un viaggio della memoria

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un viaggio della memoria
Compito autentico 2°quadrimestre 3 A e 3 B
UN VIAGGIO
DELLA MEMORIA
Le classi 3 A e 3 B di Sarnano sui luoghi della Grande
Guerra, nell’anno del centenario della partecipazione
italiana (24 MAGGIO 1915 - 24 MAGGIO 2015)
INTRODUZIONE
La guerra nasce sempre dal volere qualcosa. Si può volere attenzione, libertà, la
propria dignità. Ma la cosa peggiore è quando si vogliono territori, quando si vuole
potenza. Allora, quando è così, i soldati vengono usati come burattini, e se uno muore
lo rimpiazza un altro: l’unico obiettivo è distruggere il nemico, non è permessa la
pietà.
Il coraggio non è sempre con i soldati, i soldati hanno paura: paura di non riveder le
famiglie, paura di morire. Il fango diventa la loro casa, le armi loro amiche. Il cielo è
sempre grigio, ceneri, fumo e veleni mortali. Per tutti quei coraggiosi guerrieri era
tristezza nell’animo, anche se il duro addestramento la nascondeva assai bene.
E per sempre noi ci sforzeremo di non dimenticare quelle vite perdute sul filo spinato.
Valentina Frunza (3B)
CAPITOLO 1
ASIAGO
La partenza
Sono partiti all’alba, alle cinque, prima i ragazzi di Monte San Martino, poi quelli di
Penna San Giovanni e infine, verso le sei, i ragazzi di Gualdo e Sarnano. Alle otto e
un quarto ci siamo fermati a Rimini per colazione, poi abbiamo proseguito diretti per
Asiago, dove abbiamo pranzato all’interno di un parco fra i boschi vicino al
palazzetto del ghiaccio, dove abbiamo avuto la fortuna di vedere gli allenamenti, che
sono veramente spettacolari. Dopo pranzo ci siamo diretti verso il suggestivo Viale
degli Eroi, che collega il grande sacrario al centro della città. Questo viale al termine
ha un grande arco, in stile romano, alto 47 metri.
Il sacrario venne individuato sul colle di Leiten (il Sacrario è conosciuto anche con
questo nome), collegato al centro città dal monumentale suggestivo Viale degli
Eroi a cui lati sorgono dei grandi cipressi. Il progetto fu dell'architetto veneziano
Orfeo Rossato che disegnò un unico e gigantesco blocco di cemento e marmo della
zona (di 1600 metri quadrati) sormontato da un grande arco, in stile romano, alto
47 metri. I lavori terminarono nel 1938 ed il Sacrario di Asiago venne inaugurato con
grandi celebrazioni alla presenza dello stesso Re Vittorio Emanuele III.
Qui sono state traslate 54.286 salme provenienti dai cimiteri di guerra della zona:
34.286 sono italiane (di cui 21.491 ignoti) mentre le restanti 20.000 sono austroungariche (11.762 senza nome). I resti di questi soldati sono ospitati lungo le pareti
della gallerie all'interno del grande blocco del Sacrario: quelli identificati sono in
ordine alfabetico mentre quelli per cui non è stato possibile effettuare il
riconoscimento si trovano all'interno di due grandi tombe comuni ai lati della cripta.
Il blocco quadrato è completato da una cappella mentre, nei pressi dell'entrata alla
cripta, è possibile accedere anche al piccolo museo del Sacrario. È possibile visitare
due sezioni in cui sono esposti diversi cimeli e materiale ritrovato sull'Altopiano di
Asiago. La prima è dedicata al biennio 1915-1916 mentre la seconda al periodo
1917-1918. Il pezzo più emozionante è, probabilmente, una lettera di un giovane
soldato alla vigilia della Battaglia dell'Ortigara, rinvenuta addirittura negli anni '50.
Ad un certo punto ci hanno fatto entrare in una stanza dove abbiamo assistito alla
proiezione di un documentario sulla guerra, e un tenente colonnello ci ha illustrato il
piccolo museo del sacrario; poi abbiamo aspettato il custode e abbiamo visitato il
museo della grande guerra di Canove, che raccoglie oltre 1000 fotografie
.
Asiago fu uno dei luoghi più simbolici della Grande Guerra. Investita alla fine di
maggio del 1916 dall'avanzata austro-ungarica, venne gravemente danneggiata ed
occupata dalle truppe asburgiche che la saccheggiarono assieme al vicino abitato di
Arsiero. Venne riscostruita alla fine del conflitto e fu scelta, durante il regime
fascista, per ospitare uno dei più grandi sacrari militari italiani dedicati alla Grande
Guerra.
IL DISEGNO QUI SOPRA È DI COMPAGNUCCI (3B)
Con il generico nome di Melette viene indicata una serie di rilievi montuosi situati
nella parte settentrionale dello altipiano che comprende i monti Fior, Spil, Miela,
Castelgomberto, Meletta, Tondarecar. La zona delle Melette fu al centro di due
battaglie cosiddette di arresto: la prima, conseguenza della Strafxpedition austriaca,
fu combattuta nel giugno 1916 e la seconda, dopo lo sfondamento di Caporetto, nel
novembre dicembre 1917.
La cosiddetta Strafexpedition è la spedizione punitiva, condotta dagli austriacotedeschi per punire gli italiani del loro tradimento (essere cioè passati dalla triplice
alleanza alla triplice intesa: quello che Von Bulow definì i giri di valzer dell’Italia).
Siamo nel maggio 1916. Le prime ore della Strafexpedition ebbero un notevole
successo per gli austro-ungarici; sul fronte di 20 chilometri ad ovest dell’altopiano di
asiago l’avanzata fu inarrestabile. Il monte Zugna, il col santo, il monte maggio, il
monte Tornaro a sud di Folgaria caddero in pochi giorni sotto il controllo austriaco;
cinque giorni dopo gli austriaci del generale Conrad si spostarono ad est e tra il 20 ed
il 25 maggio gli austriaci ebbero via libera verso l’altopiano di Asiago. Il paese di
Asiago cadde tra il 27 e il 28 maggio.
In tutta fretta gli italiani costituiscono la
quinta armata formata da tutti i reparti disponibili sul fronte dell’Isonzo e dalle unità
che il ministro degli esteri Sidney Sonnino aveva inviato all’inizio della guerra in
Albania. Il 1 giugno, nonostante la resistenza italiana, gli austriaci raggiungono
l’estremità meridionale dell’altopiano di Asiago, attestandosi su di una linea segnata
dall’altopiano di Asiago e dal monte Pasubio. Fortunatamente per gli italiani, però,
l’esercito asburgico interruppe in quel momento cruciale l’avanzata per mancanza di
uomini, munizioni e forze. La contemporanea azione sul fronte orientale della Russia
decretò la fine pratica della Strafexpedition, terminata ufficialmente il 16 giugno
1916.
La gita non ha previsto un visita del monte Pasubio, però occorrerà almeno ricordare
alcune cose. Il Pasubio diventa zona di guerra sin da subito, ma nessuno poteva
presagire che lassù migliaia di combattenti si sarebbero trovati impegnati per anni
interi in durissimi combattimenti. La zona storicamente più importante del Pasubio,
dal 1922 è stata dichiarata zona monumentale. È delimitata da 30 cippi che ricordano
i reparti che maggiormente si distinsero negli accaniti combattimenti e comprende il
dente italiano, la cima Palon e la vetta immediatamente a sud di detta cima. La più
famosa via d’accesso al Pasubio è rappresentata dalla strada del 52 gallerie, una
mulattiera che permetteva all’esercito italiano il collegamento fra la base del monte e
la zona alta al riparo dal tiro nemico. Ma un’altra importantissima opera bellica del
Pasubio è costituita dal sistema sotterraneo dei due denti. Si tratta di due speroni
rocciosi che superano i 2200 metri, sul crinale principale, posti l’uno di fronte
all’altro, divisi da una selletta. Dopo le prime fasi del conflitto il dente meridionale fu
fortificato dagli italiani (dente italiano) e quello settentrionale dagli austriaci (dente
austriaco).
In particolare nella seconda fase del conflitto, in corrispondenza dell’inverno 19171918, furono teatro di una guerra parallela denominata guerra sotterranea o guerra
delle mine, in quanto da ambo le parti vi era il progetto di arrivare a far saltare con
l’esplosivo le postazioni nemiche. Il dente italiano è collegato alla retrostante cima
Palon dalla galleria Papa. La guerra delle mine fu caratterizzata da numerosi scoppi e
alterne vicende fino alla grande mina austriaca del 13 marzo 1918, quando 50 mila
chilogrammi di esplosivo squarciarono l’avamposto del dente italiano.
IL DISEGNO QUI SOPRA È DI GABRIELE PISU
Da ricordare infine che dal 10 giugno al 29 giugno fu combattuta la battaglia del
Monte Ortigara, scatenata dagli italiani con l’obiettivo di riconquistare le vaste
porzioni di territorio perse sull’Altopiano di Asiago durante la Strafexpedition
austroungarica del 1916. Nonostante l’altissimo sacrificio di vite, l’offensiva andò
incontro ad un sostanziale fallimento.
CAPITOLO 2
TRIESTE
Stamattina le prof sono passate alle sei e quaranta per il buongiorno….Alle nove e
mezza ci siamo incontrati con la guida al Castello di Miramare, una costruzione
antica, bellissima e circondata dal mare. Sarà l’inverno, o forse perché l’acqua è così
limpida, ma quel posto ci è sembrato davvero un incanto. Abbiamo pranzato in un
ristorante a Trieste e subito dopo siamo andati alla Risiera di San Sabba, l’unico
esempio di lager nazista in Italia. Ci sono rimaste 17 celle di detenzione e una cella
della morte. Poi con la guida abbiamo visitato due chiese importanti di Trieste, una
cattolica e l’altra ortodossa. Dalle 17 in poi abbiamo avuto un po’ di tempo per noi,
per le compere e per lo svago. Siamo tornati all’albergo un po’ prima per farci la
doccia e preparare le valigie, visto che era l’ultima notte. Dopo cena siamo andati
verso il centro di Grado da dove si vede il mare. E anche questa giornata è finita:
iniziata con la guida di 89 anni e finita con “un…due...tre stella”.
