Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen

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Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen
Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen
kommt, zur Anwendung des Prinzips der Ineinssetzung bei
gleichzeitiger Verfremdung. Vor ein paar Jahren projizierten sie
einen Dr. Mabuse-Remix des Zürcher Filmemachers Peter Liechti
auf die mit Fotosensoren ausgestattete Elektronik. Der Film vertonte sich selbst.
Für ihre Installation sound_shifting in der venezianischen Kirche
San Stae verkoppeln sie den Canale Grande (Wasser, Bewegung,
Dynamik) mit der Kirche (manifestierte Geschichte, für die
Ewigkeit gebaut). Klanglicher Mittler zwischen den Welten ist ein
Hydrophon, ein Unterwassermikrophon, das die Druckunterschiede im Wasser in Spannungsunterschiede und dann durch
eine Membran in Luftschwingungen umwandelt. Möslang und
Guhl greifen als Musiker nur soweit ein, als sie mit Hilfe eines
Equalizers bestimmte Frequenzen über einen bestimmten Zeitraum besonders betonen können. Auch hier geht es um die Realisierung eines Ereignisses (Sound im Wasser, der Canale Grande
als gigantischer Filter der Klänge der Stadt) in einem anderen
Kontext (der Kirchenraum).
Auch ihre jüngste Arbeit weist die Logik ihrer ästhetischen
Anstrengung auf: Sie ist improvisiert oder scheint es zu sein, weil
sie ohne Partitur auskommt und völlig auf den Moment ausgerichtet ist, sie ist zugleich komponiert, weil die Parameter festgelegt sind. Ein Experiment, das bereits geglückt ist.
Welche Grenze wird da eigentlich überschritten? Von wem? Und
in welche Richtung?
CANALE VISUALE Norbert Möslang/Andy Guhl alla 49
a
Biennale di Venezia
Konrad Bitterli
Flusso digitale d’immagini
Occhio all’indeterminatezza ingannevole! Scandendo orizzontalmente l’immagine elettronica trasversale, strisce di colore blu e
verde in varie gradazioni abbozzano una composizione di un’imprecisione nebulosa, spezzata con forza sul bordo sinistro da un
campo cromatico beige pallido, con ombre scure verso il basso;
subito accanto, quella macchia vistosa di colore è di nuovo smorzata da riflessi di morbide luminosità. Eppure dappertutto sembra di scorgere lembi di realtà lievemente velati; taglio, e si cambia fotogramma. Il corpo cromatico beige pare estendersi dal
bordo sinistro verso l’interno dell’immagine, la sua ombra scura
sembra ridursi, la sua imprecisione aumentare; a sinistra, dal filone cromatico blu ecco emergere un quadrato bianco, come per
dare un nuovo ubi consistam al flusso d’immagini. Un accento sfavillante, benché incolore; taglio, e si cambia fotogramma. La
forma pallida si allarga, sfumando in viola si dissolve nel blu dello
sfondo imbevuto di luce: i pixel disintegrano i colori. Solo il quadrato bianco e un punto rosso formatosi all’improvviso sul bordo
sinistro creano concentrazioni nell’indeterminatezza crescente
dell’immagine; taglio, e si cambia fotogramma. Un’altra sequenza
comincia con una forma che si staglia nettamente sul cromatismo
diffuso di fondo: un vaporetto blu dalla prua aguzza, che solca
l’acqua a partire dalla sinistra del quadro. La sua massa in forte
movimento rompe la luce in primo piano; taglio, e si cambia fotogramma. Sulla murata campeggia, in grossi caratteri blu su sfondo bianco, la scritta «FRANZ»; altre lettere sembrano coperte da
un pneumatico che, sistemato sul bordo del battello, è visibile
solo come un indistinto cerchio nero. Per un breve istante gli
oggetti identificabili sembrano accennare una possibile narrazione visuale, ma il lieve presagio torna subito a dissolversi nel
campo cromatico luccicante degli alti spruzzi di spuma; taglio, e
si cambia fotogramma. Lo stesso vaporetto, riconoscibile per l’innalzarsi della poppa con la grossa pala del timone, scivola nel
cavo profondo di un’onda, davanti a finestre che cadono: un’immagine disorientante, che evoca una drammatica discesa su un
Canal Grande trasformato in rapido torrente…
Queste e altre sequenze precisamente articolate figurano come
contributi artistici nel presente libro: dopo averle registrate su
video nella Venezia invernale, Norbert Möslang e Andy Guhl le
hanno trasposte in un saggio iconografico di composizione raffinata. I due, peraltro, finora si sono distinti soprattutto come
pazienti alchimisti della sperimentazione sonora: con il nome
Voice Crack e il loro approccio artistico bizzarro del riciclaggio
di suoni, dagli anni Settanta sono noti su scala internazionale tra i
performer più notevoli e innovativi del settore. Il loro concetto
dell’«elettronica quotidiana violata»1, della violazione di forme
musicali tradizionali, porta a strutture sonore di inconfondibile
qualità ed estrema intensità. Gli strumenti, creati in proprio a partire da oggetti quotidiani o da articoli elettronici a buon mercato,
all’inizio venivano suonati solo nei concerti o nello studio di
registrazione; in seguito, tuttavia, sono stati anche sviluppati ad
hoc per vere e proprie installazioni spaziali, così come, in generale, negli ultimi quindici anni il lavoro artistico di Möslang e
Guhl si è spostato dalla ricerca sul suono a quella sull’immagine.
