Diwali-Numero4-Donna Immagine In Divenire

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Diwali-Numero4-Donna Immagine In Divenire
Donna
NUMERO 4 Inverno 2014
Immagine in Divenire
Sommario
www.rivistadiwali.it
Contatti:
facebook.it/diwalirivistacontaminata
[email protected]
Direttore Editoriale : Maria Carla Trapani
Direttore Responsabile: Flavio Scaloni
Redazione: Pietro Bomba, Alessandra Carnovale, Arianna
Degni, Laura Di Marco, Mario Lucio Falcone, Valerio
Francola, Fabiana Frascà, Giulio Gonella, Letizia Leone
Ufficio Stampa: Federica Venni
Technical Consulting: Pierluigi Stifanelli
Diwali - Rivista Contaminata
Trimestrale di Arte - Poesia - Letteratura
In copertina: Opera di Graziano Locatelli, Tecnica mista
su tavola, 1995
In quarta di copertina: Fotografia di Giulio Gonella
Errata corrige: Nel sommario del numero III su ‘Il Vuoto (in)colore’
si legge ‘Vacazio’ in luogo del corretto ‘Vacatio’. A pagina 5, nel
saggio di Fabrizio Migliorati ‘Finestre come crinali sul vuoto’, il
paragrafo tra ‘In questa miopia ermeneutica’ e ‘che essa sia irreale’
risulta ripetuto. Ci scusiamo con i lettori e con gli interessati.
L’Editorial
3
InSistenze
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Frida di Valerio Francola
5
Un brindisi per la Baronessa Elsa di Helmutt
Schilling
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Del fuoco femminile di Letizia Leone
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Il palco nudo di @RisoDellaMedusa
15
InVerso
20
Rita Pacilio
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Fabiana Frascà
23
Roberto Marzano
24
Monia Minnucci
25
Alessandra Carnovale
26
Andrea Borrelli
27
Davide Cortese
28
Marino Santalucia
29
Eugenia Serafini
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Focus: Gli Haiku di Dona Amati
33
InStante
36
Giada Fettini
37
Clotilde Petrosino
39
Giulio Gonella
41
Veronica Coletta
44
Dema Nomakova
46
Paola Celi
49
InMobile
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Femminilità: unicità o molteplicità? di Arianna
Degni
52
InDicazioni
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Aporia delle scorie di Fabiana Frascà
61
La ragazza dalle tredici anime di Arthur
Schnitzler
62
Dimmi cos’è di Emiliano Bernardini
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La lente scura di Anna Maria Ortese
65
InChina
67
L’Editorial
Non cederemo alle sirene della metafisica, chiedendoci “che cos’è”, la donna. Noi, quest’orizzonte,
che segna il limite, la fine e l’origine, della filosofia,
intendiamo superarlo. Porci da un punto di vista
radicalmente anti-filosofico, ove per filosofia si intenda il grande pensiero occidentale. Non definire,
quindi, ma scorgere le linee di fuga, e lasciare che ci
attraversino per moltiplicarle, abbandonandoci alle
dissolvenze, amplificando le assonanze, fermando
i germogli che rimarranno potenza e ponendo atti,
che puri non conoscono inizio. Se c’è una possibilità di stare al mondo creando, è lì che si annida,
nel margine e nell’eccedenza. Non cos’è la donna,
ma la donna, posta appunto come disgiunzione di
atto e potenza, come divenire a-dialettico, perché
è in questo divenire che si dà la libera soggettivazione dell’individuo in quanto essere sessuato.
O anche non sessuato, processo indefinito di soggettivazione che non conosce direzione. Saltare
su un treno in corsa di cui non si conosce la destinazione, senza neanche chiedersi dove porti. Una
vera rivoluzione, sarebbe rigettare il concetto stesso di direzione. Quel destino che per definizione
da sempre ci segna e al quale pensiamo di non
avere scampo: maschi e femmine, come marchio
indelebile già prima della nascita: il nostro nome,
che precede persino la nostra venuta al mondo…
E ogni cambiamento di rotta è opportunamente registrato, se non dalla legge, da quel legislatore che è
ancor più coercitivo dello Stato: la società, che della
forza anonima dell’omologazione è costituita. Eppure, abbiamo la possibilità di scatenare processi
inversi, inizialmente semplicemente liberi, poi di
autodeterminazione della nostra sessualità. Ciascuno libero di assumere identità, o di disfarsene
per sempre, alla ricerca continua di nuove espressioni, che passino per differenziazioni altre che
quelle genitali.
Se un altro mondo è possibile, passa anche da qui,
dal nostro abbandonarci al flusso della nostra energia per riconvertirla in libera costituzione della singola individualità, per sottrarla per sempre
all’impresa della ripetizione. Ripetizione, sì, sempre più stanca e disgustosa chiacchiera, che ormai
non ci piove addosso solo dai media eterodiretti, ma
anche dai cosiddetti social di cui apparentemente
solo noi siamo i responsabili. E allora, se davvero
è così, perché non provare, ognuno partendo da
sé, a fermare lo scorrere del fiume identico del “si
dice”, per affermare ciò che noi scegliamo di essere? Femminicidi, quote rosa e abusi di potere,
si mischiano a un linguaggio sessista che ci fa
arretrare spaventosamente rispetto alle altissime
elaborazioni del femminismo degli anni ‘70, cancellando a fortiori il suo superamento nel discorso foucaultiano. In questo processo di liberazione
per l’autodeterminazione della propria sessualità,
l’arte gioca evidentemente un ruolo cruciale.
In attesa che arte diventi il nostro stesso abitare il
mondo, vogliamo almeno accarezzare e farci sfiorare dalle sue linee di fuga. Sta a noi ora cercarle,
tra le pieghe infinite dell’arte…
Diwali - Rivista Contaminata
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“Donne non si nasce, lo si diventa. Nessun
destino biologico, psichico, economico
definisce l’aspetto che riveste in seno alla
società la femmina dell’uomo; è l’insieme
della storia e della civiltà a elaborare
quel prodotto intermedio tra il maschio e
il castrato che chiamiamo donna.” (S. de
Beauvoir, Il secondo sesso, 1949).
E proprio al diventare donna Diwali dedica
questo numero, mettendo in evidenza un
processo che trova il suo punto d’origine
nella volontà di esprimersi più che nei
dettami sociali e culturali. Andiamo così,
con Letizia Leone, sulle orme di Pinkola
Estès, alla (ri)scoperta della donna selvaggia,
archetipica, relegata troppo spesso alle
profondità dell’inconscio, nonché a fiabe e
leggende; Helmutt Schilling rende omaggio
all’eccentrica figura della Baronessa Elsa
von Freytag-Loringoven, alla sua arte e i
rapporti che ha intrattenuto con artisti del
calibro di Marcel Duchamp, mentre Valerio
Francola ci illustra la ricca biografia e
l’intenso linguaggio espressivo compreso
tra realismo ed elementi surreali-fantastici
della messicana Frida Kahlo. Infine, con
@RisodellaMedusa si riflette, attraverso
l’opera teatrale Orgia di Pasolini, sui temi
del Maschile/Femminile, l’autenticità e
i rapporti di forza (potere) vigenti nella
società umana.
Frida
di Valerio Francola
Dal 20 marzo al 31 agosto, alle Scuderie del Quirinale (Roma), verrà dedicata a Frida Kahlo una
mostra che indagherà l’artista e il suo rapporto
con i movimenti artistici della sua epoca, dal Modernismo messicano al Surrealismo internazionale, analizzandone le influenze sulle sue opere. Per
comprendere la complessa personalità dell’artista sarà opportuno ripercorrerne rapidamente la
vita. Nata nel 1907 da un fotografo tedesco e da
una nobile messicana di origine spagnola, fin dalla giovane età si lega ai movimenti nazional-socialisti e a ideali rivoluzionari che la spingeranno
anche a dichiarare di essere nata nel 1910, anno
dello scoppio della rivoluzione messicana. L’avvicinarsi alla politica non rappresentava soltanto
una sorta di moda per le donne messicane, ma
Alessandra Carnovale
InSistenze
Fantôme de bordures, Emykat, 1999
una strada ben più importante per arrivare all’emancipazione. Anche per questo motivo Frida
Kahlo si iscrisse al Partito Comunista Messicano
(1928). Non fu però solo questo il motivo, seppur
importante. Come testimonia la scrittrice Sarah
M. Lowe, “il partito presentava anche un’altra attrattiva: la presenza e la militanza di numerose
donne dinamiche la cui indipendenza e autodeterminazione possono aver incoraggiato la pittrice a unirsi a loro”. Questa testimonianza introduce un secondo della vita di Frida Kahlo che ha
influenzato profondamente la sua sensibilità artistica: la sua straordinaria apertura culturale, che
si ricollega al modello della “donna emancipata”,
e che la porterà a vivere con molta libertà la sua
vita sentimentale e sessuale, esprimendo questo
sentimento attraverso legami di profonda ammirazione e intimità nei confronti di numerose figure femminili con cui si è relazionata nel corso
della vita. Un modello di donna, quello che ha voluto incarnare Frida Kahlo, che si contrappone al
tradizionale stereotipo misogino secondo cui la
donna era oggetto del desiderio maschile, tanto
da spingersi spesso a praticare con disinvoltura
la pratica del travestitismo, “mi vestivo da maschio, con capelli cortissimi, pantaloni, stivali e
giacca di pelle”. Un eccezionale vivere con diletto
la propria sessualità, soprattutto per la mentalità
dell’epoca in cui è vissuta, senza riluttanze o pentimenti, diritto che spettava per tradizione agli
uomini. Arriviamo al terzo aspetto della vita di
InSistenze
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Frida
Frida
Frida Kahlo, tanto tragico quanto determinante
nella straordinaria crescita interiore, caratterizzato dalle innumerevoli problematiche fisiche che
l’artista patì fin dalla giovanissima età. Affetta da
spina bifida, erroneamente scambiata per poliomielite, subì un terribile incidente il 17 settembre
del 1925, quando l’autobus che da scuola la stava
riportando a casa si schiantò contro un muro. Le
conseguenze dell’impatto furono tremende, Frida
Kahlo sopravvisse per miracolo riportando però
innumerevoli fratture che la portarono a subire
ben 32 operazioni negli anni successivi. L’evento drammatico si trasformò per Frida Kahlo in
una sorta di incredibile opportunità. È da questo
momento in poi infatti che Frida deciderà di iniziare un percorso in cui riverserà nell’arte tutte
le sue vicende fisiche e sentimentali, trasformandole in simboli del suo irrefrenabile desiderio di
affermarsi ed essere indipendente. “Io non sono
malata, ma sono rotta, distrutta. Sono felice solo
quando dipingo”, è forse una delle frasi più incisive di Frida. Per molti anni fu costretta a rimanere
bloccata a letto, tanto da spingere i suoi famigliari
a regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto che le permettesse di guardarsi.
Sono gli anni in cui l’artista inizia a produrre una
serie di autoritratti. Attraverso la pittura l’artista
messicana racconta e descrive le sue sensazioni, i
suoi sentimenti e i suoi stati d’animo ripercorrendo i momenti significativi della sua vita. La sua
nascita, la sua adolescenza, il suo rapporto con
gli uomini e con le donne, i dolori che i suoi problemi di salute le provocavano, la sua famiglia,
la paura della morte, il suo legame col proprio
Paese e con l’ideologia comunista, e molti altri
ancora. Nel suo percorso artistico Frida Kahlo ha
elaborato un linguaggio figurativo estremamente
realistico a volte arricchito da elementi simbolici,
surreali e fantastici. Il tutto senza abbandonare
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Carl Van Vechten photograph collection
mai completamente la realtà, motivo per cui, seppur argomento molto dibattuto, le sue opere non
possono propriamente essere definite surrealiste.
Anche in questo caso è una frase di Frida stessa
a venirci incontro “pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho
sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”. Nel
1928 Frida è ormai del tutto decisa a fare dell’arte
la sua unica ragione di vita, per questo motivo si
reca dal pittore muralista messicano Diego Rivera per avere da lui un parere sulle sue opere. La
scelta dell’illustre pitture messicano, molto celebre per alcuni lavori eseguiti negli Stati Uniti (il
muro all’interno del Rockefeller Center di New
York e gli affreschi per l’Esposizione Universale
di Chicago) in realtà non è del tutto casuale: Frida
infatti è già da tempo affascinata dalla figura di
Diego Rivera, anche lui attivista del Partito Co-
InSistenze
munista Messicano. I due decidono di sposarsi nel
1929, iniziando una relazione molto particolare e
complessa, fatta di numerosi tradimenti, da parte
di entrambi, e divorzi (1939) e rappacificamenti (nel 1940 si sposarono nuovamente). In questi
anni le opere di Frida Kahlo attirarono l’attenzione di André Breton, padre del surrealismo che
la definì “una surrealista creatasi con le proprie
mani” proponendole una mostra a Parigi.
Pur lusingata dalle attenzioni dei surrealisti l’artista messicana non riuscì mai ad identificarsi completamente nello stile del movimento. Consapevole che una adesione al movimento surrealista
probabilmente le avrebbe dato la spinta decisiva
per entrare nei favori della critica, preferì intra-
The blue House in Coyoacan, 2006
prendere un’altra strada, di artista indipendente.
