Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen
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Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen
Logisch auch, dass es dabei immer wieder zu Rückkopplungen kommt, zur Anwendung des Prinzips der Ineinssetzung bei gleichzeitiger Verfremdung. Vor ein paar Jahren projizierten sie einen Dr. Mabuse-Remix des Zürcher Filmemachers Peter Liechti auf die mit Fotosensoren ausgestattete Elektronik. Der Film vertonte sich selbst. Für ihre Installation sound_shifting in der venezianischen Kirche San Stae verkoppeln sie den Canale Grande (Wasser, Bewegung, Dynamik) mit der Kirche (manifestierte Geschichte, für die Ewigkeit gebaut). Klanglicher Mittler zwischen den Welten ist ein Hydrophon, ein Unterwassermikrophon, das die Druckunterschiede im Wasser in Spannungsunterschiede und dann durch eine Membran in Luftschwingungen umwandelt. Möslang und Guhl greifen als Musiker nur soweit ein, als sie mit Hilfe eines Equalizers bestimmte Frequenzen über einen bestimmten Zeitraum besonders betonen können. Auch hier geht es um die Realisierung eines Ereignisses (Sound im Wasser, der Canale Grande als gigantischer Filter der Klänge der Stadt) in einem anderen Kontext (der Kirchenraum). Auch ihre jüngste Arbeit weist die Logik ihrer ästhetischen Anstrengung auf: Sie ist improvisiert oder scheint es zu sein, weil sie ohne Partitur auskommt und völlig auf den Moment ausgerichtet ist, sie ist zugleich komponiert, weil die Parameter festgelegt sind. Ein Experiment, das bereits geglückt ist. Welche Grenze wird da eigentlich überschritten? Von wem? Und in welche Richtung? CANALE VISUALE Norbert Möslang/Andy Guhl alla 49 a Biennale di Venezia Konrad Bitterli Flusso digitale d’immagini Occhio all’indeterminatezza ingannevole! Scandendo orizzontalmente l’immagine elettronica trasversale, strisce di colore blu e verde in varie gradazioni abbozzano una composizione di un’imprecisione nebulosa, spezzata con forza sul bordo sinistro da un campo cromatico beige pallido, con ombre scure verso il basso; subito accanto, quella macchia vistosa di colore è di nuovo smorzata da riflessi di morbide luminosità. Eppure dappertutto sembra di scorgere lembi di realtà lievemente velati; taglio, e si cambia fotogramma. Il corpo cromatico beige pare estendersi dal bordo sinistro verso l’interno dell’immagine, la sua ombra scura sembra ridursi, la sua imprecisione aumentare; a sinistra, dal filone cromatico blu ecco emergere un quadrato bianco, come per dare un nuovo ubi consistam al flusso d’immagini. Un accento sfavillante, benché incolore; taglio, e si cambia fotogramma. La forma pallida si allarga, sfumando in viola si dissolve nel blu dello sfondo imbevuto di luce: i pixel disintegrano i colori. Solo il quadrato bianco e un punto rosso formatosi all’improvviso sul bordo sinistro creano concentrazioni nell’indeterminatezza crescente dell’immagine; taglio, e si cambia fotogramma. Un’altra sequenza comincia con una forma che si staglia nettamente sul cromatismo diffuso di fondo: un vaporetto blu dalla prua aguzza, che solca l’acqua a partire dalla sinistra del quadro. La sua massa in forte movimento rompe la luce in primo piano; taglio, e si cambia fotogramma. Sulla murata campeggia, in grossi caratteri blu su sfondo bianco, la scritta «FRANZ»; altre lettere sembrano coperte da un pneumatico che, sistemato sul bordo del battello, è visibile solo come un indistinto cerchio nero. Per un breve istante gli oggetti identificabili sembrano accennare una possibile narrazione visuale, ma il lieve presagio torna subito a dissolversi nel campo cromatico luccicante degli alti spruzzi di spuma; taglio, e si cambia fotogramma. Lo stesso vaporetto, riconoscibile per l’innalzarsi della poppa con la grossa pala del timone, scivola nel cavo profondo di un’onda, davanti a finestre che cadono: un’immagine disorientante, che evoca una drammatica discesa su un Canal Grande trasformato in rapido torrente… Queste e altre sequenze precisamente articolate figurano come contributi artistici nel presente libro: dopo averle registrate su video nella Venezia invernale, Norbert Möslang