bigghiere avudi in gambio di gongessione mineraria di
smeraldi e si massaggia desda di sdressado gon langi
ribedudi di sbollimendo rabbia ber fregadura bresa gome
benedrazione a dradimendo di gabo brango bufalo
ingagghiado ber broblemi di famiglia. Dobo oggasionale
male di desda iniziale si vedono gongiunzioni asdrali e
bianedi e gi si rigongiunge gon divinidà animisda in
abbraggio sbiriduale.
Fienagioni: direddamende in mangiadoie ber fagogeri
addomesdigadi, gon variande esglusiva di massaggio
gengivale dei suddeddi fagogeri (gon loro gengive).
423
Riflessologia ber addivazioni girgoladorie: direddamende su
dermidaio gosbarsi di miele. Garandido aumendo riflessi.
Broborrei inoldre di ridurre a misura eurobeea
idrogolonderabia: in Ghenia si bradiga gon brobosgide di
giovane elefandino.
Ber realdà idaliana broborrei giovane brobosgide di
dabiro gon sedude di due volde al dì ber ulderiori due
sedude in sdagno alligadori ber evacuazione e donifigazione
musgoli ber evidare suddeddi, bermalosissimi…
Duddo guesdo lo brevederei in realdà vigina a nadura.,
immersa
in
nadura,
a
sdreddo
gondaddo
gon
nadura…bosdo gome Sarno (va bene anghe ber fanghi) o
Golfiorido (moldo materiale ber grisdalloderabia) o delda Bo
(buono ber sabbiadure).
Ber massaggi ginesi mio amigo ghenioda ghe lavora a
Roma mi suggerisge uno ghe fa massaggi ‘ggi dua o ‘ggi
sua o ‘ggi vosdri, ma non ho gabido berghè rideva mendre lo
digeva…
New Age ghenioda
Anghe io, a volde, medido e mi sendo ghenioda new
age…
Aggiradi gon girgosbezione e brudenza in savana solo
gon duoi bensieri e evida erba alda ghe è rifugio di brango
leoni affamadi e fai addenzione a sobraggiungere di mandria
isderiga di gnu ghe gorrono sembre da gualghe barde e
galbesdano duddo guello ghe drovano a loro bassaggio…
Gura gon amore duo gorbo gome fosse sbirido, ma sdai
moldo addendo guando fai bagno in balude infesdada da
gaimani voragi : biuddosdo vai in giro zozzo e buzzone
obbure munisgidi di lungo bambù ber denere londani osbidi
di sdagno.
Risbedda sembre duoi fradelli di savana avendo
maggiore risbeddo ber guelli di dribù gannibale.
424
Sii sembre allegro nel duo lavoro a semaforo berghè di
due emorroidi non frega una mazza ad audisda idaliano ghe
gorre sembre ber bargheggio libero ingagghiado gome
fagogero usdionado da riflessi di sole su lago Viddoria.
Non fare diffigile in amore e gogli sembre brima mela,
gome dige nodo boeda ghenioda Branduardi: giovane donna
di dua dribù, giovane gazzella di basgolo, giovane gorilla di
nebbia, se g’è nebbia, duddo fa brodo ber esuberanza di
giovane ghenioda.
Abbi vida morigerada in due abidudini: boghi semafori,
boghe magghine da lavare, bogo basdo da gonsumare gon
boghi euri, boghi aggendini vendudi e boghi galgi in gulo.
Sobradduddo bogo liguore di goggo fermendado gon
guano d’iguana e dadderi.
Abbi serenidà berenne in duo sbirido, gonsiderado gome
figlio di donnaggia di male affare di duo universo obbure
orfano, e ridi sembre ghe bianchi sono dranguilli berghè di
gredono sgemo…
Brovogazioni
Mendre asbeddo gualguno gon euri ber bizzeria, sembre
mio sogno bringibale, rifleddo su brovogazioni e disgussioni
di gomunidà di web dendro alguni forum lidigiosi sbesso
bieni di indervendi violendi: drobbo bello sbeddagolo
rileggere duddo di seguido dobo due ore!!!
Anghe in Ghenia si fanno brovogazioni in forum o ghad
ghenioda. In genere barde uno gon moldo sbirido o voglia di
lidigare e medde sgorbiongino soddo sedile di aldro (noi
abbiamo gome BG - bersonal gombuder - dei bei
balloddolieri e siamo duddi soddo sdessa gabanna,
digidiamo su balloddoliere e barliamo dra noi: progresso
ghenioda).
Aldro allora dige gon messaggio su balloddoliere: “Se
sgobro ghi mi ha messo sgorbiongino soddo gulo, io
sodomizzo gon brodesi gornea di orige” (grande gazzella gon
gorna svilubbadissime), e gomingia magumba sgozzando
gallo.
425
Schizzi di gallo imbraddano derzo ghadder ghe si
offende e gomingia a menare alla giega gon affilado
maghede rombendo balloddolieri e balle a duddi.
Dobo bogo dembo duddi si sghierano gondro duddi e
vengono indrododdi in gabanna anghe demibili mamba neri
e ragni belosi in gresgendo di urla, insuldi, invogazioni a
divinidà di BG e berdide di gonnellini di foglie di banano, e
dalvolda anche di banano berghé maghede ghenioda è
moldo affilado.
Il solido anonimo, dibindo duddo di biango ber non farsi
rigonosgere, insulda brava massaia masai ghe alladda
bambino e gabra, brebara fogagge di mais e digida su
balloddoliere duddo allo sdesso dembo: “Essere inferiore a
goggodrillo baralidigo!!!”
Lei rebliga: “Vaffagogero!!!” E gosì via…
Finisge dobo bogo la seduda di ghiagghierade e si dorna
boi duddi amigi gome brima, ma di meno, berghè gualguno
lascia sembre forum o ghad offeso, o, forse, berghè non ha
biù braggini ber sgrivere su balloddoliere BG, obbure
berghè è in osbedale a Nairobi per sindomi di
avvelenamendo da sgorbiongino, obbure è sdado rapido da
guaddro iguana affamadi e da sei vampiri giganti berghè
magumba, da noi, funziona…
Ghad dipendenza
Non mi sendo bardigolarmende ossessionado dalla
ghad, forse berghè devo breoggubarmi di biù a vendere
aggendini a semaforo ber racimolare gena.
Guando sono in Ghenia fa berò biagere fare due
ghiagghiere sul biù e sul meno, sulla gaggia al fagogero di
mondagna o sulla gorde ghe si buò fare a graziosa moredda
di villaggio masai sberdudo a bendigi di Ruwenzori.
E’ evidende ghe la misura e l’eguilibrio devono avere
sembre sobravvendo: non possibile sdare duddo giorno in
ghad senza breoggubarsi di drivellare nuovo bozzo, di
brendere nuovo vaggino ber febbri drobigali, di sdanare
biggolo iguana ber gena, di indonagare con guano di iguana
dugul gon mansarda e addigo.
426
Gui, guando mi riboso dobo avere lavado vedri, se uno
gabisge limide di brobrio equilibrio allora si diverde, sembre
ghe commissario non ghieda dogumendi e du li hai sgadudi:
allora gagghi amari… o hai bordadile e ghaddi da
dragheddo ghe di riborda in Ghenia, o hai finido fino a
brossimo riendro…
Digono ghe fasgino uomo nero in ghad sia visdoso: in
realtà vivo gome orfanello a barde gualghe amiga ghe
manda solo bagini bogo gombromeddendi e bure senza
lingua…
Ghe dipendenza bosso mai avere in guesde gondizioni?
Scimmiendhal
Anghe da noi g'è grazioso sbod bubbligidario di garne in
sgadola: la Scimmienthal, danda buona garne di magago in
danda buona geladina di iguana, dibigo biaddo esdivo ghe
si aggombagna gon insalada di semolino fredda.
Sarebbe garino
Sarebbe garino, al di là dell'esdediga gromadiga e
musigale di sembligi rigorrendi manifesdazioni bobolari
senza seguidi governadivi, ghe il mondo oggidendale si
rigordasse anghe di mia gugina ghe ha l'AIDS, di mio nonno
ghe ha l'ebola, di mia sorella ghe ha la dubergolosi e di un
mio vegghio gombagno di sguola (brimo ramo) ghe ha la
febbre del Nilo.
Sarebbe anghe un bel fremido se il mondo oggidendale
riusgisse a boigoddare le muldinazionali dei diamandi, se
riusgisse a denere a freno bodendi suoi rabbresendandi
amandi di gaggia grossa di frodo, se riusgisse a disgiblinare
il benessere in broborzioni ghe si disgosdino da guelle
adduali di gaimano risbeddo a biggolo iguana ghe broduge
solo guano.
Sarebbe anghe moldo garino smeddere di fare
sberimendazioni di nuovi ferdilizzandi in agrigoldura
afrigana (ho diversi barendi gon agulei diedro la sghiena e
mia zia ha dre sise e guaddro ghiabbe).
427
Sarebbe esdremamende garino bromuovere rigerga di
aggua gon sgavi e drivellazioni (sono gingue anni ghe non
riesgo a farmi lo shamboo e boi digono ghe aggongiadura
rasda e afro sono affasginandi...in realdà sono nidi di
bibisdrelli).
Gomungue,
senza
rangore,
garo
anonimo/a
manifesdande, faggio volendieri gambio di mio ramo di
baobab o gabanna di fango gon duo gamera dinello e servizi
(anghe e sobradduddo guelli sanidari e sogiali).
Mio gugino e mio zio
Mi hanno brobosdo brogeddo di imbrendidorialidà nel
gambo dei bisgoddi a gioggolado a forma di sisedda di
donna masai, ma io non abboggo a risghio di sgondrarmi
gon agguerrida gongorrenza…
Già esisdono dolgeddi gon sisedde di donna: sono
bisgoddi ghe vendono dalle bardi di Frasgadi, vigino Roma,
e sono bisgoddi duri a forma di donna gon dre sise, come
Milano (Milano dre)…
Bodrei essere aggusado di blagio e bodrei avere
revogado il bermesso di soggiorno ghe è già guasi
agonizzande…
Ho idea ghe guesda brobosda barde da malevolo amigo
di onorevole Borghezio.
Eggo allora induizione, sgaddande gome musdelide, di
ghenioda rambande: faggiamo bisgoddo gon gulone anzighè
sisedde, e io bresendo modelle, mie gugine di villaggio
Masai, Abuanua e Gadia (guesd’uldima ha nome eurobeo
ber emangibazione di mia zia Badanga).
Mie gugine hanno dibigo gulone ghenioda ghe funge
anghe da davolino ber saloddo, dove buoi abboggiare
bordagenere a forma di biggolo villaggio durisdigo di
Malindi, guaddro bigghieri e una boddiglia di liguore di
ladde di cammello fermendado gon guano d’iguana e
dadderi.
Unigo problema bodrebbe essere l'edà mie gugine, una
di dodigi e una di guaddordigi anni, ma, si sa, gui da noi
donne svilubbano moldo bresdo…
428
Ne sanno gualgosa vegghi borgoni ghe freguendano
zone semibuie vigino gimidero gon drenda euro in bogga ber
fare drombo-drombo in magghina o diedro siebe, alla
ghenioda, nella bosizione della “sveldina di savana” ber
sobraggiungere di mandria bufali, inferogida gome gazzella
di bolizia …o gondrario…
Obbordunida’
Ho seguido disgorsi su bubbigidà e , da bravo giovane
ghenioda rambande, ho snuffado la bossibilidà di
guadagnare gualghe euro.
Vengono offerde, infaddi, molde bossibilidà di lavoro a
egsdragomunidari di golore in gambo bubbligidario…
Bodrei fare goldivadore di gaffè gon grande gabbello di
baglia gon dudda la forfora ghe mi gade addosso e boi va a
finire nel gaffè…(Gaffè Segafredo)
Bodrei fare gardone animado di mendine, gon guandi
bianchi alla Al Jonsdon…(Mendine Dabù)
Bodrei fare giogadore di basghed e, modesdamende,
gome faggio girare balle io…(Nighe)
Bodrei brendere bosdo addiriddura di maggiordomo gon
ladde della Lola: lui è solo biango e io, invece, gon frag
biango e gombordamendo deferende, darei una noda di
esodiga eleganza gon biggolo bambino idioda ghe fa
indendidore di ladde insieme a mamma gidrulla…e boi,
deddo dra noi, mi biagerebbe gonosgere bibligamende
guesda Lola…mi sa ghe è uno sghiando….
Se
gualguno
vuole
suggerirmi
bravo
degnigo
bubbligidario per mia sfolgorande fudura garriera…
Brimavera
La brimavera s'avvigina e i frungoli gomingiano a fiorire
su guangiodde flaggide di ragionieri e geomedri ghe esgono
da ledargo...
La giraffa addorgiglia gollo a bidone (bidone serbende,
non bidone gassoneddo) berghè è miobe, la zebra fa amore
429
gon gnu lidigando ber ghi deve fare masghio e rinogeronde
fa amore gon land rover di guardia di bargo.
Iena fa da sè e ride anghe...sda sdubida.
Io invege gorrerei felige verso gollina a ballare danza
brimaverile gon gorilla nella nebbia, ma in realdà andrei ber
fregare banane a gorilla nella nebbia berghè ho danda fame.
Allora mi arrangerò gui gon arangino o bezzo di bizza
guadagnado gon duro lavoro di oddo ore a bulire vedri
magghine a semaforo, duddi sborghi di bava di
rinogeronde....
Basgua
Bassada basgua anghe gui in Ghenia dove, in addesa di
nuovo bermesso falso di soggiorno, ho indrabreso nuove
iniziadive in mia badria, da bravo giovane rambande jubbie.
Durande periodo basguale mi sono indusdriado a
gommergiare anghe io uova gome da dradizione.
Gioggolado berò drobbo garo da guesde bardi, e allora
ho faddo gommergio di uova basguali di belligano, gon la
sorpresa berò, ghe gredi…
Il gasino è sdado infilare sorpresa in uovo: meddevo
dendro belligano orologi da bolso ghe vendo normalmende a
semaforo e ghiudevo enorme beggo gon denaglia.
Il problema è di assigurarsi ghe orologio esga gon uovo
e non senza…
Infaddi miei orologi sono duddi impermeabili e li ho
dovudi lavare molde volde ber usgida difeddosa…mamma
mia gome sborga belligano!!!
Boghi affari gomungue: gui in Ghenia si è moldo
arredradi e gerde innovazioni sono dure da aggeddare.
Gui va di moda biggolo abede di Ruwenzori gon neve
finda fadda gon forfora di gabodribù e gon balle di iguana
addaggade.
Infaddi ho gambiado subido lavoro: drobba fadiga e
bogo risuldado.
430
Barista
Ho dovudo drasferirmi di gorsa da Ghenia a Maroggo
ber gualghe dembo: venivo ringorso da belligani inferogidi
gon banza biena di orologi da bolso ber mie uova basguali
ghe digevo ieri.
In Maroggo non mi sono berso d’animo e ho aberdo bar.
Anghe gui ho faddo sfoggio di broverbiale fandasia di
giovane ghenioda rambande.
Ho invendado, su falsariga del gaffè marogghino ghe
bevede in Idalia, il gaffè norvegese.
Faggio gaffè, aggiungo panna di ladde, una
sbolverizzada di gagao e moldi biggoli drugioli di legno di
abedaia di Norvegia.
Non biage moldo e mi sa ghe devo ghiudere bar e
gambiare di nuovo addividà.
431
MENU VEGETARIANO
Il possente incrociatore sconosciuto di circa duecento
chilometri di lunghezza stazionava sopra il Mare della
Tranquillità della Luna in attesa di una risposta da parte
della Terra alla richiesta di un contatto tra popoli che
ancora non si conoscevano.
L’imperatore Honofrius, dalla sua residenza di Ulàn
Bàtor in Mongolia, entusiasta come un ragazzo, aveva
convocato l’astropsichiatra Grimp con il grande Olaf, il più
titolato chef della Terra ed ora ascoltava interessato la
relazione molto articolata di Grimp.
“…Eccellenza, è un popolo sconosciuto, il protocollo di
accoglienza dovrebbe essere molto semplice, con uno sforzo
collaborativo…diciamo alcuni terrestri cavie per i loro studi
da imbarcare sul loro incrociatore…una tecnovisita guidata
di qualche giorno sul nostro pianeta, escluse beninteso le
zone strategiche….discorsi brevi …un pranzo di accoglienza
semplice e vegetariano per non urtare alcuna suscettibilità,
un menu denotante pacifismo, estetica, operosità, assenza
di violenza…”
Interruppe l’analisi il grande Olaf:
“Avrei elaborato , con il suo permesso, Eccellenza, un
menu per l’occasione…”
Honofrius si volse interessato verso di lui.
“Comincerei con un morbido Flan di carciofi di Oft in
fonduta di soja, una tenera Quiche di Spinaci di Plutone
spolverizzata di zenzero delle tre Lune.
Continuerei con dei tagliolini impastati con timo ed erba
cipollina di Hord conditi con un delicato sugo bianco di
Aspargi di Fhock e un risotto con radicchio dei Soli
verdi…Per finire proporrei un dessert di frutta mista
dell’ottava galassia innaffiata dal prezioso vino di Gnur.”
Honofrius e Grimp avevano gli occhi luccicanti di
desiderio…
L’imperatore riflettè pochi secondi, poi diramò l’ordine
di organizzare la cerimonia di accoglienza e comandò che
venisse trasmesso il protocollo, per una cortese
approvazione, all’incrociatore.
432
Cominciò così la guerra che dura da quattro anni.
L’ambasciatore dell’incrociatore era, si rivelò poi, un
Aspargo del pianeta Jaw e gli Aspargi di Fhock erano suoi
simili che avevano colonizzato quel pianetino per alleggerire
l’incremento demografico di Jaw.
Sono quattro anni che veniamo bombardati da polline
radioattivo che ci fa cadere come mosche dopo devastanti
enfisemi e sarcomi ai polmoni: io stesso sono quasi alla
fine, ma non posso trattenermi dal ridere ancora oggi al
ricordare che l’Imperatore Honofrius, con un macabro senso
di umorismo vegetariano, fece giustiziare pubblicamente
Grimp e il grande Olaf mediante penetrazione opercolare
con ananassi di Xandar, più lunghi e sottili dei nostrani,
ma provvisti di spunzoni urticanti di silicio molto taglienti
ed affilati.
433
TUTTO LO SBRANG MINUTO PER MINUTO
SE LA TUA SQUADRA DEL CUORE HA VINTO,
GRATIFICATI CON UNO SQUISITO BON BON AL
CLHOROCIOCK DI MASTROLINDT,
IL VERO CIOCCOLATINO FONDENTE DELLE FONDERIE
DI VANADIO DEL SISTEMA DI CASSIOPEA.
Gentili spaziospettatori di “Tutto lo sbrang minuto per
minuto” buon collegamento spaziotemporale.
Il vostro alchoolandroide K-PizzUL14 vi ringrazia per la
sintonizzazione telepatica sull’evento sportivo dell’anno
luce: la finale di sbrang della Coppa Galattica Occidentale
tra le due formazioni di astronavi più accreditate al
momento, cioè i gialloblù di Vega contro i bianchi della Via
Lattea.
Vi ricordo che l’incontro, secondo le nuove regole della
Federazione Interstellare Gioco Sbrang, perfezionate sulla
falsariga sorprendentemente profetica di un antichissimo
rozzo gioco terrestre denominato calcio, va avanti fino alla
totale eliminazione degli avversari che devono essere spinti
a cannonate laser, cozzi e qualsivoglia sporca tattica, verso
le due porte ai bordi dell’immenso quadrato stellare, come
da antichi resoconti di memorabili archeologici derby tra
Avellino e Napoli, Roma e Lazio, Brescia e Atalanta,
preistoriche squadre del periodo terrestre maricolocostanziano.
Le due porte, provviste di sensori corrosivi all’acido
lippico, secondo le più avanzate novità tecnologiche di
Arturo, sono due buchi neri di ampiezza regolamentare che
dissolveranno i malcapitati liofilizzandoli per il prossimo
sbrang mercato di quarta serie della dimensione successiva.
Le riprese olotridimensionali sono della squadra
Vhitherb4, capitanata dal regista NazBalan di RAIMED-804,
del magnate SylBerl del pianeta Knorr…
Ma prima della nuclearizzazione d’inizio, un breve spot
pubblicitario….
434
DONNA, DI QUALUNQUE PIANETA TU SIA, NON
PERMETTERE CHE IL TUO LUI FRUGHI CON LE ANTENNE
O I TENTACOLI NELLA TUA BORSA SEGRETA DI
PERSONALPIACERE.
DOTATI DI TAGLIOL, L’UNICA TAGLIOLA VIVA PROVVISTA
DI DENTI E LAME ROTANTI CHE PUO’ DIFENDERE LA
TUA PRIVACY SELETTIVAMENTE.
DA OGGI CON PASSWORD PERSONALIZZABILE.
E
rieccoci
in
trasmissione
telepatica,
amici
spaziotelespettatori, per le fasi salienti di questa
appassionante finalissima.
Si vocifera di stratosferici premi partita in caso di
vittoria, da parte degli sponsors delle due squadre: la Sfrixx,
olii per macchinari, fritture e penetrazioni, che sponsorizza
Vega, e la Granarholl, produttrice del latte di berlutz
monomammelluto digeribile ed enzimizzato, che sponsorizza
i bianchi della Via Lattea.
Si ha anche notizia, però, di qualche velata minaccia di
vaporizzazione presso le colonie ferrose di Zagyts, in caso di
sconfitta, neanche si fosse nell’antichissima selvaggia
Colombia del pianeta Terra del 2005 o in situazioni passate
di sbrangscommesse gestite dalla mafia di Aldebaran.
Bene: partiti.
Lo spazio di gioco è in condizioni ottimali senza alcun
passaggio di meteoriti e le condizioni climatiche sono
eccellenti con una temperatura variabile tra i duecento
gradi sotto zero e i settemiladuecento di bollore doppio
brodo.
Arbitra il calvandroide CyberColl coadiuvato da due
marsupiali a pedali della costellazione del Cigno come
guardaorizzonti e dal quarto polipone di Alpha Centauri sig.
P alla Paresta.
Eccoci nel vivo dell’azione: partita tonica e idrogenata.
Vediamo l’incrociatore di Vega, sbrang d’oro del parsec
21415, supportato da due dragamine subatomici, che sta
tallonando una corazzata bianca della Via Lattea che è in
evidente difficoltà, probabilmente per una turbina
435
menischica non a punto, come ci suggerisce il nostro
consulente ortopedemeccanico.
La stanno spingendo verso il buco nero con blandizie
varie e promesse di riparazioni, ma ecco che
improvvisamente
il dragamine più vicino spara due
rampini che si conficcano negli occhi del pilota della
corazzata avversaria.
L’arbitro, il calvandroide CyberColl, il più qualificato
nelle ultime graduatorie di merito, dopo avere effettuato un
‘replay’ delle sue settantacinque moviole olografiche
tridimensionali dalla sua postazione giroscopica, lascia
correre tra i fischi telepatici, non di meno assordanti, del
pubblico assiepato sugli asteroidi circostanti gremiti in ogni
ordine di posti.
Prevedo un dibattito infuocato, con lanciafiamme al
butano toluetico di ultima generazione, nelle interviste post
partita.
Il vascello è senza guida e viene praticamente spinto
dentro
il
buco
nero…Ecco…Ecco…GOGOGOOAAAAAAALLLL!
La corazzata bianca sta scomparendo disintegrata dagli
acidi lippici dei sensori e dall’antimateria.
Ricomparirà nella dimensione contigua, svalutata di
parecchi dob, con un equipaggio da ricostruire
psicologicamente…e non solo…
Rivediamo l’azione al ralenty con commento dell’esperto
di Zululandroid, il grande ospite, con noi, Bisck-tènghiu
(scorreranno anche sottotitoli alfanumerici e geroglifici
startrekkiani di traduzione simultanea). Altro consiglio della
regia di pochi cybernanosecondi…
PER L’ARTURIANO CHE NON DEVE CHIEDERE MAI
REGALATE IL NUOVO INCENERITORE STORACH A
SCOMPOSIZIONE FOTONICA… NON TRADISCE MAI E
TUTTO RIDUCE IN CENERE
Continuiamo la Spaziocron…
436
INTERROMPIAMO LE TRASMISSIONI PER UNA EDIZIONE
STRAORDINARIA CON UNA NOTIZIA CHE CI PERVIENE
ORA IN REDAZIONE DALL’AGENZIA ANSIA: SCOMPARSO
IN AUTODISTRUZIONE TOTALE L’INTERO SISTEMA
SOLARE DI KOPERNIC.
UNA ESPLOSIONE NUCLEARE INIZIALE E’ STATA
AVVERTITA IN UNA LOCALITA’ SPERDUTA DI NOME IRAQ
SUL PIANETA TERRA…
L’EPISODIO HA GENERATO ALCUNE REAZIONI DI
RISPOSTA E NUOVE ESPLOSIONI NUCLEARI SI SONO
AVVERTITE IN LOCALITA’ A NOME AFGHANISTAN DELLO
STESSO PIANETA.
QUESTI ULTIMI EVENTI, COME SI LEGGE DAL
COMUNICATO, HANNO PROVOCATO UNA REAZIONE A
CATENA, CON INTERAZIONE CHIMICA INCONTROLLATA
DI
ENZIMI
DI
PERMALOSINTEX
LIBERATISI
NELL’ATMOSFERA DEL SISTEMA SOLARE DA NON
MEGLIO IDENTIFICATI LABORATORI CHIMICI SEGRETI,
ED HA FATTO PROGRESSIVAMENTE ESTINGUERE UNO
AD UNO TUTTI I PIANETI DEL SISTEMA SOLARE CON
ESPLOSIONI FOTONICHE DEVASTANTI E TOTALI…
IL GOVERNATORE DELLA GALASSIA CENTRALE HA
ESPRESSO IL SUO DOLORE CON UN EONE DI SILENZIO
PER L’ACCADUTO MANIFESTANDO L’INTENZIONE DI
PROMUOVERE UNA SOTTOSCRIZIONE INTERPLANETARIA
PER LA RICOSTRUZIONE ARTIFICIALE DELL’INTERO
SISTEMA SOLARE, ANCHE SE IN SCALA RIDOTTA
GULLIVERIANA PER NON CORRERE DI NUOVO INUTILI
RISCHI.
IL PONTEFICE, PAPA ASIMOV IV, PER FORTUNA IN
VIAGGIO DI PELLEGRINAGGIO SU ORIONE, HA
IMPARTITO UNA BENEDIZIONE INTERSTELLARE PER I
DUECENTOTTANTA MILIARDI DI VITTIME E SI E’ FATTO
PARTECIPE
DEL
DOLORE
DELLE
GALASSIE
CIRCOSTANTI,
PERALTRO
USTIONATE
DALLE
RADIAZIONI DELL’ESTINTO KOPERNIC.
HA POI INVITATO TUTTI I POSTCRISTIANI DI RIENTRO
PARAEVANGELICO ALLA PREGHIERA E ALLA PENITENZA.
437
TRA QUALCHE PARSEC SINCRONIZZATO SEGUIRA’, IN
COLLEGAMENTO TELEPATICO A GALASSIE UNIFICATE,
UN APPROFONDIMENTO DELLA DRAMMATICA NOTIZIA,
NELLA TRASMISSIONE “STARGATE TO STARGATE” DI
ANDROIDE VESP-8000, CON QUALIFICATI OSPITI PER UN
DIBATTITO DAL TITOLO “VAGHE STELLE DELL’ORSA”…
438
URSUS E URSULA
Un distratto magazziniere soprapensiero accatastò,
insieme e alla rinfusa, le pizze di due pellicole pronte per la
distribuzione: “Ursus nelle catacombe dei cristiani” e
“Ursula vergine da un orecchio”.
Fu tratto in inganno, probabilmente, dall’uniformità
anonima della scritta a pennarello nero sulle pizze, URS, e
da una certa assonanza delle due case produttrici, la San
Paolo per Ursus e la San Pauli per Ursula.
Si perseverò nell’errore per l’inesperienza di due
superficiali macchinisti, quello della sala luci rosse vicino
alla stazione, e quello della sala parrocchiale.
Costoro incollarono pizze miste per il loro proiettore
senza accorgersi delle differenze di contenuti.
Nel cinema a luci rosse, un fumoso bordello per soli
uomini, dodici o tredici spettatori con un impermeabile
sulle ginocchia, anche se era agosto, dopo venti minuti di
promettente proiezione con una generosa Ursula molto
disponibile, cessarono di massaggiarsi lo scroto o di agitarsi
il pirillo, sorpresi da un enorme marcantonio che si
aggirava in bui cunicoli con una torcia, tra teschi e vecchi
macilenti.
Uno degli spettatori, unica eccezione, continuò nella
sua pratica vellicante sperando in una qualche sorpresa
erotico-necrofila…
Nella sala parrocchiale, invece, tra suorine giovani e
gentili, una turba di ragazzini chiassosi faceva il tifo per
Ursus fischiando all’indirizzo del cattivo centurione in uno
sbattere di sedili di legno e di scoppi di gomme da masticare
in bolle appiccicose.
La proiezione, più tardi diversa, proseguì, ma per poco,
in via eccezionale, sul culone nero della madre superiora
che s’interpose isterica tra i ragazzi e lo schermo mentre
scorrevano sequenze assolutamente sorprendenti.
I piccoli risero eccitatissimi commentando la vista di
certi “pistolini”, eufemismo infantile, che in realtà
apparivano, in primo piano, come gigantesche murene.
439
Quattro ragazzine furono traumatizzate e germinò in
loro, da allora, un primo confuso convincimento di scelta
lesbica nella vita, soprattutto la biondina slavata con le
treccioline da Pippi Calzelunghe, che se le tirò con forza e
con gli occhi sbarrati, perduta dietro insospettate evoluzioni
accompagnate da urla e singhiozzi animaleschi.
Quel giorno le proiezioni furono sospese.
Il necrofilo ottimista ci rimase peggio di tutti.
Un magazziniere e due macchinisti di proiezione sono
tuttora disoccupati con pessime referenze.
Ancora ride il commissario che accolse i due esposti…
440
TI SPIEGO DI UNA TETTA INTERMITTENTE
Nel duemilasessantaquattro qualche diabolico ed avido
spirito commissionò una ricerca bizzarra nel campo della
genetica.
Tra la gente comune non trapelò nulla, ma qualche
addetto ai lavori assistette alla nascita di un nuovo
fermento d’idee atte a sovvertire il sistema con nuove
conoscenze e applicazioni pratiche.
Circa dieci anni dopo, con un bagaglio enorme di
sacrifici, tentativi, sperimentazioni su cavie ed umani e
spirito di abnegazione di molti ricercatori, si ebbe il primo
timido risultato.
Il piccolo Jonas nacque nella confortevole e carissima
clinica privata di Filadelfia “SempresialodatoHenryFord” e
fu il primo parto della nuova scienza.
Pesava tre chilogrammi e duecento ed era vispo e
rubizzo.
Aveva una bella scritta vivace sul pancino deturpato
dall’orrendo mozzicone di cordone ombelicale: “Fatti una
bella bevuta di X”.