Lo dimostra, fra l’altro, anche questo libro d’arte: un flusso visivo
affascinante, un continuo movimento di colore e forma che alla
dimensione acustica specifica della realtà quotidiana veneziana –
il traffico rumoroso dei battelli e le attività commerciali sul celebre Canal Grande – aggiunge una struttura visiva autonoma, il
«Canale Visuale».
Volendo studiare più da vicino la sequenza d’immagini creata dai
due autori, occorre anzitutto esaminarne la struttura-base concettuale e la trasposizione artistica: la forma specifica delle riprese
filmiche e la loro elaborazione al computer, ma anche la trasformazione dei fotogrammi in una composizione visiva complessa
sotto forma di libro.
Videoprocessi... e processioni del reale
Durante i preparativi dell’installazione sonora realizzata per la 49a
Biennale di Venezia nella chiesa di San Stae, Möslang e Guhl
hanno girato in loco le riprese video da cui è nato il presente saggio artistico: hanno cioè calato nel Canal Grande, vicino a una fermata dei vaporetti, una videocamera digitale racchiusa in un involucro impermeabile di plexiglas. Da quella prospettiva insolita,
appena sopra o sotto la superficie agitata dell’acqua, in modalità
di ripresa automatica l’apparecchio registrava il traffico delle
imbarcazioni sul canale; in quelle condizioni prefissate – con l’im6
possibilità di controllare influssi esterni come moto ondoso, presenza di traffico, incidenza e rifrazione della luce, ma anche di
regolare dispositivi interni come diaframmi o messe a fuoco –
svolgevano un ruolo decisivo da un lato il movimento meccanico
della videocamera, dall’altro la casualità degli avvenimenti in
atto sul e nel canale. Moltissimi motoscafi, barche da trasporto e
vaporetti, ma anche sacchetti galleggianti di plastica colorata e
altro ancora, passavano davanti all’obiettivo, orientato trasversalmente alla via d’acqua; nella sua processione quel mondo di
oggetti finiva per un tempo più o meno lungo nel campo ottico
dell’apparecchio ed era catturato. La posizione bassa di ripresa e
la ristrettezza dell’inquadratura rendevano impossibile, peraltro,
la visione consueta del celeberrimo canale e del suo pittoresco
andirivieni, tanto divulgata da innumerevoli cartoline, prospetti di
vacanze e resoconti di media: veli d’imprecisione facevano scomparire quelle attrattive turistico-culturali che creano, in genere, il
fascino speciale della Serenissima. Il canale, di giorno estremamente trafficato, generava un flusso permanente di dati digitali,
che solo con l’elaborazione successiva al computer e la scelta di
singoli fotogrammi da parte degli artisti è stato possibile «fermare», scomporre in dettagli e frammenti visivi istantanei nonché, in
una fase di manipolazione ulteriore, ricomporre a sequenza d’immagini, a successione lineare nel medium costituito dal libro:
smantellamento e ricostruzione della dimensione temporale e del
mondo oggettuale.