Per capire il fascino misterioso della città di Trieste bisogna ripercorrerne la storia.
Nel corso della feroce contrapposizione tra Italia e Jugoslavia nella seconda guerra
mondiale, Tito aveva occupato la penisola istriana e rivendicava Trieste.
Nella convinzione che al momento delle spartizioni, si sarebbe seguito il principio di
contare il numero degli italiani e degli slavi presenti, assegnando la città alla
popolazione più consistente, Tito ordinò stragi di italiani nella primavere estate del
‘45 a Trieste, Gorizia e in molti centri dell’Istria (le Foibe).
A ciò si collega anche l’esodo di circa 200.000 italiani dalla Venezia Giulia e dalla
Dalmazia.
Alla fine del 1946 fu data una sistemazione provvisoria a quella area infuocata, e
l’Istria fu lasciata alla Jugoslavia (tranne una striscia comprendente Trieste e
Capodistria (Territorio libero di Trieste).
Questo territorio libero di Trieste viene diviso in due: una zona A assegnata agli
alleati ed una zona A assegnata alla Jugoslavia: nell’ottobre del 1954 si procede alla
spartizione: la zona B alla Jugoslavia e la zona A (compresa Trieste) all’Italia.
Ma il reciproco riconoscimento di sovranità arrivò solo nel 1975 (trattato di Osimo).
IL CASTELLO DI MIRAMARE
Il castello di Miramare fu una residenza della corte Asburgica: il complesso venne
costruito nell'omonima frazione di Trieste per volere di Massimiliano d'AsburgoLorena, arciduca d'Austria e imperatore del Messico, per farne la propria dimora da
condividere
con
la
moglie Carlotta
del
Belgio
MENTRE A MASSIMILIANO spettò il titolo di Principe Imperiale e Arciduca
d'Austria, Principe Reale di Ungheria e Boemia, suo fratello Francesco
Giuseppe divenne imperatore d'Austria.
Dotato di particolare intelligenza, mostrò particolare propensione per le arti e un
fervente interesse per le scienze, e segnatamente per la botanica.
Il castello è circondato da un grande parco di circa 22 ettari caratterizzato da una
grande varietà di piante, molte delle quali scelte dallo stesso arciduca durante i suoi
viaggi attorno al mondo, che compì come ammiraglio della marina militare austriaca.
Nel parco si trova anche il castelletto, un edificio di dimensioni minori che funse da
residenza per i due sposi durante la costruzione del castello stesso, ma che divenne di
fatto una prigione per Carlotta, quando perse la ragione dopo l'uccisione del marito
in Messico.
All'interno, il castello è suddiviso in numerose stanze. Il piano terra era destinato a
residenza dell'Imperatore Massimiliano I e della consorte Carlotta, mentre quello
superiore venne in periodo successivo adibito a residenza del Duca Amedeo d'Aosta,
che vi abitò per circa sette anni e modificò alcune stanze secondo lo stile dell'epoca.
Furono rimosse le insegne Imperial-Regie e sostituite con croci sabaude.
Questo castello è risultato funesto per chi vi ha abitato: Massimiliano d'Asburgo partì
per cingere la corona imperiale del Messico e vi morì, Amedeo partì per l'Impero
d'Etiopia di cui fu viceré e morì in prigionia.
La prima idea di costruire un castello sul promontorio vicino alla baia
di Grignano venne a Massimiliano nel 1855. Occorreva bonificare la zona, ma
l'ampio spazio a disposizione avrebbe costituito per il fratello dell'imperatore il luogo
ideale dove dare libero sfogo alla propria passione per la botanica, creando un
giardino in cui l'arciduca farà poi confluire le numerose piante rare importate
oltreoceano.
I lavori cominciarono il 1º marzo 1856, e il progetto fu affidato
all'architetto viennese Carl Junker. Il primo disegno non convinse Massimiliano, che
ne chiese uno alternativo a Giovanni Berlam, rimanendone soddisfatto. Fu tuttavia il
secondo progetto di Junker a divenire quello definitivo. Con la decadenza dalla
carica di governatore del Lombardo-Veneto, nel 1859, Massimiliano si trasferì
con Carlotta a Miramare, alloggiando dapprima nel castelletto e, a partire dal Natale
del 1860, nell'edificio principale.
In considerazioni degli indubbi meriti guadagnati come governatore del LombardoVeneto e dell'evidente disagio maturato con il fratello imperatore, Massimiliano
parve il candidato ideale alla instaurazione di una monarchia moderata NEL
MESSICO
Accettò la corona nel 1863. Francesco Giuseppe si vendicò,
imponendogli (ne venne a conoscenza solo poco prima della partenza) la perdita di
tutti i titoli che a lui competevano presso la casa regnante austriaca.
Salpò per il Messico assieme alla moglie dal castello di Miramare il 14 aprile 1864 a
bordo del Novara.
La stessa nave
ne riporterà indietro la salma quattro anni più tardi. Carlotta
riguadagnò Trieste nel 1866, ma il consorte fu fucilato a Querétaro nel giugno
successivo.
Carlotta cominciò a dare segni di insanità mentale e fu fatta rinchiudere nel
castelletto. Poco dopo tornerà nel natìo Belgio.
L'interno fu intanto completato. Gli appartamenti della coppia, neogotici e
neomedievali, furono terminati nel 1860, mentre il completamento della zona di
rappresentanza, dieci anni più tardi, determinò la fine dei lavori. [5]
Miramar
di Giosuè Carducci
O Miramare, a le tue bianche torri
attediate per lo ciel piovorno
fósche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastion di scogli
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d'aprile, quando usciva il biondo
imperatore, con la bella donna,
a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l'impero: l'occhio
de la sua donna cerulo e superbo
iva su 'l mare.
Addio, castello pe' felici giorni
nido d'amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
aura gli sposi. (…)
La Risiera di San Sabba
Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel
1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore
nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8
settembre 1943 (Stalag 339). Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come
Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei
deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione
ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato
“cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati
in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo
testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla
cremazione.
Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani
in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i
prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in
ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate
particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza
di giorni, talora settimane.
Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato
ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità,
sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro
coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono
nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono
attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le
pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte:
l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva
trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la
polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire
graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista
Diego de Henriquez (ora conservati dal Civico Museo di guerra per la pace a lui
intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel
percorso della mostra storica.
Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli
ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania:
uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a
Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno
potuto evitare.
A favore di cittadini imprigionati nella Risiera – ed in particolare dei cosiddetti
“misti” (ebrei coniugati con cattolici) – intervenne direttamente presso le autorità
germaniche il vescovo di Trieste, mons. Santin, in alcuni casi con successo
(liberazione di Giani Stuparich e famiglia), ma in altri senza alcun esito (Pia Rimini).
Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla
piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora
visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio.
L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale
sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla
ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà
costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal
camino.
Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio – marzo 1944, dell’impianto del preesistente
essiccatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un
numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto dell’”esperto” Erwin Lambert, che
già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia.
Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di
settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina.
L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la
dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le
prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro
abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi
di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la
cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo
(l’originale è stato purtroppo trafugato nel 1981).
Sul tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate:
gassazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o
fucilazione. Non sempre la mazzata uccideva subito, per cui il forno ingoiò anche
persone ancora vive. Fragore di motori, latrati di cani appositamente aizzati, musiche,
coprivano
le
grida
ed
i
rumori
delle
esecuzioni.
Il fabbricato centrale, di sei piani, fungeva da caserma: camerate per i militari SS
germanici, ucraini e italiani (questi ultimi impiegati in Risiera per funzioni di
sorveglianza) nei piani superiori, cucine e mensa al piano inferiore, ora adattato a
Museo.
L’edificio oggi adibito al culto, senza differenziazione di credo religioso, al tempo
dell’occupazione serviva da autorimessa per i mezzi delle SS colà di stanza. Qui
stazionavano anche i neri furgoni, con lo scarico collegato all’interno, usati
probabilmente per la gassazione delle vittime.
All’esterno, a sinistra, il piccolo edificio – ora adibito ad abitazione del custode –
costituiva il corpo di guardia e abitazione del comandante. A destra, nella zona
attualmente sistemata a verde, esisteva un edificio a tre piani con uffici, alloggi per
sottufficiali e per le donne ucraine.
Quante sono state le vittime?
Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le
cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i
prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lagero al lavoro
obbligatorio.
Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera
alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo.
LA CELLA DELLA MORTE
Lì, tutti avevamo dimenticato la parola pace
non ci ricordavamo cosa fosse la libertà,
conoscevamo solo gli angoli della cella
dove stavamo in sei.
Quella cella aveva segnato il nostro destino
aveva fatto perdere la luce dei nostri occhi,
avevamo scoperto come si soffre,
avevamo capito cosa significasse vedere la morte.
Una morte lenta
che ci faceva ricordare la nostra famiglia,
ci riportava in mente i nostri ricordi
quelli belli e quelli orrendi.
Lì, c’era la polvere
che copriva gli angoli,
copriva il pavimento
e solo il nostro sangue lo lavava.
ricordo quelle lettere scritte da noi,
l’inchiostro scriveva la verità,
una verità amara e violenta
che ci costava la vita.
lì, le nostre labbra non si muovevano,
ma vibravano dal freddo, dalla paura.
nella Risiera di san Sabba soffia ancora il vento
che fa viaggiare la nostra ultima parola: Addio!
Hanita Memedaj (3B)
Terzo capitolo
San Martino del Carso. Isonzo. Redipuglia.
Ungaretti. La Canzone del Piave
Il terzo giorno di gita siamo arrivati a San Martino del Carso, dove abbiamo visitato
delle grotte scavate durante la guerra e la trincea delle frasche. La passeggiata a San
Michele e la visita alle trincee ci ha fatto veramente riflettere su quello che è
accaduto, perchè abbiamo visto con i nostri occhi dove quei poveri ragazzi erano
costretti a vivere, a trascorrere le loro giornate con il freddo, la neve e la paura di
prendersi qualche pallottola dal nemico, anche lui rintanato in una trincea come la
sua.