Una strada che scelse con forza e convinzione,
come emerge ad esempio in opere come “Ospedale Henry Ford” (1932) in cui sono sintetizzati
perfettamente elementi simbolici e reali. Frida in
quest’opera si rappresenta dopo un aborto, uno
dei numerosi che purtroppo caratterizzarono la
sua vita a causa delle difficoltà del fisico martoriato e debole a portare a termine una gravidanza.
L’artista è distesa su un letto d’ospedale sospeso
in aria, col viso evidentemente segnato dalla sofferenza e dalle lacrime, per di più nuda e sanguinante con il ventre ancora rigonfio per la gravidanza
sostenuta. Sullo sfondo un paesaggio industriale
desolato, quello di Detroit, che rappresenta tristemente il luogo del tragico avvenimento. Nel
quadro trovano spazio sei elementi simbolici raffigurati lungo il letto, disposti simmetricamente,
sospesi in aria e collegati alla mano di Frida da
cordoni rossi simili a vene. Elementi che rappresentano alcuni passaggi chiave della vita dell’artista messicana: il bacino lesionato nell’incidente
sull’autobus, il feto appena perduto, una lumaca
(simbolo della lentezza dell’aborto, o come nelle
culture asiatiche, simbolo del concepimento), un
macchinario dell’ospedale, e un’orchidea (simbolo del sentimento, ma anche il fiore che Diego le
portò in occasione del ricovero).
Un’altra opera emblematica è “Le due Frida” (1939)
in cui l’artista esprime il dolore per il divorzio da
suo marito. Frida si rappresenta due volte, da una
parte la Frida lasciata da Rivera, vestita con un
abito bianco sporco di sangue, con in mano una
pinza emostatica anch’essa sanguinante. Dall’altra parte la Frida amata da Rivera, vestita con abiti
messicani colorati, che tiene in mano un piccolo
medaglione raffigurante Diego bambino. Le due
Frida non si guardano, ma si tengono per mano e
sono sedute sulla stessa panchina, hanno entram-
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Frida
Frida
be il cuore esposto e sono legate da una vena che
collega il cuore sano, ovviamente quello della Frida amata, al cuore malato, quello della Frida abbandonata dal marito. Nell’opera si intravedono
anche richiami all’iconografia religiosa, a partire
dall’immagine del cuore spesso raffigurata nelle
chiese messicane fino alla corona di spine rappresentata come una collana che cinge il collo e
provoca ferite sanguinanti.
suo onore, due film (uno di essi di Julie Taymor,
protagonista Salma Hayek), diversi documentari,
diverse biografie spesso romanzate, saggi, collezioni di moda, una grande quantità di gadget che
ripropongono il suo volto e le sue opere. La sua
straordinaria vita è la sintesi della forza di volontà, della tenacia di una donna che ha saputo affrontare il dolore non abbassando mai lo sguardo
nella vita come nelle sue opere in cui ci guarda,
sempre.
Infine il tema del dolore, per forza di cose estremamente ricorrente anche nella vita artistica di
Frida Kahlo, espresso attraverso opere dalla straordinaria drammaticità come “La colonna spezzata” (1944). In questo quadro il busto di Frida è imprigionato in una sorta di “armatura ortopedica”
d’acciaio che ne impedisce i movimenti e che al
contempo lo tiene insieme. Dal collo in giù parte
uno squarcio che lascia intravedere una colonna classica, spezzata in più punti, che sostituisce
simbolicamente la colonna vertebrale ormai deteriorata. Una numero imprecisato di chiodi sono
conficcati nel suo corpo nudo, le lacrime scendono silenziose pur conservando lineamenti di una
persona serena.
Frida Kahlo muore il 13 luglio del 1954 nella stessa
città dove è nata, Coyoacán in Messico. Gli ultimi
anni della sua vita saranno anni di grave depressione che sfoceranno in una polmonite e infine
in una embolia polmonare probabilmente provocata da una overdose di Demoral. Il suo successo,
sia tra l’opinione pubblica sia tra la critica, crescerà progressivamente negli anni successivi alla
sua morte: sono state realizzate molte mostre in
*[Valerio Francola è uno storico dell’arte romano formatosi all’Università ‘La Sapienza’ specializzandosi negli studi dell’arte
contemporanea. Collabora con diverse riviste come critico ed opinionista e negli ultimi anni ha avuto modo di approfondire il complesso
tema dei beni culturali nell’ambito del lavoro di ricerca portato avanti dalla Fondazione Astrid e culminato con la sua collaborazione
alla recente pubblicazione I beni culturali tra tutela mercato e territorio, a cura di Luigi Covatta, edita da Passigli Editore.]
Homenaje a Frida Kahlo, GemDiaz, Tecnica Mista, 2012
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InSistenze
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Un Brindisi per la Baronessa Elsa
Un Brindisi per la Baronessa Elsa
di Helmutt Schilling
‘Lei non è una futurista. Lei è il futuro’. Questa la definizione che Marcel Duchamp ci ha lasciato della Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, artista rivoluzionaria e avanguardista del secolo scorso. Elsa von
Freytag (1874-1927) fu amica e collaboratrice di Duchamp come di Man Ray, Djuna Barnes ed altri influenti artisti di inizio secolo. Negli Stati Uniti è considerata una delle prime dadaiste americane con notevole
influenza sulla scena Newyorkese. Fu un’artista ad
ampio spettro, spaziando dalla letteratura alla pittura,
dalla scultura alle street-performance. La sua opera fu
da subito guardata con sospetto e diffidenza per la sua
natura controversa e provocatoria, in particolar modo
per quanto concerneva la libertà sessuale della donna.
Nonostante la sua notorietà e la sua influenza in campo artistico, il suo personaggio è rimasto dimenticato,
anche negli USA, per varie decadi e lo è tuttora in buona
parte del vecchio continente. Il ritorno della Baronessa
sulla scena artistica internazionale ha avuto luogo nel
2011 grazie alla raccolta ‘Body sweats: the uncensored
writings of Elsa von Freytag-Loringhoven’ curata dalla
studiosa americana Irene Gammel che ha scrupolosamente recuperato e portato alla luce gli scritti poetici
della Baronessa.
Uno degli aspetti più immediati della Baronessa fu il
suo look e il suo gusto estetico, percepibili dalle fotografie pervenuteci, alcune delle quali riportate qui.
Reggiseni composti da lattine di salsa o tazze da tè,
orecchini ricavati da posate, accessori chic recuperati
in discariche industriali, piume di struzzo in quantità.
Le cronache dell’epoca riportano gli episodi più bizzarri, come quando si presentò ad una serata di gala
indossando come copricapo una gabbia per canarini
con all’interno un volatile vivo.
10
Prints and Photographs, Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti
C’è molto del ‘ready-made’ che è passato alla storia
come l’impronta di Marcel Duchamp.
Torniamo indietro di qualche decennio.
Elsa nacque in Germania da una famiglia alquanto
modesta. Alcune fonti riferiscono che il padre, un operaio, abbia abusato dell’Elsa bambina sia verbalmente
che fisicamente. Poco più che adolescente Elsa sentì
immediatamente il richiamo dell’arte ed insistette per
studiare in una scuola d’arte nei pressi di Monaco di
Baviera. Nel 1901 si sposò con l’architetto berlinese
August Endell con il quale intrattenne fin dal principio
del matrimonio una relazione aperta molto chiacchierata. In seguito, nel 1910, partì per il Nord America
con il suo amante, Paul Greve.
Visse in diverse città tra cui Cincinnati e Philadelphia,
dove guadagnava qualche dollaro posando come modella per pittori e fotografi. Nel 1913 arrivò finalmente a
New York dove conobbe quello che sarebbe diventato
il suo secondo marito, il Barone Leopold von FreytagLoringhoven.
La neo-baronessa iniziò da subito ad utilizzare il titolo
aristocratico come chiavistello per scardinare lo status borghese e nobiliare dell’upper-class newyorkese.
Stabilitasi nel Greenwich Village, che cominciava ad
emergere come centro nevralgico dell’arte contemporanea, conobbe vari artisti emergenti ed affermati intrattenendo con loro relazioni di amicizia e di collaborazione sempre più strette. La Baronessa divenne ben
presto una personalità molto nota nel Village, anche e
soprattutto in virtù delle sue street-performance che
lasciavano i passanti a bocca aperta. I cronisti ci riportano di come passeggiasse per il quartiere seminuda,
coperta ad esempio di sole piume, recitando versi a
sfondo sessuale.
Sembra che il primo film che venne realizzato da Man
Ray e Marcel Duchamp fosse un omaggio ad Elsa, un
corto-metraggio dal titolo ‘The Baroness shaves her
pubblic hair’. Purtroppo di quest’opera non sono rimasti che dei fotogrammi e qualche rara fotografia di
scena. Da questo momento la collaborazione con Duchamp si fece sempre più intensa, tanto che alcuni storici dell’arte hanno perfino sostenuto che l’ispirazione
per la storica ‘Fontana’ (l’orinatoio) provenisse dalla
Baronessa. L’ipotesi è suffragata da uno degli scritti
dell’artista in cui è riportato che l’idea per l’opera gli
fu trasmessa da una sua cara amica.
La Baronessa fu accolta nei circoli culturali più in vista
della città ed ebbe modo di conoscere autori del calibro di Wallace Stevence, Ezra Pound e William Carlos Williams, i quali la guardavano con un misto di
ammirazione e diffidenza. I suoi eccessi, il suo gusto
al contempo coraggioso ed oltraggioso attiravano su
di lei un’enorme attenzione ma anche il timore di esserne travolti.
In campo letterario viene ricordata come una delle
prime dadaiste americane, con un linguaggio dissacrante, l’uso di nonsense, il ricorrere di tematiche libertine se non apertamente sessuali.
Nella scultura fu pioniera dell’assemblaggio e del readymade. Non frequentava cave di marmo ma discariche
dove recuperava ogni tipo di oggetto che stuzzicasse
la sua creatività.
Nel 1923 Elsa tornò a Berlino sperando di poter raccoglierefamaeconsensoancheinEuropa.L’accoglienza
che le fu riservata, al contrario, fu molto tiepida tanto
da spingerla a lasciare la Germania alla volta della Francia per incipienti difficoltà finanziarie. In questo periodo venne molto aiutata dalla rete di artisti ed intellettuali che le voleva bene come una sorta di ‘figlioccia’
stravagante; Peggy Guggenheim le fu molto vicina.
Giunta a Parigi nel 1926 la sua salute iniziò a cedere
sotto il peso delle continue difficoltà economiche.
*[Helmutt Schilling nasce a Salisburgo da padre austriaco e madre italiana. Trasferitosi a Lugano per motivi di studio, si occupa come
ricercatore di estetica del linguaggio. Pubblica il suo primo saggio ‘La vocazione cubista del tu’ a venticinque anni e prosegue nella
propria carriera accademica per i successivi dieci anni. A volte affaticato dall’universo delle parole, evade nelle potenzialità del gesto:
la recitazione e la scultura del bronzo come necessità fisiche di rappresentazioni visive e materiche.]
11
Un Brindisi per la Baronessa Elsa
Le cronache riportano di una sempre più precaria
stabilità mentale. Morì nel 1927 per soffocamento
da gas lasciato ‘inavvertitamente’ aperto durante
la notte. Già all’indomani dalla morte le voci di
un plausibile suicidio iniziarono a rincorrersi
ma le circostanze della morte non furono mai
ulteriormente chiarite.
La Baronessa Elsa è sepolta a Parigi, nel cimitero
di Père Lachaise.
Elsa von Freytag è stata indubbiamente uno dei
protagonisti più ragguardevoli del movimento
modernista, in un periodo storico in cui anche i
più trasgressivi degli artisti mantenevano un certo
approccio ‘maschilista’ alla cultura e all’arte. La
Baronessa Dada si considerava un’opera d’arte
vivente, pronta a rompere ogni tradizione e
imposizione della sua epoca. Fu un’avanguardista,
una ribelle, una femminista ante-litteram.
La sua opera è rimasta per lungo tempo sepolta
dalla polvere fino a quando nel 1996 il Withney
Museum di New York non le ha restituito la giusta
luce con una retrospettiva di enorme successo.
Da quel momento e nei successivi 15 anni la
popolarità della Baronessa è andata nuovamente
crescendo e la sua figura è stata di ispirazione per
film-makers, fotografi, designers e letterati.
Una delle sue poesie più famose è ‘A dozen
cocktails please’, di cui riporto i primi versi, una
sorta di brindisi in onore della Baronessa Elsa:
No spinsterlollypop for me-- yes-- we have
No bananas I got lusting palate-- I
Always eat them-- -- -- -- -- -- -They have dandy celluloid tubes-- all sizes-Tinted diabolically as a baboon’s hind-complexion.
A man’s a-Piffle!
Will-o’-th’-wisp! What’s the dread
Matter with the up-to-date-AmericanHome-comforts? Bum insufficient for the
Should-be wellgroomed upsy!
That’s the leading question.
There’s the vibrator-- -- --
12
Coy flappertoy! I am adult citizen with
Vote-- I demand my unstinted share
In roofeden-- witchsabbath of our babyLonian obelisk.
What’s radio for--if you please?
“Eve’s dart pricks snookums upon
Wirefence. “
An apple a day-- -- -It’ll come-- -- -- -Ha! When? I’m no tongueswallowing yogi.