Transfer
Se osserviamo gli spezzoni in dettaglio e li sottoponiamo, come
esposto inizialmente, a una lettura, a un’analisi della loro struttura e dinamica visiva interna, possiamo coglierli senz’altro come
pittura in un mezzo diverso: nel mezzo digitale. Gli sfumati di
effetto addirittura pittorico, le dissolvenze, i mirabili accenti cromatici e i morbidi riverberi di luce, i riflessi chiari e le ombre
profonde, così come la costante dissoluzione del colore in finissime griglie di pixel, creano strutture artistico-visuali che si
potrebbero interpretare come composizioni astratte. Questo
riferimento al modo tradizionale di guardare una tavola dipinta è
sottolineato anche dalla rigida scelta di singole immagini o intere sequenze fra le ore di riprese, scelta che in fondo – e con piena
consapevolezza – obbedisce ai criteri suaccennati immanenti al
quadro. Eppure queste immagini digitali, per quanto astratte talvolta possano sembrare, restano sempre accoppiate alla realtà
oggettuale: ognuna di esse sembra oscillare costantemente fra
struttura autonoma, per così dire pittorica, e mondo reale delle
cose. Le videosequenze risolte in singoli fotogrammi, cioè i tagli
compiuti dagli artisti nel flusso continuo del tempo e dei dati, si
trovano trasposte nel libro come serie iconografiche in più parti;
se si sfoglia da una pagina all’altra, esse accennano una dimensione temporale come quella che è caratteristica del mezzo di
ripresa originario (la videocamera), suggerendo così una successione cronologica e catalizzando nell’osservatore un modo di
guardare descrivibile, forse, come forma di esperienza cinematografica rallentata. Möslang e Guhl scompongono il tempo reale
delle riprese video e lo trasferiscono sulla carta stampata, cioè in
una struttura temporale diversa, essenzialmente connotata da
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convenzioni (direzioni di lettura, ritmo dello sfogliare); questa
ricostruzione della dimensione temporale, tuttavia, è infranta
dalle manipolazioni mirate dei due artisti, in piena sintonia col
loro concetto musicale del code cracking2, e il movimento lineare
uniforme viene sottilmente perturbato. L’impaginazione del libro
è tale che le illustrazioni inserite debordano, superano i limiti di
pagine già grandi in formato orizzontale, cosicché le singole
immagini cozzano l’una contro l’altra in punti ogni volta diversi e
producono un ritmo sempre mutevole di tagli ben visibili. Ogni
pagina doppia, pertanto, è composta da almeno due frammenti
d’immagine, che osservati singolarmente creano una composizione astratta in più parti; l’idea di una sequenza temporale lineare
risulta quindi sottilmente scalzata, così come, in ultima analisi,
diventa impossibile un’osservazione puramente estetica dell’immagine singola.
Ma le perturbazioni non sono finite. All’esito visivo descritto gli
artisti hanno aggiunto alcuni spettrogrammi acustici, filtrati mediante computer, che, benché di fascino cromatico e carattere
astratto paragonabile, non nascondono la loro origine tecnica: gli
assi dei secondi e degli hertz restano riconoscibili. Inserendo gli
spettrogrammi (misurazioni di suoni visualizzate), con il loro
lavoro artistico Möslang e Guhl rinviano inoltre all’installazione
acustica concepita per la chiesa di San Stae (sound_shifting), ove
il mondo sonoro subacqueo – non udibile dall’orecchio umano –
è trasferito all’interno dell’edificio grazie a un idrofono collocato
nel canale. Sovrapponendo innumerevoli fonti di suoni e rumori,
la straordinaria propagazione del suono sott’acqua crea una base
sonora mugghiante, con fortissimo carattere di evento; nel clima
romantico-sognante di Venezia il pubblico prende coscienza di
una metropoli assordante, dal traffico frenetico, visitata ogni giorno da decine di migliaia di persone. A questa installazione acustica non visibile, fortemente fragorosa, in un certo senso le sequenze ottiche prescelte forniscono le composizioni visive mute di
accompagnamento: come nelle immagini, anche a livello sonoro
lacerti della realtà quotidiana vengono trasposti in una forma
artistica che non sconfessa mai la sua derivazione dalla realtà circostante. Proprio come l’intenso frastuono delle incisioni subacquee è caratterizzato da una qualità rumoristica sorprendente,
che pone nettamente in discussione la facciata pittoresca della
città lagunare, così anche nella sequenza d’immagini manipolata
ad hoc si può, nonostante la sua evidente ricchezza visuale, continuare a cogliere la resistenza del reale. In fondo le precise «perturbazioni visive» di Möslang e Guhl si negano – come le loro rimbombanti «esplorazioni acustiche» – a una percezione gradevole,
puramente estetico-formale.