La giornata si è conclusa con una visita al sacrario di Redipuglia. (vallesi)
Il fronte sul fiume Isonzo
Le battaglie più dure e cruente dei primi anni di guerra avvennero sul fronte
dell'Isonzo. Assai meno esteso di quello alpino, assunse fin dall'inizio grande
importanza strategica nei piani italiani: sulle sue rive fu riversata la maggior parte
delle risorse militari, nel tentativo di sfondare le difese austro-ungariche e aprirsi la
strada verso il cuore dell'Austria mediante l'urto della 2ª Armata del generale Pietro
Frugoni e della 3ª Armata del duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Dalla conca
di Plezzo al monte Sabotino, che domina le basse colline davanti a Gorizia, l'Isonzo
scorre tra due ripidi versanti montani, costituendo un ostacolo quasi invalicabile; così,
le linee trincerate dei due eserciti dovettero adattarsi all'orografia e alle caratteristiche
del campo di battaglia[33].
Gli austro-ungarici, abbandonata la vallata di Caporetto, fronteggiarono i reparti
italiani su una linea quasi ovunque dominante, che partiva dal monte Rombon,
passava per il campo trincerato di Tolmino per poi collegare il ripido versante destro
del fiume con quello sinistro, in corrispondenza con le trincee del monte Sabotino.
Dal Sabotino le trincee austro-ungariche difendevano la città di Gorizia, fino a
oltrepassare nuovamente l'Isonzo, per innestarsi sulle quattro cime del massiccio del
San Michele e proseguire infine fino al mare lungo il primo ciglione del Carso,
passando per San Martino del Carso, monte Sei Busi, Doberdò del Lago, i monti
Debeli e Cosich[33].
Invasa già all'inizio del conflitto l'ampia area pedecarsica e occupate Gradisca
d'Isonzo e Monfalcone, le truppe italiane si attestarono a poca distanza dalle posizioni
austro-ungariche. Da una parte e dall'altra del fronte, l'ampio e complesso sistema
logistico dei due eserciti occupava molto in profondità il territorio: monopolizzava le
vie di comunicazione, occupava campi, boschi, città e paesi; s'impiantavano comandi,
presidi militari, magazzini, depositi, ospedali e cannoni. Entrambi gli eserciti
provvidero a evacuare la maggioranza dei civili dalle aree a ridosso della linea del
fronte. Dalla parte austro-ungarica l'esodo riguardò in particolare Gorizia, l'Istria e le
aree del Carso e delCollio, i cui abitanti vennero sfollati in grandi campi profughi.
Nei territori occupati dall'esercito italiano furono internati per precauzione molti
parroci e autorità austro-ungariche, mentre le popolazioni dei paesi prossimi alla zona
delle operazioni furono trasferite in varie località del Regno, in particolare città e
sperduti paesi dell'Italia meridionale [33].
L'altopiano del Carso era un pessimo luogo dove condurre una guerra di posizione:
scavare trincee e camminamenti senza disporre di perforatrici meccaniche si rivelò
quasi impossibile, visto che sotto un leggero strato di terriccio si trovava della dura
roccia calcarea, e il terreno in generale non favoriva dei movimenti rapidi delle
truppe. Le esplosioni dei proiettili di artiglieria scagliavano in lungo e largo
frammenti di roccia che si sommavano all'effetto mortale degli shrapnel[34].
Le prime spallate sull'Isonzo
Solo alla fine di giugno la mobilitazione italiana poté dirsi completata e l'esercito
pronto a muoversi, con circa un milione di uomini ammassati tra Friuli e Veneto[42]. Il
23 giugno Cadorna scatenò la prima delle sue "spallate" contro il fronte nemico lungo
l'Isonzo, proseguita poi fino al 7 luglio: davanti Plava gli italiani attaccarono per otto
volte il picco dominante di Quota 383 senza ottenere praticamente alcun risultato,
mentre un assalto il 1º luglio contro il Mrzli naufragò lungo i declivi con pendenza
del 40% resi fangosi da improvvisi temporali estivi; sul Carso, dopo violenti
combattimenti, la prima linea austro-ungarica cedette sotto i colpi dell'artiglieria
italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia e sopra Sagrado, consentendo agli
attaccanti di portarsi sotto i picchi del monte San Michele e del monte Sei Busi che
finirono con il rappresentare un saliente saldamente tenuto dagli austro-ungarici. In
generale l'attacco italiano non approdò a niente: benché le difese austro-ungariche
fossero ancora relativamente improvvisate a causa della difficoltà di scavare trincee
sul terreno del Carso, gli italiani dimostrarono notevoli difficoltà a superare gli
sbarramenti di filo spinato protetti dalle mitragliatrici[43].
Dopo aver ammassato un maggior quantitativo di artiglieria, Cadorna tentò una
nuova offensiva il 18 luglio: l'azione si concentrò sul San Michele, e gli attacchi
costrinsero gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia di metri
sull'altipiano di Doberdò del Lago e davanti al villaggio di San Martino del Carso[44];
sui due lati del saliente, invece, gli attacchi italiani contro il monte Cosich a sud e
contro il Podgora e il Sabotino a nord davanti Gorizia non portarono che a forti
perdite e guadagni territoriali insignificanti. Sull'alto Isonzo la 2ª Armata iniziò una
serie di assalti nel settore Monte Nero-Mrzli nel tentativo di distrarre gli austroungarici dal San Michele, ma il poco terreno guadagnato fu in gran parte perduto in
contrattacchi dei difensori[45]. Le batterie italiane iniziarono presto a scarseggiare di
munizioni e questo indusse Cadorna a sospendere gli attacchi per il 3 agosto[46],
facendo della seconda battaglia dell'Isonzo il primo bagno di sangue su larga scala del
fronte: gli italiani riportarono 42.000 tra morti e feriti, perdite causate da obsolete
tattiche che imponevano l'attacco frontale con le truppe ammassate in dense
formazioni (numerose furono, in particolare, le vittime tra gli ufficiali inferiori, che si
ostinavano a guidare le truppe in prima linea spada alla mano) e anche dallo scarso
coordinamento tra artiglieria e fanteria. La battaglia fu peraltro l'unica che registrò
perdite superiori in campo austro-ungarico, ammontanti a 47.000 tra morti e feriti, a
causa delle difese abbozzate (le prime linee erano ben fortificate ma le retrovie erano
carenti di rifugi protetti, risultando molto vulnerabili al fuoco d'artiglieria) e
dell'ostinazione di Borojević a mantenere il possesso di qualunque lembo di
terreno[47].
Cadorna passò due mesi ad ammassare altra artiglieria e a ricostruire le sue riserve di
munizioni in vista di un nuovo assalto. Gli Alleati facevano pressioni perché
l'offensiva fosse lanciata al più presto, onde alleggerire la pressione sulla Serbia sotto
attacco austro-tedesco da nord, bulgaro da est e prossima al crollo. Cadorna diede il
via alle operazioni il 18 ottobre: nonostante il pesante fuoco d'appoggio di 1.300
cannoni protrattosi per tre interi giorni, gli assalti della fanteria sferrati a partire dal
21 ottobre dal Mrzli al San Michele, passando per il Sabotino e il Podgora, non
portarono che a pochi guadagni, in gran parte persi nei contrattacchi degli austroungarici, che avevano ben sfruttato il periodo di tregua allestendo una linea difensiva
basata su tre ordini di trincee. Il maltempo imperversò per tutta la durata della
battaglia, spingendo il comando italiano a terminare l'azione il 4 novembre dopo
nuovi e infruttuosi assalti al San Michele[48]. Nonostante le 67.000 perdite riportate
dagli italiani, tra morti e feriti, Cadorna si convinse che i reparti di Borojević fossero
sul punto di crollare e, dopo appena una settimana di pausa, il 10 novembre scatenò la
quarta battaglia dell'Isonzo. Sotto una pioggia battente che dal 16 novembre si
trasformò in neve, gli italiani assalirono le stesse posizioni: riuscirono a occupare
solo esigue striscie a un alto costo. Il 5 dicembre ogni azione cessò [49].
Alla fine del 1915 lungo l'Isonzo l'esercito italiano registrò circa 235.000 perdite tra
morti, feriti, ammalati, prigionieri e dispersi, mentre gli austro-ungarici, pur
difendendosi quasi esclusivamente, subirono oltre 150.000 perdite[44]. Gli austroungarici iniziarono a preoccuparsi dell'assottigliamento degli effettivi, ma il sistema
difensivo resse bene l'urto dei fanti italiani, che ancora una volta vedevano vanificati i
loro sforzi; nessuno degli obiettivi prefissi dal comando supremo era stato raggiunto e
ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle operazioni in grande stile,
anche perché, viste le perdite, entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di
continuare una lotta all'ultimo uomo[46].
Il monte San Michele, chiamato così in
modo improprio visto che la sua massima elevazione è 275 metri sul livello del
mare,[1] è un rilievo carsico situato a cavallo tra i comuni di Sagrado ed in particolare
nella frazione di San Martino del Carso, e Savogna d'Isonzonella provincia di
Gorizia non distante né dal mare Adriatico, che si percepisce dalla sua sommità, né
dal sacrario di Redipuglia.
La sua fama è legata al fatto che esso fu teatro di numerose battaglie durante la Prima
guerra mondiale. Ancora oggi, infatti, la zona tra Fogliano Redipuglia e Sagrado è
disseminata di trincee, camminamenti, caverne e gallerie nonché di molti piccoli
monumenti spontanei sorti dopo il conflitto. Il San Michele viene citato nel
componimento Sono una creatura del famoso poeta ermetico Giuseppe Ungaretti,
che partecipò al dramma di quella guerra. [2]
Dalla sua sommità è visibile una buona porzione di Alto Adriatico, con una visione
che spazia dalla città di Monfalcone, alla foce dell'Isonzo ed all'intera laguna di
Grado, mentre verso sud-est nelle giornate nitide si può arrivare a percepire
l'estremità nordoccidentale della penisola istriana di punta Salvore, nei pressi
di Pirano.