Progress is ravishlng-It doesn’t me-Nudge it -Kick it-Prod it-Push it-Broadcast-- -- -- -That’s the lightning idea!
S.O.S. national shortage of-What ?
How are we going to put it befitting
Lifted upsys?
Psh! Any sissy poet has sufficient freezing
Chemicals in his Freudian icechest to snuff all
Cockiness. We’ll hire one.
Hell! Not that! That’s the trouble-- -Cock crow silly!
Oh fine!
They’re in France-- the air on the line-The Poles-- -- -- -- -- -Have them send waves-- like candy-Valentines-- -- -- -“Say it with-- -- -Bolts !
Oh thunder!
Serpentine aircurrents-- -- -Hhhhhphssssssss! The very word penetrates
I feel whoozy!
I like that. I don’t hanker after Billyboys-- but I
am entitled
To be deeply shocked.
So are we-- but you fill the hiatus.
Dear-- I ain’t queer-- I need it straight -- -A dozen cocktails-- please-- -- -- --
InSistenze
Del Fuoco Femminile
di Letizia Leone
Questo testo poetico, estrapolato da un più ampio
poema storico, si colloca nell’ambito di una
riflessione intorno ad un vasto ed inesplorato
territorio psichico femminile affastellato di
rovine. Guidata da una “cantadora” d’eccezione,
Clarissa Pinkola Estès, ho ritrovato l’impronta
sotterranea di un istinto potente e rimosso, quello
di una donna archetipo, di una donna selvaggia.
Pinkola Estès, analista junghiana, custode delle
storie più antiche raccontate in trance intorno
al fuoco, è grande esploratrice della mitologia
mondiale, di simboli e archetipi e si definisce
discendente “di un’antica e immensa comunità di
santi, trovatori, bardi...poeti erranti, vagabondi,
streghe e pazzi”.
Le storie curano, le storie sono nutrimento, le
storie fortificano e si possono anche mettere in
versi per supportare il lavoro psichico finalizzato
alla conoscenza, all’individuazione e alla libertà
di una coscienza consapevole.
La donna in cammino che segue una pista nel
bosco (sia pur esso un caotico bosco metropolitano)
chiama a sé anche gli animali, “la terra, i bambini,
le sorelle, gli amanti e gli uomini”.
Eppure come i lupi le donne sono state perseguitate,
ci rammenta la Pinkola Estès, considerate specie
pericolose e voraci: “sono state il bersaglio di
coloro che vorrebbero ripulire non soltanto i
territori selvaggi ma anche i luoghi selvaggi della
psiche, soffocando l’istintuale al punto da non
lasciarne traccia”.
Allora resuscitare la voce della psiche profonda
in questo farsi dell’anima appassionata richiede
una facilità e felicità di scrittura che nel mio
caso coincide con il ritmo, la danza grafica e
grammaticale, la musica vergine incantatoria del
verso.
C’era una volta...
Una vecchia, una strega, si! una Baba Jaga
Magari irrompono dalle foreste
con le rughe dei tronchi
e i canti nelle ossa.
Sono animali che amano, le pazze
portandosi dietro teste o zampe come stendardi
come grida vuote,
lupe vaganti
o Ecate
con le ovaie impollinate.
La nostra bellezza sta molto più avanti
del nostro corpo, sembrano dire.
Escono
cariche dell’energia sanguinaria
dei supplizi.
È tutto in gioco ciecamente dal basso
e bisogna scendere, risvegliare le massacrate
con coraggio, con ragnatele
bendarne gli scorticamenti
per poi spiarne i crimini d’amore.
Nei cenerari.
Siamo curiose.
Le cose spaventose cercano una dimora
nelle fosse
là, dove è pieno questo nome, Baba Jaga
gigantesca teschia del caos
strega sfasciata d’ombra, carne del vaiolo
e verruca di rospo.
InSistenze
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Del Fuoco Femminile
Il palco nudo
Lei cavalca la scopa funeraria e ci ramazza
il fango con i capelli sottoterra delle mummie
diventati unghie e coltelli. Taglia così le sue tracce
nel vuoto. Non vista la maledetta si chiude
dentro la sua baracca e il chiavistello è mortaio
di denti umani cariati. Serratura vivente ed
affamata.
Ode al sacchetto della vergogna – Omaggio a Pasolini
di @RisoDellaMedusa
C’è un uomo sul palco.
È nudo.
Nudo di tutti gli oggetti che hanno segnato una vita di
appartenenza e rassegnazione.
Nudo dei suoi abiti, nei quali, per un’esistenza intera, ha
vissuto segnando il mondo e attraversandolo, sul limite
incerto che segna consapevolezza e inconsapevolezza.
Intanto la casa balla.
E lei si gratta dentro. Una palafitta danza
su i mille piedi freddi di pollo e di gallina,
casa che ride, e lancia calci ai corvi.
La vecchia si è spogliata nuda,
che sesso gonfio e scabro, perde sangue
guarda: dalla vagina pende carne viva attorcigliata
che lei ramesta e impasta tra le cosce.
Intanto balla e ride con la casa all’aria.
Alza la polvere e le larve
basta una rima la filastrocca una catena
e il fantasma balena:
È il 1968.
Siamo al Teatro Stabile di Torino.
L’uomo sul palco è l’Uomo, protagonista di Orgia, dramma teatrale di Pier Paolo Pasolini.
Francisco Goya, Streghe in aria, Olio su tela, 1797
gli impiccati si sono accucciati fuori come cani.
Gli omuncoli scalciano nelle ampolle
desiderosi di vita.
Poi cadono come macigni grida
dalla nebbia dei crematori,
quei forni di Siviglia, Los Quemaderos:
pentoloni per quaranta dannati
da cuocere a fiamma bassa in trenta ore
di lancinanti “Non muori!! Non muori!!”
Lei esce all’ora di cena
comincia a veleggiare dentro un pesta sale
il remo furioso della navigazione è il pestello.
Da lontano fa orrore.
Ah Ah Ah
Favola che si racconta ai bimbi
cattivi col carbone.
14
*[Letizia Leone ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri
di luce (2000); L’ora minerale (2003), (seconda edizione 2004);
Carte sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011). Numerose
le antologie e i premi letterari: “Serenissima”, (a c. di Silvio
Ramat) Università Ca’ Foscari, Venezia, 1995; Antologia “Grande
Dizionario della Lingua Italiana Salvatore Battaglia”, UTET, Torino,
1995; Geografie Poetiche, ac. di W. Mauro, Giulio Perrone Editore,
Roma, 2005; Sorridimi Ancora, (dodici storie di femminlità violate)
pref. di Lidia Ravera, Giulio Perrone Editore, Roma, 2007. Da
quest’ultima raccolta è stato messo in scena “Le Invisibili” (regia
Emanuela Giordano) Teatro Valle, Roma, 2009. Letizia Leone è
stata segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale nel 1997.
Nel 1998 è stata premiata al premio del Grande Dizionario della
Lingua Italiana Salvatore Battaglia, UTET, To; e Premio Nuove
Scrittrici, edizioni Tracce, Pescara (1998 e 2002). E’ stata premiata
e segnalata in altri premi letterari, ultimo dei quali “I miosotìs”
edizioni d’if, Napoli, segnalazione 2009 e 2010. Menzione d’onore
per la Poesia inedita- Premio Lorenzo Montano 2011- Edizioni
Anterem- Verona. Tiene un “Liceo di poesia” presso l’editore
Giulio Perrone.]
InSistenze
In scena c’è il mutismo di un’esistenza, consumata fino
al fondo del dramma, fino a quel fondo che appunto lascia nudi, privati, tornati all’origine.
Ai piedi dell’Uomo altri oggetti, muti e immobili.
Anch’essi segni di altrettanta esistenza.
Sono abiti, gettati a terra, vuoti del corpo che li ha abitati facendo di essi linguaggio che dice “chi-appartienea-cosa”. Ai suoi piedi, ammonticchiati, abiti di foggia
femminile, simulacri, oggetti muti che parlano, però, un
linguaggio codificato: scheletrito nel suo senso di appartenenza al sesso-femmina.
Calze, reggicalze, sottoveste, mutandine, borsetta, cipria,
rossetto.
Ma il dramma non si è ancora consumato fino in fondo,
ancora non è esploso col suo tonfo sordo, ancora non
ha avuto il suo esito, che scardina segni, linguaggi e appartenenze.
Sono stato vostro schiavo, oggetti della mia vita:
di conseguenza, voi siete stati i segni della mia obbedienza.
Ma ora, ora non sono più vostro schiavo! Ah, ah,
ho del tutto stravolto la vostra normale funzione;
e domattina, così, voi sarete i segni della mia nuova realtà.
Quanto parlate, quanto urlerete, (impazziti) oggetti banali,
parole del silenzio e della rassegnazione!
(Estrae dalla borsetta il rossetto, la cipria, e comincia a truccarsi).1
Il dramma borghese dell’inautenticità, di quei
rapporti di forza che segnano la logica del modello cui appartenere, dell’alienazione e della perdi-
InSistenze
15
Il Palco Nudo
Il Palco Nudo
ta dell’umano: disciolto, rarefatto, inconsapevole
ormai nel darsi e ridarsi dello stereotipo che ci
richiede, inappellabile.
Identificazione prestabilita nei modi e nella sostanza.
Che ne è, allora, dell’autenticità dell’espressione,
tutta, fino a giungere a quella più viscerale, radicata
nel profondo dei grembi, sradicata forse dalle coscienze?
Che ne è di quell’autenticità dell’espressione umana che investe la sessualità, e più in generale il rapporto con l’altro?
Io, ardentemente obbediente a questa regola,
alla fine della mia pubertà – come mi son già detto,
nel presente, spiritoso monologo –
fui un bravo adulto, che si sottometteva
con la buona fede dello scolaro
a tutte le regole del gioco (del potere):
non solo: ma accettava addirittura,
con diligenza, la condanna contro la SUA DIVERSITÀ!
Incredibile!2
Fotografia da Wikimedia-Commons
Ma ora i simulacri sono caduti, abbattuti al suolo,
corpi morti al pari del corpo che li ha abitati, corpo
che, improvvisamente consapevole di un destino
insopportabile perché lontano dall’accettazione,
ha scelto il suicidio, alla ripetizione consapevole.3
E ora perché finalmente, oh bella, mi ribello?
(Comincia a raccogliere gli indumenti della ragazza, e a
indossarli, per prime le calze).4
Eccoci, ci siamo.
Siamo in ascolto, attenti osservatori.
L’Uomo si sta vestendo, di nuovo abbandona
la sua nudità, e raccoglie oggetti e significa(n)
ti. Li raccoglie uno ad uno, riassumendoli nella
sua storia, ribaltandoli, tirando fuori da essi le
interiora di un passato in cui l’appartenenza è
oggi storia da riscrivere.
La marca di queste povere calze
di piccola borghese di periferia
dice con grande chiarezza due cose:
primo la loro caducità,
secondo: la loro appartenenza alla sfera del potere.5
La tra-vestizione è cominciata.
Eppure questo non è un atto di protesta, non è una
soluzione reale ai conflitti che emergono nello svolgersi
deldramma.Piuttosto,èl’esploderedellecontraddizioni
nella impossibilità di superarle all’interno delle
condizioni materiali che le hanno generate.
(si è infilato le calze, e ora prende il reggicalze.)
Primo: la caducità;
secondo: un posticino nel mondo del potere.
Due belle scuse per essere diversi in pace.
Cara morte, ah, ah, come mi eri utile
per poter fingere
che il tempo non era nulla; che non passava.
E che quindi era giusto starmene fermo
intento solo alle mie stupende, divine porcherie!6
16
InSistenze
Un posticino nel mondo del potere.
Cosa ci dici, Uomo?
Cosa, narrandoci di oggetti che navigano nelle
nostre vite guardandoci dal loro privilegiato
punto di osservazione, oggetti che sentiamo come
muti, ma che invece, come il territorio segnato
con l’urina dagli animali, segnano il limite in cui
muoverci, in cui sorridere, in cui amare, in cui
essere come la ripetizione del gesto ci chiede.
idea di novità. Infatti:
quando eravate i segni della mia realtà vecchia,
due erano le alternative: primo, con la scusa…
della caducità (indi della rassegnazione)
asservirsi all’autorità e fare quella magnifica vita da
porci.
Secondo, farla subito finita e darsi una magnifica morte
(come è già accaduto in questa tragedia).
Ma…ora…si apre una terza alternativa…
un’alternativa…rivoluzionaria!8
(Si è stretti i reggicalze, e prende le mutandine.)
E dunque, Uomo, siamo ancora qui, in attesa, ti
osserviamo con il tremore nelle gole che ingoiano
l’aria, vestiti nei nostri abiti che parlano di noi,
dei nostri sessi chiusi in sacchetti della vergogna,
dei quali nessuno vorrebbe parlare.
Ancora oggi, quarantasei anni dopo la tua morte.
Da quarantasei anni penzoli da quella corda, su
quel palco vuoto, vestito da donna, e ci urli nelle
orecchie, e il tuo grido attraversa la storia, e io
vorrei che ci attraversasse i grembi.
Ehi, mutandine di mia madre!
Primo: la caducità – e quindi la rassegnazione.
Secondo: l’onnipresenza del potere – e quindi l’ipocrisia.
