Altruisti senza divisa
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Altruisti senza divisa
Cristiano Caltabiano ALTRUISTI SENZA DIVISA STORIE DI ITALIANI IMPEGNATI NEL VOLONTARIATO INFORMALE Roma - dicembre 2005 SECONDA DI COPERTINA La fondazione Cariplo opera senza scopo di lucro per obiettivi di interesse generale e di utilità pubblica in vari settori, dall’arte alla cultura, all’educazione, alla ricerca scientifica, dalla sanità al sostegno alle categorie sociali più deboli. La Fondazione, in particolare, persegue e promuove le proprie finalità nei settori della ricerca scientifica, dell’istruzione, dell’arte, della conservazione e valorizzazione dei beni e delle attività culturali e dei beni ambientali, della sanità e dell’assistenza alle categorie sociali deboli. Rivolgiamo un particolare ringraziamento alla fondazione CARIPLO che, grazie al proprio contributo economico, ha permesso la realizzazione e la pubblicazione della presente indagine scientifica. INDICE Introduzione Il volto invisibile dell’altruismo L’ascesa dell’uomo solidale La frammentazione dell’esperienza volontaria Quanti sono i volontari in Italia? Come decifrare il volto dell’altruista Per terminare 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto 1.1 Guardare oltre i confini del volontariato ufficiale 1.2 Incursioni solitarie nel pianeta dell’autismo 1.3 Il gioco dei legami sociali 1.4 Combattere la solitudine nella “montagna disincantata” 1.5 Un “calcio” alle illusioni 1.6 La mia Africa: un altro mondo è necessario 1.7 Il quotidiano solidale 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca 2.1 Breve excursus teorico 2.2 Contestualizzare il rituale altruistico 2.3 Una tipologia 3. La riparazione 3.1 Il presupposto: porre rimedio ad un problema 3.2 Una questione di riconoscimento 3.3 Figli di una solidarietà minore? 3.4 Lo sconfinamento emotivo 4. Il contrasto 4.1 Una mobilitazione sottotraccia 4.2 La rivolta morale 4.3 La resistenza attiva 4.4 Uniti per che cosa? 5. L’iniziazione 5.1Esploratori o missionari? 5.2 Verso un “altrove” sconosciuto 5.3 Cronache di viaggio 5.4 Il rientro (o meglio) una transizione biografica 6. L’interconnessione 6.1 Superare la distanza 6.2 L’arte di costruire i ponti (umanitari) 6.3 Sentirsi interdipendenti Conclusioni Il richiamo dell’altro Appendice Cronistoria di una ricerca Bibliografia Il volto invisibile dell’altruismo Introduzione Il volto invisibile dell’altruismo L’ascesa dell’uomo solidale Donne e uomini che soccorrono l’altro o che si mettono al servizio della comunità. I volontari potrebbero essere descritti in poche battute, evocando la miriade di comportamenti solidali con cui tessono la tela del legame sociale. D’altronde, questi “cittadini impegnati”, contribuiscono in modo fattivo a mitigare alcuni dei mali della modernità avanzata1; difatti, molto spesso assistono gli emarginati e le persone svantaggiate (anziani non autosufficienti, homeless, malati cronici, tossicodipendenti, madri sole, detenuti ecc.); sono in prima fila quando si tratta di lottare contro la deturpazione dell’ambiente o del patrimonio artistico; difendono i diritti delle minoranze e dei gruppi sociali deprivati; partecipano anche agli interventi umanitari nei paesi in via di sviluppo; e via dicendo. Sicché, la risorsa dell’altruismo si sprigiona in molteplici sfere della società, attraverso l’opera silenziosa di una moltitudine di persone che, un po’ ovunque nel mondo, si rendono artefici di atti di responsabilità civica e umanitaria. Dunque, a prima vista, sono queste le credenziali con cui si presenta oggi il volontario. Un individuo-che-aiuta, facendosi carico dei bisogni sociali emergenti2. La fisionomia del suo impegno è piuttosto lineare; egli si prodiga in modo disinteressato (gratuito) per una “causa” dando, per certi versi, sostanza ai significati più autentici della carità cristiana, del civismo liberale o dell’egualitarismo socialista. Certo, si potrebbe sfogliare a lungo la margherita dei buoni sentimenti, tentando di scorgere qualcosa di meno nobile dietro alla generosità dell’uomo qualunque: la richiesta di considerazione sociale; il narcisismo di chi è consapevole (autocompiaciuto) di “fare del bene”; le motivazioni strumentali, che operano a livello latente, anche quando si compie un’azione apparentemente lodevole3. Nondimeno, pur volendo considerare le ragioni del tornaconto personale, rimane comunque un fatto semplice. Non è facile sottovalutare il comportamento pro-sociale; si può, 1 Il volto invisibile dell’altruismo ovviamente, discettare a lungo sui motivi reconditi che lo ispirano; ma il concreto dispiegarsi dell’azione volontaria lascia una scia tangibile sul tessuto della società. Un giorno una persona decide di dedicarsi alla risoluzione di problemi concreti, che funestano la vita degli esclusi o che investono la società alle prese con i dilemmi dello sviluppo. Tale gesto è spontaneo e, specie quando viene ripetuto nel tempo, esprime un atteggiamento verso la realtà che sconfessa (almeno in parte) alcuni luoghi comuni sull’opportunismo e sul cinismo dei cittadini. Detto per inciso, l’utilitarismo (il calcolo mezzi-fini in vista dell’interesse individuale) è parte costitutiva della natura umana, essendo fortemente apparentato con il bisogno di riconoscimento personale. In tal senso, non si può non concordare con Elena Pulcini, laddove evidenzia che l’individualismo moderno è permeato da due istanze fondamentali: “la passione acquisitiva e la passione dell’Io, vale a dire il desiderio di possedere ricchezza e beni materiali e il desiderio di distinguersi dall’altro e di ottenere riconoscimento (Pulcini, 2001, p. 12)”. Si deve, però, aggiungere che la società contemporanea è, allo stesso modo, caratterizzata da forme di reciprocità e di apertura verso l’altro. Questa dimensione “nascosta” della modernità è stata reintrodotta nella discussione scientifica dagli intellettuali del MAUSS (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali). In sostanza, l’opera di autori come Serge Latouche, Jacques Godbout e Alain Caillé si propone di fondare un paradigma alternativo di analisi delle forme di convivenza nelle società complesse; un paradigma che tende a rivalutare le prassi di dono4; prassi che non si sono affatto erose nella società odierna (Godbout, 1992). I volontari hanno molto da dire su questo fronte: la loro esperienza è come un reagente che affiora improvvisamente dalla cartina di tornasole del tardocapitalismo. La sorpresa è, infatti, grande quando si scorgono segni (frammenti) di altruismo nella chimica sociale di una società essenzialmente mercantile e rinchiusa nelle passioni acquisitive. Forse è per questo che le virtù del volontariato vengono decantate ovunque. Basti pensare che ogni anno, il cinque di dicembre, si celebra il giorno internazionale del volontario; un 2 Il volto invisibile dell’altruismo evento simbolico al quale aderiscono circa cento nazioni, sotto l’alto patrocinio dell’ONU. Sicché, l’uomo solidale è entrato nel pantheon dei miti dell’era globale, racchiudendo i tratti in cui l’umanità si rispecchia più volentieri, soprattutto quando va in onda lo “spettacolo della solidarietà”. Infatti, anche il dolore, e in senso più lato il “bisogno”, può diventare oggetto di consumo (culto) mediatico (Boltanski, 1993); molto spesso, l’opinione pubblica viene sollecitata nei suoi sentimenti più profondi, attraverso la messa in scena di grandi happening compassionevoli (ad esempio Telethon), con tutti gli eccessi del caso. In realtà, il riconoscimento del valore sociale delle Organizzazioni dei Volontari (OdV5) è avvenuto molto prima della loro consacrazione esteriore nell’immaginario popolare. Soprattutto in Europa, la riscoperta di questa risorsa della società civile risale alla fine degli anni Settanta, quando risultò chiaro che il ciclo di espansione del welfare state si era ormai esaurito (Kramer, 1981). Allora, si prendeva atto che il volontariato rappresentava una risposta credibile (benché non risolutiva) alla annunciata crisi dello Stato sociale6. Col trascorrere del tempo, questa idea si è diffusa in gran parte dei paesi sviluppati e non. Le OdV hanno così ottenuto una legittimazione giuridica e politica. Oggi è alquanto improbabile imbattersi in un disegno di riforma delle politiche sociali che non assegni a questi enti un ruolo strategico: l’appello alle valenze ideali e pratiche dell’altruismo organizzato è un leit motiv nei programmi dei governi, a prescindere dagli orientamenti ideologici e dalle differenze nazionali. Anche in Italia si è verificato qualcosa di molto simile. Da questo punto di vista, l’approvazione della legge quadro n. 266 del 1991 è stata senza dubbio un passaggio decisivo; questa norma ha infatti regolamentato l’attività di volontariato, fornendo la base giuridica per coinvolgere le OdV nel sistema misto di erogazione dei servizi sociali: il welfare mix (Ascoli, Pasquinelli, 1993; Fazzi, 1998). Con uno sguardo retrospettivo, si può senz’altro affermare che nel nostro paese le associazioni volontarie sono definitivamente entrate nell’arena pubblica, avendo attivato dei rapporti proficui di cooperazione con le amministrazioni regionali e comunali. In effetti, a questi 3 Il volto invisibile dell’altruismo organismi viene attribuita in molte circostanze la gestione di attività cruciali per il benessere dei cittadini7. Peraltro, questa forma di accreditamento si estende ben oltre gli steccati della politica: il volontariato si è senza alcun dubbio radicato nella cultura italiana, sino a diventare materia prima del senso comune. Per certi versi, la nostra società si è abituata alla presenza attiva dei volontari: le campagne in difesa dell’ambiente degli attivisti di Legambiente o del WWF; l’opera discreta dei volontari ospedalieri della Federavo o del Tribunale per i diritti del malato; il paziente lavoro dei fund raiser delle Ong (Amref, Focsiv, Emergency, CTM-Movimondo solo per citarne alcune), che raccolgono donazioni per le popolazioni colpite da carestie, guerre o altre calamità, stazionando per strada o facendo visite porta a porta. Ma non finisce qui; anche in altri ambiti non mancano saldi riferimenti culturali: gli avvocati di Adiconsum, Federconsumatori o Codacons, che offrono consulenze gratuite ai cittadini alle prese con malversazioni di ogni genere; gli operatori telefonici del Telefono Azzurro e Rosa, che captano i sintomi più estremi del disagio familiare, fornendo un apporto decisivo alla lotta contro gli abusi subiti da minori e donne; gli anziani e i giovani che servono pasti caldi nelle mense della Caritas, rispondendo così ai bisogni primari della underclass urbana: senza fissa dimora, famiglie indigenti di immigrati, altre figure frettolosamente assimilate nella categoria delle nuove povertà. E’ perfino ovvio sottolineare che si potrebbe procedere a lungo con questa esemplificazione. Insomma, l’universo dell’altruismo è saturo di sigle organizzative, che danno espressione compiuta al lavoro svolto dai volontari. Sigle che fanno ormai parte del costume nazionale. Gli italiani sanno bene a chi rivolgersi quando debbono affrontare un problema stringente o quando intendono sostenere temporaneamente una causa sociale elargendo denaro; allo stesso modo, sono consapevoli di poter aderire ad una vasta platea di enti e associazioni, qualora si volessero cimentare in prima persona “nell’arte della solidarietà”. A ben vedere, la sfera del volontariato è oggi costellata da organizzazioni rinomate e affidabili, dove ciascuno può trovare uno spazio adatto alle sue inclinazioni personali. Nell’agone della solidarietà convivono, infatti, esperienze collettive di matrice 4 Il volto invisibile dell’altruismo laica e religiosa, con stili d’intervento e modalità di aggregazione anche molto diversi tra loro. Senza cedere alla retorica, è forse questo il lascito più consistente che il volontariato porta in dote al nostro paese: una rete articolata di soggetti organizzativi che ispira familiarità, fiducia e talvolta un coinvolgimento attivo. Tale forma di considerazione sociale non deve essere sminuita, perché ogni istanza ideale si alimenta grazie ad un diffuso sostegno esterno. Del resto, in questo genere di consenso popolare si può intravede l’approdo di un percorso di sviluppo scandito da alcune tappe fondamentali: negli anni ottanta, le OdV hanno operato quasi in incognito, gettando le basi per la loro successiva emersione dal tessuto frastagliato della nostra società; gli anni novanta sono stati invece segnati dall’istituzionalizzazione della solidarietà organizzata; mentre, nello scorcio iniziale del terzo millennio si è assistito alla definitiva consacrazione del volontariato nell’immaginario collettivo. Si è, quindi, in presenza di una parabola positiva: l’evoluzione di un attore sociale che ha acquisito piena cittadinanza nella costituzione materiale del paese. La frammentazione dell’esperienza volontaria Finora si è compreso che i volontari e le loro organizzazioni sono emersi definitivamente dalle retrovie della società italiana; ciò non toglie che si debba esaminare meglio questo processo, per comprendere la sua stessa evoluzione. Si tratta, in prima battuta, di definire il lessico con cui viene descritta quella che, a tutti gli effetti, è diventata una prassi consuetudinaria del nostro paese. Quando si parla di volontariato si allude, in realtà, a tre dimensioni che andrebbero tenute distinte tanto nel discorso scientifico, quanto nelle rappresentazioni sociali in uso nei media e nel mondo politico (fig. 1): 1. anzitutto, l’azione volontaria, vale a dire le forme di impegno gratuito agite dai singoli cittadini; 2. in secondo luogo le OdV, ossia quelle strutture organizzative che raccolgono le energie dei volontari, offrendo loro degli spazi in cui prestare attività a carattere sociale; 5 Il volto invisibile dell’altruismo 3. infine, il settore volontario, ovvero l’ambito della società dove viene collocato l’insieme (la totalità) delle associazioni che attraggono i volontari; un ambito che varia da paese a paese, per effetto delle normative vigenti e di particolari tradizioni caritative, mutualistiche o associative. Va da sé che tali dimensioni siano collegate, ma non per questo sovrapponibili. In dettaglio, procedendo dalla prima alla terza componente, si cambia decisamente punto di osservazione; si passa, dal livello micro dei comportamenti individuali, ad un’ottica sistemica (macro); quest’ultima identifica, appunto un comparto dove coabitano pressoché tutte le esperienze collettive in qualche modo riconducibili al volontariato. In mezzo (livello meso8), si situano le OdV. Come emerge dalla figura 1, vi è un altro aspetto da valutare. Il volontariato acquisisce diversi gradi di visibilità, a seconda dell’angolo visuale da cui viene esaminato. A livello sistemico, il suo profilo è limpido, a tratti cristallino; è sufficiente sondare rapidamente l’opinione pubblica o raccogliere indicatori grezzi dai censimenti degli Istituti nazionali di statistica, per fare un bilancio sul settore; si assembla tutto negli indici sintetici, avendo così a disposizione un metro immediato del suo sviluppo9. Fig. 1 – Le dimensioni interne del volontariato Settore volontario (livello macro) Organizzazioni che offrono spazi di intervento ai volontari (livello meso) Azione volontaria dei cittadini (livello micro) Basso Grado di visibilità Medio 6 Alto Il volto invisibile dell’altruismo Ma le cose si complicano tremendamente quando si esplorano con attenzione singole OdV o qualora si voglia decodificare in presa diretta l’azione volontaria degli individui. Scendendo di livello di analisi, l’impressione dominante è quella di un offuscamento dello sguardo: l’oggetto si sfoca, i suoi contorni sfumano senza soluzione di continuità. Difatti, sia sul piano organizzativo che sul versante individuale, l’esperienza dell’altruismo è molto più complessa di quanto non si pensi. Questa considerazione è avvalorata da quelle ricerche che seguono più da vicino le tracce del volontariato. Le conoscenze accumulate in anni di indagini mirate sul tema, sono per lo più frammentarie (Wilson, 2000). Si è ancora distanti da una sistematizzazione delle evidenze empiriche e i risultati, spesso, smentiscono alcune idee preconcette sui volontari. In ogni caso, un dato di fondo colpisce in modo particolare: i valori tradizionalmente attribuiti a coloro che prestano aiuto (responsabilità civica, orientamenti egualitari, solidarietà, spirito caritativo