Perché scrivere. “Non dimenticate, raccontate, scrivete
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Perché scrivere. “Non dimenticate, raccontate, scrivete
Perché scrivere. “Non dimenticate, raccontate, scrivete!” : sono queste le ultime parole rivolte ai suoi compagni dallo storico Simon Dubnov prima di essere assassinato a Riga nel dicembre 1941, durante le operazioni di eliminazione del ghetto nella Lettonia invasa dai nazisti. Annette Wieviorka apre con questa evocazione il suo libro L'era del testimone, titolo che indica efficacemente il ruolo che la testimonianza ha assunto nella storiografia contemporanea per la ricostruzione di eventi – la guerra totale , le stragi di civili, e in particolare la Shoah- che si proponevano, oltre alla distruzione della vita di individui e di intere comunità, l'obiettivo della cancellazione sistematica della memoria e la vanificazione di ogni possibilità di conoscenza e di comprensione, secondo un progetto deliberato di vero e proprio “mnemocidio”. Nel secondo dopoguerra, la pubblicazione di un gran numero di diari, lettere, autobiografie, o anche solo di fotografie e di elenchi di nomi – insomma di “libri del ricordo”- ha vendicato le vittime dimenticate, rispondendo “alla volontà o alla necessità di ricordarsi, di far rinascere attraverso le parole stampate, un mondo annientato”. Allo stesso intento si sono ispirati i memoriali e i musei sorti in varie parti del mondo. Certamente il resoconto dei singoli non basta. Il lavoro dello storico dovrà “filtrare” e “oggettivare” le esperienze soggettive, inserendole in un contesto più generale e distaccato, accertando, selezionando, confrontando. Ma alla testimonianza spetta in ogni caso un compito essenziale: solamente dalla voce diretta di chi racconta viene, per chi è sopravvissuto, la forza di infrangere il silenzio e la paura che lo accompagna e, per chi ascolta, l'assunzione di una consapevolezza che è insieme riconoscimento di ciò che è stato e impegno per il futuro. Salvare la memoria è, per certi aspetti, un compito paradossale. Come ha scritto Peter Weiss pensando ad Auschwitz, “il vivente che viene in questo luogo da un altro mondo, non possiede altro che la sua conoscenza delle cifre, dei resoconti che ne sono stati fatti, le ricostruzioni dei testimoni oculari; esse sono una parte della sua vita, se le porta dietro, ma può comprendere solo ciò di cui fa esperienza”. La questione assume oggi una nuova dimensione, e una nuova urgenza, per l'inevitabile scomparsa dei testimoni diretti e dunque la necessità di affidare alle nuove generazioni il compito di trasmettere il ricordo di eventi di cui non sono state protagoniste, di una storia che – direbbe il filosofo storicistanon è loro “contemporanea”. Come ha detto Nedo Fiano parlando sempre di Auschwitz, si aggiunge la preoccupazione che questo dramma “ faccia la stessa fine delle guerre puniche, che se ne parli senza alcuna emozione”. Il rischio è che la dimensione celebrativa, in qualche modo “imposta” renda il ricordo convenzionale, abusato, e infine lo svuoti di ogni significato. E' questa la sfida che abbiamo raccolto andando a S. Anna di Stazzema, facendo incontrare ragazzi che da poco hanno abbandonato l'infanzia con chi era bambino nel terribile 12 agosto del 1944, e chiedendo poi ad alcuni di loro di dedicare giorni della loro estate a raccogliere ancora racconti e a trasformarli in scritti, immagini, e altri segni da consegnare ad altri lettori, spettatori, visitatori. Nell'auspicio che possano a loro volta diventare testimoni. Dopo il primo viaggio, il 14 aprile di quest'anno, e il primo ascolto della storia narrata da Enio Mancini e da Enrico Pieri, da cui è sorto il tema pubblicato, alcuni allievi hanno partecipato, insieme a studenti di altre regioni italiane, a un seminario di studio e di lavoro che si è tenuto a S. Anna dal 4 al 12 agosto, anniversario della strage, e che è culminato nell'inaugurazione di una mostra dal titolo “NowIKnow”- Ora io so. Chi è partito per questa nuova esperienza ha scelto di mettere da parte l'idea della “vacanza” per immergersi in un nuovo, faticoso, periodo di lavoro. Come insegnante, che per altro seguiva da lontano il loro impegno, provavo un po' di inquietudine sapendo i miei allievi sottoposti a una richiesta di applicazione così intensa, di dedizione così totale. Ma il