un viaggio della memoria
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un viaggio della memoria
Compito autentico 2°quadrimestre 3 A e 3 B UN VIAGGIO DELLA MEMORIA Le classi 3 A e 3 B di Sarnano sui luoghi della Grande Guerra, nell’anno del centenario della partecipazione italiana (24 MAGGIO 1915 - 24 MAGGIO 2015) INTRODUZIONE La guerra nasce sempre dal volere qualcosa. Si può volere attenzione, libertà, la propria dignità. Ma la cosa peggiore è quando si vogliono territori, quando si vuole potenza. Allora, quando è così, i soldati vengono usati come burattini, e se uno muore lo rimpiazza un altro: l’unico obiettivo è distruggere il nemico, non è permessa la pietà. Il coraggio non è sempre con i soldati, i soldati hanno paura: paura di non riveder le famiglie, paura di morire. Il fango diventa la loro casa, le armi loro amiche. Il cielo è sempre grigio, ceneri, fumo e veleni mortali. Per tutti quei coraggiosi guerrieri era tristezza nell’animo, anche se il duro addestramento la nascondeva assai bene. E per sempre noi ci sforzeremo di non dimenticare quelle vite perdute sul filo spinato. Valentina Frunza (3B) CAPITOLO 1 ASIAGO La partenza Sono partiti all’alba, alle cinque, prima i ragazzi di Monte San Martino, poi quelli di Penna San Giovanni e infine, verso le sei, i ragazzi di Gualdo e Sarnano. Alle otto e un quarto ci siamo fermati a Rimini per colazione, poi abbiamo proseguito diretti per Asiago, dove abbiamo pranzato all’interno di un parco fra i boschi vicino al palazzetto del ghiaccio, dove abbiamo avuto la fortuna di vedere gli allenamenti, che sono veramente spettacolari. Dopo pranzo ci siamo diretti verso il suggestivo Viale degli Eroi, che collega il grande sacrario al centro della città. Questo viale al termine ha un grande arco, in stile romano, alto 47 metri. Il sacrario venne individuato sul colle di Leiten (il Sacrario è conosciuto anche con questo nome), collegato al centro città dal monumentale suggestivo Viale degli Eroi a cui lati sorgono dei grandi cipressi. Il progetto fu dell'architetto veneziano Orfeo Rossato che disegnò un unico e gigantesco blocco di cemento e marmo della zona (di 1600 metri quadrati) sormontato da un grande arco, in stile romano, alto 47 metri. I lavori terminarono nel 1938 ed il Sacrario di Asiago venne inaugurato con grandi celebrazioni alla presenza dello stesso Re Vittorio Emanuele III. Qui sono state traslate 54.286 salme provenienti dai cimiteri di guerra della zona: 34.286 sono italiane (di cui 21.491 ignoti) mentre le restanti 20.000 sono austroungariche (11.762 senza nome). I resti di questi soldati sono ospitati lungo le pareti della gallerie all'interno del grande blocco del Sacrario: quelli identificati sono in ordine alfabetico mentre quelli per cui non è stato possibile effettuare il riconoscimento si trovano all'interno di due grandi tombe comuni ai lati della cripta. Il blocco quadrato è completato da una cappella mentre, nei pressi dell'entrata alla cripta, è possibile accedere anche al piccolo museo del Sacrario. È possibile visitare due sezioni in cui sono esposti diversi cimeli e materiale ritrovato sull'Altopiano di Asiago. La prima è dedicata al biennio 1915-1916 mentre la seconda al periodo 1917-1918. Il pezzo più emozionante è, probabilmente, una lettera di un giovane soldato alla vigilia della Battaglia dell'Ortigara, rinvenuta addirittura negli anni '50. Ad un certo punto ci hanno fatto entrare in una stanza dove abbiamo assistito alla proiezione di un documentario sulla guerra, e un tenente colonnello ci ha illustrato il piccolo museo del sacrario; poi abbiamo aspettato il custode e abbiamo visitato il museo della grande guerra di Canove, che raccoglie oltre 1000 fotografie . Asiago fu uno dei luoghi più simbolici della Grande Guerra. Investita alla fine di maggio del 1916 dall'avanzata austro-ungarica, venne gravemente danneggiata ed occupata dalle truppe asburgiche che la saccheggiarono assieme al vicino abitato di Arsiero. Venne riscostruita alla fine del conflitto e fu scelta, durante il regime fascista, per ospitare uno dei più grandi sacrari militari italiani dedicati alla Grande Guerra. IL DISEGNO QUI SOPRA È DI COMPAGNUCCI (3B) Con il generico nome di Melette viene indicata una serie di rilievi montuosi situati nella parte settentrionale dello altipiano che comprende i monti Fior, Spil, Miela, Castelgomberto, Meletta, Tondarecar. La zona delle Melette fu al centro di due battaglie cosiddette di arresto: la prima, conseguenza della Strafxpedition austriaca, fu combattuta nel giugno 1916 e la seconda, dopo lo sfondamento di Caporetto, nel novembre dicembre 1917. La cosiddetta Strafexpedition è la spedizione punitiva, condotta dagli austriacotedeschi per punire gli italiani del loro tradimento (essere cioè passati dalla triplice alleanza alla triplice intesa: quello che Von Bulow definì i giri di valzer dell’Italia). Siamo nel maggio 1916. Le prime ore della Strafexpedition ebbero un notevole successo per gli austro-ungarici; sul fronte di 20 chilometri ad ovest dell’altopiano di asiago l’avanzata fu inarrestabile. Il monte Zugna, il col santo, il monte maggio, il monte Tornaro a sud di Folgaria caddero in pochi giorni sotto il controllo austriaco; cinque giorni dopo gli austriaci del generale Conrad si spostarono ad est e tra il 20 ed il 25 maggio gli austriaci ebbero via libera verso l’altopiano di Asiago. Il paese di Asiago cadde tra il 27 e il 28 maggio. In tutta fretta gli italiani costituiscono la quinta armata formata da tutti i reparti disponibili sul fronte dell’Isonzo e dalle unità che il ministro degli esteri Sidney Sonnino aveva inviato all’inizio della guerra in Albania. Il 1 giugno, nonostante la resistenza italiana, gli austriaci raggiungono l’estremità meridionale dell’altopiano di Asiago, attestandosi su di una linea segnata dall’altopiano di Asiago e dal monte Pasubio. Fortunatamente per gli italiani, però, l’esercito asburgico interruppe in quel momento cruciale l’avanzata per mancanza di uomini, munizioni e forze. La contemporanea azione sul fronte orientale della Russia decretò la fine pratica della Strafexpedition, terminata ufficialmente il 16 giugno 1916. La gita non ha previsto un visita del monte Pasubio, però occorrerà almeno ricordare alcune cose. Il Pasubio diventa zona di guerra sin da subito, ma nessuno poteva presagire che lassù migliaia di combattenti si sarebbero trovati impegnati per anni interi in durissimi combattimenti. La zona storicamente più importante del Pasubio, dal 1922 è stata dichiarata zona monumentale. È delimitata da 30 cippi che ricordano i reparti che maggiormente si distinsero negli accaniti combattimenti e comprende il dente italiano, la cima Palon e la vetta immediatamente a sud di detta cima. La più famosa via d’accesso al Pasubio è rappresentata dalla strada del 52 gallerie, una mulattiera che permetteva all’esercito italiano il collegamento fra la base del monte e la zona alta al riparo dal tiro nemico. Ma un’altra importantissima opera bellica del Pasubio è costituita dal sistema sotterraneo dei due denti. Si tratta di due speroni rocciosi che superano i 2200 metri, sul crinale principale, posti l’uno di fronte all’altro, divisi da una selletta. Dopo le prime fasi del conflitto il dente meridionale fu fortificato dagli italiani (dente italiano) e quello settentrionale dagli austriaci (dente austriaco). In particolare nella seconda fase del conflitto, in corrispondenza dell’inverno 19171918, furono teatro di una guerra parallela denominata guerra sotterranea o guerra delle mine, in quanto da ambo le parti vi era il progetto di arrivare a far saltare con l’esplosivo le postazioni nemiche. Il dente italiano è collegato alla retrostante cima Palon dalla galleria Papa. La guerra delle mine fu caratterizzata da numerosi scoppi e alterne vicende fino alla grande mina austriaca del 13 marzo 1918, quando 50 mila chilogrammi di esplosivo squarciarono l’avamposto del dente italiano. IL DISEGNO QUI SOPRA È DI GABRIELE PISU Da ricordare infine che dal 10 giugno al 29 giugno fu combattuta la battaglia del Monte Ortigara, scatenata dagli italiani con l’obiettivo di riconquistare le vaste porzioni di territorio perse sull’Altopiano di Asiago durante la Strafexpedition austroungarica del 1916. Nonostante l’altissimo sacrificio di vite, l’offensiva andò incontro ad un sostanziale fallimento. CAPITOLO 2 TRIESTE Stamattina le prof sono passate alle sei e quaranta per il buongiorno….Alle nove e mezza ci siamo incontrati con la guida al Castello di Miramare, una costruzione antica, bellissima e circondata dal mare. Sarà l’inverno, o forse perché l’acqua è così limpida, ma quel posto ci è sembrato davvero un incanto. Abbiamo pranzato in un ristorante a Trieste e subito dopo siamo andati alla Risiera di San Sabba, l’unico esempio di lager nazista in Italia. Ci sono rimaste 17 celle di detenzione e una cella della morte. Poi con la guida abbiamo visitato due chiese importanti di Trieste, una cattolica e l’altra ortodossa. Dalle 17 in poi abbiamo avuto un po’ di tempo per noi, per le compere e per lo svago. Siamo tornati all’albergo un po’ prima per farci la doccia e preparare le valigie, visto che era l’ultima notte. Dopo cena siamo andati verso il centro di Grado da dove si vede il mare. E anche questa giornata è finita: iniziata con la guida di 89 anni e finita con “un…due...tre stella”. Per capire il fascino misterioso della città di Trieste bisogna ripercorrerne la storia. Nel corso della feroce contrapposizione tra Italia e Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, Tito aveva occupato la penisola istriana e rivendicava Trieste. Nella convinzione che al momento delle spartizioni, si sarebbe seguito il principio di contare il numero degli italiani e degli slavi presenti, assegnando la città alla popolazione più consistente, Tito ordinò stragi di italiani nella primavere estate del ‘45 a Trieste, Gorizia e in molti centri dell’Istria (le Foibe). A ciò si collega anche l’esodo di circa 200.000 italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. Alla