Il San Michele grazie alla sua posizione dominava la bassa valle dell'Isonzo e
permetteva di tenere sotto controllo la città di Gorizia. A seguito della Prima battaglia
dell'Isonzo, la postazione venne pesantemente fortificata dagli austroungarici, tramite
un ampio sistema di caverne e ricoveri, e munita di cannoni di grande calibro.
L'esercito italiano tentò per mesi di conquistarlo, tanto che la sanguinosa Seconda
battaglia dell'Isonzo è nota anche come battaglia del San Michele,[3] perché ivi lo
sforzo italiano fu più concentrato e intenso. Le estese fortificazioni, difese da reparti
ungheresi, resistettero a diversi attacchi e il monte cadde nelle mani dell'esercito
italiano solo durante la Sesta battaglia dell'Isonzo.
Fu teatro del primo attacco condotto con i gas sul fronte italiano: il 29 giugno del
1916 l'esercito austroungarico attaccò di sorpresa l'esercito italiano utilizzando una
miscela di cloro e fosgene con relativo successo.[4]
La sommità del monte è stata restaurata e dichiarata zona monumentale. Sono
visitabili diverse opere, tra le quali la galleria del comando austroungarico generale
Lukacich e l'ampia galleria della III Armata, accessibile dal piazzale su cui si trova
anche il Museo del Monte San Michele.
San Martino del Carso: questa piccola
frazione del Comune di Sagrado è oggi immersa nella tranquillità della natura
carsica ma, nel 1915, si trovò proprio nel cuore del fronte. Completamente distrutta
dai bombardamenti, è diventata famosa in tutta Italia (e non solo) grazie alla poesia
di Giuseppe
Ungaretti.
Non esiste un vero e proprio percorso ma i siti di maggiore interesse sono tutti vicini
e raggiungibili facilmente. Scendendo dal piazzale del Museo di San Michele, dopo
circa un chilometro e mezzo, si può visitare il Valloncello dell'Albero Isolato e
proseguire poi verso il centro del paese, distante appena 500 metri. Qui si trovano
la lapide che riporta i versi della poesia di Giuseppe Ungaretti ed un museo privato
della Grande Guerra mentre seguendo le indicazioni per il cimitero civile si trova
il Cippo del 4° Honved.
Per chi volesse, la visita a San Martino può iniziare anche da quest'ultimo punto
perché il cippo è raggiungibile direttamente dal sentiero del Monte San Michele
seguendo la strada forestale che parte dall'imbocco della Galleria Cannoniera.
La scoperta dei resti e delle testimonianze della Grande Guerra prosegue lungo via
Piantella, la strada che riporta verso Sagrado. Dopo 1,5 chilometri da San Martino si
incrocia la cosiddetta"Area delle Battaglie" dove è possibile fermarsi e scoprire la
Trincea delle Frasche, il Cippo della Brigata Sassari ed il monumentale Cippo Filippo
Corridoni. Poco più avanti (1 chilometro), all'interno di un magnifico contesto rurale
- letterario, è possibile passeggiare ed ammirare i monumenti installati nel Parco
Letterario Ungaretti, dedicato al poeta che ha reso celebri questi luoghi.
La Trincea delle Frasche
Ripresa la via del ritorno verso Sagrado, dopo un chilometro e mezzo da San
Martino del Carso si può visitare la cosiddetta "Area delle Battaglie", la zona in cui
vennero condotti i primi attacchi italiani alla linea asburgica nell'estate del 1915.
La zona è disseminata di camminamenti, trincee, fortificazioni e costruzioni
austro-ungariche e italiane. Tra tutti questi resti si segnala la Trincea delle
Frasche, uno degli ostacoli maggiori per i soldati italiani durante i suoi primi assalti.
Venne scavata dall'esercito asburgico nei primi mesi di guerra e venne persa solo alla
fine del 1915. Il nome lo si deve all'astuzia militare dei soldati ungheresi i quali
utilizzarono dei rami per mascherarla e renderla meno visibile agli occhi degli
osservatori
e
della
ricognizione
aerea.
In questo punto morì, il 23 ottobre 1915, Filippo Corridoni, leader del sindacalismo
rivoluzionario e amico personale di Benito Mussolini.
I resti che oggi si possono vedere sono perlopiù fortificazioni costruite dagli italiani
fra l'autunno del 1916 ed i primi mesi del 1917. Lungo il suo tracciato si incontra
una galleria militare che garantiva i collegamenti con altre linee della zona, in
particolare con la vicina Dolina del XV Bersaglieri.
Fermiamoci un attimo a pensare
chiudiamo gli occhi
e immaginiamo
quante stragi, quante vite buttate come spazzatura, quante famiglie
distrutte, quante lacrime versate, quanta voglia di scappare da
questa inutile strage e quanto dovere di restare. “essere in un
tunnel in cui l’unica via d’uscita è la morte”.
(Massucci, Petrocchi e Rongione 3A)
UNGARETTI E LA GRANDE GUERRA
Quando il Governo Salandra ufficializzò la guerra contro l'Austria-Ungheria e il
poeta decise di arruolarsi come soldato semplice. La prima domanda venne rifiutata
perché troppo anziano ma alla fine dell'anno, vista la necessità di uomini, fu
accettata.
Ungaretti non si rese protagonista di azioni eroiche ma grazie alla sua poesia ha
lasciato alcune delle pagine più toccanti della Grande Guerra. Abbandonati i
sentimenti nazionalisti che lo avevano mosso fino a qualche mese prima, egli "prese
coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza,
dell'estrema precarietà della loro condizione." (Mark Thompson, "La Guerra Bianca",
Il Saggiatore, Milano, 2009, p. 200).
Durante il riposo, in mezzo alle trincee del Monte San Michele o
nelle retrovie della pianura friulana, iniziò a scrivere una sorta di diario in forma di
poesia, composte da poche ma significative parole accompagnate da una data e da un
luogo. Il suo amico (e poeta) Ettore Serra lo convinse a farsi consegnare i foglietti
dove annotava questi suoi pensieri e nel 1916 ne fece stampare 80 copie intitolate "Il
Porto Sepolto". Al suo interno si potevano leggere 29 poesie, alcune divenute poi
famosissime come "Fratelli" oppure "San Martino del Carso". La maggior parte
furono scritte a Mariano del Friuli, a Versa (frazione di Romans d'Isonzo) e
nel Valloncello di Cima 4, sul Monte San Michele.
Dopo aver trascorso quasi due anni sul fronte carsico, la disfatta di
Caporetto condusse Ungaretti in Francia. Gli accordi con la Triplice Intesa infatti
prevedevano l'invio di un contingente italiano sul fronte occidentale, ad est di Parigi.
Al termine della Grande Guerra, il poeta rimase a Parigi dove curò una seconda
edizione de "Il Porto Sepolto", intitolata "L'allegria dei naufragi" e stampata a Firenze
nel 1919. Alle prime poesie se ne aggiunsero altre, composte tutte nel 1917, tra cui la
famosissima "Mattina"(composta da sette sillabe: "M'illumino d'immenso"), scritta
a Santa Maria la Longa.
Oggi è possibile ripercorrere alcuni dei luoghi che ispirarono la poetica di
Ungaretti visitando ad esempio il Museo all'aperto del Monte San Michele, il paese
di San Martino del Carso e il vicino Parco Ungaretti. La sua figura è anche ricordata a
Santa Maria la Longa dove si può ammirare un monumento ispirato alla poesia
"Mattino".
QUESTO DISEGNO È DI FRANCESCA VALLESI (3A)
Sono una creatura
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
In questa poesia Ungaretti paragona il suo stato d’animo alla pietra distrutta del
Monte S.Michele, priva di vita e fredda; si sente come demotivato a vivere questo
periodo della sua vita, fatta di guerra. Attraverso le metafore vuole farci capire che la
guerra non distrugge solo i paesaggi, ma anche la vita e gli stati d’animo delle
persone. (Benedetta Calvi 3A)
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Questa poesia esprime la terribile vita di un soldato in trincea che racconta le sue
emozioni. Ungaretti ci fa capire la brutalità di quel periodo vista attraverso gli occhi
di chi lo viveva da vicino. I soldati temevano la morte, e capivano solo in quel
momento quanto fosse bella la vita fuori, fuori dalla guerra, lontano dai fucili, le
armi, la fame e la stanchezza. Vicino alle loro famiglie tutto era diverso. Trasportati
quasi per forza a prendere parte a quella guerra che non sembrava finire mai, erano
stanchi. (Benedetta Calvi 3A)
San Martino del Carso
Valloncello dell’albero isolato
"Di queste case,
non è rimasto che
qualche brandello di muro
Di tanti che mi
corrispondevano,
non è rimasto neppure tanto.
Ma nel mio cuore,
nessuna croce manca:
è il mio cuore,
il paese più straziato."
La famosa poesia di Giuseppe Ungaretti San Martino del Carso porta, sotto il titolo,
l'indicazione inequivocabile di un luogo e una data: Valloncello dell'Albero Isolato, il
27 agosto 1916. «Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro...».
Quei versi furono scritti dal giovane soldato Ungaretti nei pressi della sola pianta che
sarebbe rimasta in piedi sul campo di battaglia e che segnava il confine tra l'esercito
austroungarico e quello italiano: l'«albero isolato» serviva da punto di riferimento
altimetrico per le mappe italiane utili alle operazioni belliche del Monte San Michele.
