Gli affetti lieti di Antonio Allegri da Correggio

Transcript

Gli affetti lieti di Antonio Allegri da Correggio
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 12
Gli affetti lieti
di Antonio Allegri da Correggio
Anna Coliva
“[…] se l’ingegno di Antonio fosse uscito di Lombardia, e stato a Roma, avrebbe fatto miracoli, e dato
delle fatiche a molti, che nel suo tempo, furono tenuti grandi. Conciossiaché essendo tali le cose sue,
senza avere egli visto delle cose antiche, o delle buone moderne, necessariamente ne seguita, che se le
avesse vedute, avrebbe infinitamente migliorato l’opere sue, e crescendo di bene in meglio, sarebbe venerato al sommo dei grandi”1.
Correggio, Educazione di Cupido, particolare.
Londra, National Gallery.
L’intera questione storico critica dell’andata a Roma di Correggio discende dal questa prima formulazione fatta da Vasari già nella Vita a lui dedicata nell’edizione del 1550 e sedimentatasi poi nella storiografia. Vasari ribadisce qui l’identità tra Roma e classicità in una sintesi che da questo momento comprenderà inscindibilmente il rinascimento del classico attraverso Michelangelo e Raffaello. Ecco dunque come il problema del viaggio a Roma di Correggio risulti ancora oggi il problema determinante nella
formazione della sua maniera poiché da esso dipende se la lettura della sua opera debba attenersi alla sola derivazione “dal naturale”, o non sia piuttosto da riconoscere come la realizzazione della profonda rivitalizzazione del concetto di classicità nell’attualità dell’esperienza sensitiva secondo l’esempio più vicino di vivificazione dell’antico, Raffaello.
A questo risultato di pieno rinascimento dell’idea dell’antichità non poteva bastare la sola conoscenza
erudita sia che derivasse dall’accesso alle ricche collezioni archeologiche ducali sia che attingesse agli umanisti del luogo; né poteva sopperire la conoscenza della documentazione grafica che recavano con sé gli
artisti provenienti dall’Urbe. Era una concezione distinta anche dalla classicità anticheggiante che si sviluppava nelle corti dell’Italia settentrionale sia in Emilia che nel Veneto.
Per Correggio la classicità e l’antico furono innanzi tutto un’apertura di respiro, un alterarsi dei rapporti di proporzioni e di spazio per i quali era necessaria l’esperienza diretta su testi pittorici ma anche architettonici. L’opera dell’artista, dagli inizi degli anni Venti, mostra proprio questo alterarsi di parametri dimensionali attraverso l’emozione, registra il cambio di visione e di proporzioni provocate dal contatto con la monumentalità romana, con l’enfatica dimensione spaziale delle architetture, sia costruite
che dipinte.
La questione della formazione della maniera di Correggio si è andata impostando sin dall’origine tra la
necessità dell’approfondita conoscenza di Roma e l’affermazione di un’esaustiva esperienza nella tradizione lombarda, e il dibattito su tale questione ha finito per coincidere con l’intera bibliografia sull’artista2. Nei quattro secoli seguiti alla prima formulazione vasariana, non è emersa alcuna oggettiva prova
documentaria; ciò nonostante oggi la critica è incline in maniera pressoché unanime a ritenere il viaggio a Roma almeno verosimile in quanto necessario per le ragioni rese evidenti dall’analisi del suo stile
che non può che essere il risultato di un’esperienza diretta della classicità romana intesa nell’accezione
di sintesi tra l’antico e il Rinascimento.
La difficoltà di comporre univocamente l’arte di Correggio oltre motivazioni stilistiche specifiche e di
giungere a una piena comprensione critica ha delle ragioni originarie da individuare, come è stato fatto
con estrema precisione3, nelle caratteristiche stesse di una maniera sfuggente alle definizioni, cui si arrivava piuttosto con approssimazioni semantiche attraverso termini evocativi – la dolcezza, la morbidezza, la grazia – che non con appropriate definizioni di poetica. L’uso degli aggettivi rivelava la difficoltà
13
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 14
se non l’impossibilità di individuare argomenti precisi capaci di inquadrare questa sua maniera in categorie normative, di inserire il “genere” in precise regolamentazioni accademiche.
Se l’indefinibilità del suo stile non si prestava alle schematizzazioni dei teorici dell’arte, non era adatta
neppure all’immediata imitazione da parte degli artisti a lui contemporanei, e i due fattori insieme ne limitarono la fortuna negli anni di massima divulgazione del manierismo raffaellesco e michelangiolesco
e ne resero perlomeno problematica la fama, che arrivò a essere invece altissima dalla metà del diciottesimo secolo, quando divenne il pittore forse più amato e più copiato in Europa.
Negli anni cruciali del Cinquecento, i primi due decenni, durante i quali Correggio avrebbe potuto esercitare la sua influenza al pari de “l’Italia maggiore delle Stanze e della Sistina”4, sulla scena romana non
era presente alcun suo dipinto, cosicché la sua assenza da quel contesto esemplare rese impossibile
un’eventuale imitazione e quindi divulgazione da parte dei protagonisti di quella scena, gli artisti. La ricezione attiva, attuata dai pittori, degli ineffabili attributi di gusto, quali la grazia e il “colorito”, la dolcezza o la morbidezza, vale a dire i termini paradigmatici della sua arte, avrebbe portato tali attributi a
formalizzarsi, a divenire stile e dunque linguaggio, e ne avrebbe permesso di conseguenza una più facile ricezione teorico-critica. Invece nel Rinascimento Correggio non ebbe effetti e questo è il vero significato che si deve attribuire al mancato viaggio a Roma, più di quello storico-biografico o filologico-documentario: mantenendosi lontana dal dibattito cruciale che si svolgeva a Roma, l’arte di Correggio non
divenne, come le sarebbe spettato, un assoluto, universalistico termine di confronto.
Anzi, la difficoltà di recepirne gli effetti nell’immediato fece di Correggio uno degli agenti di superamento del manierismo grazie al recupero che ne fu fatto alla fine del Cinquecento e nel Seicento. Ma fu
un recupero operato solo dai pittori che ne poterono fare esperienza diretta, da Barocci ai Carracci a Lanfranco, poiché nessun artista come Correggio ha la necessità che le sue opere vengano “viste”, vale a dire siano messe in grado, come si potrebbe dire con un termine oggi abusato, di interagire con lo spettatore, di esercitare su di lui la seduzione del puro trattamento della materia pittorica poiché è questa che
esalta il soggetto e lo rende percepibile in maniera profonda. La percezione dell’intelletto attraverso i
sensi fu l’elemento che rese l’opera di Correggio così funzionale alla poetica barocca. La migliore efficacia di tali effetti agì su un grande amante di Correggio, non un teorico dell’arte ma un uomo di lettere,
Stendhal, quando osservò che i suoi dipinti, anche se visti da lontano, “danno piacere indipendentemente dal soggetto che rappresentano, avvincono l’occhio per una sorta d’istinto”5, rivelando una profonda
comprensione percettiva e psicologica del contenuto interno alla sua arte, che consiste nella capacità comunicativa da cui conseguiranno i clamorosi sviluppi nel Barocco.
Dunque in questa sede e nell’ambito della serie di studi e mostre sull’identità della Galleria Borghese e
la sua strutturale identificazione con i concetti di moderno rinascimento dell’antichità classica, rappresentati dagli artisti che in questo ciclo abbiamo selezionato, proporre una ridefinizione dei contorni stilistici e contenutistici dell’intera opera di Correggio è un atto storiografico che si impone. Reimpostare
la questione del viaggio a Roma e considerare se le scelte formali da lui compiute siano state frutto della conoscenza diretta del contesto “romano” e della vicinanza anche fisica dell’antico sia nella sua frammentarietà archeologica che nel suo rinascimento in Michelangelo e in Raffaello, è un processo privilegiato dal particolare carattere del luogo. E ci si può attendere che gli effetti interpretativi rivestano un’evidenza pari a quanto constatato nelle iniziative precedenti su Raffaello e su Canova, tanto più che le strade
della ricerca di dati documentari di un possibile viaggio si sono rivelate infruttuose, senza che questa sfortunata circostanza abbia potuto rimuovere il problema e la sua cruciale rilevanza.