Mutandine cieche, sacchetto vergognoso.
Ma sì, ma sì, torneremo polvere: ciò ci protegge,
da una parte, nell’essere follemente porci,
dall’altra nell’obbedire a chi vorrebbe
che mai si parlasse di voi; e che voi
foste fonte di silenzio.
(si è infilato le mutandine, e prende la sottoveste.)7
La trasformazione è in atto, gesto reale e simbolico
di rifiuto.
E davanti a noi sta un corpo, che assume oggetti,
fagocita oggetti: li digerisce, dopo che, per l’arco
di un’esistenza intera, sono stati a sussurrargli
piano all’orecchio di altro che non sia stato la
morte della coscienza di una possibile diversità.
Oggetti-funzione.
Funzione della ripetizione dell’appartenenza a
rapporti di potere, inautentici, mai innocenti.
Opachi della mancanza di consapevolezza.
(si è infilato la sottana.)
Non è dai monti della luna che venite,
segni della mia nuova realtà.
Dico nuova: e non senza ragione.
Così nuova da far decadere ogni già sperimentata
(Estrae dalla borsetta il rossetto, la cipria, e comincia a
truccarsi.)9
[…]
Il mio linguaggio diventerà muto per eccellenza,
oltre che per l’eternità…Eppure
chi domattina verrà, e alzerà gli occhi per decifrarlo
capirà quale terribile forza, mai pensata finora,
avrebbe avuto il mio desiderio di essere libero,
se avessi vinto il mio istinto
attraverso cui la morte
aveva dichiarato inutile ogni speranza.
Desiderio, e storia del desiderio.
Quasi a trasmettere la violenza della contraddizione
tra le nostre pulsioni e il loro essere già da
sempre prese nei lacci dei rapporti inautentici che
dominano le nostre vite.
InSistenze
17
Il Palco Nudo
Il gruppetto di gente che il sole porterà qui
delegati dall’immenso mondo della storia
(i vicini di casa, in silenzio, i poliziotti
col loro triste sudore, gli infermieri
venuti dalla campagna: come li vedo!)
si troveranno davanti ad un fenomeno nuovo, così nuovo
[da dare un grande scandalo
e da smerdare, praticamente, ogni loro amore.10
Penzola ancora, Uomo.
«un uomo / che ha fatto buon uso della morte»11.
Fotografia da Wikimedia-Commons
1. P. P. Pasolini, Orgia, in Pasolini. Teatro, a cura di W. Siti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 311.
2. Ivi, p. 308.
3. Facciamo qui riferimento al suicidio della Donna, protagonista insieme all’Uomo del dramma teatrale. L’Uomo in
Orgia è sì il carnefice, ma nello stesso tempo è anche vittima della Donna, che accetta ogni violenza con felicità ed
obbedienza, complice del proprio sfruttamento. All’interno del complesso svolgersi delle azioni nel Teatro di Parola di
Pasolini, la vera natura dei rapporti sociali viene svelata, e tanto l’Uomo quanto la Donna arrivano alla consapevolezza
di come la violenza dei rapporti di potere sorregga ogni realtà sociale. Incapace di ripristinare una inconsapevole e
tacita obbedienza al potere, la Donna si suicida.
4. Ivi, p. 308.
5. Ibidem.
6. Ibidem.
7. Ivi, pp. 309-310.
8. Ivi, p. 311
9. Ivi, p. 321.
10.Ibidem.
11.Ibidem.
*[@RisoDellaMedusa è uno pseudonimo d’arte.
È omaggio alla scrittura che conserva la carne e il sangue, senza scacciarli nel buio delle coscienze, nel silenzio della parola non detta.
@RisoDellaMedusa è tributo a P. P. P., cui mai dire grazie sarà abbastanza.]
18
InSistenze
P.P.P., Matita su carta, @RisoDellaMedusa
Edgar Allan Poe considerava la donna un
essere eternamente sospeso tra vita e morte,
mutevole nell’aspetto, dai tratti dapprima
sani e poi spettrali, vittima di sofferenze
ma capace di rigenerarsi attraverso
la procreazione, continuando dunque
in un continuo ciclo, ad esistere.
Anche quello che ci fanno vivere i nostri
poeti è un viaggio mutevole, aggrappati ai
loro versi, in esplorazione della femminilità
e della consapevolezza di essa, che parte
dai cieli dell’Olimpo dei miti greci, fino
a giungere in picchiata nei vicoli oscuri
di una realtà fatta di corpi venduti e
consumate violenze.
È donna anche la notte, dunque? Che osserva
con angoscia consumarsi uno dopo l’altro i
delitti perpetrati nel suo ventre buio, per poi
cambiare il volto in quello del domani
per tornare a risplendere?
Rita Pacilio
In queste quartine di Rita Pacilio che simulano la forma del sonetto, la musicalità del verso e la ricerca di compostezza formale amplificano il messaggio di un dramma civile come la schiavitù sessuale,
la prostituzione, la violenza sulle donne.
Già il titolo della raccolta “Quel grido raggrumato” dichiara l’intenzione di usare la parola potente
della poesia quasi come il suono stridulo di un’unghia sul vetro che vuole scuotere e infastidire, per
risvegliare le coscienze. Poesia che vuole essere “shock per i sensi” come disse la Sexton, e diventare
strumento di lotta morale all’emarginazione e ai suoi mali. (Letizia Leone)
Ci sono sentieri che nascondono l’inganno dei lastroni
e le mani dei padroni sono daghe, punte venute dall’est.
Inganna la zeppa nera, si abbevera alla macchia riccia di sole
scruta l’iride abbassata il sonno del cliente, antico padre.
Sono parole sacre le voci dei bambini, tiepide le fronti
eppure i glutei hanno croste, boomerang colpiti nel segno
fino ai fianchi pulsano inverni consumati domani
intorpidite le rupi si muovono come nembi folli le bufere.
Non si aprono fenditure ma canaloni indecifrabili
un lappare lento, immaturo
che giunge all’agitazione tra le natiche della bestia
nel luogo livido di pianura chiuso in quel grido raggrumato.
Laura Di Marco
L’hanno tenuta in due come un foglio, un lenzuolo
i polsi e le caviglie erano in una forma che si stira
un mandarino intero riempiva la bocca e la gola
nel chiarore del vicolo divaricato fra le trombe d’aria
il suo esame di idoneità, la preparazione al primo
cliente la rendeva frutto acerbo del cactus
desiderato dalla censura di chi si apre i pantaloni
e spinge guardandosi intorno che sia coperto
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dalla colpa che non si fermerà nella frusta dei reni
ma sintonizza il morso e il liquido che cola
dalle due bocche aperte lungo una linea comune
in quel triangolo nero da cui escono periferie e disordine.
Charles Mengin, Saffo, Olio su tela, 1877
InVerso
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Deve aver penato tanto nel rovesciarsi sfacciata,
pronta, passata in tutti quei giorni che sono ancora qui,
senza risate. L’hai accompagnata fingendoti sorpreso,
prato che ha sete incenerito dalla ripetizione delle regole,
spuma bucata schizzata sul vetro che stupisce appena
e impoverisce. Chiude.
Ogni rovina conserva navate sgretolate nelle notti paurose
dei motel addormentati dove finisce la tonalità romantica
e si inclinano le tracce opache, nascoste nell’elenco corretto.
Lì c’è stato il temporale dalle tinte ingenue, quasi monacali
la rabbia del video passava sullo schermo un pompino
fatto con la devozione del ringraziamento. Era stata un’altra
la prima della lista.
Chissà il colore dei capelli.
La raccolta, che segue ‘Non camminare scalzo’ e ‘Gli imperfetti sono gente bizzarra’, chiude una trilogia sull’inquietante e doloroso cammino attraverso i temi dell’emarginazione.
Il volume si presenta come un manuale del sopruso, contro chi ambisce variamente manovrare il corpo delle donne e dei fanciulli. Ovvero un trattato, balisticamente in versi, dove viene differenziato il
mammifero maschio (e talvolta femmina) che la suddetta opera scellerata compie per piacere, lucro,
lavoro, biologia, vendita carnale.
Il corpo poetico, in questo libro, ricerca, enuncia e precipita, in modo finanche notarile, la pratica
maneggiona di coloro che si condannano per un realismo moralmente e socialmente insignificante.
Rita Pacilio, attraverso la poesia, nomina l’innominabile nella prospettiva dell’educazione, della rinascita, della ricostruzione. (dalla quarta di copertina)
Fabiana Frascà
Fabiana Frascà, con due componimenti che forse rappresentano gli apici dell’immaginario collettivo
nella considerazione di femminilità: la bellezza statuaria ma fredda, tanto perfetta nell’aspetto quanto
incapace di sentimenti e di vita, e quella arguta, d’intelletto, che dona a Penelope in un filo, la forza
a cui aggrapparsi e tessere le proprie speranze. (Laura Di Marco)
Statua
Se non fossi che pietra, un granito
stabile e fisso io saprei quelle braccia.
Ma non ha carne la pietra, né fiori.
Non conosce la terra, gli odori.
Sa imitare soltanto nel tatto,
simulare in quel freddo contatto
parvenze di mani di bocche di denti.
Inventarsi in un simulacro
un’anima dura. Necrotica e pura.
Penelope (I)
Lenta col mio vigore
e mio malgrado recidiva
tesso dalle mie tempie
l’attesa del ritorno.
Quanti cantori muti
dalle gole gozzoviglianti
intessere non potranno
raggiri ai miei più arditi!
Sciogliere un filo
di preghiera ai piedi
del più beneficiato disertore.
*[Rita Pacilio è nata a Benevento, Sociologo, Mediatore familiare e dei conflitti interpersonali ha lavorato nell’ambito dello Sviluppo
delle Politiche del Lavoro e nelle progettualità della Casa Circondariale di Benevento trattando il disagio sociale e la Prevenzione delle
dipendenze. Poeta, Scrittrice, Collaboratore editoriale si occupa di Poesia, di critica letteraria e di Vocal jazz.]
*[Fabiana Frascà è nata a Napoli dove vive e lavora, alternando scrittura prevalentemente poetica e attività di progettazione grafica.
Ha pubblicato poesie e racconti in diverse raccolte antologiche frutto di premi letterari o concorsi. È vincitrice della IV edizione del
“Premio Internazionale Mario Luzi”, prima classificata per la Sezione Poesia Inedita. Nel dicembre 2009 a Roma, Giulio Perrone Editore,
le pubblica la prima raccolta poetica dal titolo “L’Oscuro Centro – novantanove quartine di corpi e una prosa di anime”. Seconda
classificata al Concorso “L’ottava poetessa per l’8 marzo” 2012 – Fusibilia Associazione, in collaborazione con la Città di Nettuno
(Roma). È stata selezionata, alla V e VI edizione del Premio Nazionale di Poesia e Narrativa “Albero Andronico”, con le sillogi “Amore,
varie ed eventuali” e “Cartoline dal fondo”. Nel febbraio 2014 pubblica, sempre per Giulio Perrone Editore, una nuova raccolta poetica
dal titolo “Aporia delle scorie” con una prefazione di Antonio Spagnuolo e una nota di Letizia Leone.]
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Roberto Marzano
Monia Minnucci
Quella che si annuncia nel titolo come una cartolina ricordo della riviera ligure, si rivela invece immagine deformata di una sosta nell’inferno della violenza. Così come il ritratto di donna che si annuncia nella poesia “Lizabeth” tenta di straniare il lettore per un attimo dalla descrizione, in versi duri
ed icastici, di un corpo seviziato e gettato in un burrone. Un corpo-rifiuto che testimonia con le sue
cicatrici la storia clandestina delle nuove schiave contemporanee, delle loro vite negate considerate
dei vuoti a perdere. (Letizia Leone)
La notte sfiorita di Monia Minucci è il luogo psichico di un vuoto e di un dolore femminile, è la mancanza di una promessa di felicità, è il tradimento presente e antico nello stesso tempo che lascia in
eredità una dote, quella di una memoria atavica di sofferenza e ribellione che si può scontare solo
“con un paio di secoli di ulivo”, come recita, a suggellare il testo, l’ultimo verso.
L’abbandono o la solitudine sembrano aver piantato le radici nell’animo femminile, insieme ad una
rabbia, a quella furia di “combattenti del pigiama” nella notte. (Letizia Leone)
Ricordo della Riviera Ligure
Lizabeth
La notte sfiorita
Chissà se l’ha capito che sono una ragazza
oppure
è proprio per questo
che si accanisce ottuso
a manganellarmi a peso morto
la sua rabbia in faccia
a vomitarmi addosso
urla d’odio e calci nella pancia
anfibio nero
che sul mio corpo impazza …
Come spiegherai Lizabeth alla tua mamma
cosa ci facevi tutta nuda e fatta a pezzi
disarticolata bambola-pupazzo
riversa in un famelico burrone…?
C’è una nebbia sottile
che ghigliottina le mani dei
combattenti del pigiama
e sviluppa polveri sfinite
da consumarsi in direzioni note e meno fiorite.
Sfiorisce il profumo viola del rosmarino,
mi rammenta un vuoto,
un’assenza,
un lume pio in lontananza
e l’altezza sonora di un passo scordato.
Un fiore e un arco,
un armistizio di longevità.