I suoi genitori, ingordi di notorietà e bisognosi di
sostegno economico per diversi mutui, avevano avuto
l’assicurazione che, dopo due o tre mesi al massimo, con
opportuni lavaggi a base di sapone neutro, la scritta
pubblicitaria sarebbe scomparsa, ma non senza un
deflagrante impatto su parenti e vecchie zitellone che
notoriamente baciano il pancino dei bimbi appena nati
facendo curiosi versi da tacchino in amore.
Così fu.
I genitori di Jonas ritornarono nell’anonimato, dopo
avere sfruttato il famoso quarto d’ora di celebrità di Wharol,
carichi di dollari e con una storia da raccontare ai vicini di
una nuova villetta nell’assolata e anestetica Miami.
L’eccezionalità della prima sperimentazione pratica
divenne poi il quotidiano abitudinario con l’ingresso a
divorare la grande torta del mercato, prepotente eppure
suadente di fruscianti bigliettoni, da parte di tutte le altre
multinazionali.
441
Bimbi e bimbe esposti ad un più alto rischio di
mortalità per congestione o polmonite da freddo, ma coperti
di congrua assicurazione, giravano col pancino scoperto
anche a dicembre.
I soliti ricercatori rampanti, nel frattempo, avevano
definito diverse varianti nella presentazione coreografica del
messaggio: fosforescenza, intermittenza sottocutanea come
una luce al neon, scorrevolezza del testo come ad un teatro
di Broadway, effetto metallizzato, solarizzato, effetto…e…
Turbe di genitori raggianti, su l’ultimo modello di
familiare a quattro ruote motrici, sgomitavano per nuovi
‘talkshow’.
Le ciambelle, tuttavia, si sa che non riescono sempre col
buco…
I coniugi Wimple, per esempio, dopo l’ennesimo lavaggio
del pancino del loro bimbo Barth, si cominciarono a
preoccupare e contattarono un avvocato: il piccolo aveva
ormai quattro anni e mezzo e la pubblicità di una popolare
marca di profilattico cominciava ad essere imbarazzante,
anche per l’imminente ingresso del bimbo all’asilo.
Qualche ricercatore fornì ai committenti, agitati da
possibili risarcimenti stratosferici, una teoria poco
rassicurante: gli anticorpi si erano adattati ed avevano
riconosciuto, alla fine, come patrimonio naturale genetico,
la scritta pubblicitaria ottenuta con la manipolazione dei
famosi bastoncini genetici in laboratorio, e difendevano il
vistoso messaggio pubblicitario, riconosciuto appunto come
patrimonio genetico, dagli aggressivi lavaggi esterni.
Si susseguirono alcuni mesi di panico e si
moltiplicarono accordi sotterranei tra multinazionali e
genitori avidi ed opportunisti silenziosamente minacciosi.
Poi, un bel giorno, il solito rappresentante dell’ingegno
umano ricco di fantasia e di iniziativa fece qualche
esperimento nel suo laboratorio e trovò la quadratura del
cerchio: uno spostamento di mira dalla genetica al semplice
universo della sanità.
E’ dal duemilasettantasei che la pubblicità è entrata
prepotentemente
nel
campo
della
sanità
con
442
l’organizzazione e l’efficienza tipica del nuovo capitalismo
planetario permanente.
I genitori dei bimbi danneggiati dalle dermolocandine
permanenti furono liquidati con pochi piatti di lenticchie
come il giusto risarcimento per un semplice incidente di
percorso che fu camuffato, in seguito, come un qualche
tatuaggio eseguito da un cinese depresso e ubriaco.
I committenti dei nuovi inserti pubblicitari pianificarono
la loro definitiva campagna promozionale.
Si riuscì a sponsorizzare protesi ortopediche, calotte
craniche, occhi di vetro, arti artificiali, siliconi e ogni altro
di paraumano e sintetico in una canalizzazione ordinata
verso una foresta inimmaginabile di postille contrattuali,
assicurazioni, prevenzioni e risarcimenti con tabelle e
tariffari precisi e legiferati.
Oggi, dopo un primo stato di perplessità scandalizzata
da benpensanti di fronte alla novità, nessuno più trasecola
se in un bar un occhio di una persona qualsiasi, quello di
vetro, si illumina come un semaforo in un “beep”
gracchiante robotico che invita a bere una aranciata.
Nessun passante si meraviglia più di vedere una calotta
cranica in argento, non più coperta da un pudico
parrucchino, per contratto, che abbarbaglia con riflessi di
luce e una scritta scorrevole in carattere “verdana bold” per
pubblicizzare la marca di una cera per mobili e argenteria.
Nessun amante sobbalza più nel palpare una
prorompente soda tetta parlante con voce di tonalità rocouterino-sintetico-lussuriosa, luminescente ad intermittenza
come una palla natalizia, che presenta la propria qualità di
maneggevolezza e morbidezza elastica come se fosse stata
riempita di dieci piani di carta igienica.
Valvole mitraliche e ‘pacemakers’ cantano canzoncine
mielose e ilari sullo stile del giurassico Trio Lescano, colle
rime “cuore-amore” e col nome della ditta produttrice, e
gambe di legno o braccia di resina chiedono in giro, con
voce metallica entusiasta proveniente da qualche piccolo
marchingegno miniaturizzato, se hai mai provato il
meraviglioso aroma del caffè sintetico Ics o la splendida
zuppa di cereali liofilizzati transgenici della ditta Ipsilon.
443
Il problema, da etico che era all’inizio, si è ormai risolto,
con il contemporaneo superamento di qualche difficoltà
economica da parte dei manifesti viventi, e si sta ora
spostando sul piano più squisitamente estetico e di sociocomunicazione per un fine ultimo e solo di successo di
vendite e aumento di consumi.
Il problema, ormai, appartiene ai tecnici, ai maestri di
pensiero pubblicitario.
Ci sarà da lavorare ancora molto e sodo per questa
nuova filosofia della pubblicità e molti aggiustamenti
dovranno essere praticati in corsa per inesperienze nella
conoscenza del nuovo terreno di battaglia.
E’ evidente, infatti, che l’effetto commerciale di un
messaggio deve avere anche un suo punto di penetrazione
nell’immaginario dell’osservatore, ma è altrettanto ovvio che
il pubblicizzare mazze da baseball o trapani a punta
rinforzata o rossetti o carte bancomat da inserire
nell’apposita fessura, con una locandina rumorosa o a
colori vivaci o fosforescente, però su un gluteo, può fare
ottenere risultati commerciali dubbi, se non addirittura
recessivi…
444
NOTARELLE DI COSTUME – IL CITTADINO CHE
PROTESTA
Inquadrare in una notarella di costume o in una
similseria analisi sociologica la categoria del “cittadino che
protesta” è impresa ardua per la miriade di sfaccettature
che possono notarsi nell’insieme degli atteggiamenti che
costituiscono la figura del protestante.
Cominciamo con il dividere, per comodità analitica, la
grande famiglia in due grandi sommari tronconi:
A) - “cittadino che protesta” di conseguenza, di rimbalzo,
come reazione ragionevole ad un torto subito da un
interlocutore vivo e vegeto in carne ed ossa nell’ambito di
una situazione concreta.
E’ il protestante banale, normalmente e umanamente
reattivo, spesso civilissimo e tedioso, talvolta fregato alla
grande, che trova ospitalità in “Mi manda Raitre”, caparbio
nel fare valere le sue buone ragioni con tattiche che si
perdono tra i meandri di corridoi di palazzi di giustizia,
scartoffie, farraginose lungaggini burocratiche, esposti,
denunce, enti nazionali di protezione del consumatore o
degli uccelli o degli animali in genere, telefoni verdi, rosa,
gialli, blu, arcobaleno, scioperi della fame, sit in,
manifestazioni varie compresi i girotondi e, solamente in
rarissimi casi e a livello pressocchè interamente individuale,
colpi di pistola o di accetta, o ancora più raramente,
suicidio a mezzo falò tipo vecchio bonzo di Saigon o con
volo a planare dal Colosseo.
E’ un gruppo che è visto con molto interesse da avvocati
e commercialisti che possono spremere ingenti risorse
energetiche espresse in euro per piccole o addirittura
insignificanti questioni di principio che, come tutti ben
sanno, sono quelle che portano alla vera rovina, non
soltanto economica.
Questo gruppo, a mio parere, è scarsamente
interessante, nell’ambito della nota
di costume
riguardante l’aspetto ‘naif’ della protesta, e lo salterò
tranquillamente anche se con qualche piccolo rimpianto nel
445
mancato approfondimento di quelle rare estreme reazioni
cruente da cronaca nera di “Studio Aperto” o risibili tra uno
zapping su “C’è posta per te”, “Forum” e “la citata “Mi
manda Raitre”
B) - “cittadino che protesta” per missione sociale, pittoresco
ed assai più interessante, convinto della teoria del
miglioramento della società nella protesta per il fine della
pura e sola protesta, bartaliano o sansonico nei significati
più assolutistici, fazioso, senza paure o tentennamenti di
fronte a possibili consequenziali bagni di sangue o, quanto
meno, reazioni eufemisticamente scomposte.
Questo cittadino che protesta per una missione e per
una vocazione, questo martire dell’idea condominiale o dello
sfascio politico nazionale o della crisi economica globale, si
divide, a sua volta in diversi sottogruppi che possono
denominarsi nei modi seguenti:
1 - protestante che paga le tasse.
2 - protestante secondo il quale l’intero universo sta
congiurando su di lui.
3 - protestante galvanico, di puro e semplice riflesso
incondizionato.
Tutti e tre i sottogruppi hanno una caratteristica
comune: quella di incarnare, nel soggetto estrinsecante le
proteste, una prerogativa di assoluto tuttologo informato su
quasi tutto lo scibile umano con una immediata dialettica a
base di intercalare del tipo: “Sa cosa le dico?” “Di questo
passo…”, “Non se ne può proprio più!”, “Dipendesse da
me…”, “Non esistono più le mezze stagioni”, “Ma senti cosa
mi tocca ascoltare…”, “Mi faccia il piacere…” e l’ipocrita
interiezione “Esclusi i presenti.” ed altre varie ed eventuali
tra cui, ora che mi ricordo, la minacciosa “Se comandassi
io…”, che evoca sanguinosi ‘pogrom’ e pene corporali.
Integra inoltre il tutto con l’accenno quasi sempre
puntuale ad un facoltoso cugino o importante conoscente di
un amico che sa, dell’argomento trattato, sempre di più di
tutti (cugino dell’autista di Agnelli, nipote della colf filippina
446
di Pierferdinando Casini, ex commilitone nel reparto
assaltatori dell’idraulico di Valeria Marini, etc., etc.).
Tanto maggiore è l’ignoranza e la superficialità
epidermica nell’affrontare un qualsiasi tipo di argomento e
tanto maggiore è la sicumera con cui si snocciolano pareri e
opinioni immodeste, prive di approfondimento professionale
pestando, spesso e soprattutto, code a congiuntivi e
condizionali.
Capita, così, di ascoltare il pontificare di protesta senza
appello o attenuanti generiche di gente che pensa che
aramaico sia un clown della vecchia TV dei ragazzi,
Scaramacai, e sanscrito un santo da festeggiare al primo
novembre insieme a sanculotto e Santippe.
Nulla da eccepire sull’ignoranza: è un difetto
sopportabilissimo come tanti altri e nessuno ne è
completamente esente. Credo che
sia
per tutti
insopportabile, però, l’ignoranza travestita da sapienza,
soprattutto nella polemica di una protesta: quest’ultima
presuppone, in genere, un abito carissimo, da carnevale
veneziano, ed invece viene presentata con un volgarissimo
‘pret à porter’ confezionato con due straccetti presi a
recupero, roba da nozze con i fichi secchi…
IL CITTADINO CHE PROTESTA PERCHE’ PAGA LE TASSE
Ha una diffusione che è pari a quella della gramigna o
di un condono fiscale.
E’ abbastanza aggressivo, seppure soltanto a parole,
perché è convinto di essere nel giusto perché paga le tasse e
quindi assolve i suoi doveri di bravo cittadino.
Polemizza su tutto ed in continuazione e pretende il
rispetto di chi enuncia verità sacrosante nonostante esista
il vecchio detto che la ragione si dà ai cretini: a questa
obiezione risponde di costituire l’eccezione alla regola,
perché non si sente poi totalmente stupido, forte di una
pregevole perizia nel compilare le parole crociate di
Batterzaghi.
447
In realtà si sente intimamente depositario del Verbo e
carezza l’idea di essere rappresentato come un roveto
ardente.
La sua protesta, quindi, assume un tono astioso ed
apocalittico da crociata o da missione per salvare il mondo
occidentale, ed in casi di presunzione illimitata, anche
orientale, da soprusi o storture o quant’altro di negativo che
possa provenire da mentalità disorganizzate e distorte di
tutto il pianeta e oltre.
Abbisogna di un pubblico per coinvolgere i più
disponibili e fare proseliti.
Prolifica in ogni coda o fila: da quella all’apertura di un
supermercato, con il carrello pronto alla sgommata iniziale
per la ‘pole position’, a quella davanti ad un ufficio postale o
ad una banca o ufficio reclami amministrativo, a quella per
qualche liquidazione o saldo con guardia giurata che
disciplina il traffico, che viene attaccata da una forte
emicrania all’individuazione del nostro.
In tutte queste occasioni sacramenta moralisticamente,
come gustoso antipastino introduttivo, giusto per tastare il
polso dei presenti, sul rispetto degli orari, con una taratura
di tolleranza di otto secondi, anche se, spesso e volentieri, è
un nullafacente o un pensionato con molto tempo libero o
un personaggio produttivo che è in ferie o sta bigiando il
lavoro come un volgare studentello segaiolo.
A volte è addirittura un personaggio produttivo che è
sgusciato furtivamente via dall’ufficio come un ladro
vaioloso per fare una spesetta abusiva che verrà nascosta
nel portabagagli dell’auto.
Si intravedono, dall’altra parte del vetro, impiegati,
commessi, cassiere che scherzano amabilmente tra loro e
ridono e (ohibò) fumano e il nostro si adira come una biscia
con una progressione esponenziale che partendo dall’orario
da rispettare, anche se mancano dodici minuti all’apertura,
si concretizza e si affina in sottili analisi esteticoantropologiche-tecniche sul trucco pesante delle cassiere
che sembrano delle troie, sui carrelli mezzi rotti per colpa
degli zingari, sulla poca freschezza degli ortaggi o del pesce
al mercurio in un crescendo leso-coronarico che sfiora la
448
diffamazione in accese definizioni del personale come massa
di pelandroni parassiti fino alla perdita totale dei freni
inibitori in una esplosione isterica con epiteti del tipo di:
“Bastardi aprite che abbiamo da fare e qui fa freddo e questi
altri bastardi con le auto ci stanno affumicando.”
Una volta che tutti, in perfetto orario, sono entrati con i
loro carrellini, Protestator incalza massaie cicciottose
soprappensiero con commenti sulla qualità della merce,
rigorosamente a voce tenorizia, con pesanti ironie sul colore
della scamorza o sulla consistenza delle mele. Tocca,
ovviamente tutto con le mani nude e con la sua psoriasi
fungina devastante, per saggiare solamente, senza
acquistare nulla, e sparisce verso il reparto frigo per cercare
qualche confezione accartocciata da interruzione della
catena del freddo, che è il massimo dell’orgasmo da
conferma in verifica.
Nel ritornare al reparto della frutta, cristona con una
poveraccia, con la testa di fuori per suoi problemi con la
figlia tossica, che ha brancato un cavolfiore con una mano
scheletrica senza guanto, e la riempie di consigli didascalici
che variano di bonomia a seconda della tipologia della sua
colazione (se
anonimamente normale con cappuccino
ustionante e pane raffermo, o esaltante, ‘del gallo’, con la
sua signora per una volta compiacente e con il tanga e
senza bigodini in testa).
Attacca, competente, partendo dalle dermatiti semplici
fino all’apoteosi di un nuovo virus di AIDS che si sviluppa
per contatto da cavolfiori toccati da mani impure.
La massaia redarguita piange senza ritegno in pieno
collasso nervoso o insegue l’apologeta, individuato come
parafulmine, per utilizzare il cavolfiore su di lui come
supposta.
Interviene il direttore del supermercato che regala un
cavolfiore a testa, alla massaia e a Protestator, e dirime una
fastidiosa commedia degli equivoci.
In prossimità della cassa, il nostro, non domo, inscena
il suo cavallo di battaglia che è la filippica alla maniera
ciceroniana in tono alternativamente accorato e rancoroso,
fino al limite dell’invettiva catilinaria, socialmente partecipe
449
sul numero inadeguato di casse aperte per i tanti clienti (
anche se sono aperte due casse per tre clienti). E’
automatico il suo passaggio in prima posizione di fronte a
una fila numerosa nell’eventualità di una sua spesa
consistente in un cartoccio di latte e in una confezione di
prugne secche lassative rispetto a carrelli pieni come tir
degli altri.
Una volta ogni tre esce indignato con fiero cipiglio, per
avere pagato il sacchetto, bofonchiando che in quel
supermercato lui non metterà mai più piede, ma il giorno
dopo è ancora lì, con la psoriasi sempre più galoppante,
speranzoso in una melanzana, anziché il solito cavolfiore,
per preparare una caponata.
Se, invece, è in fila alla posta o davanti alla banca, si
ingegna di mettere ordine esordendo con vocina neutra
appena si profila: “Chi è l’ultimo?”
Non sono trascorsi neanche cinque minuti che è
divenuto il padrone del vapore, l’anima e la coscienza civile
del popolo in fila, il socio di maggioranza della banca o
l’aiutante non richiesto della guardia giurata, e mette tutti
in fila con ordini perentori e iniziative organizzative
(“mettiamoci per due”, “lei non faccia il furbo che l’ho vista e
la curo”, “signora non mi metta la borsa tra i testicoli,
grazie”).
E’ sorprendente la naturalezza con cui ordina il branco,
come il miglior pastore del Caucaso addestrato in
circolazione, e la maestria disinvolta nel ritornare ai discorsi
tipici dell’apertura del supermercato, sparando a raffica
sugli impiegati che si preparano, fin da sedici minuti prima
dell’apertura degli sportelli.
Il vero protestante professionista della situazione
infarcisce i suoi anatemi con sobillazioni di tipo politico,
trasversali e odiosamente qualunquiste, di destra se si è in
comune con giunta di sinistra, o viceversa, e butta lì con
noncuranza oscure minacce disordinate di rogo nei
confronti di Berlusconi, Casini, Bossi, Fassino, Fini, Boselli,
Bordon, (chissà perché poi gli ectopasmatici Boselli e
Bordon?) e conclude molto spesso, se anziano, con il
classico “ai miei tempi, caro Lei, quando c’era Lui…” tutto
450
rigorosamente maiuscolo, anche nei toni, nell’enfasi
celebrativa.
La celebrazione del buon costume sale di tono e di livelli
con documentate accuse circostanziate nei confronti di
Nesi, Reviglio, Agnelli, la Consob, la Confindustria, l’INPS e
i disoccupati organizzati
in un caotico resoconto di
leggende metropolitane e dicerie dell’untore, perché il nostro
ha con sé solamente “La Gazzetta dello sport”, ma conosce
svariati portinai e cugini di secondo grado degli amici di.
Si arriva ad un minuto esatto dall’apertura dello
sportello e il cittadino che protesta sta trattando, in cima ad
una cassetta come in Hyde Park, lo spinoso problema della
raccolta rifiuti che lui paga sotto forma di iniquo balzello
per poi vedere i cassonetti bruciati dai soliti delinquenti. E’
realistico anche sentirlo lamentarsi del riscaldamento
inquinante, ora troppo alto per cui è uno spreco, ora troppo
basso perché lui gira con una pelliccia da yeti dentro casa.
Fino a due anni fa andava di moda anche il ‘refrain’ sulle
targhe pari e le targhe dispari con resoconto dettagliato
dello stato conservativo di tutte le centraline
di
monitoraggio dell’inquinamento della città
Il popolo freme e sembra dalla sua parte.
Il cittadino che protesta si sente un Masaniello o un
nuovo Pancho Villa e medita una fila suppletiva per
l’acquisto di un sombrero alla prossima liquidazione in
centro.
Si illumina, però, la lucina verde della porta
automatica, oppure la guardia giurata fa ampi gesti di
entrare e la crociata per un mondo migliore si scioglie come
neve al sole davanti ad uno sportello per il pagamento di un
conto corrente o per la richiesta di un estratto conto.
IL CITTADINO CHE PROTESTA PERCHE’ IL MONDO CE
L’HA CON LUI
E’ il più aggressivo della famiglia ed il più meschino
perché della protesta ne fa un mezzuccio per un suo
tornaconto personale: nulla di nobile ed astratto come il
protestante del gruppo 1).
451
Questo tipo di cittadino che protesta vive nella
convinzione che l’intero mondo, fino oltre Vladivostok e ben
più a sud della Nuova Caledonia, congiuri ai suoi danni
con tranelli, trappole, dispetti e angherie volte ad un suo
completo ed esclusivo nocumento per puro compiacimento
sadico dell’intera comunità terrestre.
Non ha mai accettato caramelle dagli sconosciuti, come
una verità innata dentro di sé, una sua percezione istintiva
atavica, e ha dichiarato, molto seriamente, a differenza di
Longanesi, l’editore, che lo faceva per scherzo, davanti un
banchetto per la raccolta di fondi ‘per’ il terremoto, che lui è
assolutamente ‘contro’ rispetto al terremoto, tirando in
lungo senza fare un’offerta seppur misera.
La sua aggressività è, a suo dire, puramente difensiva
nell’impari quotidiana lotta tra il bene (lui) e il male (gli
altri, tutti).
Le situazioni in cui si esplica questa virulenta reazione,
spesso esagerata ed esagitata, sono le più varie, quotidiane
e banali e il semplice sorriso del concorrente più vicino nel
concorso quotidiano del vivere, che con quel sorriso ribalta
una situazione sfavorevole, accresce la sindrome da
accerchiamento da Fort Alamo e impone il sacrificio di una
clamorosa piazzata sul tipo di una sceneggiata napoletana,
però più cattiva nei toni e nel cipiglio.
Scene di questo tipo, tra le più comuni, si possono
notare in un ristorante affollato dove il nostro ha la sfiga, in
realtà, per lui, la congiura, di venire servito tra gli ultimi a
fronte di una tavolata di centocinquanta invitati ad un
pranzo di matrimonio e nonostante lui sia arrivato, da solo
o con timorosa topesca tremula moglie alle undici e mezza
quando i camerieri passavano ancora lo straccio per terra.
La protesta avviene rumorosamente con forchetta
battuta sempre più nervosamente sul bicchiere, fino alla
rottura del medesimo, e sale di tono con battimani,
segnaletica marinara fatta con il tovagliolo, reiterati
richiami a voce alta del tipo “Cameriereeeee, capooo,
sssssentaaaaa…”,
e un ruggito alla moglie che vuole
significare: “adesso mi sentono”, tra gli sguardi preoccupati
degli astanti.
452
La scena si conclude spesso con il protestante a digiuno
davanti al ristorante, rosso come un tacchino con la
iugulare prossima alla disintegrazione, dopo una scenata
alla Mario Merola di fronte a ‘o malamente’nella sala di
fronte ai presenti con il rituale “Questo locale fa schifo. Non
ci metterò mai più piede. Lei non sa chi sono io.”
Questo tipo di cittadino che protesta è inconsapevole
della grande misericordia cosmica, che lo pervade e che
possiede con abbondanza, consistente nel non avere mai
trovato sulla sua strada un oste energumeno manesco di
due metri e dodici ex sollevatore di pesi e malavitoso,
invitati a matrimoni amanti di quelle belle risse da vecchio
saloon western, camerieri mannari ex lanciatori di coltelli
freddi e professionali, asettici come schizofrenici stupratori
silenziosi.
E non ha mai trovato sulla sua strada, soprattutto, il
sarcastico personaggio che gli abbia risposto a tono: “E lei
chi è? Ce lo dica, ce lo dica…Signori tutti zitti, per cortesia,
il signore deve dirci chi è…” che è un intervento che
dovrebbe trasformare il nostro, per miracolo, in
portatovagliolo inanimato di legno dipinto di rosso
vergogna, come in una formula magica del medioevo.
Protestator, invece, alquanto fortunello e, come si dice a
Roma, impunito, si rifugia in un bar con la moglie sempre
più dimessa e squittente, ingobbita e rassegnata (questo è
vero amore) e attacca bottone con il barista per il
tramezzino che ha sapore di rancido.
CITTADINO CHE PROTESTA PER RIFLESSO
INCONDIZIONATO
Il terzo gruppo, quello del cittadino che protesta,
galvanico come la famosa rana, per riflesso incondizionato,
è il gruppo costituito dai personaggi più imprevedibili, di
ogni categoria di benessere o malessere psichico, tutti
accomunati da distrazione per immersione in ben altri
pensieri che possono variare in un’ampia gamma che va
dall’affitto rincarato al pignoramento dei mobili alla
sconfitta della propria squadra del cuore fino alla lite con la
453
propria metà che è culminata in tre giorni di digiuno
carnalerotico
e
fino
all’ultima
dolorosissima
fitta
proveniente a scelta dal callo del piede sinistro, morbido
come un lupino, oppure all’emorroide gonfia e isterica come
un kiwi.
In genere questi cittadini che protestano si producono
in discrete performances sul tram affollato a fronte di un
pestone o di una gomitata, oppure al cinema a fronte di
quello davanti che non sta mai fermo con la testa, oppure al
semaforo a fronte del polacco che vuole assolutamente
pulire il vetro dell’auto.
Le reazioni vanno da un banale “Scusi un cazzo”, di
risposta a civili scuse per un pestone o una gomitata, che
può avere seri riscontri degenerativi culminanti in una
visita al pronto soccorso per varie ecchimosi, fino alla
perdita totale della ragione e del controllo dei nervi che
comporta un uso smodato di una catena o di un cacciavite
e una denuncia per violenza a privato polacco o
inconsapevole spettatore dal capo cotonato al cinema.
Siamo tutti, per concludere, chi più e chi meno,
cittadini che protestano di una di queste sommarie
categorie o forse anche di altre minori o diverse fuori
catalogo.
Abbiamo i nostri problemi di identità e di visibilità
associati ad ancestrali insicurezze che ci rendono oltremodo
aggressivi o, molto più semplicemente, rompicoglioni.
La speranza dello scrivente è che questo piccolo saggio
di costume venga letto da un numero soddisfacente di
lettori, quel tanto per non inscenare una nuova protesta
sull’analfabetismo, sui cattivi gusti letterari della massa,
sulla pigrizia della gente che si spaventa per qualche pagina
di troppo, sull’ ingiusto declassamento del genio (io,
ovviamente) dotato di capacità descrittive non comuni, etc.,
etc., …
E questo sarebbe soltanto l’inizio: continuerei con
l’incomprensione planetaria dei miei sentimenti e delle mie
sensibilità fino ai problemi di inquinamento ambientale
creati nella valle di Susa con il progetto di alta velocità delle
454
Ferrovie dello Stato e il problema della microcriminalità
urbana fomentato dalle macchinette mangiasoldi nei circoli
privati e nei bar di periferia.
Non tralascerei di certo una panoramica protestataria
sul divario sempre maggiore tra prodotto nazionale lordo e
produttività e avrei cura di inserire nell’argomento la
sempre minore capacità reale del potere d’acquisto degli
stipendi e soprattutto delle pensioni, perché conosco
personalmente il cugino del pedicure del Governatore della
Banca d’Italia, il bravo e misurato Fabio Fazio, quello delle
rimpatriate sugli anni sessanta.
E poi, se avete una certa disponibilità ed il nervo
scoperto nei confronti del problema, vorrei farvi presente
che sarebbe ora che quei porci bastardi la smettessero di…
455
LA FESTA DEL PAPA’ NON E’ PER TUTTI
Peccato non essere con te, oggi, per poterti manifestare
il mio amore ingenuo e tenero, o carismatico e fascinoso
padre mio.
All’ombra del tuo profilo altero spierei ancora lo scorrere
della corrente del fiume con il malcelato orgoglio di essere
tuo figlio.
Ho sofferto nel rispetto per te, padre, scrutandoti
dibattuto in atroci dilemmi e lancinanti lotte interiori, ed ho
cercato di sostenerti affettuosamente con la mia
inesperienza e un’immensa stima.
Ho condiviso i tuoi dubbiosi segreti pensieri,
l’angosciarti nella gabbia che imprigionava la tua natura, e
ho sperato per un futuro con te al mio fianco, a sorreggermi
e consigliarmi.
Ti ho visto, infine, piangere di disperazione nella
sconfitta di te stesso di fronte alla vita, e mi sono sentito
improvvisamente fragile e solo, come solamente fragile e
solo può sentirsi un piccolo cucciolo.
Ed è accaduto: tra lacrime di dolore e di rimorso che
annegano il dominio di sé stessi…
Mistero insondabile della natura, l’essere coccodrilli…
Fanculo, padre!
Te lo dico con spirito straziato, …e che io ti possa
rimanere sullo stomaco con forti bruciori!
456
ABBASSO LE DONNE
(monologo)
Odio le donne.
Non perché io abbia altre preferenze dolcegabbaniche:
probabilmente la mia è solamente sfortuna in esperienze
poco felici che, però, mi hanno segnato assai.
Prendiamo le mie donne, per esempio, quelle che sono
state per me importanti e significative:
Eulalia.
(Il nome deve essere pronunciato enfatizzando la ‘a’
centrale come se fosse uno sbadiglio o un’esclamazione
esageratamente enorme).
Una donnona materna e giunonica, con un faccione da
luna piena, che quando sorrideva pareva lo Stregatto di
‘Alice nel paese delle meraviglie’.
Un armadione quattro stagioni, perché le stagioni sono
solo quattro: fossero state sei, sarebbe stata un armadione
sei stagioni.
Era disponibile, affettuosa, ormonalmente presente.
Per ovvi motivi, considerato che io peso sessanta chili e
ho una corporatura slanciata da cingalese a dieta, ci
producevamo
in
‘performances’
che
prevedevano
esclusivamente la missionaria classica: io sopra e lei sotto.
Una volta provammo il contrario: ribattezzammo la
posizione come quella del prelievo fiscale, poi rinominata
del rullo compressore.
Fui schiaffeggiato da due tettone impazzite e mi
saltarono due incisivi. Girai per due o tre giorni con un
faccione rosso che sembrava avessi curiosato in un forno a
microonde, acceso.
Ritornammo dunque alla tradizione, senza troppe
esitazioni, soprattutto da parte mia.
Però, però…
La soddisfazione andò scemando in breve tempo.
Ero distratto e non riuscivo a concentrarmi.
Cominciai sempre più spesso a provare la sensazione di
un viaggio all’estero, in Svizzera, attraverso il Frejus pieno
di vaselina, e più ci davo dentro e più mi veniva da pensare
457
alle norme di sicurezza, ad eventuali incendi, alla velocità
consentita, al conto corrente, al segreto bancario.
E mi ammosciavo: in tutti i sensi.
Poi realizzai.
