Teorema del Devastatore Il dolore non ti delude

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Teorema del Devastatore Il dolore non ti delude
Teorema del Devastatore
Lorenzo Moneta
Il dolore non ti delude mai. Il dolore non ti tradisce mai. La felicità, invece, è
così rischiosa. Può prenderti alle spalle e rovinarti.
PRENDO LA CORRIERA che da Naussa fa il giro di Paros.Viaggio per un’ora su una
strada bianca e polverosa. A Santa Maria il pulman si svuota e allora cambio posto.
Seduto in fondo mi accendo un joint. Il primo della giornata. Apro una delle birre che
ho nella borsa termica. Infilo le cuffie del lettore MP3 comprato a Madrid, o forse
rubato a Francoforte, boh. Una compilation schizofrenica. Massive Attack. Vivaldi. Un
artista greco che gira le Cicladi facendo cover dei Beatles. Mariah Carey. Bon Jovi.
Qualcuno chiamato Blink 122 o 162 o checcazzo ne so. Micheal Bolton.
Arrivo a Sunshine Beach per caso. Rifletto sul nome del cazzo. Ubriaco e
mezzo fatto, credo di essere arrivato nella Baja California del cazzo. Credo di vedere
messicani e Speedy Gonzales del cazzo ovunque. Niente sombreri. Niente olé. Niente
Messico del cazzo. Sono di nuovo in Grecia, having a trip. Scendo comunque.
Entro in un internet point. Cancello tutti i messaggi dalle mie dieci email, mi
collego a un sito pirata e scarico altre MP3 sul lettore portatile. Pagobancomat, forse
troppo, non lo so, non me ne frega niente. L’inserviente è incazzato, dice qualcosa che
non capisco, allora un americano o forse un canadese o forse un milanese mi traduce
l’abbaiare del greco, in pratica il bancomat di Maria Luigia non funziona, e nemmeno
l’Amex di uno dei tanti airbaggati, insomma pare che siano bloccate o vuote o
chissaccheccazzo, allora lo pago dandogli i rayban e il lettore che insieme valevano più
di tutto il merdoso negozio ma niente, non riesce a importarmene niente per quanto
mi sforzi.
Alcool e fumo mi lasciano in pace solo tre ore dopo, sono lucido e stanco e
allora dormo un po’, in spiaggia, sotto una palma assurda. Mi sveglio verso le cinque, o
forse le otto, c’è il tramonto e vento forte e io ho una fame inverosimile, sono rimasto
con qualche spicciolo di euro e il biglietto per il ritorno a Naussa, lo vendo a un turista
inglese con i capelli rossi e mi ci compro un cheeseburger.
Seduto sulla spiaggia vuota a mangiare formaggio e sabbia, osservo una surfista
entrare in acqua. Prende il vento subito, senza aspettare di essere fuori dal bagnasciuga.
Stringe il vento aggressiva, la coda di capelli rimbalza sulla muta che le fa una forma
sottile. Si butta quasi a schiena in acqua a forza di tirare il boma, e caccia un urlo acuto
di vittoria e esaltazione e sbornia da vento
esce rapida in mare, niente più le importa niente niente cazzo
ho un tuffo al cuore, una staffilata di nostalgia, mi ricorda qualcuno, così
aggressiva con il surf come con la vita, così sempre pronta a mordere il mondo a
sangue, a prendersi quel che vuole, a vivere come vuole, senza risparmio...
... e dopo quasi cinque anni penso a me, a come sono diverso, a come alla fine
non abbia fatto anch’io nient’altro che tentare di farla tornare a terra mentre volava
alto...
a quanto vorrei essere come lei
a quanto volevo essere degno di lei
a quanto ho sognato di essere uno come lei
persino a quanto vorrei essere lei, se fossi donna
Continuo a guardare questa tipa che non è brava né eccezionale. Però ci sa
fare. Non si preoccupa di cadere: sbaglia ma resta in piedi ad ogni strambata. Io, invece,
alla fine, ero il cauto. Quello che evitava di strambare, per non rischiare di cadere in
acqua al largo.
E mi è chiaro che non sarei mai stato degno di lei
Che non avrei mai potuto essere lei
Neanche fossi donna
E che forse, alla fine, lei non fosse lei per me.
Bel finale. Bella giustificazione. Non l’ho avuta perché non eravamo uguali,
mica perché abbia fallito. Tutto torna. Niente colpevoli. Niente innocenti.
Guardo ancora la surfista. Ora sta tornando a riva, verso di me. Fende veloce
le onde greche. È vicina. Posso leggere la marca della muta che la rende così sottile.
E finalmente, vedo la barba.
Sottile, nera. Un pizzo e i baffi.
Poi una faccia affilata e allegra.
Ci credo che era aggressiva. Era un uomo. Un capellone magro in una muta
aderente.
A pensarci, anch’io so fare urli acuti se voglio.
Il mio fantasma era talmente sbagliato, talmente diverso da me, da non essere
nemmeno il fantasma di chi mi aspettavo.
E ora, ora che mi alzo traballando, sabbia che esce dalle tasche dei jeans,
giramenti di testa e tutto il resto, e mi dirigo verso la corriera senza biglietto, mi rendo
conto di due cose.
La prima è che forse Sveva non è mai esistita.
La seconda, non la ricordo più.
Decido di essere stato troppo tempo lontano da tutto.
E che forse, questo è abbastanza.