e Andy Guhl le hanno trasposte in un saggio iconografico di composizione raffinata. I due, peraltro, finora si sono distinti soprattutto come pazienti alchimisti della sperimentazione sonora: con il nome Voice Crack e il loro approccio artistico bizzarro del riciclaggio di suoni, dagli anni Settanta sono noti su scala internazionale tra i performer più notevoli e innovativi del settore. Il loro concetto dell’«elettronica quotidiana violata»1, della violazione di forme musicali tradizionali, porta a strutture sonore di inconfondibile qualità ed estrema intensità. Gli strumenti, creati in proprio a partire da oggetti quotidiani o da articoli elettronici a buon mercato, all’inizio venivano suonati solo nei concerti o nello studio di registrazione; in seguito, tuttavia, sono stati anche sviluppati ad hoc per vere e proprie installazioni spaziali, così come, in generale, negli ultimi quindici anni il lavoro artistico di Möslang e Guhl si è spostato dalla ricerca sul suono a quella sull’immagine. Lo dimostra, fra l’altro, anche questo libro d’arte: un flusso visivo affascinante, un continuo movimento di colore e forma che alla dimensione acustica specifica della realtà quotidiana veneziana – il traffico rumoroso dei battelli e le attività commerciali sul celebre Canal Grande – aggiunge una struttura visiva autonoma, il «Canale Visuale». Volendo studiare più da vicino la sequenza d’immagini creata dai due autori, occorre anzitutto esaminarne la struttura-base concettuale e la trasposizione artistica: la forma specifica delle riprese filmiche e la loro elaborazione al computer, ma anche la trasformazione dei fotogrammi in una composizione visiva complessa sotto forma di libro. Videoprocessi... e processioni del reale Durante i preparativi dell’installazione sonora realizzata per la 49a Biennale di Venezia nella chiesa di San Stae, Möslang e Guhl hanno girato in loco le riprese video da cui è nato il presente saggio artistico: hanno cioè calato nel Canal Grande, vicino a una fermata dei vaporetti, una videocamera digitale racchiusa in un involucro impermeabile di plexiglas. Da quella prospettiva insolita, appena sopra o sotto la superficie agitata dell’acqua, in modalità di ripresa automatica l’apparecchio registrava il traffico delle imbarcazioni sul canale; in quelle condizioni prefissate – con l’im6 possibilità di controllare influssi esterni come moto ondoso, presenza di traffico, incidenza e rifrazione della luce, ma anche di regolare dispositivi interni come diaframmi o messe a fuoco – svolgevano un ruolo decisivo da un lato il movimento meccanico della videocamera, dall’altro la casualità degli avvenimenti in atto sul e nel canale. Moltissimi motoscafi, barche da trasporto e vaporetti, ma anche sacchetti galleggianti di plastica colorata e altro ancora, passavano davanti all’obiettivo, orientato trasversalmente alla via d’acqua; nella sua processione quel mondo di oggetti finiva per un tempo più o meno lungo nel campo ottico dell’apparecchio ed era catturato. La posizione bassa di ripresa e la ristrettezza dell’inquadratura rendevano impossibile, peraltro, la visione consueta del celeberrimo canale e del suo pittoresco andirivieni, tanto divulgata da innumerevoli cartoline, prospetti di vacanze e resoconti di media: veli d’imprecisione facevano scomparire quelle attrattive turistico-culturali che creano, in genere, il fascino speciale della Serenissima. Il canale, di giorno estremamente trafficato, generava un flusso permanente di dati digitali, che solo con l’elaborazione successiva al computer e la scelta di singoli fotogrammi da parte degli artisti è stato possibile «fermare», scomporre in dettagli e frammenti visivi istantanei nonché, in una fase di manipolazione ulteriore, ricomporre a sequenza d’immagini, a successione lineare nel medium costituito dal libro: smantellamento e ricostruzione della dimensione temporale e del mondo oggettuale. Transfer Se osserviamo gli spezzoni in dettaglio e li sottoponiamo, come esposto inizialmente, a una lettura, a un’analisi della loro struttura e dinamica visiva interna, possiamo coglierli senz’altro come pittura in un mezzo