fine del 1946 fu data una sistemazione provvisoria a quella area infuocata, e l’Istria fu lasciata alla Jugoslavia (tranne una striscia comprendente Trieste e Capodistria (Territorio libero di Trieste). Questo territorio libero di Trieste viene diviso in due: una zona A assegnata agli alleati ed una zona A assegnata alla Jugoslavia: nell’ottobre del 1954 si procede alla spartizione: la zona B alla Jugoslavia e la zona A (compresa Trieste) all’Italia. Ma il reciproco riconoscimento di sovranità arrivò solo nel 1975 (trattato di Osimo). IL CASTELLO DI MIRAMARE Il castello di Miramare fu una residenza della corte Asburgica: il complesso venne costruito nell'omonima frazione di Trieste per volere di Massimiliano d'AsburgoLorena, arciduca d'Austria e imperatore del Messico, per farne la propria dimora da condividere con la moglie Carlotta del Belgio MENTRE A MASSIMILIANO spettò il titolo di Principe Imperiale e Arciduca d'Austria, Principe Reale di Ungheria e Boemia, suo fratello Francesco Giuseppe divenne imperatore d'Austria. Dotato di particolare intelligenza, mostrò particolare propensione per le arti e un fervente interesse per le scienze, e segnatamente per la botanica. Il castello è circondato da un grande parco di circa 22 ettari caratterizzato da una grande varietà di piante, molte delle quali scelte dallo stesso arciduca durante i suoi viaggi attorno al mondo, che compì come ammiraglio della marina militare austriaca. Nel parco si trova anche il castelletto, un edificio di dimensioni minori che funse da residenza per i due sposi durante la costruzione del castello stesso, ma che divenne di fatto una prigione per Carlotta, quando perse la ragione dopo l'uccisione del marito in Messico. All'interno, il castello è suddiviso in numerose stanze. Il piano terra era destinato a residenza dell'Imperatore Massimiliano I e della consorte Carlotta, mentre quello superiore venne in periodo successivo adibito a residenza del Duca Amedeo d'Aosta, che vi abitò per circa sette anni e modificò alcune stanze secondo lo stile dell'epoca. Furono rimosse le insegne Imperial-Regie e sostituite con croci sabaude. Questo castello è risultato funesto per chi vi ha abitato: Massimiliano d'Asburgo partì per cingere la corona imperiale del Messico e vi morì, Amedeo partì per l'Impero d'Etiopia di cui fu viceré e morì in prigionia. La prima idea di costruire un castello sul promontorio vicino alla baia di Grignano venne a Massimiliano nel 1855. Occorreva bonificare la zona, ma l'ampio spazio a disposizione avrebbe costituito per il fratello dell'imperatore il luogo ideale dove dare libero sfogo alla propria passione per la botanica, creando un giardino in cui l'arciduca farà poi confluire le numerose piante rare importate oltreoceano. I lavori cominciarono il 1º marzo 1856, e il progetto fu affidato all'architetto viennese Carl Junker. Il primo disegno non convinse Massimiliano, che ne chiese uno alternativo a Giovanni Berlam, rimanendone soddisfatto. Fu tuttavia il secondo progetto di Junker a divenire quello definitivo. Con la decadenza dalla carica di governatore del Lombardo-Veneto, nel 1859, Massimiliano si trasferì con Carlotta a Miramare, alloggiando dapprima nel castelletto e, a partire dal Natale del 1860, nell'edificio principale. In considerazioni degli indubbi meriti guadagnati come governatore del LombardoVeneto e dell'evidente disagio maturato con il fratello imperatore, Massimiliano parve il candidato ideale alla instaurazione di una monarchia moderata NEL MESSICO Accettò la corona nel 1863. Francesco Giuseppe si vendicò, imponendogli (ne venne a conoscenza solo poco prima della partenza) la perdita di tutti i titoli che a lui competevano presso la casa regnante austriaca. Salpò per il Messico assieme alla moglie dal castello di Miramare il 14 aprile 1864 a bordo del Novara. La stessa nave ne riporterà indietro la salma quattro anni più tardi. Carlotta riguadagnò Trieste nel 1866, ma il consorte fu fucilato a Querétaro nel giugno successivo. Carlotta cominciò a dare segni di insanità mentale e fu fatta rinchiudere nel castelletto. Poco dopo tornerà nel natìo Belgio. L'interno fu intanto completato. Gli appartamenti della coppia, neogotici e neomedievali, furono terminati nel 1860, mentre il completamento della zona di rappresentanza, dieci anni più tardi, determinò la fine dei lavori. [5] Miramar di Giosuè Carducci O Miramare, a le tue bianche torri attediate per lo ciel piovorno fósche con volo di sinistri augelli vengon le nubi. O Miramare, contro i tuoi graniti grige dal torvo pelago salendo con un rimbrotto d'anime crucciose battono l'onde. Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi stanno guardando le città turrite, Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo, gemme del mare; e tutte il mare spinge le mugghianti collere a questo bastion di scogli onde t'affacci a le due viste d'Adria, rocca d'Absburgo; e tona il cielo a Nabresina lungo la ferrugigna costa, e di baleni Trieste in fondo coronata il capo leva tra' nembi. Deh come tutto sorridea quel dolce mattin d'aprile, quando usciva il biondo imperatore, con la bella donna, a navigare! A lui dal volto placida raggiava la maschia possa de l'impero: l'occhio de la sua donna cerulo e superbo iva su 'l mare. Addio, castello pe' felici giorni nido d'amore costruito in vano! Altra su gli ermi oceani rapisce aura gli sposi. (…) La Risiera di San Sabba Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 (Stalag 339). Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal Civico Museo di guerra per la pace a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. A favore di cittadini imprigionati nella Risiera – ed in particolare dei cosiddetti “misti” (ebrei coniugati con cattolici) – intervenne direttamente presso le autorità germaniche il vescovo di Trieste, mons. Santin, in alcuni casi con successo (liberazione di Giani Stuparich e famiglia), ma in altri senza alcun esito (Pia Rimini). Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio – marzo 1944, dell’impianto del preesistente essiccatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto dell’”esperto” Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato purtroppo trafugato nel 1981). Sul tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate: gassazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o fucilazione. Non sempre la mazzata uccideva subito, per cui il forno ingoiò anche persone ancora vive. Fragore di motori, latrati di cani appositamente aizzati, musiche, coprivano le grida ed i rumori delle esecuzioni. Il fabbricato centrale, di sei piani, fungeva da caserma: camerate per i militari SS germanici, ucraini e italiani (questi ultimi impiegati in Risiera per funzioni di sorveglianza) nei piani superiori, cucine e mensa al piano inferiore, ora adattato a Museo. L’edificio oggi adibito al culto, senza differenziazione di credo religioso, al tempo dell’occupazione serviva da autorimessa per i mezzi delle SS colà di stanza. Qui stazionavano anche i neri furgoni, con lo scarico collegato all’interno, usati probabilmente per la gassazione delle vittime. All’esterno, a sinistra, il piccolo edificio – ora adibito ad abitazione del custode – costituiva il corpo di guardia e abitazione del comandante. A destra, nella zona attualmente sistemata a verde, esisteva un edificio a tre piani con uffici, alloggi per sottufficiali e per le donne ucraine. Quante sono state le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lagero al lavoro obbligatorio. Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo. LA CELLA DELLA MORTE Lì, tutti avevamo dimenticato la parola pace non ci ricordavamo cosa fosse la libertà, conoscevamo solo gli angoli della cella dove stavamo in sei. Quella cella aveva segnato il nostro destino aveva fatto perdere la luce dei nostri occhi, avevamo scoperto come si soffre, avevamo capito cosa significasse vedere la morte. Una morte lenta che ci faceva ricordare la nostra famiglia, ci riportava in mente i nostri ricordi quelli belli e quelli orrendi. Lì, c’era la polvere che copriva gli angoli, copriva il pavimento e solo il nostro sangue lo lavava. ricordo quelle lettere scritte da noi, l’inchiostro scriveva la verità, una verità amara e violenta che ci costava la vita. lì, le nostre labbra non si muovevano, ma vibravano dal freddo, dalla paura. nella Risiera di san Sabba soffia ancora il vento che fa viaggiare la nostra ultima parola: Addio! Hanita Memedaj (3B) Terzo capitolo San Martino del Carso. Isonzo. Redipuglia. Ungaretti. La Canzone del Piave Il terzo giorno di gita siamo arrivati a San Martino del Carso, dove abbiamo visitato delle grotte scavate durante la guerra e la trincea delle frasche. La passeggiata a San Michele e la visita alle trincee ci ha fatto veramente riflettere su quello che è accaduto, perchè abbiamo visto con i nostri occhi dove quei poveri ragazzi erano costretti a vivere, a trascorrere le loro giornate con il freddo, la neve e la paura di prendersi qualche pallottola dal nemico, anche lui rintanato in una trincea come la sua. La giornata si è conclusa con una visita al sacrario di Redipuglia. (vallesi) Il fronte sul fiume Isonzo Le battaglie più dure e cruente dei primi anni di guerra avvennero sul fronte dell'Isonzo. Assai meno esteso di quello alpino, assunse fin dall'inizio grande importanza strategica nei piani italiani: sulle sue rive fu riversata la maggior parte delle risorse militari, nel tentativo di sfondare le difese austro-ungariche e aprirsi la strada verso il cuore dell'Austria mediante l'urto della 2ª Armata del generale Pietro Frugoni e della 3ª Armata del duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Dalla conca di Plezzo al monte Sabotino, che domina le basse colline davanti a Gorizia, l'Isonzo scorre tra due ripidi versanti montani, costituendo un ostacolo quasi invalicabile; così, le linee trincerate dei due eserciti dovettero adattarsi all'orografia e alle caratteristiche del campo di battaglia[33]. Gli austro-ungarici, abbandonata la vallata di Caporetto, fronteggiarono