Dunque, di nuovo, ciò che si è conservato della collezione del Cardinale Scipione Borghese suggerisce
l’analisi del rapporto con l’Antico dell’artista che più fu recepito come l’interprete della natura dell’uomo a discapito della sua struttura storica.
In questa mostra, riferendoci a studi recenti ed approfonditi circa la fortuna critica di Correggio6, viene
attribuita particolare importanza a un’altra fonte, del tutto indipendente da Vasari e di poco posteriore
ma particolarmente rilevante in quanto collegata alla città natale dell’artista e alla cultura cortese che l’animava. Si tratta degli scritti di un eclettico e brillante letterato, Ortensio Lando, a lungo itinerante presso le corti settentrionali e accolto dalla poetessa Veronica Gambara signora di Correggio. Lando diede
14
alle stampe notizie su Antonio Allegri nei suoi Cataloghi, una sorta di lista di pittori antichi e moderni,
pubblicata a Venezia nel 15527. Le informazioni di cui si avvalse, tra cui quella che Correggio non andò mai a Roma, utilizzavano certamente una tradizione che si era formata nel tempo nella piccola città
padana che aveva dato i natali all’artista, in un ambiente cioè che si riteneva depositario della memoria
dell’Allegri, morto da poco più di dieci anni, ed era interamente dedito al culto della sua figura.
In una celebre lettera, sempre menzionata a proposito di Correggio, indirizzata da Veronica Gambara
a Isabella d’Este nel 15288, alla marchesana in quanto intendentissima di pittura viene entusiasticamente descritta un’opera appena eseguita dall’artista, chiamato familiarmente e con orgoglio “il nostro Messer Antonio Allegri”, raffigurante una Maddalena genuflessa a mani giunte, dipinto di cui non è giunta traccia. La missiva è interessante soprattutto come dimostrazione di quanto l’opera di promozione
dell’artista, almeno presso le grandi corti vicine, fosse stata messa in atto già durante la vita del pittore.
È pertanto molto verosimile la tesi secondo la quale la decisa negazione di un viaggio romano di Correggio tendesse ad avvalorare soprattutto il mito di una sua formazione completamente locale9. L’affermazione che “si era fatto da solo” sembra voler dar voce a una tradizione piena più di leggenda che di
storia, volta ad affermare allo stesso tempo la volontà di una corte piccola ma raffinata di accreditare il
luogo come culturalmente ricco e in grado di assicurare la degna formazione di un artista; ma nello stesso tempo impegnata a creare il mito del talento sovrumano di Correggio, capace di essere artista senza
maestri. Si scorge qui il primo tentativo di suscitare anche per Correggio l’attributo di divino, così come si era precocemente affermato nella città papale per i soli Raffaello e Michelangelo, ed è oltremodo
indicativo di una competizione già in atto proprio nei confronti della città che era l’unica legittimata a
conferire investiture divine ai propri artisti.
Si tratterebbe di un’operazione culturale del tutto verosimile nell’ottica dell’inquadramento storico dell’opera di Ortensio Lando. Non va però del tutto trascurata l’ipotesi che all’epoca in cui il letterato gravitava attorno alla corte correggese, dieci o quindici anni dopo la morte dell’artista, si potesse essere persa la memoria del suo viaggio a Roma. O, piuttosto, che in quella corte non ne fosse giunta notizia. Infatti se il soggiorno romano ci fu, questo è da collocarsi, a giudizio unanime della critica, al 1518 circa,
prima dell’esecuzione della Camera di San Paolo10. A quest’epoca il pittore si era già trasferito definitivamente a Parma e qui restò ininterrottamente, pressato dall’intensa mole di lavoro che dovette affrontare e che certo gli impediva ritorni frequenti a Correggio, dove comunque è segnalato da documenti in
prevalenza notarili e riferibili a incombenze pratiche quali rogiti o citazioni11.
Come suggerito da Ekserdjian, che ipotizza un’analogia con quanto avvenne nei confronti di Alessandro Araldi allorché questi dovette dipingere il soffitto di un’altra stanza del convento nel 1514, poté essere lo stesso committente, la colta badessa Giovanna da Piacenza, a caldeggiare per il pittore da lei prescelto un viaggio di istruzione e aggiornamento a Roma prima di affrontare l’impegnativa impresa12. E
poiché la critica è anche incline a ritenere che, se il viaggio ci fu, dovette essere piuttosto breve, è verosimile che non se ne fosse radicata la nozione nella città natale, da cui il pittore era assente ormai da lungo tempo. A ben guardare avvenne lo stesso per il viaggio a Mantova, di cui sussistono tracce documentarie per la commissione delle porte d’organo del monastero di San Benedetto Po13, ma che nessuna fonte, né Lando né Vasari, riporta. Qualora fosse più attendibile la prima evenienza, vale a dire una volontà
di celebrazione autoctona del luogo, si può affermare che Ortensio Lando compì una mistificazione analoga a quella messa in atto da Vasari già nella prima edizione delle Vite, seppure con motivazioni del tutto diverse, molto più personali e contingenti rispetto a quelle “ideologiche” dell’aretino.
Nella biografia vasariana14 dell’Allegri peraltro avara di notizie, l’affermazione è già un dato critico e non
biografico: “se l’ingegno di Antonio fosse uscito di Lombardia, e stato a Roma, avrebbe fatto miracoli,
e dato delle fatiche a molti, che nel suo tempo, furono tenuti grandi. Conciossiachè essendo tali le cose
sue, senza avere egli visto delle cose antiche, o delle buone moderne, necessariamente ne seguita, che se
le avesse vedute, avrebbe infinitamente migliorato l’opere sue, e crescendo di bene in meglio, sarebbe venerato al sommo dei grandi”15. Un’osservazione con un’ombra di rincrescimento, come dinanzi a un’occasione mancata, ma che nello stesso tempo ribadisce puntigliosamente il bipolarismo culturale di cui
s’è detto indicando i limiti che impediscono a un ambito pittorico seppur eccellente di assurgere alle vet-
15
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 16
te dell’arte senza confrontarsi con la classicità di Roma, intesa nelle due accezioni che essa comporta, i
modelli antichi e quelli moderni, Raffaello e Michelangelo. Senza tali assimilazioni un grande pittore
non può divenire un sommo artista. Porsi al di fuori delle esperienze tosco-romane condanna Correggio, agli occhi di Vasari, a una posizione di secondo piano. Ma poiché la moderna storiografia ha ormai
concordato nel ritenere verosimile tale esperienza, questa condanna si dimostra essere soltanto il tenace
preconcetto volto a limitare l’artista settentrionale.
Vasari stesso però, al momento di tracciare l’elogio entusiastico per gli effetti pittorici del “lume di notte” raggiunti nell’Adorazione dei Pastori (La Notte) e nell’Orazione nell’orto (ora rispettivamente alla Gemäldegalerie di Dresda e a Apsley House) è come se smentisse se stesso e l’affermazione di un mancato incontro con le novità pittoriche romane di fronte all’altezza raggiunta dai dipinti correggeschi. Finisce infatti per assimilare, involontariamente, questi ultimi alla Liberazione di san Pietro dal carcere contenuta
nella biografia di Raffaello se non altro attraverso i toni di una analoga, appassionata descrizione, come
a voler tracciare egli stesso un paragone ideale tra l’opera dei due maestri.
