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Omero 17 Massimo D’orzi Tempo imperfetto I fatti narrati in questa opera, seppur ispirati a un caso di cronaca, sono frutto della rielaborazione artistica e della creatività dell’autore. © 2016 L’Asino d’oro edizioni s.r.l. Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma www.lasinodoroedizioni.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-6443-369-1 ISBN ePub 978-88-6443-370-7 ISBN pdf 978-88-6443-371-4 Copertina di Massimo Fagioli Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate. Albert Camus, Ritorno a Tipasa TEMPO IMPERFETTO 1. 21 febbraio. L’altrove è qui L’orrore. A colpo d’occhio si contavano più di cento coltellate ben ripartite sul corpo della donna e del bambino. Se vi occorre un termine di paragone pensate a Psycho. A Norman Bates ne erano bastate otto per far fuori Marion Crane sotto la doccia. Erano da poco passate le dieci della sera quando le agenzie di stampa lanciarono la notizia della mattanza in una cittadina del Nord-Est: massacrati a coltellate madre e figlio di otto anni. Il procuratore, uscito dalla villetta teatro dell’eccidio, aveva vomitato: «In anni di attività investigativa non mi sono mai trovato di fronte a tanta crudeltà. Stiamo seguendo tutte le piste e grazie all’aiuto della figlia, scampata per miracolo e testimone oculare del duplice omicidio – scossa, visibilmente scossa come potete immaginare – li prenderemo, li prenderemo tutti!». Un massacro. Se fossero stati albanesi, rumeni o nigeriani sarebbe stato meglio, aveva detto un paio di giorni più tardi 9 il colonnello dei carabinieri suscitando accese reazioni nelle comunità locali e creando un mezzo incidente diplomatico. Mi ero già occupato di delitti e di tutto il loro corredo di teste fracassate, pance trinciate e corpi crivellati di colpi. Ma di casi come questo ne capita uno nella vita. L’America è piena di stragi – un marchio di fabbrica –, quasi una al mese. Studenti che uccidono compagni di scuola; ventenni che entrano al cinema armati fino ai denti e spianano quante più persone si trovano davanti; impiegati offesi che fanno scempio di colleghi. Ma questa non è l’America. Quando il direttore mi chiamò in ufficio, stava con gli occhi incollati alla tv, seguendo e appuntando ogni dettaglio del tragico evento: «Voglio che lo segui tu! Qui c’è del marcio!». Non ci voleva molto a capirlo. «Ma...» provai a ribattere. «Prendi mutande e spazzolino e precipitati a Campagnano». In certi momenti gli piaceva indossare gli abiti del principiante che si fida solo del suo intuito. Ancora non era venuta fuori la verità e lui già dubitava della ricostruzione fatta a caldo dalla procura sulla base delle prime testimonianze. «Quel procuratore salta» sentenziò quando avevo già il culo fuori dal suo ufficio. Era giunto per me il tempo di scendere in trincea. Ero cresciuto nelle retrovie a fianco di Renzulli, il caposervizio, il mio mentore. Davanti a questa storia sarei stato solo, senza protezioni e nessuno a guardarmi le spalle. Nell’ambiente si beffano di me con l’appellativo di ‘microfono lesto’, per il fatto che ci metto un po’ a tirarlo fuori, il microfono. Sono un fondista, esco alla distanza. Mi piace passeggiare sulla scena ormai vuota. Il grosso del lavoro, per dirla tutta, l’ho fatto in rete, incollato al computer. A breve avrei liberato le impronte 10 digitali dai polpastrelli, messo le mani nel sangue, sporcato le suole delle scarpe. La cosa, lo devo ammettere, non mi lasciava sereno. «Prendi il primo treno» bofonchiò il capo mettendosi giacca e cappotto. «Scendiamo insieme?». «No, resto ancora un po’. Cerco di capire meglio cosa sta succedendo». «Bravo. Così si fa!». Strizzò l’occhio destro e mi liquidò in tutta fretta. Restai in redazione leggendo i lanci di agenzia, poi passai da casa a salutare le lenzuola stropicciate prima di finire incollato al finestrino del treno da cui, con un occhio semiaperto, vedevo scivolare l’ombra di un’Italia fredda e dolente. A Bologna saltai su un regionale. Un’altra ora e fui in prima linea. Rimini in agosto sarebbe apparsa più riposante. La segretaria aveva provato a prenotarmi un albergo nel centro del paese, ma il personale del circo aveva già occupato tutte le stanze. Trovai una pensione, camera più colazione, in una frazione di Campagnano. Il Belvedere. Si chiamano tutte allo stesso modo, anche se qui il panorama non era di quelli segnalati dalle guide turistiche. Pur impegnandomi non vedevo niente che suscitasse la