di stampo religioso, ecc.) non sembrano influire più di tanto sulla loro propensione ad impegnarsi, né sul tipo di attività che essi svolgono. Peraltro, si registra un certo consenso sui fattori che spiegano questo processo: oggi le modalità con cui viene esercitata la solidarietà sono sempre più mutevoli e, perciò, non riducibili a matrici valoriali comuni; questo perché l’azione volontaria si consuma fuori dai contesti comunitari, quindi in assenza di un controllo normativo cogente (Wilson, 2000; Wuthnow, 1998). A ben vedere, lo scollamento tra comportamento pro-sociale e motivazioni etiche tende a decostruire l’immagine stereotipata del volontario: quest’ultimo non è necessariamente il Buon Samaritano a cui, non di rado, si appella la vulgata giornalistica. Quindi, se si vuole cogliere l’attualità del volontariato, si deve superare questa rappresentazione monolitica del bene incarnato in una persona generosa, introducendo griglie di lettura più articolate. Sotto questo profilo, diversi studi segnalano che si sta delineando un cambiamento significativo nel modo di concepire l’attività volontaria (Wuthnow, 1998; Gaskin, 1998; Eckstein 2001; Mejis, Hoogstad, 2001). Lo scenario prevalente sarebbe quello di una erosione delle forme collettivistiche di volontariato, le quali verrebbero gradualmente sostituite da 7 Il volto invisibile dell’altruismo modalità individualizzate di altruismo; insomma, la figura emergente sarebbe quella di un attivista non più al servizio della comunità; un cittadino sì disposto ad aiutare, ma anche più propenso a considerare questa attività come un impegno “a termine”, svolto su basi essenzialmente autonome, concentrandosi soprattutto sui risultati degli interventi solidali. Le stesse OdV si troverebbero in seria difficoltà, dovendo coinvolgere una platea di persone sempre meno attratte dalla vita associativa. Difatti, “i nuovi volontari” non sentirebbero più di tanto il richiamo dell’appartenenza alle associazioni civiche o assistenziali. Il loro legame con queste organizzazioni sarebbe alquanto effimero: è l’obiettivo, il “problema sociale” (social issue), a trainare l’altruismo contemporaneo, non tanto l’adesione ad una subcultura organizzativa. Dunque, dal punto di vista del soggetto-agente, il volontariato diventa una dimensione di vita scelta. Tale ipotesi di lavoro è suggestiva e plausibile, giacché si riallaccia ad una riflessione complessiva sulla modernità avanzata. Quest’ultima ha alle spalle un portato storico complesso, che ha modificato sensibilmente il legame sociale: il modo con cui le persone stanno assieme nella società (Giddens, 1990). Nella fase pre-industriale le relazioni interpersonali erano fissate una volta per tutte in un ordine sociale immutabile; infatti, l’individuo era avvolto in un tessuto di norme fondate sul principio di autorità e rafforzate dalla compattezza delle comunità territoriali di appartenenza. Con l’avvento della modernità industriale, si assiste ad una lenta trasformazione di questo assetto: l’urbanizzazione, la fabbrica, il lavoro salariato, il suffragio universale, i partiti e i sindacati, la stessa democrazia rappresentativa schiudono un nuovo orizzonte; il suddito comunitario diventa cittadino-lavoratore, attingendo lentamente da una serie di diritti civili, politici e sociali. Egli si affranca così dalla tradizione, agendo come soggetto autonomo nel proscenio societario, sebbene in un quadro di regole pur sempre costrittive. Sennonché, la stessa modernità va incontro ad una ulteriore metamorfosi radicale. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, con ritmi ed effetti che variano da paese a paese, si è consumata una nuova svolta epocale. Alcuni autori hanno parlato di modernità riflessiva (Beck, Giddens, Lash 1994), altri di modernità liquida (Bauman, 2000), altri ancora si sono 8 Il volto invisibile dell’altruismo limitati ad annunciare (con una certa lungimiranza) che la società era diventata post-industriale (Bell, 1973). Al di là delle sfumature terminologiche, si affievoliscono i meccanismi di integrazione sociale ereditati dal passato recente; infatti, la famiglia, la chiesa, il sindacato, i meccanismi di rappresentanza democratica, le stesse subculture politiche e associative non riescono (se non parzialmente) a regolare le biografie delle persone. La conseguenza principale di questo scenario ambivalente10 è un indebolimento complessivo del collante della società. In estrema sintesi, i pilastri della vita collettiva sono scossi dall’individualizzazione dell’esperienza quotidiana: il soggetto è quasi “costretto” a negoziare ruoli e legami, che in precedenza erano fissati in una rete di affiliazioni sociali tendenzialmente stabili (Beck, 1986). Non deve quindi stupire che anche il volontariato venga investito da una dinamica di individualizzazione: gran parte dei riferimenti collettivi si indeboliscono, lasciando gli attori liberi di plasmare la loro biografia, sia nella vita privata, che in quella pubblica. Non si vede perché questo non possa avvenire per la sfera sociale dell’altruismo; in sintesi, i comportamenti prosociali tendono a disancorarsi dalle loro matrici organizzative, riproducendo inedite forme di solidarietà. Non si tratta di prospettare scenari apocalittici (“anche i volontari sono diventati individualisti”), quanto di prendere atto che la loro esperienza si modifica, essendo condizionata dalle trasformazioni che si ripercuotono sulla società attuale. Ma ciò implica un radicale mutamento di prospettiva; bisogna fuoriuscire dalla formula semplicistica “volontario uguale associato”: un cittadino automaticamente socializzato alle norme delle organizzazioni di appartenenza. In tal senso le OdV, pur continuando ad attrarre nella loro orbita gli attivisti, debbono comunque “contrattare” alcuni aspetti fondamentali del trait d’union associativo; e questo perché si confrontano con una base formata da volontari sempre più indipendenti. Tale aspetto è stato colto con lucidità da Hustinix e Lammertyn, laddove fanno riferimento al concetto di volontariato riflessivo: il modello del volontario riflessivo identifica forme atomizzate di impegno, nelle quali il baricentro dell’azione si sposta verso il volontario come attore individuale […] il volontariato non è più naturalmente iscritto in modelli di comportamento collettivo. Al contrario, il mondo individuale diventa la 9 Il volto invisibile dell’altruismo principale cornice di riferimento, e la decisione di impegnarsi in attività volontarie dipende da considerazioni personali in un contesto altamente individualizzato di situazioni ed esperienze (Hustinix e Lammertyn, 2003, p. 172, traduzione nostra). Ciò non esclude che l’esperienza volontaria sia radicata (in qualche misura) in una trama di rapporti interpersonali e di gruppo. Sembrano dunque profilarsi all’orizzonte nuove modalità di esercizio della solidarietà; forme originali di impegno che combinano responsabilità e autosufficienza, comunanza e personalismo, legame sociale e scelta individuale, etica comunitaria e gratificazione soggettiva11. In definitiva, potrebbe essere questa la specificità dei “nuovi volontari”. Sennonché, il loro modo di agire diventa alquanto sfuggente, essendo molto più impalpabile rispetto a quello dei volontari associativi, che hanno dominato la scena della prima modernità. I percorsi e le motivazioni che conducono alla solidarietà si sono infatti destrutturati. Bisogna leggere con attenzione questo processo epocale, che sembra marcare una discontinuità sostanziale col passato. Quanti sono i volontari in Italia? E’ ormai chiaro che la crescita del volontariato si accompagna ad una frammentazione delle prassi individuali di altruismo. Di solito, si preferisce analizzare la parte più visibile del fenomeno, raccogliendo dati a livello di settore: le OdV che operano in ambiti riconosciuti quali l’assistenza sociale o sanitaria, l’ambiente, la protezione civile, la cultura, la cooperazione allo sviluppo, ecc. Tali analisi macro-strutturali, al di là delle forzature e degli schematismi, quasi costringono gli studiosi a comprimere l’esperienza volontaria dentro categorie rigide di misurazione. Del resto, gli indicatori quantitativi sono poco adatti a spiegare perché i cittadini esprimano sentimenti di solidarietà, decidendo di investire il loro tempo in attività sociali. Inoltre, i gesti disinteressati delle persone, non di rado, sono del tutto spontanei e, quindi, sganciati da contesti organizzativi formali; è perfino scontato aggiungere che le indagini ad ampio spettro non riescono a raggiungere quei cittadini che operano in incognito, 10 Il volto invisibile dell’altruismo muovendosi nelle sfere sommerse della società. Eppure questi ultimi sono in aumento. Questo aspetto emerge con tutta evidenza se si tenta, ad esempio, di stabilire quanti siano i volontari in Italia (fig. 2). La cifra ammonta a poco meno di 700.000 persone, qualora si consideri il “nocciolo duro” del volontariato: ovvero quello che si sviluppa all’interno degli enti registrati negli appositi albi regionali (circa 18.000 organizzazioni; Istat, 2004). Ma, in tal modo, si rileva soltanto l’altruismo istituzionale, ossia un segmento alquanto circoscritto dell’azione volontaria presente nella società italiana: quella riconosciuta dallo Stato italiano, ai sensi della legge n. 266 del 1991. Difatti, l’attivismo solidale degli italiani cresce di molto quando si comincia a guardare fuori dai suoi confini giuridici; se si assume, ad esempio, il punto di vista della Fondazione Italiana per il Volontariato, si raggiunge il numero ragguardevole di 950.000 cittadini adulti (FIVOL, 2001). Questo scarto positivo (più di 250.000 unità rispetto alla rilevazione precedente) deriva dal fatto che la Fondazione, nelle sue indagini periodiche, tiene conto di una quota non trascurabile di associazioni che non si accreditano presso le Regioni. Fig. 2 - Quanti sono i volontari in Italia? 10.000.000 9.000.000 8.000.000 7.000.000 6.000.000 5.000.000 4.000.000 3.000.000 2.000.000 1.000.000 0 6.802.000 3.315.327 695.334 950.000 Volontari nelle associazioni registratate (albi regionali del volontariato) - Istat 2001 Volontari nelle associazioni di volontariato (riconosciute e non) - Fivol 2001 Volontari nelle Istituzioni non profit - Istat 2001 Volontari nella popolazione italiana adulta- Iref 2002 (stima) 11 Il volto invisibile dell’altruismo Ma la riserva di volontariato esistente nel nostro paese acquisisce proporzioni ben più ampie di quanto non dicano le statistiche appena illustrate. Sotto questo profilo, è sufficiente riferirsi al censimento sulle Istituzioni non profit (Istat, 2003): sono oltre tre milioni (3.315.237) gli italiani che agiscono a titolo gratuito nell’arcipelago del terzo settore; quindi, non solo negli enti della legge 266/91 e consimili, ma anche nelle associazioni culturali e ricreative, nelle cooperative sociali e in altri organismi non lucrativi. Ciò non basta. Non è detto che gli atti di generosità dei nostri connazionali si consumino nella pur vasta rete del privato sociale. L’azione volontaria può diffondersi anche in altri ambiti: partiti, sindacati, gruppi spontanei, strutture parrocchiali, comitati di quartiere o, semplicemente, esser agita a titolo individuale. Vi è un solo modo per ottenere dati su questa quota aggiuntiva di volontari: chiedere direttamente ai cittadini se si dedicano ad attività sociali, senza ricompense economiche. E’ quanto fa l’Iref nel Rapporto sull’associazionismo sociale. Ebbene, dall’ultima edizione di questa ricerca (Caltabiano, 2003), si può stimare che circa 6.800.000 italiani prestano aiuto gratuitamente o sono protagonisti di altre iniziative civiche12. Al di là di questo risultato generale, il Rapporto dell’Iref offre alcuni indizi molto significativi sull’evoluzione del volontariato in Italia (Lori, 2003). In particolare, nell’arco di un ventennio (1983-2002)13, si è registrato un aumento costante dei cittadini che dichiarano di svolgere attività volontarie su basi autonome, ovvero senza appoggiarsi a strutture organizzative; nel 2002, quasi due volontari su cinque (19,6%) hanno prediletto questa forma inconsueta di solidarietà; accanto a ciò, non è irrilevante la percentuale di coloro che esercitano il loro altruismo all’interno di gruppi informali (9,5%). Dal che se ne deduce che poco meno di un terzo dell’azione volontaria si dispiega al di fuori dei circuiti formali, “sfuggendo” così dai suoi canali consueti di reclutamento. Dunque, in molte circostanze, “l’uomo solidale” non entra a far parte di un patto associativo, di qualsivoglia natura. Egli agisce così nel sommerso, creando non poca curiosità nel ricercatore: chi sono coloro che si rendono artefici di questi comportamenti pro-sociali? Perché rimangono ai margini della sfera pubblica, in un frangente storico nel quale l’attività di 12 Il volto invisibile dell’altruismo volontariato va incontro a riconoscimenti che gli erano sconosciuti in passato? Quale visione etica e culturale sorregge questi “volontari invisibili”? Come decifrare il volto dell’altruista L’incipit del presente libro è costituito proprio dal volto enigmatico di questi individui dediti alla solidarietà, che agiscono per vie così anonime. Il rebus nasce dal fatto che è piuttosto disagevole portare allo scoperto il loro vissuto. Solo a volerli raggiungere si affrontano non pochi problemi; infatti, nel loro caso, non ci si può avvalere del medium organizzativo, che rimane sempre un luogo di aggregazione valido dove individuare i “volontari ufficiali”. Come si è detto, per superare l’impasse, è necessario sondare l’opinione pubblica ponendogli due quesiti diretti: “fornisce aiuto in modo gratuito o si impegna in azioni a vantaggio della comunità?”; “Se sì, in quale ambito?” Tra coloro che rispondono in modo affermativo, non è infrequente trovare dei cittadini che dichiarano di prestare volontariato in gruppi informali o in forma autonoma. Una volta terminata la ricerca demoscopica, si entra così possesso di una lista di intervistati che si sono autodefiniti “altruisti spontanei”14. Il passo successivo è quello di ricontattarli. Nasce così un dialogo attivo con i protagonisti dell’indagine; si comincia con una telefonata, nel corso della quale, tra il ricercatore e il volontario, si stabilisce un primo legame del tutto informale. L’analista “tasta” il terreno; chiede al suo interlocutore qualche notizia sul suo impegno sociale e, dopo averne accertata la veridicità15, si spinge oltre proponendo di fissare un appuntamento per realizzare un’intervista libera. Egli avrà così l’opportunità di raggiungere finalmente il suo scopo: trovarsi vis a vis con l’artefice di una storia originale di altruismo. Quello appena descritto è, a grandi linee, il percorso che si è seguito nella presente ricerca. Un itinerario intricato ed avvincente, che ha trasformato l’autore di questo volume in un cronista di un’Italia poco conosciuta: il paese di coloro che si tengono a debita distanza dai riflettori dell’opinione pubblica, 13 Il volto invisibile dell’altruismo pur avendo da raccontare un’esperienza in cui molti si vorrebbero (o potrebbero) identificare. Solo girando in lungo e in largo per la Penisola, si può comprendere quanto siano diversificate le testimonianze di questi altruisti silenziosi. Si tratta, infatti, di donne e uomini che vivono in contesti molto differenti: le piccole comunità del settentrione “profondo”; le realtà urbane del Nord industrioso; le città medie della “terza Italia”; le metropoli del Centro-Sud, afflitte da problemi ancestrali di degrado sociale16. Anche il retroterra sociale degli intervistati è assai variegato: studenti e giovani-adulti, che cercano faticosamente di farsi largo nel mercato del lavoro; casalinghe e pensionati, che mostrano un attivismo insospettabile; dirigenti e lavoratori adulti, nella fase apicale della loro carriera lavorativa. In sintesi, un ritratto composito di attivisti. In pratica, il fenomeno del volontariato sommerso percorre trasversalmente la società italiana; infatti, esso è radicato in ogni luogo e strato sociale del paese, ben oltre la sua consistenza statistica. Nei prossimi capitoli ci si sforzerà di “dare un nome” a questi volontari che operano quasi mimetizzati nella società. In sostanza, si farà affiorare lentamente il loro volto, decodificando con pazienza le loro prassi sociali. D’altro canto, quando lo sfondo sul quale si compie una ricerca appare sfumato (per non dire celato alla