Che forse, sì, lei era monumentale dappertutto e aveva
anche un punto G, G come le Grotte di Postumia, ospitale
come un Club Mediterranèe, ma anche che io non ero forse
troppo adeguato.
Mi aprì gli occhi il mio migliore amico, franco, leale, e
anche tanto stronzo, che poi lo andò a riferire a tutto il
quartiere: che l’avevo piccolo.
Non poté più durare: perché non riuscii a fare più la
mia porca figura con sano menefreghismo, e perché mi
trasferii a duecento chilometri di distanza per non subire,
quando uscivo di casa, le pernacchie di tutti quelli che
incontravo.
Subentrò dunque nella mia vita Filomena.
Filomeeeeeeeeenaaaaa. (Va pronunciato come un belato
flebile e lungo).
Era alta, altissima, lunga come una Quaresima, magra,
quasi efebica, con due enormi trecce biondissime di grano.
Ci adattammo subito, io e lei, sconvolti dalla passione, e
metabolizzammo originalmente la posizione della sveltina,
la sveltina della Filomena, dove capitava, arrapati come
conigli a dieta di salsapariglia e viagra.
Io, con il mio metro e sessantacinque scarso di statura,
spiccavo un bel salto, anche perché non sempre avevo sotto
i pedi due o tre cassette di legno per la frutta, e mi
attaccavo alle sue trecce.
Poi mi issavo su e mi calavo giù ritmicamente, come alla
Palestra “Uomini di buona volontà”.
Sembrava di fare esercizi alla sbarra o alla spalliera.
Era, invece, Filomeeeeeeeeenaaaaaaaaa.
Lei gemeva controllata, svedese come un quadro, e io mi
scolpivo i bicipiti come le pagnottelle di Braccio di Ferro.
Ma la sfiga è sempre in agguato.
La Filomena era secca come una cedola, quasi
anoressica, dappertutto, e al posto di un morbido seno più
458
o meno elastico e sporgente permaflexizzato, aveva solo due
chiodi puntuti che poi, sperimentai, erano anche affilati.
Una trombata con Filomena, quindi, per me che
altalenavo come un ginnasta del Circo Togni, rappresentò
un doloroso passaggio su un Pastamatic.
Orgasmavamo, infatti, sfiniti, e quando mi lasciavo
andare dalle trecce, mi ammonticchiavo ai suoi piedi come
un mucchio di tagliatelle all’uovo, segato dai due capezzoli
assassini che non percepivo nell’istante travolgente del
momento culminante.
Di conseguenza, con Filomeeeeeeeenaaaaaa finì.
Ebbi un ultimo approccio con il mondo femminile
tramite Egle. Che cazzo di nomi eh?
Egle è un nome per me di valenza onomatopeica.
Richiama all’ordine, come un comando secco, gutturale,
e offre l’idea della concretezza senza voli fantasiosi e
pindarici.
Inoltre questo nome breve come un singhiozzo minaccia
immagini di controllo e disciplina, similtedesche, e dopo
breve tempo inibì le mie pulsazioni mediterranee.
Le dicevo:
“Egle, ci vogliamo ribaltare?”
Sgranava gli occhi freddi come due sofficini e mi
chiedeva senza curiosità:
“Kosa fuole dire ripaltare?”
Che ti metti a fare i disegnini o lezioncine di
matematica?
Le racconti dei numeri della smorfia?
Sessantanove: il cappotto…
Naaaaa.
Mi raggomitolavo in me stesso covando sordo rancore
per la mia incapacità di comunicare e soprattutto per la sua
incapacità di apprendere.
Ed un giorno le dissi:
“Egle, mi sono rotto i coglioni di fare l’amore con la
cugina di una lavatrice Aeg con gli occhi da sofficino ancora
da friggere.
Tra noi è finita.”
459
Egle, ci puoi giurare, compassata come sempre, mi
ruttò un:
“Prrrosit”.
Da allora non ebbi più alcuna donna e cominciai, anzi,
ad evitarle.
Elaborai, al contempo, una mia teoria filosoficoesistenziale d’equilibrio e benessere quotidiano della mia
persona attraverso me stesso, in completa autosufficienza e
indipendenza.
Chi può conoscere le mie pulsazioni meglio di me?
Mi entusiasmai anche, dopo qualche tentativo, e
perfezionai teoria e anche pratica, con opportuni
accorgimenti acquistati dal giornalaio, tipo “La coppia
moderna”, “Fermo Posta”, “Le ore della settimana”.
Mi diedi giustificazioni ampie circa la validità
dell’onanismo applicato alla crescita dell’uomo affrancato
dal bisogno nella consapevolezza di essere splendidamente
solo e depositario del suo conoscersi.
Una specie di scintilla divina di un Plotino segaiolo,
insomma: ho reso l’idea?
Ed è così che vado avanti da qualche anno, forte di uno
smisurato complesso di superiorità nei confronti delle
donne, delle quali posso fare a meno, e mi trombo da me
con amore e comprensione amandomi follemente, spesso e
volentieri, sesso e volentieri, sempre più spesso e sesso,
anche se ho gli occhi cerchiati, ormai in lega, e il cambio
automatico.
Del resto si attiva meglio la circolazione e non ho più
mal di testa.
Bene: pianto qui le mie confessioni.
Vi ringrazio per l’attenzione rivolta alla mia
testimonianza di vita.
Grazie, grazie.
Scusatemi, c’è qualcuno che può portarmi fuori del
palcoscenico, per cortesia?
Da qualche settimana sono diventato un poco cieco e
non vedo un cazzo per uscire, grazie…
460
STRALUNATA FAVOLETTA DI NOMI
Una fresca vedova energica di mentalità aperta, a suo
modo estremamente pia e determinata, non fa molta fatica
a convincere un parroco semplice e mite di una piccola
comunità sperduta tra le montagne.
Prudenzia, come primo argomento di persuasione, toccò
il tasto dell’universalità dei doni di Dio, da accettare anche
nelle negatività peggiori, e citò Giobbe e i suoi pruriti
eczematosi.
Perorò la sua scelta, poi, per un destino tracciato
all’insegna del cristianissimo ‘memento homo quia pulvis es
et in pulvirem reverteris’, per una vita proiettata con
consapevolezza verso il paradiso senza distrazioni di vita
terrena o catodica.
Infine ebbe la meglio incondizionatamente quando
minacciò, ricattatoria e decisa, di scegliere il nome di
Anarcoinsurrezionalista per il suo figliolo appena nato e di
non farlo accostare al sacramento del battesimo.
Don Firmino impallidì e riconsiderò le altre due
motivazioni con maggiore benevolenza capitolando senza
più resistenze.
E il piccolo neonato di Prudenzia Instato, vedova
Terminale, fu battezzato Cancro.
Il giovane Cancro, in età scolare, quando la mamma
Prudenzia era lontana, era chiamato Carlo in pietosa
assonanza approssimativa.
Con la mamma nei paraggi, era sommerso da fischi e
urlacci gutturali inintelligibili che ne surrogavano il nome.
In assenza di entrambi, madre e figliolo, la comunità lo
identificava come il ragazzino con il ‘nomaccio’ e qualche
vecchia sdentata faceva anche le corna o si segnava o
toccava le balle del farmacista che era anche un bell’uomo.
I suoi compagni di scuola ci scherzavano poco e spesso
si grattavano le tenere nocelle implumi in vista di qualche
interrogazione: Cancro, infatti, scrutava di qui e di là con
fama jettatoria e la maestra interrogava invariabilmente
l’ultimo alunno fatto oggetto delle attenzioni del povero
ragazzo.
461
Divenne tassativamente vietato, poi, sempre nell’ambito
scolastico, l’insulto malaugurale “ti prendesse un cancro”,
sostituito da banalissimi “vaffanculo a te e tre quarti della
tua famiglia” perché una volta che Cancro ascoltò la prima
giaculatoria, permaloso com’era, fece il diavolo a quattro
con l’affilato righello da disegno e mandò tre compagni di
classe al pronto soccorso devastati come da un ‘machete’ in
Ruanda.
Crebbe, Cancro, e divenne un giovane uomo torvo e
complessato per il suo imbarazzante nome.
Viveva momenti di assoluto tormento esistenziale,
incapace di discernere le responsabilità di chi aveva potuto
permettere che lui girasse per la valle con le generalità
abominevoli di Cancro Terminale.
A volte avrebbe voluto uccidere la mamma, col mestolo
del paiolo della polenta, e altre volte il vecchio Don Firmino,
magari strangolandolo con la stola nel confessionale.
Prudenzia, invece, non ebbe mai rimpianti e cercò
sempre di convincere il suo virgulto della bontà di una così
coraggiosa scelta.
Ma Cancro si chiuse in sé stesso, sempre più maligno,
schivato dai suoi vecchi compagni di scuola ormai
organizzati in comitive piene di ragazze, deriso dai vecchi
del paese, piantato in asso, sempre fin dalle presentazioni,
da ragazze carinissime, poi carine, poi ancora così così,
infine racchie infime somiglianti alle mucche dell’alpeggio.
Poi, un bel giorno, conobbe la splendida Dina.
Dina abitava nella vallata adiacente.
Era una ragazza molto timida, chiusa, proveniente da
una
famiglia
di
rossi
comunisti
militanti,
tutti
rigorosamente stalinisti ortodossi senza dubbi, duri e puri.
Era anche lei, come il buon Cancro Terminale della
valle vicina, lo zimbello della sua comunità.
Anche lei per il suo nome.
Dina Mitarda.
Si conobbero alla festa del maiale scannato con le noci:
grandinarono il suino con chilate di noci gettate con sano
divertimento, e anche con la fionda, e incrociarono i loro
462
sguardi mentre si spegneva quello del maiale lapidato, frollo
come non mai.
Si piacquero, di là delle loro estrazioni sociali e
ideologiche, e si isolarono dal mondo.
Papà Mitarda, il vecchio compagno Medardo Mitarda,
fiero del suo nome che sembrava quello di un rivoluzionario
messicano, non la prese molto bene: sua figlia in tresca con
un filo-clericale era un’eresia inconcepibile.
Insieme alla moglie, l’ex partigiana Lora Serale Mitarda,
pasionaria passionale, detta anche ‘IlCiclo’ Mitarda, di
quando era staffetta durante la Resistenza, levò in alto il
pugno chiuso, agganciato all’avambraccio come un manico
classico d’ombrello e la povera Dina Mitarda si trovò dal
giorno alla notte orfana ideale di ideali di famiglia,
scomunicata laica della valle, privata anche degli orecchini
con la stella rossa.
I due innamorati, soli e incompresi da tutti,
all’improvviso sparirono e qualche montagnino con
esperienze di viaggiatore giurò di averli visti in una città
della pianura, sereni e a passeggio con una carrozzina.
Era verità: Cancro Terminale e Dina Mitarda si
sposarono, solo civilmente, perché il parroco vomitò in
sagrestia e poi svenne inorridito, e decisero di convogliare i
loro risparmi di una vita, volti a cambiare i loro nomi con
costose pratiche burocratiche, in un concreto mutuo per
una casa.
Si amavano di un amore tenero e struggente.
Lei nell’intimità, gorgheggiando, implorava di Crocrò e
lui uggiolava di piacere come il loro criceto nella gabbietta
in cucina che equivocava e pedalava più frenetico che mai
la sua ruotina…
Ebbero un figlio e lo chiamarono Giovanni.
E la storia potrebbe concludersi qui, a completo lieto
fine, se non fosse che Cancro perse la testa in un furibondo
litigio con la mamma, ormai anziana donna, e l’uccise a
mani nude in un impeto d’ira per la ciclica questione di
famiglia sulla scelta del nome dell’erede.
Nonna Prudenzia voleva per suo nipotino Terminale il
nome di Malato, magari patteggiando con il diminutivo
463
‘trendy’ di Mal, ad esaltazione della memoria circa i doveri e
i precetti di un buon cristiano.
Dopo i primi cazzottoni del figlio scese a compromessi
dichiarando che si sarebbe ritenuta soddisfatta anche dal
complesso nome di Secondo Cancro Benigno, logicamente
sempre a gloria di Dio, nel bene e nel male, con la furba
piaggeria del perpetuare il nome del padre sul modello di
vetuste dinastie americane di miliardari.
Singhiozzò, alla fine, semistrangolata, un semplice
Ben…
La Corte, dopo un ritiro neanche tanto lungo in camera
di consiglio, considerò tutte le attenuanti generiche,
ravvisandone anche parecchie e, in ossequio a
patteggiamento, comminò al matricida Terminale una pena
ragionevole.
Ad oggi, tra un’amnistia e una buona condotta, tra poco
tempo il recluso col ‘nomaccio’ sarà di nuovo libero.
Cancro sta finendo di scontare pochi anni ancora di
galera, fiducioso in un sereno avvenire con la sua cara Dina
Mitarda
e
il
figlioletto
Giovanni,
educato
compromissoriamente in maniera socialdemocratica.
La vecchia Prudenzia Instato Terminale riposa in pace,
senza i rancori dei vivi, ricongiunta accanto al suo marito
dipartito troppo presto, il buon Tino Crasso Maria
Terminale, diminutivo di Intestino…
Stretta è la foglia
e larga è la via,
se non salta la Dina,
…e così sia…
464
IL GIOCO DELL’OCA
Un uccello migratore non meglio identificato, simile ad
un ocone sgraziato, proveniente dalle steppe siberiane oltre
gli Urali, disegnerà con volo affaticato e sofferente una larga
ellittica e cadrà a peso morto, appunto morto, nella fontana
di un parco, non prima di avere sganciato una deiezione
similbovina sulla piazza centrale della città.
Il grosso volatile morirà sul colpo con suoi aviari irrisolti
quesiti esistenziali sul perché della necessità di farsi un
culo così, anche da indisposto, a volare per ottomila
chilometri per respirare la balsamica aria di una civiltà
industriale piena di fumi di scarico.
L’impatto con la fontana produrrà un rumore di
scogliera flagellata dal mare, con annessa sopraedificata
casa abusiva, e con schizzi a raggiera attirerà l’attenzione di
mamme e bambini lì presso, tutti curiosi come per un
nuovo delitto estivo di zii affettati con machete.
Sotto gli occhi attoniti dei presenti, due bambini svegli,
Marco e Mirko, si disputeranno l’ambita preda come una
merendina del Mulino Bianco, tirandola per le ali, ognuno
verso la sua parte, giocando all’Isola dei famosi, pur senza
esserlo, sfrontati senza frontiere.
Nella piazza centrale, frattanto, la signora Paola andrà a
prendere un autobus. Distratta, pesterà il mostruoso
cumulo preagonico dell’ocone. Sacramenterà alla rinfusa
scuotendo il piede con tacco tozzo e spargendo liquami tutto
intorno dove il piccolo Giovannino ha proprio lì, poco prima,
consumato con scarsa voracità una focaccina disseminando
l’area di briciole che si mescoleranno con le risultanze della
gestualità pedestre della donna.
Sarà promossa in automatico una delle più grandi
esercitazioni di volo nella zona con il pattuglione acrobatico
“Piccioni zona centro” e quattro o cinque pattuglie agili di
“Passeracei tricolori”, ingordi come condor.
La fame non fa guardare tanto per il sottile circa il
gusto di ciò che riempie lo stomaco, e poi certi cristiani
adorano i nidi di rondine…
465
La signora Paola si scuoterà come una tarantolata
anche sull’autobus imbrattando pavimento e qualche
sedile, troppo furente per fare i conti con una parvenza di
senso civico, anche perché si prenderà raffiche di vaffanculo
da parte di altri passeggeri maculati di striscio.
Un bel gioco dura poco. Marco e Mirko avranno un’ala
in mano ciascuno mentre l’ocone ormai frollato dal tira e
molla giacerà in mezzo a loro inerte come un vigile ad un
incrocio nevralgico.
Calerà subito l’interesse per l’iniziativa volta ad una
sana competizione per il possesso: del resto è solo un
uccello smembrato, non un portafogli pieno scippato ad un
bancario. I due bambini abbandoneranno il campo, sudati,
con le manine piene di penne e sottopenne, schizzacchiati
di sangue aviosiberiano.
Il piccolo Defi, diminutivo di Deficiente, uno yorkshire
con l’aspetto di un doposci, obeso ed imbottito di pasticche
al bromuro per un maggior controllo da parte dell’anziana
padrona, poco dopo annuserà quei resti carnosi e
rievocherà confusamente vecchi istinti di qualche
generazione prima, non ancora soppressi, con una certa
acquolina in bocca, sbocconcellando con un accenno di
erezione.
Peraltro, senza guinzaglio e museruola, come da usi e
costumi trasgressivi locali, s’avvicineranno con passo
elastico e curiosità ienesca anche Caligola, splendido
mastino napoletano dal pelo focato, con catarro da
fumatore di toscani, e Ribbentrop, che capisce solo il
tedesco, superbo rottweiler con collare chiodato e cordone
di bava perenne che sembra una quinta zampa.
Il piccolo Defi farà appena in tempo a mordicchiare
un’ala. Sarà strattonato allo strozzo dalla padrona e sparirà
ringhioso tra le sue braccia protettive da dove le laverà la
faccia per gratitudine con lingua rasposa.
Caligola e Ribbentrop assaggeranno con morsi voraci
cosce, petto e le ali già staccate del volatile fino a che non
saranno richiamati, uno in napoletano e l’altro in tedesco,
dai rispettivi padroni.
466
Ribbentrop, nonostante l’aspetto feroce e sano, soffre di
diverticoli intestinali e disseminerà all’uscita seguente,
come un innaffiatoio, buona parte del suo improvvisato
pasto, sull’erbetta tenera del parco dove giocano
abitualmente anche molti bimbi con palette e secchielli.
Caligola, invece, voracissimo, semistranito da un
ossetto di traverso, vomiterà comodamente da casa, sul
balcone, devastando una zona di passaggio sottostante e
due
cappellini
di
rappers
che
smadonneranno
fluentemente.
I
piccioni
del
pattuglione
acrobatico,
invece,
scagazzeranno su tetti, giacche, crani, e non solo, per poi
stramazzare dopo qualche giorno al suolo per la gioia di
cani, gatti e anche topi, tutti senza guinzaglio, anche se è
difficile immaginare un topo al guinzaglio, e di chi…
La medesima cosa accadrà, in scala bonsai, per i
passeracei che, però, sono numerosi come ingiunzioni di
sfratto, molti di più rispetto ai piccioni.
A questo punto il gioco entrerà nel vivo (si fa per dire).
Ritornerà di moda Camus che sarà rieditato in collana
classica pocket come vademecum per la sopravvivenza.
I giocatori, in pratica tutta la popolazione, tireranno
tutte le mattine i dadi o leggeranno nei fondi del caffè per
captare spiragli di sopravvivenza alla più tremenda
pandemia della storia dell’uomo.
Molti finiranno nel pozzo e ci rimarranno fermi molto
più che un giro: per sempre.
Altri torneranno indietro di tre caselle, all’inceneritore
comunale, accompagnati da facce patibolari di monatti in
tuta anticontagio e mascherina.
Altri ancora vivranno sperando, morendo cantando e
anche scagazzando, nell’attesa del vaccino di una famosa
annunciata scorta acquistata dal Governo.
In realtà l’unica scorta rimasta sarà quella di un ometto
dai capelli innaturali e tinti che sorride sempre come per
una paralisi, nonostante tutto, perché, unto com’è, scivola
via senza farsi nulla anche sopra le pandemie, tra il pianto
e lo stridore di denti di un’opposizione bersagliata dalla
sfiga.
467
Infatti uno dei cappellini da rapper sporcato da Caligola
si scoprirà appartenere al figliolo raffreddato dell’autista
dell’onorevole Prodi…
Il signor Aia e il cavaliere Arena saranno lapidati sulla
pubblica piazza e tutti si butteranno sui maiali, anche
quelli dei giardinetti, nascosti con l’uccello di fuori dietro un
albero.
Poi si ammaleranno anche i maiali, anche per colpa del
sesso non protetto, e il gioco dell’oca assumerà connotazioni
più drammatiche.
Impazziranno di nuovo le mucche e tremeranno le
giraffe e gli ippopotami, si mimetizzeranno da peluche le
scimmie e i delfini e le foche monache arriveranno a recitare
anche il rosario per scampare alla fame dell’umanità.
Tutti diverranno smilzi come vietnamiti e si
guarderanno intorno con fame e sospetto e con l’ombrello
aperto ad evitare scagazzate a pioggia di uccelli superstiti
nel cielo di piombo.
Vincerà chi sbaraglierà la paura di arrivare a novanta,
chi supererà la casella degli imprevisti, che è quella bianca
come una vasca di calce viva per disinfettare, e chi riuscirà
ad evitare altri oconi direttamente e indirettamente, magari
andando in ufficio con la tuta da sommozzatore di
profondità con elmetto grigliato di rame.
Poi si ricomincerà daccapo, con nuovi giochi: per il
potere, per la supremazia, per la ricchezza, ed
impazzeranno di nuovo i vari Monopoli con il Parco della
Vittoria, il Risiko e, per qualche nostalgico, anche l’Allegro
chirurgo che compie le autopsie.
E si rivivrà tutti felici e contenti con dieta a base di ceci
e carrube, seppure con una densità abitativa per chilometro
quadrato ridotta del settanta per cento, ma non si avranno
più per molto tempo problemi d’affitto, di traffico e di
parcheggio.
Pandemia, pandemia,
per risibil che tu sia,
porterai una gran morìa.
468
GROTTESCA MINIPORNOSTORIA
Nel sesso non esistono regole e valgono ogni
trasgressione a sorprendere e trucco ad esaltare
prestazioni.
Questo pensò il ragazzo in buona fede disarmante.
E quando uscì dalla bottega del coreano, sorridendo
noncurante del bruciore soprannaturale, ebbe l’impressione
d’essere cresciuto di statura.
S’immaginò un futuro di messaggi promozionali tra la
popolazione femminile del quartiere circa il suo nuovo
essere maschio, in un tam tam di curiosità, e scacciò l’idea
metaforica di essere stato azzannato da un rottweiler alle
parti basse.
Aveva, di fatto, un piercing trasversalmente apposto al
frenulo della sua appendice di piacere, costituito di un
chiodo d’argento a forma d’osso, ‘very tribal’, per come gli
aveva mentito spudoratamente Koyo con lo sguardo
strizzato di volpe al limone.
Lui abboccò da subito, soffrì come una bestia facendo
rotolare biglie da biliardo di sudore sulla stuoia dello Studio
Tattoo Koyo, e poi si sentì padrone del mondo nel rimirare
la sua piccola proboscide martoriata somigliante in
sedicesimo alla testina infiammata di un boscimano
d’iconografia classica, per l’appunto con l’osso in testa,
seppure senza capelli afro.
Qualche tempo dopo, però, dovette rimangiarsi tutte le
sue considerazioni circa trucchi e trasgressioni e sprofondò
nel ridicolo e nell’imbarazzo.
Ci volle un esperto ferramenta a risolvere un problema.
Costui sudò sette camicie, smadonnando e ridendo con
un fischio da enfisema, e fu oliato invano con tante
banconote per mantenere un silenzio che non fu poi
osservato.
Del resto l’aneddoto era troppo gustoso per non essere
divulgato…
Il giovane aveva avuto un incontro torrido con un’altra
amante del piercing, in perfetta empatia d’idee circa la
meccanica della passione.
469
Lei, sicuramente complementare a lui in visioni
concettuali dell’erotico, aveva un piercing costituito da un
anello d’argento molto spesso e discretamente grande,
almeno quanto l’esibizionismo.
Lo aveva, manco a specificarlo, in cima al clitoride.
E fino a che si limitarono a piacevoli preliminari tutto
filò liscio.
Poi, nell’ambito di un prevedibile normale seguito, lui
s’impigliò all’anello con il suo osso e non riuscì più a
districarsi.
Si rise a lungo, nel quartiere, quando il ferramenta
traditore raccontò di come trovò i due ragazzi accanto al
telefono dopo aver forzato la serratura della porta
dell’alloggio.
In effetti parevano una scultura cubista surreale: una
rivisitazione di ‘Guernica’ ipertricotica.
E sembrava di stare in chiesa: aleggiava, infatti, una
corale litania di madonne del rosario.
E rintronava una curiosa sonorità metallica da
cassettina parrocchiale delle elemosine, agitata per
eventuali offerte…
470
CINOFILA STORIA MULTIFINALE
Un alano, in genere, ha un portamento nobile e fiero.
Anche quando è in procinto di defecare.
Assume, infatti, un’aria dignitosa: si raggomitola sulle
lunghe leve posteriori e fa finta di nulla guardando fisso
avanti a sé , con leggero tremore, oppure occhieggia il
padrone con un’espressione di scusa per l’increscioso
accadimento.
L’imbarazzante di
questa
occorrenza
fisiologica
assolutamente naturale è dato dal fatto che può avvenire in
pieno centro storico, magari sotto i portici ospitali della
piazza più importante della città, di fronte a vetrine
scintillanti di grandi firme e lusso.
Sono testimone di un evento del genere, per come l’ho
paventato.
Il pastore danese si contorce e si strizza in una postura
che potrebbe definirsi picassiana cubista, davanti ad una
boutique della centralissima piazza porticata.
Assume l’aria tipica del cane stoico che non può
esimersi, con tante scuse, dall’evitare la bisogna del
bisogno, e si strizza come un tubettone di dentifricio.
In questo caso, mi si perdoni la battuta, produce la
Pasta del Canealano: lascia, cioè, sul posto una ciambella
fumigante che potrebbe apparire un salvagente da crociera.
Il padrone dell’enorme bestia si guarda intorno per
percepire l’intensità dell’attenzione dei rari passanti.
Fa finta di frugarsi nella tasca per prendere una busta
della grandezza di un paracadute.
Poi, arguendo che nessuno lo ha degnato d’attenzione,
strattona il bestione e si allontana con fare indifferente, ché
il raccattare il bisognino è roba da benna.
Io, però, sono dietro una colonna: osservo e friggo.
Balzo fuori all’improvviso e spiano una rivoltella, tanto
per non lasciare dubbi su chi ha l’onore e l’onere di dettare
le regole del gioco.
“Signore, ha dimenticato di raccogliere il ciambellone
del suo cane…
Faccia che prenderlo e ficcarselo in tasca…”
471
Il padrone del pastore danese assume un’aria di sfida.
Poi nota la pistola e diviene innocuo come un
chihuahua, seppure con occhi iniettati di sangue e livore:
un chihuahua mannaro.
Bofonchia, ipocrita:
“Non me n’ero accorto.”
Si comprende che vorrebbe aizzare il cane, neanche io
fossi un hamburger succulento, e rimpiange il giorno della
sua scelta, atroce dilemma, tra il suo buon cagnolone
attuale, austero e tranquillo, e un feroce dogo cannibale da
combattimento.
Finale 1
La gente si raduna incuriosita e applaude a scena
aperta me, giustiziere antiescrementizio del giorno e della
notte, cercando di lapidare il padrone del pastore danese
che, povero animale, cerca di rimpicciolirsi a mole yorkshire
con dubbi effetti.
Il
padrone
dell’alano
schiuma
rabbioso,
ma
furbescamente
non
reagisce
per
non
fomentare
ulteriormente la folla.
Raccoglie col fiato grosso e con più badilate il bisogno
del cane e lo ripone in un sacco di tela gommata usato
normalmente da Babbo Natale per portare i doni agli
orfanelli della Bielorussia.
Trionfa la giustizia e il senso civico della comunità:
l’assembramento cessa poco dopo per magia con il cane da
sella e il padrone fantino che galoppano velocemente dietro
l’angolo smaterializzandosi sotto una ola entusiasta della
folla festante.
Finale 2
Il padrone del cane cagone è sciocco e reagisce in
maniera scomposta cercando di avventarsi contro me con il
guinzaglio rostrato pieno di aculei arrugginiti.
Sono costretto a sparare, per coerenza e per non
prendermi il tetano.
472
Lo centro nel costato aprendo una voragine che può
essere riempita solamente con una presa d’aria
condizionata, grande come il buco del culo della sua bestia.
Sono processato per direttissima, per omicidio
preterintenzionale.
Sottofinale - 2 A
La giuria popolare è composta di cinofili accaniti
abbonati a “Il resto del carlino”, “Cane moderno”, “Cagnara
2000”, “Sorrisi e cagnoni TV” e le dispense dell’enciclopedia
Treccani.
Mi guardano, naturalmente, in cagnesco.
Qualcuno mi squadra con odio e rivive con sdegno le
scene più significative del film “L’ammutinamento del
Cane”.
Sono condannato all’ergastolo più due colpi di striscio
di fucile alla tempia, tanto per prendere uno spaghetto
maggiore su quello che potrebbe essere una meritata pena
di morte.
Sottofinale - 2 B
La giuria popolare è composta d’accigliate personcine
che hanno trascorso l’ultima ora nel bagno del tribunale a
liberare con gli stecchini dei gelati le scanalature dei
mocassini
da
abnormi
bisogni
canini
pestati
accidentalmente, della consistenza di una polenta taragna,
fumanti allo stesso modo.
Hanno consumato tre o quattro Mottarelli mandorlati
ciascuno e hanno anche accenni di colite spastica perché
siamo in dicembre e fa molto freddo.
Sono adirati contro i cani in genere, contro i loro
padroni, contro il concetto filosofico della ‘canitas’, e
giustizierebbero volentieri Lilly e il vagabondo, Charlie, che,
peraltro, è già in Paradiso, Lassie e Rin Tin Tin, senza
troppe indulgenze per Rex, Balto e i cani da guida per ciechi
in generale.
473
I più tolleranti renderebbero sdentato Zanna Bianca con
un paio di tenaglie senza anestesia e brucerebbero tutti i
libri di Jack London.
Sono assolto con formula piena.
I familiari della vittima, indignati per la sentenza, fin
dalle prime proteste sono fatti oggetto di sputazzate e irrisi
con gomitate a tradimento nello sterno dalla giuria stessa,
e qualche morso alla iugulare.
Sottofinale – 3 C
Ottengo una pena minima, tanto per salvare la faccia
dei giurati, comunque bendisposti, ed esco dopo pochi
mesi, alleggerito da innumerevoli attenuanti generiche.
Sono rilasciato in tardo pomeriggio.
Nessuno è venuto a prendermi.
Me ne torno al mio appartamentino da solo, a metà tra
il contento per la mite pena scontata, e l’adirato per
l’ingiustizia di aver dovuto soggiornare in carcere per tre
anni in ottima condotta mansueta quasi canina.
Apro il portone di casa.
Mi attendono dietro l’uscio una decina di vendicativi
cinofili in agguato.
Hanno al guinzaglio, digiuni da giorni, pitbull,
dobermann, rottweiler, schnauzer giganti e canalligatori di
nuovo incrocio con zanne avvelenate e pungiglione invece
della coda scodinzolante.
Divengo spezzatino senza patate tra uggiolii di goduria
delle bestie inconsapevoli e incitamenti sadici con risatacce
di caserma dei loro padroni.
Ho la magra consolazione di avere intitolata una sede
anticinofila a mio nome dopo cinque anni, quando ormai
tutte le mie ossa, tranne due o tre ancora ciucciate da un
buongustaio molosso del Caucaso, sono ormai prossime a
decomporsi in cenere.