diverso: nel mezzo digitale. Gli sfumati di effetto addirittura pittorico, le dissolvenze, i mirabili accenti cromatici e i morbidi riverberi di luce, i riflessi chiari e le ombre profonde, così come la costante dissoluzione del colore in finissime griglie di pixel, creano strutture artistico-visuali che si potrebbero interpretare come composizioni astratte. Questo riferimento al modo tradizionale di guardare una tavola dipinta è sottolineato anche dalla rigida scelta di singole immagini o intere sequenze fra le ore di riprese, scelta che in fondo – e con piena consapevolezza – obbedisce ai criteri suaccennati immanenti al quadro. Eppure queste immagini digitali, per quanto astratte talvolta possano sembrare, restano sempre accoppiate alla realtà oggettuale: ognuna di esse sembra oscillare costantemente fra struttura autonoma, per così dire pittorica, e mondo reale delle cose. Le videosequenze risolte in singoli fotogrammi, cioè i tagli compiuti dagli artisti nel flusso continuo del tempo e dei dati, si trovano trasposte nel libro come serie iconografiche in più parti; se si sfoglia da una pagina all’altra, esse accennano una dimensione temporale come quella che è caratteristica del mezzo di ripresa originario (la videocamera), suggerendo così una successione cronologica e catalizzando nell’osservatore un modo di guardare descrivibile, forse, come forma di esperienza cinematografica rallentata. Möslang e Guhl scompongono il tempo reale delle riprese video e lo trasferiscono sulla carta stampata, cioè in una struttura temporale diversa, essenzialmente connotata da 7 convenzioni (direzioni di lettura, ritmo dello sfogliare); questa ricostruzione della dimensione temporale, tuttavia, è infranta dalle manipolazioni mirate dei due artisti, in piena sintonia col loro concetto musicale del code cracking2, e il movimento lineare uniforme viene sottilmente perturbato. L’impaginazione del libro è tale che le illustrazioni inserite debordano, superano i limiti di pagine già grandi in formato orizzontale, cosicché le singole immagini cozzano l’una contro l’altra in punti ogni volta diversi e producono un ritmo sempre mutevole di tagli ben visibili. Ogni pagina doppia, pertanto, è composta da almeno due frammenti d’immagine, che osservati singolarmente creano una composizione astratta in più parti; l’idea di una sequenza temporale lineare risulta quindi sottilmente scalzata, così come, in ultima analisi, diventa impossibile un’osservazione puramente estetica dell’immagine singola. Ma le perturbazioni non sono finite. All’esito visivo descritto gli artisti hanno aggiunto alcuni spettrogrammi acustici, filtrati mediante computer, che, benché di fascino cromatico e carattere astratto paragonabile, non nascondono la loro origine tecnica: gli assi dei secondi e degli hertz restano riconoscibili. Inserendo gli spettrogrammi (misurazioni di suoni visualizzate), con il loro lavoro artistico Möslang e Guhl rinviano inoltre all’installazione acustica concepita per la chiesa di San Stae (sound_shifting), ove il mondo sonoro subacqueo – non udibile dall’orecchio umano – è trasferito all’interno dell’edificio grazie a un idrofono collocato nel canale. Sovrapponendo innumerevoli fonti di suoni e rumori, la straordinaria propagazione del suono sott’acqua crea una base sonora mugghiante, con fortissimo carattere di evento; nel clima romantico-sognante di Venezia il pubblico prende coscienza di una metropoli assordante, dal traffico frenetico, visitata ogni giorno da decine di migliaia di persone. A questa installazione acustica non visibile, fortemente fragorosa, in un certo senso le sequenze ottiche prescelte forniscono le composizioni visive mute di accompagnamento: come nelle immagini, anche a livello sonoro lacerti della realtà quotidiana vengono trasposti in una forma artistica che non sconfessa mai la sua derivazione dalla realtà circostante. Proprio come l’intenso frastuono delle incisioni subacquee è caratterizzato da una qualità rumoristica sorprendente, che pone nettamente in discussione la facciata pittoresca della città lagunare, così anche nella sequenza d’immagini manipolata ad