Sia pure ridotto a brandelli, come i muri della celebre frazione di Sagrado, nel
Goriziano, non c'è albero che abbia conservato tanto valore simbolico, al punto da
diventare monumento storico. Venne infatti tagliato e portato in patria come una
reliquia dai soldati ungheresi del 46° reggimento in ritirata: per loro era l'«Albero di
Doberdò». Da allora, quel tronchetto secco come uno scheletro, ferito a morte e
traforato dai colpi incrociati e dai bombardamenti, è rimasto nel Mòra Fenec Muzeum
di Szeged. L'alberello, il cui valore era condiviso dagli eserciti contrapposti, era un
gelso, piantato in una terra di nessuno in mezzo alle trincee e destinato a rimanere in
solitudine tra le pietraie e le macerie, accanto alla cosiddetta Cappella Diruta, l'antica
chiesa del paese, ridotta a un rudere. Il fante Ungaretti, che combattè in prima e
seconda linea dal dicembre 1915 all'agosto dell'anno dopo tra sofferenze e malattie,
dedicò alla guerra carsica i suoi primi versi, che sarebbero confluiti nella raccolta
d'esordio. Porto sepolto verrà pubblicato a Udine in ottanta copie quello stesso anno,
grazie al tenente-stampatore Ettore Serra, conosciuto nelle retrovie. Tra i
componimenti di quel periodo tragico, si trovano molte delle poesie ungarettiane più
celebri, compresa Veglia: «Un'intera nottata / buttato vicino /a un compagno /
massacrato...», scritta sotto Cima 4 il 23 dicembre 1915 su frammenti di carta
recuperata qua e là, come le altre. Di recente, come ha raccontato Fabi sul quotidiano
di Trieste Il Piccolo, è stata trovata una fotografia inedita , che ritrae il poeta
ventottenne, in secondo piano, con l'elmetto in testa e la giacca della compagnia
presidiaria della Brigata Brescia, circondato da un gruppo di commilitoni in attesa del
rancio sulle pietraie del monte San Michele. Siamo nell'estate del 1917, quando
Ungaretti, provato fisicamente e psichicamente dagli orrori della trincea e dichiarato
non idoneo al combattimento, era già stato trasferito a mansioni burocratiche. « “Ero
in presenza della morte”, annoterà il poeta, “in presenza della natura, di una natura
che imparavo a conoscere in modo terribile” (...). “Nella mia poesia non c'è traccia
d'odio per il nemico, né per nessuno; c'è la presa di coscienza della condizione
umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della
loro condizione”».
(Paolo Di Stefano)
Il Sacrario di Redipuglia
Il Sacrario di Redipuglia è il più grande e maestoso sacrario italiano dedicato ai
caduti della Grande Guerra. Realizzato sulle pendici del Monte Sei Busi su progetto
dell'architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni, fu inaugurato il
18 settembre 1938 dopo dieci anni di lavori. Quest'opera, detta anche Sacrario "dei
Centomila", custodisce i resti di 100.187 soldati caduti nelle zone circostanti, in parte
già
sepolti
inizialmente
sull'antistante Colle
di
Sant'Elia.
Fortemente voluto dal regime fascista, il sacrario voleva celebrare il sacrificio dei
caduti nonché dare una degna sepoltura a coloro che non avevano trovato spazio nel
cimitero degli Invitti. La struttura è composta da tre livelli e rappresenta
simbolicamente l'esercito che scende dal cielo, alla guida del proprio comandante, per
percorrere la Via Eroica. In cima, tre croci richiamano l'immagine del Monte
Golgota e la crocifissione di Cristo.
Camminando verso le tombe si percorre la "Via Eroica", ovvero una strada lastricata
in pietra delimitata da 38 targhe in bronzo che indicano i nomi delle località carsiche
contese durante la Grande Guerra.
Terminato questo suggestivo percorso, si arriva alle maestose tombe dei generali, tra
le quali spicca quella del comandante della Terza Armata, Emanuele Filiberto Duca
d'Aosta che aveva espresso il desiderio di essere sepolto a Redipuglia. Il sepolcro è
formato da un blocco di marmo rosso della Val Camonica dal peso di 75 tonnellate.
Al suo fianco si trovano invece le tombe in granito di cinque generali: Antonio
Chinotto, Tommaso Monti, Giovanni Prelli, Giuseppe Paolini e Fulvio Riccieri.
Alle spalle si elevano i 22 gradoni (alti 2,5 metri e larghi 12) che, in ordine
alfabetico, custodiscono le spoglie dei 39857 soldati identificati. Ogni loculo è
sormontato dalla scritta "Presente" e sono raggiungibili grazie alle scalinate laterali
che conducono in cima. Al centro del primo gradone si trova l'unica donna sepolta,
una crocerossina di nome Margherita Kaiser Parodi Orlando, mentre sul
ventiduesimo si trovano i resti di 72 marinai e 56 uomini della Guardia di Finanza.
Arrivati al termine della scalinata e dei gradoni, due grandi tombe coperte da lastre di
bronzo custodiscono i resti di oltre 60 mila soldati ignoti. Oltrepassate si arriva in
cima al sacrario dove la visita può continuare visitando la piccola cappella che
custodisce la "Deposizione" e le formelle della Via Crucis dello scultore Castiglioni.
Sopra a questa struttura religiosa si trovano le tre croci in bronzo.
Nella parte posteriore dell'ultimo gradone sono state allestite due salette museali:
all'interno si trovano le fotografie del primo Sacrario di Redipuglia, i documenti, i
reperti bellici ed i dipinti di Ciotti che adornavano la prima Tomba del Duca D'Aosta,
posta originariamente nella cappelletta in cima al Colle Sant'Elia. Sul pianoro, a
Quota 89, si trova l'Osservatorio e un plastico del territorio che evidenzia la linea di
confine all'alba del 24 ottobre 1917, il giorno della Dodicesima Battaglia
dell'Isonzo.
Il Sacrario militare di Redipuglia è un monumentale cimitero militare situato
in Friuli Venezia Giulia, costruito in epoca fascista[1] e dedicato alla memoria di oltre
100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Sorge all'interno del
territorio
comunale
di Fogliano
Redipuglia in provincia
di
Gorizia.
Il monumento è il fulcro di un parco commemorativo di oltre 100 ettari che
comprende una parte del Carso triestino-goriziano, teatro durante la Grande guerra di
durissime battaglie (battaglie dell'Isonzo). Le enormi dimensioni e l'ampia area
coinvolta a parco della memoria ne fanno il più grande sacrario militare d'Italia e uno
dei più grandi al mondo.
Ogni 4 novembre, alla presenza del presidente del Senato, in sostituzione
del presidente della Repubblica impegnato in contemporanea in celebrazioni
analoghe all'Altare della Patria, il sacrario serve come luogo di commemorazione per
tutti i 689.000 soldati morti durante la prima guerra mondiale. La grande scalinata di
pietra che forma il sacrario di Redipuglia è collocata direttamente davanti alla collina
di Sant'Elia, sede del precedente cimitero di guerra i cui resti furono traslati
nell’attuale sacrario monumentale. Tutta l’area è stata convertita a parco del "ricordo"
o della "rimembranza": gallerie, trincee, crateri, munizioni inesplose e nidi di
mitragliatrice sono stati conservati sul sito a ricordo della guerra.
Il memoriale monumentale è stato progettato da un gruppo di lavoro presieduto
dall'architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni. I lavori
iniziarono nel 1935 con un impiego enorme di uomini e mezzi che dopo 3 anni
ininterrotti di lavori permisero l'inaugurazione del monumento il 18 settembre
del 1938 alla presenza di Mussolini e di più di 50.000 veterani della Grande
guerra.[2] Il monumento dalla nascita è stato amministrato dal Ministero della Difesa,
nello specifico dal Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti.
L'opera, realizzata sulle pendici del monte Sei Busi, cima aspramente contesa nella
prima fase della Grande guerra (prima, seconda e quarta battaglia dell'Isonzo), si
presenta come uno schieramento militare con alla base la tomba di Emanuele
Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della 3ª Armata, cui fanno ala quelle dei suoi
generali.
Recinge simbolicamente l'ingresso al sacrario, ai piedi della monumentale scalea, una
grossa catena d'ancora che appartenne alla torpediniera "Grado", già appartenuta alla
marina austro-ungarica (k.u.k. Kriegsmarine) con il nome di "Triglav" e ceduta
all'Italia dopo la fine della guerra. Subito oltre, si distende in leggero declivio un
ampio piazzale, lastricato in pietra del Carso, attraversato sulla sua linea mediana
dalla via Eroica, che corre tra due file di lastre di bronzo, 19 per lato, di cui ciascuna
porta inciso il nome di una località dove più aspra e sanguinosa fu la lotta. In fondo
alla via Eroica si eleva solenne la gradinata che custodisce, in ordine alfabetico dal
basso verso l'alto, le spoglie di 40.000 caduti noti ed i cui nomi figurano incisi in
singole lapidi di bronzo. La maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su cui sono
allineate le tombe dei caduti, sul davanti ed alla base della quale sorge, isolata quella
del duca d'Aosta, comandante della 3ª armata, fiancheggiata dalle urne dei suoi
generali caduti in combattimento, è simile al poderoso e perfetto schieramento d'una
intera grande unità di centomila soldati. Il duca d'Aosta, morto nel 1931, chiese di
avere l'onore di poter essere qui deposto tra le migliaia di soldati che persero la vita
sul campo di battaglia. La tomba è ricavata in un monolito in porfido del peso di 75
tonnellate. Seguono disposte su ventidue gradoni le salme dei 39.857 caduti
identificati. Le iscrizioni recano tutte la scritta "Presente", che si rifà al rito d'appello
dello squadrismo ove il capo delle squadre gridava il nome del camerata defunto e la
folla inginocchiata rispondeva con il grido "Presente".[4][5] Nell'ultimo gradone, in due
grandi tombe comuni ai lati della cappella votiva, riposano le salme di 60.330 caduti
ignoti.
Nella cappella e nelle due sale adiacenti sono custoditi oggetti personali dei soldati
italiani e austro-ungarici. Oggi la cappella è arricchita da una statua che raffigura
un'Assunta; è la Regina della Pace. Un'Assunta che vuole ricordare la necessità di
dare al sacrario il ruolo di raccordo delle genti d'Europa al fine di promuovere una
riflessione sulle lacerazioni etiche che producono le guerre. [6] Nella cappella si trova
inoltre esposta la testa di un Cristo sofferente recuperata nel 1995 nella dolina dei 500
o dolina della Morte sul Monte Sei Busi, uno dei più importanti cimeli ritrovati nella
zona che ornava una croce che sovrastava una grande fossa comune.