giorno dell'inaugurazione ho potuto vedere in loro la soddisfazione per il risultato ottenuto, la consapevolezza che quei giorni d'estate erano stati spesi bene, che il loro tempo era stato riempito di senso. Qualche settimana dopo, Mikla, una delle mie studentesse, mi ha dato la conferma di quanto avevo intuito, scrivendomi: “Col passare dei giorni, sono sempre più contenta di essere stata a S. Anna”. Con poche, semplici, parole, ha colto il significato e il valore della testimonianza e della memoria : non il solo fluire di emozioni (anche forti, ma fugaci), non la gratificazione momentanea dell'esposizione al pubblico e del pubblico riconoscimento (che pure c'è stato), ma il sedimentarsi del ricordo negli strati più profondi della coscienza, il suo tradursi in esperienza , in forma di vita, in scelta etica. Insieme abbiamo ricordato una lezione svoltasi a scuola : parlando di memoria, scrittura e conoscenza, Socrate osserva come bastino poche settimane per veder spuntare “i fiori di Adone” destinati all'ornamento effimero della festa, ma come siano invece necessari molti mesi di lavoro prima che il contadino possa raccogliere il risultato de “i semi di cui davvero gli importa”, affidati a un terreno preparato e coltivato con cura, in modo che possa dare frutti per tante stagioni successive. Credo di poter dire che a Sant'Anna uno di quei semi sia stato gettato. (Valeria Zini) Ecco il racconto di alcuni ragazzi: Dalla disperazione alla creazione Ero già stato a Sant’Anna e avevo già avuto l’occasione di ascoltare le voci di due testimoni; durante la settimana dello stage ho avuto modo di conoscere altre storie, non solo di superstiti ma anche di loro familiari che non hanno vissuto “sulla loro pelle” la strage, ma che per decenni ne hanno sentito parlare con tanta intensità da farla diventare parte integrante della loro vita. Ci siamo impegnati ad ascoltare, a documentare ma anche a elaborare e trasformare in materiale che potesse essere proposto ed esposto ad altri il contenuto di queste storie. Non è stato un cammino facile, tra incomprensioni e stanchezza, progetti lasciati cadere e poi ripresi, divergenze di prospettiva, discussioni infinite, ma anche intese e nascita di nuovi legami . Soprattutto lavoro, lavoro fino a tarda notte per scrivere articoli, montare video, scegliere fotografie e aggiornare il blog. Il nostro obiettivo finale era quello di raccogliere la memoria intrisa di dolore dei sopravvissuti e di interpretarla attraverso gli occhi di noi giovani, consapevoli della strage ma cresciuti nella pace. Abbiamo cercato, insieme ai testimoni e grazie al loro sforzo generoso, di trasformare il ricordo paralizzante e angoscioso di un evento distruttivo in costruzione di opere, cercando di ricavare dal dolore privato un'espressione collettiva, dallo strazio la misura, e persino la bellezza. Per perseguire questo obiettivo la mostra è stata organizzata da noi ragazzi e l’intero percorso al suo interno è stato pensato come un continuo scambio di prospettiva ( fatto di continuità e di differenza) tra la visione dei testimoni e la nostra. A partire dalla parete iniziale, dove sono riportate le impronte delle mani di noi ragazzi , a simboleggiare l'aiuto concreto che abbiamo dato ad allestire la mostra ma anche il segno del nostro passaggio e soprattutto la consegna che abbiamo ricevuto prendendo nelle nostre mani il testimone della memoria dai superstiti. Abbiamo cercato di dare espressione alle voci delle persone che abbiamo incontrato, ma anche allo “spirito” dei luoghi: le case, i sentieri, e soprattutto il bosco. Una delle prime installazioni si chiama infatti “memorie dal bosco”, e consiste in un albero stilizzato composto da tanti pezzi di corteccia raccolti camminando tra i querceti, su cui sono scritte in diversi idiomi, dal greco antico alle lingue europee moderne, le parole libertà, pace, democrazia e unione. Un ramo di questo albero si prolunga sulla parete come nessun ramo potrebbe mai fare: si tratta del “ramo dell’utopia” sul quale campeggia la scritta “never ever war”. Sospeso nella grande stanza c’è un pannello sul quale è proiettata un’intervista ad un bambino del luogo. La mostra prosegue poi con l’esposizione di sei gigantografie di testimoni della strage e accanto altre sei, di ragazzi che hanno lavorato all'allestimento della mostra. Questi ultimi