Crack that Code
Ormai da oltre venticinque anni Norbert Möslang e Andy Guhl si
esibiscono in duo come artisti dei suoni. Nei concerti il loro strano corredo di strumenti (decine di apparecchi elettronici come
radio, giochi, telecomandi, torce tascabili o da bicicletta e cavi
vari) viene esposto su un grande tavolo e appare, visto globalmente, come un’accumulazione complessa affascinante, un paesaggio sculturale miniaturizzato. Una volta «animati», quegli
oggetti quotidiani creano strutture sonore stridenti, crepitanti,
ronzanti o gorgoglianti di qualità inconfondibile, come se nelle
loro memorabili esibizioni gli artisti volessero «violare»3 la cultura acustica curata del mondo concertistico tradizionale. «In
Möslang/Guhl trionfano la cacofonia, gli effetti sonori dal rumore
indefinibile, il fattore di disturbo e la devianza acustica: un attacco frontale al ‹bel suono›4 e alla società che lo coltiva. Questa antiarte è di effetto sovversivo e distruttivo. È come dover sentire un
canto cacofonico d’addio alla nostra civiltà industriale: la grottesca sonora di una megamacchina che sferragli di continuo e che,
divenuta senza senso, si fermi solo se qualcuno stacca la corrente.»5 Una simile interpretazione riesce sì a situare le creazioni del
duo nel solco degli esperimenti musicali di rottura compiuti dai
futuristi (fino a Maurizio Kagel) o nelle liberazioni estatiche del
free jazz dei primi anni Settanta, ma finisce col non cogliere l’universo sonoro di Möslang e Guhl nella sua specifica essenza di
evento e nella sua struttura condensata; non sa apprezzarlo come
contributo decisivo a una ricerca musicale fondamentale, con
influssi non sottovalutabili sugli alchimisti sonori della generazione successiva.
Le stesse qualità processuali, rotture e sovrapposizioni valgono
anche per le opere artistiche del duo in campo visivo. Il presente
saggio iconografico ne rende palese la coerenza concettuale, così
come l’osservatore scorge direttamente le qualità sculturali delle
loro installazioni nello spazio: accatastati in accumulazioni o fatti
funzionare in serie, gli apparecchi elettronici «violati» riproducono strutture sonore di andamento generalmente indipendente. A
partire dai tardi anni Ottanta sono nate così installazioni complesse – acustiche, luminose o video – come Wellenbad (Kunsthalle di San Gallo, 1989), Kiff that Habit – Crack that Code (Kunstraum di Aarau e Kunstmuseum di San Gallo, 1992), Loop 1 (Raum
für aktuelle Kunst di Lucerna, 1995), Loop 2 (Kesselhaus di
Hannover, 1995), Surfing Songbirds (Kunstraum di Kreuzlingen,
1995), Loop 3 (Swiss Institute di New York, 1996) e Speed Up
(Kunstraum di Aarau, 1997). Esemplare in tal senso si può considerare la prima versione di Loop, che unifica momenti essenziali
dell’attività acustica e installativa di Möslang e Guhl trasferendoli in una struttura chiaramente meditata, con una composizione
spaziale ben precisa.
Nel «loop»
«Loop» significa «cappio», «giro completo», e in senso lato indica
un processo che in un sistema chiuso riporti al punto di partenza;
è anche un termine della tecnologia digitale per una serie ciclica
di istruzioni al computer, mentre in campo musicale sta per una
breve sequenza ricorrente. Queste varie accezioni sono già anticipate concettualmente, in un certo senso, dal piano generale e
dalla struttura del lavoro realizzato per la prima volta da Möslang
e Guhl, nel 1995, per il Raum für aktuelle Kunst di Lucerna.
