AA.VV. - Buone Notizie dal Vaticano

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AA.VV. - Buone Notizie dal Vaticano
I dieci racconti qui riuniti sono stati in origine commissionati dall'antologista Terry Carr e
pubblicati nel 1971 e '72 in due volumi intitolati “Universe 1” e “Universe 2”. Per correttezza
verso il curatore americano avremmo voluto conservare quel titolo, ma per motivi evidenti a
ogni lettore italiano non abbiamo saputo resistere a “Good News from the Vatican”, un
racconto di Robert Silverberg in cui un gruppo di turisti e teologi seduti ai tavolini di un caffè
di una Roma futura discutono sulla eventualità che un robot-cardinale venga eletto papa, e
aspettano tra un Camparisoda e l'altro la fatidica fumata bianca. Poiché il merito della
selezione non è nostro, diciamo senza esitazione che tutta la raccolta si mantiene su questo
livello e che alcuni "pezzi" sono sicuramente destinati a diventare dei classici del racconto
fantascientifico. Dopodiché non ci resta che aspettare altre buone notizie da “Universe 3”,
“Universe 4”, “Universe 5”, ecc...
AUTORI VARI
BUONE NOTIZIE DAL VATICANO
URANIA N. 623
Data di pubblicazione: 22 luglio 1973
Casa editrice: Mondadori Editore, Milano
Serie: Le Antologie
Copertina: Karel Thole
Indice
Buone notizie dal Vaticano – Robert Silverberg
Da scimmia a scimmia – Gordon Eklund
Retroindagine criminale – Wilson Tucker
Tutte le ultime guerre insieme – George Alec Effinger
Mina temporale – Bob Shaw
Servizio funebre – Gerald F. Conway
Parole parole – R. A. Lafferty
Frasi utili per il turista – Joanna Russ
I mostri dell'isola – Grania Davis
Quando andammo a vedere la fine del mondo – Robert Silverberg
Robert Silverberg
BUONE NOTIZIE DAL VATICANO
(Good News from the Vatican, 1971)
Traduzione di Ursula Olmini Soergel
È venuto il giorno che tutti aspettavano, il giorno in cui finalmente il cardinale
robot sarà eletto papa. Nessuno praticamente ha più dubbi sull'esito della
votazione. Per parecchi giorni il conclave è stato diviso in due fazioni, che
sostenevano con uguale accanimento l'una il cardinale Poggi di Milano e l'altra il
genovese cardinale Salvani, ma a quanto sembra si è ora arrivati a un
compromesso: entrambe le fazioni voteranno per il robot. Ho letto stamattina
sull'"Osservatore Romano" che il centro elettronico del Vaticano stesso è
intervenuto nelle delibere, caldeggiando la candidatura del robot. Penso non sia
il caso di stupirsi di questo accordo fra macchine e tanto meno di
preoccuparsene. Non c'è assolutamente niente di cui preoccuparsi.
— Ogni era ha il papa che merita — commentava un po' funereo oggi il
vescovo FitzPatrick, oggi a colazione. — Il papa che ci vuole oggigiorno è un
robot, non c'è dubbio. Può darsi che in avvenire ci serva magari una balena,
come papa, o un'automobile, un gatto, una montagna. — Il vescovo FitzPatrick è
alto più di due metri e ha normalmente un'aria malaticcia e luttuosa, perciò non
riusciamo mai a capire se le sue uscite sono dettate da una profonda angoscia
esistenziale o da serena rassegnazione. Parecchi anni fa era uno dei migliori
giocatori della squadra della Santa Croce nel campionato di pallacanestro di
serie A. Adesso è a Roma, tutto preso da certe ricerche per una biografia di San
Marcello il Giusto.
Abbiamo seguito il drammatico sviluppo dell'elezione del papa da un bar
all'aperto, ad alcuni isolati di distanza da piazza San Pietro. È stato per tutti noi
un inatteso arricchimento delle nostre vacanze romane; il papa precedente era
sembrato in ottima salute e niente lasciava supporre che già in questa estate gli
si sarebbe dovuto trovare un successore.
Ogni mattina prendiamo il tassì dall'albergo nei pressi di via Veneto al bar
dove ci appostiamo attorno al "nostro" tavolo. Di lì abbiamo un'ottima vista del
camino del Vaticano dal quale esce il fumo dei ballottaggi: nero se la votazione
ha avuto esito negativo, bianco se il conclave ha eletto il pontefice. Luigi,
proprietario e insieme cameriere del bar, ci porta appena ci vede le nostre solite
bevande: fernet per il vescovo FitzPatrick, campari soda per il rabbino Mueller,
caffè turco per Miss Harshaw, spremuta di limone per Kenneth e Beverly, e per
me pernod con ghiaccio. Uno a turno paga per tutti, però mai una volta, da
quando la nostra guardia è cominciata, che abbia pagato Kenneth. Ieri, quando
toccava pagare a Miss Harshaw, le mancavano 350 lire, aveva solo travellers'
checks da cento dollari. Lanciammo tutti occhiate significative a Kenneth, ma lui
continuò imperterrito a succhiare la sua spremuta. Dopo un attimo di
nervosismo generale il rabbino Mueller tirò fuori una moneta da 500 e sbatté
piuttosto furiosamente il pesante pezzo d'argento sul tavolino. Il rabbino è
notoriamente collerico e di modi violenti. Ha ventotto anni, abitualmente porta
una tonaca moderna di panno scozzese e occhiali da sole dai vetri rifrangenti. Si
vanta spesso e volentieri di non aver mai officiato il "bar mitzvah", la cresima
ebraica, per la sua congregazione, che è poi Wicomico County nel Maryland.
Secondo lui è un rito volgare e superato, e riesce regolarmente a rifilare questo
compito a una organizzazione di sacerdoti itineranti che si incaricano, su
commissione, di queste incombenze. Il rabbino Mueller è un'autorità in fatto di
angeli.
I pareri sul senso che può avere l'elezione a papa di un robot sono discordi nel
nostro gruppo. Il vescovo FitzPatrick, il rabbino e io siamo a favore dell'idea;
Miss Harshaw, Kenneth e Beverly sono contrari. È interessante notare che
entrambi i signori in tonaca, l'uno piuttosto avanti con gli anni e l'altro
giovanissimo, parteggiano per questo rivoluzionario abbandono della tradizione,
mentre i nostri tre "mondani" sono più conservatori.
Io stesso non so bene perché faccia parte della schiera progressista. Sono un
uomo maturo e abbastanza tranquillo e non mi sono mai occupato delle faccende
della Chiesa di Roma. Ho poca familiarità con il cattolicesimo e non conosco i
suoi problemi interni. Eppure, sin dall'inizio del conclave, anch'io spero
nell'elezione del robot.
Chissà perché? Forse perché l'idea di una creatura di metallo sul trono di San
Pietro stimola la mia fantasia e solletica il mio senso dell'assurdo? Cioè, la mia
preferenza per il robot è puramente una questione di estetica? O non è piuttosto
l'espressione della mia vigliaccheria morale? Possibile che intimamente io pensi
che in un certo senso questo fatto "compra" il robot, come se dicessi, diamogli il
papato, così magari per un po' di tempo staranno buoni? No, non credo proprio
di essere così meschino. Più probabilmente sono per il robot perché ho una
sensibilità insolitamente sviluppata quando si tratta dei problemi altrui.
— Se sarà eletto — dice il rabbino Mueller — tanto per cominciare concluderà
subito un accordo di compartecipazione temporale con il Dalai Lama e un patto
di accesso ai reciproci centri elettronici con il sommo programmatore della
chiesa greco-ortodossa. Pare che voglia pure fare delle offerte ecumeniche al
Gran Rabbino, un passo che non può che infonderci grandi speranze.
— Indubbiamente, usanze e regole gerarchiche subiranno parecchie
modifiche — aggiunge il vescovo FitzPatrick. — Potremo, per esempio,
aspettarci un notevole progresso dei sistemi informativi, visto che il centro
elettronico del Vaticano avrà una parte maggiore nelle operazioni curiali.
Lasciate che vi spieghi...
— Che orrore — lo interrompe Kenneth. È un giovane alquanto originale, con
capelli quasi bianchi e occhi rosa. Beverly è sua moglie o sorella, non parla quasi
mai. Kenneth si fa il segno della croce con offensiva indelicatezza mormorando
"in nome del Padre, del Figlio e dell'Automa Santo". Miss Harshaw ridacchia, ma
smette subito quando vede il mio sguardo di rimprovero.
Con aria afflitta, ma del tutto incurante dell'interruzione, il vescovo riprende il
discorso: — Lasciate che vi spieghi i fatti con qualche cifra che ho appreso ieri
pomeriggio. Ho letto su "Nostra Era" che, secondo il portavoce delle Missionis
Catholicae, negli ultimi cinque anni la Chiesa ha aumentato il numero di fedeli
nella sola Jugoslavia da 19.381.403 a 23.501.062. Ora, dal censimento
governativo dell'anno scorso, risulta che il totale della popolazione jugoslava è di
23.575.194 unità. Alle altre religioni e organizzazioni laiche tutte insieme non
resterebbero quindi che 74.132 persone. Sapendo che gran parte degli jugoslavi
è musulmana, mi è venuto il sospetto che le statistiche ufficiali fossero inesatte,
perciò ho controllato con il computer in San Pietro e sono così venuto a sapere...
— facendo una breve pausa il vescovo tira fuori una cartella oblunga e la spiega
su quasi tutto il tavolino — che dall'ultimo conteggio di un anno e mezzo fa i
fedeli in Jugoslavia risultano essere 14.206.198. Evidentemente c'è stata
un'esagerazione di 9.294.864, una vera assurdità, tanto più biasimevole in
quanto si è ripetuta.
— Che aspetto ha? — domanda Miss Harshaw. — Qualcuno di voi ne ha
un'idea?
— Come tutti gli altri — dice Kenneth. — Una scatola di metallo lucido su
rotelle, con degli oblò in cima.
— Ma se non l'avete mai visto — interviene il vescovo — come fate a dire
che...
— Sono tutti uguali — insiste Kenneth. — Visto uno, visti tutti. Scatole lucide,
rotelle, oblò. Con la voce che gli esce dalla pancia come rutti meccanici. E dentro
hanno tutti un groviglio di ingranaggi e rotelline. — Rabbrividisce. — Mi sento
male solo a pensarci. Beviamo ancora qualcosa, va bene?
Il rabbino Mueller dice: — Si dà il caso che io l'abbia visto con i miei occhi.
— Sul serio? — dice Beverly, interessata.
Kenneth le getta un'occhiata torva. Arriva Luigi con un bicchiere per ciascuno
e gli dò un biglietto da cinquemila. Il rabbino si toglie gli occhiali scuri e soffia
sulle lenti. Ha occhi piccoli d'un grigio acquoso ed è tremendamente strabico.
Riprende: — Il cardinale era l'oratore principale al congresso sionista mondiale,
l'autunno scorso a Beirut. Parlava su "ecumenismo cibernetico e umanità
contemporanea". C'ero anch'io. Vi posso dire che Sua Eminenza ha un personale
alto e distinto, una bella voce e un simpaticissimo sorriso. Lo circonda un'aria di
malinconia che mi ricorda molto il nostro caro vescovo, qui. Si muove con grazia
ed è molto intelligente.
— Ma cammina su rotelle a no? — insiste Kenneth.
— Su cingoli — risponde il rabbino fulminando Kenneth con lo sguardo prima
di rimettersi gli occhiali. — Come quelli di un trattore. Ma non vedo perché i
cingoli dovrebbero essere più disprezzabili dei piedi o, se preferite, delle rotelle.
Io se fossi cattolico sarei fiero di avere un uomo simile come papa!
— Uomo un bel niente — interviene Miss Harshaw. La sua voce assume un
tono polemico ogni volta che si rivolge al rabbino. — Un robot. Sapete bene che
non è un uomo.
— E va bene, un robot simile come papa — le concede il rabbino alzando le
spalle. E, sollevando il suo bicchiere: — Al nuovo papa!
— Al nuovo papa! — gli fa eco il vescovo FitzPatrick.
Luigi schizza fuori da dietro il banco. Kenneth gli fa cenno di no. — Un
momento — dice. — La votazione non è ancora finita. Come fate a essere cosi
sicuri dell'esito?
— L'"Osservatore Romano" di oggi — intervengo io — scrive che si deciderà
in giornata. Il cardinale Salvani ha acconsentito a ritirare la propria candidatura
in cambio di un maggiore tempo effettivo quando il concistoro dell'anno
prossimo deciderà sulla nuova distribuzione delle ore d'accesso al centro
elettronico.
— Il solito mercato, insomma — dice Kenneth.
Il vescovo scuote tristemente la testa. — Voi giudicate in modo troppo duro,
figliolo. Sono tre settimane che siamo senza Santo Padre. Dio vuole che abbiamo
un papa; il conclave incapace di decidere fra la candidatura del cardinale Salvani
e quella del cardinale Poggi non rispetta la volontà divina, quindi una volta tanto
dobbiamo adattarci alle circostanze in modo che la Sua volontà non venga
ulteriormente trascurata. In questo momento tirare in lungo il conclave sarebbe
un'offesa a Dio. In questo senso il sacrificio che il cardinale Salvani fa delle
proprie ambizioni personali non è un atto così egoistico come vi potrebbe
sembrare.
Impietoso, Kenneth insiste a negare la buona fede che avrebbe spinto il
povero Salvani al ritiro della candidatura e Beverly gli dà manforte. Miss
Harshaw dichiara ripetutamente che non intende rimanere membro attivo di
una Chiesa il cui capo è un automa. Trovo disgustoso questo battibecco e giro la
mia sedia per avere una vista migliore del Vaticano. In questo momento i
cardinali sono riuniti nella Cappella Sistina. Come vorrei esserci anch'io. Di quali
superbi arcani è teatro quell'angusta aula tenebrosa. Ogni principe della Chiesa
ha preso posto su un piccolo seggio sormontato da un baldacchino color
porpora. L'unica illuminazione proviene dai grossi tozzi ceri sui pulpiti davanti
ai seggi. Con incedere solenne i maestri di cerimonia portano i bacili d'argento
con le schede ancora bianche e li posano sul tavolo ai piedi dell'altare. A uno a
uno i cardinali vanno al tavolo, prendono una scheda, ritornano ai loro posti.
Ora, con la penna d'oca ogni porporato scriverà: "Io, cardinale... eleggo a
pontefice massimo il reverendissimo principe mio signore cardinale...". Quale
nome scriveranno? Salvani? Poggi? il nome di qualche oscuro incartapecorito
prelato di Madrid o di Heidelberg, ultima carta disperata della fazione antirobot? O il nome di lui? Nella cappella si sente soltanto il rumore delle penne che
grattano sulla carta. Infine i cardinali hanno terminato, sigillano le schede, le
piegano e le ripiegano, le portano all'altare dove le depongono nel grande calice
d'oro. Sono giorni che ripetono gli stessi gesti, mattina e pomeriggio, da quando
è cominciato l'ostruzionismo.
— Qualche giorno fa — sta dicendo Miss Harshaw — ho letto sull'"Herald
Tribune" che all'aeroporto di Des Moines una delegazione di 250 giovani robot
cattolici dello Iowa attende l'esito delle votazioni. Se vince il loro candidato c'è
un charter pronto a portarli qui. Pretendono che il Santo Padre conceda loro la
prima udienza pubblica.
— Certamente — annuisce il vescovo FitzPatrick — questa elezione
conquisterà alla Chiesa un considerevole numero di anime di provenienza
sintetica.
— Facendone uscire un bel po' di gente in carne e ossa! — lo rimbecca con
voce stridula Miss Harshaw.
— Ne dubito — risponde il vescovo. — Certo, ci sarà, e tanto per cominciare
anche fra noi, chi si sentirà urtato, perplesso, oltraggiato, disorientato, ma
passerà. Le innate virtù del nuovo papa cui alludeva il rabbino Mueller poco fa
prevarranno sui dubbi. Inoltre io credo che dappertutto i giovani dalla mentalità
tecnologica si sentiranno spinti a entrare nella Chiesa. Una grande religiosità
risorgerà in tutto il mondo.
— Ve li immaginate 250 robot che entrano sferragliando in San Pietro? —
domanda Miss Harshaw.
Osservo il Vaticano in lontananza. A quest'ora del mattino il sole è forte e
abbagliante, ma i cardinali riuniti dietro quei muri, fuori dal mondo comune, non
godono i suoi caldi raggi. Ormai devono avere tutti votato. Si saranno alzati i tre
di loro che stamattina la sorte ha destinato a scrutatori. Uno di essi solleverà il
calice e lo scuoterà per mescolare le schede. Poi lo porrà sul tavolo davanti
all'altare; il secondo ne toglierà le schede e le conterà, facendo bene attenzione
che il loro numero corrisponda al numero dei cardinali presenti. Poi le schede
verranno messe nel ciborio, il calice che durante la messa serve a contenere
l'ostia. Il primo scrutatore ne estrarrà una scheda, l'aprirà, leggerà ciò che c'è
scritto, la passerà al secondo scrutatore, il quale la leggerà a sua volta per
consegnarla poi al terzo scrutatore, che pronuncerà ad alta voce il nome
scrittovi. Poggi? Salvani? Un altro? Il "suo"?
Il rabbino Mueller sta parlando di angeli. — E poi ci sono gli angeli del Trono,
in ebraico detto "archim", o anche "ophanim". Ne abbiamo settanta, noti innanzi
tutto per la loro costanza. Di questo gruppo fanno parte Orifìel, Ofaniel, Zabkiel,
Jofìel, Ambriel, Tychagar, Barael, Quelamia, Paschar, Boel e Raum. Alcuni di
questi non stanno più in Cielo, ma si annoverano fra gli angeli caduti
nell'Inferno.
— Tanto per la loro costanza — commenta Kenneth.
— Poi — prosegue il rabbino — ci sono gli angeli della Presenza, che pare
siano stati circoncisi nel momento stesso di essere creati. Sono Michele,
Metatron, Suriel, Sandalfon, Uriel, Saraquael, Astanfaenus, Fanuel, Jehoel,
Zagzagael, Yefefia e Akatriel. Però quello che a me piace più di tutti è l'angelo
della lussuria; di lui il talmud Bereshith Rabba dice che quando Giuda stava
passando...
Adesso il conteggio dei voti dovrebbe essere terminato.
Una folla immensa si è raccolta in piazza San Pietro. Il sole si riflette in
centinaia se non migliaia di crani d'acciaio. Oggi la popolazione robot di Roma è
esultante. Ma la maggior parte dei presenti nella piazza sono creature di carne e
ossa: vecchie in nero, spavaldi giovani borsaioli, ragazzi con cuccioli, grassi
venditori di salame, poeti, filosofi, generali, magistrati, turisti, impiegati. Quale
sarà il verdetto che fra breve conosceremo? Se nessun candidato ha raggiunto la
maggioranza dei voti, le schede saranno frammiste di paglia bagnata prima di
venir bruciate nella stufa della cappella, in modo che dal camino esca fumo nero.
Se invece il nuovo papa è stato trovato la paglia sarà asciutta e il fumo bianco.
Questo sistema è molto sentito. A me piace tanto; mi procura quell'intima
soddisfazione che generalmente ci dà l'esecuzione impeccabile di un'opera
d'arte, non so, per esempio l'accordo del "Tristano" o i denti della rana nella
"Tentazione di Sant'Antonio" di Bosch. Attendo l'esito con ardente
concentrazione; non ho dubbi sul nome. Sento risvegliarsi in me, irresistibile,
una nuova religiosità, anche se allo stesso tempo avverto una strana nostalgia
dei tempi quando i papi erano uomini di carne e ossa. Domani nessun giornale
pubblicherà interviste con l'anziana mamma del Santo Padre in Sicilia, o con un
suo fratello minore a San Francisco. E ci sarà ancora, la prossima volta, questo
grandioso rituale del conclave? Anzi, ci occorrerà mai un altro papa, dal
momento che quello il cui nome sarà presto annunciato può essere riparato così
facilmente?
Ah! Il fumo... è bianco! Il grande momento è giunto!
Una figura appare sul balcone centrale della facciata di San Pietro in una
nuvola di oro tessuto e subito riscompare. La luce su tutto quell'oro mi stordisce
e mi ricorda in qualche modo il freddo argenteo riverbero della luna sul mare di
Castellammare, o più ancora il nudo petto satinato di sole del barcaiolo caraibico
davanti alla costa di San Juan. È uscita sul balcone un'altra figura in ermellino e
vermiglio. — Il cardinale arcidiacono — sussurra il vescovo FitzPatrick. Qua e là
qualcuno fra la folla sviene. In piedi accanto a me, Luigi ascolta la cronaca degli
avvenimenti da una radiolina. Kenneth dice: — Tutto combinato prima — e il
rabbino lo zittisce con un sibilo. Miss Harshaw si mette a singhiozzare, Beverly
recita sommessamente l'Atto di Fede segnandosi con gesti precisi. Per me è un
attimo sublime. Credo che mai come ora abbia avvertito di vivere un momento
storico.
La voce amplificata del cardinale arcidiacono proclama: — Con somma gioia vi
annunciamo che abbiamo il papa!
Cori di giubilo si innalzano e diventano un unico grande boato quando il
cardinale arcidiacono comunica al mondo che il cardinale eletto, il nuovo
pontefice, è lui, quella figura nobile e solenne, quel personaggio malinconico e
austero la cui ascesa alla Santa Sede tutti aspettavano con ansia da tanto tempo.
— Sua Santità — prosegue il cardinale arcidiacono — ha scelto per il suo
pontificato il nome di... — La voce si perde nel frastuono e mi rivolgo a Luigi. —
Chi? Che nome?
— Sisto Settimo — m'informa Luigi.
Ed eccolo là, Papa Sisto VII come d'ora innanzi lo chiameremo. Una figura esile
nell'argento e oro dei vestimenti papali, le braccia aperte verso la folla... ecco, il
sole fa scintillare le sue gote, la fronte alta, esaltando tutta la levigatezza
dell'acciaio. Luigi è già in ginocchio. M'inginocchio al suo fianco. Miss Harshaw,
Beverly, Kenneth, perfino il rabbino, sono tutti inginocchiati perché questo è il
momento mistico al di là di ogni dubbio. Il papa avanza al parapetto del balcone.
Adesso impartirà la tradizionale benedizione apostolica "urbi et orbi". — La
nostra salvezza è nel nome del Signore... — egli dichiara con voce grave. Aziona i
tubi a reazione sotto le braccia, e perfino a questa distanza distinguo benissimo i
due sbuffi di fumo, bianco anch'esso.
Lentamente il papa si solleva nell'aria.
— ... che ha creato il cielo e la terra... — La sua voce giunge a noi maestosa. La
sua ombra attraversa l'intera piazza. Sale sempre più su, più su, finché scompare
alla nostra vista. Kenneth tocca Luigi. — Un altro giro — dice premendo una
banconota di grosso taglio nella mano grassoccia dell'oste. Il vescovo FitzPatrick
piange. Il rabbino Mueller abbraccia Miss Harshaw. Il nuovo pontefice ha
inaugurato il suo regno in modo davvero propizio.
Gordon Eklund
DA SCIMMIA A SCIMMIA
(Stalking the Sun, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
Thalvin era rimasto all'interno della flutmobile dopo che gli altri due erano
saltati fuori ed erano corsi a esaminare la preda uccisa. Thalvin voleva
controllare con cura gli strumenti del cruscotto, prima di allontanarsi di là,
perché una volta aveva sentito una storia di tre cacciatori che avevano
dimenticato di controllare bene. Così, il veicolo si era messo in moto ed era finito
in un lago ghiacciato, e loro si erano trovati arenati a mezzo milione d'anni da
casa, senza l'attrezzatura necessaria per la sopravvivenza. Due erano morti
quasi subito, mentre il terzo era stato miracolosamente trovato da un'altra
spedizione e riportato a casa, dove aveva potuto raccontare la sua sciocca
disavventura. Thalvin era stato a caccia troppe volte per commettere un errore
così elementare, per cui controllò attentamente gli strumenti e i comandi. Poi,
pienamente soddisfatto, scivolò lungo il sedile e uscì all'esterno, nell'aria
pungente e sottile della Terra morente. Thalvin era stato in prima linea troppe
volte, per morire senza un'ottima ragione.
Il sole era una macchiolina rossa annidata in un angolo del cielo grigio. La
nebbia era densa, diffusa. Thalvin s'incamminò, respirando lentamente e
attentamente, posando i piedi con prudenza sul suolo umido e fradicio, e si unì
agli altri due.
L'uomo era affaccendato intorno alla preda, presso la parte posteriore. La
donna era ferma vicino alla testa. Thalvin le si avvicinò. — A che cosa stai
pensando, Gai?
Lei alzò le spalle, senza guardarlo. — A che cosa dovrei pensare?
— Non so — disse lui, inginocchiandosi vicino al muso dell'animale. Sollevò le
palpebre pesanti della bestia uccisa e osservò attentamente. Gli occhi erano
bianchi, striati, da larghe strisce rosse a zig-zag. Accostò la bocca alle narici del
bestione. — È morto — disse, e si rialzò.
— Perché non dovrebbe essere morto? — disse Gai. — Jorgan l'ha colpito.
— Non c'è mai niente di certo — disse Thalvin, in tono pedante, da istruttore.
— Non è facile uccidere, quassù. Una volta...
— Un cacciatore credeva che la preda fosse morta — finì Gai per lui. — Ma in
realtà non lo era, fingeva soltanto, e a un tratto si rialzò ridendosela del
cacciatore, e lo divorò in un boccone. Non è così, Thalvin?
— È così, sì — rispose Thalvin alla moglie. Andò verso la parte posteriore
della carogna, lasciando che della testa si occupasse lei. Era enorme,
quell'animale senza nome. Thalvin, che ne aveva visti e uccisi molti, riteneva che
discendessero dall'elefante. Erano più piccoli, grandi all'incirca la metà di un
elefante indiano, ma tutto il resto corrispondeva: le orecchie, la coda, il tronco, le
zanne.
— Lascia perdere — disse Thalvin.
Jorgan, che era intento a tagliare la coda con la lama affilata di un grosso
coltello, guardò in su. Sorrise a Thalvin. Il terreno era insozzato da sterco misto a
sangue scuro e raggrumato, l'ultimo atto incontrollato dell'animale colpito a
morte. — Perché? — chiese Jorgan. Era poco più che un ragazzo, aveva soltanto
ventotto anni. Otto anni meno di Gai e ventuno meno di Thalvin. Soltanto un
ragazzo, pensò Thalvin.
— Lascia perdere — ripetè. — È sporca. Che cosa te ne fai della coda? Prendi
una zanna, se proprio vuoi un trofeo.
Jorgan si accigliò e conficcò più volte il coltello nel terreno.
— In città, tutte le lavoratrici hanno un paio di zanne appese a una parete. Noi
vogliamo qualcosa di più esotico. L'hai dimenticato?
— Non l'ho dimenticato — disse Thalvin. — Ma... una coda? Come puoi
dimostrare che non appartiene a una mucca macellata?
— Lascia che ci pensi io — rispose Jorgan. Riprese il coltello e si rimise
all'opera per tagliare la coda.
Thalvin si allontanò. I suoi scarponi affondavano nel terreno marcio.
Camminava lentamente.
Gai stava staccando le zanne con la sua pistola termica. Thalvin le sorrise e le
sfiorò un braccio. — Lascia fare a me — disse. — So come fare per non
danneggiare le zanne.
— Davvero? — disse lei, passandogli la pistola. Gli sorrise e si allontanò.
Anche dopo dieci anni di matrimonio, Thalvin non era sazio di quel sorriso. Gai
non era particolarmente graziosa, e non era neppure intelligente o dotata di
arguzia. Non era facile vivere con lei, questo l'aveva ammesso persino Ginler, ma
sapeva sorridere. Uomini che occupavano i primi posti della catena, uomini
molto più in su di Thalvin e anche di Ginler, avevano apertamente desiderato
quel sorriso, ma nessuno l'aveva mai posseduto per più di pochi, brevi e
sfuggevoli istanti. Nessuno tranne i suoi mariti: Ginler, Thalvin e, ora, Jorgan.
Nessuno, tranne loro tre.
Thalvin asportò senza fatica le zanne e le trasportò sulla flutmobile. Gai lo
accompagnò, e insieme aspettarono Jorgan. Il ragazzo aveva staccato la coda e
ora stava compiendo uno dei suoi riti speciali presso l'animale ucciso.
Thalvin fumava.
— Ci spingeremo più in là, oggi? — domandò Gai.
Lui disse di no. — Tra poco sarà notte. Qui notte significa buio totale. La
nebbia non si alza mai. C'è un posto riparato vicino a un ruscello, a una
quindicina di chilometri da qui. Se il ragazzo la pianta di pregare i suoi dèi,
potremmo anche arrivarci prima che annotti completamente.
— Ti disgusta, vero? — disse lei.
— Cosa?
— La religione. Per un individuo razionale come te...
— No — disse Thalvin. — Non mi disgusta. — Rialzò lo sguardo. — Eccolo che
arriva. Fatti in là.
Jorgan si arrampicò sul sedile posteriore della flutmobile. Gai si girò a parlare
con lui. Thalvin pilotava il veicolo attraverso il paesaggio. Avevano perso tempo
per colpa di Jorgan e stava già per calare la notte, ma in fondo non c'era motivo
di preoccuparsi. Lì il terreno era tutto uguale, piatto e liscio come il torso di un
bambino. Centocinquanta chilometri più a nord si stendevano foreste
impenetrabili e trecento chilometri più a est un oceano. Ma quella particolare
parte del futuro era tutta pianura ghiacciata che si stendeva per
millecinquecento chilometri verso l'ovest e il sud.
Thalvin trovò il corso d'acqua e lo seguì, cercando un buon punto per
accamparsi. Jorgan e Gai chiacchieravano, paragonando i loro trofei. Thalvin si
sforzava di ignorarli. Si comportavano entrambi come turisti, e questo lo
irritava. Dagli altri se lo aspettava, ma quei due erano la sua famiglia. Però,
nessuno dei due era mai stato lì, e di conseguenza avevano tutto il diritto di
comportarsi come turisti. Jorgan era troppo giovane e, in quanto a Gai, Ginler
non le aveva mai permesso di venirci. Ciononostante, a Thalvin
quell'atteggiamento dava sui nervi.
Jorgan gli stava parlando. — Possiamo trovare qualcos'altro domani, Thalvin?
Qualcosa di meglio. In fin dei conti, avevi detto...
— Ho detto che questa zona è poco battuta dai cacciatori, ed è la verità. Ma
non posso garantirti che la preda sia interessante. Staremo a vedere.
— Qui di selvaggina dovrebbe essercene parecchia — disse Gai.
— Senza dubbio — confermò Thalvin.
— So che tu e Ginler ci venivate spesso. Lui non ci sarebbe mai venuto se non
ci fosse stato qualcosa da cacciare. Già, ma... dov'è? Quel bestione che abbiamo
preso laggiù, con quelle grandi orecchie, è stato il solo capo che abbiamo visto,
quest'oggi.
— Che cosa ne sappiamo? — disse Thalvin. — Può darsi che in quest'epoca
dell'anno tutti gli animali grossi si tramutino in pesci e se ne vadano a vivere
nell'oceano. Non sappiamo niente delle creature di questo tempo. Sappiamo
soltanto come ucciderle.
— E non basta? — domandò Gai.
— Può darsi — disse Thalvin. — Ecco. Questo mi sembra un buon posto per
accamparci. Ci fermeremo qui.
Fece abbassare al suolo la flutmobile e aiutò gli altri a scendere. Faceva
freddo, lì, ma non in modo insopportabile. Tutti e tre indossarono rapidamente
le tute termiche. Il ruscello scorreva dolcemente, nell'oscurità. Tra un'ora,
sarebbe stato completamente ghiacciato.
Thalvin andò verso la parte posteriore della flutmobile e scaricò
l'attrezzatura. La prima operazione da compiere era quella di erigere lo
schermo. Questo avrebbe impedito a qualche grosso animale di avventurarsi
entro il campo durante la notte e avrebbe inoltre fornito loro un tepore
sufficiente affinché potessero togliersi le pesanti e ingombranti tute termiche.
Una volta eretto lo schermo, Thalvin piantò la tenda, poi aprì tre barattoli di cibo
concentrato e distribuì le razioni.
Gli altri cacciatori l'avevano avvertito: mai portarsi dietro la famiglia,
dicevano. Eh, già, pensava Thalvin. Ottimo consiglio, niente da dire. Ma quanti
altri avevano una moglie come Gai? Non molti, lui lo sapeva. Una moglie che non
era disposta a sentirsi rispondere di no per nessuna ragione al mondo. Gai si era
messa in mente di accompagnarlo, e non per sé, ma per Jorgan. Thalvin era stato
un semplice ostacolo da abbattere senza difficoltà. Gai aveva delle mire per
Jorgan, e quelle mire comprendevano uno sfoggio di coraggio e di spirito di
iniziativa da parte del giovane. C'era un unico modo, nella società moderna, per
fare sfoggio di simili virtù. Spingersi nel "futuro", andare a caccia, e tornare con
qualcosa di grosso, di esotico e di diverso. Gai era fortunata perché l'altro suo
marito, Thalvin, era un ricercatore e un cacciatore, con un permesso permanente
che gli dava libero accesso al lontano futuro. Dopo di che, tutto era stato facile.
Ormai erano lì, e non restava altro da fare che trovare qualcosa di
convenientemente esotico da fare uccidere a Jorgan e assicurarsi che il giovane
premesse la leva al momento opportuno. Tutto lì. Poi, ecco che sarebbero saliti
di grado, lei e Jorgan, dando la scalata al successo e trascinandosi a rimorchio il
vecchio Thalvin perché era troppo prezioso per essere abbandonato a se stesso.
Gai rivoleva il proprio posto in società. Ginler era morto e lei quel posto l'aveva
perduto. Ma non per molto, non per molto.
Povero Ginler, pensò Thalvin. Lui e io commettiamo gli stessi errori.
Quand'ebbero finito di mangiare, Gai prese Jorgan per mano e lo condusse
nella tenda. Thalvin rimase all'esterno. Guardò dapprima i due che si
appartavano, poi voltò le spalle e si mise a fumare e a contemplare le stelle di
una notte estranea, fiochi punti tremolanti che baluginavano appena attraverso
la densa coltre di nebbia. Non c'era luna, lì, e Thalvin ne sentiva in modo
particolare la mancanza. Da un pezzo era scomparsa. C'erano rimasti un paio di
grossi massi ancora lassù in orbita e molti, moltissimi frammenti più piccoli, ma
in pratica era impossibile vederli a causa della nebbia e, quand'anche, non
sarebbero stati sufficienti per Thalvin. Era la luna, l'astro di cui aveva nostalgia.
La grande luna bianca, calma e sorridente.
Ginler. Thalvin stava pensando a Ginler, ora: al vecchio amico. Erano passati
poco più di sei mesi da quando era morto, proprio lì vicino, a non più di
centocinquanta chilometri da quel punto. Thalvin era con lui, al momento della
disgrazia. Aveva riportato a casa la salma e narrato la storia. Schiacciato da una
specie di scimmione gigantesco, grande come una casa. Morto prima di poter
essere soccorso. Orribile! Eravamo sposati, pensava Thalvin, avevamo in
comune una moglie e una posizione. E ora lui è morto. Mi dispiace che sia morto.
Gai aveva lasciato passare un mese, poi aveva sposato Jorgan. Con il consenso
di Thalvin, beninteso. Ma si era risposata.
Riteneva responsabile lui della fine di Ginler? Thalvin se lo chiedeva spesso. O,
semplicemente, non aveva più tempo da dedicargli. Anche ora, lei e Jorgan erano
là dentro, sotto quella tenda buia, e stavano facendo all'amore. Thalvin vedeva la
scena nitidamente, come se fosse là dentro con loro. Gai, con i capelli neri
cortissimi, ogni ciocca arricciolata per conto suo, la bocca rossa grande e tumida,
il naso lungo, sottile e impertinente. Gli occhi erano grandi, azzurri e
perfidamente espressivi, il seno era piccolo, rotondo e sodo come quello di una
ragazzina. Thalvin la desiderava. Thalvin l'aveva sempre desiderata, ma da
quando era morto Ginler tra loro due non c'era stata più neppure una stretta di
mano. Vedremo in seguito, pensava Thalvin. Chissà, forse in seguito ci sarebbe
stato tempo anche per questo. Ma era troppo saggio per farsi delle illusioni.
Tutto era finito, ormai, restava soltanto un matrimonio di convenienza. Ed era di
convenienza anche per Thalvin, non soltanto per lei. Era Thalvin, quello che non
aveva altro posto al mondo dove rifugiarsi.
Thalvin fissò l'oscurità sempre più fitta e pensò: "È quasi ora".
Gai sbucò dalla tenda, fermandosi sulla soglia e girandosi verso l'interno per
dire qualcosa. Poi, ridendo, avanzò verso Thalvin. Jorgan la segui, a passi svelti.
Erano entrambi vestiti, e Gai era bella. Jorgan appariva grande, bruno, giovane e
attraente. E soddisfatto, pensava Thalvin, e stupido.
I due arrivarono insieme vicino a Thalvin.
— Non vieni sotto la tenda? — domandò Gai. — Devi dormire.
— Aspettavo voi due — rispose Thalvin.
Jorgan rise. Stava per dire qualcosa, poi indicò nell'oscurità. — Quello cos'è?
— Quello cosa? — disse Thalvin. — Quel fuoco laggiù, vuoi dire?
— Fuoco? — disse subito Gai. Si voltò immediatamente a scrutare verso il
fuocherello tremolante che ardeva a una cinquantina di metri dal loro campo. —
Pezzo d'idiota! Ma non avevi detto che saremmo stati soli?
— Ho detto che non ci sarebbero stati altri cacciatori. — Anche Thalvin fissava
il falò. Scosse la testa. — Quello non è un cacciatore.
— Allora, cos'è? Un miraggio? Una scimmia che cerca di scaldarsi?
— Quasi — disse lui, sorridendo. — È un indigeno. Un uomo di questo tempo.
Jorgan aveva ricominciato a ridere. — Ti credevo un esperto, Thalvin, ma
evidentemente c'è qualcosa che non sai. Non ci sono più uomini, qui nel futuro.
Sono emigrati tutti verso altri mondi. Lasciandosi alle spalle questo pianeta
morente.
— Ti sbagli — disse Thalvin — non è affatto cosi. — Sorrideva soddisfatto. —
Quella è la frottola ufficialmente diffusa. L'uomo non è fuggito verso altri mondi.
È rimasto qui a marcire. Qui nel futuro, siamo sopravvissuti in poche migliaia.
Abbiamo assunto l'aspetto di scimmioni e non esiste più traccia di civiltà. Siamo
molto felici e dovremmo estinguerci entro poche migliaia d'anni.
— Stai scherzando — disse Jorgan.
— No, non sta scherzando — assicurò Gai. — Anch'io ho sentito parlare di
questi superstiti. E Ginler li aveva visti. Trovava la cosa divertente. Tanti sforzi
compiuti dall'umanità per progredire, ed ecco che cosa saremmo diventati un
giorno. Si, lui lo trovava divertente.
— Vivono soprattutto nella foresta — disse Thalvin. — Se ne incontrano
raramente. Sono dei solitari. Non ne vedrai mai due insieme.
Jorgan si girò a guardare il fuoco in distanza, poi alzò gli occhi alle stelle.
Thalvin avrebbe voluto rientrare, ma Gai stava assentendo pensosamente,
mormorando tra sé. Poi la donna chiese: — Come sono?
— Sono uomini ricoperti di pelo. Lunghe braccia e mani enormi.
— Non hanno aspetto umano.
— No, ma lo sono. Le scimmie non accendono il fuoco.
— E neppure i morti.
— Che cosa vuoi dire? — chiese Thalvin.
— Voglio dire che ci siamo! Questo è il trofeo che ci serve. Abbatteremo un
uomo del futuro.
— Ma sarebbe un omicidio — protestò Thalvin.
— Non più, una volta che il trofeo sarà appeso a una parete. Si tratta di uno
stupido scimmione, no? Chi vuoi che lo sappia, salvo i pochi uomini che
occupano i posti più alti della catena? E loro troveranno la cosa audace e
divertente. Li conosco. Penseranno che denota molta classe. — Si portò le mani a
imbuto attorno alla bocca e urlò nelle tenebre: — Ehi... uomo del futuro! Sta in
guardia. Scappa, che ti conviene. Siamo decisi a farti la pelle.
— Taci — disse Thalvin, sottovoce.
Gai stava ridendo, ora. Afferrò Jorgan e lo attirò a sé. Si misero a ballare,
accennando un paio di giravolte. Poi si fermarono. Gai disse: — Ora andiamo a
letto, Thalvin. Lo scimmione non se ne andrà prima di domani mattina, vero?
— Penso di no. Ma non te lo permetterò, sai. Non puoi uccidere...
— Oh, al diavolo — disse Gai. Guardò Jorgan. — Hai sentito, di', che cosa dice il
vecchio? Non permette, lui. L'hai sentito? Su, andiamo a dormire. All'alba,
Thalvin.
— All'alba — disse lui.
Aspettò un'ora, prima di seguirli sotto la tenda. Erano sdraiati vicini, entrambi
nudi, la testa di Jorgan appoggiata contro la spalla di Gai. Thalvin li scavalcò e
andò a stendersi il più possibile lontano da loro.
Forse Gai se ne dimenticherà, pensò; ma era sicuro del contrario. Poi si girò su
un fianco e si addormentò.
Non era facile accorgersene, ma era mattino. Il cielo da nero si era fatto rosso
scuro. Il sole era un'opaca sfera purpurea che aderiva al cielo brumoso come un
occhio iniettato di sangue a un nudo cranio in putrefazione. La nebbia era densa
e impenetrabile come una pozza d'acqua sporca e fangosa.
I tre stavano in cerchio attorno ai resti del falò. L'uomo se n'era andato.
— Ora dovrai ritrovarlo — disse Gai.
— Io?
— Sì, Thalvin, proprio tu. Sapevi che se ne sarebbe andato. Lo sapevi e mi hai
mentito. Ma non ti sarà tanto facile, Thalvin. Ora lo ritroverai, e Jorgan lo
ucciderà.
Thalvin guardò Jorgan, il quale sembrava il meno interessato all'argomento.
Siccome Thalvin continuava a fissarlo, Jorgan abbassò gli occhi, poi si girò
bruscamente, allontanandosi. Andò fino alla flutmobile, lasciandoli soli.
— Non vuole farlo — disse Thalvin.