vista), è preferibile sondarlo in profondità, per afferrare le sue dimensioni costitutive, che in principio si percepiscono appena. Si avvista prima l’oggetto d’analisi e poi si opera su di esso come un archeologo impegnato in una campagna di scavo; si circoscrive l’area di perlustrazione e si dissoda con cautela il terreno per far emergere “reperti di conoscenza”, indizi sotterranei (molto diversi dalle algide percentuali di un campione), che aiutano a ricostruirne le tracce nascoste. Al termine della “campagna”, la ricchezza dei ritrovamenti è tale da fornire un’immagine piuttosto accurata della sagoma di ciò che era inizialmente sconosciuto. Questa “archeologia del sapere” è una scelta obbligata; infatti, sui volontari circolano molti luoghi comuni. Schemi rigidi di pensiero che non aiutano a far emergere la loro identità complessa. Tale rilievo vale, a maggior ragione, per quei cittadini impegnati, che si situano ai margini della sfera 14 Il volto invisibile dell’altruismo pubblica: di loro si sa ancora troppo poco per avanzare in anticipo qualsiasi interpretazione. Pertanto, l’analista è costretto ad abbandonare il suo bagaglio di tesi preconcette: deve dar prova, prima di tutto, di una buona capacità d’ascolto. Per dirla in modo succinto, non può far altro che immergersi nella vita quotidiana degli intervistati, spogliandosi del suo armamentario concettuale. Tuttavia, questo non implica che ci si accosti all’oggetto dell’indagine come una tabula rasa; è pur sempre necessario avere in mente cosa si intende osservare, prima di avventurarsi nel lavoro di ricognizione sul campo. Il fuoco d’analisi della presente indagine è la stessa attività di volontariato: gli atti con cui una persona esplicita la sua volontà di essere solidale verso gli altri o, in senso lato, verso la comunità. Si è, perciò, cercato di rimanere il più possibile aderenti all’esperienza concreta dei protagonisti di questo studio. Chi scrive è, infatti, convinto che i segni tangibili dell’azione volontaria siano in grado di far risaltare l’identità di colui che se ne rende artefice. Come in un gioco di specchi, il gesto civico, specie se ricorrente, riverbera all’esterno molti segni sul vissuto del soggetto-agente. In tale ottica, non è infondato considerare l’altruismo come una pratica (Bourdieu, 1979): una relazione che il volontario attiva nel suo habitat sociale, muovendosi in esso con limitati gradi di libertà. Tale concetto è una valida bussola per orientarsi nei mondi vitali degli intervistati (si veda il capitolo 2), almeno per due motivi: − la pratica è sempre situata in una trama di legami sociali; benché agisca in modo autonomo e consapevole, l’individuo è inserito in una trama di appartenenze di gruppo, che condizionano le sue scelte; quindi, avendo adottato tale termine come riferimento teorico, si tiene comunque conto della rete versatile di influenze ambientali in cui si muove l’attore, pur assegnando a quest’ultimo un certo margine di autonomia nelle sue scelte; − accanto a ciò, tale categoria concettuale esprime il doppio livello della produzione di significati e dell’azione. Infatti, essa è per sua natura radicata nel “campo” dove agiscono le persone; quindi attualizza le loro visioni del mondo: 15 Il volto invisibile dell’altruismo rappresentazioni sociali, credenze, valori, disposizioni morali, ecc. Da questo punto di vista, la pratica altruistica è lo snodo a partire dal quale si dipana una storia; la vicenda di una persona che presenta una moltitudine di significati complementari: oltre al comportamento pro-sociale, i percorsi biografici nella famiglia, nel lavoro e nel tempo libero; il modo di atteggiarsi nei confronti della politica e della società (visione del mondo); le aspirazioni personali (progetti di vita); i valori e le istanze etiche. In breve, quando si comincia ad analizzare la “pratica del volontario” si schiude un varco nella sua esistenza (fig. 3). Il frammento concreto di vita (l’atto di aiuto) diventa quasi un “pretesto” per riannodare la trama e l’ordito di una biografia. Fig. 3- La biografia del volontario discorso (intervista non direttiva) Percorsi biografici Progetti di vita Pratica altruistica Visione del mondo Orientamenti etici Ma, per compiere quest’opera di rispecchiamento sul vissuto dei volontari occorre attrezzarsi con strumenti adeguati; bisogna munirsi di sensori sufficientemente sensibili, se si vuole cogliere la ricchezza e la complessità di una microstoria solidale. Il sensore utilizzato in questa indagine è l’intervista non direttiva: 16 Il volto invisibile dell’altruismo la testimonianza condensata nella vivida narrazione dell’intervistato. Sull’uso dell’intervista nella ricerca qualitativa sono stati scritti fiumi di inchiostro (Montesperelli, 1998; Silverman, 2000; Denzin, Lincoln, 2000; Gianturco, 2004). Non è certo questa la sede dove svolgere una trattazione sistematica sull’argomento. Malgrado ciò, si possono delineare alcuni aspetti di questa tecnica d’indagine, che si sono dimostrati particolarmente utili ai fini della presente analisi. In genere, l’obiettivo di questo “colloquio informale” è quello di far affiorare la soggettività degli attori, limitando le interferenze dell’analista. Il ricercatore diventa così un interlocutore “discreto” che attiva con l’intervistato un dialogo spontaneo, il cui scopo è quello di svelare il mondo visto con gli occhi di quest’ultimo. In altre parole, l’intervistato non viene bersagliato dalle domande “preconfezionate” in uso nei sondaggi e in altre indagini campionarie. Al soggetto coinvolto nella ricerca, non si chiede di scegliere tra una gamma di alternative di risposta, pensate in precedenza dal ricercatore. Al contrario, si scende sul campo con una traccia “aperta” (sempre reversibile) di quesiti, che mirano solo a mettere a fuoco alcuni argomenti rilevanti (si veda l’appendice). Il resto lo fa l’intervistato, con la sua attività di ricostruzione simbolica del proprio vissuto; mentre risponde alle domande, egli è libero di riconfigurarle, di cambiare il loro ordine, di introdurre nuovi temi di discussione. In tal senso, quando si utilizza questo approccio (qualitativo), l’intervistatore vede il suo ruolo radicalmente trasformato: non è più uno stimolatore verbale (o peggio “un persuasore occulto”), che agisce indisturbato su un soggetto inerme; quanto un interlocutore attento che tenta di carpire il discorso di un narratore attivo. Nella presente ricerca, il discorso inizia quando l’intervistatore preme il bottone del registratore e, dopo aver guardato fisso negli occhi l’intervistato, rivolge a quest’ultimo uno stimolo verbale: “raccontami della tua esperienza di volontariato…”. Di solito, passano alcuni secondi e l’interlocutore comincia a parlare. Il flusso della comunicazione si materializza in un dialogo costruttivo, il cui scopo è quello di cogliere i momenti cruciali di una storia di vita: il racconto della 17 Il volto invisibile dell’altruismo realtà vissuta da un cittadino che si adopera per una causa sociale. Al termine del colloquio d’intervista si spegne il magnetofono. Dopo alcuni giorni, si trascrive puntualmente la registrazione, rispettando alla lettera il testo dell’io-narrante. Comincia così l’attività di interpretazione, senza assumere una posizione completamente distaccata (come quella di un entomologo che osserva gli insetti dall’asettica lente di un microscopio); piuttosto, come Hermes (il progenitore di ogni impresa ermeneutica), il ricercatore raccoglie i messaggi contenuti nei racconti degli intervistati, non senza avvertire un senso di coinvolgimento, che è funzionale alla comprensione degli stessi messaggi. In sintesi, il vantaggio dell’intervista non direttiva è quello di far affiorare il vissuto dell’attore sociale, tramite la forza evocativa del discorso. Difatti, “i comportamenti sono rivestiti di senso mediante parole […] ogni azione è inseparabile dal tessuto discorsivo che incessantemente la interpreta” (Jedlowski 2000, p. 221). In altre parole, dalle comunicazioni linguistiche dell’intervistato affiorano i confini precari dell’esperienza quotidiana, si ricostituisce il filo del sé e prendono forma i legami sociali. Queste tracce culturali affiorano perché il flusso discorsivo evoca la biografia, la situa, la ricostruisce, la proietta nel tempo, esprimendo anche le sue fratture e i suoi punti di continuità. In sostanza, la narrazione racchiude (ed esprime) l’esperienza soggettiva del volontario, offrendo al ricercatore un’ampia gamma di informazioni per decifrare le sue azioni e rappresentazioni sociali. In effetti, il racconto è il “materiale vivo” da cui si dipana la presente indagine. La restante parte di questo libro analizza trenta storie di cittadini altruisti, che agiscono nel sommerso. Si tratta di un oneroso lavoro di approfondimento, quasi un viaggio alla scoperta della sfuggente identità di quei volontari invisibili, che si celano dietro alle statistiche ufficiali, rimanendo anche in ombra nelle indagini demoscopiche. 18 Il volto invisibile dell’altruismo Per terminare Prima di addentrarsi nei risultati della ricerca, è necessario soffermarsi per un momento sulle sue finalità, fugando da subito eventuali equivoci. Per essere espliciti, l’intento di questo volume non è quello di contrapporre il volontariato formale al volontario informale; anche perché, l’esistenza di una riserva di volontari che operano fuori dalle compagini organizzate del terzo settore, dovrebbe essere considerata comunque un segnale positivo; il sintomo che vi è un sovrappiù di energie solidali nella società italiana, a tutto vantaggio della stessa rete di associazioni volontarie che, in futuro, potranno intercettare questa domanda latente di altruismo. Del resto, gli assetti organizzativi di cui si è dotato il movimento del volontariato in Italia, sebbene siano inclusivi e flessibili, non sono in grado di raccogliere tutte le spinte che provengono dalla società civile. L’impegno dei cittadini può convergere all’interno di esperienze collettive, riconosciute a livello politico e sociale; ma può anche rimanere allo stato embrionale, attraverso atti personali e spontanei di responsabilità civica; oppure può sfociare nella costituzione di gruppi destrutturati che non vogliono (né possono spesso) acquisire un profilo di visibilità pubblica. Posta in questo modo, la questione dovrebbe quindi lasciare poco spazio a dubbi e fraintendimenti: volontariato formale e informale coesistono senza attriti nel nostro come in altri paesi17. Il primo raccoglie di solito la maggior parte dei cittadini propensi a donare il proprio tempo a favore di cause sociali; il secondo circoscrive l’esperienza di coloro che, benché siano animati da simili intenti, decidono di non varcare la soglia di un’organizzazione strutturata. Il problema semmai si pone in altri termini. A correnti alternate, capita di imbattersi in analisi che denunciano una crisi delle associazioni volontarie (Marsico, 2003); al di là dei toni più o meno allarmati di tali diagnosi, si evidenziano i rischi a cui vanno incontro gli enti di volontariato iscritti negli albi regionali previsti dalla legge 266 del 1991: l’eccessiva dipendenza dall’attore pubblico; la professionalizzazione degli operatori; il progressivo irrigidimento delle strutture organizzative. Questi ed altri effetti negativi preannuncerebbero scenari foschi; primo fra tutti, il fatto che l’attività volontaria si snaturi, perdendo la sua 19 Il volto invisibile dell’altruismo identità costitutiva (la gratuità dell’atto; le motivazioni etiche; il legame solidale e quant’altro). Ora, a prescindere dalla fondatezza di tali rilievi critici, bisogna dire che queste analisi ripropongono un tema di non poco conto: la capacità di attrarre persone attive e disinteressate nell’alveo di organizzazioni ormai inserite a pieno titolo nell’arena delle politiche sociali. Difatti, per gli enti di volontariato che hanno scelto la via dell’accreditamento istituzionale, si pone indubbiamente un dilemma alquanto spinoso: da un lato, l’esigenza di strutturarsi per far fronte all’attività di servizio; dall’altro, la necessità di preservare il loro “codice genetico”: il significato autentico (non mediato) della prassi di aiuto. Si tratta di due dimensioni solo in parte conciliabili. Di qui nasce la preoccupazione per lo stato di salute del volontariato ufficiale. Una preoccupazione che può in qualche modo chiamare in causa, ancorché solo indirettamente, il volontariato sommerso; infatti, quest’ultimo potrebbe essere concepito come una sorta di “via di fuga” per quei cittadini che disertano le reti formali dell’associazionismo, proprio perché quest’ultimo si è via via istituzionalizzato, smarrendo la sua carica di spontaneità. L’argomento è plausibile ma alquanto sbrigativo, non fosse altro per una ragione intuibile: sposando questa tesi, ai volontari invisibili si attribuirebbe un atteggiamento di rifiuto (una defezione dai canali ufficiali di reclutamento del volontariato organizzato), senza conoscere le ragioni che li hanno indotti ad attivarsi individualmente o in gruppi informali. Ben si capisce che, in tal modo, si compierebbe una vistosa forzatura su una realtà inedita: si etichetterebbe un fenomeno prima di averne una cognizione precisa. Nei restanti capitoli di questo volume si tenterà quanto meno di scansare questa tesi preconcetta, seguendo da vicino le correnti sotterranee di altruismo che percorrono la nostra società. Note 1 In realtà, il fenomeno del volontariato non è una novità. Come ha sostenuto di recente Achille Ardigò: “in ogni tempo e in ogni paese, specie in presenza di un minimo di civile convivenza, molte persone hanno percepito 20 Il volto invisibile dell’altruismo motivazioni ad agire per aiutare il prossimo in difficoltà […] L’impulso del dono di sé, spesso a tempo parziale, è iscritto nella natura umana” (Ardigò, 2001, p. 5). 2 In tal senso, l’attività dei volontari non è tanto caratterizzata dalla volontarietà dell’atto, quanto dalla sua gratuità e dal suo orientamento altruistico: ossia il fatto di prestare un servizio che va a vantaggio di altri. Su questo aspetto, si riscontra peraltro un certo accordo tra studiosi ed esperti. In proposito si veda l’analisi di Costanzo Ranci (Ranci, 1998). 3 Per certi versi, non ha senso proporre una distinzione manichea tra altruismo ed egoismo; infatti, queste due inclinazioni umane, che hanno riflessi emotivi, cognitivi e comportamentali, si intersecano nella vita quotidiana della maggior parte delle persone. 4 Il concetto di dono sta ad indicare “ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone (Godbout, trad. it. 1993, p. 30.)”. Come si vede, tale definizione si attaglia bene a gran parte delle attività svolte dai volontari, poiché pone in risalto due elementi fondamentali: il soggetto agisce per costruire relazioni dotate di senso con altre persone; la sua azione non è guidata dalla richiesta immediata di ricompense materiali o immateriali. In effetti, il dono si fonda su una forma gratuita di apertura verso l’altro. 5 Non è un caso che in questa sede si utilizzi l’espressione Organizzazioni Dei Volontari, volendo con ciò estendere il campo a tutti gli enti che offrono “ospitalità” alle persone desiderose di prestare aiuto. Ciò implica che, oltre alle organizzazioni di volontariato in senso stretto (in Italia, gli enti riconosciuti dalla legge n. 266 del 1991), si faccia qui riferimento anche ad altre strutture organizzate che convogliano l’azione dei volontari: parrocchie, gruppi spontanei, imprese sociali, partiti, sindacati, associazioni pro-sociali, altri organismi del terzo settore. 6 La letteratura su questo argomento è sterminata. Parlando dei limiti delle politiche sociali pubbliche, non si può tuttavia fare a meno di menzionare il contributo seminale di Pierre Ronsanvallon, che ha messo a nudo le aporie dello Stato assistenziale (Ronsavallon, 1981 e 1995). Un punto di riferimento essenziale è anche Esping-Andersen, che è di recente tornato a riflettere sui diversi “mondi del welfare”, mettendone in luce i principali dilemmi (EspingAndersen, 1999). Robert Castel ha, invece, affrontato il tema dell’insicurezza sociale: un fenomeno dilagante in gran parte delle democrazie occidentali, nonostante l’esistenza dei meccanismi di protezione sociale (Castel, 2003). 7 Peraltro, in Italia, la promozione delle OdV è avvenuta anche grazie ad un quadro normativo tutto sommato funzionante ed efficace Si pensi al livello di diffusione capillare raggiunto dai registri regionali del volontariato e al supporto tecnico offerto dai Centri di servizio per il volontariato. 