Il grande mausoleo venne realizzato di fronte al
armata sul colle Sant'Elia che oggi è una sorta di
della Rimembranza. Lungo il viale adornato da
cippi in pietra carsica con riproduzioni dei cimeli
tombe del primo sacrario.
primo cimitero di guerra della 3ª
museo all'aperto noto come parco
alti cipressi, segnano il cammino
e delle epigrafi che adornavano le
Sulla sommità del colle un frammento di colonna romana, proveniente dagli scavi
di Aquileia, celebra la memoria dei caduti di tutte le guerre, "senza distinzione di
tempi e di fortune". L'impianto, considerato il più monumentale ossario di epoca
fascista, incarna "l'apoteosi dell'uguaglianza, dell'anonimità e della disciplina militare
oltre la morte, un trionfo - scolpito nella pietra - dell'istanza collettiva sull'identità
individuale.”
In concomitanza con l'edificazione del sacrario fu realizzata anche la stazione di
Redipuglia, da inquadrarsi nell'ottica di monumentalizzazione della zona di
Redipuglia.
L'unica donna seppellita nel sacrario è una crocerossina morta a 21 anni di
nome Margherita Kaiser Parodi Orlando. La sua tomba si trova nella prima fila e si
distingue perché nella facciata c'è scolpita una grande croce.
Nella foto sopra si nota la rudimentalità delle maschere antigas italiane, molto meno
tecnologiche di quelle degli altri eserciti.
ERNEST HEMINGWAY
Ernest Hemingway : Early life
Ernest Miller Hemingway was born on July 21, 1899, in Oak Park, a suburb of
Chicago, Illinois. His father, Clarence Edmonds Hemingway, was a physician, and
his mother, Grace Hall-Hemingway, was a musician. Both were well-educated and
well-respected in the conservative community of Oak Park. When he was a child in
the summer, he learned from his father to hunt, fish, and camp in the woods and lakes
of Northern Michigan. His early experiences in nature instilled a passion for outdoor
adventure and living in remote or isolated areas. From 1913 to 1917, Hemingway
attended Oak Park and River Forest High School where he took part in a number of
sports, namely boxing, track and field, water polo, and football. He excelled in
English classes and performed in the school orchestra with his sister Marcelline for
two years. In his junior years, he took a journalism class. After leaving high school he
went to work for The Kansas City Star as a cub reporter. This influenced his writing
style: the use of short sentences, the use of vigorous English, the attempt of being
positive, not negative.
The First World War
Early in 1918, Hemingway responded to a Red Cross recruitment effort in Kansas
City and signed on to become an ambulance driver in Italy. He left New York in May
and arrived in Paris as the city was under bombardment from German artillery. By
June, he was at the Italian Front. On July 8, he was seriously wounded by mortar fire,
having just returned from the canteen bringing chocolate and cigarettes for the men at
the front line. Despite his wounds, Hemingway assisted Italian soldiers to safety, for
which he received the Italian Silver Medal of Bravery. He sustained severe wounds to
both legs, underwent an immediate operation at a distribution center, and spent five
days at a field hospital before he was transferred for recuperation to the Red Cross
hospital in Milan.
He spent six months at the hospital, where he met and formed a strong friendship
with "Chink" Dorman-Smith that lasted for decades and shared a room with future
American foreign service officer, ambassador, and author Henry Serrano Villard.
While recuperating, he fell in love, for the first time, with Agnes von Kurowsky, a
Red Cross nurse seven years older than him. By the time of his release and return to
the United States in January 1919, Agnes and Hemingway had decided to marry
within a few months in America. However, in March, she wrote that she had become
engaged to an Italian officer. Biographer Jeffrey Meyers states that Hemingway was
devastated by Agnes' rejection, and in future relationships, he followed a pattern of
abandoning a wife before she abandoned him.
Famous friends and travelling
After his experience on the Italian front, which he described in "Farewell to arms", he
went back to the United States, where he got a job as a journalist for the Toronto Star,
but he was tormented by the specter of war. He went to Paris where he met writers
such as Gertude Stein, Ezra Pound, James Joyce end F. Scott Fitzgerald, called "the
lost generation". They revolutionized his poems. He went to Spain as a journalist
during the Spanish Civil War and took part, supporting the Republican cause. He
described this experience in several novels, the most famous one is "For Whom The
Bell Tolls" (per chi suona la campana). In 1936 Ernest went to Cuba. Hemingway,
also, went on a safari to Africa where he was almost killed in two successive plane
crashes, that left him in pain for much of his remaining life. He got married four
times. In the end of his life, Hemingway suffered from hypertension, diabetes and
acute depression. He received the Nobel Prize for Literature in 1954, but even this
prestigious recognition was not able to alleviate his physical and psychological
suffering. In 1959 he bought a house is Ketchum where he committed suicide in the
summer of 1961. (Gli alunni della III A)
ERNEST HEMINGWAY – ADDIO ALLE ARMI
Addio alle armi (A Farewell to Arms) è un romanzo dello scrittore statunitense Ernest
Hemingway, pubblicato nel 1929.
Il romanzo, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore (che negli
ultimi mesi della prima guerra mondiale aveva prestato servizio come conducente di
ambulanze nella Croce Rossa Americana, era stato ferito e aveva avuto un rapporto
affettivo con una infermiera americana, Agnes von Kurowsky), racconta una storia di
amore e di guerra che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di
Caporetto.
Questo romanzo non poté essere pubblicato in Italia fino al 1948 perché ritenuto
lesivo dell'onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della
disfatta di Caporetto, sia per un certo antimilitarismo sottinteso nell'opera[1]. La
traduzione italiana in realtà era stata già scritta clandestinamente
nel 1943 da Fernanda Pivano, che per questo motivo fu arrestata a Torino.
LA TRAMA
Frederic Henry è un giovane americano figlio di un diplomatico che è venuto
in Italia per partecipare volontariamente alla guerra spinto da motivazioni idealistiche
e da una visione romantica del conflitto. Durante il conflitto svolge l'attività di
conducente delle ambulanze (in pratica trasporta i feriti dal fronte fino all'ospedale da
campo più vicino) e lì scopre che la realtà della guerra è molto meno affascinante di
quello che aveva creduto.
Nella primavera del 1917 Frederic conosce una giovane infermiera inglese, Catherine
Barkley. Tra i due nasce un rapporto che dapprima sembra occasionale, ma si fa
rapidamente intenso e passionale.
Nel frattempo Frederic coglie i segni della stanchezza e della sfiducia tra i suoi
commilitoni italiani: la guerra va avanti da due anni, centinaia di migliaia
di soldati sono morti, ma la vittoria è ancora lontana, nonostante la propaganda.
Frederic, in una conversazione con gli altri autisti del suo gruppo di ambulanze,
scopre anche che non tutti gli italiani sono a favore della guerra.
Il 24 ottobre del 1917 il fronte italiano crolla a Caporetto. Il gruppo di ambulanze di
Frederic si trova travolto dalla massa di soldati in caotica ritirata, tanto che gli autisti
devono abbandonare i mezzi. Affrontano diversi incidenti, tra cui l'incontro con
soldati ammutinati e soldati tedeschi in rapida avanzata tra le ormai sbandate linee
italiane. Al momento di attraversare in ritirata un ponte sul Tagliamento, Frederic,
come tutti gli ufficiali trovati non al comando delle rispettive unità, viene fermato
dalla polizia militare dell'arma dei Carabinieri che aveva l'ordine di interrogare e
fucilare sul posto gli ufficiali sbandati e ritenuti disertori.
BRANO ORIGINALE DAL ROMANZO LIBRO III – CAPITOLO XXX
They were all trying to get across as soon as they could: thinking only of that. We
were almost across. At the far end of the bridge there were officers and carabinieri
standing on both sides flashing lights. I saw them silhouetted against the sky-line. As
we came close to them I saw one of the officers point to a man in the column. A
carabiniere went in after him and came out holding the man by the arm. He took him
away from the road. We came almost opposite them. The officers were scrutinizing
every one in the column, sometimes speaking to each other, going forward to flash a
light in some one’s face. They took some one else out just before we came opposite. I
saw the man. He was a lieutenantcolonel. I saw the stars in the box on his sleeve as
they flashed a light on him. His hair was gray and he was short and fat.The
carabiniere pulled him in behind the line of officers. As we came opposite I saw one
or two of them look at me. Then one pointed at me and spoke to a carabiniere. I saw
the carabiniere start for me, come through the edge of the column toward me, then
felt him take me by the collar. “What’s the matter with you?” I said and hit him in the
face. I saw his face under the hat, upturned mustaches and blood coming down his
cheek. Another one dove in toward us. “What’s the matter with you?” I said. He did
not answer. He was watching a chance to grab me. I put my arm behind me to loosen
my pistol. “Don’t you know you can’t touch an officer?” The other one grabbed me
from behind and pulled my arm up so that it twisted in the socket. I turned with him
and the other one grabbed me around the neck. I kicked his shins and got my left knee
into his groin.“Shoot him if he resists,” I heard some one say. “What’s the meaning
of this?” Itried to shout but my voice was not very loud. They had me at the side of
the road now. “Shoot him if he resists,” an officer said. “Take him over back.” “Who
are you?” “You’ll find out.” “Who are you?” “Battle police,” another officer said.
“Why don’t you ask me to step over instead of having one of these airplanes grab
me?” They did not answer. They did not have to answer. They were battle police.
“Take him back there with the others,” the first officer said. “You see. He speaks
Italian with an accent.” “So do you, you ,” I said. “Take him back with the others,”
the first officer said. They took me down behind the line of officers below the road
toward a group of people in a field by the river bank. As we walked toward them
shots were fired. I saw flashes of the rifles and heard the reports. We came up to the
group. There were four officers standing together, with a man in front of them with a
carabiniere on each side of him. A group of men were standing guarded by
carabinieri. Four other carabinieri stood near the questioning officers, leaning on
their carbines. They were wide-hatted carabinieri. The two who had me shoved me in
with the group waiting to be questioned. I looked at the man the officers were
questioning. He was the fat gray-haired little lieutenant-colonel they had taken out of
the column. The questioners had all the efficiency, coldness and command of
themselves of Italians who are firing and are not being fired on. “Your brigade?” He
told them. “Regiment?” He told them. “Why are you not with your regiment?” He
told them. “Do you not know that an officer should be with his troops?” He did.That
was all. Another officer spoke. “It is you and such as you that have let the barbarians
onto the sacred soil of the fatherland.” “I beg your pardon,” said the lieutenantcolonel. “It is because of treachery such as yours that we have lost the fruits of
victory.” “Have you ever been in a retreat?” the lieutenant-colonel asked. “Italy
should never retreat.”