hoc si può, nonostante la sua evidente ricchezza visuale, continuare a cogliere la resistenza del reale. In fondo le precise «perturbazioni visive» di Möslang e Guhl si negano – come le loro rimbombanti «esplorazioni acustiche» – a una percezione gradevole, puramente estetico-formale. Crack that Code Ormai da oltre venticinque anni Norbert Möslang e Andy Guhl si esibiscono in duo come artisti dei suoni. Nei concerti il loro strano corredo di strumenti (decine di apparecchi elettronici come radio, giochi, telecomandi, torce tascabili o da bicicletta e cavi vari) viene esposto su un grande tavolo e appare, visto globalmente, come un’accumulazione complessa affascinante, un paesaggio sculturale miniaturizzato. Una volta «animati», quegli oggetti quotidiani creano strutture sonore stridenti, crepitanti, ronzanti o gorgoglianti di qualità inconfondibile, come se nelle loro memorabili esibizioni gli artisti volessero «violare»3 la cultura acustica curata del mondo concertistico tradizionale. «In Möslang/Guhl trionfano la cacofonia, gli effetti sonori dal rumore indefinibile, il fattore di disturbo e la devianza acustica: un attacco frontale al ‹bel suono›4 e alla società che lo coltiva. Questa antiarte è di effetto sovversivo e distruttivo. È come dover sentire un canto cacofonico d’addio alla nostra civiltà industriale: la grottesca sonora di una megamacchina che sferragli di continuo e che, divenuta senza senso, si fermi solo se qualcuno stacca la corrente.»5 Una simile interpretazione riesce sì a situare le creazioni del duo nel solco degli esperimenti musicali di rottura compiuti dai futuristi (fino a Maurizio Kagel) o nelle liberazioni estatiche del free jazz dei primi anni Settanta, ma finisce col non cogliere l’universo sonoro di Möslang e Guhl nella sua specifica essenza di evento e nella sua struttura condensata; non sa apprezzarlo come contributo decisivo a una ricerca musicale fondamentale, con influssi non sottovalutabili sugli alchimisti sonori della generazione successiva. Le stesse qualità processuali, rotture e sovrapposizioni valgono anche per le opere artistiche del duo in campo visivo. Il presente saggio iconografico ne rende palese la coerenza concettuale, così come l’osservatore scorge direttamente le qualità sculturali delle loro installazioni nello spazio: accatastati in accumulazioni o fatti funzionare in serie, gli apparecchi elettronici «violati» riproducono strutture sonore di andamento generalmente indipendente. A partire dai tardi anni Ottanta sono nate così installazioni complesse – acustiche, luminose o video – come Wellenbad (Kunsthalle di San Gallo, 1989), Kiff that Habit – Crack that Code (Kunstraum di Aarau e Kunstmuseum di San Gallo, 1992), Loop 1 (Raum für aktuelle Kunst di Lucerna, 1995), Loop 2 (Kesselhaus di Hannover, 1995), Surfing Songbirds (Kunstraum di Kreuzlingen, 1995), Loop 3 (Swiss Institute di New York, 1996) e Speed Up (Kunstraum di Aarau, 1997). Esemplare in tal senso si può considerare la prima versione di Loop, che unifica momenti essenziali dell’attività acustica e installativa di Möslang e Guhl trasferendoli in una struttura chiaramente meditata, con una composizione spaziale ben precisa. Nel «loop» «Loop» significa «cappio», «giro completo», e in senso lato indica un processo che in un sistema chiuso riporti al punto di partenza; è anche un termine della tecnologia digitale per una serie ciclica di istruzioni al computer, mentre in campo musicale sta per una breve sequenza ricorrente. Queste varie accezioni sono già anticipate concettualmente, in un certo senso, dal piano generale e dalla struttura del lavoro realizzato per la prima volta da Möslang e Guhl, nel 1995, per il Raum für aktuelle Kunst di Lucerna. Quattro montanti lignei scandiscono il sobrio ambiente espositivo, delimitando un immaginario quadrilatero. Nella loro installazione gli artisti riprendono questo vistoso spunto architettonico fissando a varie altezze su ogni singolo montante, con apposite briglie, un registratore a bobine. Gli apparecchi sono collegati a un nastro che percorre o che taglia l’intero locale, sottolineando otticamente il riquadro