8 La tradizione sociologica è segnata da dispute accese tra i fautori degli approcci macro (teoria dei sistemi, funzionalismo, evoluzionismo, teorie del conflitto, ecc.) e coloro che parteggiano per i modelli incentrati sulle dimensioni micro del sociale (etnometodologia, frame analysis, interazionismo simbolico, ecc.). Negli ultimi anni, si sono fatti strada anche 21 Il volto invisibile dell’altruismo gli approcci meso: teorie e prospettive di ricerca che si muovono in ambiti intermedi (meso), fra i due visti in precedenza, come l’analisi dei reticoli sociali. Si tratta comunque di un dibattito inesauribile, che non accenna a svigorirsi, forse perché i tre livelli si implicano a vicenda, intrecciandosi nello sviluppo della vita individuale e collettiva. In proposito si veda (Collins, 1988). 9 In proposito non si può non citare il contributo dell’Università Johns Hopkins di Baltimora. In particolare, Lester Salamon e Helmut Anheier si sono resi promotori della rinomata ricerca transnazionale sul settore non profit, nel quale evidentemente rientrano anche le OdV. L’indagine ha coinvolto, in principio, soltanto tredici paesi; ma, poi, si è estesa molto rapidamente. Alla fine del decennio, le nazioni passate al setaccio dal Johns Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project erano 42, sebbene ad oggi siano stati pubblicati i risultati definitivi di poco più della metà (22) dei paesi presi in esame (Salamon, Anheier, 1999). In Italia, l’ISTAT ha fatto propri i criteri di classificazione della Johns Hopkins nel primo censimento sulle istituzioni non profit (ISTAT, 2001). 10 In una battuta, l’individuo è più libero rispetto al passato, ma esposto a condizioni durature di incertezza. 11 Questo scenario è emerso in una recente indagine a carattere qualitativo, curata da Maurizio Ambrosini. La ricerca ha sondato le opinioni di circa cento giovani volontari, che operano all’interno di associazioni (riconosciute e non) della provincia di Genova. Al termine di un ricco percorso di analisi, l’autore giunge alle seguenti conclusioni: “sembra confermata l’idea iniziale di un volontariato giovanile che, sebbene sia radicato in esperienze familiari, associative ed educative, appare attraversato da un minore senso di doverosità […] più animato dalla ricerca di esperienze soggettivamente gratificanti, possibilmente anche vantaggiose per il corso successivo della propria esistenza […] In questo senso, se i giovani volontari smentiscono l’idea di una condizione giovanile omologata, schiacciata sulla socialità ristretta e aliena da sentimenti di solidarietà sociale, rivelano però di essere a loro modo partecipi di una cultura contemporanea che ha eletto la soggettività e la realizzazione personale a valori guida” (Ambrosini, 2004, p. 205). 12 L’istituto demoscopico Doxa ha fornito una stima molto simile (6 milioni di volontari), in un’indagine campionaria condotta quasi in concomitanza con quella dell’Iref: novembre 2002 (Doxa, 2002). 13 Il Rapporto sull’associazionismo sociale viene ripetuto con cadenza triennale dal 1983; quindi, registra le tendenze della partecipazione civica nella società italiana in una prospettiva di lungo periodo. 14 Purtroppo, la lista di questi rispondenti si assottiglia già in partenza: al termine dell’intervista demoscopica, molte persone dicono di non voler essere raggiunte telefonicamente per eventuali altre indagini. In tali circostanze, per rispettare la legge sulla privacy e sul consenso informato, non si ha più la possibilità stabilire un legame con l’intervistato “eleggibile”. Il volontario decide così di rimanere invisibile. 22 Il volto invisibile dell’altruismo 15 In alcuni casi, le persone che avevano dichiarato di svolgere un’attività volontaria a titolo individuale o in gruppi informali non rientravano nella definizione di volontariato adottata nella presente ricerca. Si tratta perlopiù di persone che si limitano ad aiutare qualche volta un vicino o un parente. E’ perfino ovvio aggiungere che, in tali circostanze, non si è proceduto ad intervistare i diretti interessati. 16 Per un’analisi della costruzione del panel degli intervistati (stratificazione socio-anagrafica ed ecologica) si veda l’appendice. 17 L’Independent Sector ha stimato, ad esempio, che negli Stati Uniti circa il 24% della popolazione adulta svolge attività informali di volontariato - dati riferiti al 1998 (Independent Sector, 2001). 23 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto 1 Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto 1.1 Guardare oltre i confini del volontariato ufficiale Il legislatore ha compiuto una scelta di fondo quando ha varato la legge quadro sul volontariato (legge n. 266 del 1991). In questo importante provvedimento normativo, l’attività dei volontari viene infatti riconosciuta solo se si sviluppa nell’alveo di un’organizzazione. In proposito è sufficiente menzionare l’articolo 2 laddove si stabilisce che: per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà (corsivo nostro). Il dettato della normativa è, quindi, alquanto chiaro su questo punto: l’impegno personale dei cittadini viene legittimato soltanto in presenza di soggetti collettivi che ne avvalorino il carattere pro-sociale1. Inoltre, la legge individua anche il contesto più idoneo dove si esplicano gli atti di altruismo (articolo 3): le organizzazioni di volontariato, ossia enti costituiti giuridicamente, in assenza di finalità di lucro, con l’obbligo di seguire procedure democratiche e di tenere dei bilanci2. Sicché, per lo Stato italiano, l’azione volontaria è tale in quanto si avvale di un medium organizzativo in varia misura strutturato. Questo principio è peraltro ragionevole. All’epoca dell’approvazione della legge, i volontari avevano operato nella nostra società in assenza di strumenti di regolazione. Quindi, bisognava fare ordine attraverso un quadro di norme precise, benché flessibili. Soprattutto, si voleva evitare che il volontariato potesse dare adito a pratiche sociali di dubbia liceità; innanzi tutto, l’intreccio perverso con l’occupazione sommersa. In un Paese come l’Italia - dove il lavoro al nero è un fenomeno pervicace - non si poteva escludere tale eventualità. Insomma, lo sfruttamento economico di attività cruciali, quali l’assistenza sociale e sanitaria, prestate per di più a titolo gratuito, era una possibilità tutt’altro che remota. 24 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto Ben si capisce, dunque, che la classe politica e gli stessi dirigenti del mondo associativo si siano voluti cautelare di fronte a problemi del genere. Perciò, l’attività volontaria è stata ancorata ad un ambito organizzativo, fornendo ai suoi protagonisti una sede naturale in cui poter agire in modo trasparente e tutelato. A ben vedere, vi è un altro argomento solido che sorregge questo orientamento politico. In definitiva, lo Stato riconosce il volontariato perché attribuisce a quest’ultimo un valore universale (un rilievo per tutta la comunità). Ma ciò presuppone che esso fuoriesca dalla sfera privata, acquisendo una dimensione pubblica; una dimensione che comporta l’adozione di alcuni obiettivi sociali condivisi e di una qualche forma di organizzazione. Insomma, un patto associativo tra volontari, che implica inevitabilmente un vincolo giuridico3. Tale vincolo non ha, peraltro, intaccato l’autonomia della società civile. Infatti, la legge 266/1991 è ormai collaudata avendo, in quasi quindici anni di applicazione, assecondato (promosso) l’evoluzione del volontariato. La crescita costante degli enti iscritti negli appositi albi regionali dimostra che questo assetto legislativo ha funzionato tutto sommato bene4; senza dubbio, oggi le OdV raccolgono le energie della maggior parte dei cittadini sensibili al richiamo del “sociale”, offrendo loro spazi di partecipazione dove coltivare il proprio civismo, al riparo da dinamiche sociali ambigue. Tuttavia, pur volendo considerare questi elementi positivi, non si può sottacere una questione assai spinosa. Il volontariato ufficiale (quello previsto dalla legge) non contempla le forme di solidarietà spontanee. Chiunque presti aiuto in modo individuale o in gruppi informali rimane in un cono d’ombra, poiché la normativa non tiene conto di questa fattispecie di altruismo. Certo, si può sempre sostenere che tale componente dell’azione volontaria sia trascurabile, in quanto priva di “spessore sociale”: un gesto improvvisato (e quindi discontinuo) di indulgenza verso il bisogno di turno, tanto per sedare il senso di colpa; oppure una lodevole (quanto banale) azione di buon vicinato, per quieto vivere. In breve, un volontariato alquanto effimero. La tesi sarebbe verosimile se, dietro al modus operandi del volontariato informale, non fosse possibile rintracciare quei tratti distintivi che la nostra società assegna al volontariato 25 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto formale: un comportamento duraturo e disinteressato, con esplicite finalità pro-sociali. Di per sé l’impegno solidale non viene sminuito nella sua portata, anche se non rientra nei canoni della legge: l’essenziale è che in esso si possa ravvisare un’esperienza autentica di altruismo. Questo rilievo è quasi un invito ad avvicinarsi senza preconcetti all’oggetto della presente indagine; si tratta, in ultima analisi, di guardare oltre i confini del volontariato ufficiale. In tale ottica, può essere utile raccontare alcune storie emblematiche di cittadini che agiscono in modo autonomo (e spesso anonimo). Vicende di volontari che recitano a soggetto, senza seguire il copione convenzionale della solidarietà. 1.2 Incursioni solitarie nel pianeta dell’autismo Demetrio5 ha trent’anni e vive a Bergamo; sebbene abbia studiato filosofia, egli lavora nel settore dell’informatica. Di norma fa il docente in alcuni corsi di formazione professionale per lavoratori adulti, insegnando a questi ultimi i rudimenti dei più comuni software informatici. Si tratta comunque di un’occupazione instabile, poiché questi corsi vengono di solito finanziati dall’Unione Europea; non offrono quindi alcuna garanzia di continuità nel tempo. Così, per arrotondare lo stipendio, l’intervistato non disdegna di installare computer presso ditte e privati. Del resto, è abituato ad arrangiarsi; appena terminati gli studi universitari, si è cimentato in vari impieghi precari pur di arrivare alla fine del mese: operaio, cameriere, animatore. Sin ora si è compreso che la situazione lavorativa di questo giovane-adulto è tutt’altro che risolta; per certi versi, il suo percorso nel mercato del lavoro assomiglia a quello descritto da Richard Sennett ne L’uomo flessibile (Sennett, 1998), dove l’autore analizza il senso di precarietà vissuto dai lavoratori “a contratto”6. Malgrado ciò, Demetrio non si preoccupa più di tanto della sua instabile posizione lavorativa. Piuttosto, egli coltiva un’inclinazione in modo del tutto disinteressato: aiutare le persone con un disturbo mentale. Un attività che non ha nulla a che vedere con la sua realizzazione professionale. Infatti, da circa un anno, ogni fine settimana tiene compagnia ad un bambino autistico di sette anni: Samuele, il figlio di una coppia 26 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto di vicini che abitano nel suo quartiere. A prima vista, è un impegno ordinario, privo di scopi prefissati, salvo badare ad una persona in difficoltà: scortarlo in bicicletta nel parco, stare attenti che il bimbo non si faccia male, magari offrirgli discretamente un gelato o dare due calci al pallone in un grande prato ombreggiato. Nondimeno, dalle stesse parole con cui il volontario racconta questa vicenda, si capisce che le cose sono più complesse di quanto non sembri: “passare il tempo con lui mi dà di più davvero […] il bel rapporto che si stabilisce a un certo punto ti permette di aiutarlo, di educarlo, perfino di insegnargli quello di cui ha bisogno, in un mondo che Samuele fa fatica a riconoscere […] però lui ha una buona comprensione del linguaggio (verbale – N.d.A.) […] l’importante è la relazione, cioè stabilire un canale comunicativo con cui far arrivare dei messaggi ”. Dunque, l’informatico di Bergamo non si limita a svolgere il ruolo di un semplice accompagnatore; al contrario, riannodando i fili del suo rapporto con Samuele, egli snocciola una serie di termini che potrebbero tranquillamente comparire nella relazione di un educatore professionale. Colpisce soprattutto il riferimento alla dimensione dell’insegnamento, che del resto ritorna in un altro passo dell’intervista: “è un rapporto reciproco, ma soprattutto è di più […] nel senso di insegnargli delle abilità […] per esempio andare in bicicletta, fargli capire come frenare, come rispettare le regole della strada […] questo è già un insegnamento”. Ma è altrettanto centrale il tema della comunicazione, come si evince da un ulteriore brano: “se sei tollerante e ascolti sai anche metterti allo stesso livello comunicativo, si crea fiducia e allora c’è scambio, scambio di emozioni”. In effetti, l’esperienza di Demetrio potrebbe essere racchiusa in tre operazioni fondamentali: 1) ascoltare per capire; 2) instaurare un legame di reciprocità (lo scambio) 3) intervenire con una finalità pedagogica. Il tutto per migliorare la vita di un bambino vittima di un handicap psichico grave. Se non fosse per il carattere informale di questa forma di sostegno sociale, si sarebbe quasi tentati di considerarla un vero e proprio lavoro terapeutico. Si deve anche dire che il giovane volontario non è un neofita del “mondo delle disabilità”. In realtà, il suo interesse viene da 27 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto lontano: scorrendo a ritroso la biografia dell’intervistato, si percepisce chiaramente che la sua attenzione verso il problema del disagio mentale è maturata col tempo. Prima di Samuele, egli si è fatto carico per due anni di un’altra persona con deficit psichici simili, cercando (con esiti alterni) di fargli sperimentare un minimo di vita sociale: bere una birra in un pub, andare ad un concerto e quant’altro. Ma, per capire quando Demetrio ha deciso di dedicarsi all’autismo, si deve risalire ad un periodo ancora antecedente. Poco dopo la laurea, egli svolge infatti il servizio civile presso una cooperativa di inserimento lavorativo per disabili psichici. In quel frangente, si fa strada in lui la consapevolezza di essere tagliato per il sociale: “ho capito di essere in grado di instaurare una certa spontaneità di rapporto, che comunque dava i suoi frutti anche a livello educativo, perché nasceva da una facilità di comunicazione”. In estrema sintesi, un obiettore di coscienza scopre di potersi aprire una breccia nel muro di incomunicabilità dell’autismo. La sua propensione naturale alla comunicazione, o forse soltanto una spiccata sensibilità, gli preannunciano quasi una vocazione. Demetrio ha intuito sin dal principio di avere una dote particolare: la non comune capacità di penetrare nelle pieghe dell’isolamento mentale. Per di più, coltivando questa inclinazione, riesce anche a rapportarsi meglio con le persone normodotate: “ti accorgi di apprendere quando entri in relazione con loro (le persone colpite da autismo – N.d.A.) […] impari ad essere tollerante, a capire, ad esprimerti […] capacità che sono utilissime nei legami con le persone normodotate”. In tal senso, non sorprende che il giovane abbia continuato a dedicarsi all’autismo: oltre ad esser predisposto all’ascolto, egli ritiene di esser cresciuto sul piano personale grazie a questa relazione d’aiuto. Col senno di poi, viene piuttosto da chiedersi per quale ragione non abbia scelto di trasformare questa sua abilità in una professione; tanto più che la sua attuale posizione nel mercato del lavoro non è salda. Con le sue qualità, avrebbe di certo potuto aspirare ad un carriera da operatore sociale, agendo così con maggiore sistematicità sul disagio mentale. Con tutta probabilità, l’intervistato non ha seguito questa strada perché non ha condiviso il tipo di approccio utilizzato dalla cooperativa in cui ha prestato il servizio civile, soprattutto 28 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto l’accento sulla produttività, ben esemplificato da questo passaggio dell’intervista: “loro (i soci della cooperativa – ndr) volevano che facessi più lavoro in fabbrica, per aumentare la produttività7, io invece volevo