Non si vuole con questo sostenere che l’evidenza dei fatti stilistici mettesse in interna contraddizione lo
storico Vasari con il Vasari sensibile conoscitore della pittura e pittore egli stesso, sino a fargli sentire
l’impossibilità per l’opera di Correggio di portarsi ai sommi livelli senza la conoscenza di Raffaello e Michelangelo. Ma certo l’insostenibilità di tale posizione critica di fronte all’evidenza dei risultati pittorici
doveva cominciare a manifestarsi; così come si è resa palese alla critica moderna che infatti ormai concorda unanimemente, pur con le perplessità derivate dalle lacune documentarie e nella specificità delle
diverse opzioni, nell’ammettere il viaggio.
È dunque opportuno riassumere brevemente tali evidenze, lasciando ad altri, su questo stesso catalogo,
l’analogo compito riguardo all’antico.
I primi echi dell’avvenuto contatto con le novità romane nell’opera di Correggio provennero dalla Pala
di santa Cecilia, arrivata a Bologna da Roma attorno al 1515-16, pochi anni dopo la collocazione a San
Sisto di Piacenza (1513) della Madonna Sistina. Le evidenti connessioni con la pala dei Quattro santi
eseguita per la chiesa di San Francesco a Correggio intorno al 1516-17 (si veda scheda 4) sono soprattutto di carattere compositivo ma non vengono unanimemente riconosciute come di diretta discendenza raffaellesca16.
È invece considerato un riscontro certo dell’avvenuta esperienza romana la decorazione della Camera di
San Paolo eseguita probabilmente nell’estate del 151917. Dalle soluzioni che Raffaello aveva messo in atto nella cappella Chigi, Correggio riesce a trarre soprattutto gli insegnamenti atti a conferire una struttura fortemente organica all’insieme decorativo, mentre dalle Logge della Farnesina è desunto l’uso della pergola ricoperta di fogliame. Nonostante ciò nella partitura conferita all’impianto decorativo della
Camera con il pergolato di verzura, accanto alle novità apportate dalla conoscenza diretta di Raffaello
permane un gusto ancora fortemente quattrocentesco dovuto allo svolgimento in simmetria perfetta, quasi geometrica e antinaturalistica se raffrontata alla vivezza e carnalità dei putti. Da un punto di vista stilistico la griglia di verzura appare come la parte più distante dalla fusione naturalistica raffaellesca che
Correggio stava sperimentando nelle figure. Nella trattazione dei putti e delle figure a monocromo, nella loro soffice espansione anatomica, nel trattamento degli incarnati che risentono così intensamente della fusione coloristica e volumetrica dei putti di Raffaello in Sant’Agostino, Correggio dimostra di avere
ben compreso l’insegnamento dell’urbinate, al punto che è proprio su queste raffigurazioni che si marca la differenza con le stesure più smaltate di tutte le opere precedenti nelle quali lo “sfumato” era unicamente di origine leonardesca18. Questa disparità nel trattamento degli elementi che costituiscono la
struttura della volta rispetto alle parti figurate è da riferire ai ricordi delle analoghe soluzioni di Mantegna i cui influssi, concordando con Ekserdjian19, sono forse da rivalutare.
È stata liquidata un po’ troppo velocemente, anche a seguito degli studi di Longhi20, l’attrazione che poteva esercitare su un giovane “lombardo”, giunto a Roma per apprendere, l’opera che vi aveva lasciato
Mantegna, il grande maestro nel cui cantiere mantovano egli aveva probabilmente esordito21. Dovette
essere per lui irresistibile e pressante recarsi a vedere a Roma, nel cuore del Vaticano, un capolavoro del
vecchio maestro tener testa alle invenzioni nuove delle Stanze e della Cappella Sistina.
16
1. Correggio, Madonna di San Giorgio, particolare.
Dresda, Gemäldegalerie.
La descrizione della decorazione della cappella di Innocenzo VIII che Mantegna eseguì nel 1490 e che
fu distrutta tra il 1775 e il 1799 contiene sorprendenti analogie iconografiche con quanto realizzato nella volta della Camera parmense: la “superior cupoletta, ornata […] si vede con molti tondi collegati a
guisa di ingraticolato, interrotto da 19 putti che sostengono festoni con cornice finta di stucchi”22. Vi si
menziona anche una cornice dipinta “ove vedesi” nell’ambito della scena della cena di Erode una “credenza con sottocoppa d’oro”, oggetti che ricordano molto puntualmente quelli sostenuti dalle “tovaglie”
stese tra le teste degli arieti nella Camera di Giovanna da Piacenza. Sappiamo purtroppo troppo poco
della perduta decorazione mantegnesca per poter azzardare un tentativo di comparazione con quella eseguita da Correggio. Va rilevato però che quello del convento parmense non sarebbe l’unico caso di citazione di soluzioni compositive mantegnesche nella produzione correggesca; né in tutti i casi sarebbe da
porre nel senso di un percorso “evoluzionistico” dello stile. Lo dimostra la Pala di San Giorgio, un’opera della piena maturità databile al 1531-32 circa, in cui il coronamento della cupola a festoni di agrumi
sembra l’applicazione letterale della descrizione della perduta opera di Mantegna, con “putti che sostengono festoni con cornice finta di stucchi” (fig. 1). In tutt’altro contesto e soprattutto ricorrendo a un ricordo formale completamente diverso, Correggio, nel Giove trasformato in nuvola che avvolge Io (fig.
3), ricorre ancora al maestro nel compiere la trasfigurazione, stupendamente lirica e onirica, dei visi di
nuvola nella Minerva che caccia i vizi23 Parigi, Musée du Louvre) (fig. 2), dipinto eseguito per Isabella
d’Este e che dunque doveva essergli ben familiare.
Questi persistenti ricordi dell’ambiente mantegnesco non sono che parentesi in un percorso stilistico fortemente segnato dalle conquiste raffaellesche da cui Correggio trae essenzialmente il modo di arrotondare i contorni espandendo dall’interno il volume plastico delle figure e dotandole di una dinamica che
le lega le une alle altre secondo un ritmo scandito da moti sia fisici che psicologici.
Si deve ritenere che Correggio abbia indagato a fondo, soprattutto studiandone gli affreschi, il procedimento tecnico che permetteva a Raffaello di ottenere questo effetto che consiste nell’andamento curvilineo del segno di contorno che, come mostrano bene i disegni dell’urbinate, tende a chiudersi armonicamente su se stesso. Nelle figure della Camera di San Paolo compaiono i risultati di questa attenta osservazione che porta all’arrotondamento dei volumi e alla conseguente espansione delle forme, che
ricevono la luce e la diffondono all’interno: da qui l’effetto di “chiarore” che raggiungono i corpi nelle
opere della maturità e di cui è un primo, significativo esempio il Riposo durante la fuga in Egitto degli
Uffizi (si veda scheda 9).
I fondamentali studi di approfondimento dei rapporti stilistico-formali con Raffaello compiuti da Shearman hanno dimostrato, tra l’altro, la necessità della conoscenza della Trasfigurazione o dell’Urbano I af-
17
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 18
4. Lorenzo Lotti detto il Lorenzetto, Giona.
Roma, Santa Maria del Popolo.
5. Correggio, Madonna di San Sebastiano, particolare.
Dresda, Gemäldegalerie.
2. Andrea Mantegna, Minerva che caccia i vizi,
particolare. Parigi, Musée du Louvre.
3. Correggio, Giove e Io. Vienna,
Kunsthistorisches Museum.
18
frescato nella Sala di Costantino al momento in cui l’artista emiliano si trovò a dover eseguire la cupola
di San Giovanni Evangelista. A questi ormai riconosciuti modelli formali che derivavano a Correggio
dall’ambiente raffaellesco si deve aggiungere il Giona eseguito da Lorenzetto su disegno di Raffaello prima del 1520 (fig. 4) da cui sembra discendere il San Sebastiano della Pala ora a Dresda del 1524 circa
(fig. 5), scultura che Correggio doveva conoscere a fondo poiché era collocata in quella Cappella Chigi
che fu oggetto dei suoi studi più attenti.