Finale 4
Ho scherzato.
474
La pistola è ad acqua.
Il padrone dell’alano se la fa addosso senza la stessa
dignità del suo cane.
E però, poco dopo, comprende che la mia arma è un
giocattolo, anche per via dell’evidente tappino rosso.
E s’adira, preso per i fondelli, pensando al conto della
tintoria per i pantaloni devastati e alla figuraccia che sta
facendo, che è il caso di definire ‘di merda’.
Parla allora al suo cane in lingua sconosciuta: un
incrocio tra tedesco e polacco, sicuramente mittle-europeo,
pieno di rancorose aspirate e di scatarri carichi d’odio.
Per il pastore danese divengo braciola che cammina:
infatti, in realtà, lo splendido esemplare è nient’altro che il
temibile Ariovisto, il cane da guinness dei primati del 2005,
che ha divorato quarantadue chili di carne in poco meno di
un’ora.
La folla, fluttuante come sempre, sta dalla parte del
vincitore, e si limita a coprire con le mani lo sguardo dei
bambini più piccoli, solo per evitare loro gli schizzi di
sangue negli occhi.
Del mio sangue, beninteso.
Qualcuno applaude e incita.
Altri scattano fotografie con il cellulare, registrano le
urla d’agonia e il rumore di frantoio delle mascelle canine, e
fanno il tifo in tedesco chiamando Ariovisto col soprannome
Shumi.
Qualcuno arriva fino allo spingersi a cagare in piazza a
fianco di una colonna, per emulazione del fiero pastore
danese, fissando, accovacciato, con sguardo provocatorio i
passanti, brontolando in stereofonia di gola, polacco, e
d’intestino, ovviamente ceco...
Il porticato dell’elegante piazza del centro, dopo poche
settimane, sarà adornato da spontanee fioriture di violette e
ranuncoli germogliati miracolosamente negli interstizi tra le
mattonelle dei marciapiedi, particolarmente fertili.
E la morte per cacca finirà in vacca.
475
LA C.I.S.
Una delle peggiori casalinghe esistenti è quella isterica
scatologica.
La casalinga isterica scatologica, che da adesso
denomineremo semplicemente CIS, è in genere una moglie
efficiente e una madre prolifica sempre attenta ai bisogni
della sua famiglia.
E’ sottinteso che qui si parla di altri bisogni.
La CIS controlla, quasi sempre ad ora di cena, il
contenuto del vasino del bimbo più piccolo parcheggiato a
fianco del marito.
Il piccino mangia come uno yak, defeca e odora come lo
stesso yak.
In genere, tra il primo e il secondo della cena, urla
soddisfatto: “Mamma, fattooooooo.”
E’ il segnale.
La CIS lo solleva di peso da vasino, lo porta un attimo
in bagno per una pulitura sommaria lasciando il vasinoteca con la reliquia sempre a fianco del marito che si sforza
di mutare la percezione del puzzo di merda di bimbo, che
sempre merda è, in aroma di fettina alla pizzaiola.
La mamma efficiente ritorna ed esamina il contenuto
del vasino con aria di sensale.
Poi la mostra al marito che sta attaccando il contorno.
“Come ti sembra?
Un poco molliccia, vero?”
Il marito mugola a bocca chiusa, sempre sotto sforzo
cerebrale fantasioso nella trasmutazione degli odori.
La CIS, inoltre, ispeziona sistematicamente ogni sera le
mutande di tutta la famiglia alla ricerca delle famigerate
‘sgommate’, ovvero tracce di impronte corporalrettali che in
Toscana si chiamano più comunemente ‘loffe vestite’.
E si lamenta a voce alta con atteggiamento da martire:
“Ecco, vedi Pierino? La tua mutandina è sporca. E che
figuraccia ci fa, la mamma, se ti senti male e ti devono
portare in ospedale e spogliarti nudo?”
“Simonetta, ma che potrebbe dire il tuo fidanzatino?”
476
La CIS ridacchia divertita e acida della situazione anche
se Simonetta ha solamente otto anni.
“Carlo, accidenti a te. Ma se hai un mancamento in
Ufficio io come ci passo?”
Infine, a tarda sera, la CIS ispeziona il bagno.
Scruta con attenzione professionale la tazza alla ricerca
di qualche antiestetica macchiolina o striatura.
Poi ispeziona il bidet.
E’ da notare una notevole indulgenza di fronte alla
presenza di peli pubici: scuote la testa, ma abbozza, sia ben
chiaro, solo per i peli pubici.
Ed infine lo spazzolino del water..
Può accadere, a volte, che lo spazzolino presenti tra le
setole prove inconfutabili di una accurata pulizia della tazza
cui non ha fatto seguito una analoga pulizia dello
spazzolino stesso.
La CIS diviene allora una iena e piomba nella stanza da
letto mentre il marito sta socchiudendo gli occhi scivolando
nel più celestiale dei coma ristoratori.
“Carlo, sei stato l’ultimo ad andare in bagno, lo so. E
guarda come hai lasciato lo spazzolino del water.”
La CIS brandisce l’attrezzo come una clava e lo avvicina
pericolosamente al volto del proprio consorte che per
riprendere a macinare il ciclo REM dovrà attendere due ore
circa, turbato e timoroso di ulteriori reazioni.
La CIS poi ritorna nel bagno trionfante e annega lo
spazzolino in un contenitore apposito pieno a piacere di
conegrina e/o acido muriatico e/o calce viva.
La mattina seguente ripete il percorso scatologico in
senso inverso.
Il marito, secondo attendibili indagini sociologiche, può
diventare alla lunga un omicida semplice o anche
complesso con annesse smanie di tortura comprendenti la
coprofagia.
I figli invece, sempre secondo le stesse fonti di studio,
possono diventare durante la pubertà futuri coprofili o
potenziali mostri che getteranno la mamma nella fossa
biologica della nuova villetta al mare.
477
ECHI DI ECOFUTURO INSOSTENIBILE
“Allora è pronto questo volantino?”
“Quasi: i compagni del collettivo C.E.S.S.O. stanno
approntando il testo.”
“Forza, ché è sempre più necessario dare voce alla
protesta.”
“Ancora un poco di pazienza e siamo pronti.”
“Leggi, dai…”
“Sì, dunque: abbiamo un titolo che dovrebbe
traumatizzare il lettore con una forte provocazione.”
“Occacchio, dai, leggi.”
“Basta mangiare merda!!! E’ il titolo…
Il C.E.S.S.O., Comitato Ecocombattente Sotto Spasmo
Opercolare degli anarchici di sottosopra dappertutto indice
un corteo di protesta contro la nuova politica governativa in
materia di riciclaggio e riorganizzazione dell’ecosistema,
politica che puzza di manovre poco chiare e mesta nel
torbido.
Non siamo disposti alla regressione alimentare e non
tollereremo le solite speculazioni governative in conflitto
d’interesse a danno del popolo.
Partecipate numerosi per far sentire la vostra presenza.”
“Mi sembra che possa andare… Speriamo che non
finisca tutto in merda…”
Una offerta veramente speciale!
Da oggi fino alla fine dell’anno, grazie agli ecoincentivi
statali,
potrete
acquistare,
pagando
fino
a
duecentoventicinque comode rate mensili senza interessi
particolarmente rilevanti, SPLOF, il bioconvertitore di
nuovissima generazione capace di ridurre gli sprechi
organici fino al sessanta per cento rispetto ai bioconvertitori
sperimentali degli anni passati.
Una occasione da non perdere e un risparmio che si
traduce anche in maggiore potere d’acquisto per tutte le
famiglie.
Approfittatene!!!
478
Il bioconvertitore SPLOF cambierà in meglio il vostro
modo di vivere.
“Come va?”
“Malissimo: sono in crisi, depresso come non mai.”
“Che succede?”
“Non vado da tre giorni, ho una fame nera e al mercato
vendono solo verze che mi procurano acidità e che non
digerisco; e poi sono verze rinsecchite e striminzite, e
costano un occhio della testa.”
“Ah: un problema serio, dunque…”
“Molto serio, anche perché questi bioconvertitori, se non
si attivano regolarmente, potrebbero bloccarsi.
La portiera del mio stabile, una stitica da competizione,
ne ha buttati alla discarica già due, ché non esistevano
ancora le rottamazioni dei bioconvertitori, e con quello che
costano questi accidenti di cazzobubboli, incentivazioni o
meno…”
“Dio, come è vero! E come pensi di risolverla?”
“Sto pellegrinando di farmacia in farmacia alla ricerca
di un lassativo, una purga, della magnesia, ma sono finite
tutte le scorte. Mi accontenterei anche della scialappa per i
cavalli, ma nulla.
Gli enteroclismi sono scomparsi da mesi e poi non so
neanche se possano andare bene o inquinare.”
“Hai provato con i vecchi rimedi della nonna? Le prugne
secche? La frutta cotta? Acqua e limone bollente?”
“Seee lalléro: e dove le trovi le prugne secche, la frutta e
anche i limoni? Ci solo in giro soltanto verze e cipolle, ma in
quell’aggeggio infernale le risultanze delle cipolle vanno
bene solo per il riscaldamento o come deodoranti
dell’ambiente o al massimo come insetticida.”
“Coraggio, non ti abbattere. Ti mando da un medico che
conosco: è un essere diabolico che vende alla borsa nera
confetti Falqui, Dolci Euchessine e gelatine Rim. Il
furbacchione sta facendo una barca di soldi, proprio vero
che la merda porta denaro, ma se gli dici che ti mando io
magari ti fa uno sconticino…
479
Pensa: mi ha riempito di Fave di Fuca e mi sento come
Ambrogio, quello che va come un orologio.”
“Grazie, grazie: sei un fratello. Già quello che dici mi
rimescola lo stomaco…”
“Nonna, nonna, stasera ho amici a cena e ho il
bioconvertitore fuori uso: povera me!”
“Ma cara: corri subito a comprare SPLOF. E’ in offerta
specialissima con ecoincentivi governativi.”
“Ma costerà un pozzo, nonna! Posso rateizzarlo?”
“Ma certamente, cara, fino a duecentoventicinque mesi
con mutuo quasi agevolato e inoltre, ma solo per questo
mese, sei anche omaggiata di due quintali di zucchine
idroponiche di dubbia falda acquifera e di un quintale di
prugne secche sotto solfati di conserva a norma di legge,
tutto disinfettato con la mia vecchia e buona candeggina:
imperdibile, no?”
“Ah, ma allora corro al più vicino rivenditore SPLOF…”
“Cari radiospettatori buonasera. Quest’oggi abbiamo
come ospite il ministro per l’ambiente che risponderà ai
quesiti del pubblico presente in sala riguardo alla nuova
campagna civiltà e progresso inerente i nuovi bioconvertitori
SPLOF.
Buonasera, signor ministro. Mi tolga una curiosità
prima di cominciare: cosa significa SPLOF?.”
“Buonasera.
Colgo
l’occasione
per
salutare
i
radiospettatori e per augurare a tutti un sereno futuro
nonostante questi bui periodi di crisi da cui usciremo
brillantemente, ché già stiamo meglio di paesi emergenti
come l’Angola, il Burkina Faso e le isole Tonga
semisommerse ahahah.
Ottimismo, dunque, ottimismo…ahahah”
APPLAUSI APPLAUSI - BASTARDI DATECI SOTTO
“Grazie, grazie.
Bene, per soddisfare la sua legittima curiosità, le dirò
che la sigla SPLOF è un riferimento, sotto forma di
contrazione letterale, al primitivo concetto circa le
480
funzionalità per cui era stata progettata la macchina:
SPLOF come Spremi Loffe.
Il progetto iniziale prevedeva un congruo risparmio
energetico e contemplava la bioconversione delle cosiddette
emissioni gassose intestinali silenziose, le loffe appunto, più
dense e ricche dei classici rumorosi peti, in energia pulita
per il riscaldamento dell’ambiente con l’integrazione di una
componente deodorante.
Ulteriori prove di laboratorio hanno successivamente
squarciato orizzonti impensabili ampliando a dismisura le
funzioni della SPLOF e oggi tutti conoscono le potenzialità
di questo rivoluzionario elettrodomestico insostituibile per
una decente qualità di vita, tanto che, come tutti sanno, il
Governo
sta lanciando
una massiccia
campagna
pubblicitaria con lo slogan ‘Una SPLOF per tutti’.”
“Bene, grazie signor ministro. Cominciamo dalla prima
domanda, del signor Vacca Carlo di Caccamo.”
“Buonasera, signor Ministro. Ecco, vorrei sapere se
SPLOF funziona anche immettendo come materia prima
semplice diarrea o qualche sbroffo sporadico.”
“La ringrazio della domanda che mi consente di fare
chiarezza, una volta per tutte, sgombrando il campo da ogni
equivoco.
Sì. SPLOF funziona anche a diarrea e sbroffi. E’ stato
positivamente testato addirittura con semplici tracce di
sgommate nelle mutande, estratte mediante uno spatolino
che è stato poi aggiunto alla pur ricca dotazione di
accessori. E’ infatti provvisto di un solidificatore automatico
che interagisce con il convertitore e il forno a microonde in
una armonica sinergia creativa.
E’ sufficiente programmare i giusti tasti seguendo la
pagina dei menu sul comodo display amichevole: da una
scarica diarroica media, e questa è fonte ufficiale del
Ministero della Sanità, si possono ricavare fino a cinque
gustosissimi pasticcini al gusto di vera pasta di mandorle
siciliana o anche, in alternativa prevista dal menu, una
sogliola media, a vapore o alla mugnaia con una
spolverizzata di prezzemolo, oppure due cannelloni belli
caldi ripieni di spinaci e ricotta.”
481
“Grazie, signor ministro.”
“Passiamo alla seconda domanda della signora Leica
Cava in Piazza, di Meda.
“Signor Ministro, il marchingegno funziona immettendo
deiezioni di qualsiasi genere? Cioè, deiezioni ottenute da
qualsiasi alimento? E anche deiezioni di animali
d’appartamento o di campagna o selvatici?”
“Domanda molto interessante signora Caca”
“Cava, signor Ministro, in Piazza.”
“Sì, Cava, Leica Cava, scusi. SPLOF funziona con
qualsiasi tipo di deiezione. E’ stato testato con immissioni
di materiali ottenuti dall’elaborazione intestinale di crusca,
surgelati ancora gelati e anche squagliati dopo prolungato
black out elettrico, verdura e frutta, fresche e anche marce,
suole di scarpe bollite, segatura a vapore, cartongesso in
umido e calcina sbriciolata saltata in padella con porri
passati nel senso di appassiti quasi decomposti.
Funziona egregiamente, grazie ad un programmatore di
conversione assolutamente versatile: da un paio di suole di
scarpe, faticosamente espulse in un processo peristaltico
doloroso assai, ché era rimasto anche qualche chiodino, è
stato programmato un tiramisu di pasticceria artigianale al
caffè che ha poi ottenuto due cappelli di cuoco dalla guida
Michelin.
La conversione può avvenire programmando, oltre il
sapore fondamentale,
la consistenza del prodotto e il
colore.
Si può variare da una consistenza polentacea ad una
granulacea, micro e macro, fino alla variante filamentosa
che richiama visualmente gli spaghetti. E’ prevista anche
una consistenza croccante, un’altra secca e una
gradevolmente agrodolce.
I colori programmabili vanno da un brillante giallo
paglierino fino ad un verde smeraldo che i tecnici
assicurano assai vivace.
Una sostanziosa e allegra cenetta trasgressiva
contempla addirittura i colori violetto e verdino
fosforescente insieme ad uno stupefacente rosso fucsia.
482
Una serie di meraviglie, dunque, in questa sciccheria di
indispensabile elettrodomestico per la casa, ché la vita,
come dice la pubblicità progresso, con SPLOF, è davvero
degna di essere vissuta.
Inoltre il bioconvertitore SPLOF è stato testato su
inconsapevoli volontari disoccupati disorganizzati e in
ospedale su pazienti terminali, in accanimento terapeutico,
con ricordini di cani, gatti, scimmie, bovini equini suini e
ovini, castori e criceti e anche topi e coccodrilli. Il risultato
non cambia: il convertitore compie magicamente il suo
dovere e il menu di programmazione è assolutamente
fantasioso e molto vario. Lei pensi che dalle risultanze
intestinali di un procione è stato prodotto un appetitoso
pastone al gusto di timballo alla norcina con abbondante
spolverizzata di parmigiano grattugiato, tartufi neri e la
salsa bechamel.
Non è meraviglioso?”
“Grazie, signor ministro. E ora un’ultima domanda del
signor Tino Tenue di Belsedere, in provincia di Siena.”
“Signor ministro, il bioconvertitore SPLOF è prodotto
solamente dallo Stato o, come si vocifera, la sua costruzione
e distribuzione è appaltata alla stessa ditta che ha prodotto
molti anni fa i decoder per la televisione digitale?”
“Con lei non parlo, cribbio!
Lei è un provocatore comunista e un terrorista senza
Dio e mi rifiuto di rispondere a questa domanda capziosa.
Mi meraviglio che qualcuno le abbia dato il pass per questa
trasmissione e trasecolo che lei sia ancora a piede libero e
non sia stato trasformato in polpettinaggio per la filiera
governativa.”
“Polpettinaggio?”
“Giààà, caro il mio terrorista: polpettinaggio per i cani
da guardia del Primo Ministro, feroci molossi colagoghi, che
poi produrranno come bisonti il materiale da bioconvertire
in braciole al sangue per le guardie di scorta…”
“Vigilanza,
per
favore,
fermate
quell’uomo,
il
terrorisTino.
Sono mortificato con il ministro per l’intrusione
inaspettata.
483
La trasmissione volge al termine con i
inconvenienti della diretta di cui mi scuso ancora.
Un saluto cordiale e un arrivederci alla prossima.
Sigla, sigla.”
soliti
Leggere attentamente.
La ringraziamo d’avere scelto il bioconvertitore SPLOF.
Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è
provvisto di un meccanismo di omogeneizzazione della
deiezione
permettendo
la
conversione
ottimale
indipendentemente dalla consistenza del materiale organico
immesso e anche in presenza di residui mal digeriti come
bucce di peperoni, chicchi di mais e foglie di cavolo.
Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, accetta
materiale organico deiettivo di qualunque specie animale
anche se si suggerisce una certa cautela operativa rispetto
a granchi, scorpioni, serpenti velenosi, vedove nere e
rinoceronti.
Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è
provvisto di forno a microonde per la cottura e il
riscaldamento del prodotto bioconvertito e anche di un grill
elettrico per la tostatura e la gratinatura.
Può essere usato anche come pratico scongelatore in
pochi istanti e anche come termosifone e deodorante
dell’ambiente in cui vivete o diffusore di insetticida
In questo ultimo utilizzo arieggiare a lungo l’ambiente
prima di soggiornarvi.
Il bioconvertitore SPLOF, di ultima generazione, è
dotato, nella sua elegante confezione, di un inesauribile
ricettario per le programmazioni più sofisticate e fantasiose
del materiale introdotto e suggerisce in automatico le giuste
modalità di presentazione del prodotto bioconvertito.
Farete una eccellente figura con i vostri ospiti o i vostri
cari:ogni giorno una specialità nuova di cucina
internazionale o regionale. Basterà seguire le istruzioni di
programmazione utilizzando i tasti descritti e la vostra
tavola sarà imbandita con le più squisite leccornie che mai
potreste immaginare.
484
E vi potrete anche sbizzarrire creativamente con
l’accluso divertente set di formine in melanina, mono e
pluriporzione, e lo spatolino per la raccolta di esigue tracce
corporali, e anche miscelando colori e consistenza in
‘nouvelle cuisine’, divertendovi a ribaltare luoghi comuni
circa il colore e la compattezza del polpettone alla casalinga
o del tacchino ripieno.
Si raccomanda di detergere il bioconvertitore SPLOF con
una spugna morbida o una mappina da W.C. e con una
soluzione di lisoformio e ammoniaca diluiti in acqua.
Non esporre a fonti di calore o in ambiente umido.
Tenere fuori la portata dei bambini.
“Mio nonno buonanima mi diceva che nella vita, tutti i
giorni, bisogna mangiare un cucchiaino di merda per
sopravvivere, temprarsi e farsi crescere il pelo sullo
stomaco…”
“Mi viene da ridere e da piangere insieme: se ci vedesse
adesso…”
“Giààà. Ne ingurgitiamo certe vagonate giornaliere che
sembriamo tutti dei piccoli yeti, altro che pelo sullo
stomaco… Ma hanno il gusto di macedonia al limone e di
zampone con le lenticchie.”
“Speriamo solamente che non si guasti mai il
bioconvertitore, con quello che costa.
Un mio vicino di casa, povero, che non può permettersi
di riacquistarne uno nuovo dopo la rottura del suo, sta
imparando a farne a meno, a prezzo di enormi sacrifici e di
una ammirevole capacità di adattamento, ma dice, assai
sconsolato, che è una indubbia vitaccia di merda!!!”
485
NESSUN ALLARMISMO
Chiunque tu sia, aiutami, ti prego: sono di strutto.
Sono insaccato e depresso, anzi soppressato, da
interrogativi, da ipotesi, da informazioni martellanti, da
un’angoscia esistenziale che tormenta nell’associazione di
idee tra un semplice brutta fine, ad esempio quella di un
maialetto infartato (esistono gli infarti suinidi?), e un
insopportabile dolore, ad esempio lo stesso maialetto,
magari alla sagra del maialetto (dal punto di vista del
piccolo suino: che cazzo di festa eh?), macellato in presenza
di tutti e soprattutto senza anestesia.
Sono perseguitato da immagini, da ultime notizie di
agenzia, da un insistente a fastidioso chiacchiericcio
tuttologo senza riscontri e senza certezze.
E le immagini si fondono con altre immagini in
surrealtà che assumono contorni quasi comici.
Nelle mie fantasie mi vedo alzare la coppa al cielo, in
una botta di culatello, da vincitore di non so che cosa,
mentre in realtà sono sdraiato sul letto e guardo un film
esorcizzante, “Prosciutto, prosciutto”, senza riuscire ad
apprezzarlo, troppo catturato dai meta contenuti, tanto da
sorvolare su quella porchetta d’attrice e su quell’altra faccia
di salame dell’imbranato protagonista maschile.
E il guanciale mi sembra troppo duro, stagionato quasi,
e mi giro e mi rigiro nel letto con un forte dolore tra capo e
collo.
Gli è che tutto quanto stiamo vivendo mi sembra
genericamente una grande porcata, tout court, una storia a
vellicare gli istinti dei maiali ai giardinetti, quelli che
grugniscono dietro alle giovani balie rumene pensieracci
sconci sulla propria salsiccia più o meno piccante che
invece è obiettivamente soltanto un cicciolo.
Cerco di distrarmi, ma la goccia cinese colpisce
inesorabile e ripetutamente con cadenza esasperante.
I morti diventano, ora dopo ora, sempre di più, sparsi
nel porcile globale, e se ne sanno anche i nomi e se ne
conoscono anche i connotati e le abitudini: lo dice lo speck
486
con una voce di circostanza che grufola nelle trombe di
Eustachio con insistenza graffiante.
Tizio nel Texas faceva il porco con quella maiala di sua
zia, grande troia.
Padre O’Sempronio faceva il maiale con quattro o
cinque ragazzini dell’oratorio della sua parrocchia.
In Nuova Zelanda qualcuno si rode il fegatello, in
Messico ci si guarda con occhi porcini.
In Italia, per ora, grazie al monitoraggio degli organi
sani preposti, i porcini si raccolgono e basta.
Tra qualche giorno si potrebbero raccogliere,
accatastare su un carro di monatti, e bruciare in qualche
discarica costruita per una vita migliore non da maiali.
Si stanno coniando slogans governativi: Mai ali-mentare
paure.
Fioriscono già le leggende metropolitane: bisogna
guardare particolarmente sui nei… o suini…
A Roma già mandano li mortacci suini contro il mondo.
Mai le bestemmie e le interazioni offensive a base di
porco sono state così attuali.
Ed è la nemesi del porco che pretende la pari dignità
con l’uomo.
Del resto, a ben intendere il linguaggio dei maiali,
soprattutto quando s’incazzano tra di loro, le interiezioni
Dio Uomo, Umana Puttana Eva, Uomo Governo Ladro, sono
molto frequenti, quasi quanto i vari ‘porci’ urlacchiati in
qualche bettola di periferia urbana.
Gli organi di informazione integrano, approfondiscono,
richiamano come un inesistente o inefficace vaccino,
tranquillizzano col paradosso dello spavento o spaventano
col paradosso della tranquillità ostentata come un ciuffo di
setole pubiche di porco esibizionista convinto della
naturalezza maestosa del suo cazzo a cavaturaccioli.
Ho pruriti diffusi, somatizzazione dell’angoscia nutrita
da articoli doviziosi di particolari, e mi gratto in
continuazione la pancetta, dadolandomela con gli unghioli.
Mi sto facendo un sanguinaccio nero nero di paura in
quesiti universali esistenziali da porci e sottoporci.
487
Si dice che il virus sia un incrocio tra peste suina e
febbre aviaria: un poco come se un corvo si sia ingroppato
una scrofa senza preservativo impestandola.
Non voglio sapere, non voglio mutare.
Già adesso, confusionario, sto accarezzando l’idea di
integrazione da esprimere con un nuovo nome: Salvatore
Ame, detto Sal Ame, o anche meglio Sal Amen per tutti i
secoli dei secoli. Fossi donna mi chiamerei Maya Lona, con
l’invidia del salame al pepe.
L’Ungheria a ferro e fuoco e il paese di Felino e le città
di Milano e di Praga rase al suolo e bruciate per
precauzione, a frenare il contagio. Parma, Modena e
Piacenza bombardate.
Giustiziati erodianamente sulla pubblica piazza in
esecuzione sommaria tutti i figli dei cacciatori, i
cacciatorini.
Mi vedo tra i boia con qualcuno di questi, che l’ardo a
Colonnata.
Si affastellano luoghi comuni con immaginari articoli
prossimi futuri.
Ecco la foto della Morta della Madonna di Ferragosto, e
giù, particolari raccapriccianti su pustole, sui nei (sì, lo so,
mi ripeto, ma è una persecuzione) su testine e nervetti e su
zamponi affaticati da troppo camminare da casa a ospedale
e ospedale a casa per antivirali e mascherine per respirare
più tranquilli, senza garanzie, anche se sono di cotica,
cotenna, budellino.
Aiutami, ché non ce la faccio più!
Sono terrorizzato e mi ausculto ogni cinque minuti la
soppressata, pardon, la pressione.
Ma il termometro è diventato un wurstel di Merano: sai?
Quelli lunghi e fini.
E tutto muta in nuance con l’epoca in cui vivo e la
procella fuori, un semplice temporale che batte a raffica da
qualche giorno, diviene la porcella, e i porcellini che
inserzionano su siti di scambisti, di là che siano bisex o
rigorosamente etero, sempre comunque solari e mai lunari,
mi sono sempre più rosei e fratelli di specie.
Aiutami: penso che farò uno sproposito.
488
Giro nudo per casa specchiandomi di tanto in tanto di
profilo, con il coltello da affettati in mano, pronto per
qualsiasi evenienza, e mi scruto lo scroto e tutto il resto con
maschia determinazione funerea.
Quando vedrò crescermi la coda a ricciolo sopra il culo
mi macellerò.
489
490
TANTO PER DIRE
BAGATELLE SPERIMENTALITA’ E
INVITI A FERMARSI A PENSARE
491
492
VITA E MORTE
Il bimbo per gioco tirò in aria la sfera di vetro che cadde
e si frantumò…
Si estinse l’universo Gamma14.
493
BLOB – IL RITORNO
La mayonnaise impazzita soffocò ad un assaggio la
grassa signora che la stava percuotendo ritmicamente con
un cucchiaio in una scodella.
La donna cadde in terra paonazza dopo diversi singulti
e tentativi di tossire e rimase esanime.
La salsa si rovesciò dalla scodella sul suo petto,
vincitrice.
494
PUNTEGGIATURA
Gli piaceva scrivere.
Lo considerava un pungolo ed un esercizio per la sua
immaginazione, per sé stesso, e provava una certa
presuntuosa gratificazione narcisista al pensiero che
qualcuno potesse provare una seppur piccola emozione nel
leggerlo: del resto nessuno è esente da difetti!
Accettò una bizzarra sfida a distanza di una lettrice,
anche brava e profonda scrittrice, su una scherzosa
minaccia di abolizioni di punteggiature...
Del resto, pensò, nel panorama letterario è esistito
qualcuno che ha fatto a meno della punteggiatura dando
tuttavia pagine indimenticabili allo sterminato popolo dei
lettori: James Joyce con il suo interminabile e caotico
monologo di Leopold Bloom nell’”Ulisse” e il grande Marcello
Marchesi con il suo “Il Malloppo” autoanalitico e
perennemente spiazzante nella sua ironia pazza e surreale.
Volle misurarsi anche lui, molto immodestamente...e
perse la sfida per la sua reale incapacità.
Gli incisi di frase, non più arginati da ordinate virgole,
punti e virgola e due punti prolificarono come gramigna
invadendo il senso principale delle frasi e confondendo i
predicati verbali e i soggetti con gli oggetti e gli altri
complementi.
I congiuntivi, i condizionali e soprattutto i gerundi
ruppero le loro catene prorompendo finanche a inizio frase
in deturpazioni estetiche fuori norma.
I se e i ma si caricarono di troppe responsabilità e
confusero con i loro simili però e bensì interi capoversi
rendendoli incomprensibili. L’assenza totale di punti fermi,
semplici, esclamativi e interrogativi rese le parole ebbre di
felicità nell’espandersi sui fogli di carta disordinatamente...
Provò ad arginare l’anarchia della morfologia e
dell’analisi logica, ma dovette soccombere soffocato da
anacoluti, litote, polisindeti e altre forme letterarie ormai
imbizzarrite come puledri impazziti alla prima vera
galoppata in una pianura.
495
Fu definitivamente sopraffatto e, nell’abbandonare il
suo foglio zeppo di frasi senza costrutto logico, sorrise dalla
sua stanzetta nell’aria alla sfidante e le mandò mentalmente
un saluto.
496
AUTODIFESA DI VILE POETA
“Sono da te, mia Regina Fantasia, prostrato ai tuoi piedi
in adorazione, dopo avere attraversato tortuosi sentieri a
strapiombo sui precipizi senza fondo della logica che morde
sé stessa.
Sono al tuo cospetto dopo aver combattuto contro gli
scherani del pragmatismo e della concretezza che numerosi
ho incrociato nel mio viaggio per la più completa mia
conoscenza del tuo essere nel confronto delle tentazioni
sillogistiche.
Sono qui tra figure fantastiche e miti dopo avere
scantonato come un prudente viandante dal buio del
conformismo di creature uniformi e gelidamente prevedibili
senza passione, se non odio e suscettibilità.
E tu, ora, magnifica Signora della mia mente, vorresti
consegnarmi alla pazzia del senno senza tempo e senza
memoria ricusando la mia devozione, perché per te
inadeguata e insufficiente, per impormi il peso
dell’indeterminazione assoluta?