— Non m'importa di quello che vuole. So quello che voglio io. E farete tutti e
due quello che io dico.
— L'uomo se n'è andato — disse Thalvin. — Forse potremmo raggiungerlo,
ma ne dubito, quand'anche partissimo immediatamente. E dobbiamo ancora
smontare il campo. Li ho visti muoversi. Sono più veloci delle lepri. È
indispensabile che lo siano, se vogliono sopravvivere.
— Allora lo inseguiremo fino alla sua tana e lo uccideremo là.
Thalvin scosse la testa.
— Vivono nella foresta. Probabilmente, questo si sarà diretto verso i boschi a
nord di qui. È peggio di una giungla. Non si può viaggiare in flutmobile, là in
mezzo.
— E allora ci andremo a piedi. — Gai gli voltò le spalle e tornò verso
l'accampamento. Thalvin esitò un poco, fissando i resti del falò, i pezzi
carbonizzati di legno marcito. Poi, la seguì. Camminava lentamente, a testa
bassa.
La foresta cominciava bruscamente. L'istante prima, si procedeva sulla
pianura gelata, dura e piatta. Poi, appariva un albero. Poi un altro. Un terzo. E
tutt'a un tratto non c'era nient'altro che alberi, una foresta fittissima e profonda
come un oceano.
Avevano impiegato buona parte della giornata per arrivare ai boschi.
Dell'uomo, nessuna traccia. Se si era diretto da quella parte, doveva averli
preceduti fino a destinazione.
Thalvin parcheggiò la flutmobile e seppellì nel terreno un indicatore di
direzione, per essere sicuro di ritrovare la strada. Poi, andò a raggiungere Gai e
Jorgan, che lo aspettavano sul limitare della foresta.
Si rivolse alla moglie: — Tutto a posto. Siete pronti?
Lei assenti. — Voglio sperare che siano proprio qui.
— Ci sono — assicurò lui. Poi guardò Jorgan. — Hai preso lo schermo?
Jorgan rispose di sì.
Non c'erano altre domande da fare.
— Bene — disse Thalvin. — Andiamo.
Si addentrarono nella foresta.
Avevano percorso al massimo centocinquanta metri quando l'avanzata
divenne quasi impossibile; così Thalvin, rischiando il tutto per tutto, usò la
pistola termica per aprirsi un sentiero attraverso il sottobosco. Le sue previsioni
si rivelarono esatte: il legno era bagnato e freddo e le fiamme non dilagavano.
Prese ad avanzare, posando con precauzione i piedi sull'erba ancora fumante. Gli
altri lo seguirono.
Prima che il sole tramontasse completamente, affondandoli in un'oscurità
improvvisa e totale, avevano coperto all'incirca una decina di chilometri. Thalvin
bruciò un'ampia area e aspettò che il terreno si raffreddasse.
— Ci accamperemo qui — disse.
— Perché? — chiese Gai.
— Perché lo dico io. Perché è buio e qui non ci sono né luna né le stelle.
— Ma potremmo trovare uno degli uomini-scimmia. L'altro l'abbiamo visto di
notte.
— Ma eravamo su terreno aperto. Qui è diverso. Sono sicuro che a quest'ora
dormono della grossa.
— Non sarebbe il caso che uno di noi si arrampicasse su un albero? Potremmo
avvistare qualcuno dei loro fuochi.
— Non accendono fuochi, qui. Non ce n'è motivo. Non ci sono grossi animali
da tenere lontano. Non c'è carne da arrostire.
— Hai sempre la risposta pronta, vero?
— È il mio mestiere — disse Thalvin. — Non per niente sono un esperto del
futuro.
Lei gli sorrise, poi andò a raggiungere Jorgan. I due si sedettero vicini, a
chiacchierare, mentre Thalvin si allontanava per conto suo, per erigere lo
schermo attorno all'area bruciata.
Prima di dirigersi verso il tepore della tenda, Jorgan e Gai si dedicarono ai loro
riti serali: per un quarto d'ora giacquero prostrati sul terreno, poi si misero ritti
sulla testa e restarono così dieci minuti. Gli ultimi cinque minuti li passarono in
una specie di posizione fetale. Thalvin osservava tutto questo con la sensazione
di chi si sente lasciato in disparte. Il rito faceva parte di una nuova e
popolarissima religione chiamata amerismo. Era stato Jorgan a iniziare Gai, e lei
vi si era dedicata anima e corpo.
Mentre Gai e Jorgan andavano a completare le loro devozioni nell'interno buio
della tenda, Thalvin fece un giro per raccogliere una bracciata di rami secchi. Lì
nella foresta l'aria era fredda e umida, lo schermo in sé era insufficiente a fornire
l'isolamento necessario per trovare calore. Thalvin preparò un fuoco di fascine e
pezzi di legno, lo accese con la pistola termica, e si sentì subito meglio.
Jorgan uscì dalla tenda e rimase un istante là immobile, a guardare con aria
assorta verso il folto della foresta. Poi si avvicinò al falò e si sedette accanto a
Thalvin.
— Come sta Gai? — chiese Thalvin.
— Bene — disse Jorgan. — Dorme.
— Ah, benissimo — disse Thalvin, assentendo col capo e sorridendo.
Quell'uomo, quel ragazzo, anzi, con il quale egli divideva una moglie e una casa,
era un enigma per lui. In quattro mesi di matrimonio, avevano scambiato sì e no
una trentina di frasi. Thalvin non provava simpatia per Jorgan, però doveva
ammettere che non lo conosceva affatto.
— Ieri sera — disse Thalvin — quando hai ucciso quell'animale e poi gli hai
tolto la coda... ricordi?
— Sì, certo — disse Jorgan.
— Gai e io ti abbiamo aspettato nella flut, perché tu ti eri fermato vicino alla
preda uccisa. Ti vedevo muovere il corpo e le mani. Faceva parte anche quello
dei tuoi riti ameristi?
— Sì — disse Jorgan.
— Bene... che cosa facevi? Puoi dirmelo?
— Chiedevo perdono — disse Jorgan. — Per avere soppresso una vita.
— Capisco. È... male?
— Sì, molto. Non hai notato? Io non mangio mai carne.
— No — disse Thalvin. —Non ci avevo badato.
— Eppure è così.
— Non ne dubito. Ma... Gai la mangia, la carne.
— Per lei, l'amerismo è un modo come un altro di arrivare in cima alla catena.
Capisci? Un culto esotico, che al momento va molto di moda. Per me è ben altro.
Purtroppo. Se non fosse così, la mia vita sarebbe molto più facile.
— E ora ti prepari a uccidere un uomo — disse Thalvin.
Jorgan lo guardò e si addentò il labbro. Poi girò la testa e si nascose la faccia
tra le mani. Tremava da capo a piedi. Faceva freddo, sì, ma non fino al punto di
tremare.
— È proprio di questo che volevo parlarti — disse Jorgan.
— Vuoi un mio consiglio?
— Sì.
— Allora, guardami.
Jorgan rialzò la testa e si voltò. Guardò Thalvin.
— Non posso darti consiglio in fatto di questioni religiose — disse Thalvin.
— Non è di questo tipo di consiglio che ho bisogno — rispose Jorgan,
mantenendo fermo lo sguardo. — Quello che voglio sapere è... sei sicuro che sia
un uomo? Gai dice di no. Dice che è soltanto un bestione intelligente, che è uno
scimmione del nostro tempo evolutosi in qualcosa di più. Un animale posso
ucciderlo. È perdonabile. Ma un uomo...
— È proprio un uomo — disse Thalvin. — Vorrei poterti dire il contrario ma...
lo è. C'è stata un'evoluzione, rispetto a come siamo tu e io, ma nel senso
sbagliato, e le ragioni di questa involuzione forse non le conosceremo mai.
— Un uomo — ripetè Jorgan, sottovoce. Rimase un poco in silenzio,
guardandosi le mani aperte. Tremava, era scosso da brividi. Poi disse: — Sai, ho
pensato una cosa. Questo tempo, il futuro in cui siamo ora, non è un tempo reale.
Sì, è il futuro, ma in realtà il futuro non esiste. Uccidere qui non è un atto reale.
— Su questo, non posso risponderti — disse Thalvin. — Non sei il primo, del
resto, che solleva questa obiezione. È il modo più facile di risolvere il problema.
Ma ripeto, non so cosa dirti. Questa distorsione temporale è stata scoperta
venticinque anni fa. In questi venticinque anni, il tempo di questa "sacca",
chiamiamola così, non è cambiato. Intendiamoci, il mio è soltanto un parere
personale ma, per me, questo è proprio il futuro. L'unico futuro che ci aspetta.
Penso che stiamo muovendoci verso questo tempo a dispetto di ogni nostro
sforzo. Questo è davvero il futuro, almeno per me.
Jorgan assentì, pensoso. Poi si alzò. — Grazie di quello che m'hai detto. — E si
allontanò.
Thalvin lo seguì con lo sguardo. D'improvviso, si sentiva gelato da capo a
piedi. Aprì le mani e le accostò alla fiamma. Ho fatto male? pensò. Dovevo...?
Ma sapeva che la cosa non aveva nessuna importanza. Di tutti loro, soltanto
Gai contava, e di loro tre, lei era la sola a sapere quello che voleva.
Se il tempo fosse stata una condizione esatta e ferma, se non fosse stato
qualcosa di più di due lancette che giravano su un orologio vecchio di
cinquecentomila anni, sarebbero state esattamente le dieci e trentadue del
mattino quando loro avvistarono l'uomo-scimmia.
Fu Thalvin a scorgerlo. Negli ultimi minuti (dalle dieci e ventotto all'incirca),
aveva sentito gli alberi muoversi e frusciare, sopra la sua testa, in un modo che
non poteva essere effetto del vento. Aveva svoltato bruscamente a sinistra e
guidato gli altri due in là, ad angolo retto. In alto, il suono li aveva seguiti.
Thalvin si era fermato e aveva guardato in su. E ora riusciva a scorgere
qualcosa: una specie di chiazza marrone, contro il verde.
— Lassù, guardate! — gridò.
Gai e Jorgan si fermarono e si voltarono. — Sì, là — disse Gai. — Lo vedo
anch'io.
La macchia bruna si mosse. Improvvisamente, rimase sospesa in aria, tra due
alberi, e Thalvin poté vedere l'uomo chiaramente. Si sentì assalire da un brivido,
sotto lo choc di quella rivelazione. Quello era... che cosa?, il suo pro-pro-pro
(moltiplicato per migliaia di volte) nipote. L'uomo era alto meno di un metro e
cinquanta. Le sue braccia erano come lunghi e magrissimi tralci che penzolavano
fin oltre le ginocchia. La testa era piatta; il naso inesistente o quasi. Il corpo nudo
era ricoperto da capo a piedi di un folto, impenetrabile manto di pelliccia bruna
e sporca. Ecco, era scomparso. Si era spostato sull'albero più in là.
— Colpiscilo! — gridò Gai. — Presto!
L'uomo balzò su un altro albero.
— Svelto. Sta per allontanarsi.
Jorgan non si era mosso. Se ne stava come inchiodato al suolo, con il braccio
destro che ciondolava mollemente, lontano dall'impugnatura della pistola
termica.
Gai gli corse vicino, per urlargli sulla faccia: — Spara... spara... si sta
allontanando.
Jorgan non si mosse. Osservava l'uomo tra gli alberi. L'uomo tra gli alberi
spiccò un altro balzo, i suoi movimenti erano sicuri e aggraziati come quelli di
una danzatrice.
Gai estrasse la pistola termica dalla fondina e la ficcò nella mano di Jorgan.
— Ti prego — disse, gentilmente.
La chiazza bruna non si muoveva più. Aspettava su un albero, a una
cinquantina di metri di distanza, macchia confusa, nascosta nelle profondità
della bruma mattutina. Si sente al sicuro, pensava Thalvin.. Ma un buon tiro...
Gai sollevò il braccio di Jorgan e lo lasciò sospeso nell'aria.
Jorgan socchiuse le palpebre. Trattenne il respiro. Fece fuoco.
Si udì un grido. Un grido di dolore, di sgomento, d'agonia. La macchia bruna
era scomparsa, inghiottita dalla nebbia. L'albero tremava e vibrava. Le foglie
cadevano verso terra, fluttuando e svolazzando nella brezza. La foresta taceva.
— L'hai preso — disse Gai. Fece un salto di gioia e batté le mani. Sorrideva. —
Accidenti, Jorgan. L'hai proprio ucciso!
— Sì — disse Jorgan. Aveva lasciato cadere l'arma. — L'ho ucciso.
— Andiamo a vedere — disse Thalvin.
Si avviarono tutti e tre verso il punto dove l'uomo avrebbe dovuto cadere, ma
là non c' era. C'era soltanto l'albero oscillante nel vento, con la cima che si
perdeva entro il manto di nebbia.
— Sarà rimasto impigliato tra i rami — disse Gai.
— Vado a vedere. — Thalvin ii liberò dell'attrezzatura che aveva sulle spalle e
si afferrò al ramo più basso. Rimase un momento a dondolare, poi si aggrappò al
ramo superiore. Non era più un giovanotto e fisicamente non era molto robusto.
Si muoveva lentamente e con cautela, saggiando ogni ramo prima di affidargli il
suo peso. Trovò l'uomo-scimmia circa nove metri più in su. Nello stomaco, aveva
un buco enorme. Thalvin spinse il cadavere in fuori il più possibile, facendolo
precipitare al suolo.
Poi, si girò per scendere.
Quando arrivò a terra, Gai era sola. Sotto il braccio, reggeva la testa tagliata
dell'uomo. Gli occhi erano stati chiusi. II naso era completamente ammaccato. Il
pelame era intriso di sangue rosso e fresco.
— Il naso è rotto, ma il resto è una bellezza. — Lei ora reggeva la testa dinanzi
a sé, all'altezza della vita. — Non farà un figurone, nel nostro soggiorno?
— Bellissimo — disse Thalvin. — E Jorgan che fine ha fatto?
— È andato a seppellire il corpo — disse Gai. — E a pregarci su.
— Ah. Dove?
— Da quella parte. — Lei indicò.
Thalvin si addentrò nel folto. Pochi minuti dopo era di ritorno. Jorgan era con
lui.
Thalvin li costrinse ad affrettarsi. Nella sua mente, tra il razionale e
l'irrazionale si svolgeva un autentico braccio di ferro. Nessuna delle due parti
riusciva a conquistare la vittoria ed entrambe vennero sconfitte dall'orologio.
Quando il sole calò al di sotto dell'orizzonte, c'era ancora un'ora di cammino da
affrontare, prima di arrivare al termine della foresta. — Dobbiamo accamparci
— disse Thalvin.
— Sì — approvò Gai. — Abbiamo avuto una giornata faticosissima.
— Proprio così — confermò Thalvin.
Preparò il campo per la notte, aprendo col fuoco una radura tra gli alberi e
innalzando lo schermo. Lavorava, ma la sua mente era altrove: riandava al
passato. Thalvin ricordava l'altra volta che era stato lì, l'altro trofeo, quello con
gli occhi azzurri e spalancati. Ripensava al vecchio Ginler, che aveva detto: "Sono
esausto... riposiamoci per la notte". E ricordava il giorno successivo. Thalvin non
voleva ripensare al giorno successivo, così si avvicinò alla moglie e al secondo
marito di lei. Erano seduti accanto al fuoco, che la stessa Gai aveva preparato e
acceso. Thalvin sedette con loro.
Jorgan si girò verso di lui. I suoi occhi erano come due pozze tonde di acciaio
fuso. — Non ce la farò — disse. — Non vedi? Non posso.
— L'hai già fatto — disse Thalvin. Gai teneva il trofeo in grembo. La luce della
fiamma ne lambiva appena i contorni.
— Sì — disse Jorgan — ma non credo che sia morto.
— È morto — scattò Gai. — E adesso smettila. Mi stai facendo venire la
nausea. Vai a dire le tue preghiere. Mettiti ritto sulla testa e restaci per qualche
ora.
— Cos'era quel rumore? — disse Jorgan. Girava la testa, dardeggiando
occhiate da tutte le parti. — Ho sentito qualcosa.
— È il vento — disse Thalvin.
— Oh, no. No, non è stato il vento. Ecco, ora lo sento di nuovo. È la scimmia.
Sta tornando per vendicarsi di me.
— È un uomo — disse Gai — non una scimmia.
— Sta venendo. Ascoltate,
Thalvin ascoltò. Dapprima non sentì niente, salvo il fruscio continuato del
vento. Poi, udì. Oh, sì. Stavano venendo. E così presto!
— Non sento niente — disse Gai.
— Neanch'io — disse Thalvin. — Perché non vai a letto, Jorgan? Forse sei
stanco.
— Ma io lo sento — protestò Jorgan. Poi si alzò. — Lo sentirete anche voi.
Credete a me. Aspettate e sentirete. — E andò a rifugiarsi sotto la tenda.
— Gli passerà — disse Thalvin, quando lui e Gai rimasero soli.
— È la religione. Ci crederesti? Lui queste cose le prende sul serio. — Si girò a
guardarlo e schiuse le labbra. Gli stava sorridendo. — Ho fatto uno sbaglio.
— Ginler è morto.
— Questo lo so — disse lei, sempre sorridendo. — E rimarrà morto, e non
posso creare un altro uomo a sua immagine. No, non posso farlo.
— E io? — chiese Thalvin.
— All'inizio ti ho ritenuto responsabile della sua fine.
— E adesso?
Gai scosse la testa, sorrise di nuovo. — No — disse.
Thalvin tese le braccia, e lei vi si rifugiò. Sorrideva sempre, ed egli accostò il
suo sorriso a quello di lei, poi il sorriso divenne una cosa unica. Il naso di Gai era
lungo e affilato, gli occhi profondi ed espressivi, le gambe lisce e morbide. Gli
apparteneva, per il momento: tutto di lei gli apparteneva, labbra, naso, occhi,
gambe. Era tutto suo.
Poi Thalvin disse : — Ora possiamo andare.
— Perché? — mormorò Gai. — Non aspettiamo il mattino?
Thalvin sentiva gli uomini- scimmia aggirarsi nella foresta, ora, saggiando lo
schermo. Anche loro aspettavano il mattino. E Gai aveva ragione. Loro tre non
potevano muoversi. Non potevano né restare né andarsene. Ma si trattava
soltanto del ragazzo. Una volta risolta quella questione, sarebbero stati liberi di
andarsene. Thalvin posò una mano sulle gambe della moglie e rimase a fissare la
fiamma del falò. Poi, ricominciarono a baciarsi, e intanto il mattino avanzava,
avvicinandosi inesorabilmente.
Thalvin non aveva neppure tentato di dormire. Giaceva sveglio nel nero vuoto
della tenda e ascoltava, pensava, ricordava. Aveva percepito, più che osservato,
l'arrivo del cupo rossore che annunciava l'alba.
Piano, maledicendosi a ogni rumore che faceva, strisciò fuori della tenda.
Il mattino era buio e fioco. Loro aspettavano al di là dello schermo. Li contò.
Erano ventisette, disposti tutt'intorno a intervalli regolari, uno ogni pochi metri
in un cerchio quasi perfetto. Lo schermo era in funzione. L'aria era tiepida. Lui
osservava, gli uomini-scimmia e loro osservavano lui.
Più tardi, Gai e Jorgan uscirono insieme dalla tenda. Li videro e si fermarono.
Jorgan mandò un gemito e si nascose la faccia tra le mani. — Sono qui per me
— disse. Le sue parole arrivavano smorzate attraverso le dita. — Sono venuti
per uccidermi.
Gai ordinò sottovoce: — Taci, Jorgan. — Poi chiese, rivolta a Thalvin: — Che
cosa vogliono? Non puoi cacciarli via?
— Vogliono il trofeo — disse Thalvin. — Daglielo.
— Perché? Perché dovrei darglielo? Che si provino a portarmelo via. A me non
possono fare del male.
— Ne sei sicura? — disse Thalvin.
— Quegli scimmioni! — Gai si voltò e si diresse verso la tenda. — Prendo una
pistola — disse. Thalvin la seguì con lo sguardo, poi tornò a girarsi verso gli
uomini del futuro.
Sembrava che guardassero lui, tutti e ventisette, ma Thalvin rifiutava di
abbassare lo sguardo. Li fissava a sua volta, invece, uno per uno, e alcuni erano
bassi, altri alti, alcuni grassi e altri magri, proprio come persone, come uomini;
ma il pelame che nascondeva i loro volti - ce n'erano di castani e di neri, un paio
erano biondi e c'era perfino un rosso - i nasi piatti e camusi, le fronti ampie,
spioventi, non erano caratteristiche umane. Eppure lo sono, pensava Thalvin.
Cinquecentomila anni d'evoluzione umana erano riusciti a produrre uomini
simili a dèi, solo che quegli dèi avevano un aspetto sub-umano, invece che
sovrumano.
Al di là degli uomini, la foresta era una massa cupa, gli alberi ondeggiavano nel
vento come pilastri sepolti sotto un mare profondo. La nebbia si era raccolta ai
margini dello schermo e aspettava sospesa in dense nuvole scure.
Gai sbucò dalla tenda e andò accanto a Thalvin, impugnando fermamente
un'arma termica. La puntò verso gli uomini al di là dello schermo e spostò
lentamente il braccio in un ampio arco, tenendo sotto tiro il maggior numero
possibile di loro. ,
— Dai la pistola a Jorgan — disse Thalvin. Parlava piano, quasi in un
mormorio. — Lascia fare a lui.
— Perché?
— Dalla a lui!
Gai si avvicinò a Jorgan. Il giovane si era raccolto su se stesso, in una palla
contratta di carne e muscoli. Gai gli allungò un calcio nelle reni. Lui, con uno
scatto, finì bocconi al suolo. Gai gli lasciò cadere la pistola davanti alla faccia.
— Ora abbasseremo lo schermo — disse. — Se qualcuno di loro si muove,
spara. E guai a te se lo manchi.
— Non lo farà — disse Thalvin, avvicinandosi a sua volta. — È completamente
fuori di sé.
— Lo farà. Sta' a vedere.
— E va bene — disse Thalvin. Si avvicinò ai comandi che azionavano lo
schermo e premette rapidamente un tasto. La nebbia invase la radura come un
vento umido. Thalvin abbassò la testa, trattenendo il respiro. Faceva freddo, ora.
Si gelava. Rabbrividì e rialzò la testa.
Gai stava pungolando Jorgan a calci. — Alzati! Muoviti, maledizione!
Jorgan rotolò su se stesso e si mise seduto. Si protese a raccattare la pistola. La
guardò scuotendo la testa. Si girò e fissò la moglie. Lei gli sorrise, poi gli sferrò
un altro calcio. Lui si alzò. Puntò la pistola contro gli uomini.
Gai andò a prendere il trofeo che aveva lasciato accanto alle braci del fuoco
ormai spento. Con quella testa tra le mani, andò a mettersi accanto a Jorgan.
Uno degli uomini si fece avanti. Oltrepassò l'orlo della radura ed entrò
nell'accampamento. Avanzava verso Gai e Jorgan.
Jorgan prese la mira.
Thalvin, con i pugni contratti, aspettava.
L'uomo continuava ad avvicinarsi. A Jorgan tremavano le mani, doveva usarle
tutt'e due per reggere l'arma.
— Su! — gridò Gai. — Spara!
Jorgan fece fuoco. Un albero distante, alle spalle dell'uomo, lasciò piovere uno
sterminio di foglie. Una fiammata guizzò e si spense.
Jorgan urlò. L'uomo continuò ad avanzare. Gai lasciò cadere il trofeo e corse
da Thalvin. Jorgan giaceva appiattito al suolo, sempre urlando. Una parte della
testa gli volò via e lui smise di urlare. Il corpo parve rientrare in se stesso e, di
colpo, si spezzò in due.
L'uomo raccolse la testa e la sollevò. Fissò un momento il corpo straziato di
Jorgan, poi si girò e prese ad allontanarsi. Non degnò di un'occhiata né Thalvin
né Gai. Arrivò fino al bosco e si unì agli altri. Gai e Thalvin rimasero soli con la
morte. In alto, il sole era una sfera rossa nascosta dalla nebbia grigia e spessa.
— L'hanno ucciso — mormorò Gai.
— Sì — disse Thalvin.
— Senza toccarlo. Questo hanno fatto. L'hanno schiacciato. Come... come una
scimmia. Una scimmia gigantesca.
— Improvvisamente, Gai rise. Con voce isterica, urlò: — Schiacciato da uno
scimmione gigantesco.
— Taci — ordinò Thalvin. Andò nella tenda e prese una coperta. Poi, andò a
coprire i resti del giovane.
Gai riprese a parlare. Adesso era calma. — Lo sapevi fin dal primo momento,
vero? Era tutto premeditato. Sei stato tu a suggerire l'idea di un trofeo. Ci hai
portati qui, sapendo quello che facevi. Avevi progettato tutto, vero? Povero,
stupido, orante Jorgan, morto nella polvere. Schiacciato, spezzato in due, con il
cervello spiaccicato per tutta la radura. Come Ginler. Proprio come Ginler.
— Io non ho ucciso Ginler — disse Thalvin. — A lui volevo bene.
Ma sapevi com'era morto. Sapevi che questi uomini del futuro potevano
uccidere un uomo senza toccarlo.
— Lo sapevo — ammise Thalvin. — Vieni. È tempo di andare. Dobbiamo
trasportare la salma fino alla flutmobile.
— Non credi che dirò tutto? Chi può impedirmelo?
— E perché dovresti farlo? Sono tutto quello che ti rimane. — Si era piantato
di fronte a lei, e sorrideva. — Ho imparato da te, Gai, a fare piani, a tramare e a
premeditare. Ho imparato come si lotta per arrivare in cima. Ti volevo e ho
ottenuto anche questo. Fai quello che vuoi, ma non credo che vorrai
denunciarmi. Sono troppo bene addestrato, ormai.
— L'hai fatto per me?
— L'ho fatto per amore — disse lui. Poi si allontanò e cominciò a radunare
l'attrezzatura. Li aspettava una dura marcia da affrontare. Faceva freddo e il sole
si stava muovendo.
Wilson Tucker
RETROINDAGINE CRIMINALE
(Time Exposure, 1971)
Traduzione di Ursula Olmini Soergel
Il sergente Tabbot salì le scale fino all'appartamento della donna, sul terzo
piano. A ogni passo, la pesante macchina fotografica gli sbatteva contro la gamba
minacciando di urtargli il ginocchio ferito. La spostò sulla sinistra. Accidenti a
quella donna, perché non aveva avuto il buonsenso di farsi ammazzare al primo
piano!
Sul pianerottolo del terzo piano gironzolava un poliziotto; ogni tanto dava
un'occhiata pigra alla scala e al corridoio.
— Niente fermapassi? — chiese Tabbot sorpreso. — Sono ancora al lavoro, là
dentro? Qual è l'appartamento?
— Qualcuno s'è dimenticato di mettere il fermapassi, Sergente — rispose
l'altro. — Ma stanno mandandone uno. C'è un mucchio di gente, dentro. Il
magistrato inquirente non ha ancora finito. È il numero trentatré. — Diede
un'occhiata alla grossa macchina fotografica. — È nuda come un verme.
— Vuoi una foto ricordo?
— Signornò, non di quella lì. Voglio dire, per essere nuda è nuda, ma bella non
lo è più!
— I morti ammazzati — osservò Tabbot — di solito perdono ogni bellezza. —
S'incamminò lungo il corridoio fino al numero 33 e trovò la porta socchiusa.
Dall'interno veniva un brusio di voci. Tabbot apri la porta ed entrò
nell'appartamento. Doveva essere piccolo. Due stanza non di più.
La prima persona che vide fu lo specialista di impronte digitali, il quale si dava
da fare con un tavolino di vetro maneggiando la bombola del talco e una
lampada al quarzo portatile. A giudicare dall'espressione seccata, le impronte
non dovevano essere un granché. Un tenente del distretto competente stava
dietro il tavolino seguendo con aria imperturbabile il lavoro dell'esperto. I suoi
occhi sfiorarono Tabbot e la macchina fotografica, poi tornarono subito al
tavolino. Un agente in borghese aspettava, sfaccendato, dietro la porta. Due
uomini con una barella di vimini erano seduti sui braccioli di un'enorme
poltrona. Guardavano qualcosa sul pavimento dietro la poltrona. Un bel po' in là
dalla poltrona un tale calvo e troppo abbondante per l'abito che indossava, si
stava ripulendo i calzoni dalla polvere. Si era appena tirato su dal pavimento e
respirava affannosamente, a bocca aperta, per lo sforzo.
Tabbot conosceva il tenente e il magistrato. Quest'ultimo guardò la grossa
macchina fotografica che Tabbot stava appoggiando a terra dietro la porta e
chiese: — Foto?
— Signorsì.
— Allora ne vorrei un paio di copie. Sono almeno otto o nove anni che non
vedo più una persona uccisa da un'arma da fuoco. Casi rari, al giorno d'oggi. —
Puntò l'indice grasso verso il pavimento. — A quella lì hanno sparato.
Figuriamoci, sparato, oggi, in questa epoca! Fatemene avere qualche foto. Vorrei
proprio vedere il tipo che ha il fegato di girare con una rivoltella.
— Va bene, signore.
Tabbot si rivolse al tenente:
— Vi siete già fatta qualche idea?
— Per il momento c'è poco di chiaro, sergente — rispose il tenente. — È
probabile che la vittima conoscesse il suo assassino. Secondo me gli ha aperto la
porta, e poi si è allontanata da lui. Lui era dove si trova adesso il cadavere. Forse
hanno litigato, ma non c'è stata lotta. Niente di rotto, niente fuori posto, nessuna
impronta. La maniglia della porta d'ingresso è stata ripulita con cura. La donna
era in piedi dietro la poltrona quando le hanno sparato, ed è caduta lì. Riuscirete
a riprendere tutto?
— Penso di sì, signore. Ci proverò da lì, dalla porta dell'altra stanza. Che cosa
c'è di là, la cucina?
— Cucina e doccia. Questa stanza era insieme salotto e camera da letto.
— Comincerò con campi lunghi dalla porta, e poi mi avvicinerò a poco a poco.
C'è niente nella cucina?
— Soltanto piatti sporchi. Niente macchie sul pavimento, ma vorrei che
fotografaste comunque tutto anche di là. Il pavimento è pulito dappertutto
tranne dietro quella poltrona.
— Il sergente Tabbot guardò la finestra dall'altra parte della stanza e poi di
nuovo il tenente.
— Non c'è la scala di sicurezza — disse questi — ma fotografate ugualmente la
finestra. Fotografate tutto quanto. Come al solito, insomma.
Tabbot annui. Tendendo i muscoli dello stomaco con un profondo respiro, si
avvicinò alla grossa poltrona e diede una cauta occhiata a quello che c'era dietro,
nascosto dallo schienale. Gli uomini con la barella voltarono la testa tutti e due
nello stesso istante e lo guardarono visibilmente soddisfatti, quasi per qualche
macabro scherzo fatto a spese sue. Lo stomaco di Tabbot si contrasse
nonostante gli sforzi del sergente per controllarsi.
Era bionda, di un biondo che dava sul rosso, e aveva circa trent'anni. La faccia
priva di trucco era carina ma non di una bellezza sconvolgente. Non portava
gioielli di alcun genere ed era completamente nuda. E non aveva più seno.
Tabbot chiuse per un attimo gli occhi per riprendersi dallo choc, poi si sforzò di
guardare il corpo nudo all'altezza dell'addome, all'attaccatura delle cosce,
semplicemente per non dover vedere quell'orrendo squarcio. Per un secondo
temette di restituire la colazione. Richiuse gli occhi cercando disperatamente di
controllarsi, e quando li riapri lo sguardo gli cadde sulle brutte cicatrici di una
vecchia gravidanza.
Allontanandosi bruscamente dalla poltrona, Tabbot andò a urtare contro il
magistrato. — Le hanno sparato nella schiena! — disse con tono quasi di
rimprovero.
— Eh, sì, per forza. — Il grassone sbuffante gli girò intorno con aria annoiata.
— Il foro d'entrata nella schiena è piccolo, ma dove la pallottola è uscita, è
enorme. Cristo, se è enorme. È saltata l'intera cassa toracica. D'altronde è
normale, con un'arma di grosso calibro. — Fissò i piedi nudi che spuntavano da
dietro la poltrona. — Erano otto o nove anni che non vedevo più una ferita
d'arma da fuoco. Lo immaginate, uno che gira con una rivoltella? — S'interruppe
per riprendere fiato, e poi puntò il solito indice tozzo sui due della barella. —
Pigliatevela e spicciatevi, dobbiamo fare l'autopsia.
Tabbot andò in cucina.
Sul tavolo della cucina trovò un piatto, una tazza, una forchetta e un cucchiaio
sporchi in mezzo a briciole di pane tostato. Una zuccheriera senza coperchio e
un piccolo bricco di latte condensato completavano quel quadro di natura morta.
Cercò sotto il tavolo il coltello e il burro che mancavano.
— Non c'è — disse il tenente dalla porta. — Mangiava il pane tostato senza
burro.
Tabbot si voltò. — Quando ha fatto colazione? Da quanto tempo è morta?
— Non posso dirlo prima di aver sentito il medico legale, ma credo tre, forse
quattro ore fa. Il caffè era già freddo, idem il cadavere, gli avanzi delle uova
erano secchi. Sì, direi da almeno tre ore.
— Questo mi lascia qualche speranza — disse Tabbot. — Se fosse morta da
stanotte o da ieri, tanto varrebbe che riprendessi la mia macchina e me ne
andassi a spasso. — Guardò verso la stanza perché con l'angolo dell'occhio aveva
colto un certo movimento. I due barellieri stavano portando via il loro carico.
Tornò con lo sguardo al tavolo di cucina. — Uova, pane tostato, caffè con latte e
zucchero. Roba poco sostanziosa, mi pare.
Il tenente scosse la testa. — Non m'importa di lei, m'infischio di cosa e quanto
mangiava. Sarà il medico legale a dirci quando ha mangiato quella roba. Voi
pensate alle riprese. Voglio una foto dell'assassino.
Tabbot disse: — Speriamo che ci fosse la luce del giorno e che il delitto sia
stato commesso stamattina. Siete sicuro che questa non è la colazione di ieri?
Non vale la pena che io monti la macchina se quella è stata accoppata ieri
mattina o ieri sera. Il limite di retrospezione è di dieci, al massimo quattordici
ore, e sapete bene che schifo sono le foto di quattordici ore indietro!
— Stamattina — lo rassicurò il tenente. — Ieri mattina è andata a lavorare, ma
stamane no, e quando non ha nemmeno risposto al telefono qualcuno della ditta
è passato a vedere cosa fosse successo.
— Quel qualcuno aveva la chiave?
— No, e quindi è fuori causa. L'ha fatto entrare il custode. Volete fare una foto
della porta per convalidare questa testimonianza? Il custode e l'altro sono
entrati poco dopo le nove, non ricordano l'ora esatta.
— Va bene. In che genere di ditta lavorava e che cosa faceva?
—Giocattoli. Confezionava bambole di Natale.
Il sergente Tabbot ci rifletté un attimo, poi disse: — Viene subito da pensare
alle pistole giocattolo.
Il tenente gli rispose con una smorfia.
— Ci abbiamo già pensato — disse. — I miei uomini hanno setacciato la
fabbrica. Magari ci avessimo trovato roba illegale, armi giocattolo o vere. E
invece niente. Là non hanno più fabbricato niente che somigliasse a un'arma,
dopo la legge Dean. No, il posto è pulito.
— Una bella grana.
— Allora, aspetto le foto, sergente.
Tabbot prese le parole del tenente come un congedo, e tornò nel salotto dove
non trovò più nessuno tranne l'agente in borghese che si sedette sul divano e
osservò il sergente alle prese con la macchina fotografica. Tabbot postò il
treppiedi a circa un metro dalla porta d'ingresso. La macchina era pesante e
poco maneggevole; montandola sul treppiedi tirò un paio di accidenti, anche
perché s'era sbucciato un dito. Infine fu solidamente fissata sul sostegno. Tabbot
prese un caricatore dalla custodia e lo inserì nella parte posteriore della
macchina fotografica. In ultimo avvitò il dispositivo di retrospezione e
l'obiettivo, preoccupandosi di controllare che la lente fosse perfettamente pulita.
Mise l'obiettivo a fuoco sulla porta d'ingresso e tolse di tasca l'esposimetro.
Controllò l'ora esatta, poi regolò il retrospettore in modo da ottenere quattro
scatti, uno alle nove, uno alle nove e cinque, uno alle nove e dieci e l'ultimo alle
nove e un quarto, coprendo così i quindici minuti entro i quali erano
presumibilmente entrati il custode e l'impiegato della ditta. Segnò su un taccuino
l'ora esatta di ogni scatto per poter più tardi identificare le foto con sicurezza.
L'agente in borghese uscì dal suo cupo mutismo. — Non ne ho mai visto una in
funzione — disse, invitante.
— Voglio fotografare quello che è successo fra le nove e le nove e un quarto di
stamattina — spiegò Tabbot con pazienza. — Se mi va bene, becco il custode
mentre apre la porta. Se no, si vedrà solo qualche ombra mossa o niente del
tutto. In quel caso ricomincio dalle nove e vado indietro minuto per minuto
finché non lo trovo. Mi basta vedere la porta che si muove per inchiodare il mio
uomo.
— Ma vengono bene, queste foto? — Il poliziotto sembrava scettico.
— Alle nove del mattino, sì. C'era la luce della finestra, e non è ancora
trascorso troppo tempo da allora. Dovrebbe bastare per ottenere un risultato
decente. Le cose si complicano quando devo fotografare retrospettive notturne
con soltanto una o due luci accese. Troppo buio. Magari tutti i fattacci
capitassero all'aperto, al sole di mezzogiorno e non più di un'ora prima del mio
arrivo.
L'agente grugnì e osservò la macchina che ronzava. — Una volta mi sono
servito di questo tipo di fotografie, in un processo. Una rapina in banca, l'anno
scorso. Erano una schifezza, tanto che il giudice non le ha accettate come prove.
— Me le ricordo — disse Tabbot. — Mi dispiace che siano venute così male.
Erano state fatte al limite del tempo massimo, dopo quattordici ore, anche di più.
Lavoro e pellicola sono sprecati se passano più di dieci, dodici ore. È troppo
tardi. Io uso sempre il materiale migliore, eppure non mi è possibile ottenere
una foto decente dopo dodici ore dal fatto. Lo so, sulle foto della rapina si
vedevano soltanto chiazze granulose. Ma è il massimo che riesco a ottenere
quando sono passate da dodici a quattordici ore.
— E dopo quattordici ore, niente?
— Niente di niente. Ci ho provato, ma è impossibile. — Il ronzio finì e la
macchina si fermò da sola. Tabbot la girò verso il divano. L'agente si alzò.
— Restate pure, non mi date nessun fastidio. L'obiettivo non può riprendervi
adesso.
— Ho da fare — borbottò l'altro. Salutò il tenente con un cenno secco e uscì
dall'appartamento sbattendo la porta.
— Ce l'ha ancora con noi per quelle foto della banca — disse il tenente. Tabbot
annuì, regolò il retrospettore e caricò l'otturatore per un unico scatto. — Gli
manderò una sua fotografia seduto sul divano — disse con un ghigno. — Forse
gli farà passare il malumore.
— O lo imbestialirà del tutto.
Tabbot si diede di nuovo da fare con l'esposimetro e si dedicò alle riprese
delle ore fra le sei e le nove del mattino, puntando di volta in volta la pesante
macchina sul tavolino, sulla porta della cucina, sulla poltrona, sulla finestra alle
sue spalle. Riprese una sedia e uno scaffale di libri, il pavimento, un vaso con
fiori finti su una mensola sopra il termosifone, una lampada a stelo, un'altra che
pendeva dal soffitto. Infine fece una panoramica di tutta la stanza muovendo la
macchina lentamente in un ampio cerchio prima di dirigerla nuovamente
sull'ingresso. Poi ricontrollò i suoi calcoli facendo molta attenzione all'ingresso e
allo spazio accanto alla porta, dove, entrando, s'era fermato anche lui.
La macchina fotografica tornava nel tempo indagando con meccanica
indiscrezione nell'ultima mattina di vita della bionda donna nuda, fissava sulla
pellicola le immagini di tre o quattro ore prima. Mentre descriveva lentamente il
cerchio del salotto, era arrivata al tratto fra la libreria e il vaso di fiori finti, una
spia luminosa segnalò la fine del rullino e il meccanismo si fermò
automaticamente. Tabbot inserì un nuovo caricatore e aggiustò il retrospettore
per riprendere il tempo perduto. Numerò il rullino impressionato e annotò
meticolosamente le distanze e i tempi di ogni scatto. La macchina trascurava il
presente e continuava la sua indagine nel passato.
— Quanto ci vuole ancora? — chiese il temente.
— Un'altra ora per i preliminari e una per la cucina; poi circa due o tre ore per
gli scatti di riscontro se qualcosa è stato fissato sulle pellicole.
— Ho un mucchio di cose da sbrigare. — Grattandosi la nuca il tenente si
chinò a dare un'occhiata nell'obiettivo. — Mi troverete al distretto. Fate qualche
copia in più delle foto più significative.
— Va bene.
Il tenente lasciò perdere l'obiettivo e diede un ultimo sguardo in giro. Uscendo
non sbatté la porta come l'agente in borghese.
Tabbot continuò il rituale proprio del suo mestiere. Spostò indietro la
macchina fino alla soglia della cucina per riprendere il salotto con
un'angolazione più ampia. Da lì fotografò un'altra volta il divano, la poltrona, la
porta d'ingresso. Se fosse riuscito a cogliere quei pochi attimi importanti in cui si
apriva la porta ed entrava l'assassino per sparare con la rivoltella proibita!
Sostituì l'obiettivo con un grandangolare e riprese la stanza intera con una
sequenza di scatti che nello spazio di dieci minuti riepilogavano tre ore di tempo,
annotando i dati di ogni singolo scatto. Poi cambiò nuovamente il rullino per
fotografare la cucina.
Stava girando la macchina sul treppiedi quando gli venne un'illuminazione
fulminea. Andò alla poltrona, le girò intorno stando attento a non mettere i piedi
nel sangue sul pavimento, e si fermò sull'esatta linea ideale fra la porta
d'ingresso e la finestra. Guardò fuori, come doveva aver fatto la vittima voltando
le spalle al suo assassino, e poi si girò lentamente verso la porta; la prima luce
del sole venendo dalla finestra doveva aver illuminato in pieno la faccia
dell'assassino. Una foto scattata da quel punto l'avrebbe fissata sulla pellicola
insieme alla vampata dello sparo.