Mi esibisco su frequenze putrefatte,
porto in dote un sogno vendicativo,
dovrei scontare la giacenza dei ricordi
con un paio di secoli di ulivo.
Indifeso oggetto
in balia della sua vendetta
forse per un bacio non concesso
o una sculacciata ingiusta di sua madre
io “cagna rossa” e “troia comunista”,
non so
se da questo sacco a pelo ne uscirò viva
se tornerò domani alla mia Brema
oppure morirò per le ferite o per paura…
Tutti gridano lì intorno
è un bastonar con cura
si picchiano i pensieri
si rompono le braccia…
Chi mai l’avrebbe detto?
Tu, il più bello e delicato fiore
da Ibadan ad Ogbomosho
promessa cameriera
presso certi signori dell’Europa
dove il servizio l’hai prestato
a suon di sberle
con le mani e con la bocca
con tutta te stessa
sennò ti rompevano le ossa!
Lizabeth
occhi fuori dalla testa
con un “puffo” intorno al collo
che non ti lascia uscita
le cinghiate date senza parsimonia
tanto i lividi non si notano sulle puttane negre
e si può continuare a venderle senza sconto
a qualche onesto buon padre di famiglia…
o buttarne i pezzi nei rifiuti
se si ostinano a rifiutar ragione!
*[Roberto Marzano, Genova 7 marzo 1959, narratore, poeta “senza cravatta”, chitarrista, cantautore naif e bidello “alternativo”. Barcollando
tra sentimento e visioni, verseggia di vagabondi e di prostitute, di amori folli, di ubriachi e dei quartieri ultrapopolari dov’è vissuto.
Meditabondo, si arrabatta tra città arrugginite, bar chiusi, televisori diabolici, supermercati metafisici, operai, nottambuli… e oggetti
inanimati ai quali dà viva voce. Una poetare pregno di originalità e dell’ironia pungente che lo ha già contraddistinto nel campo della
canzone d’autore. Come musicista (Roberto Marzano & gli “Ugolotti” e “Small Fair Band”) si è esibito in centinaia di concerti.]
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Posseggo ancora la mia furia
lanciata contro le infinite e svenevoli stelle,
una fionda di casalinghe e sangue,
quando l’apice delle ristrettezze si allarga
in un pietoso ghigno che vorrebbe dirsi di
soddisfazione.
Vittoria!
Vittoria!
Esclamò la notte,
bagnata da ripetuti lutti
e splendidi rutti segnarono il cuore di una bottiglia
vuota
che discute ancora con le rimanenze
di un incubo da dissidente.
*[Monia Minnucci nasce a Sora e, attualmente, risiede a Frosinone. Sin da bambina coltiva la sua passione per le arti in generale, con
una particolare attitudine per la scrittura. La poesia, nello specifico, è utilizzata dall’autrice come una sorta di auto-terapia per sublimare
gli stati tensivi e le sofferenze, una catarsi rigenerativa, ove l’aspetto autobiografico non manca di tingersi d’universalità. I suoi testi
sono stati selezionati in numerosi concorsi indetti dalle case editrici e pubblicati su svariate antologie poetiche. Vince il primo premio
del concorso nazionale Virella A. Granese di Bellizzi con la poesia “Il libro degli spersi”; il racconto “Il bastardo” è primo classificato al
concorso nazionale “I racconti dell’agenzia del perdono”, promosso dalla casa editrice Livello4. Pubblica la sua prima opera poetica “La
bambola rotta” nel 2010 e, in attesa di pubblicare il suo secondo libro “Senza pelle”, prosegue con gli studi per specializzarsi nel campo
delle relazioni umane.]
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Alessandra Carnovale
Andrea Borrelli
Madre terra, dea della fertilità, dispensatrice di vita e morte, nei versi di Alessandra Carnovale, una
madre che può donare ma anche, se risentita, togliere, rendere brullo, inaridire persino le sue spoglie
di cui alla fine rimane solo il lamentoso tono del vento. (Laura Di Marco)
Brandelli di donna descritti da Andrea Borrelli nelle mani impietose e ciniche di chi ne sfigura l’anima per ritagliarsi l’abito da (una) sera, ferite continue e sempre più ampie inferte ai sensi come a
cenci, ne opacizzano, per assuefazione, il dolore. (Laura Di Marco)
Demetra
Seni freschi
Tutto
prosperava al tuo passo.
Eri bella, Demetra, prima
che ti rapissero
i venti
di vendetta.
Hai assaporato
il mosto cotto
del ricatto
e imposto
a gran voce
che cessassero
di fiorire
le messi, Demetra
la possessiva, grembo
ritorto
che tutto re-inghiotte
di ciò
che ha generato, caverna
intonacata
a vinaccia.
La terra,
il deserto
del tuo risentimento.
Nervi distesi sotto posticci capelli.
Ciglia finte che coprono corti indumenti,
figlie del lavoro e strumenti
in mano a sarti odiosi
come forbici stringono
e soddisfano piaceri taglienti.
Squarci nell’anima,
a poco a poco più grandi ma opachi.
Pensieri e parole inesistenti,
si chiude in silenzio
l’abbandono totale dei cenci.
Per una volta ancora
Hanno urlato nulla i tuoi sensi.
Donna in piedi con camicia a fiori, Egon
Schiele, Tempera su carta, 1912
Demetra, da Oracle of the Goddess di Anna
Franklin & Paul Mason
Eri bella, Demetra, un tempo.
Il tuo lamento
ha ingrossato il vento.
*[Alessandra Carnovale vive e lavora a Roma. Si divide tra manualità (modellazione, principalmente) e scrittura (poesia). Ha partecipato
a mostre e concorsi letterari, ottenendo premi e riconoscimenti.]
*[Andrea Borrelli nasce in un piccolo paesino della Puglia al centro della Pianura del Tavoliere. Affascinato dal mondo della poesia fin
da bambino si decide a pubblicare i propri scritti solo una volta superata la soglia dei trentanni. Dopo una lunga permanenza romana
dedicata agli studi all’Università La Sapienza, nel 2009 rientra in terra natìa dove tuttora vive. E scrive.]
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Davide Cortese
Marino Santalucia
L’autore, una new entry nella scuderia di Diwali, ci propone un suo breve componimento accompagnato da un recente disegno realizzato sul tema della Donna. Sia nei versi che nell’immagine si
percepisce un senso di disagio, quasi di colpa archetipica, dell’uomo nei confronti della sua Musa.
(Flavio Scaloni)
È una dichiarazione quella propostaci da Marino Santalucia, d’amore materno di donna verso il suo
corpo l’affermazione che nell’io filosofico fonde essere e pensiero rendendola identità a sé stante, padrona di se stessa, e libera pertanto, di disubbidirsi. (Laura Di Marco)
Donna
Io sono Donna
Sei ancora la strega.
Bella come il demonio,
arcana come la madre.
Sempre vivo è il rogo per te:
arde crudele sulle labbra
di chi continua a infierire sul tuo nome.
Io non voglio che chiederti perdono.
Amo il mio corpo
come una madre,
sprofondo nell’essere
slacciata alla vita
senza redenzione.
Poiché
chi disobbedisce a se stessa
ha il dominio assoluto
e non deve inchinarsi.
Disegno di Davide Cortese, dalla raccolta di
poesia ‘Madreperla’, ed. LietoColle
Studio per una testa di donna, Amedeo
Mogliani, Matita su carta, 1911
*[Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di
Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica,
titolata “ES” (Edas, Messina), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano, Ragusa, 2004), “Storie del bimbo
ciliegia” (un’autoproduzione del 2008), “ANUDA” (Aletti Editore, Roma, 2011), “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore, Roma, 2012) e
“MADREPERLA” (LietoColle, Como, 2013).]
*[Marino Santalucia fa parte dell’ONG “Emergency” dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato la silloge poetica Versi Riversi, Giulio Perrone
Editore. Suoi testi sono inseriti in diverse antologie (Edizioni Progetto Cultura, Edizioni Ursini, Opposto.net, Fusibilia Libri, e Lietocolle
Editore). Nel 2011 partecipa a “Teatri di Vetro Festival Ammaro Amore”, alla “Settimana della Poesia di Eboli” ed alla “Prima Edizione
Mare in Vista Cultura”.]
InVerso
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Eugenia Serafini
Eugenia Serafini, fedele alla sua poetica, organizza testi in espansione di grande forza fonico-lessicale progettati per la rappresentazione performativa. L’accentuazione visiva dei fonemi se da un lato
costringe il lettore a rallentare la lettura, dall’altro carica il verso di un valore sonoro.
Un’accentuazione del grido o del canto murato in un silenzio generazionale delle donne velate, siano
esse le egiziane con candidi pizzi sulla fronte che le donne di Kabul, entrambe “obiettivi sensibili” di
soprusi e sopraffazioni. (Letizia Leone)
Obiettivi sensibili DoNne di Kabùl
Delle infinite
notTi e
dei giorni
inFiniti delle doNne
vElate di Kabùl
delle attese e
dell’aMore
dell’OdiO e
della gUeRra
della pARtenza senZa
riTorno
dei tRamonti che
eRano finiti
delle stElLe che
tRamontarono senZa
più riSOrgere
della lUna che si
vOLtò sUlla goBba e
nOn volle più
giRARsi
!
delle tORri che
volaRono via
!
cOMe cORiandoli
a ManHaTtan e
dei fUochi nel
ciElo di Kabùl che nOn
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fUrono di giOia né
di feSta ma
di mOrte cHe veNne
dal ciELo
oh sì sì
scOPpiavano a grAPpOli
le bOMbe sulle pieTre
dell’AfganisTan
dei nostRi capoDANno che
vennEro tra caNti e fUOchi
d’aRTificio e
della viTa cHe cOntinuAva
nOnosTante tUTto
e del manDORlo cHe
fiOrì
a geNnaio
della vOLpe che lasciò
le tRacCe sUlla neVe
delle inFinite nOtti e
dei giORni inFiniti delle dONne
cHe si SvElarOno a Kabùl
e dell’amORe
e della mORte
e dell’aMOre
e dell’amoRe
‘Ambientazione artistica- Ho un sogno: la pace’,
fotografie di Eugenia Serafini
obiettivi senSibili
donne di Kabùl
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Il focus di InVerso: Gli Haiku
International Airport Cairo
BiaNcoVElate
RoSaveLate
NeRoVelate
AvanZano le dONNe
egiZiaNe
i caNdiDi piZzi suLLa fRonte
RoSaveLate
BiaNcoVElate
NeRoVelate
feriScono l’aRia
con i lOro sgUARdi
NeRoVelate
RoSaveLate
BiaNcoVElate
AttenDOno a stORmi
il lOrO tempO
al riSO di Mahra
dOndOladOndOla
sulle diTa di Yahsmin
il teMPo
delle DONne egiZiane
i caNdiDi piZzi
suLLa fRonte
RoSaveLate
BiaNcoVElate
NeRoVelate
INTERNATIONAL AIRPORT
CAIRO
!
dOndOladOndOla
sulle pUnte deLLa LUNa
dOndOladOndOla
agli oCChi di Eba
dOndOladOndOla
al canto di Mahra
dOndOladOndOla
sotto le SteLle
ATTenDOno a stORmi
il lOrO teMPo
le DONne egiZiane
RoSaveLate
BiaNcoVElate
NeRoVelate
Haiku tra meridiani e paralleli
di Dona Amati
dOndOladOndOla
sOttO le SteLle
dOndOladOndOla
*[Eugenia Serafini dice di sé: ‘Amo le farfalle e le nuvole, amo scrivere, recitare e dipingere. Giro il mondo per confrontarmi con gli
altri artisti, mi affascinano la loro creatività, i colori, i luoghi dove esprimono la loro cultura. Innamorata pazza dei miei nipotini,sono
una viandante della fantasia..]
InVerso
InVerso
Haiku tratti dal volume “Haiku - Tra meridiani e paralleli”, FusibiliaLibri ed. 2014
È prevista per fine maggio l’uscita del volume
antologico “Haiku tra meridiani e paralleli – Seconda stagione”, scaturito anche questa volta dal
concorso letterario bandito dalla casa editrice FusibiliaLibri, marchio editoriale della attivissima
associazione culturale Fusibilia, fondata da Dona
Amati e Ugo Magnanti.
A differenza della precedente edizione, è stato
chiesto ai partecipanti di cimentarsi in una forma più assoluta di haiku, in linea cioè con le regole tradizionali della poesia giapponese che, oltre al classico Kigo (l’elemento stagionale, ovvero
l’osservazione della natura), considerano determinante l’inserimento dei quattro stati d’animo
dell’haijin: Sabi (il distacco, la pace, il raccoglimento in solitudine), Wabi, (l’incanto e lo stupore
per la semplicità dell’essere), Aware (il rimpianto, la nostalgia) e Yugen (il mistero ineffabile).
I risultati, apprezzabili per impegno e suggestività, hanno premiato chi si è misurato con una
forma di scrittura mirata alla contrazione, fino
all’essenza massima, del pensiero e della forma,
attraverso il rigore metrico, che ricordiamo, è fisso ad una terzina composta da un quinario, un
settenario e un altro quinario, e l’assolutezza della concentrazione espressiva, dimostrando, ancora una volta, che meridiani e paralleli sono linee
di intersezione non solo geografiche ma anche
di incontri e confronti commisurati all’emotività
profonda delle persone su una forma d’arte che
proviene immutata dal medioevo orientale.
