Da Ascoli a Bilbao. Il maestro burbero che ha fatto tornare grande il

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Da Ascoli a Bilbao. Il maestro burbero che ha fatto tornare grande il
ANNO XX NUMERO 56 - PAG IX
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 7 MARZO 2015
ochi tifosi del Torino ricordano con
precisione dove erano la sera del 27
agosto 2011. Era un sabato, le previsioni del tempo parlavano di fresco in arrivo, e finalmente si cominciava a respirare. Pochi mesi prima il Torino Football Club aveva concluso una delle più
brutte e dimenticabili stagioni della sua
storia, piazzandosi all’ottavo posto in serie B. L’entusiasmo che cinque anni prima il presidente Urbano Cairo aveva
trasmesso ai tifosi, prendendo il Toro ferito e fallito e salvandolo dall’estinzione, si era spento dopo una brutta retrocessione, due anni di B e troppi allenatori e giocatori sbagliati. Il 27 agosto del
2011 il Torino va ad Ascoli per iniziare
un’altra stagione di B, con tifosi poco ottimisti e in panchina un nuovo allenato-
Larrondo e l’acquisto all’ultimo giorno
di mercato del non più giovane Amauri.
Mentre nel girone di Europa League il
Toro si fa rispettare, in campionato fatica a segnare e a vincere. Gioca male e
sembra senza idee, un paradosso per
Ventura. Alcuni acquisti estivi falliscono o tardano a sbocciare, e a fine novembre il Torino perde in casa con il Sassuolo ed è a 3 punti dalla zona retrocessione. La curva comincia a contestare.
“Bollito”, “fuori di testa”, “rincoglionito”, “presuntuoso”. Sui forum e allo stadio Ventura viene additato come colpevole numero due, dopo il presidente, del
momento fallimentare dei granata. Molti chiedono le sue dimissioni, sostenendo che ormai avrebbe perso il controllo
dello spogliatoio incartandosi su scelte
personali senza senso. Dopo il Sassuolo
c’è il derby con la Juventus, allo Stadium. Tutti parlano di un Toro pronto a
Arrivò a Torino nel 2011,
dopo il record di punti con il Bari
e le dimissioni. “Voglio ridare
orgoglio ai tifosi granata”, disse
Sa fare miracoli con il materiale
che ha a disposizione. Anche
senza Cerci e Immobile il suo
Toro gioca bene e vince
re, Giampiero Ventura. Con lui il Bari
ha appena vissuto l’anno migliore e
quello più infame della sua storia. I 50
punti in serie A, l’Europa sfiorata giocando un calcio meraviglioso e la retrocessione frutto – si scoprirà poi – di partite vendute dai giocatori per il calcioscommesse. Ventura la retrocessione
non l’ha vissuta sulla pelle: ha lasciato
prima, quando la squadra non lo seguiva più. Arrivato a Torino nell’indifferenza, trova subito una contestazione della
curva, esasperata dai recenti fallimenti
e dalla scarsa programmazione.
Quel 27 agosto del 2011 siede sulla
panchina del Toro per la prima volta in
campionato. E dopo 4 minuti è già in
svantaggio. Molti tifosi del Torino a quel
punto pensano: “Perché non sono andato al mare?”. Quel sabato sera ad Ascoli inizia come erano finite tante partite
prima di allora. Niente di nuovo, la solita sofferenza. Invece finisce 2-1 per il
Torino. A fine partita, nello spogliatoio,
Giampiero Ventura avrà guardato negli
occhi tutti i suoi giocatori. Alcuni li conosceva già, altri aveva cominciato a conoscerli in ritiro, quell’estate. Avrà
guardato negli occhi anche i giovani Kamil Glik e Matteo Darmian, arrivati dal
Palermo, e Giuseppe Vives, trent’anni,
un’onorevole carriera anonima alle
spalle. Quella sera, nel piccolo spogliatoio della squadra ospite dello stadio di
Ascoli. Dopo la prima vittoria del suo
Torino. Che non era ancora il suo Torino. Li avrà guardati tutti negli occhi, soprattutto quei tre. Non poteva sapere.
Non poteva immaginare.