hanno lo sguardo rivolto verso i superstiti, mentre, sul retro delle dodici gigantografie, c’è una frase scelta da chi è raffigurato. Queste frasi pongono davanti a un forte contrasto: quelle desunte dalle interviste ai testimoni sono cariche di dolore, mentre quelle di noi ragazzi sono permeate di speranza e di aspettative per il futuro. E tra passato e futuro si colloca anche un pannello appeso al piano superiore: si tratta di una foto panoramica di Sant’Anna realizzata da un drone. Sulla fotografia sono disegnate con un pennarello bianco alcune case, una scuola e un parco. Questa installazione mostra come ipoteticamente sarebbe oggi Sant’Anna se non fosse accaduto nulla di quanto è successo il 12 agosto 1944, ma in fondo è anche un auspicio e un progetto per un possibile avvenire. A conferma di questa continuità della vita, nonostante la morte, la stessa stanza presenta anche una trentina di ritratti dei visi di sopravvissuti, di loro parenti e di alcuni ragazzi. Si prosegue poi in un corridoio che porta in un'altra stanza alle cui pareti sono appese foto in bianco e nero del bosco, come abbiamo detto sfondo costante della nostra storia. Una tenda nera separa la stanza da un piccolo vano, entrati nel quale ci si trova avvolti nel buio e colpiti da un forte odore di sottobosco creato da foglie e rami sparsi sul pavimento. Un piccolo foro nel muro invita il visitatore ad avvicinarsi e guardare dentro: in primo piano c'è un soldato tedesco che ti punta contro la sua mitragliatrice e spara, in una scena tratta da Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee. Usciti, un po’ scossi, di qui, si salgono pochi scalini e si arriva a un altro ambiente dove si trova una delle opere per me più suggestive: una struttura rettangolare di legno ai cui bordi sono conficcati chiodi da cui partono fili rossi e neri che s'incrociano e che, al centro , tengono legato un manichino di legno. Quest'opera può simboleggiare tanto il paese di Sant’Anna stretto dal dolore del ricordo, quanto l’archetipo dell'uomo schiacciato e perseguitato da tutto il male che accade nel mondo. Appese alla struttura si trovano però delle forbici e s’invita il visitatore a tagliare uno dei fili che tengono in tensione il manichino-prigioniero, come per alleviarne la condizione, per aprirgli un varco verso la libertà. Di fronte a questa struttura c’è infine un’altra installazione: una sorta di contenitore aperto verso chi guarda, con una serie di piccoli vani di legno all’interno dei quali sono stati riposti due oggetti che sono stati raccolti da noi ragazzi durante il nostro soggiorno a Sant'Anna: uno destinato ai visitatori, e dunque pensato perché resti nel luogo in cui è stato raccolto, uno invece da riportare a casa, perché venga con noi insieme all'esperienza che abbiamo vissuto. Proprio come il ricordo. Proprio come i segni impressi da un lato nello spazio fisico, dall'altro nella nostra anima. (Ariel Contiero) Dal passato al futuro Più il tempo passa e meno occasioni ci saranno per ricordare ciò che è accaduto a Sant'Anna, ma la memoria va allenata e la cultura del ricordo sviluppata. Proprio per questo 27 ragazzi da tutta Italia hanno organizzato la mostra in occasione del 70esimo anniversario della strage. È importante ricordare perché è stato troppo facile uccidere, vedere l'essere umano che si trasforma in assassino, perché basta poco per scatenare la follia e distruggere altre vite. C'è la necessità di trasmettere i valori della cultura della memoria e di ciò che ha significato Sant'Anna perché è importante conoscere il passato per non commettere altri atti di barbarie del genere in futuro. (Francesca Chierici) Dalla guerra alla pace I giorni trascorsi a Sant'Anna di Stazzema hanno rappresentato per noi 27 ragazzi che ci siamo trovati – anche se in maniera diversa- a condividere un'esperienza così intensa, un modo per ricevere, rielaborare ed infine “imprimere” in una mostra, così come era stata impressa in noi dai racconti dei testimoni, la memoria di quello che è successo 70 anni anni fa nel piccolo borgo dell'Alta Versilia. Noi, generazione lontana da quella vicenda, ma non tanto da non poter ascoltare e comprendere; noi, generazione futura; noi, generazione che avrà il compito di far rimanere viva la memoria di quella terra, di quello che è accaduto, e di cosa ha comportato. Una terra