Anche questa seconda edizione, curata da Dona
Amati, si avvale delle splendide immagini del fotografo Hitoshi Shirota e della nota critica del poeta e saggista Francesco De Girolamo.
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Haiku tratti dal volume “Haiku - Tra meridiani e paralleli”, FusibiliaLibri ed. 2014
EMILIA BARBATO
Neve al tempio,
la lanterna crepita
nel vento bianco.
FRANCESCA DI CASTRO
Nel cardo il frullo:
un’ala al sole brilla
d’oro e magenta.
UGO MAGNANTI
L’anfora rotta
s’ingrazia qualche sguardo
coi fiori fuori.
GABRIELE STELLA
Grilli campestri:
un ritmato frinire
tra l’erba più alta.
GUIDO BASILE
Letteratura,
altro non è che idee
fatte di carta.
RITA FANTINATO
Brivido freddo
chicchi bianchi sul prato.
Tuoni d’agosto.
LUCIANA MORETTO
Intempestive
fuori dalla clinica
le pratoline.
ANDREA TAVERNATI
Nebbie d’autunno
trafigge la lampara.
Naufraga il mare.
ROBERTO BIGOTTO
Lungo ’l sentiero
appassisce la sera,
viene novembre.
MARZIA GIANNELLI
Sasso di vetro.
Le mani raccolgono.
Prisma riflette.
MARIO PAROLA
Come le pietre
in fragile equilibrio –
io mi rinnovo.
MARIA GRAZIA TOMASSINI
Solo silenzio
nel becco del passero –
stomaco vuoto.
GLORIANA BRIZZI
Sassi bucati
trascina la risacca –
custodi muti.
LORIS GIOPP
Vive tre giorni
il fiore del ciliegio
tre, ma perfetti.
LORENZO POGGI
Fior di ciliegio
vivi solo un mattino
se s’alza il vento.
PAOLO CARLUCCI
Oh tre arance
il sole dell’inverno
in una cucina.
GIOVANNA IORIO
Va un gabbiano
fino al mare e poi torna:
nel becco un’onda.
MIRELLA RIGAMONTI
È pazzo il vento.
Mi solleva le gonne!
Irriverente.
ADA CRIPPA
Sotto al foglio
odore di lumache.
Scrivo sul noce.
ANTONIETTA LOSITO
Presso il ruscello
sciabordio di lavandaie
a piedi nudi.
FRANCESCA ROCCHETTI
Ombre nel cielo,
si affollano gli storni.
Meglio scappare!
Donna (Fujo),
Nakamura
Daizaburö, 1930.
Paravento a
due pannelli,
inchiostro su seta.
InVerso
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Mata Hari, fotografia, 1910
Ogni categorizzazione porta con sé un
conflitto. L’appartenenza è un fardello, una
trappola nascosta di lacci, cancelli, muretti
e confini arbitrari da espandere o difendere.
È una distrazione dal vero più profondo.
Ogni classifcazione di genere porta con sé,
alla lunga, il rischio dell’autodistruzione.
Divenire donna potrebbe essere la chiave
per individuare quel sottile e labile confine
che esiste tra artigianato ed arte, tra il saper
fare ed il saper esprimere in un continuo
sovrapporsi, affiancarsi, intersecarsi,
completarsi, senza sterili contrasti. L’arte,
la fotografa, ogni strumento di intima
espressione, svolgono al meglio il compito
di trasformare i confni in risorse. In fin dei
conti le emozioni rendono tutti uguali e tutti
individualmente diversi, unici sullo stesso
terreno, senza artificiose sovrastrutture
culturali e facili manipolazioni. La donna
è un ossimoro accecante fatto di coraggio
e fragilità, sofferenza interiore ed estetica
superfcialità, irrequietezza e rassicurante
pazienza, gelida spietatezza e calda, dolce
e materna comprensione, incantevole ed
insopportabile, mutevole e scostante eppure
insostituibile punto di riferimento.
Giada Fettini
‘Sarà così la vita, chiedesti, comincia in un punto come se fosse un petalo, e poi si disperde in tutte le
direzioni?’
(Antonio Tabucchi)
.
Pietro Bomba
InStante
*[Giada Fettini è nata a Roma e vive e lavora a Parigi; le piacciono i libri, il caso e i curriculum brevi.]
InStante
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Clotilde Petrosino
Passi.
Sguardi.
Colori.
Notti.
Leggera sogni ancora
mani e petali
taglienti e avidi
di risvegli afoni.
Lontana perdi attimi
di vite fragili che
pensi inutili.
Lasciala la donna muta,
che cieca e sorda
ti ha reso vuota!
Rinasci nuova.
Antica fiamma
di Vita intensa.
È giunta l’ora!
Note
Calore
Sguardi
Parole.
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Francesca Di Vaio
Giulio Gonella
Nella serie ‘Pola Nudes’ l’autore utilizza degli scatti Polaroid in maniera non convenzionale. La collezione è un tributo ai maestri del nudo dell ‘800 come Modigliani, Courbet e Delacroix. La modernità
dei soggetti, nudi e liberi, è restituita attraverso un nuovo linguaggio. L’aspetto pittorico delle immagini deriva dal processo di manipolazione del negativo originale.
*[Clotilde Petrosino ha 27 anni. Vive a Roma dove ha conseguito una laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo e un Master presso la
Scuola Romana di Fotografia. Attualmente lavora, inoltre studia Psicologia alla LUMSA. Continuando la sua ricerca artistica attraverso
molteplici mezzi di espressione.]
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*[Giulio Gonella è nato a Roma, classe 1983. E’ nella città eterna, con il suo patrimonio artistico e culturale, che sviluppa il senso per
la bellezza e l’eleganza. A seguito di un’esperienza in India, le cui suggestioni hanno fortemente influenzato la sua vocazione per la
fotografia, intraprende un corso professionale a Roma. Trasferitosi a Madrid collabora con diversi studi e si avvicina alla fotografia
di moda. In questi anni inizia a sviluppare un proprio linguaggio personale e ad alimentare un proprio portfolio. Prosegue la propria
carriera tra Londra e Roma esponendo in numerose gallerie e manifestazioni. Attualmente insegna fotografia in alcuni istituti superiori
di Roma. Il suo lavoro gli è valso il premio ‘Nikon Talents’ per la categoria ritratti.]
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Veronica Coletta
L’introspezione e il rapporto con l’obbiettivo sono il cardine di un progetto che dura da più di due anni. L’intimità
che nasce tra autore e motore della creazione è dettata da un rapporto senza remore, vergogna, timidezza. Sono
tutte e nessuna delle donne che incarno e la relazione che c’è tra me e la macchina è di pura fiducia.
Il risultato è assolutamente legato al rapporto di solitudine e completa nudità artistica che nasce con la macchina. Uno sguardo altrui, uno sguardo estraneo ed esterno inquinerebbe un rapporto altresì perfetto.Per me la
femminilità è qualcosa di intimo e al contempo profondamente violento e delicato.
*[Veronica Coletta nasce in Pescara il 15 giugno del 1987 a Pescara. Sin da piccola le immagini ricoprono un ruolo importante e affettivo
per lei. La macchina fotografica infatti è sempre presente, in tutti gli eventi importanti o vagamente belli. Così come la sua passione
per il cinema, che nasce con lei e la accompagna negli anni dell’adolescenza. I suoi occhi crescono curiosi.
Subito dopo il diploma le era tutto chiaro, voleva diventare una regista, ma con la telecamera in mano non faceva altro che collezionare
snapshots. Da lì il passo è breve, e l’iscrizione all’ISFCi (Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata) di Roma è la scelta
immediata che segue il conseguimento degli studi superiori.
Terminati i tre anni di formazione, lavorando come fotografa di scena e al servizio degli attori per book fotografici, torna nella sua città
natale e comincia un lavoro, attualmente in attivo, di autoritratti. Trovando affinità con Alex Prager e seguendo la sua ispirazione più
grande: Martin Parr.
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Dema Novakova
L’ispirazione parte dalla tripartizione dell’Io di Platone, liberamente raccontato attraverso immagini che sono l’eco di percorsi professionali quanto umani, il residuo visuale di un voto d’arte. Soma
(σῶμα) – corpo, limite fisico dell’io individuato. Limite alla tensione umana verso l’infinito, ma anche
ponte, ed opportunità, per il benessere della mente. Attraverso la conoscenza del sé, l’accettazione e
il sereno straniamento dall’ideale della simmetria e della perfezione. Attraverso il dialogo equilibrato
con l’alimentazione e la soppressione delle patologie derivanti da un rapporto deviante con il nutrimento. Il duplice intreccio tra Maria Chiara Tascini, dietista, e Corinna Luce, modella. Maria Chiara
rimane vittima di un incidente domestico all’età di sei anni, riporta gravi ustioni su parte del viso e
del corpo e rifiuta, negli anni, l’intervento della chirurgia estetica. Corinna inizia a ventisette anni la
propria lotta contro la leucemia, tra cartuccere di medicinali, trapianto di midollo e massicce dosi di
cortisone continuando a posare nonostante la trasfigurazione che la malattia arreca.
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Sema (σημα) – significato, segno. O parola, come codice che identifica e legittima. Il perfezionamento
dell’arte oratoria è chiave di volta per il completamento dell’individuo e il suo riconoscimento sociale. Affidato alla logopedista Giovanna Tarantino è il recupero delle difficoltà del linguaggio e il loro
profondo effetto sull’integrazione degli individui nell’universo cognitivo e dialogico.
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Psychè (ψυχή) – psiche, o quel che si avvicina di più al concetto cristiano di ‘anima’. Passa attraverso
l’autocoscienza e la percezione del sé in relazione alla dimensione sociale di appartenenza, con regole
e strutture la cui lettura non può prescindere dall’imprinting, nella prima infanzia, ottenuto attraverso
la collaborazione tra le autorità tipiche della fase: impianto genitoriale ed insegnanti. Elena Rapisarda
è educatrice nell’atto del raccogliere e restituire, talvolta frenare, proteggere o far sbocciare, con lo
scopo di strutturare l’autocoscienza e la percezione dell’ io sociale.
Paola Celi
Nello stile pittorico dell’artista Paola Celi, protagonista è la Donna come simbolo del divenire universale
di vita, in cui la vita si raccoglie e si dona, con notevole espressione emotiva e psicologica che affascina
l’osservatore nello stupore, nell’incanto, come nella drammaticità rivelata dall’immagine. Le emozioni sono
vive, palpabili attraverso la tela, come già in attesa di cogliere lo sguardo del cuore e non frutto di una ricerca
dell’osservatore.
Una ricerca da parte dell’artista Paola Celi tesa sul particolare, che diviene sfumatura significante di una
realtà vista dall’artista, con certosina osservazione. La gioia negli intarsi di materia e colore, la sensualità
nel raffinato e morbido tratto disegnativo, dove anche nel bianco e nero, trattiene pura l’emozione, in assenza di colore.
Una ricerca tecnica la sua sempre in continua sperimentazione, ed evoluzione, dove la realtà, si fonde con
l’immaginazione diventando il sogno che nasce tra il suo sentire e la tela. (Miriam Pasquali- relatrice e pittrice)
*[Novakova è nata ad Aprile molte ingenuità fa e detesta l’inverno. Vive e lavora a Roma alle dipendenze di Schopenhauer, il gatto che
districa il vel(l)o di Maya.]
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Femminilità, molteplicità o unicità?
La femminilità viene definita come un
insieme di prerogative che idealmente
sono attribuite alle donne e che le
contraddistinguono, rispetto all’uomo.
La cultura occidentale è sempre stata
caratterizzata da una struttura primaria
che gira intorno a una serie di coppie di
categorie, tra cui quella “uomo/donna”.
Questo dualismo concettuale non è mai
simmetrico, ma è basato sul predominio
di un elemento sull’altro.
Il maschio - inteso come genere culturale
- si sta estinguendo, mentre la donna sta
sviluppando più risorse e capacità
di adattamento nella società.
Il nostro corpo fa da mediatore tra noi
e il mondo, comunica agli altri la nostra
identità, mostra le differenze anatomiche
tra il maschio e la femmina, che nella nostra
società sono alla base della classificazione
per una distinzione culturale e sociale.
Il percorso suggerito, ha come chiave
di lettura proprio l’identità: cercarla,
cambiarla, rifiutarla o affermarla?
Dimentichiamo l’esistenza del “genere”
e cominciamo il nostro viaggio!
Arianna Degni / XxeNa
*[Paola Celi nata a Grenchen (Svizzera) il 9/11/’68 risiede a Villa Rosa di Martinsicuro (Teramo,Abruzzo) e lavora presso la propria
Bottega d’Arte in Via F. Filzi .
“Paola Celi intende il proprio lavoro un ‘ avventura nell’universo femminile , cercando gli strumenti per un’ esplorazione in profondità
nei territori dell ‘ inconscio e dell ‘ immaginario .Il segno-scrittura si trasforma in segno-immagine in un esito naturale tale da suscitare
un ‘ impressione immediata e fluente . Il procedimento formativo dell’artista rivela una ricerca costante di equilibri e sollecitazioni
dinamiche anche molte contraddittorie fra loro .” (Elio guerra,ritrattista e scrittore)
Fra le varie forme pittoriche troviamo lavori di forte impatto cromatico , con materiali quali travertino, pietre , legno, etc.. Lavori
eseguiti con tecniche miste.]