Quattro montanti lignei scandiscono il sobrio ambiente espositivo, delimitando un immaginario quadrilatero. Nella loro installazione gli artisti riprendono questo vistoso spunto architettonico
fissando a varie altezze su ogni singolo montante, con apposite
briglie, un registratore a bobine. Gli apparecchi sono collegati a
un nastro che percorre o che taglia l’intero locale, sottolineando
otticamente il riquadro architettonico e conferendo nello stesso
tempo alla galleria un livello sghembo. Col suo nastro morbidamente svolazzante, però, l’impianto non resta solo percepibile
come disegno tridimensionale o struttura plastico-spaziale, bensì
serve anche a registrare segnali acustici. L’ingresso del visitatore
fa scattare un sensore di movimento e quindi l’incisione in uno
dei registratori; il rumore inciso è poi riprodotto, dopo un certo
intervallo, dagli altri apparecchi. Il suono «gira» quindi da un
montante all’altro, percorre un «loop» per poi tornare al punto di
partenza ed essere riprodotto di nuovo; se i visitatori sono più di
uno, le varie incisioni si succedono e compenetrano fino a dare un
groviglio sonoro non più districabile. In un certo senso anche i
visitatori di Loop partecipano all’esecuzione, perché è solo il loro
movimento a mettere in moto l’installazione.
I segnali acustici incisi, tuttavia, non sono rumori prodotti dal
pubblico: l’apparecchio è predisposto per registrare solo il lieve
fruscio prodotto dall’attrito del nastro durante l’incisione e poi
trasmetterlo amplificato. L’«opera eseguita» è quindi il movimento interno del dispositivo: in un certo senso l’installazione acustica sceglie come suo tema sé stessa. Oltre a far «girare» letteralmente il suono nel locale, essa riflette a un metalivello la genesi
di tale suono nel «loop» dell’autoriflessione artistica.
Perturbazioni sonore e visive
Che siano luminose, sonore o video, le installazioni di Möslang e
Guhl funzionano tutte secondo gli stessi principi di base. Impulsi,
comandi automatici, feedback o strutture casuali fanno scattare,
in disposizioni di sistema chiaramente strutturate, processi che
assumono un decorso spesso incontrollabile, con complesse sovrapposizioni negli esiti acustici e visivi; come in Loop, si ha un
coinvolgimento mirato dell’osservatore nel dispositivo artistico,
con scomparsa ricorrente della separazione fra produttore e fruitore dell’opera. Una volta messo in moto, l’universo tecnico dei
macchinari si definisce in modo radicalmente nuovo: banali sound
machines si trasformano in composizioni sculturali, comunissimi
registratori diventano disegni nello spazio, minuscoli corpi luminosi cominciano a dare possenti rimbombi… I macchinari «violati» dai due artisti rivelano una forza arcaica disorientante quanto
affascinante. Ma non solo la manipolazione, bensì anche la semplice presentazione dell’aspetto meccanico va intesa come gesto
sottile di sovversione: dietro il lucido design di superficie della
nostra realtà quotidiana, dietro lo sgargiante glamour colorato
dell’apparenza mediale, le funzioni e sequenze nascoste finiscono per qualche momento fuori controllo oppure, molto semplicemente, sono messe a nudo. Nell’intera gamma delle installazioni
di Möslang e Guhl (luminose, sonore o video), una cosa diventa
evidente: queste creazioni non si orientano ai canoni tradizionali
della prassi artistica ma si rifanno alle tradizioni dei movimenti di
dissoluzione dei generi, dal futurismo al Fluxus degli anni
Sessanta, unendole alla frenesia metropolitana della noise music
come alle accumulazioni di materiali e agli environments dell’arte contemporanea. In tal modo il duo Möslang/Guhl si muove in
una zona affascinante di confine tra sperimentazione acustica e
arte figurativa: zona che ha anticipato di anni, radicalmente e
senza compromessi, il «crossover» delle arti tanto predicato dalla
party culture dell’ultimo decennio.
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1, 2, 3 Vedi la nota 1 al contributo di Felix Klopotek [n.d.t.].
4 L’espressione tedesca «guter Ton» (letteralmente «suono buono») ricalca perfettamente «bon ton», quindi sta anche per «buone maniere» [n.d.t.].
5 Ralph Hug, «Die Geräuschkunst von Möslang und Guhl», in BodenseeHefte, n° 4/1990, p. 39.
L’UNA COSA NELL’ALTRA Trovare i Voice Crack dove pare che non siano
Felix Klopotek
1. In campo musicale (e in generale artistico) si ricorre spesso al
concetto di «sconfinamento»: ogniqualvolta in una musica si delinea qualcosa che prima non rientrava in quella musica o in quel
genere musicale ma in una musica diversa, o addirittura in un’altra disciplina artistica, si dice che supera i confini.