We stood there in the rain and listened to this. We were facing the officers and the
prisoner stood in front and a little to one side of us. “If you are going to shoot me,”
the lieutenant-colonel said, “please shoot me at once without further questioning.
The questioning is stupid.” He made the sign of the cross. The officers spoke
together. One wrote something on a pad of paper. “Abandoned his troops, ordered to
be shot,” he said. Two carabinieri took the lieutenant-colonel to the river bank. He
walked in the rain, an old man with his hat off, a carabinieri on either side. I did not
watch them shoot him but I heard the shots. They were questioning some one else.
This officer too was separated from his troops. He was not allowed to make an
explanation. He cried when they read the sentence from the pad of paper, and they
were questioning another when they shot him. They made a point of being intent on
questioning the next man while the man who had been questioned before was being
shot. In this way there was obviously nothing they could do about it. I did not know
whether I should wait to be questioned or make a break now. I was obviously a
German in Italian uniform. I saw how their minds worked; if they had minds and if
they worked. They were all young men and they were saving their country. The
second army was being re-formed beyond the Tagliamento. They were executing
officers of the rank of major and above who were separated from their troops. They
were also dealing summarily with German agitators in Italian uniform. They wore
steel helmets. Only two of us had steel helmets. Some of the carabinieri had them.
The other carabinieri wore the wide hat. Airplanes we called them. We stood in the
rain and were taken out one at a time to be questioned and shot. So far they had shot
every one they had questioned. The questioners had that beautiful detachment and
devotion to stern justice of men dealing in death without being in any danger of it.
They were questioning a full colonel of a line regiment. Three more officers had just
been put in with us. “Where was his regiment?” I looked at the carabinieri. They
were looking at the newcomers. The others were looking at the colonel. I ducked
down, pushed between two men, and ran for the river, my head down. I tripped at the
edge and went in with a splash. The water was very cold and I stayed under as long
as I could. I could feel the current swirl me and I stayed under until I thought I could
never come up. The minute I came up I took a breath and went down again. It was
easy to stay under with so much clothing and my boots. When I came up the second
time I saw a piece of timber ahead of me and reached it and held on with one hand. I
kept my head behind it and did not even look over it. I did not want to see the bank.
There were shots when I ran and shots when I came up the first time. I heard them
when I was almost above water. There were no shots now. The piece of timber swung
in the current and I held it with one hand. I looked at the bank. It seemed to be going
by very fast. There was much wood in the stream. The water was very cold. We
passed the brush of an island above the water. I held onto the timber with both hands
and let it take me along. The shore was out of sight now.
Frederic riesce avventurosamente a raggiungere Catherine a Stresa, e i due sono
costretti ad abbandonare l'Italia perché la polizia militare è sulle sue tracce e sta per
arrestarlo. Dopo una fortunosa traversata notturna del Lago Maggiore, la coppia
raggiunge la sponda svizzera del lago, e una felicità che sarà però di breve durata:
Catherine infatti muore a Losanna nel tentativo di dare alla luce il figlio di Frederic,
nato morto. Il protagonista si ritrova perciò solo e privo di uno scopo nel mesto finale
del romanzo, e se ne va amareggiato per la città.
Traduzione in italiano del brano sopra riportato in lingua originale
Essi stavano cercando di attraversare al più presto possibile: stavano pensando solo a
quello. Eravamo quasi al di là. All’estremità del ponte c’erano ufficiali e carabinieri
che stavano in piedi da entrambi i lati puntando le torce. Io vidi le loro sagome
contro l’orizzonte. Mentre ci avvicinavamo vidi uno degli ufficiali puntare ad un
uomo nella colonna. Un carabiniere lo seguì e venne fuori tenendo l’uomo per il
braccio. Egli lo portò via dalla strada. Noi venimmo quasi difronte a loro. Gli ufficiali
stavano investigando su ciascun soldato nella colonna, a volte parlando l’uno con
l’altro, andando avanti per illuminare con la torcia il volto di qualcuno. Essi
portarono fuori qualcun altro appena prima che noi gli andassimo incontro. Io vidi
l’uomo. Era un tenente colonnello. Vidi le stelle nella targhetta sulla sua manica
mentre riflettevano la luce su di lui. I suoi capelli erano grigi ed egli era basso e
grasso. Il carabiniere lo trascinò dietro la linea degli ufficiali. Mentre andavamo verso
di loro vidi uno o due di loro guardarmi. Poi uno mi indicò e parlò al carabiniere. Io
vidi il carabiniere venire verso di me, venire lungo il margine della colonna verso di
me, poi mi sentii prendere da lui per il colletto. “ Che problema hai?” io dissi e lo
colpii in faccia. Io vedevo la sua faccia sotto il cappello, i baffi rivolti in su e il
sangue che scendeva lungo la sua guancia. Un altro si tuffò verso di noi. “Qual è il
tuo problema?” dissi. Lui non rispose. Cercava un’ occasione per afferrarmi. Misi il
mio braccio dietro di me per slegare la pistola. "Non sai che non puoi toccare un
ufficiale?” L’ altro mi afferrò da dietro e tirò il mio braccio su così che esso si piegò.
Io mi girai con lui e l’altro mi afferrò intorno al collo. Calciavo contro i suoi stinchi e
il mio ginocchio sinistro restò bloccato tra le sue gambe. “Sparagli se fa resistenza”
Sentii qualcuno dire. “Cosa significa questo?” Io provai ad urlare, ma la mia voce
non era molto alta. Essi mi avevano condotto da un lato della strada ora. “Sparagli se
fa resistenza” un ufficiale disse. Portalo indietro “ Chi sei?” “ Lo scoprirai.” “Chi
sei?” “Polizia” un altro ufficiale disse. “ Perché non mi chiedi di saltare invece che
uno di questi aeroplani mi afferrino?” Loro non risposero. Loro non dovevano
rispondere. Loro erano la polizia della battaglia. “Riportalo là con gli altri,” disse il
primo ufficiale. “ Vedi, lui parla italiano con un accento straniero.” “ Così voi, voi,”
Dissi. “ Riportalo indietro con gli altri,” disse il primo ufficiale. Essi mi portarono giù
dietro la linea degli ufficiali sotto la strada verso un gruppo di persone in un campo
sulla sponda del fiume. Mentre camminavamo verso di loro colpi furono sparati. Io
vidi i bagliori dei fucili e sentii gli scoppi. Raggiungemmo il gruppo. C’erano quattro
ufficiali che stavano in piedi vicini, con un uomo davanti a loro, e un carabiniere su
ogni suo lato. Un gruppo di uomini era in piedi sorvegliato dai carabinieri. Altri
quattro carabinieri erano vicini agli ufficiali indagatori, appoggiati alle loro carabine.
Erano carabinieri con il cappello dalle ampie falde. I due che mi tenevano mi spinsero
nel gruppo in attesa di essere sottoposto a interrogatorio. Io guardai l’uomo che gli
ufficiali stavano interrogando. Egli era il piccolo grasso tenente colonnello dai capelli
grigi che essi avevano portato via dalla colonna. Quelli che interrogavano avevano
tutta l’efficienza, la freddezza e la padronanza di quegli Italiani che stanno fucilando
e non sono essi stessi fucilati. “La tua compagnia?” Egli diceva loro. “ Reggimento?”
Egli diceva loro. “Perché non sei con la tua compagnia?” Egli diceva loro. “ Non sai
che un ufficiale dovrebbe essere con le sue truppe?” Egli diceva. Ciò era tutto. Un
altro ufficiale parlò. “Sei tu e quelli come te che hanno lasciato i barbari entrare nel
sacro suolo della patria”. “Io chiedo il tuo perdono,” disse il tenente colonnello. “E’ a
causa del tradimento come il tuo che abbiamo perso i frutti della vittoria.” “Sei mai
stato in ritirata?” chiese il tenente colonnello. “ L’Italia non dovrebbe mai ritirarsi”.
(Alunni di III B).