Anche per l’unico ritratto femminile da lui eseguito, il Ritratto di dama dell’Ermitage (si veda scheda
10), il modello piuttosto esplicito fu la Velata che Raffaello eseguì a Roma attorno al 151624. Il taglio
della composizione, con la figura di tre quarti, la scelta delle dimensioni piuttosto grandi, inusuali per
un ritratto, l’abito sontuoso con la vaporosa espansione delle maniche rendono partecipe questo dipinto delle innovazioni portate da Raffaello nella concezione della ritrattistica muliebre romana con la Fornarina e la Velata, che inglobarono e superarono, con magistrale sintesi pittorica, le novità veneziane introdotte a Roma da Sebastiano del Piombo. La risposta “lombarda” che ne dà Correggio si manifesta
nell’arguzia dello sguardo quasi di sottecchi che lega lo spettatore alla contingenza fisica e psicologica
della ritrattata, instaurando un rapporto affettivo25 tra opera d’arte e osservatore, opposta alla distanza
incommensurabile che l’assoluto del ritratto raffaellesco evocava.
Ma è nella vasta impresa della cupola di San Giovanni Evangelista che, al di là delle forme, si riverbera
un diffuso senso di dominante “romanità”, che è quello della monumentalità conferita all’insieme compositivo dalla forza e grandiosità delle figure. Gli apostoli qui raffigurati rappresentano per Correggio il
momento di massimo avvicinamento all’opera di Raffaello26.
Proprio la cupola di San Giovanni suggerisce di considerare un ultimo importante testo raffaellesco che
non è stato sufficientemente analizzato rispetto alle conseguenze che ne trarrà Correggio nella cupola
parmense. In essa la parte cruciale della rappresentazione è da considerarsi il particolare con il san Giovanni al quale si manifesta la visione dell’Apocalisse che costituisce il tema svolto dall’affresco27 (fig. 6).
Lo spettatore vede l’effetto come si scatena agli occhi dell’evangelista, ma non la causa, Giovanni, poiché egli è collocato sulla parete occidentale della cupola, quella cioè collegata alla navata centrale. Il santo è accucciato e quasi coperto dal bordo inferiore della cupola e guarda verso l’alto, allo squarcio del cielo dove, tra accensioni violente e ombre minacciose, si materializza la visione apocalittica. È stata sempre rilevata la stranezza compositiva che relega san Giovanni in una posizione visibile solo dal coro della
chiesa e dall’altare, ipotizzando per tale scelta probabili ragioni di tipo liturgico o simbolico, la divinità
che rivela la sua causa determinante solo agli iniziati, gli officianti, collocati dietro l’altare ma che i fedeli, dalla navata, non possono vedere.
La complessità concettuale, ancora più che la sintassi compositiva, stilistica o formale, di questo essenziale spicchio di cupola è tratta per intero dalla Visione di Ezechiele di Raffaello (fig. 7) eseguita intorno
al 1518 circa. Anche in questo caso Ezechiele, eponimo del tema rappresentato, è in realtà solo lo strumento per scatenare la visione apocalittica. Anch’egli come san Giovanni è collocato sulla Terra e non
in Cielo, relegato in una profondità quasi invisibile, sull’orlo dell’orizzonte che nell’affresco parmense è
rappresentato dal bordo della cupola; a entrambi i protagonisti deflagra sul capo, in piena assonanza sia
compositiva che formale, lo schianto di luci, colori e drammatici contrasti chiaroscurali che costituiscono la visione apocalittica.
Correggio replicò dunque un concetto molto sofisticato e mai ripetuto da alcuno nella stessa invenzione compositiva. Era pertanto necessario che questo concetto egli lo avesse potuto conoscere assai bene per assimilarlo. Considerato poi che il dipinto è una tavoletta di piccolissime dimensioni (cm 40 x
30) e che nonostante ciò ebbe la forza di vincere, nell’immaginazione di Correggio, la vastità degli affreschi e la quantità innumerevole di spunti che questi potevano fornirgli, è necessario stabilire che egli
ebbe modo di conoscere quest’opera in modo diretto e di poterla assimilare. Cosa non troppo difficile
per il pittore parmense in quanto la Visione di Ezechiele era stata commissionata a Raffaello dagli Ercolani e si trovava a Bologna28. Lì Correggio dovette vederla sovente e in modo del tutto privilegiato
19
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 20
6. Correggio, Visione di san Giovanni Evangelista.
Parma, San Giovanni Evangelista.
A fronte
7. Raffaello, Visione di Ezechiele. Firenze,
Galleria Palatina.
quando si trattò di eseguire, per gli stessi Ercolani, il Noli me tangere ora al Prado29 (si veda scheda 16),
terminato poco prima di iniziare la cupola di San Giovanni (1520)30. Fu forse in occasione dei viaggi a
Bologna provocati da quella stessa committenza che Correggio poté vedere la Santa Cecilia che si trovava a San Giovanni in Monte, come prova la veste della Maddalena che, come notato per la prima
volta da Ekserdjian31, ripete, nel sontuoso abito dorato, il decoro a cardi intrecciati della tunica della
santa. È una citazione sottile da parte dell’artista e prevede anch’essa un’osservazione più che attenta
del dipinto raffaellesco.
L’insieme degli echi profondi e numerosi che, delle grandi novità raffaellesche e michelangiolesche, si
avverte nell’opera di Correggio ha portato la moderna storiografia a porre al centro del problema critico sull’artista quello di un soggiorno romano intenso e proficuo. Ma, come si diceva all’inizio, il problema del viaggio a Roma di Correggio è posto e trattato, in questo nostro contesto, piuttosto come un dato critico che documentario. Avviene allora che la risposta più semplice e chiara alla questione risulti non
quella di un teorico dell’arte o di uno storico, ma di un artista, Antonio Raffaello Mengs, nella biografia che dedicò a Correggio nel 178332.
20
21
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 22
Egli doveva avere motivazioni intellettuali molto forti per accingersi alla stesura della biografia di un artista, compito non specifico per un pittore, anche se con forti inclinazioni teoriche quale è Mengs. L’impresa può considerarsi conclusiva di un vero e proprio percorso attraverso il concetto, per lui fondamentale, di classicismo, per approdare al riconoscimento e alla completa rivalutazione di un artista come Correggio che aveva realizzato in pieno la sua aspirazione, riuscendo a conferire tenerezza e vita alle forme
classiche per evitare ad esse la freddezza teorica del classicismo. Come egli scrisse non nella biografia ma
in una lettera privata, “dipinse degli angioletti che si accostano al bello dei Greci più di qualsiasi opera
dei moderni”33. Nello scrivere la vita di Correggio Mengs, artista, lo vuole ridisegnare, conferirgli i contorni più esatti e la comprensione critica più profonda raggiunta fino a quel momento dalle esegesi sul
pittore.
Egli affronta con decisione, e risolve, la questione che ritiene cruciale del viaggio a Roma; scrive poche
righe chiare e definitive alle quali due secoli di ulteriore dibattito non hanno aggiunto granché: “io inclino a credere che Correggio andasse a Roma; che vi vedesse, e studiasse le Opere di Raffaello, e molto più quelle di Buonarroti; ma che essendo un carattere dolce, e modesto, unicamente occupato allo
studio dell’Arte, sfuggisse i divertimenti delle compagnie, e la conoscenza degli altri Pittori, e perciò non
si assoggettasse allo stile di veruno né si facesse imitatore, ma prendesse il bello dovunque lo scoprisse”34.