i reparti italiani su una linea quasi ovunque dominante, che partiva dal monte Rombon, passava per il campo trincerato di Tolmino per poi collegare il ripido versante destro del fiume con quello sinistro, in corrispondenza con le trincee del monte Sabotino. Dal Sabotino le trincee austro-ungariche difendevano la città di Gorizia, fino a oltrepassare nuovamente l'Isonzo, per innestarsi sulle quattro cime del massiccio del San Michele e proseguire infine fino al mare lungo il primo ciglione del Carso, passando per San Martino del Carso, monte Sei Busi, Doberdò del Lago, i monti Debeli e Cosich[33]. Invasa già all'inizio del conflitto l'ampia area pedecarsica e occupate Gradisca d'Isonzo e Monfalcone, le truppe italiane si attestarono a poca distanza dalle posizioni austro-ungariche. Da una parte e dall'altra del fronte, l'ampio e complesso sistema logistico dei due eserciti occupava molto in profondità il territorio: monopolizzava le vie di comunicazione, occupava campi, boschi, città e paesi; s'impiantavano comandi, presidi militari, magazzini, depositi, ospedali e cannoni. Entrambi gli eserciti provvidero a evacuare la maggioranza dei civili dalle aree a ridosso della linea del fronte. Dalla parte austro-ungarica l'esodo riguardò in particolare Gorizia, l'Istria e le aree del Carso e delCollio, i cui abitanti vennero sfollati in grandi campi profughi. Nei territori occupati dall'esercito italiano furono internati per precauzione molti parroci e autorità austro-ungariche, mentre le popolazioni dei paesi prossimi alla zona delle operazioni furono trasferite in varie località del Regno, in particolare città e sperduti paesi dell'Italia meridionale [33]. L'altopiano del Carso era un pessimo luogo dove condurre una guerra di posizione: scavare trincee e camminamenti senza disporre di perforatrici meccaniche si rivelò quasi impossibile, visto che sotto un leggero strato di terriccio si trovava della dura roccia calcarea, e il terreno in generale non favoriva dei movimenti rapidi delle truppe. Le esplosioni dei proiettili di artiglieria scagliavano in lungo e largo frammenti di roccia che si sommavano all'effetto mortale degli shrapnel[34]. Le prime spallate sull'Isonzo Solo alla fine di giugno la mobilitazione italiana poté dirsi completata e l'esercito pronto a muoversi, con circa un milione di uomini ammassati tra Friuli e Veneto[42]. Il 23 giugno Cadorna scatenò la prima delle sue "spallate" contro il fronte nemico lungo l'Isonzo, proseguita poi fino al 7 luglio: davanti Plava gli italiani attaccarono per otto volte il picco dominante di Quota 383 senza ottenere praticamente alcun risultato, mentre un assalto il 1º luglio contro il Mrzli naufragò lungo i declivi con pendenza del 40% resi fangosi da improvvisi temporali estivi; sul Carso, dopo violenti combattimenti, la prima linea austro-ungarica cedette sotto i colpi dell'artiglieria italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia e sopra Sagrado, consentendo agli attaccanti di portarsi sotto i picchi del monte San Michele e del monte Sei Busi che finirono con il rappresentare un saliente saldamente tenuto dagli austro-ungarici. In generale l'attacco italiano non approdò a niente: benché le difese austro-ungariche fossero ancora relativamente improvvisate a causa della difficoltà di scavare trincee sul terreno del Carso, gli italiani dimostrarono notevoli difficoltà a superare gli sbarramenti di filo spinato protetti dalle mitragliatrici[43]. Dopo aver ammassato un maggior quantitativo di artiglieria, Cadorna tentò una nuova offensiva il 18 luglio: l'azione si concentrò sul San Michele, e gli attacchi costrinsero gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia di metri sull'altipiano di Doberdò del Lago e davanti al villaggio di San Martino del Carso[44]; sui due lati del saliente, invece, gli attacchi italiani contro il monte Cosich a sud e contro il Podgora e il Sabotino a nord davanti Gorizia non portarono che a forti perdite e guadagni territoriali insignificanti. Sull'alto Isonzo la 2ª Armata iniziò una serie di assalti nel settore Monte Nero-Mrzli nel tentativo di distrarre gli austroungarici dal San Michele, ma il poco terreno guadagnato fu in gran parte perduto in contrattacchi dei difensori[45]. Le batterie italiane iniziarono presto a scarseggiare di munizioni e questo indusse Cadorna a sospendere gli attacchi per il 3 agosto[46], facendo della seconda battaglia dell'Isonzo il primo bagno di sangue su larga scala del fronte: gli italiani riportarono 42.000 tra morti e feriti, perdite causate da obsolete tattiche che imponevano l'attacco frontale con le truppe ammassate in dense formazioni (numerose furono, in particolare, le vittime tra gli ufficiali inferiori, che si ostinavano a guidare le truppe in prima linea spada alla mano) e anche dallo scarso coordinamento tra artiglieria e fanteria. La battaglia fu peraltro l'unica che registrò perdite superiori in campo austro-ungarico, ammontanti a 47.000 tra morti e feriti, a causa delle difese abbozzate (le prime linee erano ben fortificate ma le retrovie erano carenti di rifugi protetti, risultando molto vulnerabili al fuoco d'artiglieria) e dell'ostinazione di Borojević a mantenere il possesso di qualunque lembo di terreno[47]. Cadorna passò due mesi ad ammassare altra artiglieria e a ricostruire le sue riserve di munizioni in vista di un nuovo assalto. Gli Alleati facevano pressioni perché l'offensiva fosse lanciata al più presto, onde alleggerire la pressione sulla Serbia sotto attacco austro-tedesco da nord, bulgaro da est e prossima al crollo. Cadorna diede il via alle operazioni il 18 ottobre: nonostante il pesante fuoco d'appoggio di 1.300 cannoni protrattosi per tre interi giorni, gli assalti della fanteria sferrati a partire dal 21 ottobre dal Mrzli al San Michele, passando per il Sabotino e il Podgora, non portarono che a pochi guadagni, in gran parte persi nei contrattacchi degli austroungarici, che avevano ben sfruttato il periodo di tregua allestendo una linea difensiva basata su tre ordini di trincee. Il maltempo imperversò per tutta la durata della battaglia, spingendo il comando italiano a terminare l'azione il 4 novembre dopo nuovi e infruttuosi assalti al San Michele[48]. Nonostante le 67.000 perdite riportate dagli italiani, tra morti e feriti, Cadorna si convinse che i reparti di Borojević fossero sul punto di crollare e, dopo appena una settimana di pausa, il 10 novembre scatenò la quarta battaglia dell'Isonzo. Sotto una pioggia battente che dal 16 novembre si trasformò in neve, gli italiani assalirono le stesse posizioni: riuscirono a occupare solo esigue striscie a un alto costo. Il 5 dicembre ogni azione cessò [49]. Alla fine del 1915 lungo l'Isonzo l'esercito italiano registrò circa 235.000 perdite tra morti, feriti, ammalati, prigionieri e dispersi, mentre gli austro-ungarici, pur difendendosi quasi esclusivamente, subirono oltre 150.000 perdite[44]. Gli austroungarici iniziarono a preoccuparsi dell'assottigliamento degli effettivi, ma il sistema difensivo resse bene l'urto dei fanti italiani, che ancora una volta vedevano vanificati i loro sforzi; nessuno degli obiettivi prefissi dal comando supremo era stato raggiunto e ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle operazioni in grande stile, anche perché, viste le perdite, entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di continuare una lotta all'ultimo uomo[46]. Il monte San Michele, chiamato così in modo improprio visto che la sua massima elevazione è 275 metri sul livello del mare,[1] è un rilievo carsico situato a cavallo tra i comuni di Sagrado ed in particolare nella frazione di San Martino del Carso, e Savogna d'Isonzonella provincia di Gorizia non distante né dal mare Adriatico, che si percepisce dalla sua sommità, né dal sacrario di Redipuglia. La sua fama è legata al fatto che esso fu teatro di numerose battaglie durante la Prima guerra mondiale. Ancora oggi, infatti, la zona tra Fogliano Redipuglia e Sagrado è disseminata di trincee, camminamenti, caverne e gallerie nonché di molti piccoli monumenti spontanei sorti dopo il conflitto. Il San Michele viene citato nel componimento Sono una creatura del famoso poeta ermetico Giuseppe Ungaretti, che partecipò al dramma di quella guerra. [2] Dalla sua sommità è visibile una buona porzione di Alto Adriatico, con una visione che spazia dalla città di Monfalcone, alla foce dell'Isonzo ed all'intera laguna di Grado, mentre verso sud-est nelle giornate nitide si può arrivare a percepire l'estremità nordoccidentale della penisola istriana di punta Salvore, nei pressi di Pirano. Il San Michele grazie alla sua posizione dominava la bassa valle dell'Isonzo e permetteva di tenere sotto controllo la città di Gorizia. A seguito della Prima battaglia dell'Isonzo, la postazione venne pesantemente fortificata dagli austroungarici, tramite un ampio sistema di caverne e ricoveri, e munita di cannoni di grande calibro. L'esercito italiano tentò per mesi di conquistarlo, tanto che la sanguinosa Seconda battaglia dell'Isonzo è nota anche come battaglia del San Michele,[3] perché ivi lo sforzo italiano fu più concentrato e intenso. Le estese fortificazioni, difese da reparti ungheresi, resistettero a diversi attacchi e il monte cadde nelle mani dell'esercito italiano solo durante la Sesta battaglia dell'Isonzo. Fu teatro del primo attacco condotto con i gas sul fronte italiano: il 29 giugno del 1916 l'esercito austroungarico attaccò di sorpresa l'esercito italiano utilizzando una miscela di cloro e fosgene con relativo successo.