Che ne sarebbe di me, già provato da estenuanti tenzoni
con sapienti positivisti logici, con politologi arditi e faziosi,
con pratici esseri dialettici che della funzionalità hanno
fatto il loro vessillo di denominazione?
Perché, ingrata mia Signora, vuoi saggiare la mia
debolezza, perché vuoi la mia rovina, il mio annichilimento?
Sarò costretto a reagire, a difendermi, difendermi da
te...
Ho paura dell’estrema fantasia della pazzia, dell’essere
murato vivo con me stesso…
Perdonami…”
Cominciò lentamente e dolcemente a sfregare una
gomma da cancellare sullo scritto concitato a matita irto di
punte aguzze di sofferenza e tensione.
Minuscoli trucioli morbidi di grafite si sparsero sul
foglio che assunse l’aspetto di uno scartafaccio grigio
uniforme e sgualcito…
Visse l’uomo, discretamente a lungo.
Morì il poeta…
497
FLIPPER
SDING… glutk
SKATTLE rattle PCIK pcik pcik SPOCIOCK
“WELCOME TO LAS VEGAS”
shot shot KRACKKKKK RRRIINGGG
Sneeecckkk …..shiuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
CLANG tic 5 0 sdring tic 80
SPLINK SPLINK sdring SPLINK tic tic tic tic 2 5 0 tic 5 0 0
Catciokk catciokk tic tic 2 0 0 0 CLANG fiuuuuuuu tic 4 5 0
0
SPLINK SPLINK tic TADA BONUS rattle rattle 7 0 0 0 x 2
SSSSHHHHUUUUAAAAAAUUUUUAAAAA plink plink
Tic tic 2 1 0 0 0 pcick RATATATATA tic SPECIAL TIC TIC
Super BONUS tic CLANG 3 1 5 0 0 sdring sdring sdring
Catciokk CLANG fiuuuu Catciokk CLANG catciokk
Splokk PCIUKK
AHAHAHAHAHAHA sput sput tzè SHIT ahahaha...
Rattle rattle rattle SBRIIIIIINGGGGG tic tic tic X 2 X 4
3 3 0 0 0 tic 5 0 0 tic rattle 4 1 0 0 0 sbrockk STUMP
Good byeeeee.....sdring sdring sdring pung ciock
GAME OVER
498
QUESITI TEOLOGICI
Un orfano dalla nascita, senza genitori adottivi,
nell’impossibilità di onorare il padre e la madre, va
all’inferno?
L’onanista cieco o su una sedia a rotelle ha una speciale
indulgenza plenaria per un peccato già scontato con la
menomazione?
L’esercitare pratiche di amore orale rientra tra i peccati
di lussuria o di gola?
E’ prudente, cosa buona e giusta, raccontare la
parabola del figliol prodigo con il relativo vitello grasso in
Burkina Faso? Circa le parabole: si può sostituire il vitello
grasso con un montone nelle missioni indiane?
Il barbone che chiede l’elemosina davanti alla chiesa
con fede e la speranza della carità rispetta le tre virtù
teologali?
Il bucare con un ago tutti i preservativi di una catena di
montaggio può rendere soldati di Cristo, nel reparto
guastatori?
La confessione del bere abitudinariamente tutti i giorni
il vino della Messa e la relativa espiazione con due pater,
ave e gloria, è più o è meno efficace dell’iscrizione agli
Alcoolisti Anonimi?
Se ci si congiunge carnalmente con una monaca o con
un frate consenzienti si è colpevoli alla stessa stregua degli
addetti ai lavori, che conoscono meglio il regolamento?
Urlare all’improvviso “BO BO SETTETE” dietro una
grata che delimita la zona delle monache di clausura
facendo sobbalzare la pia canuta sorella è peccato veniale o
mortale?
499
A IOSA
“Tu di Pianosa ventosa, ed io di Canosa afosa…
Si fa conoscenza a Frabosa, su una pista nevosa,
scivolosa, meravigliosa…
Si osa…, ma poi è una cosa dolorosa, solforosa,
velenosa…penosa…
Rosa, Rosa, eri la mia pietra preziosa…
Ora è una questione oziosa: non potrai mai essere mia
sposa, languorosa ed altezzosa come una vezzosa sciccosa
sciantosa maliziosa, lussuriosa come una ventosa, setosa,
odorosa di mimosa, deliziosa, briosa, estrosa…
Ormai ti sei corrosa, sei una posa…
Sei artificiosa come una gazzosa, come una prosa
leziosa, cavillosa.
Sei smorfiosa, gelosa e malmostosa: è lite annosa,
tormentosa.
Sei una tosa pelosa, no, peggio, setolosa e gibbosa con
la bocca bavosa e la lingua rasposa; hai una voce
cavernosa, una pronuncia pastosa, noiosa, quasi
acquosa…e sei pure permalosa e nervosa: rasenti il
bellicosa ed il rissosa.
E sei golosa di certosa, di cimosa, di insalata
capricciosa oleosa: sei fin troppo ubertosa, burrosa,
lardosa, pesante come una grande losa, legnosa,
appiccicosa come cellulosa collosa. Sei cisposa e schifosa.
Roba da gettarsi nella Mosa o nel Flumendosa o nel
porto di Tolosa nebbiosa in un calo di pressione arteriosa
dopo un’endovenosa, con una Seat Arosa polverosa:
reazione macchinosa (ahahah) di persona scontrosa.
Meglio solo, a Villar Perosa, località montana ariosa,
con una gamba gottosa, da persona riottosa, a leggere
Giacosa, Vargas Llosa o una poesia mielosa amorosa;
meglio “miezze ‘na strada anfosa” oppur ghiaiosa a fissar di
notte una nebulosa od una stella luminosa pensando ad
un’amica fascinosa, hermosa como una mariposa…
Sei pallosa!”
“Oronzo, rimango senza parole, no, ne ho una…
…Stolto…”
500
SURREALIA ANIMALIA
L’estinzione dei velociraptor dipese essenzialmente dalla
prevalenza generazionale di troppi esemplari onicofagi…
Andare a caccia di prede minacciando con sibili sinistri,
ma senza unghioli, ha determinato la loro fine…
“Dottore…”
“Mi dica tutto con calma, Sire…”
“Amo da impazzire enormi grilletti di insalata mista: ne
sono un cultore… Mi piace mettere assieme diverse qualità
di insalata, qualche foglia di orchidea viola leggermente
amara, della valeriana, due foglie di castelfranco, delicata e
variegata di giallo e vinaccia, due foglioline di rucola
piccante e un po’ di canasta… Mi piace accompagnarle con
due ravanelli tagliati fini fini a rondelle, un mezzo cetriolo,
una carota piccola cristallina, un mezzo finocchio, del
sedano e del cipollino fresco… Impazzisco per l’insalata…”
“Sire, ma lei è un leone…”
“Sto pensando di abdicare, infatti…”
L’ippopotamo travolto da passione si giacque con la
fragile gazzella trasgressiva…
Ora l’ippopotamo è solo…
Le iene, al solito, ridono senza rispetto e vorrebbero
presentargli altre gazzelle per continuare a divertirsi
malignamente…
Lo sciacallo spera che l’ippopotamo si innamori di
nuovo…
La timida e vergognosa giraffa si è nascosta da qualche
parte: non sopporta il ridicolo di una pitonessa miope
follemente innamorata, abbarbicata al suo turgido collo,
lasciva…
La scimmia urlatrice è di specie recentissima:
millenovecentosessantotto, l’anno di uscita del film
“Duemilauno odissea nello spazio”. Se qualcuno ricorda, la
scena dell’evoluzione dell’uomo, con la scimmia che
501
percuoteva con un osso altre ossa, costituisce la nascita
della nuova specie. Quella scimmia sbagliò un colpo e
cominciò a urlare…
L’intelligenza animale si manifesta al massimo della
potenzialità nello scarabeo stercoraro.
Esso vive in zone desertiche presso greggi di capre o in
prossimità di zone frequentate da piccoli animali come ratti
selvatici.
Evita accuratamente zone di pascolo e alpeggi alpini
frequentati da mucche e continuerà a farlo fino a quando
non si inaugurerà una palestra per scarabei, o fino a
quando non sarà in grado si spingere una carriola…
Al solito, le formiche nere e le formiche rosse sono rivali
e si combattono, ma, al solito, spesso, un formichiere, con
la lingua e con le buone, o un figlio di …malmignatta
velenosa, con le cattive, le mettono tutte in riga.
502
DICE UN CAPPELLANO
Non sono, queste righe, versi del Poliziano, un trattato
yunghiano o freudiano, un libro di Montalbano su un
ripiano, un dialogo di Luciano o un brano del Leviatano per
un domenicano in un’abbazia sopra il Gargano.
E’ solo il ragionare piano d’un argomento arcano: del
diffidare urbano nostrano di fronte a un mussulmano di
questo od altro meridiano, un comune sentire a Volpiano,
Ceprano o Castelvetrano.
In questo tempo strano un po’ marziano, un balzano
pakistano castano e nano in caffettano senza pastrano col
Corano in mano a Merano sarebbe imprudentemente
insano e rischierebbe l’ano.
Il
valligiano
ariano
similgermano
luterano
sguinzaglierebbe un alano, belva come un caimano, o un
pastore maremmano marcatore come un centromediano…
Rimarrebbe, nel giro di un volano, un barracano
smozzicato su un divano pacchiano a fianco di un
canterano, sporco di sangue e guano, ridotto a un
gonnellino di banano o ad un merletto di Burano, dopo una
lunga eco d’urlo lontano atroce di indostano…
Né destino più ridanciano, è lapalissiano, ci sarebbe a
Milano per un mullah afgano, nemmeno discendente di
Solimano, di fronte ad uno scherano bossiano devoto al
capitano Alberto da Giussano, malvolentieri repubblicano
italiano, padano, nato a Desenzano, che butterebbe in un
vulcano qualsiasi cosa di iraniano od egiziano: non ha,
infatti, tolleranza di monaco tibetano, né pietà di
francescano nel mese mariano.
Traccerei quindi, come Magellano, una rotta di condotta
su un portolano, non certo per un catamarano in ontano,
da Fano a Loano, ma per un vivere sano metropolitano nel
rispetto umano.
Credo che sarebbe, tuttavia, un gesto vano rispetto ad
un qualsiasi prevenuto marrano pisquano…come bere il
lago di Bracciano neanche fosse vino trebbiano, vermouth
Galliano o amaro Lucano, o come volare da gabbiano o
pellicano sopra Albano che non ha un oceano Indiano, a
503
ridosso come è dell’agro romano, presso l’altopiano
tuscolano del frascatano.
Al pari d’un cristiano ai tempi di Diocleziano, o d’un
dulciniano ai tempi d’Avignone, il tempo è malsano oggi per
un maomettano considerato, a torto, buono per un
vespasiano o per San Patrignano...
Roba da circo Medrano!!!
Quadro di schifo, anzi di Schifano!!!
504
RADIO
Stuck…whuoossshhhhhh…
UUUUUIIIIIIIiiiiiìììììììììììc…crrrrr..crrrrr…Errediesseeeeeee…
I’VE GOT A POWER DDRAA DRA DDRAAAA crrr…
Uuuìììììì crrrr mare forza sei in prossimità di capo
Pass…sshhhhhuuuuuaaaaaa
Crrrr…per il tuo sederino d’oro…uuuiiiiììììì…uuuuiiiiììììì…
One o One…crrr…Cinque….
STUNF STUNF STUNF STUNF STUNF STUNF
CRASSSSHHHH
I’ VE GOT A POWER....DRRAAAAAA STUNF STUNF
ccrrrrr...
...verde per viaggiare inform...
crrrr...italia…network…SBBRRRAAAAAAAAAAAANNNNNGG
GGG
STUMP STUMP STUMP
“Insomma basta! C’è gente che dorme e che domattina va a
lavoro!...”
(Ma vaff…)
Click.
505
TOUR EIFFEL
Bonjour…Sclipp Sclapp sclipp sclapp
S’il vous plait…Merci...Stop...CLANG…
Strrreeeeekkkkkkkkk sklang STACK
GNEEEE...SKKRRRRRIIIIIKKKK...GNEEEE
SGNAAAK
CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK...
CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK CREEEK...
STACK
Première étage...CLANG Strrreeeeeekkkkkk sklang
Sclipp sclapp scliipp sclaapp
OOOOOOOHHHHHHHH.....Voilà...
It’s wonder...belliss...oooohhhhhhhh
Scattle scattle RIIIING scattle DRRRRINNNGGG
Attention...Attention...Monsieur NOOONNN NOOON...
FLYYYYYSWHOSHOUUUUUUUUU......
SPLAT
506
OMELETTE
Tic...tic...SPLACK...Sschoouuuu
Tic...tic...SPLACK...Sschoouuuu
RATTLE RATTLE SBATTLE SBATTLE
SBATTLE SBATTLE RATTLE RATTLE
Click...clik...click...SCHACK...SWOSSHHOOUU
SDENG...gluglugluoillllllll
Sversssssssss...SCHAAAAA.....
SFRRRRR....SFRIGGG....FRRRRR...FRRR...
SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH...SFRRR...Oplà...
SFRRRRR...SFRIGGG...FRRRRRR...FRR...
SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH...SFRRR...Oplà...
SFRRRRR...SFRIGGG...FRRRRRR...FRR...
SHOP SHOP SHOP....SWUSHHHH...
SPLAT
Porc...Ma vaff...zz..
507
CYRANO ALTER
Cos’è un’ambulanza?
E’ l’apostrofo con la sirena tra le parole: “con l’amo
arrugginito ho preso il tetano.”
508
SCRITTORE MANCATO
Da ta..ta..tanto tempo ho il de..de..scidevio di scviveve
qua…qua…qualcoscia, un libvo, vacco..vacco…vaccontini
oppure un dia..dia…diavio.
Adovo scviveve, viem…viem..viempive pagine e pagine
bia…bia…bianche con le mie scensciazioni, i miei penscievi,
e poi ascoltave i pave..pave..pavevi di chi mi le…le…legge.
Mi pvende pevò lo scon…scon…sconfovto già alle pvime
vi…vi…vighe
di
quando
scvivo
e
devo
pven…pven…pvendeve atto che sciono
e savò uno
scvit..scvitt..ove mancato, e per scempve….
Del vesto… con la lisca, l’evve moscia, e que…que…sta
fastidioscia bal…bal..balbuzie anche mentve scvivo,
obie…obie…obiettivamente posscio fave poca stvada…
509
TELEGRAFIRONICA
Idee leggere, abbozzi, situazioni, pastiches, bagattelle,
aforismi, pensieri più o meno profondi, cattiverie e
cinismi all’insegna dell’ironia, in ordine sparso, da pigro
Invece che a scacchi, come nel film “Il settimo sigillo”, o
a poker, come in un raccontino di Woody Allen, volle giocare
con la morte a Poker Strip per dare alla sfida con la signora
della falce anche un tocco di erotismo all’insegna del motto
“amore e morte”.
Vinse con un poco di fortuna qualche altro anno di vita,
ma rimpianse l’erotismo di tempi andati in una impotenza
irreversibile: fu troppo traumatizzante vedere un bacino così
nudo, bianco, freddo, …ossuto…
Riconobbe la sua vecchia cliente di venti anni prima: le
aveva tatuato su un suo giovane nervoso gluteo una
farfallina.
Inorridì al rivedere la sua opera.: un grasso sformato
tacchino adagiato su un puff.
Di fronte all’abate dello sperduto convento, per il suo
primo colloquio di presentazione, lui, che aveva scelto il
ritiro dal mondo per la ricerca di una sua pace interiore,
comprese in un istante di essere caduto dalla padella alla
brace.
Quell’abate lo carezzava troppo fraternamente…
La storia d’amore tra la Donna Cannone e l’Uomo
Proiettile ha suscitato tenerezza e ha portato nuovi
sponsors per il Circo: Oto Melara per lei e Fiocchi Munizioni
per lui.
Sono innamoratissimi e vogliono un figlio, anzi, una
figlia.
La chiameranno Mina.
Il vile individuo, codardo coniglietto tremulo, sorpreso
come al solito da reazioni decise ed immobilizzato dalla sua
510
eccessiva prudenza, fu colpito al petto a bruciapelo: si salvò
perché aveva il cuore in gola…
Un cavallo di pantalone tentò di brucare un cespuglietto
nel bel mezzo d’una sala da ballo: successe un finimondo...
Chi lascia la strada vecchia per la nuova…si trova
imbottigliato in un cantiere.
Troppo drammatici i titoli dei telegiornali, o troppo
apprensivo e fantasioso io…
“Brucia l’Emilia…” Raccapricciante: mi figuro un
donnone che fa la pasta all’uovo mentre arde tra atroci urla
per il fornello difettoso…
Notizia del giorno sui quotidiani: “Può essere utile il
trapianto da un maiale.”
Penso che potrebbe essere vero: su certi porci non si
avrebbero effetti di rigetto…
L’inguaribile ottimista, ingrassando, non perde la linea,
ma cambia una linea retta con una linea curva.
L’amore comincia a morire nello stesso istante in cui si
comincia a percepire nell’altra metà l’odore dei piedi e
l’alitosi.
Posso dire di avere vinto una discreta somma al
Superenalotto, da quando ho smesso di giocare…
E’ un eterno ragazzo pieno di fantasia con la sindrome
di Peter Pan.
E’ diabetico.
Cerca l’insulina che non c’è.
La colf filippina ha messo al cane, per la passeggiatina,
il collare dell’Annunziata del Commendatore.
E’ stata licenziata.
511
Lo scrittore lesse l’opinione di alcuni membri
dell’Accademia della Crusca circa la questione dei
congiuntivi e dei condizionali.
Dissentì con astio e ironizzò sull’Accademia.
La ribattezzò Accademia della Segala.
Il numero di Voltan il domatore di leoni con la testa tra
le fauci di Sultan da questa sera è stato soppresso.
A Sultan è stato praticato un clistere di dodici litri di
camomilla e sapone.
Voltan aveva una sessantadue di testa per il suo
cappello…
Povero Sultan.
Anche l’ultimo film del noto regista impegnato del
Tagikistan, Zoran Mottenaccorgieff, “Alba senza sole con
emicrania”, in quel tipico bianco e nero sgranato
volutamente svogliato e provocatorio, ha ottenuto cinque
pallini dalla critica e due palle dal pubblico.
In Transilvania i metronotte in bicicletta sembrano
Hawaiani.
Hanno tutti un serto di agli come collana floreale sopra
la divisa.
C’è anche l’ukulele dei lupi sui monti.
In andropausa, tutto quello che viene perduto
progressivamente dal cervello, viene spesso acquisito dalla
pancia…
Sto cominciando ad ingrassare scrivendo queste
sciocchezze senza cervello…
MENS NANA IN FORFORA VANA
512
SUORE E CACCHINE DI BIMBO
Riesco a spingermi con la memoria fino a quando avevo
quattro anni circa ed abitavo all’altro capo di Roma, verso la
basilica di S.Paolo, in un appartamento piccolo piccolo che
trasudava di sacrifici per accogliere una giovane coppia
monoreddito, me e una sorellina di due anni scarsi.
Di quel periodo ho immagini vaghe e sfocate alternate a
scene nitide di eccellente fotografia: un balcone in
muratura, senza ringhiere, all’ottavo o al settimo piano di
un palazzo verdino, un tappeto nel balcone per giocare in
terra con i soldatini e per costruire fortini con scatole di
latta di biscotti e pezzetti di proto-Lego ancora in legno
colorato.
Ricordo sfocato un vecchio Allocchio Bacchini, un
televisore posto alla fine di uno stretto corridoio, e ho vaghi
richiami di veteroclips musicali trasmessi nel pomeriggio: il
duo Fasano, Julia De Palma, Arturo Testa e Gino Latilla, e
qualche Carosello serale prima di andare dormire, come era
costume allora per i bambini, subito dopo.
Ricordo il mio primo libro, nulla di ricercato: il classico
Pinocchio in una edizione ingiallita degli anni venti o trenta
con belle illustrazioni ad acquerello.
Lo lessi attanagliato da un duello: quello tra la fatica
della lettura di bambino, che solo allora imparava a
scandire le sillabe, e la curiosità di una storia che mi
affascinava. Vinse la curiosità, e rivinse ancora due o tre
volte, sempre con lo stesso libro e lo stesso inizio: “C’era
una volta…Un re…”
Ritorno con la mente in quel piccolo alloggio molto
luminoso e si accende un caleidoscopio di ordinarie scene
quotidiane e colori e luce: quella gialla aranciata calda
accecante del sole della mattina nella camera da letto, una
luce più ombrata nella cucina esposta a mezzanotte, con un
colore verde incubo di broccoli che non mi piacevano, il
buio lampeggiante del corridoio in bianco e nero con voci
calde e sorrisi…
Da questi quadretti di scene familiari la mente spazia
gradatamente squarciando i veli del tempo e altre scene si
513
accendono con lo strofinio dei miei piccoli sentimenti di
bambino che rendono vivide alcune emozioni.
Un sentimento di vergogna
e una emozione
nell’imbarazzo.
Vedo un torpedone rosso sotto casa, quello che mi porta
tutte le mattine all’asilo delle monache, una trovata dei miei
genitori che vogliono il cosiddetto meglio per il loro virgulto:
destinazione via Pannonia, in un altro quartiere lontano di
Roma, e loro sono le Suore del Preziosissimo Sangue, un
nome allegro per bambini dell’asilo, invogliante.
Mi vedo salire ogni giorno su quel torpedone con un
cappellino di lana gialla spessa, fatto a mano da mia madre
a “tricot”, legato con un bottoncino sotto la gola, appena un
poco stretto, ma non tanto da strozzarmi, con una visiera
esagerata di cartone rivestita da uno strato pesante della
stessa lana gialla: una testa a tuorlo d’uovo di bambino
scemo con visierone da piccolo JerryLewis d’aspetto molto
tonto.
A quattro anni avevo già la percezione del ridicolo e
sentimenti di vergogna, anche perché ero segretamente
innamorato, per come può esserlo un deficiente con la testa
gialla di quattro anni, di una adorabile bambina delle
elementari, di circa sette o otto anni, che forse aveva già
maliziosamente compreso e giocava a stuzzicarmi con
moine da sorellina grande.
Mi vedo, a questo punto, già dentro l’asilo delle
monache, austero e divertente come una rispettabile
polverosa biblioteca universitaria, con la mia valigettina di
plastica celeste con dentro i pastelli e un quaderno nero con
le pagine ingiallite già da nuove, bordate di rosso, come un
messale, su un banco con il calamaio, con un compagno di
banco di nome, mi sembra, Funghini, con una parete che
era un armadio gigante vetrato con dentro libri e tante
costruzioni di legno e giochi istruttivi.
Rammento una luce severa, quasi una penombra,
nell’aula, mentre scricchiolavano i pennini o le matite
copiative sui fogli righettati dei quaderni neri per fare tante
O oppure le aste.
E qui subentra il mio incubo: suor Virginia.
514
Era una suora traccagnotta e grassottella di mezza età,
arcigna, molto rude, assolutamente poco pedagogica per la
mia imberbe capacità critica di fruente di un servizio
didattico a quattro anni.
Quando c’era lei, invece di un’altra suorina più giovane
e dolce, non volava una mosca, e tutti noi, credo, si contava
mentalmente i minuti per uscire nel cortile e fare una
ricreazione rumorosa con due automobiline di metallo a
pedali, un pallone, qualche corsa o un nascondino dietro
qualche magro alberello, mi pare di fichi.
Si riaffacciano ora tante associazioni di idee a immagini
sfocate, forse belle, e altre, nette, per me bruttissime.
C’era un teatrino nell’istituto, confinante con la chiesa,
e mi ricordo la recita pasquale con me che declamavo, rosso
di vergogna come un tacchino, una qualche filastrocca:
“Din, don, dan, campane a festa
din, don, dan, la gente è desta,
din, don, dan levate i cuoriiiiiiii….
Per entrare nel teatrino, come attori intendo, si doveva
passare per la chiesa, sempre semibuia con una luce
colorata scura filtrante da vetri colorati.
Ho cominciato da lì a fare le mie prime associazioni
suoni colori odori: scalpiccio di passi e pesticcio su marmo
e tavole di legno, l’odore d’incenso associato alla polvere
delle assi del palcoscenico e all’odore persistente di mele
cotte di suor Virginia in una luce strana violacea di vetrata
o gialla e violenta di riflettore sulla scena.
E questo, forse, è il bello…
Poi l’associazione più traumatica, ridicola, vergognosa…
Agli odori, suoni e colori di prima mi sovviene di
aggiungere la cacca, sotto diverse epifanie, ridicolmente
comiche, ma anche plasmanti nel trauma per un giovane
carattere di bimbo implume.
L’aspetto comico fu quello della cacca di Enzo, un mio
compagnuccio roscio roscio di capelli che sembrava una
carota ambulante. Se la fece addosso, in chiesa, mentre si
cantava tutti a squarciagola “T’adoriam ostia divina…”.
515
“Roberto, oddio, ho mal di pancia, ho mal di pancia,
non ce la faccio più…”
Poi il silenzio di Enzo, contrito, innaturale, mentre tutti
cantavamo con devozione, ed una inattesa rivelazione
fuoriuscire dai pantaloni, lunghi, del piccolo fedele.
Il condor suor Virginia che piomba con un sinistro e
silenzioso sbattere d’ali nere come la pece, frettolosi segni di
croce del rapace e della carota, scalpiccio veloce con un
onomatopeico ‘ciac, ciac’ di cacchina squacquera di bimbo
pesticciata sul marmo: questo è il ricordo nitido di Enzo il
carota e della sua cacchina. Poi tutto si spegne: forse Enzo
affettato per il minestrone delle suore, forse trasformato in
ostie o mele cotte, non lo so, e mi viene di pensare, per
concatenazione, alla mia cacchina, la cacca parte seconda,
la cacca il ritorno, la cacca 2, con un nuovo protagonista.
Me.
Io eruppi nelle mie braghette corte piuttosto strette
durante la ricreazione nel cortile.
Non ricordo se consumavo un pranzo preparato dalla
mia mamma con le sue manine d’oro oppure un qualcosa di
monacale preparato anonimamente per tutti da qualche
suorona grassoccia nelle cantine.
Con il senno di poi, presumo, considerando anche
l’increscioso episodio del carotino, che il vitto fosse “made in
suora”.
Non mi trattenei, insomma, ma non ebbi nulla da fare
vedere a nessuno e tenni il mio segreto per qualche minuto
fino a che non sentii cuocermi la tenera pellicina di culo di
bambino di quattro anni da un qualcosa di bollente.
Allora, timoroso, ma fiducioso in una benevola
comprensione, riferii al condor.
Il ricordo qui si frammenta e sfilaccia. Non posso
giurare che suor Virginia, sanguigna e rude, non abbia
sacramentato, almeno un poco: ricordo qualche bofonchiare
mentre venivo sommariamente strofinato vicino ad un
rubinetto dietro il cortile.
Il trauma che mi è ancora impresso nel ricordo fu nel
dopo.
516
Mi rivedo lì, nel cortile, educato e forgiato con spirito di
abnegazione apprezzabile, fulcro di un grande girotondo di
tutti i miei compagni di aula, anche se non ricordo Enzino il
carota. Mi rivedo vergognoso con le labbra strette ad una
fessura carica di acerbo odio omicida che fisso la vecchia
laida suora nera nera, con le mie mutande piene poste da
lei sulla mia testa a scherno e monito per tutta la classe che
gira in tondo a me, ridente e inconsapevole di ciò che è
giusto e ingiusto.
Quanto ho odiato suor Virginia! Era il 1956.
Quattro anni dopo si seppe di Kindu, nell’ex Congo
Belga, di quella strage di suore missionarie nel Katanga.
Non so se fu una coincidenza, se fu una deformazione
della notizia da parte mia, se è realmente successo come ho
odiosamente vagheggiato…
Mi pare che una di quelle suore si chiamasse Virginia e
credo, ma forse sognavo solamente, che quelle suore
missionarie fossero del “Preziosissimo Sangue”.
Avevo otto anni circa, ma non avevo dimenticato.
Gioii stoltamente per l’atroce fine di quelle monache
fatte a pezzi, senza alcun rimorso o commozione, in piena
malvagia gioia vendicativa di ragazzino offeso nel suo io più
intimo di quattro anni.
Forse, a ben pensarci, è stato il mio primo manifestarmi
d’adulto, con una primitiva scheggia impazzita di odio, o
solo un naturale crescere umano di impasti orrendi e osceni
misti a tenerezze e buoni sentimenti spazzati via, nella
contingenza, da una mutanda piena di cacca di bimbo che
ha ferito un bimbo più di una spada.
517
DESECRATION BLUES
O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone,
La vecchia Sally, scontrosa, è spirata stamattina ad un
pallido sole.
La vecchia Sally, brontolona, è spirata stamattina ad un
pallido sole
O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone.
La vecchia Sally, esigente, non potrà più cucinare
Lo stufato salato con fagioli messicani.
La vecchia Sally, rude, non potrà più lavare al ruscello
Strofinando con energia casacche di juta con cenere di
ranno.
Ed io rimango solo, o Signore, che mi permetti di raccogliere
il cotone,
E affogherò la presenza dell’assenza della vecchia Sally nel
liquore di canna
E ti ringrazierò, o Signore, che mi permetti di raccogliere il
cotone,
Al coro delle voci dei miei fratelli neri madidi di sudore.
Ti ringrazierò perché hai preso la vecchia Sally, polemica,
che è spirata stamattina
O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone.
Ti ringrazierò contrito e intimamente sereno
Perché mi hai tolto la vecchia Sally, vera rompicoglioni, che
è spirata stamattina,
O Signore, che mi permetti di raccogliere il cotone.
Lode a te, e grazie, o Signore, che mi permetti di raccogliere
il cotone.
518
UNA SECONDA POSSIBILITA’
“Millenni e millenni addietro, uno spazio di tempo
inimmaginabile, avvenne.
Non si ha memoria del luogo: è trascorso troppo tempo.
Era il periodo delle piogge.
Pioveva ogni giorno un’acquerugiola leggera e viscosa di
un curioso colore petrolio, oleosa come il petrolio,
fosforescente per una forte radioattività.
Pioveva ovunque attraverso un’aria grigia e spessa
appena mossa da un vento leggero a volte tiepido, a volte
freddo, ed un pallido sole giallognolo, quasi verdastro come
un aspro limone acerbo, illuminava un mondo grigio
filtrando da spesse coltri di nubi gonfie ancora
d’inesauribile pioggia viscida.
Il ticchettio delle minuscole goccioline faceva da tappeto
sonoro di sfondo a qualche rauco richiamo di pochi
gabbiani violacei.
Questi volteggiavano pigri su un’enorme distesa di
spazzatura vicino a rovine corrose di quella che un tempo
doveva essere una megalopoli di una qualche civiltà estinta.
La pioggia inzuppò, con un denso massaggio di liquidi
aghi, un insieme indistinto di materia che, molto tempo
prima, era cartone, vetro, alluminio, plastica, legno,
metallo, inchiostro, elementi rari e comuni depositati e
dimenticati nel tempo in quella radura.