essere socialmente utile, parlare con i ragazzi disturbati”. Il ragionamento è abbastanza lineare. Demetrio ricerca un contatto diretto con i disabili; mentre i cooperatori gli fanno notare che l’impresa sociale, per poter sopravvivere, ha necessità di sviluppare le proprie attività, concentrandosi soprattutto sui margini di ricavo. Sicché, i desideri dell’obiettore mal si conciliano con le priorità dell’organizzazione. Insomma, si è in presenza di un conflitto di aspettative piuttosto comune. Una di quelle esperienze negative che possono indubbiamente influenzare le scelte future di un giovane volenteroso. Perché farne un lavoro – deve essersi chiesto allora Demetrio - se questo vuol dire preoccuparsi dei bilanci e della redditività? Meglio operare in modo disinteressato; libera da condizionamenti economici, l’attività di cura non rischia di snaturarsi. In tale prospettiva, la scelta di agire a titolo gratuito appare quanto mai congruente con la visione espressa a più riprese dall’informatico di Bergamo: egli vuole allacciare un legame con la persona autistica. La sua attività, da sempre, prescinde da considerazioni di altro tipo, in primis quelle economiche. Rimane da vedere perché egli non abbia aderito ad una delle tante associazioni volontarie che si occupano di autismo. In fin dei conti, in un’organizzazione di volontariato si può sempre attingere ad una serie di risorse (materiali e simboliche) significative. Non ultima, la possibilità di unire le proprie forze con quelle di altri “uomini solidali”, per raggiungere uno scopo comune. Un elemento decisivo per chi si confronta con un problema grave come la sindrome da isolamento psichico. Ma Demetrio non concepisce il suo impegno come un’esperienza da condividere in gruppo; anzi, lo considera una sfera intimamente legata alla sua crescita personale, al punto da scomodare un concetto impalpabile come l’anima: “il mio rapporto con Samuele lo vivo in modo individuale, ci sono cose da non condividere […] è una crescita personale, un fatto che riguarda l’anima”. Di qui nasce la sua distanza dal volontariato organizzato: “queste associazioni di volontariato […] è un 29 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto ambiente a cui non sento di appartenere, non mi piace essere parte di qualcosa, desidero sentirmi libero”. Libero sì, ma non inconcludente. Grazie a Demetrio, Samuele ha anche imparato a nuotare. Il padre del bambino gli ha mostrato tutta la sua riconoscenza, quel giorno, quando ha scoperto che, per la prima volta, il figlio non era più spaventato dall’acqua. Forse, in quel momento, il nostro volontario ha capito di essere utile. Poco importa che egli non sia diventato un operatore sociale di mestiere; o che sia alquanto distaccato dal volontariato organizzato. Le sue incursioni solitarie nel mondo dell’autismo hanno già aperto una fenditura nel muro dell’incomunicabilità. 1.3 Il gioco dei legami sociali Il quartiere San Paolo di Bari è assurto tristemente alle cronache per la vicenda di un bimba di sedici mesi, morta per denutrizione agli inizi del 2005. Stando ad un laconico articolo, apparso il 7 gennaio sulla Gazzetta del Mezzogiorno, dietro alla tragedia vi sarebbe stata “una difficile situazione familiare e sociale”. Al momento del decesso, il padre della neonata era in carcere e la madre viveva in condizioni acute di marginalità. Il giorno successivo, il Sindaco della città ha espresso il suo sdegno per questo evento drammatico, lamentando il “numero pateticamente esiguo di assistenti sociali, educatori e vigili urbani, di persone in grado di entrare nelle case dei nostri concittadini per prevenire la morte fisica e sociale8”. L’allarme ha risuonato forte, perché proveniva da una metropoli già afflitta da tante emergenze: prima fra tutte, la presenza capillare della criminalità organizzata. Come è noto, il tessuto urbano barese è lacerato dalla lotta per il controllo di varie attività malavitose: traffico di droga, contrabbando, prostituzione, racket, trasporto di stranieri clandestini. Una guerra fra clan che, ogni anno, miete molte più vittime di quelle uccise direttamente nelle faide interne della sacra corona unita. Difatti, nel capoluogo pugliese, sono assai numerose le famiglie ai limiti della povertà, con uno o più componenti in prigione, senza poter contare su una rete di servizi socio-assistenziali. In tale ottica, il nesso fra criminalità e vulnerabilità sociale è evidente. Pertanto, non stupisce che il 30 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto primo cittadino di Bari abbia denunciato il problema, proponendo tra l’altro la costituzione di una “grande società comunale di mutuo soccorso” per assistere i bambini in situazione di grave disagio. L’idea è suggestiva ma, nel frattempo, camminando per le vie di San Paolo, si ha l’impressione di aggirarsi in un sobborgo desolato e pericoloso; una realtà suburbana dove le istituzioni sono assenti, se non fosse per qualche raid occasionale compiuto dalle autorità di pubblica sicurezza, per ripristinare l’ordine pubblico. Anna vive da 25 anni a San Paolo; e non ha nessuna intenzione di mettere in discussione la sua permanenza in questo quartiere degradato, verso il quale si sente anzi molto legata, malgrado tutto: “conosco bene altre città, Roma e Milano, ma ogni volta che ritorno qui, vedo “l’uscita cinque” della tangenziale (San Paolo – N.d.A.) e respiro. Quando sono altrove questo posto mi manca davvero, con tutti i pro e i contro […]”. A 38 anni, con tre figli in tenera età da crescere, l’intervistata avrebbe diversi motivi validi per abbandonare un luogo alquanto insicuro. Ma lei non si da per vinta, forse perché sa che la criminalità affonda le radici nella precarietà sociale: “se c’è delinquenza è perché manca qualcosa […] è solo una richiesta d’aiuto”. Così, da due anni circa, ha deciso di impegnarsi in prima persona per rigenerare questa zona periferica. Assieme a due insegnanti e ad altri otto genitori, si è riunita in una piccola associazione9. L’obiettivo di questo gruppo informale è quello di diventare un “punto di riferimento” per i residenti, tentando di rispondere ai fabbisogni sociali delle famiglie in difficoltà. Più in concreto, Anna e i suoi colleghi volontari utilizzano l’arte ludica per far socializzare i bambini, specie se versano in situazioni problematiche. Hanno cominciato dall’asilo e dalla scuola elementare, dove per un’ora al giorno organizzano giochi di gruppo ed altre attività ricreative: “qui ci sono molte scuole a rischio, perché i bambini hanno in genere uno o entrambi genitori in carcere. Spesso vivono con i nonni e vengono emarginati dagli altri alunni […]. Noi gli proponiamo giochi di gruppo o gli facciamo costruire aquiloni, girandole […]”. Anche questo è un modo per stimolare la comunicazione e la cooperazione in una fase cruciale come quella dell’infanzia, specie quando si cresce in una situazione di deprivazione 31 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto sociale: “palla avvelenata, palla prigioniera, nascondino […] dapprima ci sono dei bambini che tra di loro non si parlano, ma alla fine del gioco comunicano intensamente”. E’ proprio questa la questione fondamentale: ristabilire dei legami laddove si sono sfilacciati, specie nei casi più estremi di isolamento. Per spiegare questo aspetto, Anna cita l’episodio di una bambina che, fino alla quinta elementare, si limitava a scrivere, rimanendo in silenzio assoluto, destando non poca apprensione negli insegnanti. Poi un giorno, all’improvviso, durante l’attività ludica ha gridato, esprimendo le sua rabbia. Potere catartico del gioco: quello di liberare la frustrazione in un’infanzia penalizzata. Il quartiere ha reagito con gradualità alla presenza attiva dei volontari: “abbiamo cominciato a vedere che i bambini ci riconoscevano, ci richiedevano […] così abbiamo iniziato a capire che facevamo qualcosa di utile […] è importante perché questo posto non offre nulla, sì c’è un parco ma nessuno ci va per paura di fare brutti incontri”. E, poi, anche i familiari dei bambini più a rischio, hanno cambiato atteggiamento; in principio erano sospettosi, ma poi hanno visto che i figli o i nipoti preferivano passare il tempo con il gruppo di animatori; e questo ha contribuito a farli riavvicinare alle istituzioni scolastiche: “E’ come una catena” – sottolinea Anna – “il genitore, incurante della scuola, osserva il bambino che torna a casa euforico; gli parla dei giochi, del fatto che si è divertito e che vuole tornarci. Così inizia ad interessarsi, riprendendo a frequentare i colloqui con la maestra”. Un risultato tutt’altro che trascurabile in un contesto dove l’abbandono scolastico va a braccetto con il disinteresse dei genitori. Questi segnali hanno incoraggiato i membri dell’associazione. La loro azione si è così intensificata e diversificata: l’animazione delle favole in biblioteca, per stimolare gli allievi alla lettura e al confronto; le attività di ricreazione nel centro per anziani; le visite ludiche nel reparto di pediatria dell’ospedale locale; lo sportello informativo per i genitori. In breve, gli impegni si moltiplicano, al punto da richiedere una programmazione delle attività quasi giornaliera: “abbiamo tutti i giorni occupati, c’è sempre qualcosa da fare […]”. Si tratta di uno sforzo notevole per un gruppo composto da dieci persone, che debbono comunque occuparsi delle loro 32 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto famiglie, le quali non navigano certo nell’oro. Ma queste difficoltà passano in secondo piano se si è sorretti da una sincera volontà di cambiamento: “mi piace quando il quartiere progredisce. Spero che un giorno non sia più considerato come un ghetto periferico […] Perché noi siamo di Bari, ma ci etichettano come abitanti di San Paolo […] questo distacco fa male”. In effetti, Anna e gli altri volontari si sono mobilitati perché non si rassegnano a questo stigma negativo; per questo riannodano pazientemente la trama del legame sociale: sperano che in futuro, ripristinando le basi della convivenza civile, San Paolo possa diventare un quartiere normale. 1.4 Combattere la solitudine nella “montagna disincantata” La fragilità del legame sociale si avverte anche in aree non colpite dal vulnus della criminalità. Percorrendo da nord a sud lo Stivale, ci si imbatte infatti in una miriade di realtà municipali disancorate dal resto del paese; luoghi decentrati nei quali le lancette della storia sembrano essersi fermate da secoli. Pralungo, in provincia di Biella, è per certi versi un emblema di questa condizione di isolamento: un piccolo centro di montagna (circa 3000 abitanti), dove le persone vivono in case sparse, avvolte da profili montuosi che si protendono senza soluzione di continuità verso l’Appennino ligure e la Val D’Aosta. Il paesaggio è di per sé suggestivo; tuttavia, non c’è di che rallegrarsi da queste parti. In particolare, il declino demografico (invecchiamento della popolazione) mette al repentaglio la tenuta della comunità, provocando una serie di conseguenze allarmanti: l’aggravarsi delle condizioni di salute degli abitanti, anche per le malattie genetiche contratte a causa dei matrimoni tra consanguinei; i giovani (per la verità pochi) che si trasferiscono nelle città vicine; ma, più di tutto, la solitudine degli anziani. Insomma, Pralungo è un posto dove è arduo vivere e dove i fabbisogni di sostegno sociale e di assistenza sanitaria sono molti. E’ questo l’habitat nel quale opera Carla, una donna di cinquant’anni, con un vissuto alle spalle alquanto intricato: due matrimoni falliti e tre figli adulti che la vengono a trovare quando possono; diversi traumi emotivi che hanno forgiato la 33 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto sua personalità; una traiettoria discontinua nel mondo del lavoro. In passato, infatti, dopo aver preso il diploma da infermiera con specializzazione in pediatria, ha maturato esperienze lavorative assai diverse: i lavori occasionali per mantenersi durante il periodo degli studi (commessa in un supermercato, postina, assistente di un veterinario); alcuni impieghi più vicini ai suoi interessi personali (svariati contratti da infermiera ed un incarico nel ruolo di direttrice di un asilo nido); e una lunga parentesi milanese, che ha coinciso con il suo secondo matrimonio; in quel frangente, si è sperimentata come imprenditrice, avendo assunto un ruolo di primo piano nell’azienda del suo ex marito: una società leader nel settore della pubblicità. Poi, la donna ha deciso di ritornare nel paese in cui è nata. A Pralungo ha aperto un bed & breakfast: una piccola pensione che la tiene impegnata soprattutto nella stagione estiva. Ma l’albergo non è in cima ai suoi pensieri. Da quattro anni, Carla gestisce (assieme ad un medico) l’unico ambulatorio ospedaliero della comunità. La struttura è stata messa a disposizione dal comune; tuttavia, senza il lavoro gratuito di questa infermiera volontaria, sarebbe difficile assistere 210 pazienti, con un orario di apertura che si prolunga per tutta la settimana. L’intervistata non fornisce le prestazioni infermieristiche solo nell’ambulatorio; la sua attività di servizio è itinerante, perché gli anziani hanno molteplici esigenze e, di sovente, non sono autosufficienti: “svolgo un servizio per tutta la comunità […] faccio anche il taxi per le persone anziane, accompagnandole a Biella, quando me lo chiedono, altrimenti rimarrebbero isolate […] poi vado a visitarle a domicilio, perché oltre alle medicazioni debbo seguirle nelle terapie; molto spesso hanno dei farmaci in casa, ma si dimenticano di prenderli o ne fanno un uso scorretto. Per questo è necessario muoversi sul territorio”. In effetti, la mobilità sul territorio è essenziale per curare i pazienti. Per rendersene conto, basta seguire Carla mentre visita una donna ottuagenaria che ha, di recente, contratto un’infezione all’alluce del piede sinistro10; l’infezione potrebbe avere delle ripercussioni serie: amputazione del dito con conseguenti problemi di locomozione; il che comprometterebbe seriamente la sua autonomia individuale. Un’eventualità molto pericolosa 34 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto per una persona in età avanzata che, insieme al marito (anch’egli attempato), abita in un luogo assai appartato. Per di più, la coppia vive in una situazione che rasenta la precarietà: la casa è spoglia e addossata ad una valle. Gran parte dell’edificio è ancora in costruzione. I due anziani alloggiano nell’appartamentino al primo piano, al di sotto del quale c’è un soggiorno di dimensioni anguste, arredato con mobili fatiscenti; nel piccolo appezzamento di terra che circonda il fabbricato, si notano un pollaio quasi vuoto, un orto tutt’altro che rigoglioso e due cani smagriti che latrano di continuo. Il dato prevalente è dunque la penuria: con tutta probabilità, la famiglia riesce a malapena a sostentarsi con i prodotti della terra e i pochi capi di bestiame di cui dispone. Carla entra nel locale dove l’attende la sua paziente. Considerando la gravità del quadro clinico, il clima all’interno dovrebbe essere alquanto pesante. Invece, contrariamente alle attese, la visita si svolge in un’atmosfera allegra: per tutto il tempo, la volontaria e la paziente si scambiano battute scherzose nel dialetto locale. Dopo circa trenta minuti, l’infermiera esce assieme alla coppia anziani. L’aspetto dei due coniugi è più trasandato del solito; prima della malattia, marito e moglie erano fieri di indossare abiti variopinti; era un modo per esprimere il loro attaccamento al folklore locale. Ora è diverso: si sono entrambi lasciati andare; un sintomo dello stato di disagio che i due vivono a causa del precario stato di salute della donna. La visita volge al termine. L’anziana si avvicina a Carla e le consegna un pacco con delle uova fresche. Dopo essere risalita in macchina, la volontaria sottolinea che ha dovuto accettare il dono: “fa parte del patto fiduciario che ho stabilito con i miei pazienti; non accetterebbero mai i miei servizi gratuiti senza dare qualche cosa in cambio […]”. Un patto fiduciario; tale è il rapporto che lega l’infermiera ai suoi utenti. E questo per un’ovvia ragione: nei momenti difficili, quando la malattia e la solitudine funestano la vita degli abitanti di Pralungo, l’infermiera stabilisce con loro una relazione di prossimità. Carla agisce quasi alla stregua di un medico condotto: si reca al capezzale della persona sofferente e, dopo avergli approntato le cure del caso, dispensa consigli utili, ascolta il disagio, la rincuora. 