mia ammirazione. Reazioni di uno scettico. Ad attendermi sulla porta la proprietaria della pensione, una bella e avvenente donna di provincia. Simpatica, disponibile e ovviamente sconvolta. Al telefono avevo detto chi ero e che sarei rimasto qualche giorno per seguire il caso. Mi accolse con un sorriso preparato in anticipo insieme al caffè che mi porse sulla porta. Era 11 curiosa di vedere com’era fatto un giornalista di nera, venuto dalla città. Noi, a differenza dei nostri colleghi, sguazziamo nell’ombra. Anzi l’ombra fa parte del nostro corredo. La proprietaria tentò di afferrare la valigia. «Non si preoccupi!» reagii irrigidendomi come uno di quegli agenti che celano chissà quale segreto. Ero entrato nella parte. Mi fece strada fino al primo piano dove era situata la mia stanza. Non potevo pretendere di meglio. «Se vuole, può usare la cucina a suo piacimento». «Non penso che avrò molto tempo per stare in albergo. In ogni caso all’occorrenza ne approfitterò». Il programma l’avevo già stilato. Punto primo: raggiungere il luogo del delitto. Nelle prime ore, lo sanno bene gli investigatori, la scena del crimine si cristallizza trattenendo nelle strutture, perfino negli oggetti, gli ultimi sospiri delle vittime. Un buon detective è come un medico che entra nella stanza del degente e riconosce dall’odore i sintomi di una malattia. Le indagini procedevano spedite, la scientifica aveva già compiuto gli accertamenti di rito. Durante quella brutale esecuzione la figlia si era miracolosamente salvata. E adesso era lei a fornire elementi preziosi per giungere in fretta alla soluzione del giallo. Si cercavano riscontri alle sue parole. E si doveva fare presto: le ore prendono a correre in questi casi. Durante la notte avevano interrogato uno zingaro che assomigliava all’identikit fatto dalla ragazza, ma tutto si era risolto in un niente di fatto. Aveva un alibi di ferro. Il clima si stava arroventando, c’era da tenere a freno l’opinione pubblica: si trattava di una madre e del suo bambino! Il tempo era prezioso e le circostanze in 12 cui il massacro era maturato contribuivano a diffondere una particolare angoscia. Una tranquilla cittadina di provincia. Una famiglia perbene trucidata nell’ora solenne della cena in cui i familiari si raccolgono intorno al tavolo dopo una giornata di intenso lavoro. Qualcosa era andato storto. Rapina finita male? Vendetta personale? Il marito, a quanto pare, era scampato alla mattanza. Era lui l’obiettivo? O, in qualche modo, il maritino era dietro a questa storia? Nessuna pista veniva esclusa anche se le modalità della strage e soprattutto l’ora facevano scartare una simile ipotesi. Si trattava di grattare la vernice e studiare l’intonaco. Volevo prepararmi bene a questo nuovo appuntamento con la morte. Stavo adottando tutte le precauzioni, profilassi compresa. Rimasi sotto la doccia più a lungo del solito. Mi feci perfino la barba. Uno studente alla sua festa di laurea avrebbe adottato meno smancerie. Mi preparavo come se la morte in persona, una volta giunti sul posto, mi dovesse immortalare in una foto di gruppo a uso degli annali del giornalismo investigativo. Classe 2066. Gita all’eccidio di Campagnano. Cerimonie finali comprese. Mandavo giù l’amaro farmaco del cinismo per apparire meno indifeso. Ma lo ero. Le mie scarpe erano troppo morbide e le suole appena consumate. Non ci si abitua facilmente all’idea della morte, anche quando questa ti dà lavoro. In linea di principio le portavo rispetto, eppure, per quanto comprendessi i suoi riti e le sue ragioni, la morte causata da mano altrui mi lasciava interdetto. Faticavo a considerarla naturale. Frutto del caso o del destino. Invi13 diavo i colleghi che sapevano mantenere il giusto distacco dagli avvenimenti. Senza porsi l’obiettivo di comprendere. Un buon cronista deve registrare i fatti. Che cosa c’è da capire? Che l’uomo possiede la facoltà di uccidere? Niente di nuovo: è una storia che si ripete da tempi remoti. L’evoluzione della specie umana sta lì a dimostrarlo. Eppure mi scoprivo impreparato dinanzi al delitto, come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola. Quella lezione non riusciva a entrarmi in testa. La indagavo all’infinito sui manuali di scienza del crimine. Niente da fare. Il giorno dell’esame, vuoto di memoria. Che razza di giornalista investigativo, bel cronista di nera! Neanche il patentino di pubblicista dei Detective Cani Smarriti avrei guadagnato. Eppure adoro il mio mestiere. Mi piace trovarmi nel