Tabbot trascinò la macchina fotografica sul treppiedi dietro la poltrona e la
diresse sulla porta d'ingresso. Sostituì di nuovo l'obiettivo e si rimise a fare i suoi
calcoli. Se quella serie di foto fosse riuscita come sperava, si sarebbe visto
l'assassino sparare dritto nella macchina fotografica.
Per la cucina ripetè grosso modo le manovre del salotto, impiegando però
meno tempo. Fotografò il tavolo con le due sedie, i piatti sporchi, le briciole di
pane tostato, il fornello, il frigorifero scrostato, le mensole sopra il lavello e lo
scolapiatti, il lavello da solo, la nicchia camuffata da armadio per le scope, ma
che dietro uno stretto sportello nascondeva il water, finendo la sequenza con la
porta a soffietto della doccia. Notò che la doccia perdeva.
Aprì il frigorifero. Oltre a un po' di roba da mangiare c'era una bottiglia di vino
rosso; ne fece due foto a distanza di un'ora l'una dall'altra. Guardò nell'angusto
sgabuzzino del water e ne scattò due foto a caso, sperando di non trovarsi poi
davanti la bionda seduta sulla tazza. Il vano della doccia era piastrellato di
mattonelle di plastica bianche e sotto il braccio della doccia che perdeva il muro
era sbavato di ruggine. Fece due riprese a titolo di prova, dato che oltre alla
doccia il vano conteneva anche un minuscolo lavabo con uno specchio e
l'interruttore della luce isolato contro l'umido. Registrò distrattamente che non
c'era invece una presa per il rasoio elettrico.
Tabbot applicò il grandangolare per le foto dell'intero ambiente. La cucina era
senza finestra, e mancava anche l'uscita di sicurezza prescritta dal regolamento
antincendio.
E con questo il lavoro preliminare era finito.
Tabbot pescò da una tasca il suo distintivo di servizio, raccolse i rullini
impressionati, e uscì dall'appartamento. Non avevano ancora messo il
fermapassi all'ingresso, e il poliziotto che gironzolava nel corridoio notò la
meraviglia di Tabbot.
— Arriva, sergente, arriva. Scommetto che a quest'ora il tenente ha già dato
una bella lavata di testa a qualcuno. Vedrete che ne manderanno uno alla svelta!
Tabbot si rimise in tasca il distintivo. Il poliziotto domandò: — Allora, le
hanno proprio sparato? Da dietro? E la pallottola è uscita dalla pancia?
— Da dietro, sì — annuì Tabbot a disagio — ma la pallottola è uscita
all'altezza del petto, non dalla pancia. Devono aver usato un'arma di grosso
calibro. La vuoi, la foto? Puoi attaccarla nell'armadietto.
— Diavolo, no! — Il poliziotto diede un'occhiata lungo il corridoio, poi si
rivolse di nuovo al sergente. — Il magistrato ha detto che il lavoro è stato fatto
da professionista; solo quelli hanno abbastanza sangue freddo da girare ancora
armati di rivoltella. Ormai è un grosso rischio.
— Già. Sono anni che non ne becchiamo più una addosso a un dilettante.
L'idea di finire dritto al fresco per il possesso di arma da fuoco fa una gran paura.
— Tabbot passò il pacco dei rullini nell'altra mano per tenerlo lontano dal
ginocchio dolorante mentre scendeva le scale.
La strada era in pieno sole: secondo il sergente Tabbot la condizione in cui
tutti i delitti si sarebbero dovuti svolgere perché le sue foto riuscissero bene.
Fatte con la luce del sole sì che le sue inquadrature avrebbero rivelato qualcosa
di meglio delle macchie granulose, anche dopo quattordici ore.
Il suo furgone era l'unica macchina della polizia parcheggiata nella via. Salì nel
retro chiudendosi lo sportello alle spalle. Nel buio completo accese lo
sviluppatore e vi immise la pellicola del primo rullino, aspettando che l'ultimo
lembo sparisse nell'apposita fessura prima di inserirvi l'inizio della pellicola
successiva. Inserita anche la terza pellicola, il sergente si sedette su uno sgabello
e attese al buio che lo sviluppatore completasse il ciclo e gli restituisse i negativi
già asciutti. Poi accese la stampatrice, e si rimise ad aspettare.
Aveva davanti agli occhi il petto scoppiato della donna, più realistico
nell'oscurità del furgone che non alla luce del giorno. Questa volta il suo stomaco
non si ribellò, probabilmente cominciava a farci l'abitudine, o l'immagine era
ormai diventata un fatto del passato. Tabbot sperava che le foto, quando le
avrebbe viste, non gli risuscitassero l'incubo della scena raccapricciante.
Dunque, secondo il magistrato inquirente, la donna delle bambole di Natale
era stata fatta fuori da un professionista, un sicario per il quale la legge contro le
armi da fuoco era soltanto una delle tante leggi di cui ci si può infischiare. Poteva
darsi. Oppure no. Qualche militare in congedo che rientrava da oltremare
trafugava ogni tanto armi nel paese di provenienza. Tabbot lo sapeva bene, e
aveva anche visto in galera qualcuno di questi scriteriati. Per chi sa quale
ragione gli ex marines provenienti dalla Cina venivano presi in flagrante più
spesso degli altri reduci, il rapporto era di almeno tre o quattro a uno, e
nemmeno le dure pene previste dalla legge Dean sembravano impressionarli.
Saggiamente il Congresso aveva sanzionato che solo agenti di pubblica sicurezza
e militari in servizio effettivo potessero portare armi da fuoco; tutte le armi in
possesso di civili dovevano venire denunciate, consegnate e distrutte.
Neanche Tabbot aveva un'arma: non gli serviva. Ne portava una il poliziotto di
guardia là al terzo piano, e il tenente, e anche quell'agente in borghese; il
magistrato probabilmente no, e nemmeno i barellieri. Con la legge Dean
qualsiasi normale cittadino si prendeva un bel po' di anni di galera se veniva
trovato in possesso di un'arma, ma i marines continuavano a portarle e ogni
tanto qualche civile moriva di pallottola. Come la donna delle bambole di Natale.
Un leggero ronzio annunciò che i negativi erano pronti. Tabbot tolse i tre
nastri di pellicola dall'asciugatore e li inserì nella stampatrice. Questa volta
l'attesa fu più breve. Tre lunghe strisce di provini si srotolavano dalla
stampatrice. Tabbot non perse tempo a ritagliare i fotogrammi a uno a uno; si
drappeggiò due strisce su una spalla, e andò, con la terza in mano, a spalancare
lo sportello del furgone. L'improvvisa luminosità gli ferì gli occhi, e lui dovette
chiuderli un attimo.
— Cristo! Cos'è che non ha funzionato? — disse, in tono rabbioso.
Le immagini erano scure, molto più di quanto si era aspettato. Anche senza
ricontrollare le cifre nel taccuino era sicuro che nelle ore che aveva fotografato
c'era già il sole, eppure le foto erano scure. Cercò sulla facciata della casa la
finestra dell'appartamento della morta, poi guardò di nuovo le foto, incredulo. Il
salotto-camera da letto era al buio.
Osservò le immagini più da vicino, sbattendo le palpebre nel sole accecante:
quattro erano della porta d'ingresso e sulla terza si distinguevano vagamente il
custode e un altro uomo che spalancava la bocca. Erano le nove e dieci. Sulla
quinta foto si vedeva bello in piena luce l'agente in borghese seduto sul divano
mentre parlava con Tabbot. La sesta e quelle successive, tutte scure, mostravano
il divano trasformato in letto, mancava il tavolino, l'ingresso della cucina appena
percettibile, la poltrona (ecco dove era andato a finire il tavolino!), la finestra... la
fissò costernato. Maledizione, avevano chiuso le tende e così la luce del mattino
non era entrata!
Tabbot scorse rapidamente la seconda striscia: scura come la prima. Non era
accesa nessuna delle due lampade, né quella a stelo né quella che pendeva dal
soffitto. Le tende erano state chiuse per tutta la notte e la stanza era quasi
completamente al buio. Si distinguevano a malapena il termosifone, il vaso coi
fiori finti, la libreria, la sedia; il resto erano riprese della porta chiusa. Le foto del
pavimento erano quasi nere. A questo punto lui aveva spostato la macchina
fotografica vicino alla porta della cucina per inquadrare tutta la stanza con il
grandangolare. Una delusione.
Il letto era stato ripiegato a divano, il tavolino era tornato al suo posto, gli altri
mobili non erano stati toccati. Le tende coprivano l'unica finestra e le lampade
erano spente. Socchiuse gli occhi per osservare bene gli ultimi fotogrammi e
trattenne il fiato: una macchia, la sagoma nebulosa di qualcuno, stava dietro il
tavolino rivolto verso la porta chiusa. Tabbot prese la terza striscia.
Su quattro fotogrammi non vide niente all'infuori di una porta chiusa. La
quinta era un'esplosione di luce: qualcuno aveva fatto fuoco diritto sull'obiettivo.
Tabbot saltò dal furgoncino sbattendo lo sportello, e risalì le scale fino al terzo
piano. Il suo ginocchio ferito si vendicò con fitte dolorose.
Sul pianerottolo il poliziotto non c'era più. Davanti alla porta
dell'appartamento era stato messo un fermapassi. Tabbot si avvicinò con cautela
frugando nelle tasche alla ricerca del distintivo. Quando fu a due passi dal robot
sentì dei dolori come se gli si attorcigliassero le budella. Se avesse cercato di
passare rasente il muro, quella macchina dannata gli avrebbe spappolato
l'addome; i testicoli erano la parte più delicata. Quei fermapassi gli sembravano
sempre diretti discendenti degli estintori, ma se fosse finito in un posto di polizia
e messo sotto il torchio, non sarebbe mai riuscito a rendere questa sua idea in
maniera soddisfacente, e chi l'avesse interrogato ci avrebbe visto, semmai, un
simbolo fallico.
Il fermapassi era d'acciaio inossidabile e plastica incolore. Gli arrivava più o
meno all'altezza della vita, e nella parte superiore, che somigliava vagamente a
una testa, aveva una fessura e una specie di oblò luminoso. Emetteva fasci di
raggi disintegranti dosati a una frequenza sufficiente a distruggere i tessuti
animali. Quelle macchine erano utilissime quando si trattava di tenere i
prigionieri dentro e i cittadini troppo curiosi fuori.
Tabbot inserì il suo distintivo nell'apposita fessura, e aspettò che l'oblò si
spegnesse.
Sul pavimento dall'altra parte del divano c'era il telefono, mezzo nascosto da
una pila di libri polverosi. La morta doveva essere stata una divoratrice di
romanzi d'avventura. Compose il numero del distretto e aspettò che il
centralinista gli passasse il tenente.
— Qui Tabbot — disse, in tono impaziente. — Chi ha aperto le tende?
— Che diavolo volete dire? Quali tende?
— Quelle dell'unica finestra della stanza. Chi le ha aperte stamattina? E
quando?
Dall'altra parte ci fu una breve pausa. — Sergente, non vorrete per caso dirmi
che le foto sono inutili?
— Sissignore, praticamente inutili. L'unica riuscita bene è dell'agente in
borghese seduto sul divano... dopo che le tende sono state aperte. — Tacque un
attimo per consultare il taccuino. — Dev'essere la foto programmata per le sei e
tre quarti di stamattina. Il custode ha aperto la porta alle nove e dieci. L'agente
in borghese è riuscito proprio bene.
— Tutto qui?
— Non ho potuto fare di più. C'è anche una foto tutta scura e sbavata di
qualcuno che guarda verso la porta, ma non si capisce se è un uomo o una donna.
— Merda! — disse il tenente.
— Signorsì.
— É' stato il magistrato ad aprire le tende, voleva più luce per esaminare il
cadavere.
— Magari le avesse aperte stanotte, quando la donna non era ancora cadavere.
— Ed è proprio sicuro che le foto non servono?
— Ecco, signore, se le portate al processo e c'è per caso lo stesso giudice
dell'altra volta, vi sbatte fuori.
— Maledizione! Che cosa intendete fare adesso?
— Riprenderò le sei e quarantacinque di stamattina per vedere se riesco a
cavare qualcosa di più dallo sparo. Magari mi riuscisse di cogliere la persona che
è andata alla porta in quell'istante, la donna, penso, per far entrare il suo
assassino. Ma non aspettatevi granché. Temo che sarà tempo perso.
Un altro silenzio, poi: — E va bene, sergente, fate del vostro meglio. E tenetemi
informato.
— Signorsì.
Il tenente riattaccò.
Tabbot montò l'ingombrante macchina dietro il tavolino e inquadrò la porta.
In quel modo, pensò, sarebbe riuscito a riprendere la donna sia mentre andava
ad aprire la porta sia mentre tornava indietro, le spalle voltate all'assassino che
entrava. Tutto al buio completo. Caricò la macchina con una pellicola nuova, si
accecò che l'obiettivo fosse perfettamente pulito, e riprese a fare i calcoli del
tempo. Con un ticchettio la macchina iniziò a fotografare centrando il punto da
dove era partito lo sparo.
Intanto 'Tabbot si avvicinò alla finestra per ispezionare la terza striscia di
provini, quelli della cucina. La maggior parte delle foto erano scure come quelle
della camera.
Diventavano più chiare dal momento in cui si era messo a scattare con il
grandangolare, per le ultime inquadrature. Nella cucina era stata accesa la
lampada sopra il tavolo.
Tabbot osservò la donna nuda seduta al tavolo. Teneva le mani sullo stomaco
come per comprimere un gonfiore. La porticina del gabinetto alle sue spalle era
spalancata. Non c'era niente sul tavolo. Tabbot guardò da vicino la donna e ne
studiò la posizione, poi cercò nelle sue note il tempo della scena fissata dalla
foto: le sei e cinque. La donna delle bambole di Natale era seduta al tavolo
sparecchiato cinque minuti dopo le sei del mattino, la testa voltata a sinistra e le
mani premute sullo stomaco.
Tabbot si chiese se aveva fame, se stesse aspettando che una cameriera
immaginaria le preparasse la colazione per servirgliela. Uova, caffè, pane tostato.
Cercò l'inquadratura del fornello: il gas bruciava a fiamma bassa sotto la
caffettiera. Non una padella per le uova. Probabilmente si era trattato di uova
alla coque, tre minuti di cottura. Le foto erano invece state fatte a intervalli di
cinque o dieci minuti. Guardò di nuovo la donna e le chiese mentalmente scusa,
per il cattivo gusto della battuta: quaranta minuti più tardi la poveretta sarebbe
morta.
L'unico altro elemento interessante della terza serie di foto era una sottile
striscia di luce sotto la tenda della doccia. Tabbot ripassò le prime foto alla
ricerca delle due inquadrature della doccia, ma erano scure e il vano era
evidentemente vuoto. L'aveva ripreso nel momento sbagliato.
La macchina alle sue spalle si fermò con uno scatto richiamando la sua
attenzione. Tabbot trasportò tutto l'armamentario attraverso la stanza e collocò
la macchina nel punto che ritenne più adatto, accanto alla poltrona, l'obiettivo
puntato sulla porta. Ricaricò il retrospettore in modo che rifotografasse le stesse
scene di prima, sebbene non si aspettasse di ottenere altro che una figura
indistinta nell'atto di entrare, sparare e uscire dalla porta, il tutto in un ambiente
buio. La macchina iniziò la ripresa della sequenza che questa volta era tutta
concentrata sul momento dello sparo.
I pensieri di Tabbot tornarono alla donna seduta al tavolo di cucina, con le
mani premute sullo stomaco e la testa voltata a sinistra. Che cosa guardava?
Spinto da un impulso quasi inconscio andò nella cucina e si sedette sulla sedia
della donna, nella stessa posizione di lei, con Io stesso campo visivo davanti. Si
premette le mani sullo stomaco e voltò la testa a sinistra guardando nella stessa
direzione di lei. Vide in pieno la doccia.
Su una delle foto una striscia di luce filtrava da sotto la tenda... no, si corresse,
sotto la porta a soffietto. Anche sulla foto si vedeva che la doccia perdeva.
— Che mi venga un colpo! — esclamò.
Stese le strisce dei provini sul tavolo per avere le mani libere, poi ricontrollò
una per una le annotazioni sul suo taccuino. Una delle foto corrispondeva alla
situazione com'era stata alle sei e cinque del mattino. In quell'ora, mentre la
donna era seduta al tavolo, qualcuno aveva fatto la doccia.
Riprese in mano le ultime foto della seconda pellicola: qualcuno, l'ombra
sbavata di una persona, stava in piedi dietro il tavolino del salotto, voltato verso
la porta chiusa. Questo alle sei e quaranta, cinque minuti prima dello sparo.
La donna era stata lì in piedi aspettando per ben cinque minuti che qualcuno
bussasse alla porta? O l'aveva invece aperta un attimo dopo l'istante fissato dalla
foto, aveva fatto entrare l'uomo, aveva litigato con lui, per morire cinque minuti
più tardi dietro quella poltrona? Cinque minuti sarebbero bastati per un litigio,
un alterco esasperato, una minaccia, lo sparo.
Che ne era stato dell'uomo sotto la doccia? Era rimasto là, a mollo per
quaranta minuti, mentre qualcuno ammazzava la donna? O aveva finito, si era
asciugato, aveva consumato la colazione e se n'era andato via pochi minuti
prima che arrivasse l'assassino?
No, non era possibile. O forse si? Tabbot scattò in piedi rovesciando la sedia. Il
telefono era sempre dietro la pila di libri. L'uomo che rispose dall'altra parte del
filo poteva essere uno dei barellieri.
— Obitorio — disse la voce.
— Parla il sergente Tabbot, gruppo fotografi. Ho qui dei provini della donna
assassinata. Fra le sei e le sei e un quarto di stamattina stava seduta al tavolo di
colazione. Quadra con l'esito dell'autopsia?
L'altro rispose con voce giubilante. — Alla perfezione, sergente. Aveva ancora
il toast in corpo. Capisce cosa voglio dire?
— Capisco — fece Tabbot in tono stanco. — Vi manderò le foto stampate.
— Ehi, un momento, c'è dell'altro. Era incinta da poco, due mesi sì e no.
Tabbot deglutì. Una scena sgradevole cercava di insinuarsi nella sua
immaginazione: il tavolo dell'autopsia, uno o due colpi di bisturi, un inventario
del contenuto dello stomaco... respinse l'immagine e riattaccò.
A voce alta, con sgomento, disse: — Credevo che l'uomo sotto la doccia avesse
fatto colazione, e invece no, invece no. — Il telefono non poteva dargli la
risposta.
La macchina fotografica interruppe la sua esplorazione nel passato. Tabbot la
portò con il treppiedi in cucina e montò tutto dietro la sedia della donna per
riprendere il tavolo, il fornello e la doccia da una posizione nuova, un po' più in
alto della testa della donna seduta. Programmò una sequenza di foto a intervalli
di due minuti partendo dalle sei, un ulteriore tentativo per ottenere un risultato
che portasse avanti l'inchiesta. Allungando un braccio da dietro la macchina
Tabbot pescò le strisce dei provini dal tavolo e uscì dalla cucina per riesaminare
le squallide immagini alla luce della finestra.
La porta d'ingresso, il custode col collega della morta, l'agente in borghese sul
divano in perfetta luce, il divano-letto al buio. Tabbot si fermò a osservare
meglio l'ultima inquadratura. Chi c'era nel letto, una persona o due? Proseguì; la
porta della cucina, la poltrona, il tavolino fuori posto, la finestra con le tende
accostate. Riesaminò foto dopo foto, tutte scure. Chi sa se nel letto c'era una sola
persona o due? E la foto con la persona non bene identificabile che guardava
verso la porta chiusa... quella persona stava davvero andando alla porta ed era
stata ripresa in questo movimento? Era forse l'uomo della doccia?
Lasciò cadere le strisce e corse in cucina. La macchina non aveva ancora
esaurito la sequenza programmata ma Tabbot l'afferrò e la trascinò attraverso la
cucina insieme al treppiedi che striò il pavimento. Diede una spinta al tavolo.
Fermò il retrospettore e con uno strattone aprì la porta a soffietto della doccia.
Puntò l'obiettivo sullo spazio che comprendeva il minuscolo lavabo e lo specchio
sperando che la luce riflessa dalle piastrelle bianche fosse abbastanza forte.
Inserì un rullino nuovo, controllò più volte febbrilmente l'esposimetro, i suoi
appunti... Doveva essere sicurissimo dei tempi. Infine avviò il retrospettore e
mise in moto la macchina. A questo punto non gli restava che aspettare.
Il tenente si era sbagliato. La donna delle bambole di Natale non era andata
alla porta per far entrare il suo assassino. Non era andata affatto alla porta, né
alle sei e quaranta né in qualsiasi altro momento. Era stata colpita a morte dietro
la poltrona mentre stava andando alla finestra per aprire le tende. L'assassino
aveva passato tutta la notte nell'appartamento, aveva dormito con lei sul divano
trasformato in letto fino a poco prima delle sei. Si erano alzati insieme e uno era
andato alla toeletta mentre l'altra aveva rifatto il letto. Lui aveva fatto la doccia e
intanto lei si era seduta al tavolo in cucina. Era stato allora che si era premuta la
pancia con le mani, e poco dopo aveva fatto colazione. Doveva essere scoppiata
una lite. Forse era già cominciata la sera prima e si era riaccesa il mattino, e
quando l'uomo era rientrato dalla doccia nella cucina ormai buia si era vestito
per andarsene senza fare colazione.
II litigio continua nel salotto. La donna va alla finestra per far entrare il primo
sole e l'uomo armato, il professionista della rivoltella, si ferma indeciso fra il
tavolino e la porta. Poi si gira a metà, spara e fugge.
"Il foro nella schiena è piccolo..."
Tabbot pensò che il tenente si era sbagliato di grosso. Entro meno di un'ora le
foto gliene avrebbero fornito la prova.
Per risparmiare tempo portò subito le pellicole giù nel furgone e le immise
nello sviluppatore. Dover dar retta al fermapassi ogni volta che usciva e
rientrava era una scocciatura, perciò non lo riattivò, violando il regolamento.
Mentre smontava dal furgone passò un'autopattuglia della polizia, e l'agente
accanto all'autista lo salutò distrattamente. Il ginocchio di Tabbot si rifece
sentire dolorosamente quando lui risalì per l'ennesima volta fino al terzo piano.
La macchina fotografica aveva finito l'ultima sequenza e si era fermata.
Tabbot si preparò per andarsene. Portò la sua apparecchiatura nel corridoio
da dove fece tre riprese della porta dell'appartamento. Risistemare tutta
l'attrezzatura nella custodia richiedeva più tempo che estrarla, e Tabbot faticò
parecchio a far rientrare le gambe a periscopio del treppiedi e infilare il tutto
nell'apposito reparto della custodia. La legge che tutelava la vita privata dei
cittadini gli vietava di fotografare il corridoio, dal momento che nessun delitto
era stato commesso lì.
Un'ultima occhiata all'appartamento vuoto. Dalla porta poté guardare diritto
nella cucina, e rivide mentalmente la donna seduta al tavolo con le mani
premute sullo stomaco. Tendendo il collo per guardare oltre la porta, vide la
finestra come un rettangolo luminoso di sole. Decise di non richiudere le tende.
Caso mai qualcun altro assassinio venisse commesso là dentro nella stessa
giornata, o l'indomani, la luce del giorno gli avrebbe facilitato l'indagine
fotografica.
Chiuse la porta e spinse il suo distintivo nella fessura del fermapassi per
rimetterlo in funzione. Nonostante non gli rispondesse alcuno stridore di
ingranaggi né il ronzio delle vibrazioni ad alta frequenza, quando si accese la
luce rossa dell'oblò, le sue budella sembrarono attorcigliarsi. Ridiscese le scale
con cautela perché il solito ginocchio gli sconsigliava una maggiore speditezza.
La macchina fotografica gli sbatté contro l'altra gamba.
Tabbot tolse la pellicola dallo sviluppatore, la immise nella stampatrice e
inserì il secondo rullino nello sviluppatore. Chiuse lo sportello del camioncino,
andò alla cabina di guida e cercò la chiavetta nella tasca dei pantaloni. Non c'era,
l'aveva lasciata infilata nel cruscotto: un'altra violazione del regolamento. Salì
dietro il volante e accese il motore. Per fortuna gli agenti della pattuglia non
avevano visto la chiavetta: sarebbe stato incriminato e condannato come un
qualsiasi cittadino. Il furgone-laboratorio s'inserì nel traffico.
Nel parcheggio accanto al distretto, Tabbot attese che la stampatrice finisse le
ultime due pellicole. Aveva fermato il furgone nella sezione riservata ai
visitatori. Non sapendo se qualcuno lo osservava da una delle finestre tolse la
chiavetta dal cruscotto e se la mise in tasca prima di risalire dietro per
completare il lavoro della mattinata.
Il risultato della prima pellicola era un vero insulto alla sua professione: una
foto più nera dell'altra, proprio niente di cui andare fiero. Su due fotogrammi si
vedeva appena la vampata dello sparo, su altri due la solita indistinta figura che
andava alla porta. Bella soddisfazione, con tutto quel nero. Un uomo vestito di
scuro in una stanza buia. La donna nuda sarebbe apparsa tutt'al più come una
sagoma biancastra.
Tabbot scorse le foto della seconda striscia con l'occhio attento del
professionista. Le piastrelle bianche della doccia avevano riflesso la luce come
meglio non avrebbe sperato. Gli sembrò di non aver mai fotografato con uno
sfondo luminoso migliore. Vide il compagno dell'ultima notte della donna
mentre faceva la doccia, si radeva, si lavava i denti e si pettinava. A un certo
punto, forse nel mezzo del litigio, l'uomo si era fatto un taglietto sul collo,
appena sopra il pomo d'Adamo, e la piccola ferita non aveva certamente
migliorato il suo umore.
L'ultima foto, quella fatta nel corridoio davanti all'appartamento, poteva
essere utile pur non essendo riuscita un granché. La solita figura imprecisa stava
abbandonando la scena a testa china, come se si guardasse i piedi. Tabbot pensò
che l'uomo doveva essere il tipo che si vergognava di farsi vedere mentre usciva
dalla casa di una donna. Chissà come ci sarebbe rimasto male quando avrebbe
saputo che la macchina fotografica l'aveva spiato nello specchio sopra il lavabo.
Probabilmente sarebbe andato su tutte le furie per questa indiscrezione.
Tabbot portò le foto con sé nel distretto. Il sergente di servizio dietro il banco
era uno nuovo, ma lo riconobbe dall'uniforme, anche se non lo conosceva di
faccia.
— Che cosa ti serve?
— Devo vedere il tenente — disse Tabbot. — Non mi ricordo come si chiama.
Il sergente di servizio indicò col pollice alle sue spalle. — In sala-agenti.
Tabbot girò dietro il banco e si avviò verso la sala-agenti situata in fondo
all'edificio. Era uno stanzone con diverse scrivanie; dei quattro o cinque uomini
che le occupavano un paio lavoravano, ma gli altri sembravano non aver molto
da fare. Quando Tabbot entrò tutti lo guardarono.
— Da questa parte, sergente. Finito tutto?
— Sissignore.
Tabbot si voltò e s'avvicinò alla scrivania del tenente. Vi stese la prima striscia
di provini, tutti scuri.
— Non ne sembrate troppo soddisfatto, sergente.
— In realtà, no, signore.
Stese la seconda striscia accanto alla prima.
— Sono scure anche queste, tranne le foto in basso. Nella doccia c'era più luce.
Grazie al fondo luminoso, sono le uniche riuscite bene. L'uomo nella doccia siete
voi, tenente.
George Alec Effinger
TUTTE LE ULTIME GUERRE INSIEME
(All the Last Wars at Once, 1971)
Traduzione di Ursula Olmini Soergel
"Interrompiamo il nostro p..."
"... rompiamo il nostro programma per..."
"... terrompiamo il nostro programma per trasmettere un servizio speciale del
telegiornale ricostruito con materiale d'archivio della General Motors
Corporation.
"Buonasera. Sono Bob Dunne del notiziario dell'NBC di New Haven,
Connecticut. Ci troviamo nell'atrio dell'hotel Taft di New Haven, dove è stata
appena dichiarata la prima guerra mondiale razziale. Fra qualche istante i due
protagonisti di questo momento storico usciranno dall'ascensore. (Mi sentite?)
"... scensore. I nostri ascoltatori dei fusi orari occidentali sono probabilmente
già a..."
L'ascensore si aprì. Comparvero due uomini sorridenti che tenevano le mani
incrociate sopra la testa nel tipico gesto di vittoria e autocongratulazione dei
pugili. Furono subito circondati da un folto gruppo di giornalisti. Uno dei due era
altissimo e nero come la notte d'Africa. L'altro era un ciccione tarchiato, dalla
pelle bianca, e visibilmente nervoso. Il nero mostrò un largo sorriso. Sorrise
anche il bianco che si asciugò la faccia sudata con un grande fazzoletto rosso.
"... tiziario dell'NB... L'uomo dalla pelle nera è il rappresentante della gente di
colore di tutte le nazioni. Secondo il foglio ciclostilato che è stato distribuito
poco fa si tratta di Mary McLeod Bethune Washington di Washington nella
Georgia. L'uomo al suo fianco è Robert Randall La Cygne, di La Cygne nel Kansas,
evidentemente il delegato d'ufficio delle razze caucasiche. Non si sa con certezza
quando e da chi i negoziati sono stati indetti.
"A ogni modo i due uomini, fino a ieri ignoti cittadini americani qualsiasi,
hanno concluso un patto non meglio definito che rischia di avere una violenta
ripercussione in tutto il mondo. I termini dell'accordo si prestano per ora alle
più svariate congetture...
"...o a qualsiasi data successiva."
Primo piano di Washington mentre legge da un taccuino.
"Questo punto critico è stato ormai raggiunto e superato. Da tempo entrambe
le fazioni razziali erano perfettamente consce di questo fatto, ma lo hanno
volutamente trascurato per quasi un'intera generazione. D'ora in poi, questa
situazione sarà forse più cruenta, ma almeno i fronti saranno chiari. Bob e io vi
auguriamo buona fortuna e che Dio protegga tutti."
"Signor Washington?
"Ciò significa necessariamente..."
"...dell'Associated Press. Signor Washington..."
"Sì? Voi, col cappello."
"Grazie. Vincent Reynolds, UPI. Signor Washington, intendete dire che questo
accordo dev'essere considerato valido a tutti gli effetti? Sapete bene che non
abbiamo visto alcun genere di credenziali..."
Washington fece un largo sorriso. "Grazie. Mi fa piacere che abbiate fatto
questa domanda. Credenziali? Aspettate qualche minuto ancora e sentirete cosa
succederà fuori di qui. Nessuno ci fermerà più, una volta che i fucili avranno
cominciato a sparare!"
"Signor Washington?"
"Sì?"
"Si tratterà di una totale permanente divisione dei popoli?"
"Totale, sì. Permanente, no. Bob e io abbiamo stabilito una serie di
regolamenti limitativi. Ogni parte è libera di eliminare quanti avversari riesce a
colpire in un periodo di trenta giorni da oggi. Alla fine di questo termine
vedremo che cosa e chi sarà ancora in piedi."
"E potete dare la garanzia che le ostilità non continueranno dopo i trenta
giorni?"
"Altro che! Siamo persone serie, non le pare? Di noi certo che vi potete fidare,
ci mancherebbe altro!"
"Si tratterebbe quindi di una guerra di sterminio razziale?"
"Nient'affatto." Bob La Cygne che non aveva ancora aperto bocca intervenne
da dietro la larga schiena di Washington. "Non mi pare il caso di chiamarla
guerra di sterminio. Sterminare è una parola così brutta! Preferiamo parlare di
eliminazione, non è vero, Mary Beth?"
"Già, proprio così, Bob."
Washington si dedicò per qualche secondo al suo taccuino ignorando i cronisti
vocianti intorno a lui - le guardie in uniforme non tentavano nemmeno di tenere
a bada la folla che spingeva e si calpestava con crescente accanimento - poi
sorrise a pieni denti e si rivolse a La Cygne. I due uomini si strinsero la mano e
fecero un cenno di commiato in direzione degli obiettivi. "Basta con le domande,
ragazzi. Vi renderete presto conto della situazione, per oggi basta così." E i due si
girarono per scomparire nell'ascensore che li aspettava.
(Tac tactac tactac tac tac) "E ora il notiziario delle ore diciotto (tactac tactac
tac tac tactac) commentato (tactac tac) da Gil Monahan."
(Tactac tactac tac tac tactac)
"Buonasera. L'unico avvenimento degno di rilievo è la recentissima
dichiarazione ufficiale della guerra fra gli appartenenti a tutte le razze non
caucasiche e i bianchi di tutto il mondo. Pochi minuti dopo l'apertura ufficiale
delle ostilità i combattimenti sono iniziati in quasi tutte le zone con popolazioni
plurirazziali e negli Stati Uniti e altrove. In questo momento la terra intera è in
subbuglio; dappertutto scontri sanguinosi si avvicendano a momenti di calma
relativa durante i quali le uniche azioni di violenza sono i saccheggi e gli atti di
vandalismo.
"Questi sono i fatti: per trenta giorni tutte le convenzioni ragionevoli non
avranno più valore. L'esercito e la Guardia Nazionale stessi sono paralizzati da
conflitti interni. La legge marziale è stata proclamata da quasi tutti i governi
senza tuttavia essere stata messa in atto, a quanto ci consta, da nessuna parte.
"Pare che qualsiasi forma di collaborazione fra appartenenti ai due blocchi sia
venuta meno a tutti i livelli. Perfino coloro che solidarizzavano di più con le
rivendicazioni dell'altra parte, ora pensano soltanto ai fatti loro, per usare le
parole di Mary McLeod Bethune Washington. Organizzazioni, gruppi sociali,
perfino matrimoni interrazziali si infrangono sulla barriera del colore.
"Ci giungono proprio in questo momento informazioni che potranno
interessare i nostri telespettatori in quanto si riferiscono alla situazione attuale
in alcuni Stati confinanti. Lo stato d'emergenza è stato dichiarato dai seguenti
centri del New Jersey: Absecon, Adelphia, Allentale, Allenhurst, Allentown,
Allenwood, Alloway, Alpha... Per abbreviare dirò che secondo questo elenco, di
circa otto-novecento città mancano per l'esattezza soltanto Convent Station e
Peapack. Potrete benissimo immaginarvi, cari telespettatori, che le cose
precipitano dovunque; ciò vale anche per le aree di New York, Pennsylvania e
Connecticut.
"Ecco una documentazione filmata realizzata a Newark circa dieci minuti dopo
la dichiarazione di New Haven. La situazione è drammatica. Gli esperti
dell'opinione pubblica non nascondono la loro meraviglia per l'immediatezza e
l'intensità con cui i tumulti sono scoppiati e si sono polarizzati. Ma vediamo ora
il filmato.
"Sembra che ci sia qualche diffi...
"Non capisco che cosa... assistiamo da vicino a scontri... rifiutiamo di
cre...rificante. Corrono all'impazzata sparando e... le fiamme e il fumo si... il cielo
oscurato dalle nubi nere che s'innalzano fra gli edifici come funghi di..."
Era un proclama ciclostilato su carta rosa. Aggrottando la fronte, Stevie se lo
ficcò in tasca. "Proclama", eh? Da parecchi giorni non aveva più sentito una
notizia di cui fidarsi. Nessuno diceva più niente a cui si potesse dare retta. Sin dal
primo giorno uscivano quei proclami con la solita accozzaglia di attacchi e
rivendicazioni, ma presto tutti avevano capito che non si sarebbe trattato di quel
genere di guerra. Ormai tutti si infischiavano di quello che capitava agli altri. Il
terzo giorno, le poche accuse pesanti venivano respinte con un "dalle
informazioni pervenuteci non risulta affatto che simili incidenti siano realmente
accaduti", se non con un laconico "spiacenti, cocchi!", e infine nessuno ci faceva
più nemmeno caso. Adesso i proclami erano ridotti a minacce o avvertimenti
puramente retorici.
Stevie si spostava a piedi, una cosa rischiosa ma non più che starsene a casa
aspettando l'arrivo delle torce accecanti. Dal momento che prima o poi qualcuno
gli avrebbe comunque sparato, come bersaglio mobile le sue possibilità di
cavarsela sarebbero state maggiori. Aveva con sé una rivoltella e una carabina
recuperate da Abercrombie & Fitch. Il sole già caldo a quell'ora del mattino
faceva luccicare le lampo e le borchie della sua tuta di pelle nera. Si fermò
sull'orlo del viale. Ghignava sotto i baffi mentre aspettava un passaggio. Ogni
macchina che fosse uscita dalla curva sarebbe stata una sfida che lui era più che
disposto ad accogliere. Ultimamente il traffico si era sfoltito parecchio, con
rammarico di Stevie. Aveva un gran voglia di divertirsi questa volta.
La macchina che si avvicinava era una Imperial nera ultimo tipo, con i fari
accesi. Stevie si appostò, pronto ad appiattirsi nel fosso lungo la strada. Fissò il
parabrezza mentre la macchina si avvicinava, e respirò di sollievo: era una
ragazza bianca. Aveva l'aria di aver recuperato la macchina; magari cercava
qualcuno con cui fare coppia. Probabilmente era una battona, ma sarebbe stato
pur sempre meglio che andare a piedi.
La Imperial lo superò, rallentò e si fermo sul ciglio della strada. La ragazza al
volante si sporse verso il finestrino di destra e abbassò il vetro. — Muoviti,
scemo — gli gridò. — Non mi va di stare ferma qui.
Stevie corse alla macchina e spalancò la portiera per infilarsi sul sedile
accanto alla ragazza, ma lei gliela richiuse con un colpo davanti al naso.
— Che diavolo...
— Chiudi il becco — lo investì la ragazza mettendogli sotto il naso uno dei
famosi volantini rosa. — Leggi qui. E fai alla svelta.
Prese il proclama. La gola gli si seccò e sentì un ronzio nella testa. In cima al
foglio c'era il ben noto pugno stilizzato del movimento femminista. Con la solita
retorica incendiaria il volantino spiegava che il comitato direttivo aveva deciso
la lotta aperta per la libertà. In quel periodo di generale disorientamento le
donne di tutto il mondo avrebbero colto il momento per sconfiggere una volta
per sempre i porci maschi retrogradi e prevaricatori; anche loro come le
minoranze razziali, così diceva, avrebbero imbracciato le armi. Però il fronte
popolare per la liberazione della donna non faceva distinzione fra il colore della
pelle. A chi credevano di darla a bere, pensò Stevie.
— Ti beccherai una pallottola da qualche puttana nera, lo sai? — disse, e
guardò la ragazza. Lei gli puntava una rivoltella dritto al petto. Nella testa di
Stevie il ronzio divenne assordante.
— Vuoi rimettere quel foglio sopra gli altri? — disse lei. — Non ne abbiamo da
sprecare.
— Senti — disse Stevie facendo un passo verso l'auto. La ragazza sollevò la
rivoltella. Non aveva l'aria di scherzare. Stevie si buttò a terra e si rannicchiò
dietro la ruota anteriore destra. La ragazza perse il sangue freddo, e aprì la
portiera per sparargli: non doveva lasciarselo scappare. Stevie sparò due colpi
prima ancora che lei lo vedesse, e la ragazza cadde bocconi sulla striscia erbosa.
Lui non perse tempo per accertarsi se era morta o soltanto ferita; raccolse la
rivoltella della donna, e salì in macchina.
"Cari concittadini." Il presidente aveva la voce tesa e affaticata ma riusciva
ancora a esibire il ben noto sorriso privo di significato. Dopo quasi due
settimane la faccia del capo dello Stato fu la prima immagine a interrompere la
nevicata di coriandoli colorati che la televisione trasmetteva ormai al posto dei
programmi regolari.
"Siamo riuniti qui stasera per discutere dell'incresciosa situazione in cui si
trova il nostro paese. Qui con me" il presidente indicò un anziano signore negro
ben vestito seduto a una scrivania alla sua destra "è il reverendo dottor
Roosevelt Wilson che vi parlerà col cuore in mano. Molti di voi conoscono il
reverendo Wilson come un galantuomo, un esemplare capo spirituale e una voce
amica in questi giorni di diffidenza e perplessità."
In tutto il paese uomini mimetizzati da maglioni scuri a collo alto correvano,
saltellando fra le linee di fuoco, con un televisore recuperato sotto il braccio;
nessuno voleva perdere quella trasmissione speciale. Da una parte all'altra della
nazione uomini e donne di tutte le fedi e convinzioni politiche guardavano
Wilson e mormoravano: "Toh, guarda il vecchio zio Tom"
Il reverendo Wilson prese la parola. Parlò con aria decisa, ma l'emozione gli
impastava la voce. "Dobbiamo ubbidire ai nostri capi. Non possiamo arrogarci
l'amministrazione della giustizia. Dobbiamo ascoltare gli inviti alla ragione e alla
calma per trovare l'unica soluzione giusta che, ne sono certo, tutti noi
desideriamo."
La trasmissione televisiva era un fatto di notevole rilievo. Se andava in onda lo
si doveva alla collaborazione di molti, peraltro alquanto scontenti perché
avrebbero preferito andare in giro a recuperare attrezzi da giardinaggio, ma il
messaggio di quei due autorevoli personaggi carismatici aveva naturalmente la
precedenza.
"Grazie, dottor Wilson" disse il presidente. Sorrise alle telecamere e andò a
mettersi davanti a una grande mappa che era stata srotolata alla sua destra.
Prese una bacchetta.
"Questo" riprese, "è il nostro paese assediato. Ogni puntino verde indica una
località dove la violenza che ci affligge è sfuggita a qualsiasi controllo." La mappa
era praticamente un'unica grande macchia verde; mai più, dal primo Seicento,
l'America era stata così verde.."Ho chiesto l'intervento delle forze armate
canadesi, messicane e britanniche, ma la mia richiesta inviata quasi due
settimane fa non ha ancora avuto risposta. Da questo fatto sono portato a
desumere che purtroppo dovremo cavarcela da soli.
"Quindi farò ora una dichiarazione riguardante la politica ufficiale del
governo. Come sapete, all'attuale stato di cose sarà posto fine fra quindici giorni
circa. Da quel momento il governo attuerà misure drastiche contro chiunque
continuasse ad arrogarsi diritti e compiti spettanti alle sole autorità federali. La
mia non è una minaccia vana ma..."