architettonico e conferendo nello stesso tempo alla galleria un livello sghembo. Col suo nastro morbidamente svolazzante, però, l’impianto non resta solo percepibile come disegno tridimensionale o struttura plastico-spaziale, bensì serve anche a registrare segnali acustici. L’ingresso del visitatore fa scattare un sensore di movimento e quindi l’incisione in uno dei registratori; il rumore inciso è poi riprodotto, dopo un certo intervallo, dagli altri apparecchi. Il suono «gira» quindi da un montante all’altro, percorre un «loop» per poi tornare al punto di partenza ed essere riprodotto di nuovo; se i visitatori sono più di uno, le varie incisioni si succedono e compenetrano fino a dare un groviglio sonoro non più districabile. In un certo senso anche i visitatori di Loop partecipano all’esecuzione, perché è solo il loro movimento a mettere in moto l’installazione. I segnali acustici incisi, tuttavia, non sono rumori prodotti dal pubblico: l’apparecchio è predisposto per registrare solo il lieve fruscio prodotto dall’attrito del nastro durante l’incisione e poi trasmetterlo amplificato. L’«opera eseguita» è quindi il movimento interno del dispositivo: in un certo senso l’installazione acustica sceglie come suo tema sé stessa. Oltre a far «girare» letteralmente il suono nel locale, essa riflette a un metalivello la genesi di tale suono nel «loop» dell’autoriflessione artistica. Perturbazioni sonore e visive Che siano luminose, sonore o video, le installazioni di Möslang e Guhl funzionano tutte secondo gli stessi principi di base. Impulsi, comandi automatici, feedback o strutture casuali fanno scattare, in disposizioni di sistema chiaramente strutturate, processi che assumono un decorso spesso incontrollabile, con complesse sovrapposizioni negli esiti acustici e visivi; come in Loop, si ha un coinvolgimento mirato dell’osservatore nel dispositivo artistico, con scomparsa ricorrente della separazione fra produttore e fruitore dell’opera. Una volta messo in moto, l’universo tecnico dei macchinari si definisce in modo radicalmente nuovo: banali sound machines si trasformano in composizioni sculturali, comunissimi registratori diventano disegni nello spazio, minuscoli corpi luminosi cominciano a dare possenti rimbombi… I macchinari «violati» dai due artisti rivelano una forza arcaica disorientante quanto affascinante. Ma non solo la manipolazione, bensì anche la semplice presentazione dell’aspetto meccanico va intesa come gesto sottile di sovversione: dietro il lucido design di superficie della nostra realtà quotidiana, dietro lo sgargiante glamour colorato dell’apparenza mediale, le funzioni e sequenze nascoste finiscono per qualche momento fuori controllo oppure, molto semplicemente, sono messe a nudo. Nell’intera gamma delle installazioni di Möslang e Guhl (luminose, sonore o video), una cosa diventa evidente: queste creazioni non si orientano ai canoni tradizionali della prassi artistica ma si rifanno alle tradizioni dei movimenti di dissoluzione dei generi, dal futurismo al Fluxus degli anni Sessanta, unendole alla frenesia metropolitana della noise music come alle accumulazioni di materiali e agli environments dell’arte contemporanea. In tal modo il duo Möslang/Guhl si muove in una zona affascinante di confine tra sperimentazione acustica e arte figurativa: zona che ha anticipato di anni, radicalmente e senza compromessi, il «crossover» delle arti tanto predicato dalla party culture dell’ultimo decennio. 8 1, 2, 3 Vedi la nota 1 al contributo di Felix Klopotek [n.d.t.]. 4 L’espressione tedesca «guter Ton» (letteralmente «suono buono») ricalca perfettamente «bon ton», quindi sta anche per «buone maniere» [n.d.t.]. 