rimasta anche per troppo tempo in silenzio, una vicenda rimasta anche per troppo tempo "nascosta". Il lavoro svolto da noi ragazzi, il blog costantemente aggiornato, e infine la mostra conclusiva sono il frutto della nostra volontà di conservare la memoria, ma al contempo di farlo in modo originale, del tutto nuovo. Sant'Anna di Stazzema per noi ragazzi è un punto da cui partire per costruire il futuro che vogliamo e che sogniamo, un futuro in cui eccidi come questo, o come quello di Lidice, o come tanti altri, siano solo un ricordo lontano. E' nostro diritto, e dovere, aspirare a un futuro di pace, e anche se in molti ci dicono che questa è solo un' utopia, e che siamo solo dei sognatori, noi continuiamo a crederci, continuiamo a sognare questo sogno, ma ad occhi ben aperti e con la coscienza vigile, perché - come qualcuno ha detto- non si possono domare i sognatori. (Mikla Tuci) I forti disarmati Questi forti disarmati di Sant’Anna, i sopravvissuti, ci hanno fatto crescere molto: forti nel 1944, dopo la strage, perché hanno trovato ancora la forza di vivere, di ricominciare; disarmati perché quel mattino non poterono salvare i propri cari e perché sono rimasti vulnerabili dentro, ipersensibili a ogni forma di crudeltà resa nota anche ora tramite la televisione e i giornali. Lo si vede, se si presta attenzione, che sono impressionabili: una lacrima che segna il volto, una ruga ricorrente, uno sguardo più spento catturato da un bravo fotografo. Questa è la vulnerabilità di chi ha continuato sì a vivere, ma non ha dimenticato: un piede avanza, l’altro fatica a lasciare un’impronta troppo profonda. Hanno accettato senza rancore: la vendetta non riporta indietro nessuno dei morti, come hanno più volte detto loro stessi. Enio, Enrico, Cesira, Mario e altri si sono rivisti in noi giovani e con i loro racconti ci hanno trasmesso la voglia di vivere che avevano loro alla nostra età e che hanno, per forze maggiori, dovuto conciliare con la dura realtà. E’ difficile comprendere il grado di condivisione di quei momenti senza averli vissuti, come è difficile a un primo impatto accettare che queste persone porgano il proprio cuore e la propria storia a te, giovane di diciotto anni, che non sai nulla della vita, che addirittura arrivi a chiederti “cosa posso fare io? perché sto provando tutto questo?” ma che grazie a loro ne capirai il valore e imparerai a valorizzarla in ogni sua forma. La speranza di un’Europa unita e solida insieme all’ ”amica Germania” (espressione che mi ha sferzata e mi ha lasciata stupita) non li abbandona mai. Ecco la più grande eredità che i forti disarmati di Sant’Anna ci hanno lasciato: l’attaccamento alla vita e la responsabilità che abbiamo verso di essa; non uno sterile timore degli eventi o un’accettazione passiva, ma la volontà di essere i protagonisti della propria esistenza, pur riconoscendo che sì, forse il destino è stato un po’ crudele e ha preparato una strada un po’ più dura rispetto a quella di altri. A Sant’Anna il terrorismo non ha vinto, e i testimoni lo dimostrano con ogni giorno in più della loro vita passato a ricordare e far ricordare. (Chiara Manzotti) La voce della poesia Nel 1949, Theodor Adorno pronunciava questa sentenza: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie. Come se, di fronte al “male assoluto” del nazismo, ogni possibilità di espressione fosse annientata, ogni parola soffocata sul nascere. Ma la sfida è stata raccolta. Anche su Auschwitz sono state scritte poesie: Paul Celan e Primo Levi, tra gli altri, ne sono una testimonianza. Perfino al dolore e allo strazio più grave è possibile dare forma attraverso la voce che non si lascia ammutolire. Nell' “ora incerta” del ricordo, tra “il papavero” dell'oblio e la memoria – per evocare i nomi scelti dai poeti stessi per le loro raccolte - può accadere che si decida di affidare alle parole scritte l'urgenza dell'animo, come quando il marinaio getta in mare la bottiglia a cui ha consegnato il suo messaggio, senza sapere chi, e quando, leggerà. Perché, aggiunge Celan pensando ad altri poeti a cui si richiama, “ la poesia, essendo una manifestazione del linguaggio e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio in una bottiglia, gettata in mare con la convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza- che possa essere sospinta prima o poi da qualche