Il termine è problematico, d’altronde, perché evidenzia la barriera e rischia di stilizzare il processo del suo superamento. In altre
parole, crea associazioni con concetti di fatto positivi (audacia,
spirito d’avventura, coraggio), quando invece si pone un quesito:
sconfinare è davvero necessario? La musica che urge superare,
cioè, in fondo non basta a sé stessa? Sconfinando non si adotta il
connotato militaresco della «presa di possesso»? E alla fine non si
torna a ottenere un lavoro imperfetto, nel senso di affiancare semplicemente due territori musicali (o di inglobarne rudemente uno
nell’altro), ma senza una totalità dell’attività musicale che ne
penetri in modo uniforme tutti gli aspetti?
Il punto è che una buona musica non ha bisogno di sconfinare,
perché col suo alto livello di complessità interna – o possiamo
dire di compattezza – non solo ingloba ma anche genera altre
realtà musicali: determinante non è il processo del superamento
bensì una percezione differenziata. Se davvero si può parlare di
sconfinamento come di concetto positivo, lo si può fare nella
misura in cui la buona musica si supera da sé: prende spunto da
ciò che è diverso, infatti, per mettersi in discussione, invece semplicemente di appiattirsi e farsi inconsistente.
Del collettivo svizzero Voice Crack, formato da Andy Guhl e
Norbert Möslang, si dice piuttosto spesso che «sconfina»; quella
che fa, però, è soprattutto buona musica.
2. La contraddizione è palese. Vista la prassi attuale del gruppo,
l’idea di dire che supera i confini verrebbe naturale: oggetti quotidiani come apparecchi radio e bambole Barbie, giochi elettronici a basso prezzo e telecomandi, insomma innumerevoli gadget
del mondo oggettuale profano, vengono sfruttati in forma non
canonica, costretti a emettere suoni che in quei congegni insignificanti e apparentemente innocui nessuno avrebbe immaginato. Il
duo stesso afferma di «violare il codice» di simili oggetti, chiama
il proprio corredo di strumenti «elettronica quotidiana violata»1;
verrebbe quindi spontaneo ritenere che ne renda riconoscibile la
dimensione di errore. Ma sarebbe riduttivo, perché qui si tratta di
una concezione diversa del rapporto con la macchina, si tratta di
mostrare una nuova dimensione operativa: dimensione che comprende sì anche l’impiego di fonti d’errore, ma non si ferma solo
lì. Questo, allora, il pensiero che si affaccia: quando un gruppo,
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per fare musica, utilizza oggetti che con la musica non hanno
alcun legame bensì appartengono a una sfera sociale diversa, se
il suo non è sconfinamento… che cos’è?
Per la musica dei Voice Crack ha più senso parlare di immanenza
che si autotrascende. Gli inizi del duo risalgono al 1972, quando
la loro arte rientra ancora nel contesto della Musica improvvisata
europea; Möslang suona strumenti a fiato in legno, Guhl il contrabbasso. A quei tempi la Musica improvvisata è giovane, si è
appena lasciata alle spalle il free jazz, si colloca fuori della Nuova
musica (che, benché radicale, rimane accademica). In quella
Musica improvvisata ancora ai primi passi, i due giovani artisti
riescono a trovare il loro posto solo con la scelta autonoma di
ampliare il proprio strumentario (e quindi abbandonare consapevolmente il terreno del «virtuosismo»): un ampliamento nell’ottica dell’improvvisazione, della sua noncuranza per la canonizzazione. Quando cominciano a sperimentare con oggetti da cucina
o fanno prime scoperte nel campo dell’elettronica, il loro è un
passo coerente ma anche di rottura rispetto a ciò che suonavano
prima. In altri termini, la rottura (anche con la propria convenzione) è insita nella Musica improvvisata; nessun gruppo chiarirà
tale fatto nella misura dei Voice Crack.
Nel 1977 il duo si presenta a Total Music, festival organizzato dalla
Free Music Production di Berlino; spezzoni delle esibizioni compaiono nel suo primo LP Deep Voices (riversato nel 1996 su CD
dalla Urthonia, piccola casa discografica di Colonia). Möslang
suona ancora soprattutto il sax soprano e il clarinetto basso, Guhl
il contrabbasso; nell’elenco degli strumenti, però, compaiono già
le voci «home made instruments» e «tape recorder». Da poco
tempo i due artisti hanno scoperto che premendo insieme su un
registratore a cassetta i tasti d’incisione, di ascolto e di riavvolgimento si ottengono strani feedback automatici, utilizzabili, grazie
al microfono incorporato, anche come livello finale.