5 Ralph Hug, «Die Geräuschkunst von Möslang und Guhl», in BodenseeHefte, n° 4/1990, p. 39. L’UNA COSA NELL’ALTRA Trovare i Voice Crack dove pare che non siano Felix Klopotek 1. In campo musicale (e in generale artistico) si ricorre spesso al concetto di «sconfinamento»: ogniqualvolta in una musica si delinea qualcosa che prima non rientrava in quella musica o in quel genere musicale ma in una musica diversa, o addirittura in un’altra disciplina artistica, si dice che supera i confini. Il termine è problematico, d’altronde, perché evidenzia la barriera e rischia di stilizzare il processo del suo superamento. In altre parole, crea associazioni con concetti di fatto positivi (audacia, spirito d’avventura, coraggio), quando invece si pone un quesito: sconfinare è davvero necessario? La musica che urge superare, cioè, in fondo non basta a sé stessa? Sconfinando non si adotta il connotato militaresco della «presa di possesso»? E alla fine non si torna a ottenere un lavoro imperfetto, nel senso di affiancare semplicemente due territori musicali (o di inglobarne rudemente uno nell’altro), ma senza una totalità dell’attività musicale che ne penetri in modo uniforme tutti gli aspetti? Il punto è che una buona musica non ha bisogno di sconfinare, perché col suo alto livello di complessità interna – o possiamo dire di compattezza – non solo ingloba ma anche genera altre realtà musicali: determinante non è il processo del superamento bensì una percezione differenziata. Se davvero si può parlare di sconfinamento come di concetto positivo, lo si può fare nella misura in cui la buona musica si supera da sé: prende spunto da ciò che è diverso, infatti, per mettersi in discussione, invece semplicemente di appiattirsi e farsi inconsistente. Del collettivo svizzero Voice Crack, formato da Andy Guhl e Norbert Möslang, si dice piuttosto spesso che «sconfina»; quella che fa, però, è soprattutto buona musica. 2. La contraddizione è palese. Vista la prassi attuale del gruppo, l’idea di dire che supera i confini verrebbe naturale: oggetti quotidiani come apparecchi radio e bambole Barbie, giochi elettronici a basso prezzo e telecomandi, insomma innumerevoli gadget del mondo oggettuale profano, vengono sfruttati in forma non canonica, costretti a emettere suoni che in quei congegni insignificanti e apparentemente innocui nessuno avrebbe immaginato. Il duo stesso afferma di «violare il codice» di simili oggetti, chiama il proprio corredo di strumenti «elettronica quotidiana violata»1; verrebbe quindi spontaneo ritenere che ne renda riconoscibile la dimensione di errore. Ma sarebbe riduttivo, perché qui si tratta di una concezione diversa del rapporto con la macchina, si tratta di mostrare una nuova dimensione operativa: dimensione che comprende sì anche l’impiego di fonti d’errore, ma non si ferma solo lì. Questo, allora, il pensiero che si affaccia: quando un gruppo, 9 per fare musica, utilizza oggetti che con la musica non hanno alcun legame bensì appartengono a una sfera sociale diversa, se il suo non è sconfinamento… che cos’è? Per la musica dei Voice Crack ha più senso parlare di immanenza che si autotrascende. Gli inizi del duo risalgono al 1972, quando la loro arte rientra ancora nel contesto della Musica improvvisata europea; Möslang suona strumenti a fiato in legno, Guhl il contrabbasso. A quei tempi la Musica improvvisata è giovane, si è appena lasciata alle spalle il free jazz, si colloca fuori della Nuova musica (che, benché radicale, rimane accademica). In quella Musica improvvisata ancora ai primi passi, i due giovani artisti riescono a trovare il loro posto solo con la scelta autonoma di ampliare il proprio strumentario (e quindi abbandonare consapevolmente il terreno del «virtuosismo»): un ampliamento nell’ottica dell’improvvisazione, della sua noncuranza per la canonizzazione. Quando cominciano a sperimentare con oggetti da cucina o fanno prime scoperte nel campo dell’elettronica, il loro è un passo coerente ma anche di rottura rispetto a ciò che suonavano prima. In altri termini, la rottura (anche con la propria convenzione) è insita nella Musica improvvisata; nessun gruppo chiarirà tale fatto nella misura dei Voice Crack. Nel 1977 il duo si presenta a Total Music, festival organizzato dalla Free Music Production di Berlino; spezzoni delle esibizioni compaiono nel suo primo LP Deep Voices (riversato nel 1996 su CD dalla Urthonia, piccola casa discografica di Colonia). Möslang suona ancora soprattutto il sax soprano e il clarinetto basso, Guhl il contrabbasso; nell’elenco degli strumenti, però, compaiono già le voci «home made