[4] La sommità del monte è stata restaurata e dichiarata zona monumentale. Sono visitabili diverse opere, tra le quali la galleria del comando austroungarico generale Lukacich e l'ampia galleria della III Armata, accessibile dal piazzale su cui si trova anche il Museo del Monte San Michele. San Martino del Carso: questa piccola frazione del Comune di Sagrado è oggi immersa nella tranquillità della natura carsica ma, nel 1915, si trovò proprio nel cuore del fronte. Completamente distrutta dai bombardamenti, è diventata famosa in tutta Italia (e non solo) grazie alla poesia di Giuseppe Ungaretti. Non esiste un vero e proprio percorso ma i siti di maggiore interesse sono tutti vicini e raggiungibili facilmente. Scendendo dal piazzale del Museo di San Michele, dopo circa un chilometro e mezzo, si può visitare il Valloncello dell'Albero Isolato e proseguire poi verso il centro del paese, distante appena 500 metri. Qui si trovano la lapide che riporta i versi della poesia di Giuseppe Ungaretti ed un museo privato della Grande Guerra mentre seguendo le indicazioni per il cimitero civile si trova il Cippo del 4° Honved. Per chi volesse, la visita a San Martino può iniziare anche da quest'ultimo punto perché il cippo è raggiungibile direttamente dal sentiero del Monte San Michele seguendo la strada forestale che parte dall'imbocco della Galleria Cannoniera. La scoperta dei resti e delle testimonianze della Grande Guerra prosegue lungo via Piantella, la strada che riporta verso Sagrado. Dopo 1,5 chilometri da San Martino si incrocia la cosiddetta"Area delle Battaglie" dove è possibile fermarsi e scoprire la Trincea delle Frasche, il Cippo della Brigata Sassari ed il monumentale Cippo Filippo Corridoni. Poco più avanti (1 chilometro), all'interno di un magnifico contesto rurale - letterario, è possibile passeggiare ed ammirare i monumenti installati nel Parco Letterario Ungaretti, dedicato al poeta che ha reso celebri questi luoghi. La Trincea delle Frasche Ripresa la via del ritorno verso Sagrado, dopo un chilometro e mezzo da San Martino del Carso si può visitare la cosiddetta "Area delle Battaglie", la zona in cui vennero condotti i primi attacchi italiani alla linea asburgica nell'estate del 1915. La zona è disseminata di camminamenti, trincee, fortificazioni e costruzioni austro-ungariche e italiane. Tra tutti questi resti si segnala la Trincea delle Frasche, uno degli ostacoli maggiori per i soldati italiani durante i suoi primi assalti. Venne scavata dall'esercito asburgico nei primi mesi di guerra e venne persa solo alla fine del 1915. Il nome lo si deve all'astuzia militare dei soldati ungheresi i quali utilizzarono dei rami per mascherarla e renderla meno visibile agli occhi degli osservatori e della ricognizione aerea. In questo punto morì, il 23 ottobre 1915, Filippo Corridoni, leader del sindacalismo rivoluzionario e amico personale di Benito Mussolini. I resti che oggi si possono vedere sono perlopiù fortificazioni costruite dagli italiani fra l'autunno del 1916 ed i primi mesi del 1917. Lungo il suo tracciato si incontra una galleria militare che garantiva i collegamenti con altre linee della zona, in particolare con la vicina Dolina del XV Bersaglieri. Fermiamoci un attimo a pensare chiudiamo gli occhi e immaginiamo quante stragi, quante vite buttate come spazzatura, quante famiglie distrutte, quante lacrime versate, quanta voglia di scappare da questa inutile strage e quanto dovere di restare. “essere in un tunnel in cui l’unica via d’uscita è la morte”. (Massucci, Petrocchi e Rongione 3A) UNGARETTI E LA GRANDE GUERRA Quando il Governo Salandra ufficializzò la guerra contro l'Austria-Ungheria e il poeta decise di arruolarsi come soldato semplice. La prima domanda venne rifiutata perché troppo anziano ma alla fine dell'anno, vista la necessità di uomini, fu accettata. Ungaretti non si rese protagonista di azioni eroiche ma grazie alla sua poesia ha lasciato alcune delle pagine più toccanti della Grande Guerra. Abbandonati i sentimenti nazionalisti che lo avevano mosso fino a qualche mese prima, egli "prese coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione." (Mark Thompson, "La Guerra Bianca", Il Saggiatore, Milano, 2009, p. 200). Durante il riposo, in mezzo alle trincee del Monte San Michele o nelle retrovie della pianura friulana, iniziò a scrivere una sorta di diario in forma di poesia, composte da poche ma significative parole accompagnate da una data e da un luogo. Il suo amico (e poeta) Ettore Serra lo convinse a farsi consegnare i foglietti dove annotava questi suoi pensieri e nel 1916 ne fece stampare 80 copie intitolate "Il Porto Sepolto". Al suo interno si potevano leggere 29 poesie, alcune divenute poi famosissime come "Fratelli" oppure "San Martino del Carso". La maggior parte furono scritte a Mariano del Friuli, a Versa (frazione di Romans d'Isonzo) e nel Valloncello di Cima 4, sul Monte San Michele. Dopo aver trascorso quasi due anni sul fronte carsico, la disfatta di Caporetto condusse Ungaretti in Francia. Gli accordi con la Triplice Intesa infatti prevedevano l'invio di un contingente italiano sul fronte occidentale, ad est di Parigi. Al termine della Grande Guerra, il poeta rimase a Parigi dove curò una seconda edizione de "Il Porto Sepolto", intitolata "L'allegria dei naufragi" e stampata a Firenze nel 1919. Alle prime poesie se ne aggiunsero altre, composte tutte nel 1917, tra cui la famosissima "Mattina"(composta da sette sillabe: "M'illumino d'immenso"), scritta a Santa Maria la Longa. Oggi è possibile ripercorrere alcuni dei luoghi che ispirarono la poetica di Ungaretti visitando ad esempio il Museo all'aperto del Monte San Michele, il paese di San Martino del Carso e il vicino Parco Ungaretti. La sua figura è anche ricordata a Santa Maria la Longa dove si può ammirare un monumento ispirato alla poesia "Mattino". QUESTO DISEGNO È DI FRANCESCA VALLESI (3A) Sono una creatura Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916 Come questa pietra del S. Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo In questa poesia Ungaretti paragona il suo stato d’animo alla pietra distrutta del Monte S.Michele, priva di vita e fredda; si sente come demotivato a vivere questo periodo della sua vita, fatta di guerra. Attraverso le metafore vuole farci capire che la guerra non distrugge solo i paesaggi, ma anche la vita e gli stati d’animo delle persone. (Benedetta Calvi 3A) Veglia Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita Questa poesia esprime la terribile vita di un soldato in trincea che racconta le sue emozioni. Ungaretti ci fa capire la brutalità di quel periodo vista attraverso gli occhi di chi lo viveva da vicino. I soldati temevano la morte, e capivano solo in quel momento quanto fosse bella la vita fuori, fuori dalla guerra, lontano dai fucili, le armi, la fame e la stanchezza. Vicino alle loro famiglie tutto era diverso. Trasportati quasi per forza a prendere parte a quella guerra che non sembrava finire mai, erano stanchi. (Benedetta Calvi 3A) San Martino del Carso Valloncello dell’albero isolato "Di queste case, non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano, non è rimasto neppure tanto. Ma nel mio cuore, nessuna croce manca: è il mio cuore, il paese più straziato." La famosa poesia di Giuseppe Ungaretti San Martino del Carso porta, sotto il titolo, l'indicazione inequivocabile di un luogo e una data: Valloncello dell'Albero Isolato, il 27 agosto 1916. «Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro...». Quei versi furono scritti dal giovane soldato Ungaretti nei pressi della sola pianta che sarebbe rimasta in piedi sul campo di battaglia e che segnava il confine tra l'esercito austroungarico e quello italiano: l'«albero isolato» serviva da punto di riferimento altimetrico per le mappe italiane utili alle operazioni belliche del Monte San Michele. Sia pure ridotto a brandelli, come i muri della celebre frazione di Sagrado, nel Goriziano, non c'è albero che abbia conservato tanto valore simbolico, al punto da diventare monumento storico. Venne infatti tagliato e portato in patria come una reliquia dai soldati ungheresi del 46° reggimento in ritirata: per loro era l'«Albero di Doberdò». Da allora, quel tronchetto secco come uno scheletro, ferito a morte e traforato dai colpi incrociati e dai bombardamenti, è rimasto nel Mòra Fenec Muzeum di Szeged. L'alberello, il cui valore era condiviso dagli eserciti contrapposti, era un gelso, piantato in una terra di nessuno in mezzo alle trincee e destinato a rimanere in solitudine tra le pietraie e le macerie, accanto alla cosiddetta Cappella Diruta, l'antica chiesa del paese, ridotta a un rudere. Il fante Ungaretti, che combattè in prima e seconda linea dal dicembre 1915 all'agosto dell'anno dopo tra sofferenze e malattie, dedicò alla guerra carsica i suoi primi versi, che sarebbero confluiti nella raccolta d'esordio. Porto sepolto verrà pubblicato a Udine in ottanta copie quello stesso anno, grazie al tenente-stampatore Ettore Serra, conosciuto nelle retrovie. Tra i componimenti di quel periodo tragico, si trovano molte delle poesie ungarettiane più celebri, compresa Veglia: «Un'intera nottata / buttato vicino /a un compagno / massacrato...», scritta sotto Cima 4 il 23 dicembre 1915 su frammenti di carta recuperata qua e là, come le altre. Di recente, come ha raccontato Fabi sul quotidiano di Trieste Il Piccolo, è stata trovata una fotografia inedita , che ritrae il poeta ventottenne, in secondo piano, con l'elmetto in testa e la giacca della compagnia presidiaria della Brigata Brescia, circondato da un gruppo di commilitoni in attesa del rancio sulle pietraie del monte San Michele. Siamo nell'estate del 1917, quando Ungaretti, provato fisicamente e psichicamente dagli orrori della trincea e dichiarato non idoneo al combattimento, era già stato trasferito a mansioni burocratiche. « “Ero in presenza della morte”, annoterà il poeta, “in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo terribile” (...). “Nella mia poesia non c'è traccia d'odio per il nemico, né per nessuno; c'è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione”». (Paolo Di Stefano) Il Sacrario di Redipuglia Il Sacrario di Redipuglia è il più grande e maestoso sacrario italiano dedicato ai caduti della Grande Guerra. Realizzato sulle pendici del Monte Sei Busi su progetto dell'architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni, fu inaugurato il 18 settembre 1938 dopo dieci anni di lavori. Quest'opera, detta anche Sacrario "dei Centomila", custodisce i resti di 