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Locandina del film ‘Man with a movie camera’, 1929
Orlan
Un corpo in divenire
Cos’è un corpo? Cos’è l’identità? Proprio su questi interrogativi Orlan, performer radicale francese e mutante contemporanea, imposta da anni il suo faticosissimo lavoro. Il suo progetto è quello di innestare se stessa
in un processo di metamorfosi identitaria. Orlan trasforma radicalmente il concetto di performance, creando
l’archetipo di “corpo in divenire” inedito e unico. Dal 1986 si sottopone ad una serie di interventi chirurgici,
con lo scopo di trasformarsi in un nuovo “essere”, rivendicando la possibilità di riprogettarsi, oltre le imposizioni restrittive del controllo legale e di poter far così emergere la sua immagine interiore. Gli interventi
vennero trasmessi in diretta televisiva, mostrando i passaggi della sua metamorfosi fisica; in questo modo la
sofferenza avviene nel corpo di chi assiste… ed è proprio questo che conta: il percorso… non il risultato.
Genesis Breyer P-Orridge
Un involucro per il cervello
Unica identità per Genesis Breyer P-Orridge e sua moglie Lady Jaye Breyer, che insieme iniziarono
a fare degli esperimenti per sfuggire al concetto di “genere”. Per loro, corpo e genitali non rappresentavano altro che un involucro per il cervello. Estremizzarono questa visione al fine di distruggere l’identità per poi ricongiungersi in un’unica nuova entità. Lo scopo era quello di raggiungere un
perfetto stato di ermafroditismo, anzi di “pandroginia”. Attraverso una serie di interventi di chirurgia
plastica cominciarono ad assomigliarsi fisicamente, ispirandosi al “cut up” della letteratura di Burroughs: “Prendiamo due persone, le tagliamo a pezzi e le rimettiamo assieme facendole diventare una
terza persona”.
Vanessa Beecroft
Aspettando la bellezza
La scelta espressiva della Beecroft è quella di realizzare performance utilizzando il corpo femminile.
Delle vere e proprie coreografie curate nei minimi dettagli, dei quadri viventi dove vengono rappresentate azioni mai portate a termine, nature morte dalla valenza psicologica. L’ossessione per il corpo
femminile, la sua esibizione e i suoi cambiamenti sono una caratteristica inconfondibile della sua arte.
All’inizio della sua carriera artistica cominciò a scrivere un diario (Despair) che poi decise di rappresentare: un vero e proprio autoritratto letterario. In quell’occasione scelse delle ragazze dalle strade
della città e vestendole con i suoi abiti chiese loro di diventare “pubblico” del suo diario. Alla fine i
ruoli tra lettrici e soggetto si confondevano al punto da creare una situazione tanto auto-referenziale
quanto extra-referenziale.
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VALIE EXPORT & Marina Abramovic
Aktionshose: Genitalpanik / Action Pants: Genital Panic
Nel 1969, VALIE EXPORT entrò in un cinema porno di Monaco, imbracciando un mitra e indossando
dei pantaloni con il cavallo tagliato che mettevano in mostra i suoi genitali. Camminava tra il pubblico seduto mostrando da vicino la sua femminilità. Gli spettatori, che si aspettavano di vedere immagini di nudo proiettate sullo schermo, si sentirono minacciati dall’arma, ma soprattutto turbati dai
genitali di una donna “reale”. Il risultato fu una fuga totale dal cinema. Questa performance radicale
è stata riproposta in tempi più recenti, in collaborazione con la sua amica artista Marina Abramovic.
Mariko Mori
Cyber spiritualità
Fin da ragazza, ispirandosi a un cartone manga, sognava lo specchio magico che le consentisse di trasformarsi nel personaggio che più desiderava. Infatti nei suoi primi autoritratti appariva con identità diverse: dalla
donna cyborg in abiti ipertecnologici all’idolo pop anni ’90, conservando sempre quell’immagine intermediaria tra cielo e terra che la contraddistingue. Successivamente cominciò ad arricchire, in maniera graduale,
le sue opere tecnologiche inserendovi una grande dose di ricerca spirituale, spaziando dal buddismo giapponese allo scintoismo, ispirandosi sempre alla cultura tradizionale giapponese ma senza mai rinunciare alle
sue acute visioni sul futuro. Il suo obiettivo? Unire il “celeste” al “terrestre”.
Shirin Nestat
Tra due mondi
Iraniana, compie i suoi studi in California dove si trasferisce per diversi anni. Quando negli anni ’90
torna nella sua patria trova la condizione sociale fortemente cambiata con l’insediamento della repubblica islamica. Da quel momento comincia a rappresentare la condizione della donna in Iran e
l’obbligo del chador nero. Nel suo film Turbolent utilizza due proiezioni poste una di fronte all’altra;
un uomo e una donna iraniani che cantano rivolgendosi l’uno verso l’altra, alternandosi. Lui ha un
pubblico di soli uomini, mentre lei nessuno. È un duello tra sessi che non potrebbe mai avvenire nella
realtà islamica patriarcale, perché alle donne non è permesso cantare in performance di questo tipo.
In questa invece, il prevalere della voce femminile, vittoriosa su quella del suo “antagonista”, simboleggia la necessità dell’annullamento dei limiti imposti da quel tipo di società.
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Rineke Dijkstra
Identità e sguardo
Nella sua prima video-installazione (The Buzzclub), Dijkstra si concentrò totalmente sulla relazione
tra la percezione di sé dell’individuo e l’azione modellante della società. Per qualche anno filmò i frequentatori abituali di due discoteche, una in Inghilterra e una in Olanda, in un cubo bianco con sfondo neutro e videocamera diretta alle persone. Risultato? I protagonisti adolescenti di questa video
installazione assumevano fondamentalmente due tipi di atteggiamenti, che variavano dallo sfacciato
all’imbarazzato; ciò che non mutava mai era il divario tra quello che avrebbero voluto comunicare e
come apparivano effettivamente. Una vera e propria discrepanza tra l’intenzione e l’effetto.
Frida Kahlo
Una doppia identità
Appena separatasi dal marito, questa meravigliosa e tormentata artista, trova sfogo dipingendo il
famoso autoritratto Las dos Fridas, affrontando così il tema della doppia identità. Si ritrae con due
identità diverse: la Frida messicana (tanto amata da Rivera) in costume tradizionale e la frida europea
(quella rifiutata) che rischia di morire dissanguata.
La sua nuova indipendenza, viene successivamente raffigurata in Autorretrato con pelo cortado, dove
si è appena tagliata i capelli con le forbici e indossa un vestito da uomo. Significativa è la presenza
della strofa di una popolare canzone messicana, che aiuta a capire il perché di questo quadro: ‘Vedi,
se t’amavo era per i tuoi capelli; adesso che sei rapata non t’amo più’.
Matthey Barney
Androginie postorganiche
Oltre il maschile e il femminile, oltre gli schemi della sessualità politicamente corretta, oltre la piatta
divisione binaria, completamente inventato, il corpo di Matthey Barney ha incarnato molteplici identità. Le sue video azioni raccontano sfide della natura fisica e invereconde disidentità, corpi costruiti,
senza genere, età e forma, una sorta di androginia organica come chiave di lettura della sua incredibile capacità di metamorfosi. Tra i suoi personaggi idoli del football, satiri, drag queens e maghi; corpi
che si staccano dal reale e sprofondano in un immaginario completamente visionario. Le sue videoperformance presentano segni di rottura con l’universo naturale; il corpo postumano ha solo sfide,
sessualità simbiotica, frantumazione corporea e risignificazione dell’io.
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Adrian Acosta
The Transformation
Angelica Porrari
La Couvade
Una lezione pratica di trasformazione accessibile: una buona dose di make up e l’alter ego prende
forma!
Angelica Porrari è una giovane videoartista. Le sue opere sono da contemplare come fotografia in
movimento piuttosto che come narrazione filmica con uno sviluppo temporale canonicamente inteso.
Questa caratteristica nasce dalla sua intenzione di rendere eterno il frammento di un istante, dilatato
ed amplificato. Il singolo gesto si fa portatore dl significato delle immagini. Le fonti cui attinge sono
miti, riti antichi e leggende di qualsiasi paese, da lei rinnovate in chiave contemporanea.
L’estetica del suo lavoro offre un frequente rimando alla pittura rinascimentale italiana. Luci forti e
contrasti marcati isolano le figure nello spazio neutro dove ogni elemento nella composizione visiva è significativo. La suggestione ancestrale, il potente impatto visivo e la purezza estetica dei suoi
lavori si fanno voce, anima e corpo in uno stile artistico chiaro e definito, inconfondibile. Ideazione
e realizzazione di ogni opera sono curate dall’artista fin nel più piccolo dettaglio: scena, luci, performance, post-produzione, suono e montaggio.
Angelica Porrari porta avanti dal 2007 il suo progetto Gloves’Stories, soffermatosi recentemente sulla
ricerca del “limite”, impalpabile e mutevole luogo di conoscenza.
In questo articolo si propone uno dei suoi ultimi lavori: Couvade. La Couvade è un antico rito durante il quale i futuri padri simulavano il parto della propria compagna ed è citato nelle Argonautiche
di Apollonio Rodio. La gravidanza, per gli antichi, è il momento in cui la donna possiede un grande
potere di cui gli uomini vogliono cogliere il segreto. Segreto ai giorni d’oggi ancora celato.
L’artista attualizza questo rito sottolineando l’importanza dell’uomo nella gravidanza. Nove mesi in
cui il futuro nascituro può sentire anche il padre oltre che la madre. Il dolore simulato dall’uomo si
concretizza e diventa reale e percepibile nella donna che, pur mantenendo l’arcaico segreto, si apre
alla condivisione di ciò che in quel momento le è più sacro.
L’artista ha voluto proporne la narrazione attraverso una composizione visiva che rimanda alle pietà
rinascimentali. Il camice azzurro, colore indossato dalla Madonna nell’iconografia classica, in questo
caso è indossato dall’uomo.
XXeNa
Snow woman
Un insieme di simbologie che si susseguono in un viaggio onirico, alla ricerca di me stessa. Tutto inizia e finisce con una colomba bianca, che col suo volo lento sotto la neve dipinge la traiettoria di un
nuovo ciclo vitale. Uno specchio immaginario apre una porta, e un po’ come in Alice in wonderland
iniziano una serie di brevi visioni. Guardarsi dentro osservandosi da fuori è un gioco a cui spesso non
siamo preparati e rifugiarsi nella propria palla di vetro è una bellissima sensazione, ma a quali ostacoli ci sottoporrà la neve? Il confronto con il proprio ego è una sfida continua, un cerchio che non si
spezza… una nuova colomba in arrivo!
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Con questo numero siamo felici di accogliere
nella squadra diwaliana Michela Pistidda,
attenta lettrice, che ci propone due note
suggestive ed insolite. Siamo altrettanto lieti
di dare spazio ad un’autrice affermata
e ad un esordiente. Fabiana Frascà torna
sulla scena poetica con una raccolta
di notevole impatto emotivo, un lavoro
complesso ed affascinante destinato
evidentemente a lasciare il segno. Emiliano
Bernardini è un giornalista e cronista alle
prese con il suo primo romanzo: gli diamo
uno spazio con l’augurio che possa essergli
benaugurale. Buona lettura!
Diwali – Rivista Contaminata
Unknown Womanm,Thomas Wilmer Dewing, Pastello su carta, 1890
InDicazioni
Aporia delle scorie
di Fabiana Frascà
Dietro la levigata superficie dei versi traspare la vigile coscienza del poeta che cerca la realtà anche
dietro lo specchio, per miniaturizzare quei chip che
la tecnica contemporanea ha saputo inserire nel proporre la quotidianità insita nel bosco della realizzazione. Anche se nessun versante sembra offrire una
soluzione convincente e duratura della crisi della
poesia italiana, inceppata da anni in sterili opposizioni fuorvianti, nella illusione che una nuova maniera di poetare potesse ridar credito e vita alla creatività, ecco che ritroviamo con stupore e legittima
soddisfazione una costruzione musicale che sfiora
con arguzia e rimandi il tessuto della scrittura, per
rompere con insistenza l’isolamento della lirica.
Da buona viandante Fabiana Frascà viaggia di
gran carriera il viaggio della vita, sul ritmo di versi, di rime alternate, di ritmi leggeri, regolarmente
battuti e di duplicazioni valevoli da itti e da impulsi. Il senso della ripetizione dona una visione
che non riesce a rasserenare, anche se cerca ogni
esorcismo per allontanare l’angoscia ed il pericolo
di Thanatos. Frammenti, brevi aforismi, concisi e
scarni, segnali mutevoli e precisi, si propongono
nella ricerca esasperata della fine delle cose, sempre entro la dimensione della vita, quando la vita
si renda lodevole di essere vissuta, in piano, con la
matura coscienza che ne valga la pena, per un’apertura razionale e relazionale, che mai dovrebbe
venir meno.
Urlare per non piangere, urlare per sospendere l’angoscia, cercando di abbandonare ogni scetticismo
per ironizzare quando è possibile, nel testo e nel
reale, cercando con semplicità la distanza dell’ironico nel colloquio intimo e privato.