instruments» e «tape recorder». Da poco tempo i due artisti hanno scoperto che premendo insieme su un registratore a cassetta i tasti d’incisione, di ascolto e di riavvolgimento si ottengono strani feedback automatici, utilizzabili, grazie al microfono incorporato, anche come livello finale. Il secondo LP, inciso nel 1982, si chiama già Knack On; gli strumenti regolari sono ormai quasi scomparsi, sostituiti da «lamiera d’acciaio per molle, canne in PVC, Luftibuss2, apparecchi radio, materiale elettronico di scarto, tubo-clarinetto, dittafono». Risale al 1983 la decisione di lavorare unicamente con «elettronica quotidiana violata»; il primo concerto del genere, tenuto il 23 marzo 1984, è documentato da un altro LP con il titolo Voice Crack. La drammaturgia di quell’esibizione è impostata in modo tale che alla fine gli strumenti si suonano da soli, cioè si inseriscono o si comandano a vicenda, rendendo così inutile un intervento «esterno». Möslang e Guhl non rompono solo con lo strumentario tradizionale ma anche con un modo di suonare tradizionale (sia pure radicale, come nel caso della Musica improvvisata); la «Voice Crack action» termina quando i musicisti staccano la corrente agli strumenti. Nel 1986, quando nella sua tournée americana il duo è chiamato per errore «Voice Crack», scatta immediata la decisione di trasferire il titolo del disco al gruppo stesso. Seguono molti lavori in comune con altri musicisti, come il trio newyorkese di free noise Borbetomagus, il percussionista Knut Remond, il produttore e multistrumentista Jim O’Rourke o improvvisatori di grido quali Günter Müller, Otomo Yoshihide, Lionel Marchetti, Jérôme Noetinger, Tom Cora e Butch Morris. Questa dialettica fra conti- nuità e rottura diventa visibile anche direttamente nel confronto con il materiale, perché gli oggetti quotidiani restano, beninteso, oggetti familiari: il telecomando resta un telecomando, ma i suoni che suscita non hanno più nulla da spartire con il suo significato originario. Anche qui esiste un nesso fra immanenza e trascendenza: se il telecomando può svolgere anche funzioni del tutto diverse, ciò dipende dalle possibilità insite nell’apparecchio stesso. Superamento di confini? Si tratta piuttosto di uno scandagliare campi da tempo liquidati come noti e banali. L’«elettronica quotidiana violata» ridefinisce, fra l’altro, anche il concetto di «strumenti regolari»: Möslang e Guhl utilizzano il proprio strumentario in tutta naturalezza, con effetti tanto più sorprendenti e quindi spettacolari. Invece che di sconfinamento, meglio sarebbe parlare di infiltrazione e sovversione; ma neppure ciò riflette in modo adeguato la totalità della loro arte, perché quest’ultima non ha veri agganci iniziali da cui cominciare a infiltrarsi. Occorre pensare a un campo di riferimento poliedrico, in cui ad esempio la provenienza dalla musica improvvisata trovi posto accanto alla fisica e al materialismo pratico, senza che le differenze siano livellate. Sentiamo Norbert Möslang: «La vita intera consiste di vibrazioni, che coinvolgono tutti con determinate risonanze: onde luminose, onde sonore, microonde… In tale contesto si può cominciare a combinare e, per esempio, a utilizzare un apparecchio radio come corpo di risonanza per le onde di un telecomando. Se la cosa non funziona, occorre solo spostare le frequenze e cercare i punti di risposta fino al clic.» Gli fa eco Andy Guhl: «La fisica è una componente della nostra musica. In molti processi da noi prodotti acusticamente possiamo anche farci un’idea del funzionamento a livello elettronico: oggi operiamo con spazi di risonanza in campo elettronico proprio come facevamo prima con spazi di risonanza in quello acustico. Un’altra parte importante del modo di suonare è il coinvolgimento del nostro corpo, in quanto massa, nel rapporto con lo strumento elettronico: il corpo forma un’ombra sul set di strumenti, per esempio, e lavorando con fotoconduttori possiamo sfruttare anche l’incidenza della luce.» 3. I Voice Crack fanno musica sperimentale, ma il problema è che «sperimentale» è un’espressione della sfera scientifica, non di quella estetica: per esperimento