L’acqua penetrò strati di silicio di antiche macchine,
coperti e protetti da altri strati di cellulosa informe fusa in
innaturale omogeneità con metalli leggeri e vetro disciolto
da vecchi calori.
Solleticò reazioni chimiche sconosciute unendo nel suo
abbraccio materiali diversi tra loro.
Un raro fulmine cadde sulla distesa dei rifiuti con un
fragore lacerante nel silenzio rotto dal continuo scroscio e
dalle stridenti grida degli uccelli.
Qualcosa fu percorso da un’energia violenta e si mosse.
Un magma impastato di spazzatura radioattiva
fuoriuscì lentamente dal mare di rifiuti in una forma
519
appena abbozzata d’essere vivente vagamente somigliante
ad un antichissimo umano di milioni di anni prima…”
Piccoli riflessi di luce nel buio siderale più profondo
comunicavano tra loro e qualche giovane spirito apprendeva
la storia più antica del mondo con l’energia dell’evoluzione
ultima del pensiero.
“Fu la creazione dell’uomo, grande Mor?”
Calò un silenzio innaturale di meditazione, di
riflessione, di placido e calmo sgomento per l’enorme
incommensurabile
periodo
di
tempo
trascorso
nell’ignoranza e solo da poco nella saggezza.
Poi, un breve lampo, la risposta di un pensiero.
“Fu una seconda occasione. Una seconda possibilità.”
520
PENSIERI SPARSI
Il poeta curioso e goloso sbircia nei buchi del groviera
per trovare una gemma in una grotta d’oro.
Bugiardini: croce e delizia della mia curiosità morbosa e
apprensiva.
Guardo subito gli effetti collaterali. Rimango stranito,
tra il perplesso e il beffardo. Su un foglietto c’è scritto
testualmente così: effetti collaterali – la morte.
Valuto che gli effetti collaterali enunciati come possibili
da un altro bugiardino, espressi in carcinoma alla
mammella o al collo dell’utero, intossicazione epatica,
emorragia,
distacco
della
retina
e
quant’altro
ragionevolmente serio, non giustificano la fruizione di un
semplice ovulo da introdurre vaginalmente per una
maggiore lubrificazione. La scienza al servizio di una
trombata in menopausa chiede un pesante tributo da
pagare.
Tutti hanno ragione su tutto…dal loro punto di vista.
La parola ‘oggettività’ mi viene da associarla a qualche
utensile di misurazione, un goniometro, un manometro,
una qualsivoglia valvola che sorvegli qualche flusso: c’è
sempre bisogno di un tecnico mandato da chissà chi per la
manutenzione e la taratura.
I momenti in cui l’ignoranza forse sa essere anche
comica seppure terribile.
Reparto di ospedale: esce da una stanza un personaggio
visibilmente soddisfatto. La moglie apprensiva chiede
curiosa, pressante e apprensiva. E lui, orgoglioso, come il
possessore di una raccolta di figurine di calciatori, per una
volta completa anche del centravanti della Pro Patria: “
…Una malattia rara…”
Mi piaceva, una volta, quando non ero distratto come
ora, giocare a scacchi.
521
Ho anche evocato immagini per racconti mai scritti
surreali o di costume.
“La Regina era così bella e affascinante che alfieri e torri
riuscirono a stento a tenere a bada quei rozzi pedoni
stupratori: ne venne sacrificato uno per l’esempio…
L’arrocco di Donna è più lungo di una casella rispetto
all’arrocco di Re: è la casella di servizio per il beauty case, i
bagagli a mano, la guantiera e le riviste da viaggio”.
Non per tutti la gola è, o è stato, un vizio capitale: per
esempio per Linda Lovelace.
Il lupo, checché possa dire il proverbio, può perdere
anche il vizio: con opportune cure farmacologiche e la
castrazione chimica.
Mi viene da aggiungere che potrebbe essere sufficiente
anche qualche pollo d’allevamento pieno di ormoni, ma ho
paura di impantanarmi in un discorso troppo complesso:
non riesco, poi, ad immaginare un lupo con le tette…
Consiglio:
non
agitate
…soprattutto i precoci…
tutto
prima
dell’uso,
Ipocrisia del tipico benpensante.
Sta lì al semaforo rosso, guardingo, atteggiato
benevolmente verso il giovanissimo marocchino che ha un
vassoio come una coniglietta di night club pieno di
fazzolettini di carta e accendini e spugnette per il vetro della
macchina. Il ragazzino parla sorridendo, ma gli occhi
tradiscono una speranza troppe volte frustrata: sta
raccontando qualcosa di sé al bravo autista che lo squadra
paterno. Sta sollecitando un acquisto per compassione, sta
calpestando ancora una volta per fame il suo orgoglio pur
mantenendo una sua elegante dignità.
Ha appena accennato di aver saltato il pasto…
L’autista gli dà una pacca sulla spalla sorridendo
partecipe e complice: bravo il piccolo buongustaio che salta
il pasto… in padella…bravo giovane ometto di mondo che sa
vivere dei piccoli piaceri della vita…
522
Con questo non voglio dire che sono per l’adozione
totale di tutti i piccoli saltatori semaforici: mi innervosisce
solamente certo comportamento
Mi immagino su uno Skania turbo intercooler alto,
massiccio e imponente, dietro il bravo autista…
E si continua con le ipocrisie e le banalità che mi
irritano e per le quali tempero la punta di un affilato
cinismo per controbattere in maniera da togliere il fiato.
“I soldi non hanno odore” oppure, più elegantemente:
“Pecunia non olet” che, detto in latino, rende carismatica la
saggezza del citante…
Che stupidaggine: provate a pulirvi il culo con
cinquanta o cento euro!
Ovviamente il culo diviene metafora per una retorica
figurazione moralistica che bla bla bla bla…
Dicono che l’olio versato porti male, che sia un
sinonimo di disgrazia…
Io credo che se su una grossa grassa chiazza ci
scivolasse una odiosa suocera plurimiliardaria
che
ricadesse poi pesantemente di nuca dopo un salto mortale
all’indietro, la nuora o il genero interessati si troverebbero
nella stessa condizione mentale di chi ha fatto un bingo nel
Nevada. All’anima della disgrazia…se il testamento non
prevede un beneficiario cane lupo o coniglietto domestico o
santa confraternita neoreligiosa dei “Bambini figli di madre
vedova allegra che ricordano tutti i giorni la fine del mondo
vicina”…
Tutto questo per fare notare che non tutto è come lo si
vede o come viene presentato.
Posso integrare il concetto con alcuni esempi:
“Sono stufo di pedalare sempre, non ce la faccio più!”
“Pedala, pedala, che se smetti Robertino ti cava gli
occhi”.
523
Non è un dialogo tra ciclisti che parlano dell’allenatore,
ma tra criceti, in cricetese squittente, dentro una gabbietta
con la ruota.
“Mi stai togliendo il fiato...”
Non è un’amante sudata e felice, ma una vittima dello
strangolatore di Boston.
Potrebbe essere anche donna Assuntina a Pozzuoli: la
moglie di Gennarino o’ scorreggione, il guappo del quartiere.
“La situazione è sotto controllo.”
Non è il Ministro dell’Interno durante uno sciopero
generale, ma la dolce e al contempo severa infermiera
Emma che rapporta alla capo sala l’avvenuto cambio dei
pannoloni della camerata ovest dell’Ospizio Geriatrico San
Bagnolo dei Pantaloni.
“Mettiamoci una pietra sopra.”
Non è un litigante dopo un’accesa discussione finita a
tarallucci e vino, ma il becchino capo, scusate, il necroforo
capo del cimitero monumentale.
“Hai occhi dolcissimi.”
Non è un innamorato perdutamente partito per la sua
lei, ma un cannibale del profondo Mato Grosso di fronte ad
un esploratore diabetico.
“Si vvai avanti così te perdi ‘na gomma.”
Non è Romolo, meccanico di Pietralata, quartiere
popolare di Roma, ma il Dott. X., chirurgo plastico, sempre
di Roma, che parla ad una sua paziente che ha effettuato
presso un concorrente un intervento di siliconaggio al seno.
“Incassalo.”
Non è un invito di un bancario circa un assegno, ma di
un becchino, ops, scusate ancora, di un necroforo.
“Adesso mi sono veramente rotto.”
524
Non è lo stufo o lo scocciato per una discussione, ma
quello che è scivolato dal predellino dell’autobus preso al
volo.
“Ci sono due etti in più, lascio?”
Non è il salumiere col prosciutto cotto, ma il chirurgo
plastico, forse sempre il solito Dott. X., con una tetta al
silicone.
Quando si dice ‘essere out’…
Credevo che l’ultimo miglio della Telecom fosse una
nuova specie di mais OGM.
Credevo che il Signore degli Anelli fosse il ricettatore al
bar sotto casa.
Credevo che accendere un mutuo fosse una crudele
pratica incivile contro un disabile o un quiz.
Credevo che la mostrina fosse quella ragazza di Novi
Ligure.
Gare innocenti di pub.
Il comitato promotore della “Prima gara di bevuta di
birra” del pub “La taverna dell’oca arrostita” alla periferia di
Monaco di Baviera ha esposto un cartellone informativo per
i suoi clienti:
SI COMUNICA ALLA SPETTABILE CLIENTELA CHE LA
SECONDA GARA DI BEVUTA DI BIRRA, PREVISTA PER IL
PROSSIMO MESE, PER MOTIVI DI SICUREZZA E ORDINE
PUBBLICO, SI TERRA’ PRESSO LO SPIAZZO ANTISTANTE
IL PUB, DALLA PARTE PIU’ LONTANA VERSO IL BOSCO,
GRAZIE.
La prima gara ha avuto infatti degli effetti collaterali
estremamente pericolosi per l’incolumità dei presenti: sono
andate in frantumi tutte le vetrine e buona parte dei boccali
del grazioso locale.
Partecipavano molti concorrenti reduci dal concorso
“Mister rutto di Baviera”.
Crollo di un mito: ho saputo che l’uomo che non deve
chiedere mai è pieno di debiti.
525
Noia.
Vita associativa e comunicativa come un ‘loop’ risaputo.
Domande ricorrenti, prevedibilità di risposte, feroce
divertimento masochista nel sottolineare l’aspetto ‘trendy’ di
argomenti salienti.
Come hai trascorso l’ultimo dell’anno? Ti sei divertito?
TV: ‘dejà vu’.
Servizi sempre ‘loop’, buoni dal ‘novantadue o anche
prima fino al duemiladodici o anche dopo, se Gorgo Bush lo
permetterà.
‘Reportage’ sui soliti quattro esibizionisti denominati
‘orsi bianchi’, ‘surgelorsi’, che fanno il bagno seminudi il
primo giorno dell’anno.
Il parere autorevole dell’esperto sul come smaltire gli
eccessi di calorie assorbite con il cenone di capodanno:
mangiare verdure, bere molto.
Bollettino delle vittime dei botti per farci sentire
migliori.
Panoramica giustificativa e tranquillizzante della
coscienza sui terremotati e sui cassaintegrati: se non altro il
nostro pensiero rimane vigile.
Il primo nato dell’anno è di Torino, forse, un minuto
dopo la mezzanotte, anzi no, dopo cinquanta secondi:
madre felice inquadrata con tetta spremuta.
Ricorrerò ad un bravo avvocato per chiedere i danni alla
Rai. Sono rimasto accecato da due capezzolate violente
sparatemi negli occhi dalla Venier che, strafatta, si agitava
in una improbabile macarena in primo piano sullo schermo
l’ultima notte del duemiladue.
Fortunatamente è stata una cecità provvisoria.
Ho riaperto gli occhi in pieno trauma di Maurizio
Costanzo sbavante con sassofono.
Sono diventato sordo.
Ricorrerò ad un bravo avvocato per chiedere i danni a
Mediaset.
Il mago Fox prevede per il mio oroscopo del 2003 che
finirò sul lastrico: sordo e semicieco.
526
Quando l’ottimismo rasenta il surreale.
Alle 23,45 del 31 dicembre qualcuno in diretta porge
auguri di buon anno da una televisione privata, tra un’asta
di un fratino del settecento e l’offerta di un sofà Luigi sedici.
Il bello è che sembra che arrivino offerte…
Da un’altra parrocchia ti propongono, senza neanche
farti gli auguri, automobili a chilometri zero…
Per un abbozzo di ‘par condicio’ o di semplice
compensazione, almeno nell’ultima notte dell’anno, magari
subito dopo il discorso alla nazione, avrei sperato in un bel
normalissimo buon film porno senza censura, anche
vecchio, chessò, di Linda Lovelace: purtroppo siamo sotto
un regime amorale a base di cartoni animati, riproposti per
la trentesima volta, e di conti alla rovescia con vip festanti.
Posso ormai indovinare con un’approssimazione del tre
per cento quante otturazioni ha Stanlio e il numero dei peli
che costituiscono i baffetti di Ollio. Posso fornire altri
succosi dettagli su: “Il piccolo lord”, “Una poltrona per due”,
“La vita è meravigliosa”, “Il cucciolo”, “Willow”, “Sister Act”
(uno e due), “La carica dei centouno” (film e cartoon),
“S.O.S. fantasmi”.
I morti viventi li hanno pressati nello zampone.
I vampiri li hanno bloccati con l’aglio per paura che
sparissero i sanguinacci.
Dove andremo a finire?
Il concerto di Capodanno è trasmesso con i sottotitoli
per i non udenti a pagina 777 del Televideo?
Le società finanziarie di prestiti hanno visto i loro
introiti aumentare vistosamente nell’ultima settimana
dell’anno: sono stati accesi diversi mutui per potere
accendere tanti festosi fuochi d’artificio per festeggiare il
nuovo anno.
Anche al Monte dei Pegni regna una moderata
soddisfazione…
I cinesi rappresentano l’ ‘hard discount’ dei giochi
pirotecnici.
527
L’economia tutta e la Borsa seguono con trepidazione e
interesse il duello economico tra le ‘lobbies’ di Canton e
Shangai e quelle di Pozzuoli e San Giorgio a Cremano.
Qualche ‘bauscia’ ha provato ad inserirsi nella
concorrenza dalle valli del bergamasco, ma rimane un
semplice ‘outsider’ pirlotecnico.
Mancava
‘baffino’
Tonino
Guerra
(Gianni,
Giaaaaaaannnnniiiii, sono ottimista…) come presenza
diretta, ma degni epigoni lo hanno ben sostituito in servizi
di (buon) costume televisivo.
Sono state setacciate le zone più sconosciute del
pianeta alla caccia di personaggi che potessero infondere
una certa fiducia nel futuro all’insegna del doversi
accontentare di quello che offre la vita.
Hanno ripreso un vecchino di ottanta anni che ne
dimostra trentadue che vive solo in maniche di camicia in
una malga a duemila metri d’altezza con la sola compagnia
di una vacca e di un cane. E’ allegro, forse troppo
allegro…forse semiciucco. Dice che si sveglia la mattina alle
cinque e va a dormire alle otto di sera: la mucca alza i
mansueti occhi al cielo. Lo dice come una persona
soddisfatta: Parigi val bene una grappa.
Quel poco che gli offre la vita, nelle vesti della Rai, è
stato un barile di pura acquavite di vinaccia aromatizzata al
genepin. Terminate le riprese televisive, rimette la ‘guepiere’
e la sottoveste colore lilla alla mucca perché altrimenti
prende freddo.
E, intanto, tocca.
La vacca ci sta.
Il cane è invidioso.
Mi scopro sempre più acido e cattivo.
Siamo sicuri che la fiaccolata per la pace nel mondo tra
le nuove case prefabbricate a San Giuliano non abbia
incenerito il nuovo similpaese in compensato?
Nessun trapezista in manifestazioni circensi di
festeggiamento ha concluso definitivamente senza metafore
il vecchio anno?
528
Possibile che non esistano
soffocamento di lenticchie?
morti
accidentali
da
Forse l’ho sognato, ma qualche politico aveva proposto,
nella concomitanza delle festività, casette prefabbricate per
i terremotati in marzapane e torrone, modello Hansel e
Gretel…
Il traffico telefonico nella sera di capodanno è
paralizzato non tanto dalle brevi telefonate fatte ai parenti,
quanto da quelle brevissime fatte agli amanti, dal chiuso del
gabinetto, al riparo da occhi indiscreti. La teoria può essere
confermata dall’afflusso abnorme di acqua di scarico di
sciacquoni nelle fogne urbane tra le ventitré e le
ventiquattro. O è la gelatina avariata del patè di prosciutto
della gastronomia sotto casa?
Alle sei del mattino del primo gennaio si possono
ascoltare, in un silenzio irreale di fine festa, fragorose risate
di persone attempate che urlacchiano frasi senza senso o
fanno l’imitazione del Gabibbo.
Sono genitori ritornati dalla tombola tra arteriosclerotici
parenti che riprendono possesso di case affidate per un
veglione indipendente ai loro figli.
I virgulti hanno festeggiato grandiosamente a mega
cannoni di roba buona. Ma non hanno aerato i locali.
Papà e mammà non si sono neanche accorti di quelle
macchie arancio acido sulla moquette di quello che non ha
retto il pakistano.
E’ la farmacia il termometro per conoscere la qualità
media dei cenoni di fine anno.
I prodotti più venduti sono l’Enterogerina, l’Imodium e
le perette di enteroclismi monodose…
Anche un ascesso ha la sua funzione positiva nel senso
della vita. Offre la consapevolezza dell’essere vivo, seppure
in un dolore della Madonna.
529
I funerali pubblici mi frastornano: i presenti, in genere,
applaudono. Mi aspetto sempre che qualcuno gridi: “Bis”…
Ieri mi è anche venuto in mente che la buonanima
possa uscire dalla bara e possa prodursi in un profondo
inchino.
Bacco, tabacco e Baricco riducono l’uomo ad un brocco.
La dimensione del livello di sordità di una persona ha
facili misurazioni.
Per esempio: mia zia di novantuno anni è molto, molto,
molto sorda. Io pronuncio, sillabando, con voce stentorea,
la parola “mano” e lei capisce “frangiflutti”.
Quando si dice di uno che è ‘bastardo dentro’…
Mi è venuto in mente uno spot per pubblicità progresso.
Ray Charles oppure Stevie Wonder o Josè Feliciano,
uno a caso, che rivolto verso il pubblico dice: “Toglietemi
tutto, ma non il mio Braille”.
Ogni tanto sono convinto di avere confezionato un
aforisma o una semplice battuta che valga la pena di
tramandare.
Questa la riporto da un commento espresso verso un
valido poeta che verseggiava di amicizia.
“Gli amici sono come i capelli: invecchiando, ne cadono
sempre di più.”
Una vocina lieve, malferma e assai divertita: “Spingi
ancora, …più in alto…”
L’altalena sembra volare nel cielo azzurro.
Un’altra voce, affettuosa e teneramente responsabile:
“Ancora un poco, nonnino, ma poi tocca a me”.
530
VARI QUELLI DI VARIA UMANITA’
Ci sono, ci si convive, ci si può anche riconoscere
parzialmente o completamente e non è obbligatorio
dichiararlo pubblicamente.
E’ un insieme di categorie che esiste e persiste come un
perseverare diabolico.
Mi brucia tremendamente dirlo: ci siamo dentro più o
meno tutti, tutti allineati o catalogati, sicuramente
autodefiniti nel buio delle nostre stanzette dalla nostra
coscienza, ognuno con il suo piccolo distintivo, la sua
cimice all’occhiello, e sicuramente ci sono dentro anche io,
almeno parzialmente, almeno in una categoria, spero
vivamente in una soltanto, o almeno in poche…
Posso anche promettere di ravvedermi, ma pencolerò da
una categoria di quello ad un’altra senza potermi staccare
dal gran cordone ombelicale di quello…
Quello che ha un cane solo per rimorchiare una
graziosa proprietaria di cane, e quello che porta il nipotino
al giardinetto per rimorchiare le graziose giovani balie.
Quello che, quando passa una donna intrigante che lo
guarda di sottecchi, tira in dentro la pancia e guarda con
indifferenza un punto indefinito all’orizzonte in posa
plastica neo-romantica gonfiando il petto.
Quello che si mette a sedere sul tram vicino a quello
che legge il giornale per risparmiare novanta centesimi
perché tanto si leggono sempre le stesse cose, e quello che
viaggia in tram senza biglietto vicino alla porta di uscita
pronto a scendere se salgono i controllori.
Quello che sbircia la fotografia di una gnocca
pelosissima che sporge da un cassonetto e si guarda
intorno
circospetto
per
non
farsi
scorgere
così
morbosamente curioso.
Quello che frega il resto alla vecchietta semicieca o al
ragazzo un poco tardo.
Quello che serve agli ospiti il vino del cartoccio di
cartone in una caraffa e dice che quel vino è decantato per
tutta la mattina, e quello che spaccia la pasta del hard-
531
discount, peraltro buona, in pasta artigianale comprata in
un posto esclusivo che conosce solo lui.
Quello che spiaccica le caccole del naso sotto un
qualsiasi tavolino che non sia il suo.
Quello che guarda con lubrica libidine da satiro una
ragazzina che ha un anno in meno o in più di sua figlia.
Quello che mette al mondo un figlio per assicurarsi una
vecchiaia confortevole.
Quello che annacqua il whisky o il cognac dietro il
bancone del bar e fa l’offeso se dite che sembra un poco
evaporato.
Quello che a fine viaggio in treno razzia tutti gli
scompartimenti vuoti di riviste e giornali per poter leggere
gratis per una settimana.
Quello che dice che non bisogna fidarsi mai di nessuno
perché tutti te lo vogliono mettere nella portineria.
Quello che va spiare le e-mail di altri o entra in
innocenti computers di persone private come pirata
informatico in cerca di segreti pornografici in nome di una
sfida al sistema, e quello che spia le cassette postali dei
vicini.
Quello che controlla e ricontrolla il conto del ristorante
almeno cinque volte.
Quello che gioisce segretamente di una disgrazia
capitata al prossimo perché per questa volta l’ha scampata
lui e assume una faccia contrita con tanti sospiri e
interiezioni di conforto.
Quello che quando tira fuori il portafogli per pagare
qualcosa si guarda intorno per vedere se ci sono
malintenzionati interessati al suo portafogli.
Quello che è medico e ascolta il paziente sordo chiedere:
“Capricorno?” e risponde gelido e professionale “No,
Cancro!”
Quello che solo dopo che l’automobile è sul carro
attrezzi dei vigili si accorge che è l’automobile sua e rincorre
il carro attrezzi urlacchiando frasi senza senso.
Quello che gira con i vetri appannati, il telefonino
all’orecchio, il mozzicone ustionante tra le labbra e la moglie
che picchia da davanti i bambini dietro che giocano al
532
campionato di sumo e suona il clacson davanti al pedone
sulle strisce.
Quello che alla festa di pensionamento del collega si
riempie le tasche di pasticcini dicendo che li porta alle
creature.
Quello che la sera abitualmente mangia solo una
minestrina e una fettina di formaggio ed invece stasera che
paga il suo amico al ristorante sta triturando il suo settimo
antipastino freddo in attesa dei caldi.
Quello negativamente invidioso che senza farsi
accorgere sputa sulla pista di pattinaggio di ghiaccio nella
speranza di far scivolare qualche leggiadro pattinatore.
Quello che è avvocato, ma non ha un granché voglia di
faticare per pochi spiccioli e si appella quasi sempre alla
clemenza della corte.
Quello che è ristoratore e da ventiquattro avanzi di
arrosto di un matrimonio tira fuori la specialità della casa:
polpettone casalingo del giovedì.
Quello che è urologo e ridacchia perché uno ce l’ha
piccolino o perché un altro si è preso un’infezione venerea.
Quello che grida allo scandalo se vede la sua vicina alla
finestra di fronte che tromba col postino, però non dice che
la vede col binocolo da sopra l’armadio.
Quello che pesta una merda di cane e cerca di pulirsi la
scarpa sfregandola sul filo del marmo del tuo portone di
casa.
Quello che è ingegnere e parla di “inattesi problemi
incontrovertibili nella tensione delle strutture” quando è
appena
crollato
un
suo
progettato
cavalcavia,
fortunatamente senza vittime, dopo un acquazzone
definibile solamente medio-forte.
Quello che al cinema lascia acceso il telefonino e allo
squillo invece di spegnere al brucio scusandosi risponde e
colloquia a voce alta, anche da incazzoso, confondendo i
dialoghi del film che invece parla di una suora missionaria
pietosissima.
Ama il prossimo tuo come te stesso?
Se l’invito ha connotazioni di reciprocità, è un semplice
invito o una minaccia?
533
Ed ho voluto considerare in questa parata degli orrori,
peraltro spesso solamente veniali, ma irritantemente
veniali, solamente i miserabili e i cialtroni in genere, quelli
quotidiani, i dilettanti rubagalline, tralasciando i
professionisti mani di velluto o artigli di falco delle
prevaricazioni su campo planetario, tralasciando gli affaristi
e gli speculatori in grande scala senza frontiere.
Sta montando, in una certa confusione prospettica di
travi e pagliuzze, la mia ira che lascio scorrere in maniera
terapeutica nelle vene al pensiero che esiste veramente tale
fauna umana e che ne faccio parte anche io...
Poi scoppio in un fragoroso riso liberatorio, isterico e
amaro, sicuramente impotente, al pensiero di quanto
abbiano sudato e sofferto personalità come quelle di
Ippocrate, Aristotele, Avicenna, Pasteur, Curie, Barnard,
Montagner, Gallo e tanti altri grandi della medicina che
hanno speso anni e anni della loro esistenza per il
miglioramento della qualità della vita del genere umano...
Mi domando che senso abbia la vita...
Forse, ahimè, sto rientrando nella categoria di quelli
che dicono che siamo troppi, che ci vorrebbe una bella
guerra nucleare, un’epidemia devastante, un castigo divino
biblico sotto forma di grandioso tsunami o di invasione di
omini verdi col raggio della morte, uno sfoltimento
generalizzato…, ma non ho il coraggio di farmi da parte
autonomamente per dare il buon esempio…
…
…
…
Mi salvo sempre, con quel forse…
…
…
…
BANG
534
ACIDE RIFLESSIONI ANCORA ATTUALI
L’alibi dell’incomprensione.
Come si scrive o si pronuncia
granata, in palestinese?
E in israeliano?
il “BOOM” di una
Potrei accettare positivamente gli OGM nell’unica
ipotesi di produzione di un fagiolo che possa avere i suoi
soliti effetti collaterali al sentore papaia o mango,
soprattutto su metropolitana o tram affollatissimo.
Ho lo sguardo lungo rispetto allo strisciante
revisionismo storico in atto che si vuole proporre sui libri di
testo scolastici.
Immagino qualche passaggio descrittivo, tra pochi anni,
a proposito di divulgazioni per ora ancora innocue e
innocenti, su qualche formativo sussidiario per le
elementari.
“Il fulmine è un fenomeno elettrico che colpisce a caso
improvvisamente, anche bambini e innocenti, e distrugge
tutto con violenza inaudita: il fulmine è un fenomeno
elettrico comunista.”
Si vive forse troppo sulla difensiva e ci si presenta
sempre più diffidenti aspettando una fregatura, un sopruso
o un torto.
A volte si richiama quasi ritualmente la sfiga…
Un mio amico, nel timore di furto dell’automobile
parcheggiata sotto casa sua, ha avuto la brillante idea di
montare il ruotino di scorta, quello rosso, che consente
soltanto prestazioni d’emergenza.
“Tanto l’adopero poco e solo in città”.
Stamattina ha trovato sotto casa il ruotino…appoggiato
al marciapiede, dove prima c’era la sua macchina.
Un mio amico ha un cellulare superlativo: GPRS,
MMS,video giochi, tecnologia blue tooth, java, fotocamera,
535
suonerie polifoniche personalizzate, 500 numeri in
memoria.
Ne è molto soddisfatto.
Parla dalla mattina alla sera con segreterie telefoniche o
ascolta una voce suadente che comunica che il cliente da
lui ricercato non è disponibile.
I condoni fiscali sono un poco come le indulgenze
plenarie: sono gesti di perdono che richiedono un rituale di
espiazione.
L’unica differenza è che un’indulgenza plenaria per
avere fornicato su una spiaggia è quasi un gesto tenero di
comprensione rispetto ad un condono per avere edificato un
megacondominio sulla stessa spiaggia dove si è fornicato
qualche mese prima.
E’ sconfortante notare che il bianco mondo occidentale,
generalizzando, si eccita e sbava di morbosa curiosità e
segreto piacere alla vista e all’odore del sangue.
E’ agghiacciante notare che l’eccitazione e il brivido per
versamento di sangue caucasico procede di pari passo con
la più totale indifferenza per quotidiane stragi di
negritudine.
E’ terrorizzante, a questa considerazione, il sentirsi
rispondere:
“E’ vero, hai perfettamente ragione, scusa.
Dovremmo in effetti eccitarci e sbavare di goduria per
tutti.”
Amo l’autunno per quella sensazione inimitabile di
caldo che danno le castagne arrosto e gli scioperi generali.
Scioperi dei consumatori.
Mi viene malignamente da pensare che se non
funzionasse il servizio fognario ci potrebbe essere qualcuno
che indice uno sciopero della cacca.
536
Morire il due novembre è un poco come nascere il 25
dicembre: si viene defraudati di una festa e si è vittime di
risparmi sui regali e sui fiori.
Il passaggio innocuo dall’ora legale all’ora solare, con
l’illusione di un’ora benefica di sonno in più, può
nascondere insidie e tormenti inenarrabili con un’ora in più
di sofferenza, soprattutto se hai cenato con peperonata
fredda o cipollata e ti rigiri nel letto con incubi o insonnia.
Nell’osservare certa gente mi viene da pensare a
Darwin. E lo considero, a volte, uno sprovveduto
superficiale.
Lui digitava messaggi con punti e G maiuscole e
minuscole e lei, lettrice, aveva strani languori che
culminarono infine in un orgasmo.
La poesia non è sempre così presente come si vuole
credere o fare credere.
Una stupenda immagine dissolvente per emozione e
lacrime di sofferenza spesso è solo una banale visione
distorta da una volgarissima cataratta.
Il foderare una parete di libri e d’enciclopedie per
insonorizzare una stanza da quella di un vicino rumoroso è
un gesto di ipocrisia: ma elegante, affascinate e originale.
Qualche gobbo ogni tanto si porta fortuna.
537
ANTIPODI
Una grotta di vetro scintillante e insieme opaco è
l’ambiente, oppure di ghiaccio, con un colore pallido di
ametista violacea.
Stalattiti e stalagmiti si intersecano in prospettive
falsate creando l’illusione di una grata o di una cancellata a
trattenere, a imprigionare, a chiudere.
Rumore di gocciolio regolare, di stille calcaree che
rintoccano tempi arcani.
Sensazione di spazio immenso e di incomunicabilità: un
qualcosa che evoca riservatezza, ritrosia, esistenza
nell’ombra e nella solitudine.
Venature di malinconia lungo pareti lisce, ma anche
frastagliate di rughe di tempo e memoria.
Freddo intenso che abbraccia ogni cosa con brina
magica rilucente nella penombra.