Un giovane negro passò fulmineo davanti alle telecamere iridando slogan. Il
reverendo Wilson vide la rivoltella nella mano del ragazzo e restò lì con una
smorfia mista di orrore e invidia. "L'America sì che fa le cose sul serio!" urlò
prima di ricadere sulla sedia, mentre il militante nero premeva il grilletto. Il
presidente si strinse una mano sul petto gridando: "Non dobbiamo... perdere...",
poi stramazzò al suolo.
Le telecamere ripresero a casaccio la confusione di gente che correva a destra
e a sinistra. Da non si sa dove comparve un bianco, forse uno dei tecnici, anche
lui con una rivoltella. Corse alla scrivania del dottor Wilson, e all'urlo di "viva
l'anarchia!" sparò a bruciapelo sul reverendo. Quando l'assassino bianco si voltò
l'assassino nero, premette il grilletto e i due combattenti si impegnarono in un
circospetto ma chiassoso scambio di pallottole in mezzo allo studio. A questo
punto la maggior parte degli spettatori spense il televisore offesa da tanta
mancanza di buon gusto.
La targa diceva: SECONDA BANCA NAZIONALE DEL NOSTRO SIGNORE
INGEGNERE. CHIESA UNIVERSALE DI DIO O DI QUALUNQUE INCARNAZIONE
COSMICA DEL BENE.
Sopra l'ingresso della chiesa sventolava una bandiera chiaramente
confezionata in fretta e furia, col simbolo della virilità dipinto rozzamente su
fondo bianco. La bandiera bianca significava che i fedeli erano maschi bianchi e
che neri e donne erano "ammessi" a loro rischio e pericolo. La popolazione era
ormai divisa in quattro parti, ciascuna in guerra con le altre. I vari fronti
cominciavano a rendersi conto dell'opportunità di organizzare i propri militanti
in piccoli quadri. Strade e case erano ormai trappole mortali.
Nella chiesa gli uomini pregavano in silenzio. La funzione era tenuta da un
anziano diacono inesperto e confuso quanto qualsiasi altro membro della
congregazione.
— Dio misericordioso — pregò il diacono — in qualunque forma i membri del
nostro gregge Ti immaginino, entità corporea o Spirito puro, noi Ti imploriamo
di guidarci in questi tempi di tremendo pericolo. Il fratello impugna la spada
contro il fratello, contro la sorella. Marito e moglie vengono separati contro la
Tua santissima volontà. Proteggici e indicaci come ci dobbiamo comportare. Può
darsi che la vendetta sia soltanto Tua; ma allora parlaci della Limitata Ritorsione
Cautelativa e di altre alternative. Dacci un segno, o Signore, perché noi ci
dibattiamo nelle difficoltà della sopravvivenza quotidiana.
II diacono non aveva ancora finito che si sentì un gran picchiare contro la
porta. Il sacerdote tacque per un momento guardandosi attorno con aria nervosa
e tastando il coltello infilato nella cintola. Quando vide che non succedeva niente
di particolare concluse la preghiera alla quale i fedeli risposero con il loro amen.
Al termine del servizio gli uomini si alzarono per uscire dal tempio. Si
trattennero sulla soglia. Nessuno dimostrava molta fretta di abbandonare il
sicuro rifugio della chiesa. Infine il diacono li condusse fuori. Tutti videro subito
il foglio giallo inchiodato sull'esterno del portale. I cattolici romani della zona
avevano deciso di porre fine allo scisma secolare. Perché non farlo ora, dato che
tutti stavano sistemando le loro faide? Sarebbe stata la Soluzione Finale.
Una pallottola si conficcò nello stipite del portale facendo schizzare via
schegge di legno. Gli uomini sulla soglia balzarono indietro. Dalla strada una
voce urlò: — Dannati comunisti senzadio di protestanti della malora! Vi
cancelleremo dalla faccia della terra e manderemo la vostre anime di eretici
dritto all'inferno! — Si udirono altri spari. Le vetrate colorate della chiesa
andarono in frantumi, e qualcuno, all'interno, gridò: — Hanno preso un
presbitero!
— Vigliacchi cattolici! Dovevamo farli fuori al momento buono. Maledizione,
ormai siamo in trappola, qua dentro!
L'indomani la comunità ebraica fece circolare un proclama blu col quale
annunciava che gli israeliti erano stanchi di farsi sputare in faccia e che tutti gli
altri stessero in guardia. In tutto il mondo i gruppi superstiti si spaccarono
ancora, questa volta in base alle varie fedi religiose.
Stevie stava tornando verso la città quando la macchina rese lo spirito. Fece
un paio di singhiozzi di preavviso, fremette, il motore calò di giri e poi si fermò
del tutto. Poteva darsi che fosse semplicemente finita la benzina. Rimanevano
ancora otto giorni dei trenta stabiliti, e lui aveva bisogno di un passaggio.
Prese dall'Imperial il fucile e le due rivoltelle e si mise sull'orlo della strada.
Adesso fare l'autostop era molto più pericoloso che all'inizio, per la semplice
ragione che chiunque passasse poteva essere dall'altra parte di una delle tante
carriere ideologiche. Comunque Stevie fidava di trovare un passaggio senza
pericolo, o di essere almeno in grado di avere a meglio sul proprietario della
macchina.
Nonostante il traffico scarso, passarono diversi automobilisti nemici che gli
spararono la dietro il volante, e ogni volta Stevie dovette mettersi rapidamente
al riparo.
Alla fine una vecchia Chevrolet frenò: la guidava un bianco bolso che secondo
Stevie doveva avere cinquantacinque-sessant'anni.
— Avanti, sali — gli disse l'uomo.
Stevie salì borbottando un grazie, e si appoggiò allo schienale restando però
sul chi vive.
— Da che parte vai? — chiese l'automobilista.
— A New York.
— Hm. Sei... eh... sei cristiano?
— Senti — disse Stevie — cerchiamo di non crearci grane, d'accordo?
Andiamo avanti finché arriviamo dove vogliamo arrivare. Mancano solo otto
giorni, dico bene? Quindi lasciamo perdere le domande e fra otto giorni ne
saremo contenti tutti e due.
— Va bene. Probabilmente hai ragione, però non è questo lo scopo. Cioè, non
mi sembra che cosi ci si attenga allo spirito dell'accordo.
— Vorrà dire che lo spirito sta perdendo la sua carica.
Viaggiarono in silenzio. Ogni tanto, si davano il cambio alla guida. Stevie
s'accorse che il vecchio continuava a fissare la carabina e le rivoltelle. Con la
coda dell'occhio Stevie perlustrò l'abitacolo alla meglio. Il vecchio gli pareva
disarmato.
— Hai visto per caso qualche nuovo proclama, ultimamente? — chiese il
vecchio, rompendo il silenzio.
— No. Sono parecchi giorni che non ne vedo. Tutta questa storia mi ha rotto
l'anima. Perché? Adesso a chi tocca?
Il vecchio gli diede una rapida occhiata, poi tornò a osservare la strada. — A
nessuno. Dicevo così per dire.
Adesso fu Stevie a guardare il suo compagno, scrutandolo insospettito.
Dopo un altro po' l'uomo gli chiese qualche proiettile.
— Non credevo che avessi un'arma — disse Stevie.
— Ce l'ho sì. Tengo una 38 nel cassettino. Non si sa mai.
— Una 38? Le mie cartucce non andrebbero comunque bene per una 38.
Eppoi non mi va di darle via.
L'uomo lo guardò di nuovo. Si leccò le labbra come se fosse in dubbio sul da
fare. Tolse per un attimo gli occhi dalla strada, e si buttò improvvisamente in
avanti per afferrare una delle rivoltelle cariche di Stevie. Stevie lo colpì sul collo
col taglio della mano. L'uomo emise un gorgoglio soffocato e si accasciò sul
sedile.
Stevie spense il motore e accostò la macchina al margine della strada. Aprì la
portiera e spinse fuori il corpo inerte dell'uomo.
Prima di rimettere in moto la macchina aprì il cassetto del cruscotto. Trovò
una rivoltella scarica e un proclama spiegazzato. Gettò l'arma accanto al corpo
del vecchio, poi spianò alla meglio il foglio. I giovani di tutto il mondo, lesse,
avevano dichiarato la guerra a chiunque avesse più di trent'anni.
— Come andiamo con quel proclama?
L'uomo con la camicia da lavoro verde smise di battere a macchina e alzò la
testa. — Non so. E chi riesce a leggere i tuoi scarabocchi? Penso che mi ci vorrà
ancora un quarto d'ora circa. Perché, cominciano a scaldarsi, là fuori?
L'uomo con la giubba mandò giù una sorsata di caffè tiepido. — Già. Volevo
fare una dichiarazione, ma non importa. Che aspettino pure. Hanno votato,
sanno cosa succederà. Tu pensa a finire quel proclama. Voglio farlo circolare
prima che ci battano quei maledetti Artisti.
— Ma va, Larry, suonati come sono quelli non ci pensano nemmeno. Sta'
tranquillo.
L'uomo in maniche di camicia riprese a scrivere senza dire più niente. Larry
prese a camminare su e giù per la fredda sala di riunioni e rimise a posto con una
spinta due o tre sedie. Masticava nervosamente un sigaro. Quando la matrice fu
pronta quello in camicia la strappò dalla macchina e la diede a Larry. — Ecco —
disse — è pronto. Forse è meglio che tu glielo legga prima. Sono ore che
aspettano là fuori.
— Già, sarà meglio — disse Larry. Chiuse la lampo del giubbotto verde e attese
che l'altro si mettesse il suo. Spense le luci e aprì la porta che dava sull'atrio
stipato di uomini tutti bianchi e di mezza età. Applaudirono vedendo Larry e
l'altro. Larry li zittì alzando le mani.
— State bene a sentire — cominciò. — Il nostro proclama è pronto, ma prima
di metterlo in circolazione voglio leggervelo. Dice esattamente quello che
abbiamo stabilito con il voto, quindi non ci dovrebbero più essere obiezioni.
Lesse il testo del foglio interrompendosi qua e là nell'attesa che finissero gli
applausi e le urla di approvazione degli uomini. Osservò la folla; erano tutti tipi
robusti di veterani. "Ecco cosa siamo" pensò. "Siamo veterani. Ne abbiamo
passate di tutti i colori, non ci fotte più nessuno. Siamo i Produttori."
Con termini semplici, diversi dalle fanatiche diatribe degli altri gruppi, il
proclama spiegava che i lavoratori - i Produttori - di tutto il mondo avevano le
tasche piene di fare tutto Il lavoro loro mentre gran parte della popolazione,
precisamente quegli artisti stramaledetti, non facevano che godersi i frutti del
sudore altrui. Gli Artisti erano inutili e in più sprecavano buona parte delle
preziose risorse del popolo lavoratore. Era più che evidente che il cibo,
l'abbigliamento, le case, il denaro, le istituzioni ricreative sottratti all'uso della
classe produttrice erano praticamente buttati nella spazzatura. La classe
produttrice lavorava sempre di più per ricavarne sempre di meno. Cosa ci si
poteva quindi aspettare da una situazione simile se non un continuo
peggioramento per tutti?
Gli uomini erano in estasi. Era ora di sbarazzarsi una volta per sempre dei
parassiti. A nessuno dispiace che si schiaccino le sanguisughe. A chi mai sarebbe
dispiaciuto che si eliminassero gli elementi che succhiavano il sangue alla
società fondata sul principio della produttività?
Larry aveva finito la lettura del proclama, e chiese se c'erano domande o
commenti. Cominciarono a parlare in molti, disordinatamente, ma Larry li
ignorò e riprese la parola.
— Però questo non significa che dobbiamo colpire chiunque non lavori a
orario regolare come noi — disse. — Di molte persone è difficile dire se sono
produttori pari a noialtri o pidocchi intossicati della vita artistica. Come per
esempio la gente della tivù. Ci servono. Ma attenti, c'è in giro un sacco di Artisti
che ci vogliono dare da bere di essere Produttori. Ricordatevi dunque: se ci
serve, non è arte.
La folla applaudì di nuovo e poi pian piano si sciolse. Alcuni si fermarono per
discutere. Mentre s'incamminava lentamente verso il parcheggio, un gruppetto
si mise a discutere con fervore a proposito della linea di demarcazione fra Artisti
e Produttori.
— Insomma, dov'è che ci dobbiamo fermare? — insisté uno del gruppo. — A
me quel modo di dividere la gente non va proprio. Fra non molto non ci saranno
più gruppi ai quali appartenere, finiremo per chiuderci ognuno in casa propria
perché non sappiamo più di chi fidarci.
— Non ce ne viene niente di buono — disse un altro. — Se esci a prenderti
quello che vuoi, voglio dire a recuperare roba da un negozio o che so io, quando
te la porti a casa tutti vedono che ce l'hai e allora sei tu a diventare il bersaglio.
Per conto mio ho meno adesso di quando questa storia è cominciata.
Il terzo del gruppetto guardò gli altri due con aria torva. Estrasse il proclama
dalla tasca della giubba. — Questi sono discorsi da comunisti — disse. — Non
avete capito un accidente. Dite un po', siete normali o mancini?
Quello che aveva parlato per primo distolse gli occhi dal proclama, stupito. —
Non vedo che cosa c'entri questo. Comunque, sono di natura mancino, però
scrivo con la destra.
Il terzo lo fissò rabbioso e incredulo.
Bang.
Yang e yin: Maschio e femmina. Caldo e freddo. Massa e energia. Liscio e
ruvido. Pari e dispari. Sole e Luna. Silenzio e rumore. Spazio e tempo. Schiavo e
padrone. Veloce e lento. Grande e piccolo. Terra e mare. Bene e male. Su e giù.
Nero e bianco. Forte e debole. Normale e con filtro. Giovane e vecchio. Luce e
ombra. Fuoco e ghiaccio. Malattia e salute. Duro e molle. Vita e morte.
Se c'è un piano, non è meglio conoscerlo?
Ancora un'ora.
Milioni di persone nascoste nei loro buchi aspettavano gli ultimi momenti
della guerra. Le strade erano ancora quasi deserte, nessuno se la sentiva di
anticipare seppure di poco le ebbre rumorose manifestazioni di gioia per il
termine delle ostilità. Nel buio della notte Stevie sentiva ancora in lontananza
qualche raro colpo di fucile. Qualche povero disgraziato si faceva beccare
quando mancava appena un' ora al cessate il fuoco.
Il tempo passò. Con aria circospetta la gente cominciò a uscire all'aria aperta
ma senza osare di abbandonare le zone d'ombra; non erano più abituati a
muoversi allo scoperto. Qualche fanatico sparava gli ultimi colpi, un'occasione
come quella chi sa quando mai si sarebbe ripresentata, e restavano solo quindici
minuti per sfogarsi. Lame d'acciaio della Quarantaduesima Strada affondavano
in gole e schiene di provincialotti indifesi.
Times Square era ancora deserta quando Stevie ci arrivò. Cadaveri in
decomposizione giacevano davanti ai negozi di dischi e di materiale porno.
Molto più in là, verso il centro, poche figure indistinte attraversavano la strada.
La grande sfera girava lentamente sopra la piazza. Stevie la guardò annoiato.
Intorno a lui gli assassini erano rannicchiati nell'ombra. L'enorme globo
illuminato del Nuovo Anno era pronto per essere calato in mezzo alla folla che a
mezzanotte con baci e abbracci si sarebbe data alla pazza gioia per festeggiare il
Capodanno della vittoria. Per ora c'erano Stevie che se ne infischiava e i
saccheggiatori dell'ultima ora rimasti a mani vuote nei negozi spogli e anneriti
dagli incendi appiccati da chi li aveva preceduti.
L'orologio di Times Square indicava esattamente le 23.55. Mancavano ancora
cinque minuti. Stevie arretrò di più nell'androne; sarebbe stato umiliante farsi
beccare proprio negli ultimi minuti. Grida qua e là gli dicevano che a qualcuno
questa sorte era ancora toccata.
Passò della gente, correndo. La piazza si stava animando. Erano le 23.58 e il
grande pallone era sempre lì sospeso. All'improvviso afflusso di gente seguì
qualche rapido sparo, ma la folla continuava ad aumentare. Si sentiva un brusio
sommesso, primo avviso della prossima follia collettiva da fine guerra.
Stevie si inserì nella folla abbandonandosi al sollievo del pericolo scampato.
Le 23.59... la sfera sembrò... sollevarsi... e finalmente cadde! Le ventiquattro,
mezzanotte! Il canto della folla crebbe, era il canto di New York, la compiaciuta
mediocrità che riprendeva il suo squallido potere.
— Abbiamo vinto noi! Abbiamo vinto noi! — Il vento gelido spinse il fragore
delle voci nelle buie strade adiacenti imponendolo al fetore di masserizie
bruciate e di sterco. Molto tempo, ci sarebbe voluto molto tempo per rendere di
nuovo abitabile quello che era rimasto, ma "abbiamo vinto noi"! Ci furono
ancora spari qua e là, ma erano i soliti assassini delle strade di New York che si
dedicavano alle solite violenze di iniziativa privata, talmente all'ordine del
giorno nei tempi normali che nessuno ci badava più.
"Abbiamo vinto noi!"
Stevie s'accorse che senza volerlo urlava anche lui. Era accanto a un negro alto
e sudato. Stevie rise, e rise anche il negro. Stevie gli stese la mano. — Stringila —
disse. — Abbiamo vinto!
— Abbiamo vinto! — confermò il negro. — Cioè, ce l'abbiamo fatta noi!
Dovremo rimettere tutto a posto, già, però quello che è rimasto è nostro! Niente
più lotte!
Stevie guardò l'altro; per la prima volta si rese conto del significato che tutto
questo aveva per loro.
— Hai ragione — disse, e la sua voce suonò strana. — Hai ragione, fratello.
— Scusatemi.
Stevie e il negro si voltarono e videro una donna vestita in modo assai curioso.
Dall'abbigliamento non si capiva se era un uomo o una donna, ma la voce era
decisamente femminile. Indossava una lunga tunica fantasiosamente
disseminata di fiori e farfalle e pietre sintetiche, orlata di bordure e cordoncini
oro e argento di poco prezzo. La testa della donna era interamente nascosta da
un grande casco intrecciato somigliante piuttosto a un cesto, sotto il quale la sua
voce risuonava eccitata.
— Scusatemi — ripetè. — Ora che le schermaglie preliminari sono finite, non
vi pare che sia ora di fare sul serio?
— Fare sul serio che? — chiese il negro.
— L'ultima guerra, quella finale. Contro noi stessi. Ormai è inutile volerla
evitare.
— Che cosa vuoi dire? — domandò Stevie.
— La donna gli toccò il petto. — È tutto qui dentro — disse. — Il tuo senso di
colpa. La tua insoddisfazione. Se sei sincero, non ti senti meglio, vero? Voglio
dire, le donne non odiano sul serio gli uomini, ciò che odiano è la propria
debolezza. Nessuno odia gli altri a causa della loro fede o della loro razza, ma
quando vedi qualcuno che è diverso di te ti senti un po' meno sicuro della tua
fede. Odi i tuoi dubbi e proietti quest'odio sull'altro.
— Ha ragione! — affermò il negro. — Sapete, a me importerebbe molto meno
essere odiato se se la prendessero con la mia persona, ma non ci ha mai pensato
nessuno.
— Ecco la vera causa della tua insoddisfazione — riprese la ragazza. — Se
qualcuno se la dovesse prendere veramente con te, almeno sapresti con chi hai a
che fare.
— Tu sei una della Società Gentile, eh? — chiese sommesso il negro.
— "Shinsetsu" — annuì la ragazza. — Sì.
— Che cosa dovremmo fare secondo te? — domandò Stevie. — Meditare o
cosa?
La donna pescò nella grande cesta che portava al braccio e ne estrasse due
cuscinetti di cellophane gonfi di un liquido incolore. Ne diede uno a ciascuno.
— No — rispose in sua vece il negro prendendo il suo. — Kerosene.
Stevie tenne in mano il suo cuscinetto di kerosene con aria incerta. Si guardò
intorno: diverse altre persone vestite alla "shinsetsu" stavano parlando a gruppi
di gente che gli si erano formati attorno.
— Dichiarare la guerra a me stesso? — La voce di Stevie era dubbiosa. —
Devo prima pubblicare un proclama? — Nessuno gli rispose. La gente attorno si
avvicinava per sentire la donna "shinsetsu" che parlava e distribuiva cuscinetti
di liquido.
Stevie sgattaiolò via cercando di uscire dalla piazza stipata. Giunto in una via
laterale si voltò: in mezzo alla folla ardevano già dei fuochi simili a piccole torce,
simili ai falò di foglie secche nei giardini della sua infanzia.
Bob Shaw
MINA TEMPORALE
(Retroactive, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
Surgenor aspettò a qualche metro di distanza, senza parlare, mentre parte
delle attrezzature per i rilievi veniva estratta dal Modulo Cinque per fare posto a
due sedili in più. Poi, guidò il veicolo giù per la rampa della "Sarafand" a una
velocità inutile. La distanza che separava la nave addetta ai rilievi dalla tozza
mole dell'unità militare "Ammiraglio Carpenter" era brevissima, ma Surgenor
scelse l'effetto-sospensione, e compì il percorso tra spettacolari volute di sabbia
fine come polvere. La sua scia apriva una ferita rosso-sangue nel biancore del
deserto, ferita che lentamente si rimarginava a mano a mano che la sabbia
fototropica tornava del suo colore di superficie.
Uno degli uomini di guardia ai piedi della rampa dell'"Ammiraglio Carpenter"
indicò il punto dove Surgenor doveva parcheggiare e disse qualcosa, parlando in
un comunicatore a polso. Surgenor portò il Modulo Cinque nello spazio indicato
e spense la sospensione, lasciando che il veicolo a forma di maggiolino si
acquattasse al suolo. Poi aprì le portiere, e subito la cabina fu invasa dall'aria
torrida e secca di Palador.
— Il gruppo del maggiore Giyani sarà qui fra due minuti — gli gridò l'uomo di
guardia.
Surgenor gli rispose con una muta parodia del saluto militare e si lasciò
scivolare più in giù sul sedile. Si rendeva conto che il suo era un comportamento
infantile, ma la "Sarafand" era atterrata su quel pianeta da ventisei giorni, ormai,
e Surgenor, in tanti anni di carriera nel Servizio Cartografico, non era mai stato
in ozio per tanto tempo. Aspettare in uno stesso posto, sprecando la magra
razione di tempo consentita all'umanità, aveva l'effetto di renderlo pessimista e
scontroso. Fissò con odio il bianco deserto che si stendeva fino all'orizzonte,
infuocato dal sole, e si chiese perché gli fosse sembrato bello il primo giorno che
l'aveva visto. Era stato un giorno in cui tirava vento, naturalmente, e i rapidi
spostamenti dell'aria che spazzava le dune avevano tracciato un intrico di
sfumature rosse sulla distesa bianca, via via che gli strati inferiori venivano
esposti al sole e subivano una reazione fototropica.
La "Sarafand" era atterrata con l'intenzione di compiere una normale
operazione di planimetria: discesa al polo nord del pianeta, decollo per un semicircuito e nuovo atterraggio al polo sud, dove i sei moduli scaricati in precedenza
dovevano raggiungerla seguendo ciascuno un diverso percorso. Il terreno non
presentava difficoltà, in apparenza, il che significava che i moduli potevano
viaggiare alla velocità massima, e i rilievi planimetrici sarebbero stati completati
nel giro di tre giorni se non si fosse verificato qualcosa di assolutamente
imprevisto.
Gli equipaggi di tre moduli avevano riferito d'avere visto dei fantasmi.
Le apparizioni erano di due generi, persone ed edifici, che si presentavano
come immagini viste in trasparenza e svanivano in modo tale da indurre gli
osservatori a descriverli come miraggi. Restava però il fatto che un miraggio
deve avere una controparte materiale da qualche parte, mentre una precedente
ricognizione orbitale di Palador aveva stabilito che quello era un mondo estinto,
sul quale non esistevano forme di vita intelligenti né tracce di una loro antica
presenza.
— Sveglia, conducente — disse in tono autoritario il maggiore Giyani. — Noi
siamo pronti a partire.
Surgenor alzò la testa con lentezza deliberata e squadrò l'ufficiale olivastro e
baffuto che aspettava di prendere posto sul modulo e che, bene o male, riusciva
ad apparire inappuntabile perfino in tenuta da campo. Dietro di lui, aspettavano
un tenente dalla faccia rosea e gli occhi azzurri un po' smarriti, e un sergente
dalla corporatura solida, che imbracciava un fucile.
— Non possiamo partire se prima non sono tutti a bordo — fece notare
Surgenor con calma, ma dal suo tono traspariva l'irritazione di chi si sente
trattare come un autista. Aspettò con aria impassibile che il tenente e il sergente
prendessero posto sui sedili aggiunti nella parte posteriore dell'abitacolo, poi
che il maggiore si installasse nel sedile accanto al suo. Il sergente che, se
Surgenor ricordava bene, doveva chiamarsi McErlain, invece di posare il fucile
continuò a tenerselo sulle ginocchia.
— La nostra destinazione è questa — disse Giyani, porgendo a Surgenor un
foglio di carta sul quale era segnata una serie di coordinate. — La distanza in
linea d'aria da qui è di circa...
— Cinquecentocinquanta chilometri — disse Surgenor, eseguendo un rapido
calcolo mentale.
Giyani inarcò le sopracciglia scure e fissò attentamente Surgenor. — Voi vi
chiamate Dave Surgenor, vero?
— Sì.
— Molto bene, Dave. — Giyani gli rivolse un sorriso prolungato che sembrava
dire: "Ci so fare con i borghesi permalosi, eh?" poi indicò il foglio. — Possiamo
arrivare là per le otto, ora di bordo?
Surgenor si disse, troppo tardi, che preferiva il Giyani dai modi autoritari.
Avviò il modulo passando all'effetto-radente e seguì una rotta che li portava a
sud. Nessuno parlò molto, durante le due ore del percorso, ma Surgenor notò
che Giyani si rivolgeva al sergente McErlain con malcelata antipatia, mentre il
tenente, che si chiamava Kelvin, evitava con cura di rivolgere la parola al grosso
sottufficiale. Il sergente rispondeva a Giyani con secchi monosillabi. Surgenor
tentò di ricordare le chiacchiere e i pettegolezzi che gli erano giunti all'orecchio
sul conto di McErlain, ma i suoi pensieri erano occupati soprattutto
dall'obiettivo di quella missione.
Quando i primi rapporti sui "fantasmi" erano stati forniti al capitano Esopo,
così veniva chiamato dagli equipaggi dei moduli il calcolatore centrale installato
a bordo della "Sarafand", era stato fatto un controllo della mappa geodetica che
stava per essere messa a punto con l'ausilio del cervello elettronico. Questo
aveva rivelato che, trecentomila anni prima, in corrispondenza delle località
dove erano state avvistate le apparizioni, agli strati rocciosi erano state
apportate delle alterazioni. A questo punto, Esopo aveva fatto ritirare i moduli di
ricognizione, il Servizio Cartografico lo autorizzava a occuparsi soltanto di
pianeti disabitati. Poi era stato trasmesso un messaggio al Quartier Generale del
Settore. Come risultato, l'incrociatore "Ammiraglio Carpenter", che stava
attraversando quella particolare zona di spazio, era arrivato due giorni dopo e
aveva assunto il comando delle operazioni.
Uno dei primi ordini emanati dal colonnello Nietzel, Comandante delle forze
da sbarco, era stato che Esopo dovesse trattare tutte le informazioni riguardanti
Palador come segretissime, e tenerle quindi nascoste al personale civile. Il che,
significava in teoria che gli uomini della "Sarafand" andavano tenuti
completamente all'oscuro sugli eventi successivi. Ma come sempre c'erano
contatti umani tra gli equipaggi delle due unità, e Surgenor aveva raccolto alcune
voci. Satelliti esplorativi mandati in orbita dalla "Ammiraglio Carpenter"
avevano registrato, si diceva, migliaia di materializzazioni parziali sull'intera
superficie di Palador: edifici, strani veicoli, animali e individui avvolti in vesti
fluttuanti. Si diceva inoltre che, in alcuni basi, figure ed edifici si fossero
materializzati al punto di raggiungere una completa solidità, ma che fossero
nuovamente svaniti prima che qualcuno dei mezzi dell'unità militare potesse
raggiungerli. Era come se su Palador esistesse un'altra civilizzazione:
civilizzazione che, ritiratasi al di là di un'incomprensibile barriera all'avvicinarsi
di estranei, fosse decisa a mantenere le distanze.
Surgenor, che non aveva visto nessuna apparizione, non dava molto credito
alle voci; ma aveva visto i piloti della "Ammiraglio Carpenter" sfrecciare
attraverso il deserto ad altissime velocità supersoniche, soltanto per rientrare a
mani vuote. Sapeva, inoltre, che il calcolatore centrale della nave da guerra stava
lavorando ventiquattr'ore su ventiquattro, analizzando e mettendo in relazione
l'enorme quantità di dati che arrivavano dalla rete di satelliti. Infine, sapeva che
le coordinate mostrategli da Giyani corrispondevano a uno degli antichi scavi
scoperti nella ricognizione iniziale.
— Quanto mancherà? — chiese Giyani, mentre il sole toccava ormai la bassa
catena di colline che si stendevano a occidente.
Surgenor consultò con un' occhiata il mappascopio, che col calare del
crepuscolo stava assumendo una diversa luminosità. — Poco meno di trenta
chilometri.
— Bene. In perfetto orario. — Giyani portò istintivamente la mano sul calcio
dell'arma che portava al fianco.
— Avete intenzione di sparare a qualche spettro? — chiese Surgenor, in tono
indifferente .
Giyani si guardò la mano, poi guardò Surgenor. — Spiacente. Ho l'ordine di
non discutere con voi sui particolari della missione. Anzi, se avessimo avuto
mezzi di trasporto adatti, voi ora non sareste qui.
— Ma ci sono, e quindi vedrò tutto quello che succede..
— Il che vi mette in posizione di vantaggio, vero?
— Non ci avevo pensato. — Surgenor fissava con aria cupa le distese di sabbia
che si avvicendavano sugli schermi del modulo, osservandoli trasformarsi da
bianchi in rosso-sangue a mano a mano che gli ultimi raggi di luce si spegnevano.
Ancora pochi minuti, e sarebbe calata la tipica notte paladoriana, in cui il deserto
sembrava velluto nero e il cielo limpido era a tal punto tempestato di stelle da
dare l'impressione che l'ordine normale delle cose fosse capovolto, che la terra
fosse spenta e il cielo in alto la vera sede della vita. Surgenor avverti un
desiderio intenso d'essere di nuovo a bordo della "Sarafand", in viaggio verso
soli lontani.
Il tenente Kelvin si chinò in avanti e parlò sottovoce a Giyani. — Quando
credete che si comincerà a vedere qualcosa?
— Da un momento all'altro... posto che le predizioni del calcolatore siano
accurate. — Giyani fissò per un momento Surgenor, senza dubbio per decidere
se poteva dare informazioni in sua presenza. Poi si strinse nelle spalle. — Da
indizi geodetici risulta che la manomissione del fondo roccioso avvenuta in
quest'area risale a circa un terzo di milione d'anni fa, più o meno al tempo in cui
pensiamo che i paladoriani fossero nella loro fase costruttiva. Sette volte i
satelliti hanno avvistato una città in questo punto, negli ultimi dieci giorni, ma
niente ci garantisce che l'avvicendarsi di apparizioni registrate dal calcolatore
non sia una pura coincidenza, nel qual caso troveremo soltanto deserto.
— Cos'ha di tanto speciale questo particolare posto? — chiese Kelvin, facendo
eco alla domanda che già aveva attraversato la mente di Surgenor.
— Se i paladoriani possono muoversi liberamente nel tempo, e noi pensiamo
che lo possano, allora la semi-materializzazione di edifici potrebbe essere un
semplice sottoprodotto della presenza degli indigeni stessi in visita nel presente.
Qualcosa di analogo, a quanto ho potuto capire, a quando si esce da un edificio
riscaldato: chi esce porta con sé, nell'altro ambiente, parte di quell'aria calda. Ad
ogni apparizione di questa città, le nostre apparecchiature hanno individuato
una presenza che si direbbe femminile. E la donna aveva solidità corporea!
Mentre ascoltava le parole del maggiore, Surgenor sentiva diventare
sconosciuto e ostile l'abitacolo pur così familiare del Modulo Cinque, nel quale
aveva passato tante ore della sua vita. Era stato fino a quel momento restio a
confessare i propri timori, e cioè che l'Uomo, dopo aver perfezionato un tipo di
pensiero che gli aveva dato la padronanza delle tre dimensioni spaziali, si fosse
imbattuto in una cultura più equilibrata e di maggior buon senso, che aveva
stabilito il suo dominio nei lunghi e grigi estuari del tempo. Ora, però, sembrava
che altri stessero nutrendo i suoi stessi dubbi.
— C'è qualcosa davanti a noi, signor maggiore — disse Kelvin.
Giyani, che sedeva un po' girato all'indietro, si voltò. Tutti fissarono in silenzio
lo schermo anteriore, sul quale i contorni spettrali di un paesaggio urbano si
stavano incidendo lungo la fascia dell'orizzonte. Schemi regolari di luci
brillavano dove istanti prima non c'era altro che sabbia e stelle. I rettangoli
trasparenti della città erano sorprendentemente terrestri, come concezione,
salvo un unico particolare incongruo: le file verticali di luci, che avevano tutta
l'aria di finestre, non sempre si sovrapponevano alle sagome degli edifici. Quasi,
pensava Surgenor, come se la città venisse vista non come è esistita in un singolo
punto del tempo, ma con una profondità temporale di messa a fuoco che si
estendesse per migliaia d'anni, durante i quali la lenta deriva dei continenti
l'avesse spostata di diversi metri, dando luogo a una doppia immagine.
Nonostante la facile spiegazione fornita da Giyani su quello che stavano
vedendo, o forse proprio a causa di quella, Surgenor cominciò a provare un
senso di gelo nel valutare appieno lo scopo che la piccola spedizione si
proponeva di raggiungere.
— Riducete la velocità e per l'ultimo tratto procedete in sospensione — disse
Giyani. — D'ora in avanti, dobbiamo viaggiare silenziosamente. E spegnete le
luci, è meglio.
Surgenor planò e ridusse di metà la velocità di crociera. A quell'andatura, e in
assenza di punti di riferimento spaziali, sembrava che il modulo fosse fermo. Gli
unici suoni, nella cabina, erano il respiro un po' affannoso di Kelvin e una serie di
lievi scatti provenienti dal fucile di McErlain mentre il sergente metteva a punto
mirini e vernieri.
Giyani si voltò a dare un'occhiata a McErlain. — Quanto tempo è passato da
quando prestavate servizio sulla "Georgetown", sergente?
— Otto anni, signore.
— Un bel pezzo.
— Signorsì. — McErlain rimase per qualche istante in silenzio. — Non intendo
sparare a nessuno a meno che non mi venga ordinato, se è questo che intendete
dire.
— Sergente! — La voce di Kelvin suonò scandalizzata. — Vi metterete a
rapporto non appena...
— Lasciate perdere, tenente — disse Giyani, con noncuranza. — Il sergente e
io ci comprendiamo benissimo.
Surgenor dimenticò per un attimo l'incredibile spettacolo che si parava ai suoi
occhi. Ora capiva perché, nella mensa della "Sarafand", il nome di McErlain fosse
ogni tanto oggetto di discussione. Dieci o undici anni prima, la "Georgetown"
aveva stabilito il primo contatto con una specie intelligente del Terzo Quadrante,
e in uno spaventoso sfacelo, i cui particolari non erano mai stati resi
ufficialmente noti, aveva annientato in un'unica azione militare tutti i maschi
attivi. In seguito, il pianeta era stato isolato per permettere all'ultima
generazione di femmine e di maschi non-attivi di avviarsi placidamente verso
l'estinzione; il comandante della "Georgetown" era stato deferito alla corte
marziale, ma "l'incidente" era finito nell'archivio delle auto-critiche che
l'umanità possedeva al posto di una vera coscienza razziale.
— Continuate così finché non saremo arrivati al lato meridionale della città —
ordinò Giyani.
— Avremo bisogno dei fari.
— No, inutile. Quegli edifici non esistono, se non in forma molto attenuata.
Procedete tranquillamente.
Surgenor lasciò che il modulo continuasse lungo la sua rotta originale, e
l'incorporea veduta prese a dissolversi davanti a lui come una leggera nebbia.
Quando lui giudicò che fossero ormai nell'agglomerato urbano, tutto quello che
era possibile scorgere, ormai, era l'occasionale presenza di un lampione di forma
stranamente trapezoidale, ma così lieve da far pensare a un riflesso di luce
riverberato da un vetro.
— Gli edifici non si sono dissolti — osservò Kelvin. — Nessuno era mai
riuscito ad avvicinarsi tanto.
— Nessuno aveva elaborato dati a sufficienza — replicò in tono distratto
Giyani. — Ho l'impressione che i pronostici del calcolatore si riveleranno esatti
fino all'ultimo particolare.
— Vale a dire?
— Se fossi uno scommettitore, ora mi giocherei un anno di stipendio che il
nostro paladoriano è una femmina incinta.
I dati di riferimento che Surgenor aveva ricevuto erano talmente precisi che
lui avrebbe potuto fermare il modulo nel punto indicato con esattezza
matematica, ma Giyani gli ordinò di fermarsi duecento metri prima. Poi
Surgenor aprì io sportello e aspettò che i tre militari fossero scesi sulla sabbia.
L'aria del deserto era fredda; su Palador, l'abbassamento di temperatura veniva
accentuato dal fatto che la superficie diventava bianca durante l'esposizione al
sole e così disperdeva gran parte del calore della giornata.
— Penso che l'operazione richiederà in tutto pochi minuti — disse Giyani a
Surgenor. — Sarà bene ripartire immediatamente, al nostro ritorno, perciò è
bene voi restiate qui. Aspettate con il motore acceso e tenetevi pronto a fare
rotta verso il nord.
— Ai vostri ordini.
Giyani si mise degli occhialoni speciali, fatti per vedere al buio, e ne porse un
paio anche a Surgenor. — Metteteli e non ci perdete d'occhio. Se doveste
accorgervi che sta succedendo qualcosa di veramente grave, mettetevi in
contatto radio con la nave e allontanatevi immediatamente.
Surgenor mise gli occhiali e batté le palpebre, disorientato, nel vedere la faccia
di Giyani messa in risalto da una innaturale luce rossa. — Vi aspettate
complicazioni? — chiese.
— No... ma mi preparo ad affrontarle.
Maggiore, è vero o no che una numerosa missione diplomatica è in viaggio
verso il pianeta?
— E con questo, Surgenor?
La voce di Giyani aveva perso ogni cordialità.
— Non so se convenga, al colonnello e a voi, assumere certe iniziative.
— Il colonnello non sta abusando della sua autorità, autista... voi sì, invece.
I tre militari si allontanarono silenziosamente dal modulo, e Surgenor provò
per la prima volta a guardarsi intorno. Era stranamente difficile mettere a fuoco
la vista, ma un po' alla volta gli riuscì di scorgere una figura eretta, talmente
immobile da far pensare a un palo di legno conficcato al suolo.
Surgenor provò un acuto senso di stupore misto a rispetto. Se le teorie erano
valide, stava contemplando un rappresentante della cultura più straordinaria
che l'uomo avesse mai incontrato nella sua cieca corsa attraverso la galassia: una
razza che attraversava il fiume del tempo con la stessa facilità con cui una nave
stellare navigava sulle maree dello spazio.
L'istinto gli diceva che simili esseri dovevano venire accostati con riverenza, e
solo dopo che essi si fossero mostrati disposti a concederlo, ma era evidente che
Giyani la pensava diversamente. Era pronto a usare la forza contro un'entità che
aveva il potere di scivolargli via tra le dita come fumo. L'azione, almeno vista
così, era mal concepita... eppure Giyani era un uomo intelligente. Surgenor
aggrottò la fronte, ripensando al commento del maggiore, e cioè che il
paladoriano fosse una femmina gravida.
Improvvisamente, mentre i tre uomini si avvicinavano, la figura misteriosa si
mosse, facendo ondeggiare la sua veste grigia.
Uno degli uomini fece un brusco movimento con la mano. La figura
incappucciata si ritrasse, ma aveva percorso soltanto pochi passi quando
inciampò e cadde. Surgenor stava ancora cercando di assuefarsi agli occhiali. Per
un attimo, ebbe la spaventosa certezza che il paladoriano fosse rimasto ucciso,
poi gli arrivò il sibilo ritardato di una pistola a gas. I tre militari sollevarono la
figura inerte e la trasportarono verso il modulo. Surgenor ingranò la marcia,
manovrò per avvicinarsi e contemporaneamente puntare il muso del veicolo
verso nord.
Per un secondo, durante la manovra, il deserto parve animarsi di uno sfarfallio
luminoso e di ondeggianti figure ammantate, ma subito l'illusione svanì, e nel
tempo che lui impiegò per fermare il modulo, di visibile restarono solo i tre
uomini e il loro strano fardello. In pochi secondi, tutti erano a bordo del veicolo.
Surgenor si girò sul sedile e guardò la figura stesa sul pavimento del modulo.
Perfino con gli occhiali, riusciva a stento a intravedere un volto pallido e ovale
che spuntava dalle pieghe del manto.
È proprio una femmina, pensò. Poi si chiese da che cosa l'avesse capito.
— Andiamo — scattò Giyani. — Velocità massima.
Surgenor optò per la sospensione a cuscino d'aria e innestò la spinta in avanti
prim'ancora che il modulo si fosse sollevato da terra. Il veicolo accelerò in
direzione nord, sussultando sotto l'improvvisa ondata di potenza e lasciandosi
dietro un'enorme piuma di sabbia.
Con un sospiro di sollievo, Giyani si rilassò sul sedile. — Così va meglio. Non
rallentate finché non saremo in vista della nave.
Surgenor si rese conto che poteva fiutare la presenza dell'essere alieno. La
cabina del modulo si stava riempiendo di un odore pungente, come di muschio;
un odore che gli ricordava un po' quello dell'acquavite.
— Credete che si possa andare sufficientemente veloci? — chiese.
— In che senso, David? — La voce di Giyani tradiva l'agitazione, o forse la
soddisfazione.
— Se davvero i paladoriani possono guizzare avanti e indietro nel tempo, i
nostri tentativi di coglierli di sorpresa non hanno scopo. È chiaro che a loro non
si può sfuggire. Non devono fare altro che tornare indietro di poche ore e
fermare l'azione prima ancora che sia cominciata.
— Ma non l'hanno fatto, vero?