punto in cui il bicchiere si rompe e resti inchiodato per settimane o mesi a cercare di riattaccare i cocci chiedendoti come abbiano fatto ad arrivare fin lì. Dopo ore passate a pulire il pavimento. Il nostro lavoro sta tutto nel leggere e prevedere dove finiscono le schegge di vetro al momento della rottura e poi dall’ultimo di quei frammenti risalire su fino all’istante dello schianto, e poi ancora su per capire chi teneva in mano quel bicchiere, e ancora su fino a determinare la dinamica che l’ha portato a rompersi – una distrazione, l’urto di un’altra persona –, e poi ancora a ritroso per comprendere se si è trattato di un caso fortuito o l’effetto di una mente malata ossessionata dalla cristalleria. Ero in sella a un cavallo che filava dritto fra l’abisso e l’inferno. L’inferno di una strage che aveva lasciato sgomenti e l’abisso della verità: e se non fossero stati dei selvaggi stranieri venuti da lontano a commettere quella strage? 14 Una nebbia fitta e insidiosa intesseva di sé l’intero paesaggio. Mi sarei presto abituato. Amo quei film dove le nebbie abbondano. Nebbie vere, non fumo sparato. Potrei redigere su due piedi la classifica delle nebbie più belle della storia del cinema a partire da Marcel Carné, Il porto delle nebbie. Anno 1938. Un capolavoro. Jean e Nelly, l’amore al tempo delle brume! E poi Antonioni, Kurosawa, Welles. E Angelopoulos? Nessuno sapeva maneggiare la nebbia come lui. Senza quei film non sarei sulle rive del Po a seguire questo caso. Ho atteso invano una parte in un film ambientato interamente nella nebbia. Giuro che avrei lasciato questo mestiere. Nessuno si è fatto avanti per cui continuo a guadagnarmi da vivere scrivendo articoli sul sangue degli altri. E la nebbia avanza solo nella mia testa. I paesi del Nord sono incredibilmente puliti e ben amministrati: vigili a ogni angolo e penuria di posteggiatori abusivi. Devi diligentemente trovare un parcheggio nei luoghi preposti, scendere a cercare un parchimetro e avere sempre dietro un sacco di monete, altrimenti la giornata procede in contumacia. La proprietaria della pensione aveva provveduto a tutto. Oltre alla macchina in prestito aveva lasciato nel cruscotto anche le monete con un biglietto vergato con due parole: «Potrebbero servirle». Quella donna cominciava a impensierirmi, mormorai prima di giungere davanti alla villetta, teatro dell’eccidio. 15 2. 22 febbraio, ore 10.37. Niente di strano Abbandonai la macchina prima dell’area transennata e continuai a piedi. Mi avvicinai alla casa guardandomi intorno. Una zona residenziale simile a migliaia di altre, costruite a metà degli anni Ottanta quando tutto lasciava credere nel Grande Progresso, nell’Infinito Benessere, nella sconfinata Magnanimità del Potere. Da noi non era successo come in Cina dove il leader aveva esortato il popolo al grido «Arricchitevi Compagni!», ma il risultato per un po’ era sembrato lo stesso. Ogni generazione ha il suo credo e quelle villette stavano lì a dimostrarlo. All’interno dell’abitazione magistrati e inquirenti tentavano di ricostruire la dinamica dei fatti guidati dalla ragazza mentre tutt’intorno l’energia del circo mediatico produceva calore. Furgoni, antenne, telecamere, cameramen, cavalletti, obiettivi, taccuini, microfoni, tutta la prima linea schierata pronta a sferrare l’attacco. Dovevo solo trovare la posizione per bruciare i miei colleghi ai blocchi di partenza. «Ciao! Che aria tira?» sospirai avvicinandomi a un collega. «C’è grande nervosismo!». 16 «Niente di strano». «Sì, ma un nervosismo insolito! Non ho mai visto gli investigatori così stralunati! Il procuratore quasi sviene, il marito della vittima sembra la mummia di Tutankhamon e la figlia la Sfinge davanti alle piramidi di Giza. È lei, insieme al fidanzatino, a condurre la visita guidata». «Un quadretto niente male!». «E poi sai che ti dico? Fa un cazzo di freddo da queste parti! Io è dall’alba che sono qui, sono già mezzo congelato!» aggiunse nervoso. «Purtroppo non posso darti il cambio» scherzai. «Hanno mandato te?». «Sì» risposi distrattamente guardando verso l’entrata della casa piantonata da due militari dell’Arma. «Ti hanno dato i gradi?». «Te lo dirò alla fine! Conosci il capo, sembra che ti faccia un piacere, e poi...». «Sì lo conosco. Amico, questo è un caso che lascerà il segno. Preparati! La gente è sconvolta, colpiti nella propria casa e massacrati in questo modo all’ora di cena. E c’è pure un bambino! Cazzo! Questa gente andrebbe fucilata! Come fai a dare torto a