Mengs replica indirettamente a Vasari ribaltandone completamente le posizioni e lo fa con il garbo e la
totale assenza di contrapposizione che gli derivavano dalla consapevolezza di non dover competere sul
piano della storiografia, rispondendo ai quesiti essenziali che aveva posto, e ancora porrà, la critica. Egli
può affermare che Correggio andò a Roma poiché la prova della conoscenza di ciò che Roma significava è interna alle sue stesse opere. Che il viaggio non venisse registrato dalle fonti né sostenuto da documenti non costituisce la prova che non avvenne, come si è provato a dire all’inizio. Infine la considerazione nuova e davvero essenziale che Mengs coglie perfettamente è che il problema dell’andata a Roma,
per gli effetti che ebbe sulla storia, la vita e la fortuna di Correggio non aveva a che fare con il problema
di un viaggio di studio bensì con quello, ben più denso di conseguenze, di non avervi lasciato opere importanti che facessero riconoscere ai contemporanei e ai posteri la sua effettiva presenza su quella scena
e di conseguenza ne divulgassero, assieme alla fama, anche il linguaggio. La questione biografico-filologica diviene dunque squisitamente privata poiché attiene alla volontà dell’artista, alla sua introversia e
ritrosia, il non aver ricercato le possibilità di committenze che Roma poteva offrirgli. Mentre solo la mancanza di queste ultime acquista importanza storica.
E’ di estrema rilevanza infine la notazione insistita riguardo allo studio intenso di Michelangelo, predominante anche rispetto a Raffaello.
Per la prima volta nella storia critica su Correggio vengono comprese le potenzialità di costruzione strutturale insite nella sua pittura, il “carattere grandioso” del suo disegno che lo porta alla monumentalità;
la valenza di composizioni complesse e articolate che sino a quel momento, e per molto tempo ancora,
venivano considerate quasi esclusivamente per la grazia, la dolcezza, il “colorito”. Le strutture spaziali
concepite da Correggio infatti erano state considerate rilevanti solo riguardo alla complessità degli scorci e dunque riferite alla tradizione della tecnica di rappresentazione prospettica derivatagli in primo luogo dall’alunnato presso Mantegna; un artificio che peraltro poteva facilmente prestarsi alla critica anti
lombarda di una parte della storiografia, che non trovava una gran dote “storpiar figure con lo scorcio o
sforacchiare una volta”35. Ora, benché quest’ultima notazione dell’Algarotti sembri voler soprattutto equilibrare i conti con il “divino ingegno” di Raffaello, avendo egli proclamato, dinanzi alla Madonna di San
Gerolamo, “tu solo mi piaci”36, è indubbio che l’ammirazione per il Correggio inventore degli sfondati e
degli scorci delle cupole era andato molto scemando e all’epoca di Mengs era forse ridotta al minimo.
L’importante riflessione di Mengs riguardo al rapporto di Correggio con Michelangelo è invece connessa al concetto di monumentalità strutturale di spazio e figure e fu certo un’affermazione meditata,
poiché fu preceduta dal precedente riferimento dello stesso biografo agli affreschi di Melozzo ai Santi
Apostoli, considerati quali possibile modello compositivo per i lavori parmensi del pittore e ulteriore prova del viaggio romano37. Mengs dunque riconosce l’importanza degli insegnamenti romani nella nuova
coscienza acquisita da Correggio del senso organico della concezione di vaste superfici dipinte.
22
Egli dovette essere più di altri stimolato verso questa nuova lettura, che potremmo definire ‘strutturale’,
dell’opera di Correggio, grazie alla frequentazione che aveva avuto, lui tedesco di Dresda, con le grandi
pale che si trovavano nella collezione di Augusto III di Sassonia dal 174638 e che costituiscono, dopo le
cupole parmensi, le più imponenti articolazioni di una complessa struttura compositiva concepite dall’artista emiliano.
Mengs rese chiara l’importanza, per Correggio, del concetto di monumentalità che si era formato a Roma grazie alle costruzioni spaziali ottenute dalla sola forza plastica dei corpi che raggiungono dimensioni eroiche, messi in rapporto con uno spazio solido, capace di sostenere il peso delle masse. Questo raggiungimento fu necessario a Correggio per concepire non solo le grandi cupole delle chiese parmensi di
San Giovanni e del duomo, ma anche la volta della Camera di San Paolo, da Mengs stesso riscoperta in
un viaggio a Parma. Al cui proposito egli annota che “le pitture a chiaroscuro sono tutte copiate, e imitate dall'antico, ed eseguite nello stesso modo che quelle di Raffaello e de’ suoi migliori scolari”39. È chiaro da questo passo che il concetto di chiaroscuro è analoga a quella di colorito e sta a significare la capacità di costruzione plastica che raggiunge la sua pittura dopo l’esperienza romana.
Questa capacità costruttiva finalmente riconosciuta è quella che più contraddiceva la teorizzazione degli storici che avevano inquadrato Correggio nella categoria dei pittori di “colorito” ma senza disegno.
Ma il concetto di disegno, così come è nella formulazione originaria di Vasari, significa propriamente
struttura, capacità di costruire dall’interno una composizione, sostenerla idealmente con la forza del concetto e non rivestirla con la seduzione della materia pittorica (il colorito). Quello che si svelava nel Correggio delle cupole era proprio l’idea di disegno, nel senso non di contorno grafico ma di struttura compositiva in grado di sostenere una concezione monumentale delle figure e dello spazio.
Nella biografia scritta da Mengs per la prima volta si configurano due termini opposti e apparentemente inconciliabili nella valutazione dell’opera di Correggio: il primo, in cui consiste la nuova, originale conquista critica che è portata nell’opera correggesca dal pittore e letterato, riguarda i caratteri della classicità romana, che equivalgono all’eloquio solenne e grandioso costruito con forza monumentale; il secondo ribadisce i caratteri già accertati della dolcezza, della tenerezza, della grazia.
Non aver riconosciuto il carattere della monumentalità aveva portato la precedente storia critica, ma anche parte di quella seguente, a fraintendere la complessità delle sue costruzioni formali e ad avanzare la
tesi, divenuta un topos nell’esegesi correggesca, della mancanza di disegno, penalizzante e riduttiva nei
confronti dell’artista. Dunque è di nuovo Mengs, con la forza del suo ragionamento critico, a contrastare la tesi sedimentata di un pittore “poco esatto” nel disegno. Mengs rende i due termini, la forza costruttiva strutturale e “una certa eleganza che odiernamente porta il nome di Gusto” secondo la sua stessa definizione, non solo perfettamente congrui ma capaci per la prima volta di spiegare dall’interno del
procedimento pittorico la valenza costruttiva delle composizioni di Correggio, giungendo a un punto di
sintesi cui nessuno s’era mai spinto e la cui importanza non è stata accolta in pieno neppure in seguito.
Questo importante punto di convergenza tra i due estremi della monumentalità e della “grazia” può permettere di fare un passo ulteriore per spiegare come da qui si generi il coinvolgimento emotivo che l’opera di Correggio produce.
E’ ancora Mengs che ci può guidare, ma stavolta attraverso considerazioni che non attengono già più alla teoria artistica. Nel sintetizzare infatti le tre somme personalità con le quali Correggio è posto tradizionalmente a confronto – Michelangelo, Raffaello e Tiziano –, attraverso l’eccellenza di ciascuna che
consiste, rispettivamente, nelle “terribili forme”, nella “perfetta espressione”, nei “tuoni dei colori”, Mengs
afferma che manca tuttavia qualche cosa, “cioè un complesso di diverse eccellenze che è l’estremo dell’umana perfezione”40. Questo complesso lo percepisce invece in Correggio ma non arriva a spiegarlo attraverso i riferimenti esatti e positivi usati per Michelangelo o per Raffaello, ma solo attraverso un indefinibile non so che, quella capacità dell’arte correggesca di comunicare la grandiosità e la possanza all’animo del riguardante attraverso la dimensione contraria, sottile e impercettibile che appartiene ai moti
dell’animo secondo la poetica che si definirà del sublime. Mengs percepisce in Correggio la nuova dimensione poetica grazie alla quale arriva a formulare concetti già spiritualistici e romantici. L’attenzione si sposta così dalla sfera intellettuale a quella sensoriale e le conquiste assolute del Rinascimento ven-
23
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 24
gono poste al servizio del piacere dei sensi e al diletto, al gusto, attraverso un lucido procedimento “tecnico” che sovrappone alla complessità costruttiva e strutturale la complessità dei moti dell’animo.