Tutti i tifosi del Torino ricorderanno a
lungo dove erano la sera del 26 febbraio
2015. Milleseicentododici giorni dopo. A
milleottocento chilometri da Ascoli. Era
un giovedì, e la pioggia scendeva violenta da due giorni su Bilbao, nei paesi baschi, in Spagna. Alla pioggia si era aggiunto il vento, e le prime file dello stadio San Mamés erano inavvicinabili per
la troppa acqua che le bagnava. Milleseicentododici giorni dopo Ascoli, il Torino
allenato da Giampiero Ventura scendeva in campo per la partita di ritorno dei
sedicesimi di finale di Europa League,
la vecchia coppa Uefa. Una coppa che i
granata erano soliti frequentare un tempo, quando molti giocatori di oggi erano
bambini, e qualcuno doveva ancora nascere. All’andata era finita 2-2. Per passare il turno i granata avrebbero dovuto
vincere, o pareggiare almeno 3-3. Quasi
impossibile, al San Mamés, là dove nella storia nessuna squadra italiana aveva
mai sconfitto i padroni di casa dell’Athletic. Milleseicentododici giorni e più di
cento panchine dopo Ascoli, Giampiero
Ventura guardava i 50.000 tifosi baschi
urlanti del San Mamés, e i 3.000 tifosi
granata innamorati in quello spicchio
lassù. E non aveva paura. Li avrà fissati
negli occhi tutti, prima di uscire dagli
spogliatoi, i suoi giocatori. E si sarà fermato un istante di più su quelli di Kamil
essere macellato, i tifosi chiedono almeno una prova d’orgoglio. Ventura mette
in campo una squadra coraggiosa, che
schiaccia i bianconeri nella loro metà
campo, e che pareggia il gol di Vidal con
un capolavoro di Bruno Peres. Solo una
meraviglia di Pirlo al 94’ condanna i granata. Sconfitto ma applaudito, il Toro di
Ventura ancora non lo sa, ma comincia
da quel giorno una serie di dodici partite senza sconfitte. La svolta avviene in
due momenti. A fine dicembre, in casa
con il Genoa. I rossoblù passano in vantaggio, ma vengono raggiunti e superati
da una doppietta di Glik. A fine partita
il capitano dedica la vittoria a Ventura,
e si capisce che c’era una ferita da sanare, e che quel giorno è stata sanata.
L’altro momento è a gennaio, a Milano
contro l’Inter. Il Toro regge bene per 90
minuti, e a dieci secondi dalla fine Moretti segna di testa su calcio d’angolo. I
granata vincono a San Siro 27 anni dopo l’ultima volta. In due mesi Ventura ha
trasformato la squadra: venduti i giocatori che non avevano capito che cosa significa giocare in questo Toro, valorizzati i più giovani, e convinto i big – come
l’ex juventino Quagliarella – a correre
per la squadra. Improvvisamente il Torino non ha più paura di nessuno, e tre
giorni dopo l’impresa di Bilbao batte il
Napoli in casa. 1-0, gol di Glik. Giornali
e tv cominciano a lodare il Toro di Cairo e Ventura, ma insinuano che a fine
stagione i migliori faranno la stessa fine
di Cerci e Immobile lo scorso anno. Ventura sa che da qui a giugno sarà un martellamento continuo (anche se Glik ha
già detto che non vuole andarsene). Lui
ci passa sopra. Sa che il suo ruolo è quello di far crescere i giocatori ed essere
pronto a rimpiazzarli quando se ne vogliono andare, convinti di potere fare il
salto di qualità. E’ successo con Ogbonna, che oggi fa panchina alla Juventus.
E’ successo con D’Ambrosio, che oggi è
uno dei tanti all’Inter. E’ successo con
Cerci, che oggi fa panchina al Milan dopo la tribuna all’Atletico Madrid. E’ successo con Immobile, che oggi è riserva al
Borussia Dortmund. Una volta il Torino
era la squadra in cui i migliori diventavano mediocri, e quando se ne andavano giocavano bene. Oggi succede il contrario. In quattro anni Ventura ha mandato più giocatori in Nazionale di tutti
gli altri allenatori granata negli ultimi
venticinque anni. Esperienza, gavetta e
una grande squadra di collaboratori.
Una capacità di resistere all’umore della piazza come pochi, e un’intesa con la
società come non l’aveva mai trovata
prima d’oggi. Dopo la vittoria sul Napoli si è sbilanciato, dicendo che il Toro è
pronto per diventare grande. Lo stadio
di San Pietroburgo dista 2.917 chilometri da quello di Ascoli. Giovedì, volando
in Russia per gli ottavi di Europa League contro lo Zenit, Ventura ripenserà
ancora una volta a quel sabato sera di fine agosto di quattro anni fa. E sorriderà.
di Piero Vietti
P
Dopo la storica vittoria di Bilbao, il Torino di Giampiero Ventura è stato accolto da centinaia di tifosi nella notte di giovedì all’aeroporto di Torino (foto LaPresse)
BUONA VENTURA
Da Ascoli a Bilbao. Il maestro burbero che ha fatto tornare
grande il Torino fregandosene della storia e riscrivendola lui
Glik, il capitano, Matteo Darmian, titolare della Nazionale, e Giuseppe Vives, colonna generosa del centrocampo della
squadra. A Bilbao, in Europa, milleseicentododici giorni dopo. Non poteva sapere. Non poteva immaginare. Eppure
quella sera sapeva benissimo che il Torino poteva battere l’Athletic.