35 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto In molte circostanze, il suo è un intervento provvidenziale; come nel caso di un uomo ottantenne che ha rischiato il trattamento in dialisi: “un paziente di ottanta anni ha avuto un’insufficienza renale grave, con il rischio di essere messo in dialisi; voleva suicidarsi e l’avrebbe fatto; ho cominciato a parlargli, a stargli vicino, a spiegargli il percorso terapeutico che doveva seguire; pian piano si è reso conto che doveva mettersi a dieta, rispettando una serie di regole ferree per curare la sua salute. Alla fine di questo difficile percorso, si è scoperto che egli non doveva fare la dialisi, pur dovendo continuare a condurre una vita controllata. La mia più grande soddisfazione è averlo visto di nuovo vitale”. Come si vede, la guarigione di un anziano ha delle forti componenti psichiche: le terapie mediche non andrebbero a buon fine, se non fossero assecondate dalla comprensione umana. E, Carla, pur non essendo una psicologa, ha capito che la sua è, prima di ogni altra cosa, una attività di ascolto per lenire il senso di isolamento: “ho imparato ad ascoltare perché qui il problema principale è la solitudine”. Si deve dire che il suo impegno è stato, in qualche misura, premiato: i funzionari del Comune le lasciano, ad esempio, carta bianca nell’acquisto dei medicinali. Si tratta di un’apertura di credito significativa, perché sottende un riconoscimento pieno dell’attività svolta dalla volontaria: il sindaco e gli assessori sono consapevoli che è lei a mandare avanti, pressoché da sola, un piccolo ospedale di montagna. Tuttavia, Carla ha assunto un ruolo ancor più decisivo per i destini della comunità di Pralungo. Lei è diventata a tutti gli effetti una figura cardine per la stragrande maggioranza degli abitanti del paese. Gli anziani la ricercano, ponendogli questioni che prescindono dalla cura della salute; in particolare, quelli che versano ancora in buona salute, si recano presso l’ambulatorio anche quando non hanno necessità impellenti: iniezioni, visite mediche, richiesta di informazioni sui dosaggi dei farmaci. Si accomodano nella sala d’attesa e cominciano a chiacchierare fra di loro del più e del meno. Poi, all’improvviso, compare l’intervistata e, quasi per incanto, nasce un dialogo serrato sugli affanni quotidiani vissuti da ciascuno dei pazienti. I racconti variano, ma si possono individuare alcuni fili conduttori comuni: la sensazione di isolamento, le ristrettezze economiche, la 36 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto nostalgia, il bisogno di stare in compagnia, il lutto non elaborato della vedovanza, che colpisce in particolare le donne. In questi incontri Carla non agisce più come un’infermiera scrupolosa; piuttosto, la sua funzione ricorda da vicino quella di una moderatrice in un gruppo di auto-ascolto. La donna prende in mano la situazione: stimola la discussione, fa emergere il disagio, cerca soluzioni. Il suo scopo è ormai chiaro: far si che gli anziani condividano le loro ansie, per placare la morsa della solitudine, per sconfiggere il senso di disillusione. Certo queste conversazioni non sono la panacea di tutti i mali; ma almeno ravvivano il paesaggio inerte della “montagna disincantata”. 1.5 Un “calcio” alle illusioni Nel nostro paese il calcio è sicuramente un fenomeno di costume. Di allenatori, partite, campioni e arbitri si discorre praticamente ovunque: in famiglia, al bar, in televisione, sui giornali e, non di rado, nei circoli intellettuali e nelle sedi ufficiali della politica. Gli italiani sono subissati dal diluvio d’informazione sulle vicende calcistiche, al punto che non possono fare a meno di interrogarsi sul futuro della loro squadra preferita, senza trascurare il gossip sul goleador del momento; per non parlare poi dei concitati scambi di vedute sugli immancabili “episodi da moviola”, che animano i tifosi per settimane intere. In breve, l’opinione pubblica esprime una tensione permanente per quello che avviene nel fantasmagorico mondo del pallone. Non sorprende, pertanto, che le attese verso questo sport siano particolarmente diffuse nella nostra società, soprattutto fra i calciatori “in erba” che sperano, un giorno, di poter intraprendere la carriera da professionisti, magari calcando i campi della “serie A”. Non ci sarebbe nulla di disdicevole in un’aspirazione del genere, se non accadesse che, spesso, i sogni diventano talmente ingombranti da non potersene liberare tanto facilmente. Anche quando la “cruda realtà” li sconfessa. Aldo tenta di evitare che gli aspiranti campioni vengano sedotti dalla chimera del successo. Nel 1992, l’intervistato ha cominciato a seguire i giovani del Brescia Calcio; non è un dettaglio che egli abbia sempre lavorato a titolo gratuito, 37 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto sebbene il suo incarico fosse cruciale: “il club mi ha affidato i giovani; dagli allievi (14-15 anni), fino alla primavera (20 anni). Perciò, io mi sono occupato (tengo a precisare sempre in modo gratuito, senza lucro né interessi) delle esigenze di persone provenienti da tutte le zone d’Italia (principalmente dal Meridione), oltre che dall’estero”. Poi, dopo sette anni, egli ha interrotto la collaborazione con la squadra della sua città. Tuttavia, anche in seguito, ha continuato a tenere d’occhio i suoi “pupilli”, viaggiando in lungo e in largo per i campi di provincia. Oggi, si mantiene in contatto costante con una ventina di calciatori, principalmente dilettanti, senza mai negargli un consiglio o una parola di conforto: “non bisogna perderli di vista, perché i ragazzi sono in giro per l’Italia e hanno bisogno di sostegno morale. Per questo io li vado a trovare oppure, se non posso, faccio un telefonata”. Dunque, Aldo si è ritagliato un ruolo del tutto inedito, operando come una sorta di mentore che si aggira per il paese, al solo scopo di stare vicino agli emuli di Totti e Del Piero. Lo sforzo profuso è notevole se si considera che, nei giorni infrasettimanali, quest’uomo di cinquant’anni fa il dirigente in un’azienda municipalizzata. Un lavoro stressante, che lo costringe ad assumersi responsabilità nient’affatto trascurabili. Malgrado ciò, nei weekend, si sottopone quasi sempre a spostamenti lunghi, pur di raggiungere i suoi adepti. Come spiegare lo slancio con cui si dedica al suo passatempo preferito? A prima vista, l’attività volontaria di Aldo sembra coincidere con un’incrollabile passione sportiva. In tal senso, il suo impegno verso i giovani potrebbe essere motivato solo dal fervore agonistico: allevare calciatori per poter dire, un domani, che qualcuno di essi è diventato un campione celebrato. In breve, una partita vibrante, giocata tutta “fuori dal campo”; come quella di molti genitori che s’improvvisano allenatori o procuratori, immaginando che i figli possano raggiungere l’eldorado calcistica. Certo, l’intervistato è un entusiasta del gioco del pallone; tuttavia, egli non agisce come un talent scout (un procuratore professionista) alla ricerca del fuoriclasse di turno: non ambisce, in altri termini, alla fama (o al guadagno) per interposta persona. Al contrario, egli offre un sostegno a coloro che si candidano 38 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto per un “posto al sole”, preoccupandosi soprattutto dei loro destini extracalcistici. Quest’ultimo elemento emerge in modo lampante quando rievoca la sua esperienza nella squadra di Brescia: “c’erano ragazzi adolescenti […] il problema era l’impatto che questi giovani subivano perché erano fuori di casa, senza famiglia […] dovevo fargli da padre e da tutore […] andare a parlare con gli insegnanti a scuola, dargli un appoggio emotivo la sera, quando se ne stavano soli presso il convitto religioso dove alloggiavano […] li portavo a cena, poi rimanevo a lungo nel convitto per fargli compagnia. La dirigenza della società sportiva non si occupava più di tanto di queste cose […] loro pensavano alle questioni agonistiche […] io invece mi preoccupavo dei ragazzi che non giocavano, perché non rientravano nei parametri tecnici della società […] si sentivano emarginati […] rischiavamo di disintegrare le loro vite […] io mi facevo carico di questi outsider”. Il brano è eloquente: Aldo funge da rete di supporto per un manipolo di ragazzi mandati allo sbando in una ricca provincia del Nord, col sogno nel cassetto di fare fortuna nel dorato mondo del calcio. Il punto è che solo pochi arrivano al traguardo: l’esordio nella massima serie e, dopo qualche anno, mettendosi in mostra, il trasferimento in una squadra blasonata, gli ingaggi da capogiro e magari la nazionale; ma, nel frattempo, bisogna fare la gavetta. Gli allenamenti lontano da casa, senza i genitori, il senso di abbandono, la difficoltà di conciliare lo studio con la preparazione atletica. E poi conta anche il contesto da cui si proviene: la stragrande maggioranza dei giovani menzionati dall’intervistato sono di bassa estrazione sociale, per lo più meridionali. Per loro la corsa verso l’Olimpo del calcio è ancora più gravosa: la depressione è dietro l’angolo, quando si dimora a centinaia di chilometri di distanza dal luogo in cui si è nati, facendo la spola tra il campo da gioco e un convitto religioso, senza poter contare sugli affetti familiari e sugli amici. L’intervistato conosce bene queste storie di stenti e di abbagli; per questo si affretta a dire “non bisogna mai illuderli”. D’altronde ne ha viste tante; ha dovuto affrontare anche il problema della tossicodipendenza. Di recente, infatti, ha aiutato due giovani calciatori che erano finiti nel giro della droga: oltre a fare uso di stupefacenti, spacciavano. Poi è venuta l’inevitabile condanna penale. Lui non li ha abbandonati; anzi, gli è stato 39 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto vicino per tutto il periodo della detenzione. E, oggi, si sente orgoglioso perché sono usciti indenni dal carcere. Non sono diventati dei giocatori professionisti, ma conducono un’esistenza tranquilla: “sono riuscito a salvarli […] questo era il mio scopo. Li vado a trovare e mangiamo insieme. La mia soddisfazione è sapere che si sono reinseriti, hanno un lavoro, una famiglia e stanno bene”. Dietro all’impegno volontario di Aldo si può anche leggere l’intento di moralizzare il fenomeno calcistico, facendo comprendere ai giovani che non si deve diventare a tutti i costi qualcuno: “all’adolescente non bisogna inculcargli l’idea che deve arrivare chissà dove, ma che deve essere cosciente di quello che fa; è necessario educarlo al rispetto […] e soprattutto deve capire che nella vita ci sono altri valori oltre al successo sportivo […] qualcuno prima di lui si è sacrificato per dargli la possibilità di esprimere le sue potenzialità, al di là dei problemi contingenti”. Questo discorso potrà apparire eccessivo, a tratti paternalistico; ma, intanto, Aldo continua a svolgere con convinzione la sua funzione di mentore, infondendo un sano realismo in chi potrebbe cadere preda di un’illusione fatale. 1.6 La mia Africa: un altro mondo è necessario L’Africa brancola nel tunnel di una crisi umanitaria senza via d’uscita: carestie, malnutrizione, mortalità infantile, eccidi tribali, propagazione dell’Aids, catastrofi ambientali, ecc. Il dramma è di proporzioni smisurate, specialmente se si guarda a quanto avviene nell’area Sub-Sahariana: centinaia di milioni di persone che vivono in uno stato di penuria estrema, senza acqua e cibo, con una probabilità elevatissima di morire a causa della difterite o per mano di qualche sanguinario “signore della guerra”, pronto a scatenare un conflitto etnico, le cui vittime più frequenti sono donne, bambini e anziani. Di fronte a questo scenario apocalittico, anche gli impegni solenni delle Nazioni Unite appaiono proclami alquanto illusori11. Per non sottacere, poi, le inadempienze sul fronte dall’azzeramento del debito estero dei paesi poveri. L’opinione pubblica occidentale reagisce, di solito, in modo ambiguo dinnanzi alle crude immagini del “flagello africano”: 40 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto alcuni voltano la testa dall’altra parte, tentando di rimuovere (negare) l’evidenza dei fatti; altri rimangono attoniti, perché le “icone del dolore” possono anche condurre alla paralisi della coscienza; altri ancora mettono mano al portafoglio, elargendo denaro alle organizzazioni umanitarie, tanto per placare il senso di colpa. Ma c’è anche una minoranza di cittadini che si mobilitano in prima persona, facendosi carico (per quanto possibile) dell’emergenza. Laura fa parte di quella schiera di attivisti che cercano di fare qualcosa di concreto per l’Africa. Dal 2001 ha aderito ad un gruppo spontaneo che raccoglie fondi per realizzare progetti di sviluppo in un’area al confine con il Mozambico. L’associazione, del tutto informale, nasce per iniziativa di un medico che aveva lavorato per l’Unicef e per l’Organizzazione mondiale della sanità. Nel corso delle sue missioni all’estero, egli si era difatti accorto che le grandi organizzazioni internazionali, dovendo operare su più fronti, lasciano scoperte alcune aree decentrate. Gli viene quindi l’idea di raccogliere attorno a sé alcuni amici e conoscenti, per dar vita ad un’iniziativa umanitaria su piccola scala. E’ proprio questo aspetto ad attrarre l’intervistata nell’orbita del volontariato internazionale, anche se non nasconde che alla base della suo coinvolgimento in questa attività c’è un’altra motivazione: “faccio parte di una generazione che ha alle spalle un’esperienza di militanza politica forte che ora non c’è più […] oggi la politica non ti soddisfa e, in qualche modo, l’impegno nel sociale va a colmare questo vuoto di partecipazione civica”. In effetti, la donna per molti anni è stata una sindacalista della CGIL, nel settore della scuola. Poi, però, si è stancata: “in passato, il sindacato si impegnava in battaglie sociali di grande respiro. Dopo, tutto si è ridotto alla questione dei contratti di lavoro […] ero scontenta, dovevo trovare una cosa che soddisfacesse questo mio bisogno di partecipazione e quindi ho scelto il volontariato”. Fin qui nulla di sorprendente: sono innumerevoli i casi di militanti di sinistra (e non solo) che, essendo rimasti delusi dalla loro esperienza politica, hanno compiuto una scelta come quella di Laura. D’altronde, lei fa parte della generazione degli anni Settanta: la gioventù che ha attraversato la stagione turbolenta degli “anni di piombo”, con tutti gli strascichi che questo ha 41 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto comportato: “gli anni in cui si partecipava alle manifestazioni, in cui ognuno di noi credeva in quello che faceva, ma sapeva di rischiare grosso […] ho tanti amici che sono morti negli scontri con la polizia o che hanno scelto la via della clandestinità. Altri si sono semplicemente annientati con la droga […] Non so perché alcuni di noi sono usciti indenni da questa esperienza lacerante ed altri no […] Se ripenso a quegli anni dico che mi è andata bene”. Guardando al passato, l’intervistata può senza dubbio considerarsi fortunata; diversamente da molti suoi coetanei, non è rimasta irretita dagli eccessi dell’utopia rivoluzionaria. Dopo il periodo della contestazione studentesca, ha così condotto una vita alquanto ordinaria, vincendo tra l’altro un concorso nella scuola pubblica (docente di ruolo in un liceo linguistico). A dispetto della tranquillità raggiunta, deve aver nondimeno avvertito uno strano senso di inquietudine: ad un certo punto, i valori in cui ha creduto si sono appannati. L’impegno sindacale si è trasformato in una routine; l’attività di insegnamento si è spogliata dei suoi significati più nobili, anche perché, oltre a non condividere la “riforma Moratti”, la donna ha cominciato a manifestare una scarsa sopportazione verso gli studenti: “ho iniziato ad essere insofferente nei loro confronti”. Di qui la richiesta di essere trasferita in una biblioteca statale di Roma. Un impiego ordinato, dietro una scrivania ricolma di scartoffie. In breve un lavoro che, per un ex militante combattiva, equivale ad un ritiro dalla vita pubblica. Ma non ci si deve lasciar ingannare dalle apparenze: questo riflusso nel privato non si addice a Laura. Gli ideali di giustizia sociale non tramontano. Di sicuro, la palingenesi della società non è realizzabile, almeno nel medio periodo. Tuttavia, ci si può sempre impegnare per quella parte di umanità