quelli che invocano la pena di morte?!». «Non mi appassionano queste discussioni. Preferisco restare sul delitto e comprenderne le dinamiche». «Qui in molti cavalcheranno! Vedrai, anche i giornali saranno presi d’assalto. In questi casi devi dire quello che la gente vuole sentire. Stop!». Dopo poche ore la mia testa si muoveva meccanicamente nelle stesse quattro direzioni: la porta della casa, il fondo della 17 strada da cui provenivano macchine delle autorità giudiziarie, le villette tutte uguali che costeggiavano il viale e la massa dei giornalisti da cui, a ritmi regolari, partivano notizie a uso e consumo dei colleghi. Giusto per riscaldare l’aria. Quando resti fermo per ore nello stesso luogo, le cose ti si attaccano addosso come laniccio sul paltò. Mi staccai dalla massa dei colleghi per guardarmi intorno. Mi ero fissato sulle villette a schiera, tutte identiche: un bel giardino, prato ben curato, il cancelletto all’entrata, le tende ornate alle finestre. Quella fissità contribuiva a rendere normale anche un’ora tragica come quella, la inquadrava in una cornice disturbata solo dall’andirivieni di gente che non prestava attenzione al manto erboso antistante l’abitazione dove il delitto si era consumato. Cercavo di agganciare qualcuno dei vicini, chiedere loro se avevano visto o udito qualcosa la sera prima o nei giorni precedenti la strage. Avvicinai una signora intenta a fissare la casa degli Zarbo oltre il muro di gente che vi si frapponeva davanti. I suoi occhi sgranati non temevano la disidratazione della sclera visto che non abbassò le palpebre per l’intera conversazione. «Signora, mi scusi, posso rivolgerle qualche domanda?!». «È della polizia?». «No, sono un giornalista!». «Stampa o tv?». «Carta stampata!». «Mi dica» replicò continuando a guardare nello stesso punto incurante di sapere che faccia avesse il suo interlocutore. «Lei abita in questa via?». 18 «Nella casa alle mie spalle». «Complimenti! Una bella casa!» mi scappò detto. Fu allora che la signora mi lanciò uno sguardo di disprezzo. «È perfettamente identica a tutte le altre! Ha forse notato gli infissi antirumore e antiscasso nuovi di zecca? Li abbiamo fatti mettere all’inizio dell’inverno. Per fortuna!». «Intendevo proprio quelli! Mi dica, lei ha sentito o visto qualcosa la notte scorsa fra le diciannove e le ventuno?». «Niente di insolito! A quell’ora siamo tutti davanti ai fornelli a preparare la cena col televisore acceso a tutto volume per seguire le domande del Quizzone!». «Certo, quindi lei non ha sentito o visto niente di strano! Nemmeno nei giorni precedenti? Facce sospette, persone non della zona...». «Niente di insolito. Questo è un posto tranquillo, non ricordo niente di allarmante da quando abito in questa casa. Siamo venuti a vivere qui insieme alla famiglia Zarbo, lo sa? Mio Dio, non ci posso pensare!». Il volto della donna si deformò velocemente in una smorfia di dolore, sconcerto. Poi si ricompose. «Grazie, signora, e mi scusi di nuovo! Non sarà facile aprire la porta ogni giorno ed essere costretti a ricordare ciò che è successo là dentro». «Ci abitueremo» rispose con aria rassegnata, «ci abitueremo. L’importante» aggiunse desolata, «è che quei criminali siano assicurati alla giustizia. Non possiamo vivere nel terrore che accada di nuovo!». «Le forze dell’ordine faranno tutto il possibile» mi sentii di dire mentre mi allontanavo dal cancello dietro cui l’anziana signora, impassibile, continuava a fissare un punto vuoto 19 dell’orizzonte posto appena al di sopra dell’abitazione degli Zarbo. Se qualcuno nell’arco dei minuti successivi le avesse chiesto di descrivere l’uomo con cui aveva appena parlato, avrebbe sicuramente replicato: anziano di bassa statura, dei grandi occhiali scuri, capelli brizzolati, una camicia a quadri sotto un cappotto grigioverde o verdemare. Bisogna confidare nel fervore dei vicini. Sul lato opposto della strada, avevo notato una ragazza che avanzava spingendo un passeggino. D’un tratto, arrestandosi, aveva afferrato il neonato che si era messo a strillare a squarciagola. Le urla del piccolo scuotevano l’aria tanto da far sospettare che un regista scaltro e maldestro avesse voluto aggiungere pathos a una scena già oltremodo drammatica. Attraversai la strada cercando di raggiungerli, manifestando disapprovazione per quella eccessiva e involontaria dose di inquietudine. La donna aveva compreso l’inopportunità della loro presenza e voltandosi era scomparsa dietro l’angolo dell’isolato da cui era venuta. 20