— No... — Surgenor s'interruppe perché l'essere alieno aveva mandato un
gemito. Nello stesso istante, nuovi sfarfallii luminosi apparvero e sbiadirono nel
deserto che si stendeva davanti a loro. — Io dico che dovremmo rallentare,
maggiore. A questa velocità, abbiamo una distanza di frenata piuttosto lunga,
vale a dire un tempo di frenata piuttosto lungo, il che potrebbe fare di noi dei
bersagli più facili.
— Bersagli?
— Più visibili. Nel tempo, intendo dire. Ci rende più prevedibili.
— Ho un'idea, David. — Giyani si girò sul sedile, e mentre parlava rivolse un
sorrisetto d'intesa a Kelvin. — Perché prima di andare a cena, stasera, non ci
dedicate un paio di minuti per buttarci giù un bel manuale tattico? Sono sicuro
che il colonnello Nietzel vi sarebbe molto grato di qualsiasi suggerimento che
poteste darci.
Surgenor alzò le spalle. — Era soltanto una teoria.
— Potreste intitolarlo "Tattica per lo scontro temporale". — Giyani non voleva
rinunciare a completare la battuta. — Di David Surgenor, autista.
— E va bene, maggiore — disse pazientemente Surgenor. — Stavo soltanto...
La voce gli morì in gola mentre, senza alcun preavviso, il Modulo Cinque
veniva sommerso da un'abbagliante luce verdognola. La luce del sole, pensò
Surgenor, incredulo, e si rese conto che il pesante veicolo stava precipitando.
Immagini di fogliame verde e rigoglioso sfrecciavano attraverso lo schermo
mentre il modulo s'inclinava, toccava terra su un fianco e rimbalzava verso l'alto.
Seguì una serie di schianti fragorosi, mentre il veicolo radeva al suolo un
boschetto di alberelli, e gli schermi-video si spensero l'uno dopo l'altro perché le
apparecchiature sensorie dello scafo esterno venivano a mano a mano strappate
via. Finalmente, il veicolo si fermò in un groviglio di vegetazione e i fragori
assordanti cedettero il posto a un acuto sibilo di gas che sfuggiva da un tubo
forato. Pochi secondi dopo, il bip-bip acuto e insistente di un circuito d'allarme
annunciò che la cabina veniva contaminata dalla presenza di sostanze
radioattive.
Surgenor si liberò dalle morse che lo schienale del sedile aveva fatto
automaticamente scattare fin dal primo urto con il terreno. Spalancò la portiera
più vicina, lasciando entrare una folata d'aria umida e torrida: un'aria,
immediatamente il suo istinto lo avvertì, che il pianeta Palador non conosceva
più da lunghe ere geologiche.
Si allontanarono, risalendo il rozzo sentiero che il Modulo Cinque aveva creato
nella boscaglia, finché il quadrante dell'indicatore che Surgenor aveva al polso
non rivelò che erano ormai arrivati a prudente distanza dalla perdita di
radioattività prodottasi all'interno del veicolo. Kelvin e McErlain deposero al
suolo la figura ammantata, appoggiandola con la schiena contro il tronco di un
albero abbattuto. Sebbene avessero coperto solo pochi metri, avevano le
uniformi inzuppate di sudore. Surgenor sentiva i panni appiccicarglisi alle
braccia e alle cosce, ma il disagio fisico era insignificante se paragonato allo
sforzo mentale causato dalla dislocazione. La notte era diventata giorno e, nello
stesso istante, il deserto era diventato giungla. L'ardente sole giallo, quel sole
impossibile!, lo abbacinava, riempiendolo di sgomento.
— Delle due, l'una — sentenziò Giyani, imperturbabile, mettendosi a sedere
su un ceppo e massaggiandosi una caviglia. — Siamo in un luogo diverso nel
medesimo tempo... oppure siamo nello stesso luogo ma in un altro tempo. —
Sostenne, senza battere ciglio, lo sguardo di Surgenor. — Voi cosa ne dite, David?
— Dico che la prima regola del manuale di David Surgenor, autista, sarà:
"Guidare lentamente"... come vi avevo consigliato in precedenza. Per poco non ci
siamo...
— Sì, questo lo prevedevo, David. Riconosco che avevate ragione voi, laggiù... o
forse dovrei dire allora, ma a parte questo cos'altro avete da dire?
— Sembra che siamo incappati nell'equivalente paladoriano di una mina. Mi
era sembrato di vedere qualcosa muoversi, un istante prima di urtarla.
— Una mina? — ripetè Kelvin, guardandosi attorno con aria smarrita e
Surgenor si rese conto solo in quel momento che il tenente poteva avere al
massimo vent'anni.
Giyani assenti. — Sì, propendo anch'io per quest'ipotesi. Abbiamo catturato
un prigioniero, e i paladoriani non erano disposti a sopportare un fatto del
genere. In circostanze analoghe, noi avremmo forse usato una bomba che
avrebbe alterato la posizione del bersaglio nello spazio, ma gli indigeni, qui,
ragionano diversamente. David, voi avete avuto una preparazione geologica: di
quanto pensate che siamo stati scagliati indietro nel tempo?
— Non ho avuto un'istruzione approfondita, in materia, e l'indice di
mutamento che l'evoluzione apporta nel tempo varia da pianeta a pianeta, ma...
— Surgenor fece un gesto che abbracciava la vegetazione circostante, così verde
e rigogliosa, l'aria satura di umidità e il sole accecante — ... per un cambiamento
climatico di questa portata possiamo probabilmente parlare in termini di milioni
d'anni. Uno, dieci, cinquanta... fate voi. — Ascoltava le proprie parole affascinato,
meravigliandosi che il suo corpo potesse continuare a funzionare secondo tutte
le apparenze della normalità, nonostante l'accaduto.
— Addirittura milioni? — Pur mantenendosi calmo, Giyani ora appariva
preoccupato.
— Quand'anche vi dicessi che si tratta soltanto di un millennio, che differenza
farebbe? Siamo stati eliminati, maggiore. Non esiste una via per tornare indietro.
— Surgenor cercava di accettare quella realtà mentre ne parlava. Giyani
assentiva lentamente, Kelvin si nascondeva la faccia tra le mani e McErlain se ne
stava impassibile in disparte, fissando la figura ammantata della prigioniera
paladoriana. Con una parte della sua mente, Surgenor notò che il grosso
sottufficiale imbracciava ancora il fucile. Evidentemente non lo abbandonava
mai.
— Potrebbe anche esserci un modo di tornare indietro — disse McErlain, in
tono ostinato. — Se potessimo ottenere qualche informazione da lei. — Con il
fucile, indicò la paladoriana.
— Ne dubito, sergente. — Giyani non sembrava per niente impressionato da
quelle parole.
— Be', hanno voluto fare in modo che la portassimo sulla nave. Perché?
— Non lo so, sergente. In Ogni modo, smettetela di puntare quel maledetto
fucile contro la prigioniera. Qui non possiamo permetterci un nuovo massacro.
— Signor maggiore. — La faccia rude di McErlain era pallida e contratta.
— Che c'è, sergente?
— La prossima volta che vi sentirò alludere al fatto che ho prestato servizio
sulla "Georgetown", giuro che questo fucile io ve lo caccio in gola.
— Giyani scattò in piedi, gli occhi sgranati per la sorpresa e l'indignazione. —
Lo sapete che cosa potrei farvi per quello che avete detto?
— No, maggiore, ma la cosa m'interessa enormemente. Che cosa potete farmi?
— il sergente continuava a reggere il fucile con la massima indifferenza, ma ora
l'arma aveva acquistato un significato minaccioso.
— Posso cominciare col togliervi di mano quell'arma.
— Davvero? — McErlain sorrise, mostrando denti irregolari ma candidi, e
Surgenor cominciò improvvisamente a considerarlo come essere umano invece
che come una legnosa figura di militare. I due uomini in uniforme stavano l'uno
di fronte all'altro nel silenzio opprimente della giungla. Nell'osservare quel
quadro vividamente illuminato, Surgenor sentì che la sua attenzione veniva
distratta da uno strano senso di inconsistenza. C'era qualcosa di incongruo, là
intorno. Qualcosa di stranamente fuori posto, o che mancava, in tutto quello
scenario primordiale...
La paladoriana emise una specie di sibilo e si mise a sedere più eretta, con
gesti lenti e faticosi. McErlain andò verso di lei e con gesto brusco le tirò giù il
cappuccio grigio dalla testa. Surgenor provò un curioso senso di meraviglia al
vedere la faccia dell'aliena nella luce vivida e cruda. Quel tanto di lei che era
riuscito a intravedere nell'oscurità del modulo gli aveva lasciato un'
impressione, se non di bellezza, almeno di un certo grado di compatibilità con i
concetti di bellezza umani. In quella luce crudele, non c'era modo di ignorare il
fatto che il naso della prigioniera era un'escrescenza informe, che gli occhi erano
considerevolmente più piccoli di quelli umani e che i capelli neri erano talmente
ruvidi e grossi che le singole ciocche sembravano formate di filo di ferro. Ciò
nonostante, pensava Surgenor, non c'è dubbio che sia una femmina. È possibile
che esista un principio femminile cosmico tale da rendersi evidente al primo
sguardo, perfino allo sguardo di un alieno? Poi, Surgenor provò un senso di
momentaneo imbarazzo nel rendersi conto che aveva pensato a se stesso come
all'alieno.
Altri suoni lamentosi sfuggivano dalle labbra aride della paladoriana che ora
girava la testa di qua e di là, gli occhi color prugna guizzanti dai quattro uomini
allo sfondo della giungla.
— Coraggio, sergente — disse Giyani in tono sarcastico. — Interrogate la
prigioniera, fatevi dire come si fa per spostarsi di un milione d'anni nel futuro.
Surgenor si rivolse a Giyani. — Sappiamo niente, in fatto di linguaggio
paladoriano?
— Nemmeno una parola. Anzi, non sappiamo nemmeno se si servano di
parole: potrebbe anche trattarsi di uno di quei ronzii continuati, a inflessioni
diverse, come usano su... — S'interruppe perché la femmina della specie aliena si
era alzata in piedi e ora barcollava leggermente, l'epidermide pallida luccicante,
come se fosse unta.
— Continua a guardare da quella parte — disse a voce alta il tenente Kelvin,
indicando, lungo il sentiero di vegetazione divelta e appiattita, nella direzione da
cui era arrivato il modulo. Fece alcuni passi di corsa lungo il sentiero, con impeto
ansioso e infantile — Maggiore! C'è qualcosa laggiù. Un tunnel o qualcosa del
genere.
— Impossibile — disse istintivamente Surgenor, ma montò sul tronco di un
albero e si riparò gli occhi dal sole. All'estremità del sentiero, riuscì a scorgere
un'area circolare di oscurità. Sembrava la bocca di una caverna, salvo che non
c'era lo sfondo visibile di una collina.
— Vado a vedere. — L'alta, dinoccolata figura di Kelvin si allontanò a saltelloni
dal gruppo.
— Tenente! — Giyani parlò in tono sbrigativo, assumendo il comando dopo
l'inconcludente scontro avuto con McErlain. — Andremo insieme. — Guardò
direttamente la paladoriana, poi indicò verso il fondo del sentiero. Lei parve
capire al volo e cominciò a camminare, raccogliendo le pieghe ingombranti della
veste, esattamente come avrebbe fatto una terrestre. McErlain le si mise alle
spalle, con il fucile imbracciato. Surgenor, che camminava accanto al sergente,
notò che la paladoriana si muoveva con difficoltà, quasi come se fosse ammalata,
ma con una sottile differenza.
— Maggiore — chiamò — non ci serve una scorta armata, qui: come facevate a
sapere in anticipo che la prigioniera sarebbe stata una femmina gravida?
— La nostra unità centrale di calcolo l'ha concluso dopo avere analizzato tutte
le osservazioni raccolte dai satelliti. Gli indigeni sono in generale più snelli e più
mobili di questa.
— Capisco. — Surgenor era turbato da un'idea: da un momento all'altro,
potevano trovarsi ad affrontare il difficile compito di aiutare un piccolo alieno a
venire al mondo, e senza nessuna comodità. — Ma allora perché dare la caccia
proprio a una madre in attesa?
— Quando ho parlato di mobilità ho usato il termine nel pieno contesto di
questo pianeta. — Giyani si fermò ad aspettare Surgenor e gli offrì una sigaretta,
che l'altro accettò con gratitudine. — Le registrazioni eseguite dai satelliti
mostrano che le indigene incinte non guizzano attraverso il tempo con la stessa
facilità degli altri. Si materializzano nel presente in modo solido, completo, e una
volta materializzate, vi restano più a lungo. Pare che per loro sia più difficile
svanire.
— Chissà da che cosa può dipendere?
Giyani scrollò la testa e mandò fuori una boccata di fumo. — Mah! Se tutto
avviene per controllo mentale, come sembrerebbe, forse la presenza di un'altra
mente proprio all'interno del corpo appesantisce un poco la femmina. Questa,
altrimenti, non l'avremmo mai catturata.
Surgenor scavalcò un tronco attento a non inciampare. — C'è anche un'altra
cosa che non capisco. Se i paladoriani sono cosi ansiosi dì evitare il contatto,
perché lasciano che le femmine più vulnerabili si avventurino in un settore dello
spazio-tempo occupato da noi?
— Giusta osservazione, David. Magari conoscessi la risposta. Ma non avete
pensato che il controllo che loro hanno sul tempo potrebbe non essere assoluto,
proprio come non è perfetto il controllo che noi abbiamo sullo spazio? Da
quando siamo atterrati su Palador, alcuni dei nostri intellettualoidi, a bordo, non
hanno fatto che affermare una loro idea, e cioè che gli indigeni avrebbero
dimostrato la coesistenza di passato, presente e futuro. Sarà verissimo, non dico
di no, ma supponiamo che in un certo senso, la dimensione "presente" sia la più
importante delle tre. Ci potrebbe essere una cresta d'onda che trascina le
femmine con sé quando stanno per partorire. Potrebbe darsi che il feto fosse
legato al "presente" perché non ha ancora imparato la disciplina mentale,
oppure...
Giyani s'interruppe. — Ma poi, a che scopo scervellarsi su tutte queste teorie?
— osservò. — Non cambia niente.
Surgenor assentì, distratto, rivedendo in cuor suo l'opinione che si era fatta di
Giyani. Aveva intuito che il maggiore era un uomo intelligente, il quale andava
incontro al pericolo a occhi aperti, ma aveva commesso lo sbaglio, come con
McErlain, di considerarlo uno dei tanti militari stereotipati, dalla mentalità
chiusa e inflessibile. La sua conversazione con Giyani era stata istruttiva sotto
diversi aspetti. Poi Surgenor ebbe una breve, nitida visione di ciò che si profilava
davanti a loro e smise di pensare al maggiore.
Un disco nero come la notte, di circa tre metri di diametro, fluttuava nell'aria,
a breve distanza dal suolo. I contorni erano imprecisi, tremolanti, e
nell'avvicinarsi, Surgenor vide che l'oscurità di quel disco era attenuata
dall'intenso luccichio delle stelle.
La figura ammantata della paladoriana barcollò in avanti di un paio di passi e
si fermò. McErlain si intromise tra lei e il disco, costringendola a indietreggiare.
— Tenetela lì, sergente. — La voce di Giyani era melliflua. — Chissà che, tutto
sommato, non si riesca a rientrare in tempo per la prima colazione.
— È questo che la donna cercava — disse il tenente Kelvin. — Scommetto che
è una specie di corda di salvataggio. È il nostro tempo, la notte che vediamo al di
là del disco.
Surgenor si era avvicinato, e facendosi schermo agli occhi tentava di scrutare
al di là del disco, verso l'alto. Le stelle all'interno si presentavano esattamente
come quelle che lui aveva visto nel manovrare sopra il deserto paladoriano, nel
XXIII Secolo d.C... Surgenor rabbrividì, poi notò che una lieve brezza gli asciugava
il sudore sul dorso. Sembrava che le correnti d'aria si muovessero in direzione di
quello strano disco. Cominciò ad aprirsi il passo attraverso lo sbarramento di
vegetazione indenne che separava il termine del sentiero aperto dal modulo dal
cerchio nero come la pece.
— Che cosa volete fare, David? — chiese immediatamente Giyani.
— Soltanto un piccolo esperimento. — Surgenor andò più vicino al disco il cui
orlo inferiore restava poco al di sopra della sua testa. Aspirò una profonda
boccata dalla sigaretta e soffiò il fumo verso l'alto. La spirale azzurrognola salì
verticalmente per un breve tratto e venne risucchiata entro le tenebre. Lui le
gettò appresso il mozzicone. Il minuscolo cilindro biancheggiò brevemente nel
sole prima di svanire, e non completò la sua traiettoria dall'altra parte del disco.
— Pressione differenziale — disse, ritornando presso il gruppo. — L'aria
calda defluisce attraverso quel foro. Nel futuro, suppongo. — Lui, Giyani e Kelvin
si fecero largo tra la vegetazione fino a portarsi dalla parte opposta del disco; ma
guardando da lì era come se questo non esistesse. Non si vedeva altro che
l'impassibile McErlain piantato di fronte alla paladoriana, con il fucile
imbracciato. Giyani estrasse di tasca una moneta e la scagliò in un arco lucente
che la portò attraverso il punto in cui si calcolava che dovesse trovarsi il disco.
La moneta cadde a terra, vicino al sergente.
— Sembra invitante — osservò Giyani, mentre tornavano verso il punto di
partenza, osservando una linea scura formarsi all'improvviso, trasformarsi a
poco a poco in un ellisse e infine ridiventare un cerchio perfetto. — Sarebbe un
bel conforto sapere che dobbiamo soltanto saltare al di là di quel foro per
arrivare sani e salvi nel nostro tempo. Già, ma... come possiamo esserne certi?
Kelvin si batté la fronte con il palmo. — Ma è evidente, signor maggiore.
Cos'altro potrebbe esserci, al di là?
— Cercate di ragionare, tenente. Siete talmente ansioso di tornare alla nave
che state considerando i paladoriani come avversari bonaccioni, i quali prima vi
ripuliscono ben bene a poker e poi vi restituiscono il denaro alla fine della
partita.
— Come dite, signore?
— Perché ci avrebbero colpiti con una... una bomba-temporale, per poi trarci
in salvo? Che ne sappiamo che non ci sia uno strapiombo di mille metri, al di là di
quel buco?
— Se così fosse, non potrebbero trarre in salvo la loro simile.
— Chi lo dice? Una volta che noi ci fossimo ammazzati, nel salto, loro
potrebbero rimettere in qualche modo a fuoco l'apertura e lasciar passare la
prigioniera sana e salva.
La faccia rosea di Kelvin era rabbuiata dal dubbio. — Mi sembra un
ragionamento un po' tortuoso, signor maggiore. Potremmo sempre spingere
avanti per prima la prigioniera!
— E lasciare magari che ci chiudano il passaggio in faccia? Non voglio
ragionare in modo tortuoso, tenente. Ma nella situazione in cui siamo non
possiamo permetterci di agire in base a un'ipotesi sbagliata. — Giyani si avvicinò
alla paladoriana, le indicò il disco, poi accennò un movimento ad arco con la
destra. Lei lo fissò per un istante, fece udire un breve sibilo, poi imitò il gesto. Il
suo sguardo ritornò a posarsi su McErlain e gli occhi del sergente rimasero fissi
in quelli di lei in un modo che Surgenor trovò vagamente inquietante.
— Ecco, vedete, signore? — disse Kelvin. — Ci fa capire che dobbiamo passare
di là.
— Ne siete proprio sicuro, tenente? Potete garantirmi che quando un
paladoriano ripete un gesto non intenda dire "no" o "lasciate perdere"?
Surgenor si decise a staccare gli occhi dal sergente. — Qualche ipotesi
dobbiamo pur farla, maggiore. Proviamo a gettare qualcosa di pesante al di là del
cerchio e vediamo se fa rumore quando atterra.
Giyani assentì. Surgenor si avvicinò al piccolo cratere creato dal Modulo
Cinque durante l'urto iniziale con il suolo e raccattò una pietra grossa quanto un
pallone da football. La trasportò fino al disco e sollevatala con tutt'e due le mani
la scagliò al di là. Alla scomparsa della pietra seguì il più assoluto silenzio.
— Questo non prova niente disse Surgenor. — Forse il suono non passa
attraverso l'apertura.
— Il suono è una vibrazione — osservò Giyani, pensoso. — Anche la luce delle
stelle è una vibrazione, e le stelle possiamo vederle, là dentro.
— Ma... — Surgenor cominciava a perdere la pazienza. — In ogni modo, io
sono pronto a correre il rischio.
— Ci sono! — intervenne Kelvin. — Possiamo dare un'occhiata verso il basso.
— Senza aspettare il permesso del maggiore, s'inerpicò su per l'argenteo tronco
di un albero e strisciò poi lungo un ramo orizzontale che si stendeva vicinissimo
al cerchio buio. Una volta arrivato il più vicino possibile, si fermò in equilibrio
instabile, aggrappandosi ai rami secondari, e si riparò gli occhi con l'altra mano.
— Tutto a posto, signore! — gridò. — Vedo benissimo la sabbia del deserto!
— Quanto più in giù?
— Un metro appena. È a un livello più alto rispetto al terreno da questa parte.
— Ecco che cosa ha provocato l'urto, quando siamo passati di qua — disse
Surgenor. — Siamo fortunati che il livello del suolo si sia alterato di un metro
appena, in alcuni milioni d'anni.
Inaspettatamente, Giyani sorrise. — Bravo, tenente. Ora venite giù, e vedremo
di costruire una specie di rampa per arrivare all'orlo.
— A che scopo? — La voce di Kelvin era acuta e c'era una specie di sorriso
teso e disperato sulla liscia faccia giovanile. — Da qui posso farcela benissimo.
— Tenente! Venite giù...
— A Giyani morì la voce in gola mentre Kelvin spiccava un balzo sgraziato
verso il cerchio. Nello spiccare il salto, il giovane parve scivolare un poco,
perdendo considerevolmente la spinta, ma nell'aria riuscì a inclinarsi in avanti,
come se stesse per tuffarsi in acqua. Mentre il suo corpo spariva attraverso la
metà inferiore del disco, una delle gambe intersecò l'orlo delle tenebre, proprio
all'altezza della caviglia. Uno scarpone militare cadde tra la vegetazione
sottostante con un tonfo sordo e sinistro. Prima ancora di scorgere il rosso del
sangue, Surgenor capì che il piede era rimasto nello scarpone.
— Idiota d'un ragazzo — proruppe Giyani, disgustato. — Ha voluto rovinarsi
per forza.
Surgenor gli afferrò il braccio. — Lasciate perdere, ora. Guardate il cerchio,
piuttosto!
Il nero disco di tenebre si stava restringendo.
Surgenor osservava affascinato mentre il cerchio continuava a contrarsi, come
l'iride di un occhio che reagisca alla luce, fino a che il diametro venne ridotto
all'incirca a un paio di metri soltanto. Perfino dopo che il movimento concentrico
era definitivamente cessato, lui continuò a fissare l'orlo, come per assicurarsi
che quella porta sul futuro non svanisse completamente.
— Brutto affare, David — mormorò Giyani. — Sì, gran brutto affare.
Surgenor assentì. — Si direbbe che la forza che tiene aperto quel foro venga in
parte spesa quando qualcosa passa di là. E se la contrazione è proporzionale alla
massa trasmessa... Secondo voi quant'era il diametro, prima che Kelvin
passasse?
— Circa tre metri.
— Mentre adesso saranno due: il che significa che l'area è stata... dimezzata.
I tre uomini si fissavano l'un l'altro, mentre eseguivano il semplice calcolo
aritmetico che li rendeva nemici mortali: poi lentamente, istintivamente,
cominciarono a prendere le distanze.
— Sono addoloratissimo — disse il maggiore Giyani — ma non c'è scopo a
continuare questa discussione. Non sussiste il minimo dubbio su chi debba
essere il prossimo a passare. — Il sole del tardo pomeriggio, riflettendosi dal
verde intenso della vegetazione della giungla, faceva apparire la sua faccia più
pallida del solito.
— Vale a dire voi, naturalmente. — Surgenor si guardò le mani, scorticate in
diversi punti dopo tutto il lavoro fatto per costruire una rozza rampa fino all'orlo
inferiore del cerchio.
— Non dite "naturalmente" in quel tono! Capita che io sia il solo, qui, ad avere
avuto nozioni particolareggiate sull'intera situazione paladoriana. Questo, unito
al mio addestramento speciale, fa sì che il mio rapporto su questa faccenda
sarebbe senz'altro il più utile per il Comando di Spedizione.
— E io dissento — ribatté Surgenor. — Chi vi dice ch'io non abbia un'acuta
memoria visiva?
— Chi vi dice che non l'abbia io? — La destra di Giyani si posò, con apparente
noncuranza, sul calcio della pistola. — In ogni modo, con le tecniche ipnotiche
disponibili, non è tanto questione di quello che può essere ricordato quanto di
ciò che uno si è preso il disturbo di osservare.
— In tal caso — intervenne McErlain — voi che cosa avete osservato, di
questa giungla?
— Che cosa intendete dire, sergente? — Giyani parlò in tono spazientito.
— Vi ho fatto una semplice domanda. C'è qualcosa di insolito, nella giungla in
cui ci troviamo. Un osservatore di prim'ordine come voi dovrebbe averlo già
notato, a quest'ora. Dite, allora, cos'è? — McErlain fece una pausa, poi aggiunse:
— Signore.
Giyani batté le palpebre. — Non mi sembra il momento adatto per i giochi di
società.
Le parole del sergente avevano pizzicato una corda nella memoria di
Surgenor, ricordandogli che anche lui aveva avvertito qualcosa di insolito in quel
luogo, qualcosa che rendeva la giungla diversa da ogni altra giungla in cui si
fosse trovato. — Sentiamo — disse.
McErlain, prima di parlare, si guardò attorno con aria trionfante, quasi di
possesso. — Non ci sono fiori.
— E con questo? — Giyani sembrava disorientato.
— I fiori hanno il compito di attrarre gli insetti. È così che quasi tutte le piante
si riproducono: attraverso insetti alati che raccolgono il polline sulle zampe e lo
spargono attorno. Tutto questo verde... — McErlain indicava la circostante
muraglia di fogliame — ... è stato costretto a riprodursi in qualche altro modo.
Un altro modo che non dipende da...
— Dalla vita animale! — proruppe Surgenor, chiedendosi come mai non ci
fosse arrivato prima, da sé. Quella giungla, l'antico mondo verde di Palador, era
silente. Nessun animale si muoveva nel sottobosco, non c'erano canti di uccelli,
né ronzii di insetti nell'aria immobile.
— Osservazione davvero interessante — ammise gelido Giyani. — Non certo
rilevanti, in ogni modo, agli effetti del problema immediato.
— Questo Io dite voi! — McErlain parlava con un'esultanza selvaggia, che
indusse Surgenor a guardarlo con maggiore attenzione. Il grosso sottufficiale
sembrava in posizione di riposo, ma i suoi occhi erano fissi in quelli di Giyani. Si
teneva stranamente vicino alla taciturna femmina paladoriana. Sembrava quasi
(quel pensiero turbava Surgenor) che tra McErlain e la donna aliena si stesse
creando una specie di legame. Surgenor spostò l'attenzione sulla rampa
costruita con i tronchi abbattuti dal modulo. La base della rampa era a soli pochi
passi da lui, e due secondi gli sarebbero bastati per balzare in cima e varcare la
porta sul futuro... ma aveva la tragica certezza che al sergente sarebbe bastato
mezzo secondo soltanto per abbatterlo. La sua unica speranza stava nella
possibilità che Giyani e McErlain si lasciassero trascinare a tal punto dal loro
conflitto personale da dimenticare di tenere d'occhio lui. Senza averne l'aria, si
avvicinò alla rampa, e intanto cercava un modo per spingere i due militari a un
vero e proprio scontro frontale.
— Maggiore — buttò là, con indifferenza — voi, se ho capito bene, vi
preoccupate soprattutto del Comando della Spedizione, non è vero?
— Precisamente.
— Bene, e non avete pensato che i paladoriani non hanno messo là quel
tunnel, o corda di salvataggio, o quello che è, per nostro beneficio? La loro unica
preoccupazione era probabilmente quella di salvare la prigioniera.
— E con questo?
In tal caso, vi si presenta l'occasione di compiere un importantissimo gesto di
buona volontà. Un gesto che potrebbe indurre i paladoriani a collaborare di
buon grado con le nostre forze. Se voi rimandaste la prigioniera nel suo tempo,
compireste qualcosa di veramente positivo nell'interesse dei più. Che valore
possono avere le nostre tre vite contro...
Con un movimento rapido, Giyani slacciò la cinghia della fondina. — Non
cercate di fare il furbo con me, David. E scostatevi subito da quella rampa.
Surgenor provò una fitta di panico, ma non si mosse. — Che cosa ne dite,
maggiore? La mente paladoriana ci è talmente estranea che non abbiamo alcuna
idea di ciò che quella donna sta pensando. Non possiamo scambiare con lei né
una parola né un'idea ma, se la rimandiamo al di là di quel cerchio, le nostre
intenzioni diverranno chiare in modo inequivocabile. — Aveva posato
distrattamente il piede sulla base della rampa.
— Indietro! — Giyani aveva afferrato il calcio dell'arma e la stava sfilando
dalla fondina.
Il fucile di McErlain fece udire un leggero scatto. — Togliete la mano da quella
pistola — ordinò brevemente il sottufficiale.
Giyani s'impietrì. — Non fate l'idiota, sergente. Non vedete quello che
Surgenor sta tentando di fare?
— Non cercate di estrarle quella pistola, vi ripeto.
— Ma chi credete d'essere? — Giyani era quasi cianotico per la rabbia. — Qui
non siamo sulla...
— Coraggio — lo sollecitò McErlain, con un'amabilità che non prometteva
niente di buono. — Lanciate un'altra frecciata sul sottoscritto e la "Georgetown".
Accusatemi un'altra volta di genocidio.
— Non stavo affatto...
— Sì, invece! Da un anno a questa parte non ho sentito altro da voi, maggiore.
— Mi dispiace.
— Non scusatevi... era tutto vero, purtroppo. — Lo sguardo di McErlain si
spostò lentamente da Giyani alla figura enigmatica della paladoriana e viceversa.
— Sono stato uno dei fucilieri di quella spedizione. Non sapevamo niente della
strana situazione riproduttiva di quegli indigeni; non sapevamo che un pugno di
maschi dovesse preservare l'onore della razza col fingere un attacco, come
voleva il rituale. Tutto quello che sapevamo era che una manica di grigi gorilla ci
stava piombando addosso con le lance. E così, li abbiamo rasi al suolo.
Surgenor bilanciò il suo peso, preparandosi a schizzare su per il singolo tronco
che formava la spina dorsale della rampa.
— Continuavano a venirci contro — disse McErlain, il volto reso solenne dalla
tristezza. — E noi continuammo ad abbatterli... e la vicenda si riassunse in
queste poche parole. Soltanto in seguito venimmo a sapere che avevamo
cancellato un intera specie di esseri intelligenti.
Giyani allargò le braccia. — Mi dispiace, McErlain. Non sapevo come stessero
le cose. Ora però, dobbiamo parlare della situazione attuale.
— Ma è proprio di questo che sto parlando, maggiore. Non l'avevate capito? —
McErlain sembrava perplesso. — Credevo che l'aveste intuito, questo.
Giyani prese un profondo respiro, andò verso il sergente e, quando parlò, la
sua voce era ferma. — Voi avete trent'anni, McErlain. E sappiamo benissimo tutti
e due che cosa voglia dire questo per voi. Ora, ascoltatemi attentamente. Vi
ordino di consegnarmi quel fucile.
— Me lo ordinate, avete detto?
— Ve lo ordino, sergente.
— Con quale autorità?
— Lo sapete benissimo, sergente. Sono un ufficiale delle forze armate del
pianeta sul quale entrambi siamo nati.
— Un ufficiale! — L'espressione sconcertata di McErlain divenne più
pronunciata. — Ma allora non capite. Proprio non capite... Quando siete
diventato ufficiale dell'esercito del pianeta sul quale entrambi siamo nati?
Giyani sospirò. — Il dieci giugno del 2276.
— E siccome siete un ufficiale vi credete in diritto di darmi degli ordini?
— Voi avete trent'anni, McErlain.
— Ditemi una cosa... signore. Sareste stato in diritto di darmi ordini il nove
giugno del 2276?
— No, naturalmente — rispose in tono conciliante Giyani. Tese la mano e
afferrò la canna del fucile che l'altro imbracciava.
McErlain non si mosse. — Ora, in che giorno siamo?
— Come faccio a dirvelo?
— Vi farò la domanda in modo diverso: siamo in data posteriore o anteriore al
dieci giugno 2276?
Giyani mostrava i primi segni di stanchezza. — Non siate ridicolo, sergente. In
una situazione come questa, è il tempo soggettivo che conta.
— Questa poi mi giunge nuova — commentò McErlain. — Fa parte del
Regolamento, o l'avete presa dal manuale che dovrà scrivere il nostro amico,
laggiù, il quale pensa che io non lo veda avvicinarsi sempre di più alla rampa?
Surgenor tolse il piede dal tronco argenteo e aspettò, con la sensazione
sempre più netta che un elemento nuovo, inesplicabile e pericoloso, si fosse
aggiunto alla situazione. La paladoriana si era calata il cappuccio sulla fronte, ma
i suoi occhi sembravano fissi su McErlain. Surgenor aveva la strana convinzione
che la donna comprendesse quello che il sergente stava dicendo.
— È così, eh? — Giyani alzò le spalle, si allontanò da McErlain e si appoggiò
contro la base di un grosso albero dalle foglie gialle. Rivolse la sua attenzione a
Surgenor. — È un'impressione mia, David, o quel cerchio si è ristretto un po'?
Surgenor osservò attentamente il disco nero, con l'incongrua visione di
stellato, e si convinse più che mai che era urgente fare qualcosa. Il cerchio
sembrava lievemente più piccolo. — Potrebbe dipendere dall'aria che passa
attraverso. L'aria umida ha una massa notevole.
Smise di parlare perché Giyani si era portato rapidamente dietro l'albero al
quale un istante prima si appoggiava. Dal punto dove stava, Surgenor era in
grado di vedere che il maggiore stava estraendo la pistola. Si gettò al riparo della
rampa, per proteggersi, ma nello stesso istante il fucile di McErlain lasciò partire
una raffica. Doveva essere regolato sulla potenza massima, perché il raggio ultra
laser trapassò di netto lo spessore del tronco... e poi il petto di Giyani. Il
maggiore cadde in un ammasso di sangue e di fuoco. L'albero oscillò per qualche
secondo, traballando sul tronco incenerito, poi si inclinò per abbattersi
fragorosamente in mezzo ad altri alberi.
Rendendosi conto in ritardo che la rampa non gli offriva alcuna protezione,
Surgenor si rialzò e affrontò McErlain. — Tocca a me, ora?
Il sergente assentì.
— Farete bene a saltare al di là di quel foro, prima che sparisca — disse.
— Ma... — Surgenor fissava l'assurda coppia: il grosso sergente McErlain, e la
piccola, grigia figura della paladoriana, e la mente gli ronzava di congetture. —
Voi non venite? — chiese, istupidito.
— Io ho da fare qui,
— Ma...
— Fammi un favore, amico — lo interruppe McErlain. — Di' loro che mi sono
riabilitato. Ho dato una mano a uccidere un pianeta, una volta... ora mi sto
adoperando per riportarne in vita un altro.
— Non vedo come.
McErlain diede un'occhiata alla creatura aliena. — Presto lei partorirà. I suoi
piccoli non potrebbero sopravvivere senza aiuto. Temo che il cibo scarseggi, qui.
Surgenor s'incamminò su per la rampa e si fermò accanto al circolo nero. — E
se non ce ne fosse, di cibo? Come fai a sapere se qualcuno di voi sopravvivrà?
Dobbiamo riuscirci — disse con semplicità McErlain. — Da dove pensi che sia
venuta, la popolazione di questo pianeta?
— Potrebbe essere venuta chissà da dove. Le probabilità che la razza
paladoriana abbia avuto origine qui, in questo punto, sono talmente scarse che...
— Surgenor s'interruppe, con un senso di colpa, nel leggere il disperato bisogno
di sperare che ardeva in fondo agli occhi di McErlain.
Diede un ultimo sguardo al sergente e alla sua enigmatica compagna, poi si
tuffò attraverso il disco nero. Avvertì un istante di terrore, sentendosi cadere
nelle tenebre, poi atterrò sulla sabbia fredda e si tirò su, rabbrividendo. In alto,
brillavano le stelle ormai familiari della notte paladoriana, ma l'attenzione di
Surgenor era tutta presa dal cerchio dal quale era appena emerso. In quest'altra
era, il disco aveva una luminosità verdastra, si affacciava dalla notte sul giorno, e
fluttuava poco al di sopra del livello del deserto. Lo vide rimpicciolire a poco a
poco fino ad assumere le dimensioni di un piatto dorato, poi di una gemma
incandescente. L'aria sibilava attraverso l'apertura con una nota lamentosa e
sempre più acuta, finché il foro si confuse con lo stellato e, alla fine, svanì.
Quando poté riabituarsi all'oscurità, Surgenor riuscì a distinguere la sagoma
del tenente Kelvin che giaceva sulla sabbia, a poca distanza. La fasciatura
provvisoria, sulla caviglia, era visibile come una macchia biancastra.
— Vi serve aiuto? — chiese Surgenor.
— Ho già trasmesso un S.O.S. — disse debolmente Kelvin, senza muoversi. —
Dovrebbero essere qui a momenti. Gli altri dove sono?
— Sono rimasti là. — Con una parte della sua mente, Surgenor diceva a se
stesso che McErlain e la paladoriana erano già morti da milioni di anni, con
un'altra parte, però, comprendeva invece che erano ancora vivi, perché passato
presente e futuro sono una cosa sola. — Non possono farcela.
— Volete dire... che sono già morti da tanto tempo?
— In un certo senso, è così.
— Oh, Cristo — mormorò Kelvin. — Che modo stupido e inutile di andarsene!
È come se non fossero mai vissuti.
— Non proprio — disse Surgenor. C'era, in lui, un illogico guizzo di speranza
che i paladoriani venissero a sapere quello che McErlain aveva fatto per una
creatura della loro razza. Se questo accadeva, sarebbe stato forse l'inizio di una
base per uno scambio di rapporti...
Nel buio, Kelvin mandò un sospiro di stanchezza, — È tempo che ce ne
andiamo da questo pianeta, in ogni modo.
Surgenor assentì. Già si vedeva a bordo della "Sarafand", in viaggio verso
luoghi lontani, ma il ricordo del cerchio luminoso gli rimase negli occhi per
tanto, tanto tempo.
McErlain si mosse debolmente nella penombra della grotta. Cercò di chiamare,
ma la congestione nei suoi polmoni era arrivata al punto che gli riuscì soltanto di
emettere un gorgoglio fievole e secco. La piccola figura grigia all'ingresso della
grotta non si mosse, continuò a fissare pazientemente verso l'esterno e il denso
fogliame umido di pioggia. Non c'era modo, neppure dopo tanti anni, di capire se
lei avesse sentito oppure no. McErlain ricadde supino, mentre la febbre
intensificava la sua stretta, e tentò di rassegnarsi al pensiero di morire.
A conti fatti, era stato fortunato. La donna paladoriana aveva conservato
l'incomunicabilità proprio come ogni altro essere di ogni altra razza aliena con
cui l'umanità fosse mai venuta in contatto, ma era rimasta con lui, accettando il
suo aiuto. Lui era pronto a giurare d'averle letto negli occhi qualcosa di molto
simile alla gratitudine, quando l'aveva assistita durante il difficile periodo del
parto e il conseguente stato di prostrazione. E questo gli aveva fatto bene. Poi
c'erano state occasioni in cui a sua volta si era ammalato, quasi sempre per
avvelenamento, per avere assaggiato frutta, o bacche o piante non commestibili
nel tentativo di procurare cibo adatto per lei e per i piccoli. In quei momenti, lei
non si era mai allontanata dal suo fianco.
Ma la cosa più soddisfacente di tutte era che la paladoriana e i suoi rampolli
erano molto fertili. I figli di quel primo parto quadrigemino erano giovani adulti
ormai, e avevano generato molti altri piccoli. Nel vederli moltiplicarsi, il cancro
del rimorso che l'aveva divorato fin dal tempo dell'incidente della "Georgetown"
aveva cessato di dominare la sua esistenza. Il rimorso restava, naturalmente, ma
lui aveva imparato a dimenticarlo per ore di seguito. Se soltanto fosse stato in
grado di insegnare a quei bambini il proprio linguaggio, a far passare un'idea
attraverso la barriera delle loro strutture logiche, le cose sarebbero andate
anche meglio... ma c'era un limite a quello che un uomo poteva chiedere. Sono un
uomo di trent'anni, si disse McErlain, mentre il mondo della coscienza
s'inclinava paurosamente, sfuggendogli, ed è già molto che mi sia stata offerta la
possibilità di riabilitarmi...
Quella sera sul tardi, mentre la luce del sole filtrava ormai smorzata
attraverso gli alberi, la Famiglia si radunò attorno al giaciglio sul quale giaceva il
cadavere di McErlain. Rimasero tutti in silenzio, mentre la Madre posava una
mano sulla fronte gelida.
"Questo essere è morto" comunicò loro la Madre, silenziosamente. "Ora che il
nostro debito verso di lui è estinto, e che lui non ha più bisogno di noi, ci
metteremo in viaggio verso la grande casa temporale della nostra gente."
Bambini e adulti si presero per mano. E la Famiglia svanì.
Gerald F. Conway
SERVIZIO FUNEBRE
(Funeral Service, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
L'avviso di andare a prendere suo padre gli arrivò prima dell'alba, un mattino
di lunedì. Quando premette il tasto per bloccare il messaggio sul video, lo fece a
memoria, con gesto macchinale. Gli occorsero ancora un paio di minuti per
svegliarsi del tutto (processo accelerato da una manata d'acqua fredda), poi
tornò verso lo schermo e controllò le ore: 3,34. Ci volle un po' prima che le
parole assumessero un senso. Da tre anni Jake stava aspettando quel momento e,
adesso che era arrivato, gli sembrava che l'avessero svegliato a scrolloni da un
sogno particolarmente torpido.
VOSTRO PADRE SARÀ PRONTO MERCOLEDÌ' DICIOTTO MARZO ALLE SEI E
TRENTA DEL MATTINO, ORA CENTRALE. PORTARE LO SCONTRINO AZZURRO.
SI RACCOMANDA LA MASSIMA PUNTUALITÀ.