100.187 soldati caduti nelle zone circostanti, in parte già sepolti inizialmente sull'antistante Colle di Sant'Elia. Fortemente voluto dal regime fascista, il sacrario voleva celebrare il sacrificio dei caduti nonché dare una degna sepoltura a coloro che non avevano trovato spazio nel cimitero degli Invitti. La struttura è composta da tre livelli e rappresenta simbolicamente l'esercito che scende dal cielo, alla guida del proprio comandante, per percorrere la Via Eroica. In cima, tre croci richiamano l'immagine del Monte Golgota e la crocifissione di Cristo. Camminando verso le tombe si percorre la "Via Eroica", ovvero una strada lastricata in pietra delimitata da 38 targhe in bronzo che indicano i nomi delle località carsiche contese durante la Grande Guerra. Terminato questo suggestivo percorso, si arriva alle maestose tombe dei generali, tra le quali spicca quella del comandante della Terza Armata, Emanuele Filiberto Duca d'Aosta che aveva espresso il desiderio di essere sepolto a Redipuglia. Il sepolcro è formato da un blocco di marmo rosso della Val Camonica dal peso di 75 tonnellate. Al suo fianco si trovano invece le tombe in granito di cinque generali: Antonio Chinotto, Tommaso Monti, Giovanni Prelli, Giuseppe Paolini e Fulvio Riccieri. Alle spalle si elevano i 22 gradoni (alti 2,5 metri e larghi 12) che, in ordine alfabetico, custodiscono le spoglie dei 39857 soldati identificati. Ogni loculo è sormontato dalla scritta "Presente" e sono raggiungibili grazie alle scalinate laterali che conducono in cima. Al centro del primo gradone si trova l'unica donna sepolta, una crocerossina di nome Margherita Kaiser Parodi Orlando, mentre sul ventiduesimo si trovano i resti di 72 marinai e 56 uomini della Guardia di Finanza. Arrivati al termine della scalinata e dei gradoni, due grandi tombe coperte da lastre di bronzo custodiscono i resti di oltre 60 mila soldati ignoti. Oltrepassate si arriva in cima al sacrario dove la visita può continuare visitando la piccola cappella che custodisce la "Deposizione" e le formelle della Via Crucis dello scultore Castiglioni. Sopra a questa struttura religiosa si trovano le tre croci in bronzo. Nella parte posteriore dell'ultimo gradone sono state allestite due salette museali: all'interno si trovano le fotografie del primo Sacrario di Redipuglia, i documenti, i reperti bellici ed i dipinti di Ciotti che adornavano la prima Tomba del Duca D'Aosta, posta originariamente nella cappelletta in cima al Colle Sant'Elia. Sul pianoro, a Quota 89, si trova l'Osservatorio e un plastico del territorio che evidenzia la linea di confine all'alba del 24 ottobre 1917, il giorno della Dodicesima Battaglia dell'Isonzo. Il Sacrario militare di Redipuglia è un monumentale cimitero militare situato in Friuli Venezia Giulia, costruito in epoca fascista[1] e dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Sorge all'interno del territorio comunale di Fogliano Redipuglia in provincia di Gorizia. Il monumento è il fulcro di un parco commemorativo di oltre 100 ettari che comprende una parte del Carso triestino-goriziano, teatro durante la Grande guerra di durissime battaglie (battaglie dell'Isonzo). Le enormi dimensioni e l'ampia area coinvolta a parco della memoria ne fanno il più grande sacrario militare d'Italia e uno dei più grandi al mondo. Ogni 4 novembre, alla presenza del presidente del Senato, in sostituzione del presidente della Repubblica impegnato in contemporanea in celebrazioni analoghe all'Altare della Patria, il sacrario serve come luogo di commemorazione per tutti i 689.000 soldati morti durante la prima guerra mondiale. La grande scalinata di pietra che forma il sacrario di Redipuglia è collocata direttamente davanti alla collina di Sant'Elia, sede del precedente cimitero di guerra i cui resti furono traslati nell’attuale sacrario monumentale. Tutta l’area è stata convertita a parco del "ricordo" o della "rimembranza": gallerie, trincee, crateri, munizioni inesplose e nidi di mitragliatrice sono stati conservati sul sito a ricordo della guerra. Il memoriale monumentale è stato progettato da un gruppo di lavoro presieduto dall'architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni. I lavori iniziarono nel 1935 con un impiego enorme di uomini e mezzi che dopo 3 anni ininterrotti di lavori permisero l'inaugurazione del monumento il 18 settembre del 1938 alla presenza di Mussolini e di più di 50.000 veterani della Grande guerra.[2] Il monumento dalla nascita è stato amministrato dal Ministero della Difesa, nello specifico dal Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti. L'opera, realizzata sulle pendici del monte Sei Busi, cima aspramente contesa nella prima fase della Grande guerra (prima, seconda e quarta battaglia dell'Isonzo), si presenta come uno schieramento militare con alla base la tomba di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della 3ª Armata, cui fanno ala quelle dei suoi generali. Recinge simbolicamente l'ingresso al sacrario, ai piedi della monumentale scalea, una grossa catena d'ancora che appartenne alla torpediniera "Grado", già appartenuta alla marina austro-ungarica (k.u.k. Kriegsmarine) con il nome di "Triglav" e ceduta all'Italia dopo la fine della guerra. Subito oltre, si distende in leggero declivio un ampio piazzale, lastricato in pietra del Carso, attraversato sulla sua linea mediana dalla via Eroica, che corre tra due file di lastre di bronzo, 19 per lato, di cui ciascuna porta inciso il nome di una località dove più aspra e sanguinosa fu la lotta. In fondo alla via Eroica si eleva solenne la gradinata che custodisce, in ordine alfabetico dal basso verso l'alto, le spoglie di 40.000 caduti noti ed i cui nomi figurano incisi in singole lapidi di bronzo. La maestosa scalinata, formata da 22 gradoni su cui sono allineate le tombe dei caduti, sul davanti ed alla base della quale sorge, isolata quella del duca d'Aosta, comandante della 3ª armata, fiancheggiata dalle urne dei suoi generali caduti in combattimento, è simile al poderoso e perfetto schieramento d'una intera grande unità di centomila soldati. Il duca d'Aosta, morto nel 1931, chiese di avere l'onore di poter essere qui deposto tra le migliaia di soldati che persero la vita sul campo di battaglia. La tomba è ricavata in un monolito in porfido del peso di 75 tonnellate. Seguono disposte su ventidue gradoni le salme dei 39.857 caduti identificati. Le iscrizioni recano tutte la scritta "Presente", che si rifà al rito d'appello dello squadrismo ove il capo delle squadre gridava il nome del camerata defunto e la folla inginocchiata rispondeva con il grido "Presente".[4][5] Nell'ultimo gradone, in due grandi tombe comuni ai lati della cappella votiva, riposano le salme di 60.330 caduti ignoti. Nella cappella e nelle due sale adiacenti sono custoditi oggetti personali dei soldati italiani e austro-ungarici. Oggi la cappella è arricchita da una statua che raffigura un'Assunta; è la Regina della Pace. Un'Assunta che vuole ricordare la necessità di dare al sacrario il ruolo di raccordo delle genti d'Europa al fine di promuovere una riflessione sulle lacerazioni etiche che producono le guerre. [6] Nella cappella si trova inoltre esposta la testa di un Cristo sofferente recuperata nel 1995 nella dolina dei 500 o dolina della Morte sul Monte Sei Busi, uno dei più importanti cimeli ritrovati nella zona che ornava una croce che sovrastava una grande fossa comune. Il grande mausoleo venne realizzato di fronte al armata sul colle Sant'Elia che oggi è una sorta di della Rimembranza. Lungo il viale adornato da cippi in pietra carsica con riproduzioni dei cimeli tombe del primo sacrario. primo cimitero di guerra della 3ª museo all'aperto noto come parco alti cipressi, segnano il cammino e delle epigrafi che adornavano le Sulla sommità del colle un frammento di colonna romana, proveniente dagli scavi di Aquileia, celebra la memoria dei caduti di tutte le guerre, "senza distinzione di tempi e di fortune". L'impianto, considerato il più monumentale ossario di epoca fascista, incarna "l'apoteosi dell'uguaglianza, dell'anonimità e della disciplina militare oltre la morte, un trionfo - scolpito nella pietra - dell'istanza collettiva sull'identità individuale.” In concomitanza con l'edificazione del sacrario fu realizzata anche la stazione di Redipuglia, da inquadrarsi nell'ottica di monumentalizzazione della zona di Redipuglia. L'unica donna seppellita nel sacrario è una crocerossina morta a 21 anni di nome Margherita Kaiser Parodi Orlando. La sua tomba si trova nella prima fila e si distingue perché nella facciata c'è scolpita una grande croce. Nella foto sopra si nota la rudimentalità delle maschere antigas italiane, molto meno tecnologiche di quelle degli altri eserciti. ERNEST HEMINGWAY Ernest Hemingway : Early life Ernest Miller Hemingway was born on July 21, 1899, in Oak Park, a suburb of Chicago, Illinois. His father, Clarence Edmonds Hemingway, was a physician, and his mother, Grace Hall-Hemingway, was a musician. Both were well-educated and well-respected in the conservative community of Oak Park. When he was a child in the summer, he learned from his father to hunt, fish, and camp in the woods and lakes of Northern Michigan. His early experiences in nature instilled a passion for outdoor adventure and living in remote or isolated areas. From 1913 to 1917, Hemingway attended Oak Park and River Forest High School where he took part in a number of sports, namely boxing, track and field, water polo, and football. He excelled in English classes and performed in the school orchestra with his sister Marcelline for two years. In his junior years, he took a journalism class. After leaving high school he went to work for The Kansas City Star as a cub reporter. This influenced his writing style: the use of short sentences, the use of vigorous English, the attempt of being positive, not negative. The First World War Early in 1918, Hemingway responded to a Red Cross recruitment effort in Kansas City and signed on to become an ambulance driver in Italy. He left New York