si intende un tentativo, mentre l’arte è progetto, è azione, è processo, cioè il contrario di un tentativo. Il duo ha spinto il proprio iter artistico-musicale fino a un punto in cui entra in gioco la «fisica», in cui l’estetico abbandona la sfera estetica ma senza ribaltarsi nel suo opposto. Ricerca, scoperta, ampliamento, modifica e infine deformazione vanno a braccetto; è logico che Möslang e Guhl lasciassero la sfera della musica «pura», e segnatamente nel momento in cui ampliavano lo strumentario e in varie installazioni si accostavano all’arte figurativa. È logico che si tratti di un processo non isolabile ma sempre riferito all’oggetto, così come non può esserci un’installazione «tipica» dei Voice Crack, perché ognuna si riferisce a una combinazione specifica della triade spazio/oggetto/ambiente. È anche logico che si creino continui feedback, che entri in scena il principio del confronto con contemporanea estraniazione. Qualche anno fa il duo ha proiettato un remix della pellicola Il dottor Mabuse, opera del regista zurighese Peter Liechti, sopra materiale elettronico dotato di fotosensori; il film si è sonorizzato da solo. Per la loro installazione veneziana sound_shifting, Möslang e Guhl abbinano al Canal Grande (acqua, movimento, dinamica) la chiesa di San Stae (storia manifestata, costruita per l’eternità). Mediatore sonoro fra i mondi è un idrofono, microfono subacqueo che trasforma le differenze di pressione dell’acqua in differenze di tensione e poi, mediante una membrana, in oscillazioni dell’aria; l’intervento dei musicisti si limita alla possibilità di sottolineare particolarmente per un certo periodo, grazie a un equalizzatore, determinate frequenze. Anche qui si tratta di realizzare un evento («sound nell’acqua», il Canal Grande come filtro gigantesco dei suoni cittadini) in un contesto diverso (l’interno della chiesa). Anche il lavoro più recente dei due artisti mostra la logica dei loro sforzi estetici: è improvvisato o sembra tale (perché fa a meno di una partitura ed è interamente orientato al momento), ma nello stesso tempo è composto (perché i parametri sono fissati). Un esperimento, ma già riuscito; qual è, allora, il confine superato? Chi lo supera, e in quale direzione? 1 «Violare» e «violata» sono scelte traduttive di ripiego per termini ben più polisemici. Geknackt («spezzato, schiacciato», detto ad esempio di una noce) deriva da uno Knack(s) che può esprimere soprattutto «scricchiolio» (di legno, denti, vetro ecc.) e quindi «colpo acustico» (clic di apparecchiature telefoniche, radiofoniche ecc.), sia spontaneo sia – come nel disco del 1982 Knack On – provocato o cercato; il verbo knacken si usa però, fra l’altro, anche nel senso di «scassinare» o «aprire a forza» e quindi, ad esempio per un codice, di «decifrare». In gran parte la stessa ambiguità semantica si ritrova, ancor più accentuata, nell’inglese (to) crack; di qui, per esempio, il sottile legame fra Crack that Code (installazione del 1992) e la denominazione del disco (poi del gruppo stesso) Voice Crack (1984), particolarmente azzeccata anche per l’ulteriore polisemia di contatto creata da voice. Il discorso, peraltro, è più complesso [n.d.t.]. 2 Termine che richiama il mezzo di vibrazione Luft (aria) ma soprattutto la figura del Luftikus (persona leggera, sventata) [n.d.t.]. CANALE VISUALE Norbert Möslang/Andy Guhl à la 49 e Biennale de Venise Konrad Bitterli Un flux d’images numériques Attention, flous trompeurs! L’image pixel, de format oblong, est rythmée de bandes horizontales de couleurs bleue et verte de différents degrés de luminosité évoquant une ordonnance nébuleuse et diffuse que vient brutalement rompre un champ beige pâle dans le bord gauche, tandis que juste à côté les reflets de douces clartés atténuent encore délicatement l’empreinte de la couleur. Et partout cependant des soupçons de lambeaux d’une réalité finement voilée – coupure, image suivante. Le corps beige sur la gauche semble gagner du terrain, le foncé de son ombre décroître et croître le flou. A gauche, un carré blanc surgit du bleu qui défile, comme pour localiser à nouveau le flux des images: 10