Se si vuole capire Giampiero Ventura
bisogna guardare quella partita. Nella
stessa situazione, qualunque allenatore
italiano avrebbe fatto sfogare gli avversari, difendendosi, per poi provare il tutto per tutto nel secondo tempo, “tanto
non abbiamo niente da perdere”. Quella sera il Torino comincia subito ad attaccare, invece. Spaventa l’Athletic, e
passa in vantaggio su rigore per un fallo
su Vives. Viene raggiunto a un minuto
I granata non giocavano una
coppa europea da vent’anni.
Sono stati la prima italiana a
vincere nello stadio dell’Athletic
dalla fine del primo tempo, ma riesce a
segnare il 2-1 prima dell’intervallo. Nel
secondo tempo regge l’urto, sfiora il 3-1,
ma subisce il 2-2. Neppure il tempo di capire quel che è successo e Darmian segna il 3-2. Alla fine, sotto la pioggia e il
vento di Bilbao, Ventura abbraccia Glik
in mezzo al campo. Il Torino è la prima
squadra italiana a vincere a Bilbao. I
tifosi allo stadio e a casa stanno piangendo. Sarà il tempo che passa – l’ultima volta in Europa avevano ventidue anni di
meno – sarà che il calcio è una bestia
strana, capace di innamorare e ringiovanire. Milleseicentododici giorni dopo
Ascoli, Giampiero Ventura è entrato nella storia del Torino. Con il suo Torino.
Milleseicentododici giorni nello stesso posto sono un’enormità, nella carriera di Giampiero Ventura. Nato a Genova 67 anni fa (ma non diteglielo, non ci
crederebbe nemmeno lui), ha allenato
nel sottoscala del calcio per un paio di
decenni. In silenzio, lanciando giovani
che sarebbero diventati grandi e insegnando calcio a tanti che oggi allenano.
Molta Liguria, poi Pistoia, Venezia, Lecce (con la doppia promozione dalla C1
alla A), Cagliari, Sampdoria, Udinese,
ancora Cagliari, poi il primo Napoli di
De Laurentiis, in C2, Messina, Verona.
Quasi mai più di due stagioni nello stesso posto. Ha perso tante occasioni, questo mister dal carattere duro e ironico,
a tratti insopportabile e magnetico insieme, così innamorato del suo lavoro
che parlerebbe di calcio per ore senza
stancarsi mai. Lo ha ammesso lui stesso. Fiorentina, qualcuno dice persino
Juventus. Scelse la “sua” Sampdoria
per questioni di cuore, per un punto non
riuscì a portarla in A e tornò nel dimenticatoio. Nel 2007 il primo capolavoro
della sua seconda vita, a Pisa. I playoff
per salire in serie A, un calcio che in
tanti cominciavano a copiare, e il lancio
di un giovane talento di nome Alessio
Cerci. Ai suoi allenamenti andava spesso Antonio Conte, per prendere appunti. Nell’estate 2009 Ventura venne chiamato a sostituire proprio Conte sulla
panchina del Bari. Trovò una squadra
plasmata sul suo credo, quel 4-2-4 che in
Italia nessuno osava schierare, troppo
spregiudicato e scoperto a centrocampo.
Se ne andrà il 10 febbraio del 2011, commosso e grato per quegli anni. Pochi mesi dopo accetta la chiamata di Urbano
Cairo, lascia il mare per le montagne e
arriva a Torino. Un esperto di promozioni, un magnifico incompiuto, uno che ha
avuto meno di quello che meritava. Veniva raccontato così, Ventura, prima di
Torino. E ancora adesso c’è chi gli fa
quella domanda: “Giampiero, quando in
una grande squadra?”. Lui ci scherza su,
dice “fate girare la voce”, poi torna serio
e dice che lui una grande squadra già la
allena, ma che “da grande” gli piacerebbe allenare una Nazionale, magari quella azzurra, dopo Conte.
Adesso però Ventura allena il Torino,
e si capisce che ha una voglia matta di
togliersi ancora qualche soddisfazione.
Era difficile, a Torino. Quasi impossibile. Dopo i fasti di inizio anni Novanta
avevano fallito in tanti, a conti fatti tutti. Anche chi era riuscito a riaccendere
una fiammella del Toro che fu era durato poco, come Giancarlo Camolese, fatto fuori da gestioni scellerate che portarono malinconicamente all’insignificanza calcistica prima e al fallimento del
2005 poi. Appena arrivato al Torino Ventura disse che il suo obiettivo era quello di ridare orgoglio ai tifosi, far tirare di
nuovo fuori le sciarpe e le bandiere per
qualche vittoria importante, ricreare
quella “cellula granata” che si era spenta nel tempo. Non parlava di grinta e tremendismo, però, né di storia da onorare.