in May and arrived in Paris as the city was under bombardment from German artillery. By June, he was at the Italian Front. On July 8, he was seriously wounded by mortar fire, having just returned from the canteen bringing chocolate and cigarettes for the men at the front line. Despite his wounds, Hemingway assisted Italian soldiers to safety, for which he received the Italian Silver Medal of Bravery. He sustained severe wounds to both legs, underwent an immediate operation at a distribution center, and spent five days at a field hospital before he was transferred for recuperation to the Red Cross hospital in Milan. He spent six months at the hospital, where he met and formed a strong friendship with "Chink" Dorman-Smith that lasted for decades and shared a room with future American foreign service officer, ambassador, and author Henry Serrano Villard. While recuperating, he fell in love, for the first time, with Agnes von Kurowsky, a Red Cross nurse seven years older than him. By the time of his release and return to the United States in January 1919, Agnes and Hemingway had decided to marry within a few months in America. However, in March, she wrote that she had become engaged to an Italian officer. Biographer Jeffrey Meyers states that Hemingway was devastated by Agnes' rejection, and in future relationships, he followed a pattern of abandoning a wife before she abandoned him. Famous friends and travelling After his experience on the Italian front, which he described in "Farewell to arms", he went back to the United States, where he got a job as a journalist for the Toronto Star, but he was tormented by the specter of war. He went to Paris where he met writers such as Gertude Stein, Ezra Pound, James Joyce end F. Scott Fitzgerald, called "the lost generation". They revolutionized his poems. He went to Spain as a journalist during the Spanish Civil War and took part, supporting the Republican cause. He described this experience in several novels, the most famous one is "For Whom The Bell Tolls" (per chi suona la campana). In 1936 Ernest went to Cuba. Hemingway, also, went on a safari to Africa where he was almost killed in two successive plane crashes, that left him in pain for much of his remaining life. He got married four times. In the end of his life, Hemingway suffered from hypertension, diabetes and acute depression. He received the Nobel Prize for Literature in 1954, but even this prestigious recognition was not able to alleviate his physical and psychological suffering. In 1959 he bought a house is Ketchum where he committed suicide in the summer of 1961. (Gli alunni della III A) ERNEST HEMINGWAY – ADDIO ALLE ARMI Addio alle armi (A Farewell to Arms) è un romanzo dello scrittore statunitense Ernest Hemingway, pubblicato nel 1929. Il romanzo, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore (che negli ultimi mesi della prima guerra mondiale aveva prestato servizio come conducente di ambulanze nella Croce Rossa Americana, era stato ferito e aveva avuto un rapporto affettivo con una infermiera americana, Agnes von Kurowsky), racconta una storia di amore e di guerra che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di Caporetto. Questo romanzo non poté essere pubblicato in Italia fino al 1948 perché ritenuto lesivo dell'onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della disfatta di Caporetto, sia per un certo antimilitarismo sottinteso nell'opera[1]. La traduzione italiana in realtà era stata già scritta clandestinamente nel 1943 da Fernanda Pivano, che per questo motivo fu arrestata a Torino. LA TRAMA Frederic Henry è un giovane americano figlio di un diplomatico che è venuto in Italia per partecipare volontariamente alla guerra spinto da motivazioni idealistiche e da una visione romantica del conflitto. Durante il conflitto svolge l'attività di conducente delle ambulanze (in pratica trasporta i feriti dal fronte fino all'ospedale da campo più vicino) e lì scopre che la realtà della guerra è molto meno affascinante di quello che aveva creduto. Nella primavera del 1917 Frederic conosce una giovane infermiera inglese, Catherine Barkley. Tra i due nasce un rapporto che dapprima sembra occasionale, ma si fa rapidamente intenso e passionale. Nel frattempo Frederic coglie i segni della stanchezza e della sfiducia tra i suoi commilitoni italiani: la guerra va avanti da due anni, centinaia di migliaia di soldati sono morti, ma la vittoria è ancora lontana, nonostante la propaganda. Frederic, in una conversazione con gli altri autisti del suo gruppo di ambulanze, scopre anche che non tutti gli italiani sono a favore della guerra. Il 24 ottobre del 1917 il fronte italiano crolla a Caporetto. Il gruppo di ambulanze di Frederic si trova travolto dalla massa di soldati in caotica ritirata, tanto che gli autisti devono abbandonare i mezzi. Affrontano diversi incidenti, tra cui l'incontro con soldati ammutinati e soldati tedeschi in rapida avanzata tra le ormai sbandate linee italiane. Al momento di attraversare in ritirata un ponte sul Tagliamento, Frederic, come tutti gli ufficiali trovati non al comando delle rispettive unità, viene fermato dalla polizia militare dell'arma dei Carabinieri che aveva l'ordine di interrogare e fucilare sul posto gli ufficiali sbandati e ritenuti disertori. BRANO ORIGINALE DAL ROMANZO LIBRO III – CAPITOLO XXX They were all trying to get across as soon as they could: thinking only of that. We were almost across. At the far end of the bridge there were officers and carabinieri standing on both sides flashing lights. I saw them silhouetted against the sky-line. As we came close to them I saw one of the officers point to a man in the column. A carabiniere went in after him and came out holding the man by the arm. He took him away from the road. We came almost opposite them. The officers were scrutinizing every one in the column, sometimes speaking to each other, going forward to flash a light in some one’s face. They took some one else out just before we came opposite. I saw the man. He was a lieutenantcolonel. I saw the stars in the box on his sleeve as they flashed a light on him. His hair was gray and he was short and fat.The carabiniere pulled him in behind the line of officers. As we came opposite I saw one or two of them look at me. Then one pointed at me and spoke to a carabiniere. I saw the carabiniere start for me, come through the edge of the column toward me, then felt him take me by the collar. “What’s the matter with you?” I said and hit him in the face. I saw his face under the hat, upturned mustaches and blood coming down his cheek. Another one dove in toward us. “What’s the matter with you?” I said. He did not answer. He was watching a chance to grab me. I put my arm behind me to loosen my pistol. “Don’t you know you can’t touch an officer?” The other one grabbed me from behind and pulled my arm up so that it twisted in the socket. I turned with him and the other one grabbed me around the neck. I kicked his shins and got my left knee into his groin.“Shoot him if he resists,” I heard some one say. “What’s the meaning of this?” Itried to shout but my voice was not very loud. They had me at the side of the road now. “Shoot him if he resists,” an officer said. “Take him over back.” “Who are you?” “You’ll find out.” “Who are you?” “Battle police,” another officer said. “Why don’t you ask me to step over instead of having one of these airplanes grab me?” They did not answer. They did not have to answer. They were battle police. “Take him back there with the others,” the first officer said. “You see. He speaks Italian with an accent.” “So do you, you ,” I said. “Take him back with the others,” the first officer said. They took me down behind the line of officers below the road toward a group of people in a field by the river bank. As we walked toward them shots were fired. I saw flashes of the rifles and heard the reports. We came up to the group. There were four officers standing together, with a man in front of them with a carabiniere on each side of him. A group of men were standing guarded by carabinieri. Four other carabinieri stood near the questioning officers, leaning on their carbines. They were wide-hatted carabinieri. The two who had me shoved me in with the group waiting to be questioned. I looked at the man the officers were questioning. He was the fat gray-haired little lieutenant-colonel they had taken out of the column. The questioners had all the efficiency, coldness and command of themselves of Italians who are firing and are not being fired on. “Your brigade?” He told them. “Regiment?” He told them. “Why are you not with your regiment?” He told them. “Do you not know that an officer should be with his troops?” He did.That was all. Another officer spoke. “It is you and such as you that have let the barbarians onto the sacred soil of the fatherland.” “I beg your pardon,” said the lieutenantcolonel. “It is because of treachery such as yours that we have lost the fruits of victory.” “Have you ever been in a retreat?” the lieutenant-colonel asked. “Italy should never retreat.” We stood there in the rain and listened to this. We were facing the officers and the prisoner stood in front and a little to one side of us. “If you are going to shoot me,” the lieutenant-colonel said, “please shoot me at once without further questioning. The questioning is stupid.” He made the sign of the cross. The officers spoke together. One wrote something on a pad of paper. “Abandoned his troops, ordered to be shot,” he said. Two carabinieri took the lieutenant-colonel to the river bank. He walked in the rain, an old man with his hat off, a carabinieri on either side. I did not watch them shoot him but I heard the shots. They were questioning some one else. This officer too was separated from his troops. He was not allowed to make an explanation. He cried when they read the sentence from the pad of paper, and they were questioning another when they shot him. They made a point of being intent on questioning the next man while the man