L’enfasi grandiosa continua naturalmente a esistere come termine precisamente definibile ma non viene quasi più riconosciuta perché celata dall’indicibile della sensazione sublime: “si occulta tutto l’artifizio della grandiosità”41, dice Mengs stesso a proposito non di Correggio ma di Raffaello, con una frase
capace di svelare l’intero meccanismo. Ne è prova lo sconcerto che colpisce gli amatori come Cochin o
Gibbon42 giunti a Parma per vedere le cupole dopo avere conosciuto e amato solo le opere da cavalletto.
Un tale meccanismo non poteva non interessare in un momento in cui, agli inizi del Seicento, diviene
di primaria importanza l’attenzione ai minimi e vari moti dell’animo, mentre l’espressione degli affetti,
sinora sfuggita per sua propria natura alla classificazione, diviene una teorizzazione e si dota di un supporto normativo. La finalità del Barocco, di comunicare con il riguardante, anzi di convincerlo attraverso il travolgimento dei sensi e delle capacità percettive, porta in primo piano l’importanza della reazione degli spettatori al cospetto di apparati compositivi che riuscivano a unire, come avveniva in Correggio, la grandiosità all’espressività psicologica più sottile. L’arte barocca riuscì a far divenire un metodo e
tradurre in linguaggio proprio ciò che, nell’arte di Correggio, era indeterminato, inclassificabile e che il
romanticismo tornò ad amare proprio perché tale.
Lo specifico procedimento correggesco, atto a “trasmettere la felicità”43, consisteva nel riuscire a mettere in moto l’immaginazione con strumenti interni alla pittura e ad essa propri, come il chiaroscuro unito a un profilare morbido e arrotondato, le dimensioni enfatiche delle composizioni unite a mobilità espressiva e tenerezza psicologica nelle figure, un colorito fuso che rendeva naturalistici i corpi al pari dei gesti e delle pose. L’immaginazione traeva forza proprio dall’indeterminatezza, se non dal contrasto, tra
gli elementi che erano indicibili, con i mezzi della piena proprietà terminologica, da parte di un linguaggio critico positivista; al contrario di quelli, come la costruzione e il disegno, pienamente catalogabili.
Sono solo i primi, soggettivi e individuali, che fanno capo ai sensi, agiscono sulla nostra sensibilità, provocano l’inganno che mette in moto l’immaginazione.
Fu l’ingresso nel dominio dell’immaginazione, nella sua sconfinata libertà, regolato dai sensi e dunque
dal desiderio invece che dalla volontà e da una suprema tensione spirituale, che segnò la differenza con
i contemporanei e che fornì invece utilissime indicazioni a partire dalla fine del Cinquecento.
Le qualità principali riconosciute all’arte di Correggio, la dolcezza la grazia, la tenerezza, la gaiezza espressiva, una vera allegria nemmeno smorzata dal dogma, divengono meravigliosamente convincenti per la
naturalezza dell’effetto che producono all’interno della nostra immaginazione. Su questo stesso meccanismo si basano gli effetti di sensualità, anzi di vero erotismo – ma anche quelli di estasi e tormento religioso –, che provocano le sue invenzioni, le quali agiscono solo attraverso la rappresentazione dei moti dell’animo riferibili a manifestazioni completamente fisiche. Come è stato giustamente osservato, l’unico attributo che rende riconoscibili e individuali le figure dei santi e degli apostoli che si affollano sulle
cupole parmensi è la varietà delle loro espressioni44.
Nel campo espressivo dominato dai moti dell’animo si annulla anche la contrapposizione tra i due”generi”, sacro e profano: la centralità compositiva del quadro è sempre data dall’intensità espressiva, sia che
si tratti della santa Flavia nel Martirio di quattro Santi della Cappella del Bono, sia che si tratti della Io
nella serie degli Amori di Giove.
Per la prima volta nell’ambito dell’arte rinascimentale, che aspira a un classicismo universalizzante che
avanzi il particolare, avviene che il contenuto più profondo di un’invenzione pittorica sia affidato alla
mutevolezza dei sentimenti individuali. Si può pertanto affermare che nelle opere di Correggio il vero
contenuto sia l’espressione del sentimento. Lo dimostra, ad esempio, un raffronto abitualmente portato all’attenzione nell’analisi critica della sua opera, costituito dalla comparazione tra l’angelo aggrappato alla nuvola nella cupola del duomo e il Ganimede trasportato dall’aquila, riconosciuti come un identico modello sicuramente derivato da uno stesso disegno ma impiegato per narrazioni del tutto diverse,
come indicano gli attributi, costituiti rispettivamente dalla nube e dall’aquila. In veste di angelo la figura è impegnata solamente a vagabondare in cielo e la sua espressione comunica questa gaiezza, questa
“contentezza religiosa”45 così propria a Correggio. In tutt’altra storia è invece coinvolta la medesima fi-
24
8. Michelangelo, Ratto di Ganimede. Cambridge
(Mass.), Fogg Art Museum, inv. 1955.75.1.
gura nell’impersonare Ganimede, e lo spettatore con lui: l’alto grado di erotismo che vi si percepisce non
è dovuto alla presentazione del fatto, reso con correttezza iconografica da Giove-aquila che rapisce il
fanciullo, ma unicamente dall’espressione di ammiccante consapevolezza del Ganimede che, niente affatto spaventato, fissa negli occhi lo spettatore e, con sguardo ambiguo e intenzionale, lo rende pienamente partecipe della propria avventura.
L’esistenza di due brani pittorici identici in ambiti talmente diversi, sacro e profano, svela come il significato di ciascuno di essi sia solo quello percepito dalla nostra immaginazione allorché viene messa in
moto dall’espressione dei volti. Questo determina l’unicità della ricerca espressiva correggesca quale valore determinante e l’originalità di tale ricerca riguardo al problema cruciale della trasmissione dei contenuti, rispetto a quelle dei grandi contemporanei, che è la cosa che qui interessa maggiormente.
Mantenendo gli esempi nell’ambito della produzione pittorica di soggetto amoroso o licenzioso o co-
25
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 26
munque che presenti strette attinenze tematiche con i soggetti trattati da Correggio, vi possono essere
esempi significativi. Se consideriamo il famoso disegno con il Ratto di Ganimede di Michelangelo conservato al Fogg Art Museum46 (fig. 8), osserviamo come nell’opera di Michelangelo nulla sia più rintracciabile del contenuto erotico originario proprio delle Metamorfosi e degli Amori di Giove nelle due forze
strenue che si combattono e in cui l’Uomo, esausto, soccombe.
Non era certo sfuggito all’analisi critica che quello che distingue in massimo grado i putti della Camera
di San Paolo dai suoi modelli romani, in cui comunque è avvenuta l’assimilazione sia del vigore plastico del modellato michelangiolesco sia della fusione coloristica e dell’arrotondamento della linea di contorno che fa “girare” le forme nello spazio, propria di Raffaello, fossero le espressioni fantasticamente
ammiccanti e sorridenti rispetto ai volti di quei modelli, stupendamente immoti. Nella spettacolare raffigurazione parmense persino le teste di ariete sono espressive, e in modo individuale e differenziato.