Il secondo LP, inciso nel 1982, si chiama già Knack On; gli strumenti regolari sono ormai quasi scomparsi, sostituiti da «lamiera
d’acciaio per molle, canne in PVC, Luftibuss2, apparecchi radio,
materiale elettronico di scarto, tubo-clarinetto, dittafono». Risale
al 1983 la decisione di lavorare unicamente con «elettronica quotidiana violata»; il primo concerto del genere, tenuto il 23 marzo
1984, è documentato da un altro LP con il titolo Voice Crack. La
drammaturgia di quell’esibizione è impostata in modo tale che
alla fine gli strumenti si suonano da soli, cioè si inseriscono o si
comandano a vicenda, rendendo così inutile un intervento «esterno». Möslang e Guhl non rompono solo con lo strumentario tradizionale ma anche con un modo di suonare tradizionale (sia pure
radicale, come nel caso della Musica improvvisata); la «Voice
Crack action» termina quando i musicisti staccano la corrente agli
strumenti.
Nel 1986, quando nella sua tournée americana il duo è chiamato
per errore «Voice Crack», scatta immediata la decisione di trasferire il titolo del disco al gruppo stesso. Seguono molti lavori in
comune con altri musicisti, come il trio newyorkese di free noise
Borbetomagus, il percussionista Knut Remond, il produttore e
multistrumentista Jim O’Rourke o improvvisatori di grido quali
Günter Müller, Otomo Yoshihide, Lionel Marchetti, Jérôme
Noetinger, Tom Cora e Butch Morris. Questa dialettica fra conti-
nuità e rottura diventa visibile anche direttamente nel confronto
con il materiale, perché gli oggetti quotidiani restano, beninteso,
oggetti familiari: il telecomando resta un telecomando, ma i suoni
che suscita non hanno più nulla da spartire con il suo significato
originario. Anche qui esiste un nesso fra immanenza e trascendenza: se il telecomando può svolgere anche funzioni del tutto
diverse, ciò dipende dalle possibilità insite nell’apparecchio
stesso.
Superamento di confini? Si tratta piuttosto di uno scandagliare
campi da tempo liquidati come noti e banali. L’«elettronica quotidiana violata» ridefinisce, fra l’altro, anche il concetto di «strumenti regolari»: Möslang e Guhl utilizzano il proprio strumentario
in tutta naturalezza, con effetti tanto più sorprendenti e quindi
spettacolari. Invece che di sconfinamento, meglio sarebbe parlare di infiltrazione e sovversione; ma neppure ciò riflette in modo
adeguato la totalità della loro arte, perché quest’ultima non ha
veri agganci iniziali da cui cominciare a infiltrarsi. Occorre pensare a un campo di riferimento poliedrico, in cui ad esempio la
provenienza dalla musica improvvisata trovi posto accanto alla
fisica e al materialismo pratico, senza che le differenze siano
livellate.
Sentiamo Norbert Möslang: «La vita intera consiste di vibrazioni,
che coinvolgono tutti con determinate risonanze: onde luminose,
onde sonore, microonde… In tale contesto si può cominciare a
combinare e, per esempio, a utilizzare un apparecchio radio come
corpo di risonanza per le onde di un telecomando. Se la cosa non
funziona, occorre solo spostare le frequenze e cercare i punti di
risposta fino al clic.»
Gli fa eco Andy Guhl: «La fisica è una componente della nostra
musica. In molti processi da noi prodotti acusticamente possiamo
anche farci un’idea del funzionamento a livello elettronico: oggi
operiamo con spazi di risonanza in campo elettronico proprio
come facevamo prima con spazi di risonanza in quello acustico.
Un’altra parte importante del modo di suonare è il coinvolgimento del nostro corpo, in quanto massa, nel rapporto con lo strumento elettronico: il corpo forma un’ombra sul set di strumenti,
per esempio, e lavorando con fotoconduttori possiamo sfruttare
anche l’incidenza della luce.»