who had been questioned before was being shot. In this way there was obviously nothing they could do about it. I did not know whether I should wait to be questioned or make a break now. I was obviously a German in Italian uniform. I saw how their minds worked; if they had minds and if they worked. They were all young men and they were saving their country. The second army was being re-formed beyond the Tagliamento. They were executing officers of the rank of major and above who were separated from their troops. They were also dealing summarily with German agitators in Italian uniform. They wore steel helmets. Only two of us had steel helmets. Some of the carabinieri had them. The other carabinieri wore the wide hat. Airplanes we called them. We stood in the rain and were taken out one at a time to be questioned and shot. So far they had shot every one they had questioned. The questioners had that beautiful detachment and devotion to stern justice of men dealing in death without being in any danger of it. They were questioning a full colonel of a line regiment. Three more officers had just been put in with us. “Where was his regiment?” I looked at the carabinieri. They were looking at the newcomers. The others were looking at the colonel. I ducked down, pushed between two men, and ran for the river, my head down. I tripped at the edge and went in with a splash. The water was very cold and I stayed under as long as I could. I could feel the current swirl me and I stayed under until I thought I could never come up. The minute I came up I took a breath and went down again. It was easy to stay under with so much clothing and my boots. When I came up the second time I saw a piece of timber ahead of me and reached it and held on with one hand. I kept my head behind it and did not even look over it. I did not want to see the bank. There were shots when I ran and shots when I came up the first time. I heard them when I was almost above water. There were no shots now. The piece of timber swung in the current and I held it with one hand. I looked at the bank. It seemed to be going by very fast. There was much wood in the stream. The water was very cold. We passed the brush of an island above the water. I held onto the timber with both hands and let it take me along. The shore was out of sight now. Frederic riesce avventurosamente a raggiungere Catherine a Stresa, e i due sono costretti ad abbandonare l'Italia perché la polizia militare è sulle sue tracce e sta per arrestarlo. Dopo una fortunosa traversata notturna del Lago Maggiore, la coppia raggiunge la sponda svizzera del lago, e una felicità che sarà però di breve durata: Catherine infatti muore a Losanna nel tentativo di dare alla luce il figlio di Frederic, nato morto. Il protagonista si ritrova perciò solo e privo di uno scopo nel mesto finale del romanzo, e se ne va amareggiato per la città. Traduzione in italiano del brano sopra riportato in lingua originale Essi stavano cercando di attraversare al più presto possibile: stavano pensando solo a quello. Eravamo quasi al di là. All’estremità del ponte c’erano ufficiali e carabinieri che stavano in piedi da entrambi i lati puntando le torce. Io vidi le loro sagome contro l’orizzonte. Mentre ci avvicinavamo vidi uno degli ufficiali puntare ad un uomo nella colonna. Un carabiniere lo seguì e venne fuori tenendo l’uomo per il braccio. Egli lo portò via dalla strada. Noi venimmo quasi difronte a loro. Gli ufficiali stavano investigando su ciascun soldato nella colonna, a volte parlando l’uno con l’altro, andando avanti per illuminare con la torcia il volto di qualcuno. Essi portarono fuori qualcun altro appena prima che noi gli andassimo incontro. Io vidi l’uomo. Era un tenente colonnello. Vidi le stelle nella targhetta sulla sua manica mentre riflettevano la luce su di lui. I suoi capelli erano grigi ed egli era basso e grasso. Il carabiniere lo trascinò dietro la linea degli ufficiali. Mentre andavamo verso di loro vidi uno o due di loro guardarmi. Poi uno mi indicò e parlò al carabiniere. Io vidi il carabiniere venire verso di me, venire lungo il margine della colonna verso di me, poi mi sentii prendere da lui per il colletto. “ Che problema hai?” io dissi e lo colpii in faccia. Io vedevo la sua faccia sotto il cappello, i baffi rivolti in su e il sangue che scendeva lungo la sua guancia. Un altro si tuffò verso di noi. “Qual è il tuo problema?” dissi. Lui non rispose. Cercava un’ occasione per afferrarmi. Misi il mio braccio dietro di me per slegare la pistola. "Non sai che non puoi toccare un ufficiale?” L’ altro mi afferrò da dietro e tirò il mio braccio su così che esso si piegò. Io mi girai con lui e l’altro mi afferrò intorno al collo. Calciavo contro i suoi stinchi e il mio ginocchio sinistro restò bloccato tra le sue gambe. “Sparagli se fa resistenza” Sentii qualcuno dire. “Cosa significa questo?” Io provai ad urlare, ma la mia voce non era molto alta. Essi mi avevano condotto da un lato della strada ora. “Sparagli se fa resistenza” un ufficiale disse. Portalo indietro “ Chi sei?” “ Lo scoprirai.” “Chi sei?” “Polizia” un altro ufficiale disse. “ Perché non mi chiedi di saltare invece che uno di questi aeroplani mi afferrino?” Loro non risposero. Loro non dovevano rispondere. Loro erano la polizia della battaglia. “Riportalo là con gli altri,” disse il primo ufficiale. “ Vedi, lui parla italiano con un accento straniero.” “ Così voi, voi,” Dissi. “ Riportalo indietro con gli altri,” disse il primo ufficiale. Essi mi portarono giù dietro la linea degli ufficiali sotto la strada verso un gruppo di persone in un campo sulla sponda del fiume. Mentre camminavamo verso di loro colpi furono sparati. Io vidi i bagliori dei fucili e sentii gli scoppi. Raggiungemmo il gruppo. C’erano quattro ufficiali che stavano in piedi vicini, con un uomo davanti a loro, e un carabiniere su ogni suo lato. Un gruppo di uomini era in piedi sorvegliato dai carabinieri. Altri quattro carabinieri erano vicini agli ufficiali indagatori, appoggiati alle loro carabine. Erano carabinieri con il cappello dalle ampie falde. I due che mi tenevano mi spinsero nel gruppo in attesa di essere sottoposto a interrogatorio. Io guardai l’uomo che gli ufficiali stavano interrogando. Egli era il piccolo grasso tenente colonnello dai capelli grigi che essi avevano portato via dalla colonna. Quelli che interrogavano avevano tutta l’efficienza, la freddezza e la padronanza di quegli Italiani che stanno fucilando e non sono essi stessi fucilati. “La tua compagnia?” Egli diceva loro. “ Reggimento?” Egli diceva loro. “Perché non sei con la tua compagnia?” Egli diceva loro. “ Non sai che un ufficiale dovrebbe essere con le sue truppe?” Egli diceva. Ciò era tutto. Un altro ufficiale parlò. “Sei tu e quelli come te che hanno lasciato i barbari entrare nel sacro suolo della patria”. “Io chiedo il tuo perdono,” disse il tenente colonnello. “E’ a causa del tradimento come il tuo che abbiamo perso i frutti della vittoria.” “Sei mai stato in ritirata?” chiese il tenente colonnello. “ L’Italia non dovrebbe mai ritirarsi”. (Alunni di III B). Noi stavamo in piedi lì nella pioggia e ascoltavamo questo. Noi stavamo affrontando gli ufficiali e il prigioniero era davanti ed un po’ a lato rispetto a noi. “Se hai intenzione di spararmi,” il tenente- colonnello disse “per favore sparami subito senza fare altre domande. Il fare domande è sciocco”. Fece il segno della croce. Gli ufficiali parlarono tra loro .Uno scrisse qualcosa su un blocco di carta. “Ha abbandonato le sue truppe, ho ordinato di sparargli” disse. Due carabinieri portarono il tenentecolonnello alla sponda del fiume. Camminava sotto la pioggia, un uomo anziano senza il suo cappello,un carabiniere da entrambi i lati. Io non guardai mentre gli sparavano, ma udii gli spari. Stavano interrogando qualcun altro. Anche questo ufficiale fu separato dalle sue truppe. Non gli fu concesso di dare spiegazioni. Lui pianse quando lessero la frase dal blocco di carta, ed essi stavano interrogando un altro quando gli spararono. Essi chiarirono il loro punto di vista nell’essere intenti a interrogare l’uomo successivo mentre l’uomo che era stato interrogato prima veniva ucciso. In questo modo non c’era ovviamente niente che potevano fare a riguardo. Io non sapevo se dovevo aspettare di essere interrogato o fare una infrazione ora. Ero ovviamente un tedesco con l’uniforme italiana. Ho visto i loro cervelli lavorare, se avevano cervelli e se funzionavano. Erano tutti giovani uomini e stavano salvando il loro paese. Il secondo esercito veniva riformato oltre il Tagliamento. Essi stavano giustiziando gli ufficiali di grado maggiore e di sopra quelli che erano separati dalle loro truppe. Essi stavano anche trattando sommariamente con agitatori tedeschi in uniforme italiana. Indossavano elmetti di acciaio. Soltanto due di noi avevano elmetti di acciaio. Alcuni dei carabinieri li avevano. Gli altri carabinieri indossavano l’ampio cappello. Li chiamavamo aeroplani. Noi eravamo in piedi nella pioggia e venivamo portati fuori uno alla volta per essere interrogati e fucilati. Fino ad ora avevano fucilato tutti quelli che avevano interrogato. Gli indagatori avevano quel bel distacco e devozione alla giustizia severa di uomini che si occupano di morte senza essere in pericolo di essa. Essi stavano interrogando un superiore colonnello di un reggimento di linea. Altri tre ufficiali erano stati messi con noi. “Dov’era il suo reggimento?” Io guardai i carabinieri. Stavano guardando i nuovi arrivati. Gli altri guardavano il colonnello. Mi piegai giù, mi feci strada tra due uomini e corsi verso il fiume, la mia testa bassa. Mi inciampai sull’orlo e mi tuffai con un tonfo. L’acqua era molto fredda e restai sotto il più possibile. Riuscivo a sentire la corrente che mi faceva girare e restai sotto fin quando pensai di non poter più risalire. Nell’istante in cui risalii presi respiro e mi immersi di nuovo. Era facile stare sotto con tutto quell’abbigliamento e con i miei stivali. Quando salii su per la seconda volta vidi un pezzo di asse di legno davanti a me e lo raggiunsi e mi aggrappai con una mano. Tenevo la mia testa dietro ad esso e non guardavo neanche al di sopra. Non volevo vedere la sponda. C’erano spari quando avevo corso e spari quando ero risalito per la prima volta. Li sentii quando ero quasi sopra l’acqua. Non c’erano spari ora. Il pezzo di trave oscillava nella corrente ed io lo tenevo con una mano. Guardai la sponda. Essa sembrava scorrere molto velocemente. C’era molto legno nella corrente. L’acqua era molto fredda. Superammo la boscaglia di un isolotto sopra l’acqua. Io mi tenevo alla trave con entrambe le mani e mi lasciavo trasportare. La spiaggia era lontana dalla vista ora. (Alunni di III A) La Canzone Del Piave La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una delle più celebri canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario). Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano la adottò provvisoriamente come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale[1][2]. La monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista[3]. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12 ottobre 1946, quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro[4]. I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono al giugno del 1918, quando l'Impero austroungarico decise di sferrare un grande attacco (ricordato con il nome di "Battaglia del solstizio") sul fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto. La Landwehr (l'esercito imperiale austriaco) si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e delMontello, ma fu costretta ad arrestarsi a causa della piena del fiume. Ebbe così inizio la resistenza delle Forze armate del Regno d'Italia, che costrinse gli austro-ungarici a ripiegare. Il 4 luglio del 1918, la 3ª Armata del Regio Esercito Italiano occupò le zone tra il Piave vecchio ed il Piave nuovo. Durante lo svolgersi della battaglia morirono 84.600 militari italiani e 149.000 militari austro-ungarici. In occasione dell'offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, avvenuta nell'ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l'Austria-Ungheria e l'Italia. Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfaldamento politico in corso nell'Impero, l'esercito austro-ungarico si disgregò rapidamente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee nemiche. La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918[5] subito dopo la battaglia del solstizio, e ben presto venne fatta conoscere ai soldati dal cantante Enrico Demma (Raffaele Gattordo)[6]. L'inno contribuì a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!»[7]. Venne poi pubblicata da Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario il 20 settembre del 1918[8], circa quaranta giorni prima della fine delle ostilità. Il testo e la musica, che fanno pensare ad una canzone patriottica con la funzione di incitare alla battaglia, hanno l'andamento colto e ricercato di altre canzoni che già avevano fatto conoscere Giovanni Gaeta nell'ambiente del cabaret; sue sono anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana, Balocchi e profumi. La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano caratterizzata. Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti: 1. La marcia dei soldati verso il fronte (appare come una marcia a difesa delle frontiere, mentre fu l'Italia ad attaccare l'impero asburgico) 2. La ritirata di Caporetto 3. La difesa del fronte sulle sponde del Piave 4. L'attacco finale e la conseguente vittoria Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane, citando la data dell'inizio della Prima guerra mondiale per il Regio Esercito italiano. Ciò avvenne la notte tra il 23 e 24 maggio 1915, quando L'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico e sferrò il primo attacco contro l'Imperial regio Esercito, marciando dal presidio italiano di Forte Verena dell'Altopiano di Asiago, verso le frontiere orientali. La strofa termina poi con l'ammonizione: Non passa lo straniero, riferita, appunto, agli austro-ungarici. Tuttavia, come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino al fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte. La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il Piave che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso rosso dal sangue dei nemici. Nell'ultima strofa si immagina che, una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro eCesare Battisti, tutti uccisi dagli austriaci. All'epoca della prima stesura di questo brano, si pensava che la responsabilità per la disfatta di Caporetto fosse da attribuire al tradimento di un reparto dell'esercito[9]. Per questo motivo, al posto del verso "Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento" vi era la frase "Ma in una notte triste si parlò di tradimento". In seguito, durante il regime fascista fu appurato che il reparto ritenuto responsabile era invece stato sterminato da un attacco con gas letali; si pensò così di eliminare dalla canzone il riferimento all'ipotizzato tradimento,[10] considerato non solo impreciso storicamente ma anche sconveniente per il regime[11]. La melodia è orchestrata sia da bande musicali istituzionali che da corpi musicali non istituzionali, specialmente in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, in occasione dell'Anniversario della liberazione e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. Questi versi e la loro solenne, seppur a tratti adulterata, rievocazione storica, fecero sì che da più parti si levasse la richiesta di adottarlo come inno nazionale, cosa che avvenne solo dal 1943 al 1946 in seguito ai fatti connessi all'armistizio di Cassibile[12]. La monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista[3]. La canzone del Piave fu poi sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro il 12 ottobre 1946[4]. Nel 1961 il comune di Roma deliberò di denominare una strada via canzone del Piave nel quartiere Giuliano-Dalmata, nella cui toponomastica sono largamente rappresentati personaggi ed eventi della prima guerra mondiale; la denominazione costituisce un caso rarissimo di toponimo urbano ispirato a un brano musicale[13]. Solitamente è eseguita da bande e fanfare in occasione della posa delle corone ai monumenti ai caduti immediatamente dopo all'inno nazionale. La Canzone Del Piave: il testo Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio; l'esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera... Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava andare avanti. S'udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve il mormorìo dell'onde. Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: non passa lo straniero! Ma in una notte trista si parlò di un fosco evento e il Piave udiva l'ira e lo sgomento. Ahi, quanta gente ha vista venir giù lasciare il tetto, poi che il nemico irruppe a Caporetto! Profughi ovunque! Dai lontani monti, venivano a gremir tutti i suoi ponti. S'udiva allor dalle violate sponde sommesso e tristo il mormorar dell'onde. Come un singhiozzo, in quell'autunno nero, il Piave mormorò: ritorna lo straniero! E ritornò il nemico: per l'orgoglio e per la fame volea sfogare tutte le sue brame... Vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora! - No - disse il Piave. - No, - dissero i fanti mai più il nemico faccia un passo avanti! Si vide il Piave rigonfiar le sponde! E, come i fanti, combattevan l'onde... Rosso di sangue del nemico altero, il Piave comandò: indietro, và, straniero! Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento E la Vittoria sciolse l'ali al vento! Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti risorgere Oberdan, Sauro, Battisti! Infranse, alfin, l'italico valore le forche e l'armi dell'impiccatore! Sicure l'Alpi, libere le sponde Si tacque il Piave, si placaron l'onde. Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò nè oppressi nè stranieri! L’ITALIA NELLA GRANDE GUERRA IN SINTESI Il 24 maggio 2015 l’Italia entra in guerra. Il capo dell’esercito è il generalissimo Luigi Cadorna, figlio di quel Raffaele Cadorna che era stato protagonista nel celebre episodio della breccia di Porta Pia. All’inizio gli italiani sono in netta superiorità numerica, rispetto ad un esercito austriaco già sfiancato da un anno di guerra. Offensiva italiana con quattro battaglie sull’Isonzo, poco incisive perché gli italiani non hanno una forte artiglieria (comunque gli italiani avanzano in direzione di Trieste e GORIZIA) TERRIBILE BATTAGLIA DI VERDUN ( Febbraio-giugno 1916) Si apre un fronte SULLA SOMME (gas e carri armati) il fronte sulla Somme evita la catastrofe a Verdun. Seconda offensiva italiana sull’Isonzo. Spedizione punitiva degli austriaci contro gli Italiani (STRAFEXPEDITION) del maggio 1916 – gli austriaci avanzano fino alla linea Pasubio e Asiago – sul Garda e Brenta (episodio di Cesare battisti, catturato e impiccato). Nel giugno 1916 i russi riportano alcune vittorie ma in Russia la situazione sta per precipitare e di fatto nel marzo 1917 la Russia uscirà dalla guerra. Battaglia sul monte Ortigara tra il 10 giugno e il 29 giugno del 1917 (gli italiani provano a riprendersi i luoghi persi durante la spedizione punitiva). Caporetto 24 ottobre 1917 - gli austriaci sfondano e gli italiani si ritirano rovinosamente. Cadorna parlò di viltà dei soldati e disfattismo alimentato dalla propaganda dei socialisti e dei cattolici. Gli italiani riescono però - dopo due settimane di rotta - a bloccare l’avanzata austro-tedesca lungo il Piave e sul monte Grappa. Si parla di “battaglia di arresto” (24-26 novembre 1917 e dicembre 1917). Sul monte Pasubio ha luogo la battaglia delle mine (DENTE ITALIANO E DENTE AUSTRIACO). Seconda battaglia della Marna (marzo-luglio 1918) resistenza delle forze alleate (Inghilterra Francia e USA). Battaglia di Amiens 8-11 agosto: prima grande sconfitta tedesca sul fronte occidentale. Seconda battaglia sul Piave: (battaglia del Solstizio). Vittoria definitiva degli italiani a Vittorio Veneto 24 ottobre 1918 PER NON DIMENTICARE