Jake cancellò lo schermo e rimase un momento seduto lì al buio, lasciando
riaffluire in sé ventiquattro anni di ricordi. Alzò lo sguardo verso l'ologramma
della sua famiglia; le immagini erano lievemente sbiadite, ma la suggestione era
ancora forte. Sua madre, sua sorella, lui stesso, e suo padre. Suo padre, che
guardava in una direzione diversa rispetto agli altri come se fissasse qualcosa al
di là dell'obiettivo che aveva scattato la foto di gruppo. Sei anni prima tutto era
parso più semplice, in un certo senso. Loro erano una famiglia, gente senza età.
L'ologramma lo diceva.
Jack tornò a fissare lo schermo. Mandava ancora un lieve chiarore. Suo padre
era morto da tre anni, ma ora stava per tornare a casa, e forse, chissà, Jake
sarebbe stato in grado di dire tutte le cose che un tempo non aveva detto. E
forse, chissà, tutto sarebbe andato bene. Come una volta.
Passò il martedì mattina a ripulire la casa, mise tutto in ordine, e telefonò ad
Anne. Sua sorella sembrava confusa. In fondo lei non aveva mai compreso bene il
procedimento della Richiamo S.p.A., né lo capiva ora. Jake le spiegò, con
pazienza: — Non pensarci, l'essenziale è che tu sia qui, domani. Passerò a
prenderti. Lui sta per tornare, e avrà bisogno di tutti e due. E anch'io avrò
bisogno di te, Anne.
I lineamenti dolci di lei si addolcirono ulteriormente, le rughe della fronte
vennero spianate da un sorriso. — Non sei mai stato molto buono con papà, Jake.
D'accordo, verrò. — Poi tornò ad aggrottare la fronte. — Si ricorderà di noi? Tre
anni...
— Gli hanno registrato i ricordi, sorellina. Sarà proprio come era allora, il
giorno in cui è morto.
— Proprio come allora?
— Con qualche cambiamento, immagino. Non così vecchio, penso. Né cosi
malato.
Lei assentì. Una ciocca di capelli le scivolò giù da dietro in orecchio, e le
ricadde sulla guancia.
— Avresti dovuto essere là quella sera, Jake. Il libro era importante, non dico
di no, ma fino a un certo punto. Lui avrebbe voluto che ci fossi anche tu. Io lo
capivo.
— Lo so.
Lei si addentò il labbro, si rimise a posto i capelli con il palmo della mano. —
Mi dispiace, Jake — disse. — Sai che mi dispiace...
— Sì — disse Jake — lo so.
Passò un'ora davanti al registratore, cercando di pensare a qualcosa da dire.
Non gli veniva in mente niente. Si sentiva arido e vuoto, e per la millesima volta
si chiese se avrebbe mai portato a termine il libro. E si chiese se ci tenesse
davvero a terminarlo. Il denaro non era un problema, il sussidio di
disoccupazione gli bastava per sbarcare il lunario, e il denaro del padre gli aveva
permesso di procurarsi diverse comodità. Fermò il registratore e si lasciò andare
contro lo schienale del divano; sapeva che gli sarebbe stato impossibile lavorare,
ora. Nel riaprire gli occhi, vide l'ologramma sull'orlo del video e, per la prima
volta, notò la direzione dello sguardo di suo padre: vide dove guardavano gli
occhi. Forse era soltanto un'illusione, là nella stanza in penombra, ma Jake ebbe
la certezza che quegli occhi stessero fissandolo, e che non avessero mai fatto
altro che fissare lui.
Non sapeva che cosa comprare. La circolare della Richiamo lo aveva informato
che i neo-richiamati erano nell'impossibilità di mangiare cibi organici. I liquidi
erano permessi, sebbene non necessari. A questo, prima, Jake non aveva
riflettuto. Avrebbe voluto offrire un pranzo al padre, mentre ora... Comperò una
bottiglia di vino, augurandosi che andasse bene. Lungo tutta la strada per
tornare al complesso residenziale, tenne la bottiglia incartata stretta al petto,
proteggendola, ma solo nella sua mente, dalla pioggia di piccoli frammenti grigi
di cenere. Si sentiva furtivo, e non sarebbe stato assolutamente in grado di
spiegare perché.
Il martedì sera lo passò ad ascoltare la musica in sordina, senza pensare
affatto, senza nemmeno ricordare. Sedeva solo nel piccolo alloggio, ad aspettare
che si destasse qualcosa in lui, qualche stato d'animo diverso dal senso di colpa
sempre più profondo. Non accadeva niente. Lui non cambiava mai.
Passò un'ora, poi si coricò, anche se era presto, e regolò lo schermo per essere
svegliato alle cinque. Giacque a lungo sveglio, a fissare le ombre che
s'incrociavano e si accavallavano sul soffitto, e ad ascoltare i lontani rumori del
traffico sui nastri stradali, trentaquattro piani più in basso.
La sala d'aspetto era gremita. Jake si sentiva a disagio, trovò un angolino
relativamente poco affollato presso la fontanella dell'acqua, da dove poteva
osservare gli altri nella sala. L'ambiente era decorato con gusto in toni un po'
spenti di blu e nocciola. Le foglie di una palma artificiale torreggiavano al di
sopra delle teste delle persone allineate contro la parete opposta, e la fronda più
alta quasi sfiorava il soffitto. La palma era illuminata dal basso da un chiarore
verde pallido che, nella penombra discreta della stanza, faceva apparire la pianta
fresca e quasi viva. L'ambiente, dominato dall'odore della plastica fresca, sapeva
di nuovo. La gente radunata là dentro andava dalla maturità alla vecchiaia. C'era
soltanto un'altra persona suppergiù dell'età di Jake, una ragazza dall'aria timida
con i capelli neri e lisci raccolti in una treccia che le scendeva lungo la schiena.
Vicino a lui, c'era un gruppo di quattro signore anziane, e una di loro, una donna
piccolina, con le fossette, vestita austeramente di marrone, vide che Jake la stava
guardando e subito gli si avvicinò.
— Anche voi in anticipo? — s'informò. La voce era alta, un po' acuta. Gli
arrivava sì e no al petto, e lo guardava di sotto in su, battendo le palpebre. Lui
accennò un'alzata di spalle.
— L'avviso diceva alle sei e mezzo.
— Quasi ci siamo, no? — La signora si guardò intorno, poi tornò a rivolgersi a
Jake, abbassando la voce di un tono.
— Sono talmente tanti! Non pensavo che sarebbero stati tanti. Nessuno dei
volantini pubblicitari diceva quante persone avevano fissato un posto alla
Richiamo per i loro cari. — Pronunciò quelle ultime parole alla svelta, come se
citasse uno slogan. Jake sorrise.
— Qui saranno un centinaio, immagino.
— Soltanto? — Lei continuava a battere le palpebre. — Avrei detto molti di
più.
— No.
— È un parente o un amico? — s'informò la signora.
Jake rimase un momento in forse. — Chi? Ah. — Poi: — Sì, un parente. Mio
padre.
— Io sono qui per mio marito, Thomas. Ha firmato lui stesso i documenti
necessari, spendendo tutto il suo denaro per questa cosa. A me è rimasta la
pensione nuda e cruda. — La signora scuoteva la testa. — Per conto mio, non ne
vedo lo scopo. Non mi sembra... come dire? Decente, ecco.
— Che cosa?
Il Richiamo, naturalmente. Perché si dovrebbe desiderare di riaverli indietro?
Voglio dire, io ero affezionata a Thomas ma... non sarà più la stessa cosa, capite?
— Piegava la testa da un lato, come per guardare Jake da un'altra angolatura,
Jake si sentiva a disagio sotto quello sguardo, e distoglieva gli occhi, fissando al
di là della sala, cercando di capire perché quella donna avesse scelto proprio lui
per attaccare discorso.
— Forse non tutti la pensano così — disse.
— Ma qual è lo scopo? Non invecchiano più. Non sono vivi. Ormai sono finiti, è
acqua passata. Sono morti.
— No, non sono morti. La Richiamo li riporta alla vita.
Lei scuoteva la testa, le labbra serrate con fermezza. — Non date retta, non c'è
una parola di vero. Questo lo dicono loro, in quelle loro carte. Ma non sarà più la
stessa cosa, io lo so. Ho parlato con alcuni amici miei, che hanno lavorato al
progetto. Loro sanno tutto. Dicono che Thomas sarà soltanto come... ecco,
com'era l'ultimo giorno. Thomas era un vecchio spilor... sì, ecco, era un tantino
avaro. Non cambierà. Non ricorderà nemmeno d'essere morto. E qual è lo scopo,
allora? Uno si procura una fotografia, ed è la stessa cosa. Vedrete.
— Vedremo, sì — disse Jake, a denti stretti.
Lei lo guardò in modo strano.
— Sperate davvero... — Poi s'interruppe, sorridendo un poco, come tra sé. —
Scusate. Io parlo troppo. Mi dispiace, credetemi. — Gli toccò un braccio. Le sue
dita erano secche e un po' fragili contro il polso di lui. — È vostro padre, avete
detto? — Jake assentì. — voi gli volete bene, e volete che tutto torni a posto, è
così? Lo so. Per mio figlio era stessa cosa, identica.
— Ditemi, vi prego. Com'è cominciata tutta questa storia?
Lei allentò un poco la stretta, ma senza lasciargli il braccio. Sorrideva di
nuovo, ma con una punta di tristezza.
— Com'è nata la Richiamo S.p.A., vorrete dire. — Sbatté le palpebre. — Chissà,
la gente si sforza di agire per il meglio, credo. Poco fa io ho sbagliato, mi dispiace.
— Tacque, lasciò cadere la mano, se la premette contro l'abito, lisciandone le
pieghe. — M'è sembrato che aveste un'aria un po' smarrita, e che voleste
parlare, perché anch'io mi sentivo sola, e forse un po' sgomenta. Mi dispiace. —
S'interruppe, rise. — Lo dico troppo spesso. Thomas dice... diceva... che lo ripeto
troppo spesso. Ha ragione.
Sempre sorridendo, ma stavolta di un sorriso distratto, si scostò da Jake
indietreggiando, e andò a urtare contro la ragazza con la treccia bruna. Trasalì,
istintivamente le sue mani si aggrapparono al braccio della ragazza. Fece per
dire: "Mi spiace" ma poi si trattenne, rise, e si allontanò confondendosi tra la
folla. Jake la seguì con lo sguardo, sentendo qualcosa agitarsi dentro di lui, un
altro sentimento salire quasi alla superficie, poi infrangersi prima di poter
essere analizzato. Gli passò per la mente che avrebbe dovuto cercare di fare
amicizia con la ragazza della treccia, ma poi il ricordo di un'altra ragazza si fece
strada in lui, e lui chiuse gli occhi e si appoggiò contro la parete, in attesa che
venisse chiamato il suo numero.
Gli era impossibile agire, a quanto sembrava. Aveva tanto desiderato quella
ragazza, quella snella, gracile ragazza dagli occhi azzurri e dai soffici capelli
castani; aveva sognato di sposarla, e aveva fatto progetti per l'avvenire, progetti
delicati che avrebbero rivelato il suo valore di uomo e di scrittore. La desiderava
e l'avrebbe sposata, ma qualcosa l'aveva trattenuto: non era sicuro, non poteva
sapere con certezza se lei l'avrebbe accettato. E non voleva chiederglielo, non
poteva, sapendo di dover tornare dal padre, a cercare di spiegargli un altro
fallimento.
Quel ricordo lo pungeva. Tutti i ricordi pungevano. Si sentiva paralizzato dai
ricordi; ciascuno di essi agiva su di lui, gli diceva qualcosa di sé, e creava i
precedenti della sua vita. Era legato, e si muoveva soltanto per inerzia. Così come
si muoveva ora. Avanti, avanti, avanti, giù per un sentiero molto familiare.
La ragazza negra dietro lo stretto bancone gli rivolse un sorriso, un sorriso
accuratamente professionale, e accettò il talloncino azzurro che lui le porgeva.
Infilò lo scontrino nel terminal, sulla sua scrivania, studiò i numeri che
lampeggiavano sul piccolo schermo azzurro, prese nota con l'apposito stilo sul
riquadro sistemato davanti a lei.
— Il signor Grant arriverà subito, signore — disse, e accennò verso un'arcata.
— Da quella parte, poi a destra. — Smise di occuparsi di lui per rivolgersi alla
persona che veniva appresso.
Jake esitò un istante, aspettandosi qualcosa di più. Lei lo ignorò. Dopo una
pausa, durante la quale cercò invano qualcosa da dire, Jake passò oltre, svoltò
nei corridoio e proseguì fino alla saletta in fondo, rischiarata da una luce rosea.
Suo padre era là ad aspettarlo.
— Ciao, papà.
Fu tutto. Jake non riuscì a trovare nient'altro da dire. "Come stai" gli suonava
male, malissimo. Avrebbe voluto trovarsi dappertutto tranne che lì.
Il padre si girò verso l'uomo che gli stava accanto, e che Jake non aveva notato.
— Vado con lui? — chiese. Jake rimase sorpreso dal tono remissivo di quella
voce. La ricordava più sonora, più profonda. L'altro, inappuntabile nel vestito
nero, premette una mano sulla spalla del vecchio, sospingendolo un poco. — Sì,
signor Grant. Ora voi andate con vostro figlio. — Rivolto a Jake, aggiunse: —
Dovrete avere un po' di pazienza. Le prime ore saranno nebulose, per lui. È
disorientato. — Il signore inappuntabile controllò l'ora, rimise l'orologio nel
taschino. — È stato richiamato appena un'ora fa; uno dei primi, da quando è
stato portato a termine il progetto.
Poi l'uomo in nero estrasse di tasca un piccolo oggetto cilindrico e lo diede a
Jake. — Questo è il suo dispositivo. Stasera, prima di andare a dormire, date un
giro a quella chiavetta. — Jake lo guardava, incuriosito, e l'altro spiegò. Jake
cominciò a provare una strana stretta allo stomaco. Guardò il padre, cercando di
vedere gli ingranaggi e il meccanismo a orologeria che, lo sentiva, dovevano
essere nascosti internamente. Si chiese se quella carne fosse carne autentica, o
soltanto un'amalgama di materie plastiche. Infilò il cilindro nella tasca, poi prese
il padre per un braccio e disse: — Vieni, papà. Andiamo a casa.
Il padre fu silenzioso, durante il tragitto.
Jake fissava dinanzi a sé, guardando a volte il nastro stradale, a volte i
comandi automatici che aveva davanti, non volendo girarsi verso il ricordo che
gli sedeva accanto.
"No, non un ricordo, qualcosa di più" pensava. Quello era suo padre: dentro
quel corpo, suo padre viveva. Poi, Jake si concentrò sul nastro stradale e, ogni
tanto, quando all'improvviso ricordava da dove era venuto il vecchio seduto
accanto a lui, sentiva un brivido corrergli su per la spina dorsale, si aggrappava
istintivamente ai noti strumenti di guida e vi si teneva ben stretto, finché il
brivido non era passato e lui poteva ancora una volta rilassarsi.
Anne si fermò presso la porta dell'appartamento, la mano sospesa sul quadro
d'ingresso. Alle sue spalle, Jake disse: — Coraggio, Anne. Forse lui si starà già
chiedendo perché tardiamo tanto.
Lei si girò a guardarlo, i lineamenti inespressivi, sebbene la tensione fosse più
che visibile nei gesti, nelle labbra. — C'era proprio bisogno che lo lasciassi solo?
Avrei potuto venire da sola.
— Volevo parlarti, prima che tu lo vedessi. Farti capire come stanno le cose.
— Capisco come stanno le cose, Jake. Sei tu che non capisci.
— Non ricominciamo con la solita discussione, Anne. Su, entra. Sii brava.
Lei indietreggiò, accennò alla chiave della porta. — Vai avanti tu. È casa tua.
Seccato, lui allungò una mano, premette i tasti della combinazione, scivolò fra i
battenti nell'anticamerina angusta. Il padre era seduto sul divano, fissava la
schermo-finestra. Al rumore della porta che si apriva, il vecchio si mosse, si
voltò. Sorrise, azzardando un sorriso timido, esitante; a poco a poco ritrovava
l'orientamento. Comincia a capire quello che è successo, pensò Jake, sa che
l'abbiamo riportato in vita.
— Papà, c'è Anne. Ti ricordi di Anne?
— Certo che mi ricordo — disse il vecchio. Il suo volto si aprì a un altro
sorriso, mentre loro due si avvicinavano. — Come va, Anne? Come stai?
Per qualche istante rimasero a guardarsi, poi Anne fece per muovere un passo
avanti e si fermò. Inclinò un poco la testa da un lato, poi un po' dall'altro lato:
studiò la faccia del vecchio, parve mormorare qualcosa a se stessa e infine si girò
a guardare Jake. Era pallidissima.
— Jake... — disse con voce alterata.
— Anne è un po' stanca, papà — disse subito Jake. — Perché non ti siedi un
momento? Noi torniamo subito. Tu aspettaci, sai?
Un cenno d'assenso. — Certo, Jake. Fate pure.
Il vecchio tornò a sedersi sul divano.
Jake afferrò la mano di Anne proprio all'altezza del polso, la strinse forte,
trascinando la sorella nel cucinino. — Che cosa fai, vuoi offenderlo? — Jake si
controllò, attirò la sorella più vicina a sé. — Non potresti almeno... — Ma lei
stava piangendo.
— Proprio come papà — singhiozzò — proprio com'era lui. Tale e quale, Jake.
Non credevo... — e la voce le mancò, mentre rabbrividiva e tentava di liberare la
mano. Jake le lasciò andare il polso, la circondò con l'altro braccio e l'attirò più
vicina a sé, lasciando che lei si stringesse al suo petto. Oltre questo, non sapeva
proprio che fare. Attraverso l'arco, nella stanza principale, vedeva il padre chino
in avanti, intento a fissare il traffico sui nastri stradali giù giù in basso, così come
appariva sulla schermo-finestra. L'aveva visto tante volte stare così, in passato,
che adesso fu quasi un trauma per lui vederglielo fare di nuovo. Suo padre aveva
passato ore accanto alla schermo-finestra, dopo avere regolato il contrasto dello
schermo sul massimo, affinché gli occhi deboli potessero vedere attraverso lo
smog e distinguere i particolari più distanti.
Perché questo turbava Jake, ora? Il ricordo e la realtà erano una cosa sola: che
fosse quella, la causa?
— Perché l'hai riportato in vita? — chiese Anne. La sua voce risuonò
improvvisa; erano rimasti in silenzio, per diversi minuti. Jake si strappò alle sue
fantasticherie, allentò la stretta attorno alle spalle di Anne. Lei non si scostò.
— Perché? Perché gli voglio bene. Perché voglio... parlargli. Pensavo di poterlo
fare, ora.
— E perché ora dovrebbe essere diverso? Voi due eravate quasi due estranei,
verso la fine. Perché dovresti aspettarti di... — S'interruppe, tirò il respiro, espirò
lentamente e tornò ad abbandonarsi contro di lui. — Perdonami, Jake. Sono tutta
sossopra e non so più che cosa è giusto dire o non dire. In tutti questi anni, non
avevo pensato all'impressione che m'avrebbe fatto rivederlo... be', vivo, così. Era
qualcosa di cui tu parlavi, per cui avevi speso la tua parte di eredità, e io non
credevo realmente che sarebbe mai accaduto. Ma ora lui è là, e io lo conosco e
non lo conosco, e non so che cosa dire.
— Hai già detto molto.
— Eppure niente, è così? — Si scostò appena un poco da lui, per poterlo
scrutare attraverso la frangetta che le ricadeva sugli occhi. — So di dire cose che
non hanno senso. E so che tu volevi sentire ben altro da me. Devi essere in uno
stato d'animo terribile, Jake. Mi dispiace. — Era lei che lo stringeva a sé, ora, e
Jake si sentiva confuso, non capiva in che modo le parti si fossero capovolte,
tanto che adesso era lei a dare conforto.
— Non lo so quello che provo, Anne. Sinceramente.
— No?
Lui scosse la testa. Il padre si era spostato in modo che lui non poteva più
vederlo, probabilmente per avvicinarsi di più alla schermo-finestra.
— È quello che voglio, credo — disse Jake. — Ho bisogno di vederlo ancora
una volta. Forse potrò... fare qualcosa.
— Ma sai che non puoi — disse lei, alzando la voce all'inizio della frase e
lasciandola poi ricadere fino a un mormorio, nell'accorgersi di parlare troppo
forte. — Non puoi. Il passato è passato, e quello non è veramente papà. Non puoi
cambiare niente, non è possibile. Jake, tutto quello che hai è un insieme di
ricordi. Non si può fare all'amore con un ricordo.
Lui si ritrasse, scandalizzato dall'analogia, senza considerare quello che lei
aveva detto ma solo il modo in cui l'aveva detto.
— Lasciamo perdere ora, Anne. D'accordo? Penso che dovremmo tornare da
lui.
— Tornaci tu, Jake. Io devo andarmene. — Lei si allontanò di un passo, si
fermò. — Ho una famiglia, lo sai. Non ho più bisogno di lui per colmare un vuoto,
non più. E non posso chiedergli... chiedere a quel simulacro qualcosa che non
potrebbe mai darmi.
Poi se ne andò, sgusciando fuori dall'appartamento prima che Jake potesse
trattenerla. Il vecchio intento a osservare la schermo-finestra non vide la figlia
andare via. Jake si disse che era meglio cosi. Papà non avrebbe capito.
Jake porse al padre un bicchiere pieno a metà di vino, con un singolo cubetto
di ghiaccio che ballonzolava e rigirava immerso nel liquido rosso scuro. Il
vecchio accettò il bicchiere e lo resse con tutt'e due le mani, appoggiandolo sulle
ginocchia. Osservava Jake prendere posto di fronte a lui, e i suoi occhi non si
staccavano mai dalla faccia del giovane. Jake non riusciva a decifrare
l'espressione del padre; era un'espressione distaccata, non del tutto paterna,
non del tutto reale. Jake levò il bicchiere e il padre levò il proprio, con gesti
appena un po' stentati.
— Vuoi fare un brindisi? — chiese Jake.
— No, Jake. Il vino è tuo, toccherebbe a te — disse sorridendo.
Jake provava una sensazione strana, si sentiva come trascinato. La scena
aveva un che di remoto, e lui ne era consapevole. Esisteva soltanto a causa
dell'impulso che l'aveva messa in movimento fin dalla prima giovinezza di lui.
Jake non poteva agire di propria volontà.
— Alla salute — disse. Sorseggiò il vino, e anche il vecchio assaggiò il suo.
— Come va il libro?
— Bene. Ci sto lavorando.
— Hai un editore?
— Non ancora.
Il padre scosse la testa, dicendo sottovoce qualcosa che, Jake non poté
afferrare.
— Penso che si venderà, papà. Ne sono sicuro.
— Nessuno è miglior giudice di te, Jake.
— Non approvi?
— Non ha importanza. Si tratta del tuo lavoro, della tua vita.
Jake assentì, senza commenti.
Il padre bevve un altro sorso di vino, si guardò attorno. Fermò lo sguardo
sull'ologramma, le labbra si mossero e si contrassero, sorrisero. — Niente è
cambiato, vedo. Hai ancora la fotografia.
— Sì. — (Cos'altro, che cosa si poteva dire?)
— Di quand'è, di tre anni fa? No, sei, ormai. Tanto tempo è passato? Sembra
che non sia cambiato niente. Proprio niente.
— Ho voluto che tutto rimanesse com'era.
— Ma perché? Per me? Non dire sciocchezze, Jake.
— Ma sì. Ho lasciato tutto com'era, così... — (Così... cosa? Perché tutto
com'era? Scomodo, strano.)
— Parla, Jake. Che dicevi?
— Niente, papà.
— Hmm. - Il vecchio accavallò le gambe, tornò a guardare la schermo-finestra.
Del grigiore filtrava da entrambi i lati dello schermo, oscurando buona parte
dell'immagine. — Quella è diversa, però, non era così nebulosa, l'ultima volta che
l'ho vista. La situazione è peggiorata?
— Sì, molto. È pericoloso camminare all'esterno.
— Quei filtri, funzionano, poi?
— Più o meno.
— Più o meno. — Il padre sospirò. — Andiamo, Jake... più o meno che cosa
vorrebbe dire? Devi imparare a essere più esplicito, figliolo.
— Scusa, papà, intendevo dire che a volte funzionano bene, a volte non troppo.
La gente muore.
Il padre fece udire un "ahh" e continuò a sorseggiare il suo vino, rotolando il
bicchiere avanti e indietro tra le palme, quando non beveva.
— Che fine ha fatto quella ragazza, come si chiamava, Susanne?
— Susan. Non ci siamo più visti molto, papà.
— Non molto? Vuoi dire che l'hai lasciata andare?
— Qualcosa del genere.
— Jake, non porterai mai qualcosa a compimento? Resti sempre intrappolato
a mezza strada tra l'inizio e la fine. Cos'è successo, tra te e quella ragazza?
— Niente, papà, proprio niente.
— Andiamo, Jake. Tra poco compirai venticinque anni, e a venticinque anni è
giusto che un uomo si sposi. Non puoi continuare a lasciare le cose a mezzo così.
Chiama immediatamente quella ragazza, falla venire qui, e studieremo il da farsi.
Sì, ecco quello che faremo. Studieremo il da farsi.
— Jake tentennò il capo. Il padre non vide quel gesto, non stava guardando
Jake. Guardava altrove, gli occhi fissi su un punto in lontananza al di là di Jake,
proprio come erano fissi nell'ologramma che Jake teneva sulla scrivania.
— No, papà.
— Come? Perché no?
— Di anni ne ho quasi ventotto. Sono passati tre anni, papà.
— Eh? Eh, già! Bene, telefona a quella ragazza, in ogni modo. Jake, credi a me,
non è giusto che un ragazzo della tua età si lasci scappare le cose di mano.
Chiamala, subito.
— Papà, sono tre anni che non la vedo.
— Come sarebbe a dire, che non la vedi? Ieri... — S'interruppe, parve
impappinarsi. — È passato del tempo, vero, Jake?
— Sì, papà.
Rimasero un poco in silenzio, ciascuno sorseggiando il proprio vino, l'uno
guardando l'altro, l'altro fissando nel vuoto.
— Papà...
— Jake — interruppe il vecchio. — Jake, tu non l'hai dimenticata, vero?
— Chi, papà?
Il padre arrossì. — Tua madre, Jake. — Prese un respiro, lasciò uscire il fiato
adagio adagio; in modo indistinto, Jake sentiva frusciare qualcosa nel petto di
suo padre. Qualcosa che aveva un suono diverso dalla carne. — Hai avuto buona
cura di lei?
— È morta un anno dopo di te, papà. Era ammalata.
— Dovresti avere cura di lei, Jake — disse il padre, continuando il discorso.
Non si era interrotto un istante, sembrava che non avesse udito quello che aveva
detto Jake. — È stata buona con te. E con me, anche, lo so. Non tutte le donne
avrebbero resistito accanto a un uomo così a lungo come lei.
— Papà, è morta.
— Abbi cura di lei, Jake, fai in modo che non debba soffrire come me. Farai di
tutto, vero?
— Papà... — Ma il padre non lo ascoltava.
No. Suo padre non aveva assolutamente compreso.
— Le cose sono cambiate, papà — disse Jake, dolcemente. Il padre lo guardò.
Gli occhi erano inespressivi; Jake vedeva riverberata in essi la luce della lampada
alle sue spalle. Qualche particolare qualità di plastica. — Le cose sono cambiate.
— Sciocchezze. Certo, lo smog è peggiorato, ma tu? E tua sorella Anne? No. Voi
siete sempre gli stessi. Tutti e due, proprio come eravate ieri, come siete sempre
stati. — Il vecchio rise, si portò il bicchiere di vino alle labbra e bevve. — No. No.
Non siete cambiati. Niente è cambiato.
— Papà, perché le cose non andavano bene, tra noi?
— Come? In che senso, non andavano bene?
— Tu non mi hai mai ascoltato, lo sai. Anche ora, non hai sentito una parola di
quello che ho detto.
— Non è vero, Jake, non è vero. Ho sentito tutto quello che hai detto, tutto. Sei
tu che ti metti in mente certe cose.
— Non me le metto in mente, papà. Tutto quel discorso che hai fatto poco fa,
me l'hai fatto anche quando stavi per morire, dicendomi che dovevo avere cura
della mamma. Ma lei è morta, papà. È morta!
— E dovresti essere tu a badare a lei. Sai che sarebbe tuo dovere.
— Non una parola di quello che ho detto.
— Sciocchezze. Sciocchezze.
— Non una parola, non una parola. Non mi senti proprio.
— Ho sentito tutto.
— Ma non capisci, non capirai mai, neppure ora.
— Di che cosa stai parlando, Jake?
— Non posso cambiarti. Il ricordo di te mi fa male, vorrei migliorarlo, farlo
diventare un buon ricordo... ma non posso. Non posso cambiarti, proprio come
non posso onestamente cambiare quel ricordo. Dio!
— Jake, Jake, sei così giovane. Vedrai, ancora qualche anno e...
— Ho ventotto anni, papà. E non ho combinato niente nella mia vita, finché
sono stato sotto di te.
— Come fai a dire che hai ventotto anni? Vuoi che non sappia quanti anni ha
mio figlio... — Il vecchio s'interruppe con aria confusa. Jake sospirò e tolse di
tasca il cilindro.
— Jake? È tutto sbagliato, vero? — Il padre guardava Jake con occhi dilatati e
spaventati. Non erano gli occhi che Jake aveva temuto quand'era più giovane;
quelli esistevano in un luogo soltanto, dove sarebbero esistiti per sempre,
esattamente gli stessi, fino a che lui, ora Jake se ne rendeva conto, non avesse
fatto i necessari ragionamenti, e ripensamenti.
— Sì, papà. È tutto sbagliato. Tu sei soltanto un ricordo — disse Jake, mentre
regolava nel modo adatto la chiavetta del cilindro.
La sala d'aspetto non era più affollata come il giorno innanzi. La ragazza negra
non sembrava più tanto affannata, ma l'espressione del suo viso non era certo di
sollievo. Aggrottava la fronte, preoccupata, e quel cipiglio non sparì del tutto
quando Jake si avvicinò al banco, con il padre a rimorchio, che si muoveva a
scatti, in modo meccanico. Guardò Jake con fare sospettoso, come chi abbia da
poco imparato a considerare i suoi questuanti con occhio più cinico, e accennò
con la testa a quel simulacro ai vecchio. — Cos'è che non va? — chiese.
— Ho spento i circuiti della memoria, secondo tutte le regole, credo. Ora è
soltanto un robot. — Consegnò il cilindro alla ragazza, e lei lo posò sul banco, tra
loro due.
— Gli altri che fine hanno fatto? — chiese Jake, guardando la sala semivuota.
— Le voci fanno presto a circolare — disse lei. — Pare che la Richiamo stia per
chiudere i battenti.
— Peccato. Sembrava un'industria estremamente prospera.
Lei non fece nemmeno finta di ridere, tentò di ignorarlo. Poi, visto che lui non
se ne andava, guardò nuovamente in su, aggrottando la fronte. — Sì? Cos'altro
c'è?
— Un'ultima cosa — disse Jake, girandosi a guardare il guscio vuoto che gli
stava alle spalle. — Con chi mi devo accordare per un funerale?
R. A. Lafferty
PAROLE PAROLE
(A Special Condition in Summit City, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
— Mi dici in che modo comunichiamo, Sumner? — chiese Fenwick. — Pare
che quei due abbiano qualcosa di nuovo da dire in fatto di comunicazione.
— Salvo che non sono capaci di comunicarlo — sghignazzò Sumner. — Guai
quando si permette agli scienziati e ad altri dilettanti del genere di avere
opinioni sui processi mentali. Comunichiamo per mezzo delle parole, Fenwick,
non per mezzo di onde strane o altre baggianate di quei cervelloni. A sentir loro,
perfino i segni convenzionali debbono il loro significato alla telepatia.
— Ma Hageman e Bott-Grabman sono uomini di notevole fama... ora non
ricordo più in quale campo. Dicono che le parole sono soltanto un indice che noi
impieghiamo, e che se dovessimo limitarci alle sole parole comunicheremmo al
massimo per un cinquanta per cento.
— Ma di' che si attengano al loro campo — replicò Sumner. — Non sanno
niente sulla comunicazione per mezzo del linguaggio.
— E non si limitano a degradare l'importanza del linguaggio — disse Fenwick.
— Segni, convenzioni, presupposti, e chi più ne ha più ne metta... loro dicono che,
in sé, queste cose convogliano ben poco. Dicono che non avremmo neppure
modo di riconoscere la nostra faccia allo specchio, quand'anche ci specchiassimo
una dozzina di volte al giorno, tutti i giorni, se non fosse per queste onde
personali volgarmente note con il nome di telepatia. Dicono perfino che il
parallelismo dei concetti, vale a dire, quella che noi definiamo coscienza, sarebbe
impossibile senza la ricezione dell'eco delle nostre stesse onde.
— Dai retta a me, Fenwick, quei due non sanno un bel niente.
— Eppure Bott-Grabman cita un caso che fa pensare: un'italiana e un armeno,
sposati da trent'anni. Nessuno dei due ha mai imparato la lingua del consorte,
ma si sono sempre capiti perfettamente.
A questo punto, il fenomeno accadde, ma silenziosamente e senza preavviso. Il
cambiamento si produsse in tutti gli abitanti della città. Mentre Fenwick parlava,
nelle sue onde personali si verificò una gran confusione.
— La donna... ecco, non sono sicuro che sia la donna... mi pare che uno dei due
sia una donna e che l'altro sia un armeno... i nomi di entrambi erano ambivalenti,
o meglio erano sconosciuti... Morvan di che genere è? Fino a che punto Renentlas
è armeno? Non sarebbe incompatibile che fosse l'altro quello che parlava
baracano.
— Baracano, carabano! Meno male che non si capivano, o avrebbero
divorziato dopo un anno. Sei maletestamento involtato, Fenwick.
— Sei tu che sei un cavolo incappucciato — scattò Fenwick, di rimando. — E
non parlo temporalmente, vecchio Sumner-mummia.
Al che Sumner andò in bestia, e cominciarono a picchiarsi.
— Dovremmo essere in grado di capirci un capello — disse Sumner, mentre
riduceva in polpetta l'orecchio di Fenwick (ma non potevano, non potevano
capirsi affatto).
— Vuoi dire in grado di capirci un corno — rispose Fenwick, mentre
fratturava le reni di Sumner. — Sì, dico proprio corno... quello che sta sulla testa
dei mariti come te, Sumner, non dei tori. Chi di noi è Sumner? Mi piacerebbe,
vederti incornare un toro.
— Intonare un coro non è stessa la cosa — disse Sumner, o forse era Fenwick.
In pratica, parlava quello che stava parlando. — E tu sei un coro di insulti, se
devo dirti incoerentemente il mio parere.
Si picchiavano, ed erano sempre stati amici.
La stessa sera, all'altro capo della città, un anziano armeno tagliò la gola
all'italiana con la quale era sposato da trent'anni.
— All'improvviso m'è sembrato che facesse solo versi incomprensibili —
disse.
Circa alla stessa ora, un grassone tornò indietro di corsa e mollò una sventola
sulla faccia di uno strillone.
— Mi hai venduto un giornale stranito — lo accusò.
— È lo stesso giornale che prendete tutte le sere — farfugliò lo strillone,
perdendo sangue dal naso. — M'avete dato un pugno in faccia, aspettate che
arrivi mio fratello, vi concerà lui per le feriali. Sono le stesse lettere. Le stesse
parole.
— Lo so che sono le stesse parole. Perché allora non posso leggerle?
Dev'essere un giornale stranito.
Diede un altro pugno in faccia allo strillone e se ne andò. Che cosa vi
aspettavate che facesse, dopo che uno strillone gli aveva venduto un giornale che
lui non poteva leggere?
Due uomini erano su un'impalcatura a trenta piani dal suolo. Questa non è la
storiella dei due irlandesi sull'impalcatura. Solo uno di quei due era irlandese,
l'altro era danese.
— Molla un po' quella fune — disse il danese. — Ahi! Ho detto molla? Lascia
andare. Voglio dire...
— Vuoi dire molla, ho capitò — disse l'irlandese. — Fa lo stesso, molla o lascia
andare, sta' a vedere che debbo farmelo ripetere anche in danese!
Mollò la fune e precipitò da trenta piani.
— Non m'ha capito — disse il danese. — E pensare che non era mai successo.
Stavo cercando di dirgli... — Ma nella caduta ci lasciò la pelle anche il danese.
Nel traffico, si stavano formando ingorghi.
— Non distinguete il rosso dal verde, giovanotto? — domandò un agente a un
onesto cittadino motorizzato.
— Certo che lo distinguo, il vostro naso non è verde — disse l'onesto cittadino,
mentre la moglie rideva della battuta.
— Allora perché non obbedite al semaforo? — disse l'agente.
— Perché? Si sono messi a dare ordini, ora?
— Rosso significa alt.
— Rosso per me non significa affatto alt — disse l'onesto cittadino. —
Nemmeno alt significa alt per me. Se cominciamo a prendere ordini dai semafori,
quanto prima ci ritroveremo a prendere ordini dalle lucciole. Perché non
inventano un sistema per evitare che le auto passino all'incrocio tutte nello
stesso tempo? Così va a finire che si crea l'ingorgo.
— Perché non suoni il clacson, John? — disse la moglie dell'onesto cittadino.
— Lo suonano tutti.
L'onesto cittadino suonò il clacson.
Le cose cominciarono a mettersi male, via via che calava la sera. La polizia non
poteva far niente. Non c'era modo di distinguere un poliziotto da un civile
qualsiasi. Il magistrato non poteva più emettere mandati. Che specie di parole si
mettevano su un mandato? Che cosa volevano dire, una volta messe là? E come
potevano voler dire la stessa cosa per tutti gli altri?
Mancava la corrente in molti quartieri. C'era confusione alla centrale e nelle
diverse stazioni di smistamento. Che ricordava più la differenza tra attacca,
stacca, riattacca?
— Leviamoci da quest'ira di Dio e andiamo a casa a mangiare — disse un tale
a sua moglie. Lei gli mollò uno schiaffo da stordirlo.
— Perché l'hai fatto? — chiese lui, guardando in su dal marciapiede.
— Nessun uomo può permettersi di parlarmi così.
— Ma intendevo dire soltanto...
— Come faccio a sapere quello che intendevi dire? Meriteresti la fucilazione.
Non puoi parlarmi in quel modo.
— Ma sono tuo marito.
— Non so di che cosa stai parlando. Non capisco che cosa vuol dire.
— Non lo so neanch'io. Ma mi pare di averlo sempre detto.
Si incamminarono in direzione opposta.
Poi si scatenò il finimondo. Cominciarono gli incendi e scoppiò la varicella.
Ogni qualvolta si turba un equilibrio basilare, solidi muri di mattoni andranno in
fiamme e individui tre volte vaccinati cominceranno a morire di malattie
infettive prima che uno abbia il tempo di contare fino a mille.
Come si fa per spegnere gli incendi quando non è possibile distinguere i vigili
del fuoco dal resto della popolazione e le autopompe dagli altri veicoli? Come fa
un vigile del fuoco a fare il suo dovere se non è in grado di comprendere gli
ordini?
Perché non tacciono tutti, quando nessuno riesce più a comprendere che cosa
dicono gli altri?
Sono il sindaco — disse un tale, tra la confusione generale. — Attacchiamo il
problema in maniera frontale.
— Che cosa vuol dire? — chiese un consigliere.
— Non lo so — disse il sindaco. — Ma è un pezzo che lo dico. Cerchiamo le
parole in un libro, forse ci sarà scritto.
— Non è più tempo di parole — disse il capo della polizia. — È tempo
d'azione. Pare che anch'io l'abbia sempre ripetuto.
— Che cosa vuol dire "azione"? — chiese l'assessore ai parchi e alle fognature.
— Significa questo — disse il capo della polizia; e giù pugni e schiaffi
all'assessore ai parchi e alle fognature.
— Affrontiamo il problema in maniera energica — disse il sindaco.
— Fino a che punto volete che costui si mostri energico? — chiese l'assessore
ai parchi e alle fognature.
La riunione si sciolse senza aggiornarsi. Non avevano concluso niente.
Per quale giornale avete detto di lavorare, giovanotto? — chiese il professor
Hageman al giornalista.
— Per il "Summit City Sun". Scrivo articoli a carattere scientifico, come vi ho
detto e ripetuto. Il mio tempo è tutt'altro che sprecato, qui. Tra tutti e due, vi
lasciate scappare tante di quelle cose, parlando, da rifornirmi di materiale per
mesi e mesi.
— Hageman, il "Sun" è il giornale che è uscito con un'edizione un po' strana,
stasera — osservò il professor Bott-Grabman. — Tanto tu che io l'abbiamo
notato.
— Io non l'ho vista — disse il giornalista. — Era strana?
— C'era ben poco da vedere — disse Hageman. — Trentanove pagine bianche,
e in prima pagina soltanto la testata e alcune parole a caratteri cubitali. "SE
PENSATE DI POTER FARE DI MEGLIO VENITE E PROVATE. IL DIETTORE" ecco
che cosa c' era scritto.
— È successo qualcosa! — urlò il giornalista. — È meglio che torni in sede.
— Credevo che fosse venuto per un'intervista — disse Bott-Grabman.
— Infatti. Da un pezzo non avevo per le mani un argomento così importante,
ma dev'essere successo qualcosa al giornale.
— Probabile che non ci fosse gran che di nuovo, oggi, e il direttore
evidentemente non aveva voglia di stampare il giornale — disse Hageman. —
Certi giorni capita anche a me d'essere svogliato. Non mi va di combinare niente.
— La radio! — gridò il giornalista. — Fatemi sentire se è successo qualcosa in
città.
— Da qui non può né trasmettere né ricevere — disse Bott-Grabman. — Non
avete idea di come sia impenetrabile il nostro schermo protettivo. È necessario,
per il nostro esperimento di questa sera. Su, dimenticate tutto il resto! Qui non
siamo propensi a ripeterci, egregio signore. Cercheremo di fornirvi il materiale
per l'articolo, ma voi avete le idee poco chiare sul lavoro che facciamo.
— Tutti dicono che vi occupate di telepatia.
— Bene, per la verità, al momento ci occupiamo dell'assenza di telepatia. Vi
prego di tenere ben presente questo punto: noi siamo sempre stati telepatici.
— Tanto voi che il professor Bott-Grabman?