Alla luce tenue lattiginosa, confusa tra vapori di nebbia
morbida come una coltre, si staglia una figura incorporea
austera, immobile a capo chino. E’ irrigidita, come un
militare che renda onori, davanti ad una lastra pesante di
pietra nera lucida che pare illuminarsi dall’interno.
Il marmo assume consistenza trasparente in una luce
algida che proietta immagini e movimenti.
Luminosità crescente. Scena vivida: colore.
Una deliziosa bambina con due treccine bionde
risplendenti corre con un triciclo lungo un viottolo tra siepi
assolate e fiori seguita da sguardi amorevoli di congiunti
trepidanti e fieri, soddisfatti e felici.
Sono immagini di vitalità solare ed energia che fanno da
contrappunto all’atmosfera umida e crepuscolare della
grotta di cristallo.
L’ombra spia il quadro familiare assorta.
Con un tenue sorriso accompagna l’allegro variopinto
triciclo che rappresenta ricordi o rimpianti di ciò che fu.
O di ciò che sarà: il tempo è un concetto opinabile.
Pensieri e preghiere da un mondo verso un altro.
La morte e la vita sono concetti relativi.
Chi prega chi…
538
PROSPETTIVA
Non mi piace quel sorriso esagerato.
Mi suona di falso, di debolezza e di difesa, d’elasticità di
tessuti in ginnastica facciale.
Mi irrita.
Accompagna uno spiare attento di rughe, un atteggiare
l’espressione ad accettabilità con volto comunicativo, aperto
e simpatico, un provare sguardi penetranti che possono
essere interpretati come fascinose e profonde sonde
interiori.
No. Non mi piace.
Per fortuna l’incontro dura soltanto il tempo necessario
per un dignitoso presentarsi, il tempo di una lavata di
faccia, di uno sbiancare il sorriso e di una pettinata
vanesia, e termina sbrigativamente con un’ammiccante
strizzata d’occhio e con quel risolino indisponente.
Da solo, poi, mi tranquillizzo in silenzio e riflessione.
Lo stesso volto uguale a quello di prima, ma quello vero,
forse il mio, fissa pensoso una parete sempre uguale di
piastrelle celestine in un bagno deserto e medita sui misteri
e le verità delle prospettive e su chi sia il tenutario effettivo
di un’anima.
L’altro è in giro…
539
MONDO RANDOM
Sorrise debolmente e i parenti intorno al letto piansero
di commozione immaginando una liberatoria incoscienza
arteriosclerotica.
In realtà il vecchio ingegnere si cantava mentalmente
un vecchio motivetto ridanciano: “son contento di morire,
ma mi dispiace; mi dispiace di morire, ma son contento”.
Si pose ultimi interrogativi, curioso come un bimbo,
consapevole di non avere risposte, speranzoso di trovarne a
breve senza paure, fiducioso.
La luce scemò lentamente trasformando i presenti
dolenti in ombre e calò un silenzio di sinestetico colore
nero, freddo come un lenzuolo di lino in una notte
d’inverno.
Rimbombò nel buio un basso elettrico, gracidante come
un rospo, e una batteria scandì emozioni senza tempo
(contraddittorio, invero) a tappeto ritmico per lancinanti
chitarre distorte.
La luce stuprò lentamente l’oscurità con sensualità
estenuante.
Lui galleggiava su raggi stroboscopici nel vuoto, ad un
suono martellante, musica d’altra esistenza, in uno spazio
ferito da sciabolate di fari violenti e sanguigni, solo, in
compagnia di un’unica figura possente, lontana e
indefinibile, che si agitava elegantemente a tempo.
Riflesso incondizionato: schioccare di dita…
Fu accarezzato da un mormorio d’acqua scrosciante di
una invisibile cascatella mentre una dolce melodia di flauti
e sitar dialogava con un cinguettare di uccelli e uno
stormire di fronde nella luce riposante di un’alba
interminabile.
Era solo, tra rocce muschiate di verde brillante, tra il
luccicare delle gemme di rugiada su fili d’erba, e scorse
una figura solenne, lontanissima, avvolta da una bianca
tunica.
Sembrava in assorta contemplazione del paesaggio,
quasi assente in profonda meditazione.
540
Altro riflesso incondizionato e altro schioccare di dita…
Divenne materna e sommessa, la luce, tra dorature di
stucchi e velluti cremisi di un immenso teatro vuoto, in
avvolgente suono d’archi immortali affiatati da un’eternità.
Era in fondo e scorgeva la sola sagoma di un aitante
direttore d’orchestra che agitava solennemente la sua
bacchetta per dirigere l’invisibile orchestra.
Impossibile resistere anche stavolta: schioccò le dita…
Sprofondò in un accogliente divano nell’immenso salone
di un lussuosissimo albergo deserto.
Di fronte a lui una figura seminascosta era immersa
nella lettura di un giornale senza data, dalle pagine
bianche, inquietante.
Il silenzio governava l’ambiente, a parte il frusciare
dell’irragionevole giornale.
Non osò rompere l’equilibrio incomprensibile e attese,
curioso, un segno a spiegare tutto.
Fu invaso e conquistato da un sorriso del personaggio
che ripiegò il giornale.
“E’ tempo di conoscere, dunque, non credi?”
“Sì, se è possibile: sono curioso.
E poi sono anni che aspetto: credo che sia giusto
sapere, se non sono arrogante…”
“Puoi schioccare le dita ogni volta a piacimento, fino a
che non abbia trovato l’ambiente che ti faccia sentire a tuo
agio.
Puoi cambiare ogni volta che vuoi: basta un altro
schioccare di dita…”
“Questa è la verità?”
“Questa è una parte della verità…
Puoi fermare le tue dita per un istante di millenni o
schioccarle in frazioni innumerevoli d’eternità: questa è una
parte di verità…”
“C’è dell’altro che io possa o debba sapere?”
“Lo stai già intuendo…”
“La solitudine?”
“La scelta.”
“Non comprendo.”
541
“La scelta di riprovare a vivere una nuova vita, con
nuove consapevolezze che si perderanno quasi tutte dentro
un nuovo utero, l’amore per una vita che rimarrà di nuovo
impenetrabile e incomprensibile, ma che potrà essere amata
di nuovo con maggiore vigore e nuovi propositi, almeno
intenzionalmente da qui, in eterno tentativo di
miglioramento del proprio essere…”
“Nessuno ha scelto di fermarsi?
Nessuno è soddisfatto e quieto per l’eternità?”
La figura solenne sorrise, benevola e divertita.
“Forse è la noia? La mancanza dell’imprevisto… la
mancanza di dolore e di sofferenza… l’assenza del reagire e
del lottare?”
Ebbe per risposta solo un enigmatico sorriso.
“Credo di comprendere.
Non è dato di conoscere la verità ed allora tanto vale
riprendere la vita che è stata sempre, nonostante le tante
esistenze, vissuta parzialmente con rimpianti e con progetti
incompiuti.
Offri un’irragionevole speranza: l’unica verità…”
Era ora nel buio più profondo, sprofondato nel nulla,
immateriale, con un senso di responsabilità per una
decisione da prendere.
Gridò nel buio:
“Come manifestare la scelta di ricominciare?”
Fu proiettato in un ambiente caldo e umido, angusto e
morbido, e cominciò a sciogliersi come cera in pensieri
sempre più confusi e labili, distratto dal rumore di un
battito regolare che lo cullava e lo sprofondava in sensazioni
primordiali senza ancora ragione.
Udì risate sommesse e dialoghi all’esterno del suo
rifugio e si tranquillizzò come un cucciolo di un qualsiasi
animale protetto.
“Di nostro figlio ne faremo un artista…”
542
SINUSOIDE ESISTENZIALEIDE
Fotografia di luce fredda e nitida in taglio sbieco di
penombra.
Forme luminose in scioglimento: c’era la cera una
volta...
Puro cilindro di vetro azzurrimbrillante.
Vuoto bicchiere: è su quadretti vinaccia rossi e rosa di
tovagliato dozzinale su tavolo quadrato desolatamente
spoglio.
Odore indefinibile stratificato d’alloggio vuoto.
Retrogusto di caffè dechiricaffeinato.
Scansioni sonore attraverso: è New Cage.
Particolare scenico: bollitore sferico lucidovivace
arancione è su parallelepipedolmo smaterializzantesi nel
vuoto con cassetti assenti di sogni.
Il tavolo s’imbastisce in contorni sempre più vaghi su
piastrelle ottagonali nere e bianche lucide di pavimento
escheriano di stanza sempre più vuota.
Singhiozzano campanelli rugginosi, nell’aria, Cagemiti,
a striare lobi in rumore di temporali, aspri.
Stanza rotante in moto centrifugo con pareti semovibili
in alloggio silenzioso vuoto.
Sprizzano raggi solari indacoinnaturali a deflorare spazi
chiusi da spadellare su costruzione limpida di cubi d’acciaio
e vetro con coni concettuosamente contrastanti.
Il palazzo è vuoto, dissolventesi in orizzonte di
costruzioni miraggi nella luce, di città deserta senza rumori,
morta senza vermi.
Urbanodore di trascorso, ora assente.
Strida d’uccelli finiti in finta jungla sperimentale
appuntata in Cagenda.
Città che è incubo, panoramicata vorticosamente a
salire su landa vuota in campo luuuuungooooo saltellitare a
definire palla azzurra striata di panna d’acque paluoverdose
senza vita.
Tagli ipotalamici di frantumazioni sonore di vetri,
lamiera di campane tubolari, tocchi radi, profondi,
543
vanDalìci in aria che diviene nera di nulla assoluto che si
spande reiterante in atmosfera di nulla.
No.
No, che è come un appiglio alla speranza, con le dita
infilate nella ‘O’ a reggersi in equilibrium da free climbing.
Scintilla, nel buio siderale, che s’ipertrofizza.
Suono in crescendooohhhmmm.
Raimbow in Curved Air: Terry Riley corre su moogolii
cerebrali picchiettando colori e presenze.
Si scende senza scudo termico di prevenzione.
Vertiginosamente.
E’ un carpire di disparati voli, veloce, vita, stormire di
foglie in battiti di ciglia confuse panteistupite.
Città.
Brulicare su scale atonali impazzite.
Pigmentazione
furiosa
di
retina:
bussano
impazientemente sovrapposizioni solari di colori, d’abiti,
safene fiancate d’auto, rifrazioni comuni e multiple su
forme geometriche pulsanti.
Attenzione.
Concentrazione.
Palazzo lineare di vetracciaio cubico in diastole e sistole.
Volo di freccia in alloggio.
Postmoderno arredamento cromospiazzante.
Rrriley, Rrriley ronza come aria condizionante.
Rrraimbowling in Currrved Airrr. Ronza.
E’ un ejaculamento d’odore di carne stratificato su
sudore, su intingoli rappresi, su lenzuola sfatte di notte
insonne, piovigginosa tipica di via lattea spermatica.
Tramonta l’aria curva, pschidelizzando l’ottica d’occhio
sbarrato su tovaglia quadrettata piena di briciole e piatti
sporchi, con bicchiere cilindrico lucente ora pieno.
Acqua.
Acquasi.
E’ similbrodo primordiale apocalittico integrato senza
soluzione salina di continuità.
Germi. Batteri. Invisibatteri.
Silenzio rotto da piatti gettati per terra.
Crash.
544
Cage scocciato sgonfia l’aria curva con cocci aguzzi.
Il bicchiere si svuota sulla tovaglia orfana di quadretti e
briciole e piatti.
La stanza perde mobili, di nuovo, smangiati da
nanotermiti invisibili che disottagonizzano le piastrelle del
pavimento.
Assenza d’essenza d’odori.
Esplode senza audio il contorno d’alloggio in confini di
vetranodizzato trasparente a margine di relittocittà in scena
mentale.
Sinusoide con onda anomala in alto a giocare con palla
azzurra nel buio del cielo, ancora, a perdersi in smisurata
cantina nera, fino a prossima scintilla cortocicuitante…
A ricominciare…
Sì, sì, fò ttutamente.
545
TUP_AMARO PERCEPIRE DEL TEMPO
Tu.
Non puoi sapere: hai davanti a te ancora anni, o diversa
coscienza, né migliore o peggiore, per tastare il polso al
movimento febbrile.
Scorre invece per me il tempo, scandito da acciacchi e
dolorose esperienze, e s’acuisce un feroce abbarbicarsi
velenoso ad inezie vitali nell’angoscia del futuro che non si
conosce, sempre più inquietamente metaparapatafisico
vestito di nulla o di tutto inimmaginabile.
Grande Heidegger che sviscerò la paura dall’angoscia
fornendomi l’appiglio per uno sfoggio di cultura!
Esplodono ricordi in faccia, come fiale di nitroglicerina
manipolate senza prudenza, e ciò che per te appare noia per
me è vita emorragica che m’abbandona esausta.
Tutù.
Lo indosso in assurda vita rivissuta da ragazzina
acerba, caparbia in esercizi di sbarra per librarsi nell’aria
senza pensieri da vecchio nella leggerezza dell’estetica che
sbiadisce cattivi pensieri.
Tutù pervinca come gli occhi malinconici di mia madre
stanca che trepida per sua figlia difforme dalle tradizioni.
Tu tu tu tu tu.
Occupato. Risponde occupato, un cervello, di tumore
che corrode con sottili emicranie che mordono buoni
sentimenti e sempre nuovi entusiasti propositi che
s’azzuffano con rughe e capelli bianchi.
Tu tu tu tu tu more, d’amore, forse, per tutto che
ingurgito ingorda e poi digerisco lentamente con dolori di
pancia esistenziali.
Tupamaro!
Reagisco, perdio, e saccheggio ricchezze di vita, non
doma, almeno fino a che avrò forza...
546
ONAN DAY
La storia la fanno sempre i vincitori.
Ed hanno vinto i moralisti da controriforma.
Mi trovo, dunque, a narrare di un periodo oscuro
cancellato dalla memoria degli uomini, che pure è stato.
Per non dimenticarlo.
Accadde.
Non so come.
Un insegnante di religione, un fratacchione rubizzo
d’eccessivo barbera, cominciò a rompere il respiro durante
una lezione sui sette vizi capitali.
Rovesciò il capo all’indietro e si produsse in una
riuscita imitazione di una radio a modulazione di frequenza
sintonizzata da un ascoltatore ansioso: fischi, muggiti,
sospiri, rumori di fondo, melodie lontane.
Gli alunni si avvicinarono alla cattedra, storditi da una
predica circostanziata sulla lussuria, inframmezzata,
peraltro, da uggiolii.
L’insegnante di religione, mani in tasca nel saio, si
scuoteva in frenetico movimento tra le gambe, come avesse
la scabbia o si fosse seduto su un termitaio.
La vista fu contagiosa per i più.
E si comprese appieno cosa impegnasse in modo così
intenso il frate e successivamente gli alunni.
E tutti furono contagiati.
Fu un rituale assai pagano di masturbazione collettiva.
Si scoprì, poi, da gemiti provenienti dalle altre aule
contigue e da sbattimenti di banchi lontani, che il fenomeno
si era esteso per tutta la scuola.
Investì solo i maschietti, disinibiti senza pudore, e
lasciò ogni rappresentante del genere femminile, dalle
insegnanti alle alunne, senza parole, frastornate in
espressioni di meraviglia, apprezzamento, disprezzo, schifo
perfino, ma trasparenti come se non esistessero.
In effetti, lo spettacolo prodotto non era dei più estetici.
547
Il bidello, nel corridoio, girava con il vassoio dei
cappuccini in una mano e l’altra impegnata in disinvolto
smanettamento in sincrono con il passo svelto.
Alunni sparsi ridevano giocosamente istoriando pareti e
pavimenti piastrellati per poi ricominciare come se nulla
fosse.
E poi fuori da una finestra: si vide Sodomia e Gomorra.
Almeno per le pippe.
Gente che si masturbava alla fermata del tram, al
semaforo, in auto mentre guidava, con donne costernate
dappertutto, senza alcuna reazione, neanche di sollievo e
aiuto volontaristico, e uomini e ragazzi dappertutto con il
loro affare di fuori violentemente scosso a manovella.
La scuola perse di significato.
Tutti uscirono, le ragazze composte e contrite e gli
allievi con i loro zufolini paonazzi tra le mani.
Si ascoltò la radio e si vide la televisione.
Il fenomeno era generalizzato all’intero paese e
l’annunciatore forniva il notiziario sussultando sulla sedia
in preda a singhiozzi di piacere, con gli occhi lucidi.
Ci furono panoramiche e servizi speciali d’inviati con gli
occhi cerchiati stravolti da orgasmi frettolosi.
In campagna, in città, in fabbriche.
Scaturirono
opportunisticamente
tavole
rotonde
televisive con esperti del problema, sessuologi e politici,
tutti stravaccati sui divanetti o sulle poltroncine, tutti
indaffarati ad avvitarsi e svitarsi il loro pirillo con
noncuranza mentre dibattevano del problema.
Il noto sessuologo Y, nel frattempo che si agitava un
affare spropositato ben sopra il suo ombelico peloso, parlò
di vantaggi per alcune allenate categorie, come i boys
scouts, già allenati per conto loro a strofinare legnetti per
accendere fuochi, e gli addetti a catene di montaggio con
scarsa incidenza sindacale, dai tempi molto contratti per
una produzione febbrile oltre ogni ragionevole tempo di
produzione.
Qualche onorevole gridò alla liberazione dei costumi,
sfoggiando tra le mani, oltre che il suo affare, anche
mutandine d’organza rosa femminili.
548
Qualche altro parlamentare invocò una censura
educativa e lo si vide inquadrato smanettante dietro un
grosso cartello che recitava “Dio ti vede e diventerai cieco”.
Le donne, stranissimo a dirsi, sembravano catatoniche,
tutte, paralizzate nello stupore misto all’indifferenza,
insignificanti, inutili.
Il fenomeno durò diversi giorni.
Ci fu un incremento esponenziale delle vendite di
segatura e di detergenti per pavimenti e sanitari.
Ci furono reazioni titaniche di sovvertimento della
tendenza, promosse da organi laici e religiosi d’autorità e
prestigio, ma inutili.
Alla CEI era un turbinio di tonache svolazzanti sotto gli
emicicli e in parlamento tutti gli onorevoli e i senatori riuniti
a camere congiunte provarono una sana invidia trasversale
bipartizan per l’Unto, per ovvi motivi di scorrevolezza.
E l’Unto, appunto, irrorò commessi e colleghi con i
pochi residui capelli a sghimbescio sull’ampia fronte
sudata, e ricominciò rantolante sotto lo sguardo estasiato di
compagni di coalizione.
Dopo alcuni giorni il fenomeno, come presentatosi
improvvisamente, sparì, e tutti ritornarono normali, anche
se sfiniti.
La CEI riprese il sopravvento e gli anziani superstiti
della congrega tuonarono contro il peccato e la dispersione
del seme al vento in improduttiva e sterile attività senza
benedizione divina.
Le forze politiche al governo, i cui componenti erano
vergognosi e a testa bassa, con delle pelli di daino al posto
del loro attrezzo di piacere, si arrovellarono a riportare
ordine e disciplina.
L’Unto, esausto come un olio, ne pensò una delle sue.
Oscurare e censurare l’intero periodo, cancellarlo dalla
memoria di tutti, per sempre, come mai esistito, pena corsi
rieducativi sul modello di ‘Arancia meccanica’, con
proiezioni di concerti maratone di Apicella affiancato da
coro di centoventi tenori e soprani leghisti a cantare
‘Va’pensiero’ e l’inno di Forzitalia per duecentocinquanta
volte, in bergamasco e napoletano.
549
Fu un deterrente
terribile che annichilì perfino
Bertinotti e Diliberto.
Calò il silenzio sull’imbarazzante vicenda.
Per sempre.
E fu promulgata la Legge 40…
Ed ora io, unico custode della memoria, ho esposto
accadimenti innominabili per conservarne insegnamento.
E promuovo, per il dodici giugno d’ogni anno, l’Onan
day, il giorno della pippa, per non dimenticare…
Sì, sì, sì, sì…
550
AVIARIO GIRO DELLA MORTE
“Carissimo,
sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo
momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere
quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la
tua amicizia.
Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi
pensieri va a te con gratitudine.
Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti
all’uomo rovina di sé stesso.
Un estremo grazie con affetto.”
Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico,
meditando dolorosamente.
Fu distolto dal bussare alla porta.
Andò ad aprire.
Il postino gli tese una lettera.
Si chiuse la porta dietro le spalle.
Aprì la busta e lesse:
“Carissimo,
sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo
momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere
quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la
tua amicizia.
Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi
pensieri va a te con gratitudine.
Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti
all’uomo rovina di sé stesso.
Un estremo grazie con affetto.”
Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico,
meditando dolorosamente.
Fu distolto dal bussare alla porta.
Andò ad aprire.
Il postino gli tese una lettera.
551
Si chiuse la porta dietro le spalle.
Aprì la busta e lesse:
“Carissimo,
sento di doverti scuse per occasioni mancate, in questo
momento, e mi rammarico di non aver saputo cogliere
quanto di meglio tu abbia avuto da potermi offrire con la
tua amicizia.
Sono agli sgoccioli, ormai, ma uno dei miei ultimi
pensieri va a te con gratitudine.
Accidenti a questi uccelli, o forse meglio dire: accidenti
all’uomo rovina di sé stesso.
Un estremo grazie con affetto.”
Scrisse il biglietto senza fretta per un suo amico,
meditando dolorosamente.
Fu distolto dal bussare alla porta.
Andò ad aprire.
Il postino gli tese una lettera.
Si chiuse la porta dietro le spalle.
Aprì la busta e lesse:
“Carissimo…
552
MODI DI DIRE
Si dice che pesticciare la cacca porti bene…
Forse è una leggenda che serve a consolare chi affonda
in pagnotte di guano di pastore danese o chi si sfianca il
nervo sciatico per mantenersi in equilibrio su bisognino
scivoloso di yorkshire colitico.
Un poco come i soldi che non danno la felicità: è un
modo di dire tipico di chi supera i cinque milioni di euro di
reddito imponibile annuo.
Non lo so, quindi, se è un bene o un male, se è vero o
falso...
La mia vita, peraltro, scorre sempre all’insegna del
biblico augurio programmatico post mela e quindi mi
spacco in quattro tra lavoro, con orari impossibili, e casa,
con un marito che a posteriori è ben lontano dal concetto di
principe azzurro, e quando sarà partorirò anche nel dolore.
In compenso ho un mutuo da pagare e uno stipendio
intristente, sono alquanto insoddisfatta, e, per di più, ho le
scarpe fetide e impiastricciate che suscitano penosa
impressione e ribrezzo…
553
MUSIC - AL
Non capisco quanti siamo con Al.
E chi. Echoes…
Uno, nessuno, più probabilmente centomila, o solo sei
in cerca d’auto al parcheggio per raggio per sei e ventotto
volante…
Forse un milione, come i posti di lavoro: …nero futuro…
futtuto in tuta in kamion, salma mater.
E se prima eravamo in dieci piccoli indiani a ballare
l’hully gully…
Il nostro caro angelo, Alh.
Scarabeota anagrammo: una minima dose per uso
personale.
Hal.
Novemila. Novella tremila.
Giro giro tondo…Casca il mondo…
Confuso e felice,
però mi sento tut- tut- tut- tutelato al cubo.
Vo lume.
Percepisco:…
soliiiii nella campagnaaaaaaaaa, Violaaaaa,
Soli-darietà, soprattutto soli ed età,
da parte di tutti,
Viola bacia tutti,
quasi tutti,
qualcuno.
Uno.
Dei Mods.
Uno, due, tre, stella.
La stella molare. Vaghe stelle della morsa in borsa.
Tra le dita dislessico giusto pio piorroico…
E fischia fischia fischia fischia la locomotiva Zanicchi.
In alcuni momenti mi sembra di avere il cervello come i
testi delle canzoni di batti e ribattiato e una vecchia bretone
odia Beethoven come l’uva passa mentre vado in diagonale
per la via lattea ascoltando campane tibetane del
governatore della Libia e sventolo una bandiera bianca dal
ponte di Mesina Grazianeddu.
554
O è Brooklin?
Aragostello della gioventù.
I favolosi Anni sessanta.
S’è santa andrà in paradiso.
Anni settanta: di piombo sfuso.
S’è tanta, riporremo gli avanzi in frigo.
Avanzi Savoia.
Anni ottanta.
Ho tanta paura: novanta, la paura… come gli anni, di
me.
Ed io tra di voi nella triste Pomezia con quella faccia un
po’ così di Geova.
Mi ricordo Piero Focaccia far Cita a Recco:
permette signora la guardo da un’ora…
O cinque minuti e poi.
Bella donna è lei: un’ora sola ti vorrei…
Edmondo!?
In che mondo d’ogni peccato vivo più di un’ora senza
te?
Il mondo non s’è fermato mai un momento…
Mondochiwan d’immaginazione al potere, quello
riscattato dalle camicie rosse garibaldine nella rivoluzione
d’ottobre o settembre andiamo è tempo di migrar a mietere
il grano…
Al contadino non far sapere quanto angoscia subire il
potere.
O pigliarlo nel sedere.
Perché mi guardi così?
Ciao figlia mia…
Ci somigli molto…
Ah!
Sei proprio tu: ma non dovevamo vederci più?
Tu- tu- tu- occupato.
Adesso tiro un fil rouge di canapa, anche la catena, e
lascio il campo Tony Dall’Ara libero…Vvoglio vvivereee…
La rosa dei ventimila spettatori paganti, terreno
perfettamente agibile, arbitro PapaGiovanni…Resta.
Resta cummè,
Mi metto il frac.
555
Crac.
Tip tap come Fred Astaire.
Tip tap tip tap tic tac tic tac tic tac tic…
Tic
Tic
Tic
Tic
Tac
Stack error overflow etc.etc.etc.
Jump.
556
MARMUTANGOLO (BIFIDO)
Vorrei esserti marmutangolo bifido per nostri giochi in
codice, salsofrassici fuori tempo e luogo in ruolo mutevole.
E rido nel larvare espressioni virgolettate a punto
interrogativo di lettori curiosi che non sanno di chiavi ad
uovo di Colombo per penetrare segrete stanze.
E rido di te, bonariamente, di te qualsiasi che
comprendi o forse no, e che, se comprendi, ridi di gola da
riempire.
Cos’è mai marmutangolo bifido?
Un rivisitare concetto dinamico di supercazzula, un id
neutro riacico e milotico, una sclerocreatura mitologica che
alita su nuca brividosa, un attrezzo d’oscura masseria per
spremere fluidi di frantoio orgasmico, una teoria
strampalata matematicastrale di congiunzioni favorevoli, un
gioco da tavolo misterioso con istruzioni in cuneiforme.
Che importa?
Manie definizioniste anarcodislessiche.
So soltanto che stamane, in giro, in solitudine amica
scandita da ghiaccioli, ho pensato che vorrei esserti
marmutangolo bifido, e di corsa, a casa, ho scritto a te
queste righe pelvindecifrabili per vedere l’effetto che fa…
E rido ancora, stavolta marmutangolo bifido pacioso,
ché qualcuno dei ‘te’ che leggerà, compilerà schedine
totosessiche senza vincere alcunché.
Un alcunché caldo con zucchero q.b. e panna da
gustare in venti sparsorighe a spianare rughette
d’espressione attenta.
Pitoneschi abbracci ed oltre.
557
CRETINI A CONFRONTO
Fin da sempre, in positivo e quasi azzardoso intendere
la vita, l’America ha dato molta importanza al concetto
dell’occasione che il fato riserva ad ogni essere umano.
Il dissacrante e cinico Andy Wharol sintetizzò questo
tipo di filosofia con la celebre frase sul famoso quarto d’ora
di celebrità per tutti nella vita, solamente da sapere
cogliere.
La cinematografia americana, spesso e volentieri, ha
rinverdito da sempre questo concetto nell’ambito del suo
‘sogno’ dove tutto può essere possibile con sacrificio, con
fatica, con lotta e con sagacia intuitiva. Parecchi films,
quindi, hanno proposto il tema in varie salse e sfondi
contestuali, in scenari di guerra, di commedia brillante e di
dramma, con maggiore o minore superficialità e successo.
Dallo zuccheroso Frank Capra in avanti è stato un
susseguirsi di sfigati (a cominciare da John Doe) che poi
sono assurti al rango di eroi.
Con il passare del tempo, il tema è stato estremizzato in
una sorta d’entusiasmo infantile tipicamente americano, e
sono state proposte nuove alternative in ogni campo,
ovviamente miscelate con altri miti della puritana e
manichea morale americana che sintetizza sempre tutto in
buoni e cattivi senza troppe distinzioni.
Il tema, dunque, è stato trattato in pura goliardia
parodistica, per esempio, con Jerry Lewis che scimmiottava
godibilmente Jeckyll e Hyde, fino al patriottismo becero
improntato su onore e sacrificio dei vari Rocky di Stellone,
tutti non troppo acuti, tutti eroi, addirittura ambasciatori
ideologici all’estero, o anche in sfondo di satira e denuncia,
senza troppe pretese, ad esempio in “Eroe per caso”, zuppo
dei soliti buoni sentimenti.
L’estremizzazione
è
degenerata,
infine,
in
un’affascinante prospettiva, colta anche nel vecchio
continente, e anche in Italia dal velenoso duo letterario
Fruttero e Lucentini, che hanno analizzato in più riprese il
concetto della prevalenza del cretino.
558
E di cretini si parla, ora, in ambito di fama e saggezza,
nell’incapacità di sapere o volere discernere la verità dal
bluff, in speranza buonista o in satira di costume feroce.
Due films incarnano sapientemente questa teoria,
seppure con angolazioni molto lontane tra loro.
“Forrest Gump” e “Oltre il giardino”.
Come sintetizzare le due pellicole in maniera breve e
tale da invogliare a cimentarsi in un confronto?
Semplicemente dicendo che si tratta di due cretini, nel
senso fisico del termine, sottosviluppati mentali, che per
occasioni e capricci vari del destino, sono elevati al rango di
‘eroi’, persone famose da seguire per il loro modo di
pensare, guide spirituali, depositari della verità.
Mi piace, in questa ottica, soffermarmi sulle diversità
stilistiche dei due registi e sul come hanno affrontato lo
stesso tema.
Robert Zemeckis, (la trilogia di “Ritorno al futuro”), il
regista di “Forrest Gump”, della stessa palestra e clan di
Spielberg, Lucas e Dante, è un devoto seguace,
coerentemente con il suo mentore Spielberg, della
concettualità sposata con una buona commercializzazione,
con ottimi effetti speciali, con sapienti dosaggi tra
drammaturgia strappalacrime, ironia, meraviglioso senso
della ripresa scenica, ritmo e quant’altro serve a
confezionare una buona pellicola di successo, con annesse
colonne sonore e fotografia e attori di grido.
Hal Ashby, (L’ultima corvèe), è un buon regista
discontinuo poco duttile rispetto alla commercializzazione
del suo prodotto, fiero avversario dell’estabilishment,
sicuramente di minor successo del collega, amato da una
nicchia di contestazione.