che soffre di stenti. Se non altro perché la situazione del pianeta è diventata insostenibile: “penso che se l’umanità non arriva ad una svolta epocale, si andrà velocemente verso una catastrofe: ci saranno sempre meno ricchi e una moltitudine di poveri a cui manca tutto (il cibo, l’acqua, i medicinali, l’istruzione di base)”. Come si vede, l’intervistata ha ben presente la situazione drammatica in cui versano i paesi poveri. Lei, d’altro canto, in Africa ci è stata; ha visto con i suoi occhi quel che accade nei villaggi SubSahariani: “sono stata nella terra degli Zulù, nel nord-ovest, al 42 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto confine con il Mozambico, dove opera il nostro gruppo. La località si chiama Makeleni: è un’area circoscritta e molto povera, le abitazioni sono ancora capanne di fango e paglia. Ogni 25 adulti ci sono 100-125 bambini malnutriti. Gli adulti sono pochissimi perché o sono morti di Aids o si sono spostati in città, per cercare un lavoro […] c’è inoltre una carenza assoluta d’acqua, perché mancano i pozzi. La popolazione è costretta ad attingere dalle pozze d’acqua che si formano dopo le piogge, con ovvi problemi di igiene […]”. Per Laura, il viaggio in Africa è stato decisivo: “per me è stato importantissimo recarmi sul posto, perché quando fai il volontario lavori per una causa giusta, però non hai ancora un legame reale con le popolazioni locali. Invece lì ti trovi di fronte ai bambini denutriti […] dopo sei consapevole che mille euro possono salvare più di una vita. Il tuo coinvolgimento aumenta”. Ben si capisce allora che la volontaria, una volta tornata in Italia, abbia dedicato maggiori energie alla “causa”. Il suo impegno nell’associazione è diventato poliedrico: “raccolgo fondi, ma in realtà faccio di tutto; preparo le “ceste solidali” per le collette di natale; vado in tipografia a stampare gli opuscoli informativi; contatto imprenditori e commercianti per convincerli a fare delle donazioni; organizzo feste ed altre iniziative di solidarietà per l’Africa; molto spesso sensibilizzo le persone nei supermercati”. In sintesi, la sua è una forma di attivismo a tutto campo; un dinamismo alquanto pratico. Laura e gli volontari sono consapevoli che non c’è tempo da perdere: vogliono costruire 17 asili nido nella terrà degli Zulù, oltre a dotare i villaggi di pozzi per l’acqua. Si tratta di strutture fondamentali: possono salvare la vita di molte persone. Nel campo degli aiuti umanitari, c’è poco spazio per coltivare le utopie: l’entità del dramma africano impone la concretezza (obiettivi chiari, disponibilità di risorse, interventi mirati, risultati tangibili). Tutto ciò richiede uno spirito fattivo; forse è per questo che l’intervistata si congeda con un’ultima riflessione disincantata sull’ideale del cambiamento: “oggi non direi più che un altro mondo è possibile; mi limiterei ad affermare che un altro mondo è necessario”. 43 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto 1.7 Il quotidiano solidale Non è agevole fare un bilancio complessivo sulle storie di Demetrio, Anna, Carla, Aldo e Laura. Dietro ai gesti di questi volontari non convenzionali si possono infatti scorgere molti elementi singolari: tratti peculiari che mal si prestano ad una lettura comparata delle loro vicende personali. Malgrado ciò, tra le pieghe di questi racconti, si può in ogni caso rintracciare un elemento comune: una disposizione autentica e prolungata verso l’altruismo, che si sviluppa fuori dal seminato del volontariato canonico. Ciò dimostra che l’uomo solidale può impegnarsi in modi inconsueti, senza per questo essere meno attivo (o “generoso”) di chi opera nelle forme previste dalla legge. Il problema è che il volontariato informale è per sua natura radicato nell’esperienza del soggetto-agente. Certo, anche i volontari che agiscono alla “luce del sole” (nelle organizzazioni riconosciute) esprimono la loro individualità. Tuttavia, nel loro caso, si può sempre fare appello ad un “marchio” che qualifica l’azione volontaria: gli stili di lavoro, i valori portanti, i ruoli e i compiti, i processi di socializzazione e via discorrendo. Per essere succinti, si delinea qui l’influsso di una sub-cultura organizzativa, che spiega gran parte del comportamento prosociale. Talvolta, gli studiosi sono portati ad enfatizzare questa forma di condizionamento ambientale; come Pearce, quando sottolinea che: “la caratteristica peculiare delle organizzazioni (di volontariato – ndr.) in quanto realtà sociali consiste proprio nell’esplicita o formale strutturazione di azioni e interrelazioni individuali (Pearce, 1993, trad. it., p. 46). Si deve, però, dire che tale assunto rimane comunque valido, soprattutto se si evita di scadere nel determinismo12. Senza dubbio, il “fattore organizzazione” aiuta a fare ordine negli atti disinteressati delle persone. Ma cosa accade quando l’altruismo viene agito al di fuori di una organizzazione strutturata? La risposta non è immediata. Si può soltanto partire dall’ovvia constatazione che i protagonisti di questa indagine recitano a soggetto; la loro solidarietà è di per sé affrancata dal legame organizzativo, non essendo vincolata da un patto associativo formale; nonostante ciò, essi sono collocati all’interno di una rete di rapporti sociali: una trama di relazioni che influenza (in qualche misura) la condotta volontaria. Ma – 44 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto questo è il punto – per far risaltare questa dimensione occorre addentrarsi nella vita quotidiana degli intervistati. In tal modo, si complica di molto l’analisi, perché si amplia a dismisura lo spettro di osservazione. Sul piano teorico, infatti, la quotidianità può essere considerata come: l’insieme delle pratiche, degli ambienti, delle relazioni e degli orizzonti di senso in cui una persona è coinvolta ordinariamente, cioè più spesso e con la sensazione della maggiore familiarità, in una certa fase della sua biografia (Jedlowski 2005, p. 20, corsivo nostro). Questa definizione pone in rilievo almeno tre aspetti significativi: 1) l’esperienza dell’individuo (anche la più banale) è molto articolata, perché si sviluppa attraverso un serie (pressoché infinita) di rimandi tra azioni, relazioni situate e orizzonti di senso (significati attribuiti alla propria esistenza e alla realtà sociale); 2) inoltre, non sfugge che la vita quotidiana è anche il territorio delle minuzie, il proscenio da cui emergono quegli atti ripetitivi (routine) che fissano la posizione dell’individuo nella società; 3) ciò non toglie che, infine, la vita d’ogni giorno sia permeata dal mutamento, perché ogni persona (con l’incedere degli anni) affronta diverse transizioni biografiche . Sotto questo profilo, la quotidianità non è solo il luogo dove si inscena ciò che è familiare (ordinario); è anche l’ambito dove gli individui si muovono con un certa dose inventiva, dovendosi adattare di continuo ai cambiamenti. Insomma, l’esistenza quotidiana di ciascuno è caratterizzata dall’alternanza fra stabilità e mutamento; per di più, tale circolarità investe praticamente ogni dimensione della biografia individuale. E’ per questo che è difficile tracciare i confini entro cui si compie l’esperienza soggettiva. L’analista prova un certo smarrimento, poiché si ritrova a setacciare un flusso inesauribile di eventi complessi e frammentari. Un primo assaggio lo si è avuto con le storie narrate nelle precedenti pagine: non è stato facile riannodarle in una trama dotata di senso. Il che la dice lunga: si voleva ricostruire un numero limitato di vicende emblematiche, solo per abbozzare alcuni ritratti esemplari di attivismo solidale. Ora, invece, si deve esplorare la totalità del panel degli intervistati: trenta profili di altruisti spontanei, trenta volti singolari da far confluire 45 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto in un’ipotetica foto di gruppo. Bisogna insomma utilizzare il grandangolo per ritrarli tutti, senza però tralasciare i dettagli. Un’operazione estremamente laboriosa: si corre sempre il rischio di rovinare la fotografia, deformando l’immagine complessiva o eliminando i particolari. In tal senso, si ripresenta il dilemma di ogni ricerca qualitativa: far risaltare l’unicità dei “tipi umani” osservati sul campo, oppure cercare delle analogie nelle loro condotte esistenziali? Senza entrare nel merito di una querelle che, da decenni ormai, divide gli scienziati sociali13, in questa sede ci si può limitare ad alcune considerazioni di buon senso, utilizzando una metafora. Ogni storia raccolta in questa indagine è un tassello importante per assemblare il mosaico del volontariato informale. Tuttavia, le singole tessere non restituiscono l’immagine d’insieme; soltanto con un paziente lavoro d’incastro si può intravedere la configurazione generale dell’oggetto di studio. In ultima analisi, le testimonianze dei volontari, pur essendo atipiche e originali, non sono dei frammenti chiusi d’esperienza. Anzi, mettendole in relazione, si possono sempre trovare alcune affinità, al di là delle ovvie divergenze. In altre parole, non è infondato avventurarsi in un’analisi comparativa quando, come nel nostro caso, si interpretano le interviste rilasciate da un numero congruo di persone. Si va alla ricerca di similitudini e dissomiglianze, al solo fine di stabilire dei nessi fra le differenti soggettività esaminate. L’obiettivo è quello di portare allo scoperto i segni comuni di un civismo non assimilabile alle formule ortodosse della solidarietà; in tale prospettiva, si tratta di tratteggiare i contorni di un affresco corale: un racconto a più voci sul “quotidiano solidale”. Con quest’ultimo termine si intende, ancora una volta, sottolineare che l’azione volontaria, specie nella sua veste informale, è imbevuta di vita quotidiana. Ma, una volta assunta questa prospettiva, si dilatano inevitabilmente i confini della ricerca: da un comportamento circoscritto (l’attività volontaria) si passa all’esame di un’esistenza a tutto tondo. Va da sé che, per procedere in tale direzione, si debbano necessariamente individuare dei fuochi d’analisi; perciò, prima di immergersi nel vissuto degli intervistati, occorre accennare ai passi salienti che si debbono compiere, se si vuole giungere alla comprensione di un 46 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto fenomeno sfuggente come il volontariato informale. In tale ottica, è opportuno non lasciarsi ammaliare dalle “sirene del pensiero sociologico”: dato il carattere esplorativo di questo libro, non è necessario affidarsi più di tanto al lessico concettuale o alle congetture teoriche. Piuttosto, l’unica via praticabile è quella di rimanere aderenti alla realtà osservata. Ebbene, il modo più appropriato per agganciare l’interpretazione ai “dati di fatto” è quello di ripartire dalla stessa azione volontaria, ponendosi alcuni quesiti dirimenti; occorre chiedersi come e perché si sviluppano le pratiche spontanee d’altruismo. Una volta chiarita tale questione preliminare, sarà possibile confrontarsi con due ulteriori problemi di non poco conto: dove (in quale contesto simbolico e materiale) si esplica l’impegno sociale degli intervistati? Quando (in che modo) l’esperienza solidale entra a far parte della biografia personale? I prossimi capitoli affrontano di petto questi interrogativi, seguendo sempre da vicino le vicissitudini dei volontari “fai-da-te”. Prima di ciò, non si può tuttavia tralasciare una questione cruciale: qual è il linguaggio concettuale più appropriato per descrivere l’esperienza dei protagonisti della presente indagine? Note 1 In generale, i giuristi concordano su questo principio contenuto nella legge 266/91. Ad esempio, Panico e Picciotto sottolineano che “la legge sul volontariato impone che l’attività deve essere svolta in forma organizzata, vale a dire in forma che prevede una pluralità di soggetti fra di essi legati da un vincolo (giuridico) per lo svolgimento di attività con fini di solidarietà (Panico, Picciotto, 1992, p. 51, corsivo nostro)”. 2 Ciò non esclude che i volontari possano agire in altri soggetti collettivi, ad esempio una cooperativa sociale, a patto che la loro attività rispetti i criteri individuati dalla legge: prima di tutto il carattere gratuito (non remunerato) delle loro attività. 3 Anche in ambito sociologico si tende a porre in rilievo che l’azione altruistica si fonda comunque su un vincolo sociale, a cui il soggetto-agente decide di aderire deliberatamente: “l’adesione libera ad una forma di solidarietà collettiva e l’appartenenza ad una rete di relazioni a cui si partecipa per scelta (Melucci, 1991, p. 33)” 4 L’aumento delle organizzazioni di volontariato accreditate negli albi regionali è stato, senza alcun dubbio, significativo: nel 1995 la loro 47 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto numerosità era pari a 8.343 unità, mentre nel 2001 si registravano 18.293 unità, con un incremento pari al 119% (ISTAT, 2004). 5 Per tutelare la privacy degli intervistati sono stati attribuiti loro degli pseudonimi. Nel paragrafo si è utilizzato un nome finzionale anche per il bambino con cui Demetrio passa i suoi week end (infra). 6 Per Sennett è l’erosione del “carattere” (l’identità lavorativa) la principale conseguenza di un sistema di mercato che rende il lavoro malleabile, pronto all’uso e al disuso, a seconda delle esigenze produttive. Così l’impiego non è più un il baluardo attorno al quale organizzare la vita, specie in contesti come quello dell’informatica, dove la velocità del cambiamento rende quanto mai instabili le biografie dei lavoratori. Inoltre, il viavai tra un contratto di lavoro e l’altro ha un costo psicologico evidente: l’indeterminatezza del presente e del futuro. 7 La cooperativa dove l’intervistato ha svolto il servizio civile è di “tipo B” (ai sensi della legge n. 381 del 1991 sulla cooperazione sociale); in genere, questi enti non lucrativi producono beni e servizi al fine di reinserire nel mercato del lavoro soggetti svantaggiati (disabili, ex detenuti, ex tossicodipendenti). L’attività di fabbrica a cui fa riferimento Demetrio consiste nell’assemblaggio dei rubinetti. 8 Cfr., Per i servizi sociali dobbiamo vendere, articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8/01/2005. 9 L’associazione non è stata mai costituita formalmente: Anna e gli altri volontari per ora non pensano neppure a redigere uno statuto da depositare presso un notaio o negli uffici comunali competenti. 10 Il resoconto di questo episodio è frutto dell’osservazione diretta della visita effettuata da Carla. 11 In una risoluzione adottata nel 2000 (United Nations Millennium Declaration, n.55/2), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è impegnata a dimezzare (entro il 2015) la quota di persone che non hanno cibo e acqua a sufficienza per sopravvivere, oltre a disporre di un reddito giornaliero inferiore ad un dollaro. Inoltre, nel vertice del G8 del 2004, i capi di Stato e di Governo dei paesi ricchi hanno fatto propri questi “obiettivi del Millennio”, aggiungendo un’ulteriore sfida: abbattere di due terzi la mortalità infantile. Ma è lo stesso direttore dello Human Development Report Office delle Nazioni Unite, a sottolineare che tali obiettivi si stanno allontanando fatalmente, soprattutto sul fronte della tutela della vita dei bambini: “il programma di sviluppo delle Nazioni Unite ha appena concluso un’analisi valutativa sui progressi compiuti nella riduzione della mortalità infantile nell’Africa Sub-Sahariana. I risultati non sono per i deboli di cuore. Se le attuali tendenze continueranno, la regione non raggiungerà gli obiettivi del Millennio con uno scarto negativo epico. Secondo le nostre stime, ci saranno tre milioni di bambini morti in più nel 2015, rispetto a quanto preventivato. Nel 2015, in Africa Sub-Sahariana si registrerà una mortalità infantile pari a due terzi di quella mondiale (traduzione nostra)”. Cfr. Kevin Watkins, Three Millions Reasons to Act for Africa, articolo apparso su “International Herald Tribune”, 8 luglio 2005. 48 1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto 12 Questa forma di determinismo non aiuta a comprendere la realtà; infatti, quasi mai gli individui vengono completamente eterodiretti dalle organizzazioni a cui sono affiliati; questo rilievo appare assai pertinente per gli enti di volontariato: sebbene questi enti tendano ad assumere una veste formale, attraverso la definizione di regole e ruoli operativi, restano in ogni caso degli ambiti informali di socializzazione e partecipazione. In essi, quindi, i volontari possono sempre operare con un certo margine di libertà. 