Ancora più interessante confrontare la sensualità raggiunta dai dipinti di Correggio con la contemporanea produzione esplicitamente erotica di artisti come Giulio Romano o Marcantonio Raimondi. I raffronti in genere avanzati sono stati di tipo iconografico ed assimilati all’ambito culturale dominato da
Federico Gonzaga, che probabilmente incoraggiava queste ricerche formali e richiedeva ai suoi pittori
“concetti allegri”47, richiesta che la solarità della visione correggesca nella pittura, sia sacra che profana,
era bene in grado di soddisfare. Nella trattazione del tema degli Amori pochi artisti sono stati espliciti
come quelli gravitanti attorno alla corte del Gonzaga, Giulio Romano o Gian Giacomo Caraglio nella
serie delle incisioni con gli Amori degli dei su disegni di Rosso e Perin del Vaga, dal duca stesso commissionati. In essa per esempio una figura di Satiro nella storia di Giove e Antiope appare così vicina al dipinto di Correggio ora al Louvre (si veda scheda 20) da essere stato ritenuto un suo possibile modello48.
Vicinissimi per tema e contiguità culturale nella trattazione esplicita di soggetti erotici sono naturalmente gli esempi di Giulio Romano, la celebre Coppia di amanti dell’Ermitage o il Giove e Olimpia di Palazzo Te, solo per fare alcuni esempi; così come la serie delle incisioni di Marcantonio Raimondi. Sono tutte opere in cui si attua un’attenta ricerca formale e si realizzano complicate soluzioni compositive rispetto alle invenzioni, tutto sommato “semplici”, di Correggio.
Il possibile contatto di Correggio con questa produzione, che costituiva per lui un repertorio facilmente accessibile, rende ancora più marcata la sua diversità. In Correggio infatti nulla è illustrato dettagliatamente, tutto è suggerito esclusivamente dalla tensione erotica che l’espressione dei suoi personaggi riesce a provocare. Consideriamo ad esempio la Danae, dove la figura è nuda, ma moderatamente, non certo quanto le puntigliose descrizioni anatomiche proprie ai modelli della pittura licenziosa centro-italiana;
il genio alato, così come gli amorini, non fa nulla di sconveniente. Eppure il dipinto raggiunge, rispetto a quei modelli, una ben più intensa sensualità e un’audacia provocata unicamente dall’espressione di
gaia attesa della fanciulla, curiosa di osservare cosa accade nel momento in cui viene “svelata”, poiché è
indubbio che il lenzuolo sfilato dal grembo rappresenti l’imene di cui il genio alato è eponimo. Quello
che ella si attende è allettante, tutta la scena vibra di questa attesa, raggiungendo una tensione molto più
alta di quella provocata dalle dettagliate descrizioni nelle incisioni contemporanee, dove tutto è illustrato ma i volti sono costantemente (e per norma classicista) senza espressione. Se alla Danae venisse velato il volto la scena si spegnerebbe. Fu dunque ben mirato l’intervento di Luigi d’Orléans, figlio del reggente di Francia allora proprietario del dipinto gemello della Danae, la Leda, il quale, avventandosi sul
dipinto per distruggerne l’erotismo insostenibilmente esplicito, infierì sul volto della fanciulla e non sui
corpi nudi49. L’effetto conturbante della testa riversa e dell’espressione estatica non venne ripreso dai restauratori, e così si spensero il contenuto inventivo del quadro e il suo acme espressivo, che la copia del
museo del Prado può solo approssimativamente restituire.
Neppure nel confronto con Tiziano, il concorrente più diretto nell’interpretazione delle mitologie profane, la specificità di Correggio viene meno, come dimostra il confronto tra due brani pittorici certamente in rapporto almeno come discendenza iconografica quali la baccante dormiente nel Baccanale degli Andrii ora al Prado e la Venere distesa nel dipinto di Correggio al Louvre (si veda scheda 20). La differenza tra le analoghe figure è nell’interpretazione che si ricava dall’espressione che diversifica i volti,
oppure dalla sua mancanza: l’uno, purissimo e immoto, esprime una classicità incontaminata; l’altro tra-
26
9. Correggio, Madonna di San Girolamo, particolare.
Parma, Galleria Nazionale.
suda dalla bocca dischiusa e dalla carnosità delle labbra e del naso una tangibile, sensuale fisicità. La differenza tra le due interpretazioni da squisitamente psicologica diviene vera dichiarazione di poetica. In
Tiziano la piena riconoscibilità della morfologia classica domina sulla naturalezza carnale; in Correggio
l’evidenza naturalistica delle forme rivela una natura così profondamente umana da velare qualsiasi origine scultorea classica.
L’innocenza dell’erotismo correggesco, la sua solarità e gaiezza, deriva da questa naturalezza che rende
fanciullesco e incontaminato ogni atto e che viene espressa pittoricamente con la morbidezza e la tenerezza nel trattamento dei corpi quasi adolescenti. È la qualità di sottigliezza esente da ogni sospetto d’indecenza che verrà esaltata, ancora tre secoli dopo, da Stendhal e da Canova50.
È il modo “gaio” secondo la definizione di Lomazzo (1584), il modo “tenero” per Agucchi (1615), che
lo dice imitatore della natura ancor maggiore di Tiziano51. Comunque sempre legato al sentire dell’ani-
27
012-029 Coliva.qxd
13-05-2008
13:12
Pagina 28
mo e non dell’intelletto del riguardante, che gli fa dipingere “le cose divine con le cose umane”52; e può
essere ben sintetizzato nella felice definizione di “affetto allegro” di Gian Domenico Ottonelli che, benché gesuita, non si peritò dal citare, insieme con opere da lui definite “paradisiache” come la cupola del
duomo, anche la Leda e il Ganimede53: “egli era di gran genio per le pitture impudiche e per le sacre. E
aveva in ambedue grand’espressione”.
L’effetto di gaiezza che le opere di Correggio producono non risparmia neppure Vasari, che ha il merito di riconoscerne tra i primi l’origine e la determinante nel naturale. Nel descrivere l’angelo con il libro
spalancato nella Madonna di san Girolamo (fig. 9), lo storico si lascia infatti andare a una notazione tanto spontanea e vivace quanto rara: “Il quale par che rida tanto naturalmente, che muove a riso chi lo guarda”54; poi i capelli, “vaghi e naturali”, i colori che “non paiono colori ma carni” (a proposito della Danae).
È Vasari dunque che pone sin dall’origine il paragone con il naturale alla base dell’interpretazione critica dell’arte di Correggio. Ma ne stabilisce anche i limiti: la resa del naturale “senza aver visto le cose antiche” comporta il rischio di una formazione incolta seppur coperta dal talento.
Proseguendo nel riconoscimento critico del naturale come massima dote di Correggio, Scannelli attribuisce alla “carne palpitante e viva” dei putti della Madonna di San Giorgio, allora a Modena, il merito
di aver provocato l’irresistibile commento di Guido Reni, il quale chiese ad alcuni ospiti provenienti dalla città estense se nel frattempo fossero cresciuti o no quei bambini, se “erano diventati grandi e se più
si ritrovavano in quella tavola di San Pietro Martire dove li havea lasciati, perché dimostrandosi vivi, e
di carne animata, non potea credere che fossero per stare in una tal forma”55.
Il naturale è dunque la qualità più alta unanimemente riconosciuta a Correggio da tutta la scrittura sull’arte del Cinquecento e Seicento. Ma portava con sé, quasi inevitabilmente, il limite di non coltivare lo
studio dell’antico. Non era un’accusa del tutto ingiusta, poiché in Correggio l’antico è celato o, piuttosto, assorbito e trasformato in natura e in senso e dunque difficilmente riconoscibile come morfologia
archeologica da una classificazione stilistica che si volesse porre come esatta. Allo stesso modo in cui non
risaltava tra i caratteri primari del suo stile, sino all’intervento di Mengs, quello della monumentalità .