— Che domande, si capisce che noi due lo siamo! Pensate forse che uno di noi
due sia anormale? Da un po' di tempo sono talmente disgustato della gente che
quasi mi è passata la voglia di tenere conferenze. "Saremo mai telepatici?" ci
domandano quelle teste di rapa. "Lo siete già" spiego loro con pazienza. E quelli:
"Allora perché non lo sappiamo?". "Mi fa già meraviglia che sappiate da che parte
avete la testa per poterci mettere sopra il cervello" dico io, e qualche volta
questo modo di parlare li aliena. "Telepatia vuol dire pensare a distanza, ma
come potreste pensare a distanza quando in realtà non pensate affatto? La
maggior parte di voi, non riesce a pensare neppure da un capo all'altro del
cervello" spiego loro. "Non potete proiettare pensieri che non avete, razza di
pecoroni belanti" dico io. "Ma, nonostante tutto, qualcosina riuscite a
trasmetterla anche voi." Ho un bel dire loro tutto questo, all'atto pratico non
riesco a farglielo capire. Si vede che non sono tipo da cattedra.
— No, non lo siete, professor Bott-Grabman — disse il giornalista. — Ecco
perché mi sta molto a cuore poter interpretare quello che dite. Se ho ben capito,
ci sono persone dotate che hanno già il senso della telepatia... entro una certa
misura. Voi due, secondo me, dovreste dare al pubblico una vera dimostrazione
in tal senso.
— Abbiamo tentato, giovanotto — disse il professor Hageman. — L'esistenza
della telepatia dovrebbe essere facilmente dimostrabile, proprio quanto
l'esistenza di un albero. Ma come provare l'esistenza di qualcosa a chi chiude gli
occhi e si tura le orecchie con le mani? Ci siamo sforzati di dimostrare questa
cosa semplicissima fino a diventare blu... anzi, per essere esatti, fino a che io
divento blu e Bott-Grabman assume un bel colore grigio cenere. Visto fallire ogni
sforzo, stiamo dando una piccola dimostrazione pratica che durerà da oggi fino a
stasera tardi. Dovrebbe essere divertente. E forse qualcuno si convincerà. Una
volta dimostrata al pubblico l'esistenza del senso della telepatia, ci sarà più facile
dedicarci al tentativo di svilupparlo.
— Allora state emettendo onde... — cominciò a dire il giornalista.
— No. Stiamo inibendo onde — precisò con fermezza il professor Hageman.
— Stiamo creando lo scompiglio nell'emissione di onde personali in tutta la città.
— E questo dovrebbe in qualche modo far scaturire le facoltà telepatiche
latenti delle persone? — chiese il giornalista.
— Al contrario, giovanotto — disse Bott-Grabman. — Bloccherà
completamente qualsiasi manifestazione telepatica, in tutta la città. Seguiamo un
procedimento inverso.
Le prime unità della Guardia Nazionale arrivarono a Summit City in serata,
verso le dieci. I rapporti che arrivavano da quella località avevano allarmato il
governatore e tutti gli altri. Visto che sommosse e fatti di sangue stavano
verificandosi un po' dappertutto, e che la polizia sembrava stranamente
impotente, il potere esecutivo aveva deciso di passare all'azione.
Gli uomini della Guardia cominciarono a ristabilire l'ordine, ma il loro
intervento fu di breve durata. Non arrivarono mai nel centro della città. I primi
bollettini che avevano trasmesso dalla periferia di Summit City erano stati chiari.
Poi, i rapporti divennero confusi. Infine, completamente incoerenti.
"... Non riusciamo ad avanzare. Da che parte si va quando si avanza? Come
facciamo a distinguere le Guardie Nazionali dal resto della popolazione? Il guaio
è che continuiamo a spararci addosso a vicenda. Ci stiamo per caso discostando
dagli ordini ricevuti? Mandateci istruzioni sul modo di distinguere noi stessi..."
diceva l'ultimo rapporto di quella sera, giunto da parte del colonnello.
— Questo è matto — disse il governatore al suo aiutante. — Le guardie non
erano in uniforme?
— Lo erano, quando sono partite da qui — disse l'aiutante. Il governatore
rinunciò a fare affidamento sulla Guardia Nazionale e chiamò in aiuto l'esercito.
Entro un'ora, i Commandos dell'Area Centrale si stavano dirigendo verso
Summit City.
Allora non è una dimostrazione di telepatia quella che intendete dare, stasera?
— chiese il cronista. — Bene, ma che cos'è? Non ho capito.
— Stiamo cercando di dimostrare che cos'è l'assenza di telepatia — disse
Hageman. — Supponiamo che una tribù vivesse per generazioni nel rumore di
un tuono che rumoreggiasse in tono monocorde senza un attimo di intervallo.
Voi dite che lo sentirebbero?
— Non saprei — disse il cronista. — Ritengo che lo sentirebbero, in un certo
senso.
— E lo noterebbero?
— Probabilmente no.
— Ma se quel rumore incessante smettesse improvvisamente, credete che se
ne accorgerebbero?
— Noterebbero sicuramente una differenza.
— Giovanotto, le parole sono un mezzo di comunicazione al cinquanta per
cento. Sono soltanto degli indicatori: allusioni, piccoli sussidi, messe a punto. Ma
non è possibile comunicare per mezzo di parole soltanto! Provate. Ritengo che
quelli di Summit City stiano tentando di fare appunto questo, ora... se pure non
hanno già rinunciato al tentativo. Uniformi, segni, convenzioni, per loro tutto è
diventato privo di significato. Sono tagliati fuori dalla comprensione diretta delle
cose. Hanno a disposizione soltanto parole, e con quelle non possono
comunicare.
— Ma allora la gente con che cosa comunica, professor Hageman?
— Voi con che cosa annusate? Con il naso che avete lì in mezzo alla faccia. Con
che cosa vedete? Con quelle due biglie che vi roteano di qua e di là al di sotto
della fronte. Con che cosa parlate? Con quel forno di bocca e quell'appendice
amorfa che sarebbe poi la lingua. Ma con che cosa comunicate, in realtà? Con il
cervello, scimmiotto scervellato che non siete altro. Parole e gesti sono soltanto
un di più, aggiunto per buona misura.
Il generale Gestalt atterrò con l'elicottero mentre i suoi commandos
cominciavano a entrare in città. Era un uomo amaro, che faceva affidamento
quasi unicamente su se stesso. Con il resto dell'umanità, non se l'intendeva
molto.
Grazie a questo fatto, la situazione cambiò.
Gestalt vide le sue unità disintegrarsi, proprio come si erano disintegrati i
reparti di uomini della Guardia. Scoprì che non potevano più capire i suoi ordini,
e che le loro risposte non avevano senso.
"Gas della follia?" cominciò a chiedersi. "Confusione trasmessa a livello del
subconscio? Batteri di rimbambimento cerebrale? No, l'effetto è stato troppo
immediato. Dev'esserci una fonte di emissione da qualche parte. Devo
assolutamente scovarla. In mancanza di una triangolazione, l'unica è ricorrere a
un segugio. Là ce n'è uno dei migliori."
Il generale Gestalt afferrò il caporale Cram per la collottola e lo sollevò di peso
da terra.
— Ragazzo, per annusare guai, tu hai il fiuto più fino di tutto il reparto —
disse il generale. — Vedo che non capisci le mie parole, ma non importa. So che
puoi cercare rogne più alla svelta di qualsiasi altro bestione ai miei comandi.
Coraggio, guidami... No, non là, figliolo. Là non stanno facendo altro che
infrangere vetrate e spararsi addosso a vicenda. Guidami alla fonte, capito? Non
cerchiamo grane di seconda mano, noi, vero? Salta sull'elicottero assieme a me.
Il generale issò il caporale a bordo dell'elicottero.
— Forza, figliolo, non sappiamo che farcene di quel po' di disordine laggiù.
Quello è soltanto un sottoprodotto. Hai sempre avuto un vero talento per le
buriane autentiche. Dobbiamo trovare l'occhio del tifone. Guardami, ragazzo,
anche se non mi capisci. Andiamo dove possiamo trovare pane per i nostri denti.
Ti piacerà. Naso in fuori! Puntare!
Il caporale non capiva le parole ma non ce n'era un altro, in tutta l'unità, che
sapesse cacciarsi nei guai come lui. Puntò, e il generale puntò l'elicottero.
Atterrarono vicino a un laboratorio isolato, un po' fuori città. Smontarono. Il
caporale seguì il suo naso e il generale seguì il subalterno.
— Sono di nuovo calmo, giovanotto — disse il professor Hageman. —
Guardate, è semplice. Abbiamo sempre avuto la telepatia. È talmente costante, in
noi, che non ci accorgiamo d'averla. Ma dobbiamo fare in modo che tutti ne
prendano coscienza, prima di poterla portare a uno stadio più avanzato. Tutti
sono telepatici e tutti lo sono sempre stati. È così che comunichiamo l'uno con
l'altro. Oh, le parole e tutto il resto aiutano, sì. Bott-Grabman calcola che
contribuiscano per un cinquanta per cento, mentre secondo me la percentuale è
inferiore. Un'idea più precisa, in ogni modo, l'avremo dopo l'esperimento di
stasera. Con i nostri inibitori, questa sera abbiamo creato a Summit City una
condizione speciale. Per un lasso di tempo, e per effetto di questa condizione
speciale, nessuno sarà telepatico. In questo momento, dovrebbero essere tutti in
difficoltà nel comunicare l'uno con l'altro. Forse avvertono un senso di
frustrazione, per questo stato di cose.
Il caporale irruppe nella stanza e il generale lo seguì. Al generale bastò
un'occhiata amara per impadronirsi della situazione. — Spegnete quel
maledetto coso! — ordinò. — Disturba i cervelli della gente.
Lo spensero. L'esperimento era finito. La gente, in città, potevano ricominciare
a intendersi... per quel tanto che c'era riuscita in passato.
Cominciarono a spegnere gli incendi e a medicarsi le ferite. I casi di varicella
tornarono a essere semplici eruzioni cutanee di natura nervosa, la gente cercò di
cavare il meglio da quella strana situazione.
Ma i morti no, non si potevano richiamare in vita.
Il professor Hageman era blu in faccia. Il professor Bott-Grabman aveva
assunto un colorito grigio cenere.
Erano appena stati condannati a morte per crimini contro l'umanità ed erano
alquanto turbati dalla sentenza.
— Ma l'esperimento è riuscito — badava a protestare Bott-Grabman. —
Riuscito oltre ogni aspettativa. Nemmeno noi ci rendevamo conto fino in fondo
di quanto la popolazione dipendesse dalla telepatia. Altrimenti avremmo usato
un inibitore meno potente. Chiedo che il collega e io veniamo rilasciati subito,
per poter tornare al nostro lavoro. Non appena il grosso pubblico prenderà
lentamente coscienza del problema, si darà il via a un vasto campo di
sperimentazione. Ci aspettano grandi cose, per l'avvenire.
— Verissimo — disse il giudice. — Voi due v'imbarcherete presto per quello
che un mordace umorista ha definito il Grande Viaggio: la Morte. Siete stati
condannati al patibolo per i quattrocento morti che avete causato e per le
migliaia di casi di follia inguaribile.
— Ma l'esperimento ha funzionato! I fatti ci hanno dato ragione. Non c'è
nessuno che non sia telepate! — gridò Hageman. — Senza dubbio lo capite tutti,
ormai.
— Se davvero fossi telepate, forse potrei vedere in fondo alle vostre menti
contorte e comprendere in qualche modo la vostra mancanza di umanità —
disse il giudice. — Essendo solo un essere normale, non mi è possibile. Mi
auguro che la vostra perfidia e i vostri metodi segreti di distruzione muoiano
con voi. Portateli via!
Joanna Russ
FRASI UTILI PER IL TURISTA
(Useful Phrases for the Tourist, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
LOCRINA:
penisola e regioni limitrofe.
X 437894 = II
Ragionevolmente simile alla Terra. (Vedi nastri-audio associati e translitterazioni.)
Per psicologia, ecologia, religione e usanze, Wu & Fabricant, Praga, 2355, Vol.
2° : Locrina - "I locrinesi - Notizie utili per il turista."
IN ALBERGO:
Questo è il mio associato. Non va considerato come mancia.
Chiamerò il direttore.
Questa non può essere la mia camera perché non posso respirare ammoniaca.
Starò benissimo a temperature comprese fra i 290 e i 303 gradi Kelvin.
Cameriere, questo pasto è ancora vivo.
AL RICEVIMENTO:
Siete voi? Siete completo? Quanta gente di voi è presente? (Quante parti di lor
signori sono presenti?)
Sono lieto di fare la conoscenza del vostro gruppo vegetale.
La cordialità interstellare impone che a questo punto si facciano
manifestazioni materiali, ma desidererei esserne dispensato.
Voi siete tossico?
Siete commestibile, voi? Io non sono commestibile.
Noialtri umani non ci rigeneriamo.
Quello è il mio orecchio.
Io sono tossico.
È così che vi accoppiate? Scusate, questo sarebbe erotico?
Vi ringrazio molto.
Vi prego di spiegarvi.
Cambiate colore, voi?
Siete incinta?
Lascerò questa stanza.
Non potremmo essere soltanto amici?
Accompagnatemi immediatamente al Consolato Terrestre.
Sebbene molto lusingata dalla vostra gentile offerta, non posso seguirvi nella
buca di accoppiamento, dato che sono vivipara.
ALL'OSPEDALE:
No!
Il mio orifizio per mangiare non è all'estremità del mio corpo.
Preferirei farlo da me.
Vi prego, non lasciate entrare (uscire) l'atmosfera, mi sentirei molto a disagio.
Non mangio piombo.
Il termometro messo così non vi fornirà nessuna indicazione utile.
GIRI TURISTICI:
Voi non siete la mia guida. La mia guida era bipede.
Noi terrestri non lo facciamo.
Oh, che delizioso natatorium (trespolo d'accoppiamento, spettacolo
organizzato, fenomeno involontario)!
A che ora la principessa consumata dall'amore si getta nel vulcano
fiammeggiante? Possiamo assistere?
Non è dimostrabile.
È poco probabile.
È ridicolo.
Ho visto esempi assai migliori.
Per favore, indicatemi dove posso trovare il mammifero senziente più vicino. «
Portatemi senza indugio al Consolato Terrestre.
A TEATRO:
È divertente?
Scusate tanto, non volevo essere scortese.
Non intendevo sedermi su di voi. Non mi ero accorto che c'eravate già voi su
questa poltrona.
Potreste deformarvi in modo da abbassarvi ancora un po'?
I miei occhi sono sensibili soltanto alla luminosità delle lunghezze d'onda
3000-7000 A.
Me lo sto immaginando?
È questo che dovrei immaginare?
Dovrei sentirmi turbato dall'acqua sul pavimento?
Dov'è l'uscita?
Aiuto!
Questa è veramente arte.
Le mie convinzioni religiose mi vietano di unirmi alla rappresentazione.
Non mi sento bene.
Mi sento malissimo.
Non mangio cibo vivente.
Questo sarebbe erotico, secondo voi?
Posso portarmelo a casa?
Fa parte della rappresentazione?
La smetta di toccarmi.
Signore o signora, questo è mio. (intrinseco)
Signore o signora, questo è mio. (estrinseco)
Desidero visitare l'unità di bonifica dei rifiuti.
Avete finito?
Posso cominciare?
Voi m'intralciate.
Per nessuna ragione.
Se non la smettete, chiamerò l'inserviente. È proibito dalla mia religione.
Signore o signora, questa è un'unità privata.
Signore e signora, questa è un'unità privata.
COMPLIMENTI:
Siete più più di prima.
Ma i vostri capelli sono finti!
Non scopritevi i piedi, altrimenti svengo.
Non c'è spazio.
Ma indubbiamente voi sarete qui domani.
INSULTI:
Sempre uguale.
Ora è più di prima!
Vi si vedono le dita.
Quanto sei pulito!
Sei pulito ma animato.
FRASI DI UTILITÀ' GENERALE:
Portatemi al Consolato Terrestre.
Volete indicarmi il Consolato Terrestre?
Avvertirò il Consolato Terrestre.
Non è il modo di trattare un ospite straniero.
Vi prego, indirizzatemi verso l'albergo.
A che ora si alza la luna? C'è una luna, qui? È una luna piena?
Portatemi immediatamente al Consolato Terrestre.
Vorrei il secondo volume di Wu & Fabricant, intitolato Fisiologia, Ecologia,
Religione e Usanze dei locrinesi. L'avete? Non importa il prezzo.
Si è guastato qualcosa nel mio veicolo.
Sto per (sono in procinto di) morire.
Grania Davis
I MOSTRI DELL'ISOLA
(My Head's in a Different Place, Now, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
Vivere di assistenza è una delle maggiori fregature del mondo. Per presentare
la domanda, devi fare la fila per ore, con la bambina in braccio che frigna e che è
tutta bagnata. Quando finalmente tocca a te, un impiegato carogna ti dice che hai
sbagliato a riempire il modulo al punto 67, cosi devi rifare tutto da capo e
rimetterti in coda.
Se sei malata, ti trascini con l'autobus fino all'ospedale, sperando di trovare da
sederti nella sala d'aspetto, dove si crepa dal caldo, perché sai già che ci starai
tre o quattro ore. Dicono a tutti di trovarsi là alle otto, e se sei in ritardo ti
rimandano a casa, ma i medici non si fanno vedere prima delle 9,30, poi il tuo
turno capita verso le undici o magari all'una (a mezzogiorno i medici vanno a
colazione)... e tu sempre con la bambina in braccio, che piange e che sbava. (Chi
ce l'ha i soldi per la baby-sitter, gente?)
Se stai troppo male per prendere l'autobus, ma non tanto male da dover
chiamare un'ambulanza, se ti sei slogata una caviglia, metti, e non ce la fai ad
arrivare fino alla fermata, be', ciccia, sorella! Fai a meno di fartela curare e ti
tieni una caviglia matta per il resto della tua vita.
Una casa decente non puoi averla, perché se anche i soldi per l'affitto li hai, chi
è che affitta a dei pezzenti che vivono della carità pubblica? Così finisci in
qualche stamberga rancida con la finestra che si affaccia su un pozzo di
ventilazione, e gli scarafaggi che passeggiano sulla faccia della bambina, la notte,
o si rosicchiano i tuoi cenci sporchi per trovare qualcosa da mangiare.
A sentire i giornali fascisti, l'assistenza sociale è una specie di paradiso in terra
e tutti piangono miseria pur di campare a sbafo, alla faccia dei contribuenti... ma,
dico io, voi cosa cristo fareste con una bambina di due anni da sfamare, quando
gli uffici di collocamento hanno elenchi lunghi due chilometri... e senza uno
straccio di diploma o un mestiere in mano? Sì, puoi sempre andare a lavare i
pavimenti, ma quanto puoi guadagnare? Certo non abbastanza da mantenere te
e la bambina, più una baby-sitter a tempo pieno, naturalmente.
Io quasi pensavo di mettere la bambina in un istituto quando sarà un po' più
grandicella, e magari iscrivermi a un corso di qualcosa, per poter trovare un
lavoro a mezza giornata, sempre che lo si trovi, da qualche parte.
Anche il mio uomo vive di assistenza. Fa parte di un grosso movimento
intellettuale e rivoluzionario, lui, è un anarchico, ma dice che tanto vale
sfruttarlo, il governo, fino a che si potrà distruggerlo. È del Leone, il mio uomo,
con il Toro in ascesa.
La gente continua a dirgli: "Mah! Il partito della libertà sarà anche una bella
cosa, ma se poi tutti si lasciano andare a commettere violenze e cominciano a
farsi la pelle l'un con l'altro?"
Lui li guarda con due occhi così, e la faccia, dietro la barba rossa, gli si contrae
per l'eccitazione, intanto che spiega: "La gente sta già scannandosi, non lo
capite? Non avete mai sentito parlare di pirati della strada? E il governo, con
tutte le sue guerre, non ha fatto fuori più gente di quanta potrebbero accopparne
10.000 Jack-gli-Squartatori? II governo se ne infischia di proteggere voi o me,
protegge soltanto i ricchi e i potenti, perché è tutto lì quello che gli sta a cuore, il
potere! Certo, il potere sopra di noi, con gli sbirri, il potere sugli altri governi,
con i missili e le bombe... potere ai ricchi perché diventino ancora più ricchi,
potere alle compagnie petrolifere perché possano continuare a inquinarci
l'acqua, potere ai fabbricanti d'auto perché facciano auto sempre più veloci,
sempre più grosse, che corrano intorno, facendo fuori dei poveri cristi. Ma se la
gente avesse il senso della dignità e della libertà individuale, e potesse fare le
cose a modo suo, allora buona parte dell'odio e del furore sparirebbero."
È una bella fatica, essere anarchico, e ogni tanto la fatica diventa troppo
pesante per lui, e lui allora... dà i numeri, capito? e deve fare una piccola sosta al
manicomio. Lo imbottiscono di medicine, lo calmano, così dopo sta bene, per un
po'.
Certo, è dura anche per me, non sapere mai da un giorno all'altro se la testa
continuerà a funzionargli, ma bisogna dire che tra noi c'è molta telepatia, e non
solo a letto... e poi, ultimamente, lui ha tirato avanti mica male, abbastanza per lo
meno.
L'unica cosa che rendeva l'assistenza appena appena trangugiabile era il
nostro assistente sociale, Phil, un tipo proprio come si deve. Davvero. Non solo ci
offriva sempre da bere ogni volta che andavamo da lui per un colloquio (teneva
sempre qualche bottiglia a portata di mano, in ufficio), non solo ci riempiva di
biglietti d'autobus e di bollini per le razioni, ma era stato lui a passare in giro la
voce sul nuovo regolamento, che diceva che, se l'assistente sociale era disposto a
sbrigare lui la parte burocratica, potevi lasciare la città, e magari anche il Paese,
e avere ugualmente l'assegno.
Una gran bella notizia. Da principio, pensavamo di andarcene nell'Oregon, e
avviare una piccola fattoria in mezzo ai boschi. Poi, però, abbiamo stabilito che
l'intera nazione è maledettamente fascista, e che qui c'è soltanto plastica, roba
costosa nei negozi, che l'aria e l'acqua ci stanno lentamente avvelenando a
morte... e che un bel giorno Raggiodiluna (è mia figlia, è dei Gemelli, una stella
che è proprio un amore) sarebbe costretta a frequentare una delle loro scuole di
concentramento, dove le imbottirebbero la testa di baggianate, come hanno fatto
con noi.
Così alla fine volevamo quasi tagliare la testa al toro e andarcene nel Messico,
che là sì, è una pacchia, con i prezzi bassi, il sole caldo e gli indiani, che sono una
manica di simpaticoni, sempre in cimbali a forza di mescalina e di marijuana,
tutti belli sorridenti, distesi, gente che se la passa bene.
Però avevamo anche letto che la polizia messicana è roba da far rizzare i
capelli, e poi c'era il fatto che nessuno di noi parlava lo spagnolo, meno che mai
l'azteco, o cosa diavolo parlano gli indiani, ma se il destino ha in serbo qualcosa
per te, prima o poi succede. Cosi una sera un tale, un maoista, uno che il mio
uomo conosceva bene, capita da noi in cerca di un posto dove dormire, e ci
racconta che un amico suo è appena tornato da un'isola tropicale, un paradiso,
ragazzi! proprio di fronte alla costa dell'America Centrale, ma dove parlano
inglese, perché una volta l'isola era dell'Inghilterra, che mandava là gli schiavi
ribelli per punizione.
A quanto pare questi schiavi laggiù si erano messi d'accordo, si erano uniti con
gli indiani, avevano avviato piccole fattorie, costruito piccoli villaggi, e poi
pescato, cacciato, cantato e ballato, e diviso tutto quello che avevano con
chiunque ne avesse bisogno. E adesso si poteva andare laggiù, e restarsene
seduti sulla spiaggia, e rimpinzarsi di alcool e di droga, e cogliere noci di cocco
dagli alberi, e tutti liberi, tutti amici, e niente logorio della vita moderna. Si può
affittare una capanna quasi per niente, e non c'è plastica, non ci sono fregature
turistiche, e tutto è assolutamente organico e viene proprio dalla terra.
Ragazzi! Ci si sentiva sbronzi soltanto a sentirne parlare. Cos'altro andavamo
cercando, per dire che avevamo trovato il posto giusto?
Che bellezza, il viaggio per arrivare laggiù. Tutto a piedi lungo la costa, oltre le
immense rupi coperte di cipressi. Dio, l'odore buono della salvia, e l'acqua che
turbinava attorno alle rocce, in basso, con certi colori che non te li fa vedere
neanche la mescalina: blu, verde, rosso...
Fratelli e Sorelle, accampati o in viaggio, ci davano uno strappo, o da
mangiare, o un po' di polverina, e avanti oltre le colline bionde, attraverso Los
Angeles, e San Diego ("Acne su un paesaggio adolescente" diceva il mio uomo), e
vagabondi, e case sulla spiaggia. Poi le cose cominciarono a prendere l'aria un
po' rattoppata e messicana, via via che ci avvicinavamo al confine.
Per fortuna, niente discussioni con le guardie di frontiera, che non
s'aspettavano certo che fossimo "noi" a portare la marijuana nel Messico!
Tijuana: un milione di posti che reclamizzavano "Matrimoni/Divorzi". "Cristo"
diceva il mio uomo, "se credessimo nelle unioni legali, in una sola giornata,
potremmo sposarci e divorziare o viceversa". Locali notturni, cantine messicane
da quattro soldi con i prezzi alti, da gringos, ma si sentiva l'odore di tortillas e di
urina, così lo capivi a naso che eri nel Messico.
Andammo alla stazione d'autobus Tre Stelle e aspettammo per un autobus di
seconda classe fino a Città del Messico. Quando arrivò, ci piazzammo sull'ampio
sedile in fondo, dove Raggiodiluna poteva sgambettare un po', ci concedemmo
una fumatina e ci mettemmo belli comodi a goderci il deserto, e gli ambulanti
che vendevano tacos bollenti a 3 centesimi l'uno, e i lucertoloni, e poi gente che
saliva e scendeva, vecchie con scialli e grossi fagotti, e l'autobus che si guastava
tutti i momenti, e tutti gli uomini si ammucchiavano intorno al motore, a
guardarlo e a discutere animatamente in spagnolo. Poi facevano scendere tutti
(vecchie comprese) per aiutare a spingere. Ma noi portavamo pazienza. Mica
eravamo in viaggio di piacere, come certi gringos.
Città del Messico sapeva di fumo e di vapori di benzina. Vecchie e grandi
chiese sbilenche, che affondavano nella sabbia molle, donne indiane, con i
marmocchi dai capelli neri accoccolati vicino, che vendevano semi. Traffico.
Rumore. Notte e giorno, una quantità di forti vibrazioni, ma non molto odio.
Bicchierozzi di succo d'arancia fresco e naturale per 8 centesimi. Avevamo tutti
la diarrea, adesso, ma pensavamo che un po' alla volta avremmo finito per
immunizzarci anche noi, come gli indiani. Dico al mio uomo che ho finito i
pannolini per la bambina, e lui fa: "Oh, e tu lascia che la faccia per la strada. Che
cosa c'è di più organico, in fondo?". Ha una logica che è una meraviglia, quando
non è fuori squadra.
Un altro autobus per arrivare nello Yucatan, fuori dal paesaggio desertomontagne e dentro nella giungla. Favoloso, da non credere, tutti quei verdi, ho
sempre avuto un debole per il verde. Liane verdi intrecciate, pigri fiumi verdi, e
uccelli. Grandi uccelli bianchi, dai lunghi colli. "Aironi", dice il mio uomo.
La gente vive in capanne rotonde di stoppie e in vecchi autocarri decorati di
gabbie d'uccelli e di fiori. Gli ambulanti ci vendevano ananassi, e noi non
facevamo che sudare e andare di corpo, sudare e andare di corpo.
Ci aspettavamo che Merida fosse una qualche città primitiva della giungla, così
ci sentivamo alquanto intronati nel vedere i grandi palazzi, le piastrelle e i vetri
istoriati, e le panchine di marmo nella piazza, sulle quali al tramonto si posavano
grandi stormi di corvi. "Proprio lungo le strade di traffico del diciannovesimo
secolo", mi spiegava il mio uomo. "Porci borghesi capitalisti."
Ma nonostante l'aspetto europeo, c'erano folle di indiani-maya in vesti
esotiche e ricamate, e potevi prendere un autobus per visitare piramidi in
rovina, tutte coperte di vegetazione, e il mio uomo cominciava a comportarsi
come se fossimo nei film o nei libri che gli erano stati ficcati nel cervello quando
era studente e lo tenevano calato dentro quella specie di lurida mentalità
artificiale. Diceva cose come, "E se Tarzan piombasse giù all'improvviso, appeso
a quella liana", o "Vuoi vedere che dietro quell'albero ci troviamo Joe Young,
intento a mangiare una banana?"
Andammo a zonzo per lo Yucatan finché non arrivò il momento della partenza
del nostro "traghetto-costiero-e-inter-isole", che era settimanale. "Puro Joseph
Conrad" sospirava il mio uomo. "Il mare scuro come vino...". Più che altro era un
cargo, con le panche per i passeggeri e un tendone di canapa per proteggerli dal
sole e dalla pioggia. Indiani, negri, qualche uomo d'affari cinese o europeo, un
paio di australiani che se ne andavano attorno in calzoni corti, e alcune persone
splendide che rappresentavano un misto di un po' di tutto. Bambini, colazioni
dentro tegami di terracotta, animali con le zampe legate, balle, casse, fagotti.
Salpammo con un tramonto psichedelico, rosso e viola, dividemmo con gli
altri un po' della nostra erba, gli altri divisero con noi la loro aguardiente e le
tortillas con i fagioli neri e il chili. Poi, venimmo investiti da un temporale, con
pioggia e vento. Il telone era utile quasi quanto una gomma a terra, ma noi non ci
lasciavamo smontare, accettavamo anche la tempesta, e Raggiodiluna se ne stava
accoccolata su una coperta, addormentata in mezzo a un mucchio d'altri
bambini, come fossero stati cuccioli. Per tutta la notte, il traghetto fa soste nei
piccoli porti, il battello rollava e beccheggiava, ma noi niente nausea, perché lo
sanno tutti che l'erba è ottima contro il mal di mare. Verso mezzogiorno, il
giorno dopo, arriviamo finalmente dove eravamo diretti: il paradiso, gente, la
Valle dell'Eden.
L'acqua è troppo poco profonda perché il battello possa accostare, così le
canoe vanno avanti e indietro per caricare e scaricare le merci e i passeggeri. Ci
calammo giù per la scaletta insieme a una vecchia negra e a diversi polli, e
incitammo Raggiodiluna a lasciarsi cadere tra le nostre braccia.
Il barcaiolo negro ci fece un gran sorriso e cominciò a remare verso riva, dove
si vedevano casette di legno imbiancate a calce e montate su palafitte, con i tetti
lucenti, di stagno e in mezzo a una quantità di palmizi. Poche persone, con
indosso indumenti che appena appena li coprivano, gli uomini brandendo il
machete, si facevano incontro alle barche, intonando strane cantilene.
Fantastico, vi dico, così noi offriamo da fumare al barcaiolo. Il suo sorriso
diventa ancora più largo.
Gente, stavolta sì che ci siamo! "Ehi", fa il mio uomo, "siamo come Hope e
Crosby in un film sui Caraibi. Stiamo facendo commenti salaci (ma appena
appena, però) su tutte le donne sexy, e a un bel momento ecco che spunta
Dorothy Lamour con un sarong!"
La capitale, Bender Creek Town, era un posto dimenticato da Dio. Case e
capanne, pozzanghere, nella strada principale, in cui galleggiavano anitre.
Fontanelle pubbliche e latrine ogni pochi isolati. Alcuni negozi gestiti da cinesi,
qualche Land-Rover, un mercato con vecchie negre che vendevano frutta,
pappagalli e frittelle, un edificio governativo su una piazzetta, una stanza in
penombra, piena di mosche, in un albergo mezzo cadente. Le vibrazioni
dell'atmosfera erano buone, però tutto era torrido, affollato e contaminato.
La gente era davvero accogliente, con i forestieri, e usciva addirittura in strada
per chiacchierare con noi. Molti cercavano di trovare appoggi per andare in
America e arricchirsi. Il mio uomo cercava di dirglielo di lasciar perdere quelle
boiate. In America sarebbero stati odiati e disprezzati. Non avrebbero avuto né
libertà né dignità. Ma loro ascoltavano con un sorriso sornione, e si capiva che
avevano la mente ai rubinetti cromati, ai frigoriferi, alle auto e a tutte le
cianfrusaglie di plastica dalle quali noi cercavamo di scappare.
Decidemmo di andare in uno dei villaggi, dove la vita era davvero diversa,
dove la gente viveva tranquilla e non c'erano edifici governativi, magazzini e
altre fetenzie americanizzate.
Parliamo con un tizio sul lungomare, e lui ci racconta del villaggio dove è
cresciuto. Su una piccola penisola, circondato da un'ampia laguna, Sea Dog Bank,
dove c'erano tanti di quei manghi che ne avanzavano perfino per i porci. Tutti
sedevano al sole, ogni giorno, a sognare insieme, uniti, a cantare e a "viaggiare".
Ehi! Quello sì era il posto che cercavamo, un paradiso!
Il piccolo traghetto che ci arrivava, due volte al mese, partiva di lì a pochi
giorni, e alla partenza noi eravamo a bordo con il barcaiolo, un po' di pacchi e
fagotti, e due giovani ubriachi, due fratelli, che reggevano un enorme gerla di
cocomeri.
Ci avviammo su per il verde Bender Creek limaccioso, e ben presto ci
ritrovammo in un canale tortuoso e poco profondo, attraverso una palude fitta di
vegetazione. Uccelli che non vedevamo facevano strani versi, pesci che non
vedevamo guizzavano, insetti che non vedevamo ci pungevano, e a un certo
punto sentimmo un "plop" e vedemmo un piccolo coccodrillo grigiastro che
nuotava di fianco alla barca.
"Raggiodiluna, cara, leva le manine dall'acqua!" Detesto limitare così la sua
libertà, povera piccola, ma qui intorno non ci sono nemmeno ospedali!
L'aria era come un panno caldo e umido, e il mio uomo se la spassava un
mondo a dire che il film era "La Regina d'Africa", che lui era Humphrey Bogart e
io Katherine Hepburn e che i tedeschi ci stavano dando la caccia. Qui non ci sono
neppure manicomi, a pensarci bene...
"Il Giardino dell'Eden", così il mio uomo cominciò a chiamare Sea Dog Bank,
"tolto dal libro più antico e più spassoso che ci sia!"
Ed era una autentica comunità.. Il nostro amico, a Bender Creek Town, ci
aveva detto che a Sea Dog non c'era molto bisogno di denaro, ma che se
avessimo portato un po' di regali ci saremmo subito fatti degli amici, così (per
suo consiglio) avevamo comprato un po' di cotonina, di miele, lampadine
tascabili, rum e scatolame, e (il mio uomo sentendosi come Colombo)
distribuimmo il tutto ai fratelli e alle sorelle che venivano incontro alla barca.
Be', li mandammo davvero in brodo di giuggiole, cominciarono ad abbracciarci e
a darci il benvenuto prim'ancora di sapere i nostri nomi.
Alla fine compare la Mamma grande e grossa del villaggio, Miz Rose, e
sentendo che non pensavamo di ripartire con il traghetto ma che volevamo
proprio vivere lì, si illumina in faccia come un lampione e subito comincia a dare
ordini alle figlie con una voce acuta e in un linguaggio che, veniamo a saperlo in
seguito, è un misto di africano, indiano dei Caraibi e inglese, il tutto raccolto da
ministri del culto di passaggio e da radioline a transistor. "La Torre di Babele",
borbotta il mio uomo. Il più delle volte, non so nemmeno di che cosa stia
parlando, ma è certo che da un po' di tempo parla meno difficile.
Miz Rose deve avere avuto almeno un milione di figlie, tutte dal suo
striminzito marito con una gamba sola, che andava a caccia di coccodrilli e una
volta aveva dovuto tagliarsi una gamba da sé, con il machete, perché in mezzo
alla boscaglia era stato morsicato da un serpente velenoso. Prima ancora d'avere
il tempo di finire una paglia, le figlie ci avevano condotto in una piccola capanna
il cui proprietario era morto di recente. C'era il pavimento in terra battuta e Il
tetto di stoppie (pieno d'ogni genere di strani insetti che strisciavano, però
innocui e belli, non come quelli di città, che riflettono le vibrazioni d'odio di
milioni di persone).
C'era un pagliericcio sopra un telaio di legno, un fornello, qualche candela,
piatti di stagno, e niente altro, praticamente. Ci avevano detto che potevamo
sistemarci lì per cinque dollari al mese. Una delle figlie, carina ma quasi senza
denti, si prende i nostri panni sporchi e, ridendo come si fa con una bambina,
quando le offro aiuto, se ne va con il fagotto sulla testa, per andare a lavare allo
stagno. Un'altra figlia ci porta un secchio d'acqua piovana naturale, presa dal
mastello dove viene raccolta e conservata. Un'altra ancora un cesto di frutta, e
Miz Rose in persona, con i suoi centotrenta chili, sempre dando ordini a tutti
quelli che incontra, ci porta un grosso guscio di armadillo con dentro pezzi di
armadillo (che sa di pollo), pesce, frutti dell'albero del pane e piantaggine: erano
stati fatti cuocere con latte di cocco.
O visione! O paradiso! Davanti alla nostra capanna c'erano palme di cocco e un
immenso mango con le orchidee che si arrampicavano su per il tronco. Una
spiaggetta bianca portava alla laguna sul davanti della penisola, dove la gente
nuotava e gli uomini pescavano. Dietro le capanne c'erano gli orti, i polli e i
maiali, che le donne allevavano e, infine, la laguna posteriore, dove c'erano le
latrine, con i pesci gatto affamati di escrementi che ci nuotavano sotto, e dove
nessuno faceva il bagno o pescava.
Non c'erano bidoni per l'immondizia. Quello che la gente non mangiava, lo
mangiavano i cani e i polli, e quello che loro lasciavano veniva dato ai maiali.
Tutto quello che non si poteva mangiare veniva bruciato come combustibile o
usato in qualche modo. Un totale, organico ciclo ecologico, e Raggiodiluna poteva
girare nuda, su e giù per il villaggio, giocando e scroccando roba da mangiare,
senza macchine o altri pericoli a minacciarla.
Per un po', fummo tutti presi dall'entusiasmo. Naturalmente, faceva caldo, un
caldo boia, e non potevamo nuotare troppo al largo nella laguna, per via dei
pescecani, e neppure sedere troppo a lungo nell'acqua bassa, a causa del sole, e
mosche e zanzare sembravano decise ad attaccare con ostilità, e, di giorno,
faceva troppo caldo per fare qualcosa che non fosse bagnarsi in laguna o
starsene seduti in ferra, a fumare erba. Di notte faceva troppo caldo per dormire,
ma non c'era nient'altro da fare, così in qualche modo si dormiva, con i galli che
cantavano in tutto il villaggio, all'alba, per farci sapere che era arrivata l'ora di
frescura e che potevamo sgranchirci un po'. Avevamo letto tutti i nostri libri e
buona parte dei tascabili da due soldi che il barcaiolo aveva comprato per noi a
Bender Creek Town. Per pochi dollari al mese, ci avrebbe ritirato il nostro
assegno, la posta e tutta la droga o la merce dei negozi che serviva per noi o
come regalo a Miz Rose e alle sue molte figlie. E, siccome non c'era molto che
avessimo voglia di fare, né molto da dover fare, grazie a Miz Rose, be', dopo un
po' le nostre energie cominciarono ad andare giù, ma proprio giù. Pensavamo
quasi di andare a stare in un posto che ci avevano descritto, su in collina, dove
faceva più fresco, ed era proprio bello, con i pini e tutto il resto, un paradiso, ma
era troppa fatica arrivare fin lassù. Una mattina all'alba, Miz Rose e il suo uomo
(che se la cava meglio su una gamba sola di come se la caverebbe la maggior
parte degli uomini su tre), si affacciarono alla nostra porta chiusa soltanto da
una tenda per dirci che i granchi di terra stavano correndo verso la boscaglia, e
se volevamo andare a catturarne qualcuno.
Ci vestimmo e uscimmo. Sembrava che tutti, dai sei ai sessantanni, come
dicono gli avvisi pubblicitari, fossero là con grossi sacchi di iuta e lunghi bastoni
appuntiti per infilzare i granchi, e intanto cantavano una canzoncina sulla zuppa
di pesce. Lasciammo Raggiodiluna a una vecchia e, per la prima volta,
camminammo per più di un chilometro, fin dove finisce il villaggio e comincia la
boscaglia.
Un po' più in dentro nella boscaglia, c'era una capanna mezzo sbilenca, tutta
inclinata da una parte e con il tetto che quasi crollava. Dall'interno, veniva un
leggero suono come di tamburo, che ti metteva qualcosa di strano nel sangue. Ci
fermammo là davanti e Miz Rose chiamò: — Fratello Jo, portaci qualcosa contro
il do-do-mon!
Il tambureggiamento continuava. — Non ci sente più bene — spiegò Miz Rose,
mandando dentro una delle sue figlie che, dopo un po', tornò fuori guidando
l'uomo più vecchio che avessi mai visto. Si muoveva a fatica, era quasi cieco per
le cataratte e mezzo sordo, ma dal sorriso che aveva stampato sulla faccia si
capiva che la sua testa era in un posto veramente bello e spirituale.
— Ci sono i granchi di terra, eh? — disse con voce stridula e fessa. — Attenti
che il do-do-mon non si prenda i più piccoli!
Miz Rose gli andò vicino e gli gridò quasi nell'orecchio: — Dacci qualcosa
contro il do-do-mon!
— Eh?
— Qualcosa contro il do-do-mon! — urlò lei.
Lui assentì, e il sorriso si fece anche più largo. Si mise a trafficare con certi
sacchetti di cuoio che portava appesi al collo. Alla fine ne scelse uno e lo diede a
Miz Rose, dicendo: — Portami un po' di zuppa di granchi, capito?
Miz Rose promise, mentre lui se ne tornava dentro a cantare e a suonare il
tamburo. Poi, lei tirò fuori dal sacchetto dei pezzetti di qualcosa che sembrava
corteccia d'albero e li distribuì da mangiare, a tutti.
Qualunque cosa fosse, era una cannonata. Aveva un odore molto forte e molto
dolce, e subito sentimmo l'effetto, come un gioioso "pop" dentro la testa. Poi,
partimmo per il più puro "viaggio" per niente nervoso e per niente paranoico,
che faceva sembrare la cocaina semplice gassosa, ma che fosse qualcosa di
diverso lo sapevamo, perché ci sentivamo ancora addosso l'odore forte e dolce.