3. I Voice Crack fanno musica sperimentale, ma il problema è che
«sperimentale» è un’espressione della sfera scientifica, non di
quella estetica: per esperimento si intende un tentativo, mentre
l’arte è progetto, è azione, è processo, cioè il contrario di un tentativo. Il duo ha spinto il proprio iter artistico-musicale fino a un
punto in cui entra in gioco la «fisica», in cui l’estetico abbandona
la sfera estetica ma senza ribaltarsi nel suo opposto. Ricerca, scoperta, ampliamento, modifica e infine deformazione vanno a braccetto; è logico che Möslang e Guhl lasciassero la sfera della musica «pura», e segnatamente nel momento in cui ampliavano lo strumentario e in varie installazioni si accostavano all’arte figurativa.
È logico che si tratti di un processo non isolabile ma sempre
riferito all’oggetto, così come non può esserci un’installazione
«tipica» dei Voice Crack, perché ognuna si riferisce a una combinazione specifica della triade spazio/oggetto/ambiente.
È anche logico che si creino continui feedback, che entri in scena
il principio del confronto con contemporanea estraniazione.
Qualche anno fa il duo ha proiettato un remix della pellicola Il
dottor Mabuse, opera del regista zurighese Peter Liechti, sopra
materiale elettronico dotato di fotosensori; il film si è sonorizzato
da solo.
Per la loro installazione veneziana sound_shifting, Möslang e Guhl
abbinano al Canal Grande (acqua, movimento, dinamica) la chiesa di San Stae (storia manifestata, costruita per l’eternità).
Mediatore sonoro fra i mondi è un idrofono, microfono subacqueo
che trasforma le differenze di pressione dell’acqua in differenze
di tensione e poi, mediante una membrana, in oscillazioni dell’aria; l’intervento dei musicisti si limita alla possibilità di sottolineare particolarmente per un certo periodo, grazie a un equalizzatore, determinate frequenze. Anche qui si tratta di realizzare
un evento («sound nell’acqua», il Canal Grande come filtro gigantesco dei suoni cittadini) in un contesto diverso (l’interno della
chiesa).
Anche il lavoro più recente dei due artisti mostra la logica dei
loro sforzi estetici: è improvvisato o sembra tale (perché fa a
meno di una partitura ed è interamente orientato al momento), ma
nello stesso tempo è composto (perché i parametri sono fissati).
Un esperimento, ma già riuscito; qual è, allora, il confine superato? Chi lo supera, e in quale direzione?
1 «Violare» e «violata» sono scelte traduttive di ripiego per termini ben
più polisemici. Geknackt («spezzato, schiacciato», detto ad esempio di una
noce) deriva da uno Knack(s) che può esprimere soprattutto «scricchiolio»
(di legno, denti, vetro ecc.) e quindi «colpo acustico» (clic di apparecchiature telefoniche, radiofoniche ecc.), sia spontaneo sia – come nel disco del
1982 Knack On – provocato o cercato; il verbo knacken si usa però, fra
l’altro, anche nel senso di «scassinare» o «aprire a forza» e quindi, ad
esempio per un codice, di «decifrare». In gran parte la stessa ambiguità
semantica si ritrova, ancor più accentuata, nell’inglese (to) crack; di qui,
per esempio, il sottile legame fra Crack that Code (installazione del 1992) e
la denominazione del disco (poi del gruppo stesso) Voice Crack (1984),
particolarmente azzeccata anche per l’ulteriore polisemia di contatto creata da voice. Il discorso, peraltro, è più complesso [n.d.t.].
2 Termine che richiama il mezzo di vibrazione Luft (aria) ma soprattutto la
figura del Luftikus (persona leggera, sventata) [n.d.t.].
CANALE VISUALE Norbert Möslang/Andy Guhl à la 49
e
Biennale de Venise
Konrad Bitterli
Un flux d’images numériques
Attention, flous trompeurs! L’image pixel, de format oblong, est
rythmée de bandes horizontales de couleurs bleue et verte de
différents degrés de luminosité évoquant une ordonnance nébuleuse et diffuse que vient brutalement rompre un champ beige
pâle dans le bord gauche, tandis que juste à côté les reflets de
douces clartés atténuent encore délicatement l’empreinte de la
couleur. Et partout cependant des soupçons de lambeaux d’une
réalité finement voilée – coupure, image suivante. Le corps beige
sur la gauche semble gagner du terrain, le foncé de son ombre
décroître et croître le flou. A gauche, un carré blanc surgit du bleu
qui défile, comme pour localiser à nouveau le flux des images:
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