Noi stavamo in piedi lì nella pioggia e ascoltavamo questo. Noi stavamo affrontando
gli ufficiali e il prigioniero era davanti ed un po’ a lato rispetto a noi. “Se hai
intenzione di spararmi,” il tenente- colonnello disse “per favore sparami subito senza
fare altre domande. Il fare domande è sciocco”. Fece il segno della croce. Gli ufficiali
parlarono tra loro .Uno scrisse qualcosa su un blocco di carta. “Ha abbandonato le
sue truppe, ho ordinato di sparargli” disse. Due carabinieri portarono il tenentecolonnello alla sponda del fiume. Camminava sotto la pioggia, un uomo anziano
senza il suo cappello,un carabiniere da entrambi i lati. Io non guardai mentre gli
sparavano, ma udii gli spari. Stavano interrogando qualcun altro. Anche questo
ufficiale fu separato dalle sue truppe. Non gli fu concesso di dare spiegazioni. Lui
pianse quando lessero la frase dal blocco di carta, ed essi stavano interrogando un
altro quando gli spararono. Essi chiarirono il loro punto di vista nell’essere intenti a
interrogare l’uomo successivo mentre l’uomo che era stato interrogato prima veniva
ucciso. In questo modo non c’era ovviamente niente che potevano fare a riguardo. Io
non sapevo se dovevo aspettare di essere interrogato o fare una infrazione ora. Ero
ovviamente un tedesco con l’uniforme italiana. Ho visto i loro cervelli lavorare, se
avevano cervelli e se funzionavano. Erano tutti giovani uomini e stavano salvando il
loro paese. Il secondo esercito veniva riformato oltre il Tagliamento. Essi stavano
giustiziando gli ufficiali di grado maggiore e di sopra quelli che erano separati dalle
loro truppe. Essi stavano anche trattando sommariamente con agitatori tedeschi in
uniforme italiana. Indossavano elmetti di acciaio. Soltanto due di noi avevano elmetti
di acciaio. Alcuni dei carabinieri li avevano. Gli altri carabinieri indossavano l’ampio
cappello. Li chiamavamo aeroplani. Noi eravamo in piedi nella pioggia e venivamo
portati fuori uno alla volta per essere interrogati e fucilati. Fino ad ora avevano
fucilato tutti quelli che avevano interrogato. Gli indagatori avevano quel bel distacco
e devozione alla giustizia severa di uomini che si occupano di morte senza essere in
pericolo di essa. Essi stavano interrogando un superiore colonnello di un reggimento
di linea. Altri tre ufficiali erano stati messi con noi. “Dov’era il suo reggimento?” Io
guardai i carabinieri. Stavano guardando i nuovi arrivati. Gli altri guardavano il
colonnello. Mi piegai giù, mi feci strada tra due uomini e corsi verso il fiume, la mia
testa bassa. Mi inciampai sull’orlo e mi tuffai con un tonfo. L’acqua era molto fredda
e restai sotto il più possibile. Riuscivo a sentire la corrente che mi faceva girare e
restai sotto fin quando pensai di non poter più risalire. Nell’istante in cui risalii presi
respiro e mi immersi di nuovo. Era facile stare sotto con tutto quell’abbigliamento e
con i miei stivali. Quando salii su per la seconda volta vidi un pezzo di asse di legno
davanti a me e lo raggiunsi e mi aggrappai con una mano. Tenevo la mia testa dietro
ad esso e non guardavo neanche al di sopra. Non volevo vedere la sponda. C’erano
spari quando avevo corso e spari quando ero risalito per la prima volta. Li sentii
quando ero quasi sopra l’acqua. Non c’erano spari ora. Il pezzo di trave oscillava
nella corrente ed io lo tenevo con una mano. Guardai la sponda. Essa sembrava
scorrere molto velocemente. C’era molto legno nella corrente. L’acqua era molto
fredda. Superammo la boscaglia di un isolotto sopra l’acqua. Io mi tenevo alla trave
con entrambe le mani e mi lasciavo trasportare. La spiaggia era lontana dalla vista
ora. (Alunni di III A)
La Canzone Del Piave
La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una delle più celebri
canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo
pseudonimo di E.A. Mario).
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano la
adottò provvisoriamente come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale[1][2]. La monarchia
italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura
fascista[3]. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12 ottobre 1946,
quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro[4].
I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono al giugno del 1918, quando l'Impero austroungarico decise di sferrare un grande attacco (ricordato con il nome di "Battaglia del solstizio") sul
fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di
Caporetto. La Landwehr (l'esercito imperiale austriaco) si avvicinò pertanto alle località venete
delle Grave di Papadopoli e delMontello, ma fu costretta ad arrestarsi a causa della piena del fiume.
Ebbe così inizio la resistenza delle Forze armate del Regno d'Italia, che costrinse gli austro-ungarici a
ripiegare.
Il 4 luglio del 1918, la 3ª Armata del Regio Esercito Italiano occupò le zone tra il Piave vecchio ed il
Piave nuovo. Durante lo svolgersi della battaglia morirono 84.600 militari italiani e 149.000 militari
austro-ungarici. In occasione dell'offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, avvenuta
nell'ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l'Austria-Ungheria e l'Italia.
Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfaldamento politico in corso nell'Impero,
l'esercito austro-ungarico si disgregò rapidamente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee
nemiche.
La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918[5] subito dopo la battaglia del solstizio, e ben presto
venne fatta conoscere ai soldati dal cantante Enrico Demma (Raffaele Gattordo)[6]. L'inno contribuì a
ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore
nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui
stesso: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!»[7]. Venne poi pubblicata da
Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario il 20 settembre del 1918[8], circa quaranta giorni
prima della fine delle ostilità.
Il testo e la musica, che fanno pensare ad una canzone patriottica con la funzione di incitare alla
battaglia, hanno l'andamento colto e ricercato di altre canzoni che già avevano fatto conoscere
Giovanni Gaeta nell'ambiente del cabaret; sue sono anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia
luntana, Balocchi e profumi. La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu
quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano
caratterizzata.
Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:
1. La marcia dei soldati verso il fronte (appare come una marcia a difesa delle frontiere, mentre fu
l'Italia ad attaccare l'impero asburgico)
2. La ritirata di Caporetto
3. La difesa del fronte sulle sponde del Piave
4. L'attacco finale e la conseguente vittoria
Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane, citando la data
dell'inizio della Prima guerra mondiale per il Regio Esercito italiano. Ciò avvenne la notte tra il 23 e 24
maggio 1915, quando L'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico e sferrò il primo attacco contro
l'Imperial regio Esercito, marciando dal presidio italiano di Forte Verena dell'Altopiano di Asiago, verso
le frontiere orientali. La strofa termina poi con l'ammonizione: Non passa lo straniero, riferita, appunto,
agli austro-ungarici.
Tuttavia, come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino al
fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte.
La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il Piave
che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso rosso dal
sangue dei nemici.
Nell'ultima strofa si immagina che, una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria
tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro eCesare Battisti, tutti uccisi
dagli austriaci.
All'epoca della prima stesura di questo brano, si pensava che la responsabilità per la disfatta di
Caporetto fosse da attribuire al tradimento di un reparto dell'esercito[9]. Per questo motivo, al posto del
verso "Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento" vi era la frase "Ma in una notte triste si parlò di
tradimento". In seguito, durante il regime fascista fu appurato che il reparto ritenuto responsabile era
invece stato sterminato da un attacco con gas letali; si pensò così di eliminare dalla canzone il
riferimento all'ipotizzato tradimento,[10] considerato non solo impreciso storicamente ma anche
sconveniente per il regime[11].
La melodia è orchestrata sia da bande musicali istituzionali che da corpi musicali non istituzionali,
specialmente in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, in occasione
dell'Anniversario della liberazione e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. Questi
versi e la loro solenne, seppur a tratti adulterata, rievocazione storica, fecero sì che da più parti si
levasse la richiesta di adottarlo come inno nazionale, cosa che avvenne solo dal 1943 al 1946 in
seguito ai fatti connessi all'armistizio di Cassibile[12]. La monarchia italiana era infatti stata messa in
discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista[3]. La canzone del Piave fu poi
sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro il 12 ottobre 1946[4].
Nel 1961 il comune di Roma deliberò di denominare una strada via canzone del Piave nel quartiere
Giuliano-Dalmata, nella cui toponomastica sono largamente rappresentati personaggi ed eventi
della prima guerra mondiale; la denominazione costituisce un caso rarissimo di toponimo urbano
ispirato a un brano musicale[13].
Solitamente è eseguita da bande e fanfare in occasione della posa delle corone ai monumenti ai caduti
immediatamente dopo all'inno nazionale.
La Canzone Del Piave: il testo
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera...
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti.
S'udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il mormorìo dell'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: non passa lo straniero!
Ma in una notte trista si parlò di un fosco evento
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha vista venir giù lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti,
venivano a gremir tutti i suoi ponti.
S'udiva allor dalle violate sponde
sommesso e tristo il mormorar dell'onde.
Come un singhiozzo, in quell'autunno nero,
il Piave mormorò: ritorna lo straniero!
E ritornò il nemico: per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame...
Vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora!
- No - disse il Piave. - No, - dissero i fanti mai più il nemico faccia un passo avanti!
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E, come i fanti, combattevan l'onde...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò: indietro, và, straniero!
Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento
E la Vittoria sciolse l'ali al vento!
Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti!
Infranse, alfin, l'italico valore
le forche e l'armi dell'impiccatore!
Sicure l'Alpi, libere le sponde
Si tacque il Piave, si placaron l'onde.
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò nè oppressi nè stranieri!
L’ITALIA NELLA GRANDE GUERRA IN SINTESI
Il 24 maggio 2015 l’Italia entra in guerra. Il capo dell’esercito è il generalissimo Luigi Cadorna,
figlio di quel Raffaele Cadorna che era stato protagonista nel celebre episodio della breccia di
Porta Pia.
All’inizio gli italiani sono in netta superiorità numerica, rispetto ad un esercito austriaco già
sfiancato da un anno di guerra.
Offensiva italiana con quattro battaglie sull’Isonzo, poco incisive perché gli italiani non hanno una
forte artiglieria (comunque gli italiani avanzano in direzione di Trieste e GORIZIA)
TERRIBILE BATTAGLIA DI VERDUN ( Febbraio-giugno 1916)
Si apre un fronte SULLA SOMME (gas e carri armati) il fronte sulla Somme evita la catastrofe a
Verdun.
Seconda offensiva italiana sull’Isonzo.
Spedizione punitiva degli austriaci contro gli Italiani (STRAFEXPEDITION) del maggio 1916 – gli
austriaci avanzano fino alla linea Pasubio e Asiago – sul Garda e Brenta (episodio di Cesare battisti,
catturato e impiccato).
Nel giugno 1916 i russi riportano alcune vittorie ma in Russia la situazione sta per precipitare e di
fatto nel marzo 1917 la Russia uscirà dalla guerra.
Battaglia sul monte Ortigara tra il 10 giugno e il 29 giugno del 1917 (gli italiani provano a
riprendersi i luoghi persi durante la spedizione punitiva).
Caporetto 24 ottobre 1917 - gli austriaci sfondano e gli italiani si ritirano rovinosamente.
Cadorna parlò di viltà dei soldati e disfattismo alimentato dalla propaganda dei socialisti e dei
cattolici.
Gli italiani riescono però - dopo due settimane di rotta - a bloccare l’avanzata austro-tedesca
lungo il Piave e sul monte Grappa.
Si parla di “battaglia di arresto” (24-26 novembre 1917 e dicembre 1917).
Sul monte Pasubio ha luogo la battaglia delle mine (DENTE ITALIANO E DENTE AUSTRIACO).
Seconda battaglia della Marna (marzo-luglio 1918) resistenza delle forze alleate (Inghilterra
Francia e USA).
Battaglia di Amiens 8-11 agosto: prima grande sconfitta tedesca sul fronte occidentale.
Seconda battaglia sul Piave: (battaglia del Solstizio).
Vittoria definitiva degli italiani a Vittorio Veneto 24 ottobre 1918
PER
NON
DIMENTICARE