A tifosi abituati alla retorica del “vecchio cuore granata” – tanto utilizzata dagli ultimi allenatori, tutti miseramente
falliti – queste parole suonavano stonate. Da troppi anni la letteratura che circonda il Torino sconfinava nello stucchevole e nell’astratto, e i continui paragoni con il passato soffocavano il presente. La nostalgia insanabile per Pulici e Graziani, per il Toro operaio degli
anni Sessanta, per quello grintoso degli
Ottanta e per quello vincente dei primi
Novanta, avevano cristallizzato un’immagine inattuale di ciò che la squadra
granata avrebbe dovuto essere. Perennemente schiacciato da questi paragoni
(e martoriato da dirigenze insufficienti),
ogni Toro decente degli ultimi vent’anni veniva abortito. Sembrava a un certo
punto che si godesse a perdere e lamentarsi del destino avverso. Ventura ha capito tutto questo, e ha deciso di non lisciare il pelo dei tifosi dalla parte giusta. Lo ha fatto con dichiarazioni forti, a
volte supponenti. “Questa squadra viene da Cittadella”, ricordava ai tifosi che
chiedevano tutto subito, spiegando loro
che la crescita sarebbe stata graduale,
e che non si potevano pretendere gioco
e vittorie da un gruppo che pochi mesi
prima arava i campi infami della B.
“Noi veniamo da Superga, dallo scudetto e dalla finale di Amsterdam”, rispondevano stizziti i tifosi. Ma Ventura non ci
cascava, e faceva crescere il suo Torino,
trasformandolo poco per volta in Toro.
La storia del club di Cairo si può dividere in avanti Ventura e dopo Ventura. Prima del 2011, lo ammette lo stesso
presidente, errori in serie su direttori
sportivi, giocatori e allenatori. Dopo,
un’intesa quasi perfetta con l’uomo che
ha preso il suo Torino e lo ha riportato
tra le grandi. Già, perché se Ventura ha
fatto quello che ha fatto con il Toro, è
perché ha trovato una società che gli ha
lasciato campo libero. Mai in dubbio,
neppure quando i risultati non arrivavano, sempre difeso (a costo di prendersi
i vaffanculo della curva), spesso accontentato sul mercato grazie al lavoro del
ds Gianluca Petrachi. Ventura non sa fare il comprimario, è protagonista per na-
tura, basta vederlo nelle interviste in tv.
E’ probabilmente in Italia la figura più
simile a quello che nel calcio inglese
chiamano manager: allenatore, comunicatore, gestore del mercato. A Cairo uno
così fa comodo: il Torino è ancora una
società giovane, senza strutture paraburocratiche, e Ventura copre molti ruoli
contemporaneamente. Ma anche a Ventura uno come Cairo fa comodo. A Torino è riuscito a portare un’idea nuova di
calcio, non solo da un punto di vista tattico. Dopo anni di basta-la-maglia-sudata, i tifosi hanno ricominciato a vedere
un gioco razionale, partite intelligenti,
schemi ragionati e un’organizzazione
che col tempo è diventata capace di reggere ogni urto. Ha sbagliato qualcosa in
questi anni, Ventura, ma ha sempre sa-
Quattro anni sulla stessa
panchina sono un record nella
sua carriera. Merito anche del
feeling con il presidente Cairo
puto correggersi, imparando. Ha cambiato modulo (addio 4-2-4, adesso usa il
3-5-2), ruoli ai giocatori, convinzioni e
modo di fare. Non sopporta un certo modo di fare giornalismo. Prima di Torino
era abituato a realtà più piccole, dove
chi scrive sui giornali è anche tifoso militante, acritico. Impossibile in una grande città, e in particolare a Torino, dove
ogni cosa – soprattutto il potere – dice
Juve. Ha dovuto prendere le misure, litigare, far capire che a lui certi giochetti mediatici non piacciono. Il carattere
non glielo si può cambiare. Duro, orgoglioso, paterno quando serve, ma meglio
non farlo arrabbiare. Nel calcio contano
i risultati, e a Torino Ventura li sta ottenendo.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava
tutto finito. Dopo la stagione dell’anno
scorso, con la qualificazione in Europa
League arrivata grazie ai gol della coppia d’attacco Cerci e Immobile, il Torino
ha ricominciato balbettante. Non ci sono più Cerci e Immobile, venduti per assecondare la loro volontà di “volare alto” (facendo cassa). I tifosi, delusi per le
cessioni eccellenti, vengono messi alla
prova dai rimpiazzi dei due bomber: le
conferme degli inguardabili Barreto e