“Forrest Gump”, interpretato da Tom Hanks, bravissimo
in alcuni momenti e gigione in altri, è un cretino innestato
in una storia mirabolante a grappolo, generatrice di tante
altre storie, dove la plausibilità è messa in discussione da
continue strizzate d’occhio al pubblico.
Più che una storia è appunto un insieme di vicende
dove va a confluire in sapiente dosaggio l’amore, la
memoria, l’ironia, la guerra, l’amicizia e tutto quello che
559
costituisce valore per l’americano medio, in una confezione
luccicante di nastrini e carta stagnola, tra musiche
accattivanti (Three Dog Night, su tutti) e risate garbate in
effervescenza d’idee (Elvis Presley citato agli esordi, tra le
altre). Il film è supportato egregiamente da cospicui ben
ideati effetti speciali che rendono la storia, da un punto di
vista visivo, un magnifico cartone animato con l’alternarsi
di cinegiornali manipolati a mirabilie di veri e propri trucchi
scenici (basta pensare alla resa visiva di Gary Sinise,
rielaborata in maniera tale da farlo sembrare senza gambe
dopo un cruento bombardamento: il trionfo del computer.
Il cretino Forrest Gump - Tom Hanks è un concentrato
della prevalenza del cretino che riesce ad emergere in
molteplici attività, sempre con successo, in esilarante
citazionismo a passeggio per epoche diverse, consolatorio
per un pubblico semplice che magari sogna tuttora di
essere contaminato da radiazioni galattiche sconosciute e di
diventare il nuovo Superman.
Il cretino Gump offre possibilità d’immedesimazione,
non tanto nella cretinaggine quanto nel possibilismo (assai
remoto, invero) di situazioni per tutti, in favolistico narrare.
Il film è godibile, commercialmente parlando: ha ritmo,
ha personalità, seppure in schemi rozzi che l’ironia cerca di
nascondere tra le varie vicissitudini del protagonista.
Passiamo invece ad “Oltre il giardino”.
Il film è più soft in toni e trovate accattivanti, molto
meno scoppiettante in azione, più ragionato e anche, a mio
avviso, più poetico, forse anche per una recitazione davvero
grandiosa di Peter Sellers, proprio lui, clown per tutta una
carriera, cimentatosi in un film agrodolce che è poi stato il
suo penultimo prima di morire.
Anche qui c’è un abbozzo di storia d’amore, stravolto,
però, da impertinenza e sberleffi. E si sviluppa un’occasione
che toccherà picchi di conseguenze inimmaginabili, con
ironia a pacchi che sconfina nel sarcasmo satirico, e con
personalità registica e recitativa in invidiabile equilibrio.
Cosa c’è di più, almeno secondo me, di tale per cui io
preferisco questo tratteggio di cretino rispetto all’altro?
560
C’è vetriolo, veleno, diretti contro il potere con maggiore
veemenza rispetto all’altra pellicola, e la sola sequenza
finale è emblematica e vale la visione del film stesso, con il
deficiente Sellers che pare camminare addirittura sulle
acque come un nuovo Messia.
C’è meno ritmo, ma maggiore stimolo alla riflessione in
dialoghi deliziosamente a doppio senso interpretativo, c’è
genialità inventiva nel presentare una storia sola e semplice
senza effetti speciali, senza trucchi da Hollywood, con, però,
ottima fotografia, ottimi interpreti comprimari davvero
notevoli, Melvin Douglas e Shirley McLaine, e anche, se
vogliamo scendere in piacevoli dettagli, qualche guizzo
sonoro che, sempre a mia opinione, sovrasta i tanti successi
dell’epoca sciorinati dall’altra pellicola solo a scopo
cronografico.
Parlo di un arrangiamento, davvero splendido, di un
classico già utilizzato nel cinema da Stanley Kubrick in
“2001 Odissea nello Spazio”, “Also sprach Zarathustra” di
Richard Strauss, rielaborata in chiave jazz da Eumir
Deodato, fantastica ed elegantissima ad accompagnare
l’esordio del tocco giardiniere verso modi nuovi oltre il suo
giardino.
Non a caso il brano è stato ripreso recentemente dalla
Coca Cola per pubblicizzare i suoi prodotti in parodia del
film “Broken Flower”, con un attore che è la fotocopia di Bill
Murray.
Per concludere: mi è piaciuto citare questi due films
nell’ambito di una personale analisi di un fenomeno quasi
esclusivamente americano che, tuttavia, spesso e volentieri
riesce ad incantare anche il più convinto europeista
attaccato a saggi antichi valori di equilibrio e obiettività.
Ho lasciato filtrare la mia personale preferenza, per il
film di Ashby e Sellers, pur apprezzando l’altro, e attendo in
un
futuro
più
o
meno
prossimo
il
ritornare
cinematograficamente sull’argomento, chè il soggetto è
davvero immortale, anche perché i cretini non sono in via di
estinzione da sempre.
Ed è tutto, poi, da dimostrare se ciò sia una disgrazia o
una fortuna…
561
L’UOMO CHE GRUFOLA
L’uomo che grufola, inquieto, vaga senza meta
incessantemente, rovistando alla rinfusa in cervelli e
cassonetti, alla ricerca del prezioso che può accarezzare
speranze di serenità placida.
Ha occhi febbricitanti, mentre rimesta nel buio, con il
petto che brucia per morsi di demoni insoddisfatti.
Rinviene qualcosa di fresco e vivo tra i rifiuti, ogni
tanto, l’uomo che grufola, e s’accende di una luce
innaturale dimenticando domande esistenziali cui non sa
rispondere.
Sovente, tuttavia, fruga invano.
Allora s’allontana nella notte, infelice, prendendo a calci
un barattolo, ingobbito su sé stesso, incrollabile nella
speranza di poter trovare un cuore o una voce rara, tra le
sacche di plastica unte, alla prossima uscita.
E si canta mentalmente un blues sognando di fare
l’amore ad un cervello.
562
L’UOMO CHE SI RITIRA
L’uomo che si ritira diviene ogni giorno più piccolo e
raggomitolato nell’orgoglio roccioso rispetto alla statua che
era, solare e snella, scolpita da maestri e da padri.
E’ come un totem esposto alla pioggia e perde colori
raggrinzendo agli insulti del tempo in crepe dolorose.
Il tempo non è solo pioggia o grandine, o sole che secca
e che cuoce.
Il tempo è anche parola, concetto: se ne percepisce lo
scorrere nell’ascoltare e non riuscire a comprendere o
condividere quanto espresso.
Ed è insulto maggiore di una tempesta.
E l’uomo che si ritira si protegge in sé stesso, divenendo
più piccolo in fiera indipendenza, ammutolendo, sempre più
malinconico e incurvato in un nodo di legno rugoso
prossimo a spaccarsi di crepacuore.
Potrà germogliare di nuovo, l’uomo che si ritira, un
domani, se troverà nuova linfa e amore, in tempo sereno, di
chi saprà penetrare il suo nocciolo duro con una dolce
carezza o una parola gentile.
563
L’UOMO CHE SOGNA
L’uomo che sogna è da sempre inchiodato al muro del
pianto da siringhe che stillano in vena blandizie, a stordire
debolezze e languori.
Fabbrica storie nella nebbia e plasma figure di chi ama,
ma il vento soffia via petali e foglie lontano, tra i rovi di un
buio dirupo.
Soffre, allora, l’uomo che sogna, e digrigna i denti nel
sonno per combattere l’armata degli incubi con la preghiera
che torni una semplice brezza.
Per poter fare l’amore in eterno, immortale come una
bolla di sapone che esplode nel cielo azzurro marezzato di
papaveri rossi di passione e di grano saraceno maturo.
E sorride, del sorriso di un bimbo, ancora crocefisso,
nell’attesa fiduciosa di nebbie materne che lo abbraccino
con volti e parole in carezzare di mente.
564
LA DONNA CANNONE
La donna cannone è una libellula leggera imprigionata
in una gabbia di ciccia.
Attende accanto ad un platano, all’ombra, e parla,
socievole e dolce, con un sorriso che è una richiesta d’aiuto.
E’ dolorosamente disinvolta, mentre chiacchiera del più
e del meno, bilanciandosi sulle caviglie gonfie, ma sorride
sempre e scruta con occhio chiaro il fondo del pozzo di chi
le è vicino.
Commenta un passaggio d’atleti di corsa, il traffico, il
tempo, una processione, una sfilata, e dichiara
silenziosamente che è principessa di un regno incantato in
cui vuole, ospite, un cavaliere nobile e audace che le uccida
il drago della solitudine che la tiene prigioniera.
Ha i capelli stopposi e la tuta, stinta e sformata, trema
in risata argentina, mentre i suoi occhi chiari si velano per
troppe speranze disattese.
Le dico, muto, che l’amo, ma da codardo pietista poeta,
sorridendole cortesemente pallido, e la lascio volare di
nuovo, delusa, leggera, caparbia, accanto al platano
all’ombra, vicino ad un altro spettatore sorpreso, ché vuole
sempre sfuggire al suo drago.
565
LA DONNA CON IL CELLULARE
Non esistono donne brutte: esistono donne sole.
Come la donna con il cellulare.
Occupa un tavolo d’angolo nel ristorante cinese e
guarda ogni tanto con curiosità distratta l’acquario con i
pesci tropicali.
Mangiucchia, svogliata, una zuppa di pollo e sorseggia
tè al gelsomino, staccando a fatica gli occhi dal cellulare
poggiato sul tavolo.
A volte lo avvicina al suo volto strizzato di presbite per
essere mestamente sicura di essere dimenticata, sperando
di divenire per un attimo protagonista.
Attende.
Da sempre.
Attende che un numero possa riscaldarla più di quanto
non riesca a fare il tè che fuma dalla tazzina.
Si guarda intorno, la donna con il cellulare, sorridendo,
mite e pudica, di sé, demodée, con i capelli a crocchia ed un
abbigliamento eccentrico d’anziana in scarpe da tennis e
calzini sotto un gonnellone amish.
Sorride garbata e discreta a chi incrocia con lo sguardo,
magari fantasticando su una possibile telefonata.
E sbircia ancora in tralice, con finta disinvoltura, un
display sempre spento, mentre si raffreddano la zuppa di
pollo e il tè al gelsomino, mentre diradano e aumentano e
diradano ancora battiti di un cuore che si contrae come la
bocca di un pesce dell’acquario.
566
LA CONDANNA DELLA STORIA
Ha radi capelli lunghi, candidi.
Sbava sudicio.
Ghigna, repellente, e chioccia:
“Ecco il nuovo giovane assistente…
Vuoi sapere qualcosa di me?”
Diffido del suo sorriso giallo insano.
Piega la bocca in espressione sardonica amara.
“Esistono pochissime verità nella storia dell’uomo,
pisciasotto, perché sono custodite gelosamente dagli dei,
invidiosi e diffidenti peggio dell’uomo.
Rubarle e diffonderle è sacrilegio.
Te lo dice chi non crede agli dei e adora la Storia.
Eppure, forse, anch’essa è una divinità: m’ha
condannato, infatti, offesa dalla mia divulgazione d’una sua
verità, benché essa sia rimasta sempre inascoltata da tutti.
Sono stato dannato all’immortalità, nella frustrazione
dell’inutilità della mia esistenza: quanto di più atroce, per
un uomo animato da propositi positivi.”
Rantola, affaticato, e lo sguardo acquoso s’incupisce in
cattivi pensieri.
“Sono obbligato a vagare nel tempo e nello spazio per
avere diffuso segreti di dei che forse non esistono, per una
scintilla divina partecipata agli uomini, da nuovo Prometeo,
senza permesso.
Pago anch’io, ora legato a questo letto di contenzione, e
in futuro sarò testimone in qualche altro campo di battaglia
del mondo d’ogni tempo, a presenziare senza significato.
Non stupirti, poppante: ho vissuto tragedie ovunque e
ho udito pianti a Babilonia, Troia, Cartagine, Waterloo,
Hiroshima, Berlino e Dresda, come Varsavia, e Leopoldville
e Badgad, sempre impotente, disatteso, violentato a notare
la fiamma sacra mai custodita in un focolare di saggezza.”
Sono
incredulo,
tra
l’essere
testimone
d’una
farneticazione e il dubbioso d’assistere ad un evento
eccezionale fuori d’ogni razionalità.
Il vecchio mi sfida.
“Lo sai chi sono, ragazzo?
567
Sono un penitente immortale, ladro di saggezza che è
stata una manciata di perle ai porci.
Sono Giovambattista Vico e tu, forse, neanche m’hai
sentito mai nominare.
La Storia s’è vendicata obbligandomi al viverla,
inascoltato, tutta in ogni tempo e luogo fino a che esisterà
l’uomo.
Mi consola, vivaddio per me, d’essere alla fine…”
Sorride stanco, accarezzando pensieri d’apocalisse.
Rabbrividisco all’idea d’un irrazionalmente vero.
568
LA DONNA CHE PASSEGGIA SULLE NUVOLE
Rotonda, corporea, eppure leggiadra, invoglia ad
abbracci e coccole.
Parla sempre con un sorriso stanco di chi ha vissuto,
sofferto e cercato di dimenticare, e fissa negli occhi con uno
sguardo
profondo
e
inerme
come
uno
stagno
all’approssimarsi dell’inverno.
Dice con calma rassegnata che è in rosso, giustifica chi
le ha fatto del male, e non parla mai male di nessuno
sprofondando chi l’ascolta in rimorsi e nell’invidia
dell’ammirazione.
Progetta in continuazione evoluzioni, cambiamenti, e
sogna domani migliori mentre annega il presente in un
brindisi dopo un altro brindisi dopo un altro brindisi
appoggiando la sua guancia su una carezza, facendo le fusa
da pigra soddisfatta.
La donna che passeggia sulle nuvole ha spalle grandi e
robuste, un andare lento e regolare non facile da arrestare,
e una forza inaspettata: solleva pesi enormi, per lavoro, per
la casa, per aprirsi varchi, per ordinare stanze ed esistenza
allargando spazi alla luce del sole, che ama, e alle novità
che riempiono una vita.
Tollera e accetta, la donna che passeggia sulle nuvole,
ché la pioggia di lassù disinfetta ogni ferita e l’aria frizzante
rende leggeri e quindi anche felici, seppure in una
malinconia che un sorriso stanco evidenzia nel suo salutare
con un fiducioso bacio a fior di labbra su labbra, delicato,
sigillo di amicizia duratura.
569
BAMBINI STESI AD ASCIUGARE
piove acqua e guano sul volto silvano neanche fossi eric
draven eretto come un’antenna sull’abbaino più alto del
palazzo a scrutare mondo e vita con pensieri funerei in
estasi mistica ed echi di chitarre elettriche overdrive ad
uncinare spiacevolezze mentali di assenze mentre annuso
aria elettricanforata
qualche Sancho Panza mi ha avvertito d’andarci piano
ma trovo che concetti d’equilibrio e di dosaggio siano
perplessità di piccolo cabotaggio esistenziale soprattutto nel
contemplare dall’alto l’esistenza degli uomini in distorto
vedere una realtà che è virtuale realtà virtuale percepita da
una mente che sogna vivendo e vive sognando
pensieri depressogeni ora nel tramonto violaceo al
morire del giorno ché il morire è sempre d’ogni cosa
uno due tre toccherebbe proprio a te
laggiù scorgo una veranda rigata di lacrime e una
donna che stende il suo bambino ad asciugare
ha portato stamattina a scuola un pallido cappottino
sporco tendendolo per manica e strusciandolo sull’asfalto
bagnato mentre amorevolmente elargiva lezioni d’esperienza
e ripetizioni di vita trascinando a rimbalzelli lo zainetto
colmo di merendine e sussidiario di anna freack
alza la saracinesca in fondo alla piazza sotto il porticato
l’uomo che vende incubi in confezioni regalo e formato
famiglia anche con comodi finanziamenti a tasso zero
virgola ché c’è sempre una virgola a depistare il così dal così
passanti occhieggiano la vetrina nera come un’anima
dannata e qualcuno entra per trovare una pace
all’incontrario
camminano svelti i corvi sul marciapiede schivando le
merde d’anime che volano a giri concentrici sopra i tetti
scivolosi sempre più scuri quando non rimangono
appollaiate sui fili della rete tranviaria da pesca
morphing
morfologico
mentre
morfeo
sussurra
promesse in promenade sulla piazza
don chisciotte don quixotte don quixote don quijote e
poi peyote e ancora peyote portata da un amico per una
570
trasfigurazione da cristo fumante a braccia aperte in
immaginifica croce sull’abbaino più alto del palazzo sotto la
pioggia che chiedo a me stesso e ai corvi e alle anime volanti
il perché di tutto come il cappottino sporco portato per
manica a scuola ad imparare lezioni di vita mentre il bimbo
asciuga nella veranda campana di vetro
è uno spirituale sentire nel freddo che brucia come
l’alito di un demone che tenta e invoglia ad una scelta con
un succhiare cervello come chela di crostaceo ormonazzo
e poi volare
e sognare di comprendere e possedere la verità
agitando le braccia in imitazione contrapposta e
sbeffeggiante delle pale di mulini a vento mentre le feritoie
di un tombino ti ridono di non avere paura mentre t’avvicini
gravitazionale come la mela di eva passata a newton per
altri peccati tuttora irrisolti
peyote
peyodler
poi zero
decibels in encefalogramma piatto di portata da servire
freddo con lacrima christi
571
STRO
Dicono che quando qualcuno sta per morire vede tutta
la sua vita scorrere come un film in sorprendente relatività
di tempo.
Sono scivolato dal balcone all’undicesimo piano mentre
fissavo una tenda.
E tutto quanto dicono mi pare proprio una stro
572
CEREBROLASER
Il credere m’appare polvere che si posa su sogni in
movimento e il vento a volte deposita più oltre i granelli
sedimentati da un’eternità di secondi a ricoprire altri sogni
Credere dunque al vento, mi dice una voce, ma l’aria è
anche immobile e i colori compreso il blu di Spezia
prolungano rizomi abbarbicati alla memoria
Credere in cosa dunque
Nell’angoscia
del
non
sapere
che
promuove
consequenzialità emozionali
Nella speranza d’un nulla corposo e ricco
Nell’attesa e nella curiosità che permettono di decorare
il nulla di quanto più aggrada e mantengono l’interruttore
acceso su on
E poi credere nell’off inevitabile che transuma da uno
stato d’animo ad un altro
…credo…
e ancora credere nelle sovrapposizioni
della noia sulla felicità
del possesso sulla noia
del desiderio sul possesso
E ancora nelle assenze della conoscenza per la serenità
e della mancata conoscenza per l’inquietudine che è da
amare come una donna passionale e il sapere e il non
sapere s’intrecciano in trame a fili doppi che raschiano la
pelle ruvidi in sofferto piacevole martirio di chi non ha nulla
da fare senza miniera o fabbrica o barca da pesca nella
burrasca
Il credere è privilegio
Il non credere è un altro privilegio
L’importante è avere coscienza dell’essere sballottati e
dell’inadeguatezza
L’importante è avere la fortuna del tempo per pensare
Anche se forse sarebbe meglio non pensare
Ecco
Credo nell’incoerenza del cambiare idea dopo un attimo
in capriccio apparente
573
Credo nella fragilità rispetto al tempo e all’esperienza
fino alla delusione dopo un’illusione
Credo nel sogno notturno che priva del timone e non
fornisce rotte preordinate da seguire rispetto al sogno
diurno dentro un carro armato
E per finire credo che un così frattalico pensare sia
proprio di un irrisolvibile affascinante caos da vivere fino a
che è previsto
E credo che poi forse si vedrà o forse no
Credo che per qualche tempo vincerà sempre
l’inquietudine
574
L’UNITA’ DI MISURA DEL TEMPO
L’aula è gremita di vispi virgulti rampanti.
Il brusio è spezzato da una voce decisa.
“Premessa: occorre innanzitutto definire il tempo.
Che cos’è il tempo?
Uno spazio dove sequenzializzare ogni azione?
Un percorso più o meno tortuoso canalizzato di attività?
Un comodo marcatore di inizio e fine nell’infinito come
punto di riferimento per la vita?
Una convenzione per quantificare semplicemente un
prima, un adesso e un dopo?”
Silenzio resinoso d’attenzione ad esaltare una pausa ad
effetto studiata.
“Il tempo, signori, è semplicemente uno stato d’animo.
Percepibile e al contempo inafferrabile, mutevole e
fragile, opprimente o fuggevolmente leggero.
Soltanto se siete convinti di questo potrete esprimervi al
meglio.
Tempo come stato d’animo, dunque.
Con un suo peso specifico variabile nel momento della
sua misurazione, perché il tempo ha un suo peso.
E la misura di uno stato d’animo è data da?...”
Aspettativa elettrica degli ascoltatori.
Ancora una pausa.
“Dal sorriso, signori. Dal sorriso.”
Brusio confuso nell’aula e incrociarsi di sguardi
sorpresi.
“Pensateci.
Una giornata, lemma convenzionale per definire una
piccola porzione di tempo, può essere brevissima o
interminabile e lo si può desumere da un sorriso, o da
un’assenza di sorriso, già da appena svegli.
Una vecchiaia artrosica e piena d’altri malanni può
essere percepita come intollerante in un digrignare
rancoroso di denti contro il mondo intero. E’ una vecchiaia
lunga, infinita quasi, nel ruminare torti subiti,
recriminazioni e rimpianti.
575
Ma può essere anche un periodo da vivere con saggia
serenità nel contraccambiare con fiducia sorrisi a persone
vicine che sorridono a loro volta per alleggerire uno stato
d’animo, per alleggerire il peso del tempo.
Il sorriso verso un bel gesto, verso una cortesia, verso
un’attenzione al proprio io da parte di altri io sorridenti non
rende lieve un qualsiasi stato d’animo e quindi il tempo?
E, al contrario, l’irrigidimento delle mascelle in aria
difensiva e torva, lo sguardo diffidente, la fisiognomica
burbera del pensare che il mondo congiuri contro il proprio
io, non rendono lo stato d’animo gravato da ansia in un
tempo pesantissimo che non scorre mai?
Ecco: meditate su questi concetti esemplificati e
frastagliate nuove ipotesi nella considerazione del sorriso
come più attendibile misura del tempo stato d’animo e del
suo peso.
E sarete pronti per il vostro lavoro.”
La voce tace abbracciando la sala con un silenzio
carezzevole.
Dopo un attimo di rapimento, una sorta di magia
mistica, esplode un fragoroso applauso dei presenti
galvanizzati dalla folgorazione nella conoscenza.
L’aula poi si svuota lentamente in un mormorio
rilassato.
I giovani rappresentanti della Smile, leader nel mondo,
sfollano verso i loro uffici con nuove consapevolezze circa il
loro luminoso futuro di rappresentanti di sorrisi porta a
porta.
576
INDICE
RACCONTI DI SFIGHE E SUPEREROI .................................................................... 5
FUMETTI...................................................................................................................... 7
SUPERZETA ................................................................................................................ 8
ANIMALAND.............................................................................................................. 10
NUOVO MITO ........................................................................................................... 12
FATO CINICO E BARO........................................................................................... 13
LA FINE DI WURDALAK........................................................................................ 15
RAMON E IL VAMPIRO.......................................................................................... 16
DARWIN LA SAPEVA LUNGA............................................................................... 18
IL GRANDE PELLECCHIA..................................................................................... 20
SCARABESISTENZA............................................................................................... 22
LA VERA STORIA DI N.K. ..................................................................................... 23
CONTO ALLA ROVESCIA ...................................................................................... 25
TANTI PICCOLI EROI DI MONDI PARALLELI ................................................. 28
LA GIUSTA CAUSA ................................................................................................. 35
LA PAROLA DI DIO ................................................................................................. 43
MINISTORIE DI MORTI STUPIDE PER IL TROPPO CALDO ....................... 49
SUCCHIARE IN PERFETTA LETIZIA ................................................................. 53
COME E’ DELIZIOSO ANDAR….......................................................................... 61
SUPEREROI AL FANDANGO CAFE’................................................................... 63
EMICRANIA ............................................................................................................... 67
ALI DI FARFALLA E TERREMOTI IN CINA ...................................................... 70
ALITI DI VENTO....................................................................................................... 74
LETTERA DI SUPER INTENTI.............................................................................. 78
SOGNI A RISCHIO................................................................................................... 81
ARISTOTELICHE MELE BACATE....................................................................... 85
CINICA STORIA D’ASTOLFO SENZA LUNA..................................................... 89
PER SENTIRSI MIGLIORI...................................................................................... 93
SE MISS SFIGA VUOL FLIRTARE ...................................................................... 94
ONIRICI PERCORSI E REALI TRAGUARDI DI ATTILA ZAPPING ............ 100
SURREALTRASH DI OCCASIONI COLTE E MANCATE ............................. 104
EXS............................................................................................................................ 108
SGUARDI E LAME NEL RISPETTO .................................................................. 112
UN CASO UMANO................................................................................................. 115
ARRIVANO I BRIGGHEDOVIGI ......................................................................... 119
BRACCHI E DUGONGHI ..................................................................................... 127
PRIMO MAGGIO 2003 – POLVERE DI FOGLIE............................................ 129
FIGLI E FIGLIASTRI DELLA STORIA............................................................... 132
RACCONTI LONG SIZE............................................................................................. 137
MUSICA ROCK....................................................................................................... 139
CONSULENZE PREMATRIMONIALI................................................................. 160
PICCOLI UOMINI ................................................................................................... 168
IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA................................... 176
SI MUORE UNA VOLTA SOLA?......................................................................... 184
LA POLTRONCINA N.123 .................................................................................... 189
577
LE STRAORDINARIE DISAVVENTURE DEL MIO AMICO LEOPOLDO . 200
LA SENTINELLA..................................................................................................... 217
PASSIONI E PASSIONI......................................................................................... 227
ACROSTICO PELOSO .......................................................................................... 241
GLI ARTIGLI DELLA NOIA .................................................................................. 249
NUOVA IMPRENDITORIA.................................................................................... 284
FAI L’IRRIVERENZA, PAGA PENITENZA........................................................ 294
RACCONTI NERI......................................................................................................... 321
GIALLO ESTETICO ............................................................................................... 323
DEVOZIONE............................................................................................................ 325
GIALLO IN DUE TEMPI E DUE SPAZI ............................................................ 326
TROPPO IN ANTICIPO AGLI APPUNTAMENTI .............................................. 328
LA SERENA VITA DEL BORGO......................................................................... 333
DICE LA SABBIA DEL DESERTO..................................................................... 335
PECCATI DI GOLA ................................................................................................ 340
APOCRIFO VANGELO .......................................................................................... 341
UNA SOLA ZANZARA ........................................................................................... 344
SCENOGRAFIA PER UNA FESTA DI COMPLEANNO ................................. 349
IL POZZO ................................................................................................................. 353
IO NON FESTEGGIO HALLOWEEN ................................................................. 355
NON DI SOLO FRASSINO… ............................................................................... 357
RIFLESSI E RICORDI........................................................................................... 362
VOLONTARIATO .................................................................................................... 366
INTOLLERANTE VECCHIA ZIA.......................................................................... 368
UN VOLARE D’AIRONI E PIPISTRELLI ........................................................... 371
OCCHI BLU ............................................................................................................. 375
BUCATO CHE PIU’ BIANCO NON SI PUO’..................................................... 377
INDIANE SOTTRAZIONI ...................................................................................... 379
ADESSO SANNO, E SANNO ANCHE ATTENDERE ..................................... 383
I COLLEZIONISTI .................................................................................................. 389
RACCONTI PER RIDERE CHE MAMMA HA FATTO I GNOCCHI ................. 395
TRAGICOMICA STORIA DI UN PULITORE DI VETRI IMMIGRATO
CLANDESTINO KENIOTA.................................................................................... 397
MENU VEGETARIANO......................................................................................... 432
TUTTO LO SBRANG MINUTO PER MINUTO................................................. 434
URSUS E URSULA ................................................................................................ 439
TI SPIEGO DI UNA TETTA INTERMITTENTE................................................ 441
NOTARELLE DI COSTUME – IL CITTADINO CHE PROTESTA................ 445
LA FESTA DEL PAPA’ NON E’ PER TUTTI ..................................................... 456
ABBASSO LE DONNE.......................................................................................... 457
STRALUNATA FAVOLETTA DI NOMI .............................................................. 461
IL GIOCO DELL’OCA ............................................................................................ 465
GROTTESCA MINIPORNOSTORIA ................................................................... 469
CINOFILA STORIA MULTIFINALE .................................................................... 471
LA C.I.S. ................................................................................................................... 476
ECHI DI ECOFUTURO INSOSTENIBILE ........................................................ 478
NESSUN ALLARMISMO....................................................................................... 486
578
TANTO PER DIRE....................................................................................................... 491
VITA E MORTE....................................................................................................... 493
BLOB – IL RITORNO............................................................................................. 494
PUNTEGGIATURA ................................................................................................. 495
AUTODIFESA DI VILE POETA........................................................................... 497
FLIPPER ................................................................................................................... 498
QUESITI TEOLOGICI............................................................................................ 499
A IOSA ...................................................................................................................... 500
SURREALIA ANIMALIA ........................................................................................ 501
DICE UN CAPPELLANO....................................................................................... 503
RADIO....................................................................................................................... 505
TOUR EIFFEL ......................................................................................................... 506
OMELETTE.............................................................................................................. 507
CYRANO ALTER..................................................................................................... 508
SCRITTORE MANCATO ....................................................................................... 509
TELEGRAFIRONICA ............................................................................................. 510
SUORE E CACCHINE DI BIMBO...................................................................... 513
DESECRATION BLUES........................................................................................ 518
UNA SECONDA POSSIBILITA’........................................................................... 519
PENSIERI SPARSI ................................................................................................. 521
VARI QUELLI DI VARIA UMANITA’ .................................................................. 531
ACIDE RIFLESSIONI ANCORA ATTUALI........................................................ 535
ANTIPODI................................................................................................................. 538
PROSPETTIVA ........................................................................................................ 539
MONDO RANDOM................................................................................................. 540
SINUSOIDE ESISTENZIALEIDE ....................................................................... 543
TUP_AMARO PERCEPIRE DEL TEMPO.......................................................... 546
ONAN DAY............................................................................................................... 547
AVIARIO GIRO DELLA MORTE ......................................................................... 551
MODI DI DIRE........................................................................................................ 553
MUSIC - AL ............................................................................................................. 554
MARMUTANGOLO (BIFIDO) ............................................................................. 557
CRETINI A CONFRONTO .................................................................................... 558
L’UOMO CHE GRUFOLA..................................................................................... 562
L’UOMO CHE SI RITIRA...................................................................................... 563
L’UOMO CHE SOGNA .......................................................................................... 564
LA DONNA CANNONE.......................................................................................... 565
LA DONNA CON IL CELLULARE ...................................................................... 566
LA CONDANNA DELLA STORIA........................................................................ 567
LA DONNA CHE PASSEGGIA SULLE NUVOLE............................................ 569
BAMBINI STESI AD ASCIUGARE ..................................................................... 570
STRO ......................................................................................................................... 572
CEREBROLASER................................................................................................... 573
L’UNITA’ DI MISURA DEL TEMPO ................................................................... 575
579
580
581
582