Entrambe queste componenti essenziali della sua opera semplicemente non furono riconosciute e pertanto non gli vennero attribuite come tali. Questo mancato riconoscimento è stato scontato da parte della critica con l’impossibilità di inquadrare con precisione, attraverso una terminologia chiara, classificatoria e di tipo positivista, il suo stile, con la conseguente necessità di dover procedere piuttosto per suggestioni.
Si è riconosciuto in Correggio, infatti, il primato nel colorito e nel chiaroscuro, qualità in genere considerate alternative alla fondatezza del disegno e alla conseguente struttura plastica della figura. Questa
prevalenza del colore pose in evidenza primaria l’interpretazione della natura su quella della storia. Passò inosservato che l’espressione sensibile della natura fosse comunque basata sull’esperienza storica dell’antico, dissimulato nella sua evidenza archeologica, trasfigurato e reso reale nel presente psicologico della figura.
Correggio non esibisce le forme dell’antico nell’evidenza iconografico-morfologica del reperto statuario,
come avviene in Giulio Romano; non le pone emblematicamente come parametro di autorità che elevi
l’opera del pittore e vi attribuisca una dignità intellettuale competitiva con la sapienza umanistica dei filosofi, dei letterati o dei poeti; ma le trasfigura nella verità naturale del sentimento, così che forme, pose, tipologie sembrano comporsi nell’attimo della percezione sentimentale. Tuttavia sia nelle forme che
nello spirito esse sono una trasfigurazione in vera carne e in vera sperimentabile esperienza del sentimento delle forme dell’antichità, già filtrate e rese moderne dall’intermediazione di Raffaello, dove il sentimento, tuttavia, viene espresso in un superiore equilibrio con gli altri elementi dell’arte. La prevalenza
dei caratteri espressivi del sentimento, resa attraverso il colore e un disegno non lineare ma composto
inestricabilmente di chiaroscuro e di qualità cromatica, rende vivo e transitorio il passato classico, volubile come un sentimento, come l’umore dell’esistere.
Si è avanzato in precedenza il confronto tra la Visione di Ezechiele di Raffaello e il riquadro con la Visione di san Giovanni nella cupola parmense, attraverso un rapporto strettamente stilistico e compositivo.
Ma il rapporto è più complesso. Si tratta infatti in entrambi di un Giove moderno e cristiano, trasfor-
28
mato in Cristo che è la massima umanizzazione del divino, l’incarnazione, la trasfigurazione del Dio dalla distanza della sapienza classica all’umanità dell’esperienza sensibile, una condizione presente e transitoria del senso, non una figura derivata da una distanza cronologica mitica.
Dunque Correggio insegue il vivo e il vero nell’antico, non l’immagine del passato come autorità; il suo
antico non risponde a una interpretazione testuale esteriore ma a un modello supremo di classicità che
comprende anche Raffaello che è il classico vivente, moderno, che rende l’antico esperienza attuale e non
erudizione archeologica.
Si è visto come la produzione figurativa cinquecentesca di soggetti amorosi, in Marcantonio Raimondi,
in Perin del Vaga, nello stesso Giulio Romano, rinnovando il mito pagano dell’eros possa produrre figure licenziose ma non espressive di un sentimento erotico suscitato ed espresso dalla sensibile e attuale solidificazione del senso in figura, evocata nella sfumatura dell’atmosfera cromatica del sentimento. È
in Correggio che la figura antica prende carne ed epidermide viva in grado di esprimere l’affetto dei corpi unito agli affetti dell’anima56, in un pulviscolo di colore espressivo della fisicità di quel sentimento.
1
Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, p. 112.
Per una esauriente sintesi del dibattito critico cfr. Ekserdjian
1997, pp. 1-19 e Spagnolo 2005, pp. 1-2.
3
Spagnolo 2005, p. 65.
4
Longhi 1972 p. 116
5
Stendhal, Ecoles Italiennes de Peinture, Paris 1986, III, pp 398399.
6
Spagnolo 2005, pp. 36-43.
7
Spagnolo 2005, p. 37.
8
Pungileoni 1817-1821, III, pp. 110-111; Gould 1976, p. 186,
doc. 8.
9
In questa direzione Spagnolo 2005, pp. 39-40.
10
Shearman (1995, p. 121) ritiene che i viaggi possano essere stati addirittura due.
11
Cfr. il regesto a cura di E. Fadda in questo stesso catalogo,
pp. 183-184.
12
Ekserdjian 1997, p. 77.
13
Gould 1976, pp. 29-32.
14
Vasari 1550 e 1568, IV, pp. 49-56.
15
Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, p. 112.
16
Gould 1976, p. 37; Ekserdjian 1997, p. 52.
17
La più esauriente trattazione dell’argomento, con ampia sintesi della storia storico-critica, è in Ekserdjian 1997, pp. 77 ss.
18
Coliva 2006, p. 39.
19
Ekserdjian 1997, p. 90.
20
Longhi 1956.
21
Per la riconsiderazione dell’alunnato di Correggio presso Mantegna vedi anche le considerazioni di M. Spagnolo in questo
stesso catalogo, pp. 40-43.
22
Sono menzionati dallo Chattard, in Cipriani 1956, pp. 7577.
23
Per i putti fatti di nuvole cfr. Shearman 1987, p. 660.
24
Datazione anticipata al 1512-13 da Oberhuber 1982, p.
162.
25
Spagnolo 2005, p. 231.
26
Shearman 1977, p. 302; Shearman 1995, p. 121.
27
Per la trattazione del soggetto della cupola di San Giovanni Evangelista cfr. Shearmnn 1980, in particolare pp. 283-284.
28
Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV.
29
Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, p. 350; Lamo 1560 circa,
ed. 1844, p. 13.
2
30
Ekserdjian 1997, p. 158.
Ibidem.
32
Memorie concernenti, la vita e le opere di Antonio Allegri denominato il Correggio, in Mengs 1783, II, p. 135 ss.
33
Nella lettera del 4 maggio 1774 a Nicola de Azara, citata da
Longhi 1972, p. 14; riportata in questo stesso catalogo nel saggio di C. Franzoni, p. 54.
34
Mengs 1783, II, p. 142.
35
Algarotti 1765, p. 48.
36
Ibidem, p. 65.
37
Mengs 1783, II, p. 124; il debito di Correggio verso Melozzo è riconosciuto anche da Shearman 1980, p. 286.
38
Mengs 1783, II, p. 160: “ il re di Polonia Augusto III comprò cento quadri dal defunto Duca di Modena pel prezzo
di cento trentamila zecchini, fatti coniare a posta a Venezia”.
39
Riportata in questo stesso catalogo nel saggio di C. Franzoni, p. 54.
40
Mengs 1783, II, p. 181.
41
Mengs 1783, II, p. 115.
42
Michel 1758, pp. 69-70; Bonnard 1961, p. 94.
43
Ekserdjian 1997, p. 213.
44
Ibidem, p. 250.
45
Ibidem, p. 204.
46
Hirst 1978, tavv. 1-3.
47
Braghirolli 1872, p. 332.
48
Parma Armani 1986, p. 67.
49
La mutilazione del dipinto dovette avvenire tra il 1726,
quando il duca divenne mentalmente instabile a causa della
perdita della moglie, e il 1731, quando si ritirò in convento.
Per il trattamento più completo della vicenda cfr. Gould 1976,
pp. 194-195; Ekserdjian 1997, p. 288.
50
Per questa notazione si veda Bacchi, Bonfait 1997, p. 112.
51
Cfr. Bellori 1672 alla vita di Domenichino.
52
Mancini 1617-1621.
53
Un’approfondita analisi di tale questione in Ottonelli è in
Spagnolo 2005, pp. 244-253.
54
Vasari 1568, ed. 1878-1885, IV, p. 114.
55
Scannelli 1657, ed. 1966, p. 294; citato da Popham 1957,
p. 84.
56
Mengs 1787, p. 185.
31
29