Scrive l’autrice:
“Anche le parole si ammalano e muoiono e a me piace curarle come un medico, confessarle come un prete, resuscitarle come un dio. E il processo è biunivoco
perché a loro consento di fare lo stesso con me.”
La pagina è arrendevole per una sua salvifica intenzione per la quale ogni porta si socchiude, e provare ad entrare è cosa facile perché la carica emotiva
della narrazione ha una forza sua ineliminabile.
Antonio Spagnuolo
TITOLO: Aporia delle scorie
AUTORE: Fabiana Frascà
EDITORE: Giulio Perrone
PREZZO DI COPERTINA: 12 euro (brossura)
PAGINE: 104
ISBN: 9788860043177
InDicazioni
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La ragazza dalle tredici anime
di Hedy Kempny e Arthur Schnitzler
Nella Ragazza dalle tredici anime viene alla luce un
ritratto inedito di due personalità poliedriche e contraddittorie: quella del grande scrittore austriaco Arthur Schnitzler, prolifico autore di romanzi, racconti e
opere teatrali di sottile indagine psicologica, e una giovane ragazza della media borghesia, Hedy Kempny,
che intreccia con Schnitzler un rapporto ventennale di affettuosa amicizia, attraversato da una tensione erotica mai compiutamente realizzata. Si tratta di
una testimonianza eccezionale che rivela il lato più
intimo dei due protagonisti, offrendo una chiave di
accesso preziosa alla loro vita interiore.
Il carteggio è intercalato da estratti del diario di Hedy,
che spiegano, ampliano e talvolta complicano l’intreccio di vicissitudini che la avvicinano o allontanano
dal grande scrittore. Intelligente e anticonformista,
Hedy è una ragazza che incarna tutte le antinomie e
i drammi di un’epoca tumultuosa, sorta dalle ceneri
dell’impero austroungarico e dalle conseguenze disastrose della prima guerra mondiale. Nel tentativo
di tracciare un percorso di vita autonomo, libero e
autentico, svincolato dal conformismo borghese e fedele alle proprie inclinazioni, Hedy è pronta a superare ogni ostacolo. Nonostante il grigio e monotono
impiego in una banca, indispensabile per conservare
un’effettiva indipendenza economica, si impegna a
coltivare i molteplici talenti e le passioni che la caratterizzano: studia recitazione, segue un corso di ginnastica, assiste a concerti e spettacoli teatrali, legge
moltissimo, viaggia il più possibile, cogliendo ogni
occasione che le si presenti, se necessario con piglio
spregiudicato.
Il suo è un volo ad ali spiegate verso la maturità, talora
oscillante e incerto, talora stabile e determinato. Nel
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suo mondo interiore può capitare che la malinconia
e la mutevolezza, come imprevedibili correnti d’alta
quota, sopprimano gli impeti gioiosi e infantili, o al
contrario che un’ingenua fiducia nel futuro rischiari
un paesaggio desolato di solitudine e separazioni. Si
tratta quindi di un processo evolutivo tortuoso, talora colmo di dolore, eppure mai offuscato dall’autoinganno, dalla negazione, dalla rimozione. Un processo che accomuna ogni individuo e con il quale una
giovane lettrice (la specificazione di genere appare
inevitabile) trova spontaneo identificarsi.
Per Hedy il grande scrittore è sempre presente, con
una parola di incoraggiamento o di conforto, a stringerle con calore la mano malgrado la distanza che
spesso li separa, ad accompagnarla con sguardo attento e affettuoso nella costruzione di un’identità
matura, in grado di scendere a patti con l’impossibilità della perfezione, l’incomunicabilità dei sentimenti, la solitudine connaturata all’esistenza. L’intesa fra i due, tuttavia, non si può incasellare nello
schema frusto e prevedibile di un rapporto padrefiglia, perché sarebbe riduttivo oltre che impreciso.
La natura di questa relazione è infatti eccezionale:
si tratta di un incontro fra due anime che si mettono a nudo l’una di fronte all’altra. Un incontro che,
come confermano le lettere, rappresenta un unicum
nel vissuto di entrambi. Hedy è portata a stabilire
rapporti improntati su una trasparente autenticità, e
questa condizione, per una splendida e inspiegabile
alchimia, si riesce proprio a concretizzare con Arthur
Schnitzler. Incuriosito dalle “tredici anime” di questa
ragazza sensibile e anticonvenzionale, lo scrittore la
sprona a esprimersi, ad aprire cuore e anima, a raccontare tutto di sé.
InDicazioni
Di fronte a una vitalità tracimante, a un candore
esuberante e insieme ingenuo, l’iniziale, apparente freddezza di Schnitzler si stempera negli anni
in un amore costante, colmo di premure, accoglienza, comprensione. Proprio perché consapevoli che “l’anima è un vasto paese”, entrambi riescono a conservare la freschezza rivoluzionaria
di un rapporto maturo, non esclusivo, in grado di
accogliere i silenzi come le irrefrenabili loquacità
dell’anima, un rapporto straordinario che giunge a conclusione solo per la morte prematura di
Schnitzler, avvenuta il 31 ottobre 1931.
Ai lettori resta un’immagine di ariosa libertà e
l’impressione che la felicità, per quanto sia una
chimera, possa balenare imprevista nei rapporti
interpersonali. Questo, ovviamente, a condizione
di essere disposti a mettersi in gioco, a interrogare le nostre paure più recondite e inconfessabili, a com-prendere gli altri. In sostanza è quindi
indispensabile porsi nell’atteggiamento corretto che consente di “cercare e saper riconoscere”,
come scrisse Calvino nelle Città invisibili, “chi e
cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo
durare, e dargli spazio”. Hedy Kempny e Arthur
Schnitzler hanno saputo ritagliare questo spazio
l’uno per l’altra nel vasto paese delle loro anime.
TITOLO: La ragazza dalle tredici anime
AUTORE: Hedy Kempny e Arthur Schnitzler
EDITORE: Feltrinelli
PREZZO DI COPERTINA: 25 euro (brossura)
PAGINE: 336
ISBN: 8807070189
Michela Pistidda
InDicazioni
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Dimmi cos’è
La lente scura
di Emiliano Bernardini
E’ dell’amore, e della paura di amare, che ci parla
Emiliano Bernardini nel suo romanzo d’esordio
“d’amore e disordine” intitolato “Dimmi cos’è”.
Una domanda che le comprende tutte. Ma Annie,
la protagonista del libro, cerca anche “la” risposta
alla domanda che la tormenta da quando è bambina: “Abbandonarsi equivale ad essere abbandonati?”. Il limite che dalla morte dei genitori ha
sempre avuto paura di superare. Annie è convinta che amare sia sbagliato, qualcosa che lei non si
può permettere. Tutto procede come ha stabilito.
Un solo ostacolo: qualcuno più ostinato di lei”.
“Dimmi cos’è” (edito da Porto Seguro, 165 pagine) è un romanzo che ci pone di fronte all’importanza del tempo, all’amore in grado di spingersi
oltre ogni ostacolo sconfiggendo la morte. E allora “abbandonarsi si trasforma in quella scelta
difficile che tutti dovremmo fare per essere felici”. Con fine scrittura e sapienza nell’utilizzo delle descrizioni degli attimi Emiliano Bernardini ci
pone di fronte all’importanza del tempo e di quel
Carpe Diem di oraziana memoria.
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TITOLO: Dimmi cos’è
AUTORE: Emiliano Bernardini
EDITORE: Porto Seguro
PREZZO DI COPERTINA: 12 euro (brossura)
PAGINE: 165
ISBN: N/A
InDicazioni
di Anna Maria Ortese
Non ho difficoltà a immaginare Anna Maria Ortese, il
volto coperto da un paio di lenti scure, in viaggio lungo le strade di ferro, d’asfalto e di terra battuta della
penisola italiana e del continente europeo, quasi le ultime immagini che la ritraggono, ormai anziana, nella
casa di Rapallo abbiamo soppiantato per sempre, nella
mia immaginazione di lettrice assidua e innamorata,
le pupille di triste e sognante attesa che immortalano
le poche fotografie dell’autrice da giovane.
In questa raccolta, che raggruppa reportage scritti fra
il 1939 e il 1964 insieme a ben sedici scritti inediti, la
lente scura è ovviamente il filtro attraverso il quale la
scrittrice analizza e descrive la realtà: un velo di “malinconia e protesta” che le permette di trasfigurare il
mondo in quadri astratti e visionari, permeati da metafore e ossimori, dove ad essere ritratta è la marginalità delle esistenze, il confino di classe, il fallimento
della Ragione, l’irraggiungibile chimera della Verità.
Il cammino della Ortese non conosce tregua, il suo
sguardo continua ad aprirsi sul mondo e gli itinerari
non appaiono mai prestabiliti. Quando ciò avviene, un
imprevisto, l’ubbia di un momento, il terrore irrazionale dell’aereo (si pensi all’interminabile viaggio in treno
per raggiungere la delegazione italiana a Mosca), introducono un elemento di instabilità, di variazione, di
casualità. Questa dimensione caotica trova espressione anche nella prosa, definita dalla stessa autrice come
una “scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante”,
e nella struttura asimmetrica dei reportage all’interno
del libro, organizzati secondo una tripartizione che resiste a ogni contiguità cronologica, geografica e perfino tematica.
L’impulso che dà l’abbrivio al peregrinare, per quanto
occultato sotto una plausibile pretesa o
una scelta razionale, sia essa la composizione di un reportage oppure la ricerca di una casa da affittare per
alcuni mesi, è sempre da individuarsi in una dimensione psicologica, strettamente intima. L’istigazione al
viaggio è di natura emotiva, umorale, ondivaga come i
cieli favolosi e variopinti su cui spesso indulge l’attenzione della scrittrice, perfino ai limiti della superstizione nel caso del soggiorno a Londra, che s’interrompe bruscamente per il muoversi di un gatto randagio.
Nel microcosmo interiore della Ortese le distanze si
piegano in torsioni paradossali (valga come esempio il
biglietto Milano-Napoli-La Spezia per raggiungere la
Liguria), mentre i paesaggi urbani rivelano una trama
di rimandi e analogie, memorie e similitudini che aboliscono ogni categoria spazio-temporale.
Su questo continuum, dove i confini di presente e passato si stemperano gli uni negli altri, aleggia l’impossibilità insanabile di sentirsi “a casa”: la precarietà, lo sradicamento sono il contraltare del desiderio disperante
di un luogo in cui essere. Desiderio di fondo è quindi
la ricerca di una patria, una terra dove avere cittadinanza in quanto donna, in quanto scrittrice, in quanto
appartenente a una classe sociale svantaggiata. Come
un fuscello spazzato da violenti flutti in mare aperto,
la scrittrice si lascia trascinare dal silenzio piovoso di
una Milano notturna all’ostilità sprezzante delle anticamere borghesi d’una Roma opulenta e indifferente,
da una Napoli ch’è matrice immaginifica da cui prende
consistenza l’identità ortesiana ai latifondi di derelitta
umanità del Meridione, dove tra le pietre abbacinanti si conducono esistenze al limite della sussistenza.
Così dirompente è l’esigenza di mettere radici che la
scrittrice diviene vittima di un rapporto masochistico,
squilibrato con i luoghi che vorrebbe eleggere a sua
InDicazioni
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dimora: quando avverte il rifiuto di una città, si scopre
ad anelare il ritorno alla stessa metropoli dalla quale,
solo pochi giorni prima, era fuggita al colmo della disperazione.
Il suo peregrinare, com’è prevedibile, appare quindi
come un nostos impraticabile: la patria tanto agognata
non ha alcuna esistenza geografica, alcun addentellato
con il reale. L’unica patria possibile esiste invece negli
incontri con l’alterità minuta e umile del dopoguerra italiano o della Russia sovietica, nelle scarne parole
sbocconcellate da una giovane tabacchiera pugliese,
nelle orbite fameliche e scavate dei figli dei briganti
siciliani. Identità marginale ed emarginata, la scrittrice
può trovare la propria heartland immateriale soltanto
nell’umanità dolente che popola il mondo, nel “poco”
o nel “nulla”, negli “Occhi – Occhi - Occhi e Voci dolci,
umane, chiarissime”; in ultima analisi, dunque, nell’utopia: “La vita si muove, viaggia; e alta sui paesi come
sulle campagne perse - mentre i convogli del tempo
continuano a inseguirsi - alta sui paesi deserti e campagne mute, resta la mirabile, cara, fedele Utopia”.
InChina
di Mario Lucio Falcone
TITOLO: La lente scura
AUTORE: Anna Maria Ortese
EDITORE: Adelphi
PREZZO DI COPERTINA: 24 euro (brossura)
PAGINE: 501
ISBN: 8845918963
Michela Pistidda
*[Michela Pistidda, traduttrice per una piccola agenzia milanese, è funambola di parole nel quotidiano ma perde l’equilibrio se si tratta
di scrivere la propria biografia.]
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InDicazioni
*[Mario Lucio “the Marius” Falcone nasce a Napoli ma cresce tra le migliaia di pagine dei fumetti che custodisce gelosamente e che
hanno dato una direzione alla sua voglia di disegnare, manifestatasi all’età di tre anni. Probabilmente vi ricorderete di lui per Violet
l’eroina anticamorrra, per la webstrip Advanced Nerds o per la fanzine telematica PippaMentis.]
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