— Bravo, fratello Matusalemme — disse il mio uomo. — Tu sì che smerci roba
veramente telepatica.
Ci mettemmo in cammino, ridendo e chiacchierando con gli altri, gli uomini
tagliando il sottobosco a colpi di machete, finché arrivammo alle buche dei
granchi. I granchi erano grandi e azzurrognoli, con rabbiosi occhi peduncolati e
grosse chele che pinzavano. Non ci riuscì di infilzarne neanche uno, ma i nostri
compagni ben prestò ebbero il sacco pieno, e così capimmo che quella sera, al
villaggio, non ci sarebbe stata penuria di zuppa. Inoltre, l'idea principale nelle
nostre teste, era di fare una visitina a Fratello Jo, per ascoltare ancora un po' il
suo tamburo e farci un altro viaggio con un altro po' delle sue erbe spettacolose
e benefiche.
Ne parlammo a Miz Rose, durante la strada di ritorno, e lei ci disse che Jo era il
guaritore della boscaglia, ma poverissimo, e che lui sì avrebbe potuto raccontarci
storie d'ogni genere sui primi abitanti di Sea Dog Bank, e su certe strane
creature che vivevano, nell'acqua e nella giungla. Poteva fornire un canto o una
medicina per qualsiasi male, e lei era sicura che, se gli avessimo portato un
regalino, sarebbe stato contento di parlare con noi. Così, il mattino dopo ci
mettemmo in cammino verso la capanna con un po' dì scatolame e una figlia di
scorta, che ci aiutasse a comunicare.
L'interno era quasi completamente buio, c'era un pessimo odore e si
soffocava, perfino di prima mattina, con ogni sorta di cose striscianti,
svolazzanti, pungenti. C'era, in un angolo, un mucchio di strame e di foglie, una
quantità di avanzi di cibo ammuffito, alcuni tamburi di legno o di pelle di cervo, e
tanti mucchietti di funghi, erbe, corteccia e altre merci dall'aria organica. —
Niente che sia di plastica o borghese, qui — mormorò il mio uomo. Non era tanto
facile chiacchierare con Jo, ma lui fece tante feste quando gli mettemmo sulle
ginocchia i barattoli di roba da mangiare, e ci rivolse un gran sorriso quando la
figlia-guida gli sparò nell'orecchio (con una voce che avrebbe inorgoglito sua
madre) l'ordine di dire per noi storie e canti.
Jo cominciò, in un misto interminabile di spagnolo, africano e inglese biblico, a
cantare, mormorare, chiocciare, ridacchiare e predicare, e noi capivamo sì e no
un terzo di quello che diceva, di cui buona parte erano vecchie storie
evangeliche, ma rimanemmo seduti là fino al pomeriggio, sudando e grattandoci,
e, quando la figlia-guida non guardava, assaggiando un po' di quelle erbe e
intossicandoci, o facendoci venir sonno; oppure viaggiavamo, e sentivamo la
testa che diventava pura e leggera, e di tanto in tanto la nostra mente entrava
nello stesso spazio-tempo della sua, e allora cominciavamo veramente a goderci
qualche storia o canzone.
— Gli Ashi-pampi, volere bene alla gente. Venire di notte e mangiare le braci
di fuochi, ma non fare male alla gente... E questa nenia cura le budella... E JackO'Lantern essere una grande barca con tante lanterne. Passa nella laguna nelle
notti buie, ma quando uomini escono fuori per vederla, scompare... E questo
canto l'ho sentito al porto, quando essere guerra. La strada è lunga... per
Tipperaryyy... la strada è lungaaa lungaaa... Questa radice qui fa il tè per calmare
il fegato... Ma il do-do-mon, lui tutto coperto di pelo, e lui grossi occhi verdi, e lui
anche piedi palmati, come anatra, e lui vivere sotto i cespugli. Certe volte viene
al villaggio, la notte, e ruba bambino che ha perso genitori o moglie che ha perso
suo marito. Se voi mangia quello che vi dà do-do-mon, voi non più tornare, ma se
voi non mangia, allora il do-do-mon vi lascia andare... Questi funghi è quello che
il do-do-mon preferisce mangiare, ma sono veleno per gente normale...
Il vecchio fratello estrasse alcuni funghetti nerastri e rinsecchiti da uno dei
sacchetti di pelle che aveva al collo e ce li mostrò. Avevano un'aria sinistra nella
luce fioca e ronzante di mosche. Mentre li metteva via, gliene cadde uno in terra,
il mio uomo e io ci guardammo, sorridendo. Sapevamo tutto di quei funghi
"velenosi", di solito contenevano le droghe che ti facevano viaggiare più
lontano... e certo uno non poteva far male, specie diviso tra due persone. Solo
una piccola "dose ricreativa", sì?
Così, il mio uomo raccattò il fungo e cominciammo a mangiucchiarlo piano
piano, gustando insieme il sapore legnoso.
E il vecchio continuò con voce monotona. — E questa preghiera alla Santa
Madre, essere buona per il male di denti... — E le zanzare mordevano più forte
del solito, e faceva caldo, e la figlia-guida si era addormentata con la bocca
aperta, russando leggermente, ed era buio, troppo buio, dovevamo uscire alla
luce. Urlammo qualcosa sull'urgenza di usare la latrina e corremmo fuori dalla
capanna.
Da che parte? Al villaggio? No, troppa gente là. Potevamo venire disturbati...
Dalla sensazione che avevamo allo stomaco si capiva già che sarebbe stato un
viaggio intenso. Nella boscaglia, allora; là non c' era nessuno, solo noi e gli alberi.
Cosi ci mettemmo a correre sul sentiero lungo il primo sottobosco di erbacce,
alberi e liane, e notammo che quei funghi crescevano abbondantemente là, non
era difficile raccoglierne se ne volevamo ancora e poi le nostre teste, come dire,
esplosero, ecco, voglio dire che eravamo in un posto completamente diverso!
Tutto era verde, gente, dico proprio uno strato sopra l'altro di verde che
ondeggiava. Non vedevi né un albero né una foglia, solo del verde. Prismi di
verde, un verde che era giallo, un verde che era blu o rosso, o viola, e in quel
verde galleggiavano strane creature d'ogni genere.
Una grossa rana e un airone stavano esercitandosi nel karate e poi si
mettevano a stringersi e a baciarsi e a fare l'amore nel verde. Un grosso
scarafaggio barbuto vestito come un elegante divo del cinema europeo passava
dando a tutti il consiglio di fare un cura termale di 21 giorni a Vichy. Una
minuscola creatura gialla in costume da bagno saltellava via, cantando la Vedova
Allegra e facendosi vento con una padella smaltata di verde, un passerino piatto
ci fluttuava accanto con un enorme vassoio di cibi esotici, mentre un'anatra e un
corvo leggevano storie di fate giapponesi, nel verde, il verde, i prismi di verde...
Forse ci mettemmo diverse ore a tornare giù, anche se potevano essere diversi
anni, da come il nostro senso del tempo era andato a pallino. Sentivamo tanto
spazio dentro la testa e avevamo gli occhi tremendamente dilatati. Tutto
continuava ad avere un'aria verde, sulla pelle e sulla lingua sentivamo quella
specie di strano formicolio, come dopo avere bevuto troppo vino rosso... ma
c'era da aspettarselo, dopo un viaggio di quelli che ti trasportano davvero.
Tornammo verso la capanna per spiegare a Fratello Jo e alla figlia-guida che
eravamo andati per un giretto e ci eravamo perduti.
— Dovete fare attenzione ai serpenti e al do-do-mon — ci ammonì la figlia, e
noi lasciammo che ci guidasse verso la nostra capanna e un'abbondante cena a
base di zuppa di coda di iguana (che sa di pollo) preparata da Miz Rose.
Il giorno dopo era giorno di barca, e ce ne stemmo lì, sentendoci un po' spenti,
fin dopo il pasto di mezzogiorno, quando tutti scesero al piccolo pontile di legno
per aspettare la barca dalla "grande giddà".
Nei nostri pacchi, quel mese, c'era soprattutto cioccolata, aspirina e sigarette,
che piacevano a tutti. E la posta: qualche giornaletto clandestino per il mio
uomo, una lettera di mia madre, e una lettera di quelli dell'assistenza sociale.
Lacerammo subito questa, e questa lacerò noi, perché era per informarci che il
nostro assistente sociale, Phil, era stato licenziato (doveva essere diventato
paranoico e loro porci dovevano avergli sentito le vibrazioni) e che il nostro
nuovo assistente sociale aveva "un carico di casi troppo pesante per potersi
occupare di tutto l'intricato lavoro di scartoffie connesso all'eseguire pagamenti
all'estero". E che, se non ci fossimo spicciati a tornare nella città e nella Contea di
San Francisco entro un mese, sarebbe finita la pacchia. Be', come dicono nei
fumetti... #$%=&'(!!
Voglio dire, si viveva con poco, ma proprio con niente no, maledizione, ci
servivano sempre un po' di dollari per l'affitto, il barcaiolo e tutto il resto... e,
capirete, tornare indietro sarebbe stato uno smacco totale, da perderci il
cervello... gli ospedali, l'inquinamento, l'ostilità dei porci borghesi e dei padroni
di casa e di tutto il maledetto e cornuto mondo integrato. E per carità, dovere
aspettare l'autobus per un'ora in una serata fredda, e cambiare tre volte mezzo,
per arrivare in qualche posto dove in auto ci avresti messo dieci minuti, e sapere
che a Raggiodiluna le avrebbero imbottito il cervello di fanfaluche, e avrebbe
dovuto marciare in fila con i compagni, e alzare la mano se voleva parlare o fare
la pipì... eh, no! Proprio non potevamo tornare a tutte quelle baggianate degli
inurbati, proprio no!
Precipitammo in uno stato di torpore che durò per tutto il resto del giorno e
della notte. Avevamo il morale proprio in cantina, e la mente giù di corda, ma giù
giù.
Il mattino dopo, decidemmo che la cosa migliore da fare era intossicarsi ben
bene, chissà che la nostra testa non sarebbe finita in una dimensione migliore,
dove poter studiare sul da farsi. Decidemmo di tornare nella boscaglia e
raccogliere ancora un po' di quei funghi "velenosi" che Fratello Jo ci aveva fatto
apprezzare.
Dicemmo a tutti che avevamo voglia di fare una camminata. — Attenti al sole
— ci avvertì Miz Rose, quando le affidammo Raggiodiluna. Ci addentrammo nella
boscaglia, andammo un po' in ricognizione e trovammo una piccola macchia di
funghi sotto un grosso cespuglio fiorito.
— Stavolta ci va di fare il pieno, vero? domandò il mio uomo, e si chinò,
agguantò un paio di funghi belli grossi e se li mise in bocca. Feci lo stesso anch'io,
poi strisciammo sotto il cespuglio, con il caldo torrido e appiccicoso, a gustare i
suoni e i profumi della giungla. Provavamo quella sensazione di attesa, come
prima che qualcosa si metta a funzionare; ma, gente, ve ne accorgevate subito
quando quella roba faceva effetto... mamma mia...
Ed eravamo di nuovo là, di nuovo nella magica torre del verde, con tutti quegli
strani personaggi da fumetti che ballavano e facevano altre cose, ma stavolta
non ci limitammo a stare là.
Stavolta arrivammo con la testa in un posto nuovo, un posto limpido limpido, i
verdi c'erano sempre, ma era come se vedessimo tutta la giungla in una volta, e
ne annusassimo tutti gli odori, e ne sentissimo tutti i rumori, proprio come se
anche noi fossimo stati animali o qualcosa del genere. E io guardavo il mio uomo
e, be', ne dà di allucinazioni strane quel fungo, perché figuratevi che lui
sembrava tutto peloso, e le mani e i piedi sembravano come le zampe dell'anitra!
Glielo dissi, e lui aprì gli occhi. Erano enormi e verdi, come giada perlacea, e poi
rise e disse: — Ehi, sembri così anche tu. La metamorfosi... — Ma non ero troppo
sicura che ci fosse da ridere, perché di solito capisci quand'è un'allucinazione e
quando non lo è, mentre stavolta non potevo. Mi preoccupava, la cosa, ma non
volevo dirgli niente che magari lo facesse andare giù di corda.
Dopo alcune ore, ci alzammo e ci mettemmo a camminare. L'aria era
stranamente fresca e dolce; e stavamo davvero viaggiando tra suoni, visioni e
odori di cui non avevamo mai immaginato l'esistenza.
Mangiammo qualche frutto, ma più che altro avevamo fame di un altro po' di
quei funghi, così ne mangiammo, però non ci caricarono ancora di più, ci tennero
là dov'eravamo fino in piena notte, quando scoprimmo che potevamo davvero
vederci al buio.
Animali e serpenti ci venivano vicino e non sembrava che fossero ostili o
avessero paura. Li accarezzavamo e davamo loro qualche frutto, ed eravamo
tutt'uno con le loro vibrazioni. Alla fine ci accoccolammo sotto un cespuglio e ci
mettemmo a dormire, pensando che per mattina saremmo tornati giù, e
saremmo stati quelli di prima, come aspetto.
Ma il mattino dopo eravamo in viaggio più che mai, e io cominciavo ad avere
un po' di paura. Mi chiedevo: "Possibile che resteremo sempre così? Con tutto
intorno a noi così nitido e allucinante, tanto che ci pare di vivere uno dei racconti
di Fratello Jo?"
Poi pensammo che forse era meglio passare dalla sua capanna, lui magari ci
avrebbe dato qualcosa per farci tornare giù, così trovammo la strada che
ritornava verso il villaggio ed entrammo in punta di piedi nella capanna sbilenca.
Alcune delle figlie di Miz Rose erano là, a farsi massaggiare la schiena con degli
unguenti, ma quando ci videro sulla soglia cominciarono a starnazzare, a urlare e
a tirarci cose come se fossimo stati King Kong o che so io!
— Il do-do-mon! Fratello Jo, c'è qui il do-do-mon! Presto, dacci qualcosa per il
do-do-mon! — Da principio Fratello Jo non capiva, ma alla fine sentì, diventò
frenetico anche lui e cominciò ad armeggiare con quella corteccia che aveva dato
a tutti prima della caccia al granchio. Quando quelle la inghiottirono,
cominciammo a sentire il più orribile, spaventoso, nauseante odore dolciastro di
cadaveri, un odore che ci dava i conati e ci faceva sentire male da morire. ,
Corremmo fuori di là, e loro ci rincorsero, lanciandoci tutto quello che capitava a
tiro e la loro mira era maledettamente buona, boia d'una miseria!
Tornammo di corsa verso il cespuglio fresco e amico, ci ficcammo là sotto per
vomitare e massaggiarci le ammaccature, finché ci sentimmo di nuovo più o
meno bene, ma stralunati, diciamo.
E ancora non tornavamo giù. Pensammo che una volta smesso di mangiare i
funghi, anche se ne avevamo una voglia pazza... Così aspettammo un po' ma
continuavamo ad avere quell'aspetto strano.
Ancora non eravamo tornati giù.
Be', gente, la nostra testa è passata attraverso una quantità di cambiamenti, da
allora. È più di un mese ormai, e per un po' fummo veramente giù di giri per
tutta questa faccenda, specialmente il mio uomo.
"Non puoi essere un rivoluzionario quando hai l'aspetto di un mammifero
acquatico" continuava a dire. Ma dopo un po' smise di preoccuparsi della
rivoluzione, come se non avesse davvero importanza, lì nella "boscaglia.
Poi, cominciammo a pensare come sarebbe stato divertente tornare a San
Francisco per vedere di incassare il nostro assegno. Allora sì che sarebbero
diventati matti, ci avrebbero usati come un "perfetto esempio di abuso della
droga" ma, in fondo, lì non sapevamo che farcene del nostro assegno. Avevamo i
funghi e la frutta esotica, cespugli dove dormire e potevamo passare il tempo a
guardare il verde, tutte le innumerevoli tonalità di verde...
In ogni modo, non potevamo rimanere al villaggio senza soldi per l'affitto o
tavolette di cioccolata e porcherie varie... e saremmo morti se avessimo dovuto
tornare alla vita marcia e integrata del Sistema. E, sapete, dopo un po' che
eravamo qui, avevamo cominciato a perdere una quantità di quelle balle
artificiali che ci erano state programmate nella testa fin da bambini. Leggere,
scrivere, quando uno non se ne serve, sono cose che se ne vanno. E noi viviamo
talmente attimo per attimo che non ne sentiamo la mancanza. Stiamo entrando
in un vero contatto telepatico con gli animali, gli insetti, perfino con le piante...
quella pelliccia addosso ci mantiene belli freschi, e nuotare con i piedi palmati è
proprio un gas. Non mi importa più un corno di tutte quelle "astratte" frottole
degli umani... si vede che proprio non mi trovavo bene nel loro mondo.
L'unico problema è che ci sentiamo un po' soli, qui, soltanto io e il mio uomo.
Ce ne sono altri, qua in mezzo, tutti come noi, ma è difficile parlare con loro... se
ne stanno immobili a fissare nel vuoto e a mangiare funghi... proprio isolati.
Il mio uomo dice: — Se potessimo ricordarci come si fa a scrivere, potremmo
scrivere al nostro assistente sociale, Phil, di venire a raggiungerci... se ci fosse
della carta qui... o francobolli... o buche delle lettere!
Abbiamo tentato qualche volta di tornare al villaggio per parlare con i fratelli
e le sorelle... dire che non c'era niente da temere... ma non vogliono nemmeno
ascoltare! Cominciano a gracidare e a infanatichirsi, mangiano quella maledetta
corteccia con quell'odore disgustoso e ci corrono dietro con i machete. Fino a
che punto possiamo assorbirle, quelle cattive vibrazioni?
C'è una cosa che mi farebbe sentire meglio, e intendo fare un tentativo per
ottenerla. La prossima volta che ci sarà una notte buia senza luce, voglio andare
al villaggio e portarmi via la mia piccola. Sono certa che Miz Rose la tratta
benissimo, ma voglio averla qui con e... i suoi modi buffi, le sue risatine mi
farebbero tanta compagnia... Da mangiare posso darle un po' di funghi. (Cos'ha
detto, Fratello Jo? Il do-do-mon prende i bambini che hanno perso i genitori... e
mangiano quello che gli dà do-do-mon, allora lui se li tiene, ma se non lo
mangiano, allora il do-do-mon deve lasciarli andare... giusto, Fratello Jo). Ma io
so che posso convincere Raggiodiluna a mangiare un po' di quei funghi... è una
bambina così fiduciosa. Così, potrà vibrare insieme con noi. Chissà come le
piacerà un bel viaggio in tutto quel verde... tra tutti quegli innumerevoli prismi
di verde...
Robert Silverberg
QUANDO ANDAMMO A VEDERE LA FINE DEL MONDO
(When We Went to See The End of the World, 1972)
Traduzione di Hilia Brinis
Nick e Jane erano contenti d'essere andati a vedere la fine del mondo, perché
così avevano qualcosa di speciale di cui parlare alla festa di Mike e Ruby. Fa
sempre piacere recarsi a un "party" armati di un piccolo argomento di
conversazione. Mike e Ruby danno feste meravigliose. La loro casa è splendida,
una delle più belle del vicinato. Una casa fatta veramente per tutte le stagioni,
per tutti gli stati d'animo. Il loro particolarissimo angolo di mondo. Con tanto
spazio dentro e fuori, tanta libertà. Il soggiorno, con il soffitto a cassettoni,
sembra fatto apposta per ricevere. Molto curato nei particolari, con la zonaconversazione e il caminetto. C'è anche una stanza da pranzo, anche questa con
il soffitto a cassettoni, e i pannelli di legno, più uno studio. E un sontuoso reparto
notte, con uno spogliatoio di quasi quattro metri quadrati, e un bagno personale.
Le linee esterne sono solide e imponenti. Il cortile è ben riparato. Tutt'intorno,
un bel parco con tanti alberi. I loro ricevimenti sono l'avvenimento più atteso del
mese.
Nick e Jane aspettarono finché sembrò loro che fosse arrivata abbastanza
gente. Poi Jane diede di gomito a Nick e Nick disse in tono gaio: — Sapete
cos'abbiamo fatto la settimana scorsa? Siamo andati a vedere la fine del mondo!
— La fine del mondo? — domandò Henry.
— Siete andati a vederla? — disse Cynthia, la moglie di Henry.
— E come avete fatto? — volle sapere Paula.
— È da marzo, che ci si può andare — spiegò Stan. — Credo che
l'organizzazione sia di un ufficio dell'American Express.
Nick c'era rimasto male, nel sentire che Stan sapeva già tutto. In fretta, prima
che Stan potesse aggiungere altro, disse: — Sì, è un'iniziativa recente. È stato il
nostro agente di viaggi a scoprirlo. Fanno così, ti mettono dentro una macchina
che sembra un sommergibile in miniatura e che al posto di guida ha i suoi bravi
strumenti e leve, al di là di una parete di plastica, sapete, in modo che uno non
possa toccare niente. Poi, ti spediscono nel futuro. Per pagare basta avere una
normale carta di credito.
— Ma chissà quanto costa — disse Marcia.
— I prezzi stanno calando rapidamente — disse Jane. — L'anno scorso
potevano permetterselo soltanto i miliardari. Davvero non ne avevate mai
sentito parlare?
— Che cosa avete visto? — chiese Henry.
— Per un po', soltanto del grigio al di là dell'oblò — disse Nick. — E una specie
di tremolio luminoso. — Stavano tutti girati verso di lui. Gli piaceva essere al
centro dell'attenzione. Jane aveva un'espressione rapita, amorevole. — Poi la
nebbia si è diradata, e attraverso l'altoparlante una voce ha detto che ormai
eravamo arrivati alla fine del tempo, quando la vita sulla Terra era diventata
impossibile. Naturalmente, eravamo chiusi dentro il sommergibile, chiamiamolo
così. Potevamo soltanto guardar fuori. Abbiamo visto una spiaggia, una spiaggia
deserta. L'acqua era di uno strano colore grigiastro, con un luccichio rosato. Poi,
si è levato il sole. Era rosso come lo si vede certe volte al tramonto, solo che, via
via che saliva nel cielo, rimaneva rosso, e sembrava appesantito e con i contorni
un po' flaccidi. Come qualcuno di noi, che spasso! Appesantito e un po' flaccido!
Sulla spiaggia tirava un vento gelido!
— Se eravate chiusi dentro il sommergibile, come facevate a sapere che tirava
un vento gelido? — chiese Cynthia.
Jane le diede un'occhiataccia. Nick disse: — Vedevamo la sabbia che si
sollevava tutt'attorno. E si capiva che era freddo. L'oceano era grigio. Come
d'inverno.
— Racconta del granchio — disse Jane.
— Ah, sì, il granchio. L'ultima forma di vita sulla Terra. Non era proprio un
granchio, s'intende, era un affare largo più di mezzo metro e alto almeno trenta
centimetri, con una specie di guscio d'un verde lucente, molto spesso. Come
minimo aveva una dozzina di gambe e dei corni ricurvi puntati verso l'alto. E si
spostava lentamente, davanti a noi, da destra a sinistra. Ha impiegato tutta la
giornata per attraversare la spiaggia. Poi, verso sera, è morto. I corni sono
ricaduti, inerti, e lui ha smesso di muoversi. È arrivata la marea e se le portato
via. Poi abbiamo visto il sole andare giù. Luna non ce n'era. C'erano le stelle ma
sembravano stranamente fuori posto, tutte. L'altoparlante ci ha avvertiti che
avevamo appena assistito alla morte dell'ultima cosa vivente sulla Terra.
— Fa senso! — gridò Paula.
— Siete stati via molto? — chiese Ruby.
— Tre ore — disse Jane. — Uno può passare anche giorni o settimane alla fine
del mondo, se è disposto a pagare qualcosa in più, però ti riportano indietro
sempre a tre ore esatte dalla partenza. Sai com'è, per non far salire le spese per
la baby-sitter.
Mike offrì a Nick da fumare. — Certo che è un'idea niente male — disse. —
Essere andati fino alla fine del mondo. Ehi, Ruby, magari gliene parliamo, al
nostro agente di viaggi.
Nick tirò una profonda boccata di marijuana e passò la paglia a Jane. Era
soddisfatto di sé per come aveva raccontato la storia. Erano rimasti tutti molto
colpiti. Quel solo rosso e gonfio, quel granchio travolto dalla marea. Il viaggio era
venuto a costare più di un mese in Giappone, ma era stato un ottimo
investimento: Lui e Jane erano stati i primi ad andarci. Era importante. Paula lo
stava fissando, ammirata. Nick sapeva che adesso lei lo considerava sotto una
luce completamente diversa. Non era escluso che, martedì, gli avrebbe dato
appuntamento in un motel per l'ora di colazione. Il mese scorso gli aveva detto
di no, ma ora Nick. sapeva d'avere un'attrattiva in più agli occhi di lei. Le strizzò
un occhio. Cynthia e Stan si tenevano per mano. Henry e Mike erano entrambi
accoccolati ai piedi di Jane. Il figlio dodicenne di Mike e Ruby entrò nella stanza e
si fermò sul limitare della zona-salotto.
— Hanno appena trasmesso una notizia per radio — disse.
Delle amebe mutate sono fuggite da un centro ricerche governative e sono
finite nel Lago Michigan. Diffondono un virus che dissolve i tessuti, e in ben sette
Stati si dovrà bere soltanto acqua bollita, fino a nuovo ordine.
Mike fissò accigliato il ragazzo e disse: — Dovresti essere a letto da un pezzo,
Timmy.
— Il ragazzo lasciò la stanza. Il campanello suonò. Ruby andò ad aprire e
ritornò con Eddie e Fran.
Paula disse: — Nick e Jane sono andati a vedere la fine del mondo. Ci stavano
appunto raccontando.
— Ma no! — esclamò Eddie. — Anche noi siamo stati a vederla, mercoledì
sera.
Nick si sentì avvilito. Jane si addentò il labbro e chiese sottovoce a Cynthia
perché Fran si vestisse sempre in modo tanto vistoso. Ruby disse: — Avete visto
tutto, eh? Il granchio e via discorrendo?
— Il granchio? — ripetè Eddie. — Quale granchio?
— Sarà morto la volta precedente — disse Paula. — Quando c'erano là Nick e
Jane.
— Voi quando ci siete andati? — chiese Eddie a Nick.
— Domenica pomeriggio. Saremo stati i primi, penso.
— Viaggio interessante, vero? — disse Eddie. — Un po' triste magari. Quando
quell'ultima montagna sprofonda in mare.
— Non è quella che abbiamo visto noi — disse Jane. — E voi non avete visto il
granchio? Ma allora saranno stati due itinerari diversi.
— Il tuo com'era, Eddie? — Chiese Mike.
Eddie circondò Cynthia con le braccia, da dietro. — Ci hanno chiusi dentro
quella piccola capsula, no?... con un portello, tutta una serie di quadranti...
— Sì, questo l'abbiamo sentito — disse Paula. — Ma che cosa avete visto?
— La fine del mondo — Rispose Eddie. — Quando l'acqua copre tutto. Il sole e
la luna erano in cielo contemporaneamente...
— Noi la luna non l'abbiamo vista affatto — precisò Jane. — Non c'era.
— Era da una parte e il sole era dall'altra — riprese Eddie. — E la luna era più
vicina di come è di solito. Aveva anche un colore strano, un po' come il bronzo. E
l'oceano continuava ad avanzare. Abbiamo fatto il giro di tutto un emisfero e non
si vedeva altro che acqua. Salvo in un punto, dove c'era quel pezzo di terra che
sporgeva; un colle, sembrava, ma la guida ci ha detto che era la cima del Monte
Everest. — Fece cenno a Fran. — Vero che faceva effetto, galleggiare dentro
quella specie di barchetta vicino alla cima del Monte Everest? Al massimo tre
metri, ne sporgevano. E l'acqua continuava a salire. Su, su, su. Su fino alla cima.
Glub! Niente più terra. Vi confesso che è stato un po' deludente, salvo l'idea della
cosa, si capisce. Che l'ingegno umano possa disegnare una macchina capace di
mandare la gente in là nel tempo di miliardi d'anni e poi riportarla indietro, be',
capirai! Ma da vedere c'era l'oceano e basta.
— Che strano — disse Jane. — Anche noi abbiamo visto un oceano, però c'era
una spiaggia, Una spiaggia un po' paurosa, magari, e il granchio che ci
camminava sopra, e il sole... Era rosso rosso, il sole. Era rosso, quando l'avete
visto voi?
— No. Era verdognolo — disse Fran.
— State parlando della fine del mondo? — s'informò Tom. Lui e Harriet erano
fermi sulla porta, si stavano sfilando i soprabiti. Doveva averli fatti entrare il
figlio di Mike. Tom consegnò il soprabito a Ruby e disse: — Ragazzi, che
spettacolo!
— Perché, l'avete visto anche voi? — chiese Jane, con voce un po' sorda.
— Due settimane fa — disse Tom. — Ci chiama l'agente dì viaggi e ci fa:
"Indovinate un po' cosa vi offriamo, ora? La fine di questo sporco mondo!" Con
tutti gli extra, non veniva nemmeno a costare tanto. Così siamo andati subito là
in agenzia, sabato, mi pare... o è stato venerdì? Mah, so che è stato il giorno di
quella grave sommossa, quando hanno dato fuoco a St. Louis...
— Allora, sabato — disse Cynthia. — Ricordo che tornavo dall'essere stata in
centro a fare spese, quando la radio ha detto che stavano usando i candelotti
nucleari...
— Sabato, sì — confermò Tom. — Tanto che dicemmo che eravamo pronti per
andare, e ci hanno fatti partire subito.
— Avete visto una spiaggia con granchi — chiese Stan — o era un mondo
sommerso dall'acqua?
— Né una cosa né l'altra. Era come un'era glaciale. I ghiacciai coprivano tutto.
Non si vedevano più né oceani né montagne. Noi volavamo tutt'intorno al
mondo, ed era come un'immensa palla di neve. Il veicolo era munito di grossi
fari, perché il sole si era spento.
— Io ero sicura di vederlo, il sole, ancora sospeso là in alto — intervenne
Harriet. — Come una palla di cenere nel cielo. Ma la guida diceva di no, che
nessuno poteva vederlo.
— Come mai ognuno riesce a visitare un genere diverso di fine del mondo? —
chiese Henry. — Secondo la logica, di fine del mondo dovrebbe essercene una
sola. Voglio dire, il mondo arriva alla fine, la fine è in un certo modo, e non può
essere che un modo solo.
— Non sarà tutto falso? — chiese Stan. Tutti si girarono a guardarlo. La faccia
di Nick diventò rossa rossa. Fran aveva un'espressione talmente feroce che
Eddie lasciò andare Cynthia e cominciò ad accarezzare le braccia di Fran. Stan si
strinse nelle spalle. — Non sto affermando che lo sia — disse, sulla difensiva. —
Facevo una semplice ipotesi.
— A me è sembrato genuino — disse Tom. — Il sole ormai spento. Una grossa
palla di ghiaccio. L'atmosfera gelata, giusto? La fine di questo sporco mondo.
Il telefono suonò. Ruby andò a rispondere. Nick chiese a Paula se era libera
per l'ora di colazione, martedì. Lei disse di si. — Troviamoci al motel — disse lui,
e lei gli sorrise. Eddie stava riattaccando con Cynthia. Henry sembrava alquanto
sbronzo, faceva fatica a stare sveglio. Arrivarono Phil e Isabel. Sentirono Tom e
Fran parlare dei rispettivi viaggi fino alla fine del mondo, e Isabel disse che lei e
Phil c'erano andati appena due giorni prima. — Eh, la miseria! — disse Tom. —
Ci sono andati proprio tutti! Il vostro viaggio com'era?
Ruby rientrò nella stanza. — Era mia sorella, chiamava da Fresno per farmi
sapere che lei sta benissimo. Fresno non è stata neppure toccata dal terremoto.
— Terremoto? — chiese Paula.
— Sì, in California — spiegò Mike. — Questo pomeriggio. Non lo sapevi? Ha
spazzato via buona parte di Los Angeles, e l'hanno sentito lungo tutta la costa,
praticamente fino a Monterey. Pensano che sia dipeso da quelle bombe che sono
state fatte scoppiare sottoterra, nel deserto del Colorado.
— In California, continuano a succedere disastri uno dopo l'altro — disse
Marcia.
— Meno male che quelle amebe sono fuggite laggiù all'est — disse Nick. —
Pensate che razza di complicazione, per quei poveracci di Los Angeles, se si
fossero visti capitare anche quelle.
— Capiteranno — sentenziò Tom. — Scommetto quello che vuoi che si
riproducono per spore, nell'aria.
— Come i germi tifoidei del novembre scorso — disse Jane.
— Quello era tifo — corresse Nick.
— In ogni modo — riprese Phil — stavo raccontando a Tom e a Fran quello
che abbiamo visto alla fine del mondo. Era il sole che diventava una nova. E
come lo facevano vedere bene, anche! Intendiamoci, non puoi certo essere lì a
vivere l'esperienza materialmente, bisogna pensare che c'è il calore spaventoso,
le radiazioni, e così via. Però ti presentano la cosa in modo periferico, molto
elegante, nel senso McLuhanesco della parola. Prima ti portano a circa due ore
dallo scoppio, capito? È di qui a non so quanti miliardi d'anni, di preciso, in ogni
modo di tempo ne passa, perché gli alberi sono completamente diversi, coperti
di squame azzurre e con rami che sembrano funi, e gli animali sono così strani
con una gamba sola, che saltellano attorno su una specie di trampolo...
— Ma va, non ci credo! — esclamò pigramente Cynthia.
Phil la ignorò con bel garbo. — E non si vedeva nessuna traccia di esseri
umani, non una casa, non un palo, del telefono, niente, perciò penso che chissà
da quanti millenni eravamo già estinti, no. Ti fermano lì, dicevo, e ti lasciano
contemplare un po' la situazione. Senza uscire da|la macchina del tempo,
naturalmente, perché l'atmosfera non è adatta, a sentir loro. Poi, un po' alla volta
il sole comincia a gonfiarsi. Eravamo un po' nervosi, vero, Isabel? Sì, dico,
mettiamo che avessero calcolato male qualcosa? Un viaggio così è un concetto
molto nuovo, può sempre capitare che qualcosa vada storto. Il sole diventava
sempre più grosso, poi si è visto un coso simile a un braccio che sembrava saltar
fuori dal lato sinistro: un grosso braccio infuocato che si protendeva attraverso
lo spazio, avvicinandosi sempre più. Noi lo vedevamo attraverso vetri affumicati,
come si guarda un eclissi. Ci hanno lasciato seguire l'esplosione per un paio di
minuti e ci accorgevamo già che la temperatura saliva. Poi, abbiamo fatto un
balzo in avanti nel tempo di un paio d'anni. Il sole era tornato della sua forma
normale, soltanto che era più piccolo, non so come spiegarvi: un solicello bianco,
invece di un bel sole giallo. E sulla Terra tutto era cenere.
— Cenere — ripetè Isabel, con enfasi.
— Sembrava un po' Detroit dopo che il sindacato aveva messo k.o. la Ford —
disse Phil. — Peggio, però: molto peggio. Intere montagne completamente fuse.
Oceani disseccati. Tutto in cenere. — Rabbrividì e accettò una sigaretta da Mike.
— Isabel piangeva.
— Quei poveri cosini su una gamba sola — disse Isabel. — Pensate,
completamente spazzati via! — Cominciò a singhiozzare. Stan la consolò. —
Chissà perché tutti quelli che ci vanno vedono una fine diversa — disse. — Il
gelo. Gli oceani. Il sole che esplode. Oppure le cose che hanno visto Nick e Jane.
— Sono convinto che ciascuno di noi ha vissuto un'esperienza autentica in un
futuro di là da venire — disse Nick. Sentiva di dover riacquistare un ascendente
sul gruppo, in un modo o nell'altro. Aveva vissuto un momento così bello, nel
raccontare la sua storia, prima che arrivassero gli altri. — Vale a dire, il mondo
soffre di una varietà di calamità naturali, non è detto che la fine del mondo sia
una sola e loro continuano a mescolare le cose e a spedire la gente verso le
diverse catastrofi. Ma io non ho dubitato neppure per un istante di assistere a un
evento autentico.
— Dobbiamo andarci anche noi — disse Ruby a Mike. — Ci si va in tre ore
appena, perché non telefoniamo, lunedì mattina, e non prendiamo un
appuntamento per giovedì sera?
— Lunedì ci sono i funerali del Presidente — le fece notare Tom. — L'agenzia
di viaggi sarà chiusa.
— L'hanno poi preso, l'assassino? — chiese Fran.
— Al notiziario delle quattro non hanno detto niente — disse Stan. — Mi sa
che la farà franca, come è successo l'ultima volta.
— Va' un po' a capire perché tutti vogliono diventare presidenti — disse Phil.
Mike mise su un po' di musica. Nick ballò con Paula, Eddie ballò con Cynthia.
Henry si era addormentato. Dave, il marito di Paula, aveva le stampelle a causa
di un'aggressione subita, e invitò Isabel a sedersi vicino a lui, per tenergli un po'
di compagnia. Tom ballava con Harriet, pur essendo sposato con lei. Lei era
uscita dall'ospedale da pochi mesi, dopo il trapianto, e lui la trattava con estrema
tenerezza. Mike ballava con Fran. Phil ballava con Jane. Stan ballava con Marcia.
Ruby si avvicinò a Eddie e Cynthia, e si appropriò del cavaliere. Poi Tom ballò
con Jane e Phil ballò con Paula. La bambina di Mike e Ruby si svegliò e fece
un'apparizione per salutare gli ospiti. Mike la rimandò a letto. In lontananza, si
sentì il rumore di un'esplosione. Nick ballò di nuovo con Paula, ma non voleva
venirle a noia prima di martedì, così si scusò e andò a chiacchierare con Dave.
Dave si occupava di quasi tutti gli investimenti di Nick. Ruby disse a Mike: — Il
giorno dopo i funerali, ti ricorderai di telefonare all'agenzia di viaggi? — Mike
disse di sì, ma Tom osservò che senza dubbio qualcuno avrebbe sparato al nuovo
presidente, e ci sarebbe stato un altro funerale. Stan osservò che quei funerali
stavano compromettendo la produttività nazionale, con tutte le attività ferme
per lutto continuamente. Nick vide Cynthia svegliare Henry e chiedergli in tono
brusco se l'avrebbe portata a fare quel viaggio alla fine del mondo. Henry taceva,
imbarazzato. Lo sapevano tutti che la sua fabbrica era stata fatta saltare, a
Natale, durante una dimostrazione di pace, e che lui si trovava in cattive acque.
— Puoi fartelo mettere in conto — disse Cynthia, e la sua voce autoritaria si
udiva benissimo al di sopra del chiacchiericcio. — È talmente bello, Henry. Il
ghiaccio. O il sole che esplode. Voglio andarci.
— Dovevano venire anche Lou e Janet, stasera — disse Ruby a Paula. — Ma il
loro figlio più giovane è tornato dal Texas con quella nuova forma di colera, e
così sono stati costretti a rimandare.
Phil disse: — Ho sentito che una coppia ha visto la luna disintegrarsi. Si era
avvicinata troppo alla Terra, poi si è spaccata in tanti pezzi e i pezzi cadevano
come meteore. Fracassando tutto, capite? Un frammento enorme per poco non
investiva la loro macchina del tempo.
— A me quello non sarebbe piaciuto — disse Marcia.
— Il nostro viaggio è stato molto bello — disse Jane. — Niente cose violente.
Solo quel gran sole rosso, la marea e quel granchio che strisciava lungo la
spiaggia. Eravamo tutti e due profondamente commossi.
— Incredibile, quello che riesce a fare la scienza al giorno d'oggi — disse Fran.
Mike e Ruby rimasero d'accordo che avrebbero cercato di combinare per un
viaggio alla fine del mondo non appena il funerale fosse terminato. Cynthia, che
aveva bevuto troppo, si sentì male. Phil, Tom e Dave si misero a discutere di
borsa. Harriet raccontò a Nick l'operazione subita. Isabel flirtava con Mike,
tirandosi sempre più in giù la scollatura. A mezzanotte, qualcuno accese il
televisore per vedere il telegiornale. C'erano alcune sequenze sul terremoto, poi
l'annunciatore raccomandò di bollire l'acqua a tutti quelli che abitavano negli
Stati interessati. Qualche immagine della vedova del presidente, in visita alla
vedova dell'ultimo presidente, per farsi dare qualche consiglio per i funerali.
Infine, un'intervista con un dirigente della società dei viaggi nel tempo. "Un
successo fenomenale" diceva il dirigente. "Prevediamo che, l'anno prossimo, i
viaggi nel tempo costituiranno l'industria in maggiore sviluppo della nazione".
L'intervistatore chiese se la compagnia avrebbe avuto presto qualcos'altro da
offrire, oltre i viaggi alla fine del mondo. "In seguito, speriamo di sì" disse il
dirigente. "Quanto prima, sottoporremo nuovi programmi all'approvazione del
Congresso. Nel frattempo, la richiesta per quanto abbiamo da offrire oggi è
altissima. Non se ne ha un'idea. Naturalmente, c'era da aspettarselo di ottenere
un immenso successo con cose apocalittiche, in tempi come questi". "In che
senso, in tempi come questi?" chiese l'intervistatore. Ma, mentre stava per
rispondere, il funzionario della Società Viaggi nel Tempo venne interrotto da un
comunicato commerciale. Mike spense il televisore. Nick si accorse d'essere
estremamente depresso. Probabilmente dipendeva dal fatto che tanti suoi amici
avevano fatto quel viaggio, mentre lui e Jane avevano creduto d'essere stati i soli,
a farlo. Si ritrovò, fermo accanto a Marcia e tentò di descriverle il modo in cui si
muoveva il granchio, ma Marcia si limitò a una scrollata di spalle. Nessuno
parlava più di viaggi nel tempo, ormai. La festa aveva superato quella fase; era
passata oltre. Nick e Jane presero congedo piuttosto presto e andarono subito a
dormire, senza nemmeno fare all'amore. Il mattino dopo, il giornale della
domenica non venne recapitato a causa di uno sciopero e la radio disse che le
amebe mutanti si stavano rivelando più difficili da sradicare di quanto era stato
previsto in un primo momento. Stavano contaminando anche il Lago Superiore,
e tutti, nella regione, avrebbero dovuto bere soltanto acqua bollita. Nick e Jane
discussero su dove andare per la loro prossima vacanza.
— Se andassimo a vedere un'altra volta la fine del mondo? — suggerì Jane, e
Nick si fece una gran risata.
FINE