parte sulla terra, forse la terra del cuore” . Dunque anche a S. Anna sono state scritte poesie, sorte di getto dai luoghi visti, dai racconti ascoltati, dalla commozione provata. Ecco i testi di Ariel e di Mikla. (Valeria Zini) Soldato buono Schnell schnell, ammazzali! Segui l'ordine del Kommandant Nel fondo del bosco portali Come ti hanno insegnato, trucidali! già ne hai uccisi: Bimbi piccoli, vecchi infermi, donne incinte; Perché? Perché ancora? Sei solo. È forse necessario? Perché imbrattare ancor la tua anima di sangue ? Svolgi l'ordine oh soldato, Già di sangue ti sei sporcato. Quando chiuderai gli occhi Loro ti guarderanno le tue mani con il sapone non si puliranno. Ora sei solo, a te spetta la decisione Essere ancor un macellaio O fermarti prima dell'uccisione. Ammazzali, ammazzali coglione! Segui il tuo Führer, non la tua opinione! Soldato, soldato ragiona, non far cose che il tuo Dio non perdona. Scheisse premi quel grilletto! Vuoi macchiare il tuo onore di soldato perfetto?! Pensa a tua madre, non farlo Ascolta quando ti parlo. Bravo spara! Spediscili nelle fiamme Non meritano una bara. Il tuo destino ora è segnato Se a loro spari Non sarà come farlo a un soldato. Hai fatto la scelta giusta, Dio non esiste, nessuno ti punisce! Dalla parte del manico la teniamo Noi, la frusta. Non capiscono la tua lingua ! Allora spiegati a gesti! DAI! Nei loro occhi ormai spenti Traspare pura paura macchiata di una speranza incavata; Ormai già più non ci credevo Pensavo seguissi solo le loro imposizioni Invece spari verso il cielo Ma Dio non lo puoi colpire. Gut. RATATARATATATATATATATAATATA Mandali via Falli scappare Bravo! Aiutato da gesti eloquenti Allontanali dal massacro Il tuo cuore batte tanto Ma il loro molto, molto di più Nella loro memoria rimarrai, Il soldato buono per sempre sarai. Non sei buono. Hai ucciso come tutti Ma questa volta, La furia omicida non t'ha preso Ora puoi sorridere col tuo volto glabro, Delle loro esistenze non sei stato ladro. Vecchio rudere, solcato dalle rughe, Esistenza dedicata a studiate fughe, Sei davanti al tetro ossario Tremi come una lepre in un serpentario Sei tornato in quel posto Dove quelle persone sono state uccise In quel giorno di agosto Perché? Io sono la tua coscienza Una volta mi hai ascoltata negli anni '40 Quando le tue esili braccia imbracciavano un emmepiquaranta L'hai salita, quella strada inerpicata Volevi forse incontrarli quei devastati sopravvissuti? Hai solcato quei terreni di sangue innocente imbevuti Il pentimento adesso ti divora? Ti trovi in una agonia senza fine Ma almeno le hai salvate alcune anime bambine. Sei sul letto di morte Da qualche giorno quelle facce Sul fondo dei bicchieri non le hai più scorte. È ora di andare, Lasciati andare, Devi andare! Prendi quella mano piccina, Della piccola Annina Vai verso l'ignoto Nel buio più remoto Dove tu e chi hai salvato Correrete in un bosco congelato. Chiudi gli occhi. RATATATATATATATATATATATATATATATA (Ariel Contiero) Ultimo sguardo Occhi che la guardano, terrorizzati. Mani che la sfiorano appena, tremanti. Labbra che ne colgono il sapore amaro, salato, come le lacrime che solcano quel viso stanco. Fisso davanti a lui, davanti a quel corpo debole, davanti a quel dolore che sconvolge le membra, davanti a quell'animo rassegnato, davanti a quell'uomo calpestato, c'è lei, la MORTE. (Mikla Tuci) Ci sei, memoria? Ci sei, o memoria? Memoria di quei bambini innocenti, ormai senza futuro, memoria di quelle donne, mamme, mogli, figlie, uccise, umiliate, memoria di quegli anziani che nella vita avevano già visto troppo. Dove sei, o memoria? Memoria delle risate dei bambini, della loro pelle morbida e dei loro occhi, vivi. Memoria dei baci caldi d'una madre, delle parole sagge di un nonno. Non ti trovo, o memoria. Memoria delle bestie da curare, dei campi da lavorare. Memoria dei fiori che sbocciano, del suono delle campane. Torna, o memoria. Memoria di quel giorno, memoria di quegli spari, memoria di quegli occhi, chiusi. Memoria di tutto quel sangue che scorre, di quelle carni che bruciano, di quelle urla, di quelle gambe, che corrono. Rimani, o memoria. Memoria di quelle anime, di quei sogni spezzati, di quelle vite strappate via, con la forza. Memoria di quei corpi martoriati, di tutto quel dolore, di tutta quell'ingiustizia. RIMANI O MEMORIA, E NON ANDARTENE MAI. (Mikla Tuci)