13 Si allude al dibattito tra i fautori dell’unicità e i sostenitori della regolarità negli approcci qualitativi di ricerca (Diana, Montesperelli, 2005). 49 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca 2 La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca 2.1 Breve excursus teorico Gli spunti raccolti nel precedente capitolo spingono ad analizzare le condotte dei “volontari fai-da-te”, senza avanzare alcuna ipotesi di lavoro preliminare. Del resto, si è ripetuto più volte che la presente è un’indagine esplorativa: si tratta, in sostanza, di immergersi nel vissuto degli intervistati, cercando di decifrare le loro esperienze originali d’altruismo. In tal senso, sarebbe alquanto sconveniente lasciarsi guidare da interpretazioni a “scatola chiusa”. L’unica via percorribile è, quindi, quella di considerare il volontariato informale come una sfera d’azione legata a doppio filo con la quotidianità del soggetto-agente. Malgrado ciò, è in ogni caso opportuno fissare alcune coordinate teoriche, prima di passare in rassegna i risultati della ricerca empirica; non si intende, evidentemente, imbrigliare più di tanto l’oggetto di studio, proponendo griglie di lettura preconfezionate o modelli rigidi di spiegazione; piuttosto, è necessario elaborare una mappa concettuale accurata, per afferrare tutte le implicazioni di un fenomeno fluido come quello esaminato. A tal fine, può essere utile servirsi del concetto di pratica: una nozione che è stata fin qui utilizzata con una certa disinvoltura. Ora, invece, è giunto il momento di definire con maggiore precisione questa categoria analitica, tenendo conto (per quanto parzialmente) della sua complessa gestazione nella teoria sociale. Nel senso comune, la pratica rimanda all’attività ricorrente e concreta che ogni persona conduce nella vita ordinaria: preparare la cena, svolgere le mansioni tipiche di un lavoro, frequentare un club sportivo o dedicarsi al modellismo, ecc. A questo livello, pertanto, il termine non pone particolari difficoltà di comprensione; per certi versi, basta gettare uno sguardo sugli atti che l’individuo compie periodicamente nella sua esistenza. Ma è risaputo che gli studiosi non si accontentano quasi mai 50 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca dell’ovvio, specie quando si lasciano trasportare dalla loro “immaginazione sociologica”; non di rado, lo sforzo intellettuale da loro profuso contribuisce ad affinare il linguaggio con cui si descrive ed analizza la realtà. A dispetto di ciò, si deve purtroppo constatare che la pratica non ha ancora acquisito sufficiente chiarezza nel lessico delle scienze sociali. A ben vedere, il problema nasce dal fatto che diversi autori si sono avvalsi di questo costrutto nei loro studi, senza tuttavia elaborare una teoria sistematica sull’argomento (Reckwitz, 2002). Il caso più conosciuto è quello di Pierre Bourdieu che, dopo un inizio promettente (Bourdieu, 1972, 1979), ha lentamente abbandonato questa nozione, affidandosi ad altre chiavi interpretative per dar conto dei conflitti materiali e simbolici nelle società complesse: l’habitus, il campo, il capitale culturale e sociale, ecc. (Warde, 2004). Ma anche intellettuali del calibro di Anthony Giddens, Michel Foucault, Charles Taylor e Bruno Latour non hanno offerto una definizione organica, sebbene abbiano più volte accennato alla pratica nelle loro riflessioni sulla modernità. Peraltro, a questa opacità teorica fa da contraltare la diffusione del termine in molteplici ambiti disciplinari (studi culturali, etnologia, psicologia sociale, antropologia, sociologia, ecc.); non sorprende, dunque, che il suo raggio d’applicazione nelle ricerche empiriche sia davvero esteso: la sofisticazione del gusto nell’arte postmoderna; le dinamiche di lavoro nelle multinazionali o nelle comunità di esperti; l’omologazione della cultura popolare; i rituali mistici nelle tribù primitive; i cicli di protesta collettiva che, a tratti, scuotono le “asfittiche” democrazie post-industriali; ecc. Secondo molti ricercatori accademici, questi ed altri processi sociali possono essere decodificati tramite le pratiche, nonostante si sia in presenza di contesti d’azione disparatamente diversi. L’impressione è di trovarsi di fronte ad un vocabolo di cui si fa un uso smodato. Orbene, si deve necessariamente procedere con cautela laddove si decida di adoperare questo concetto come strumento di analisi. Innanzi tutto, è opportuno sottolineare da subito che il suo uso generico è di scarsa utilità: in definitiva, la pratica designa tutte le attività umane che prescindono dal pensiero speculativo. Ben si capisce che questa accezione risulti praticamente inservibile per esaminare fenomeni sociali 51 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca circoscritti. Sicché, conviene adottare il plurale (pratiche), oppure specificare l’ambito che si intende studiare: ad esempio, la pratica di consumo o la pratica artistica. Al di là di tali sfumature terminologiche, le pratiche mostrano una indubbia validità analitica, visto che indicano: un tipo di comportamento ritualizzato che consiste di diversi elementi interconnessi: attività fisiche, attività mentali, gli oggetti e il loro uso, una base di conoscenza nella forma della comprensione, del know-how, oltre agli stati emotivi e alle motivazioni (Reckwitz, 2002, p. 249). In sintesi, si parte da un’azione situata nel tempo e nello spazio e la si osserva nella sua espressione più tangibile: l’esecuzione di una serie di routine (i gesti ripetuti della quotidianità); ma, ben presto, ci si accorge che tali atti concreti sono portatori di cognizioni, motivazioni, rappresentazioni sociali e stati emotivi; in breve, dietro al dato immanente del comportamento reiterato, si annida il significato (tacito ed esplicito) che ogni persona attribuisce al suo modo di agire nel mondo circostante. In fin dei conti, è proprio la valenza simbolica ed emotiva di tali condotte a renderle, almeno in parte, ritualizzate; sotto questo profilo, la consuetudine non presuppone soltanto che l’esperienza si standardizzi, ma anche che quest’ultima diventi familiare: sia riconosciuta in quanto tale dall’individuo. Il che implica comunque la produzione di senso, oltre che il coinvolgimento emotivo (Jedlowski, 2003, pp. 178-179). Inoltre, non sfugge un altro aspetto rilevante: le pratiche sono per loro natura collocate in una rete di rapporti sociali; esse si sviluppano quasi sempre in una cornice di relazioni interpersonali e di vincoli sistemici; perciò, rispecchiano i condizionamenti ambientali a cui ciascuno è sottoposto, facendo parte di una determinata società. Il punto è che le prassi sociali, pur essendo assoggettate a queste influenze esterne, lasciano ampi margini di libertà all’attore. E questo per una ragione intuibile: anche nelle situazioni più formali, non tutto è questione di ruoli e convenzioni sociali. L’individuo può sempre sovvertire gli schemi costituiti, esprimendo la sua soggettività, soprattutto quando affronta situazioni incerte o critiche, che possono compromettere le routine consolidate (Reckwitz, 2002, p. 255). 52 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca Dunque, la prospettiva delle pratiche sociali consente di evitare il determinismo delle teorie normative dell’azione sociale (l’attore introietta norme e valori, muovendosi quasi come una “pedina” nello scacchiere preordinato della società); senza per questo scadere nell’individualismo radicale prospettato dall’utilitarismo o dal modello della scelta razionale (rational choice): l’uomo completamente affrancato da obblighi sociali, ossia un “sovrano assoluto” che risponde esclusivamente all’imperativo dei suoi interessi personali. Tra questi due estremi, si apre uno spazio dove scelta e costrizione coesistono, offrendo una visione più realistica dei processi collettivi e della stessa esperienza individuale. La pratica è, pertanto, uno strumento concettuale duttile e prolifico. Una sorta di bussola che può contribuire a fissare alcuni punti fermi nel caotico fluire dell’altruismo spontaneo: l’immediatezza del comportamento; la versatilità delle sue componenti simboliche; la collocazione ambivalente nella trama della società. L’osservatore deve aguzzare la vista se vuole ricostruire queste dinamiche complesse; per questo non può far altro che sviscerare le strategie concrete con cui il volontario ordisce la sua trama nel “quotidiano solidale”. 2.2 Contestualizzare il rituale altruistico Finora si è compreso che l’angolo visuale delle pratiche può dimostrarsi particolarmente fecondo ai fini della presente ricerca. Nondimeno, ciò non è ancora sufficiente: il passo successivo è quello di calare il concetto nella realtà specifica dell’altruismo spontaneo. In breve: cosa vuol dire considerare il volontariato informale come una prassi? In modo alquanto sommario, si potrebbe rispondere che anche i gesti di generosità entrano a far parte della vita quotidiana dell’individuo, al punto da diventare delle routine: miniature di solidarietà ripetute nel tempo o, se si preferisce, “automatismi del cuore”. Insomma, la disposizione altruistica si trasformerebbe quasi in un gesto incondizionato di apertura verso l’altro: una sorta di chimica dei buoni sentimenti, dalla quale non ci si può sottrarre, perché si segue un copione già scritto (essere benevolenti verso il prossimo) e, perciò, si agisce di conseguenza. 53 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca Come si vede, tale ragionamento è assai riduttivo: in primo luogo perché il comportamento pro-sociale si svuota di senso, essendo assimilato ad una abitudine fra le tante (come il tè pomeridiano). Beninteso: anche i rituali riempiono di significato l’esistenza, ben al di là della loro apparente banalità. Il problema però non è quello di rivalutare la loro importanza per chi li compie, o per chi li analizza. Piuttosto, ci si deve soffermare su un altro aspetto: ogni azione, anche la più inaspettata, può sembrare un dettaglio trascurabile se viene estrapolata dall’ambito in cui si sviluppa. In sintesi, la pratica rischia di apparire un frammento sterile dell’esperienza, se non viene proiettata in un contesto di riferimento. Solo con questo ampliamento di orizzonte, si possono infatti cogliere le sue componenti emotive, cognitive e valoriali, oltre al suo dinamismo interno. Nel caso del volontariato informale, questa cornice simbolica e materiale è rappresentata dal problema che mobilita (attiva) l’uomo solidale. Un esempio, non troppo distante dalla realtà1, può chiarire quest’ultima affermazione. Una persona si sveglia ogni domenica di buon ora; si veste in fretta ed esce di casa. Senza dubbio, ha qualcosa di impellente da fare. Sale in macchina e si dirige di carriera fuori dal centro abitato, dove c’è un’area naturalistica. Lascia l’automobile in un luogo appartato e si incammina dentro la boscaglia. Mentre avanza, estrae da uno zaino una macchina fotografica, assicurandosi che sia tutto in ordine: un rullino intonso (per scattare almeno una trentina di istantanee), l’obiettivo già messo a fuoco e quant’altro. Ad un certo punto, si ferma dietro ad un grande albero secolare: ha sentito dei rumori che hanno attratto la sua attenzione. In effetti, non sembra essersi sbagliato: dopo poco, vede sfilare una coppia di caprioli che se la danno a gambe. Il fotografo amatoriale non perde tempo: nel breve volgere di alcuni secondi scatta una decina di foto, ritraendo la corsa affannosa degli animali; ma l’evento clou deve ancora arrivare. Passa ancora qualche attimo e scorge tre cacciatori con la doppietta già carica. Si trasforma così in un detective e, dopo aver inseguito a lungo i predatori, non si lascia sfuggire il momento fatidico: immortala i bracconieri mentre prendono la mira contro i malcapitati caprioli… 54 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca La scena appena descritta è emblematica, soprattutto se si considera che non si tratta di un avvenimento sporadico. Come si è detto, il reporter dilettante compie questo rituale ogni domenica. E’ forse una guardia forestale, che svolge con puntiglio la sua funzione di servizio a presidio dei parchi? Oppure è un delatore delle domenica, che vuole cogliere in fallo gli incauti cacciatori, magari perché li detesta per ragioni che nulla hanno a che vedere con la difesa della fauna? O, ancora, è un animalista solitario, che semplicemente vorrebbe abolire la caccia dalla faccia della terra, poiché nutre un affetto viscerale nei confronti di tutte le specie viventi? Come si vede, si potrebbero addurre diversi motivi per spiegare l’incursione clandestina del fotografo: l’etica di un funzionario pubblico; i conflitti personali all’interno di una piccola comunità locale; una sensibilità spiccata nei confronti degli animali. Peraltro, affidandosi alla sola osservazione dell’episodio, risulta alquanto arduo formulare delle considerazioni ulteriori. Si può esclusivamente prendere atto dei fatti: una persona vaga nei boschi per ritrarre i predatori che fanno strage dei caprioli. Di più non è dato sapere, a meno che non si raccolgano altri indizi sulla situazione appena descritta. In particolare, si deve contestualizzare il comportamento dell’attore. Soltanto con tale allargamento di prospettiva si può sperare di afferrare l’arcano: cosa muove il nostro stravagante fotografo, mentre si aggira in modo assai temerario nella boscaglia? Il mistero può essere svelato con poche informazioni aggiuntive: il protagonista del raid domenicale fa parte di un gruppo spontaneo di giovani ambientalisti, che hanno deciso di mobilitarsi per difendere le specie protette dell’area naturalistica. Visto che la guardia forestale non ha un organico sufficiente per sorvegliare il parco, questi attivisti hanno scelto di surrogare l’intervento delle forze dell’ordine: così hanno assunto il ruolo di sentinelle dell’oasi verde, raccogliendo una serie di prove che inchiodino i bracconieri. Da questo punto di vista, le fotografie sono molto efficaci: puntano l’indice su un una consuetudine illecita, quella di uccidere gli sparuti esemplari del capriolo, per di più all’interno di una riserva naturale. La questione di fondo è che, malgrado i divieti posti dal Ministero dell’Ambiente, la caccia fa parte degli usi locali. E questo aggrava l’equilibrio dell’ecosistema: nel luogo dove si è svolta la scena (non importa 55 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca quale in questo momento) stanno scomparendo non solo i caprioli, ma anche diverse specie di uccelli. I cacciatori continuano a uccidere gli animali, nonostante la possibilità di vedersi comminare delle multe salate o la minaccia di ritiro della licenza. Del resto, l’arte venatoria è un costume tradizionale nell’area dove operano i giovani ambientalisti: procacciarsi la selvaggina è un modus operandi tipico della cultura contadina; per questo è arduo spezzare la catena degli eccidi dei caprioli, anche in presenza di proibizioni sancite dalla legge. Il gruppo di volontari sa bene che deve scontrarsi con l’acquiescenza della popolazione verso un’usanza che perdura da secoli. Ma questo non li ferma; anzi, moltiplica i loro sforzi: la sorveglianza nel parco rappresenta solo una parte del loro impegno, sebbene sia un atto alquanto coraggioso, poiché non si può mai escludere di “rimanere impallinati” per sbaglio, durante l’attività di avvistamento e smascheramento dei cacciatori. Nondimeno, accanto alla funzione di vigilanza, i giovani vogliono anche sensibilizzare la comunità in cui vivono. A ben vedere, il loro scopo è quello di denunciare il problema, facendo capire ai loro concittadini che la caccia mette a repentaglio l’equilibrio naturalistico, con effetti negativi sull’ecosistema locale, compresa la coltivazione agricola. Per questo, oltre ad inviare le prove alle autorità competenti, il nostro fotografo (e gli altri membri del gruppo) pubblicano la documentazione su un giornalino, che provvedono a distribuire nei principali luoghi di aggregazione del paese. Le foto sono accompagnate da articoli che segnalano i guasti prodotti dall’attività venatoria. Quest’opera di divulgazione si propone di coinvolgere la cittadinanza, contribuendo così a rompere lo schema rituale della cacciagione: in effetti, l’unico modo per impedire “l’ecocidio” della fauna protetta è quello di demolire la credenza popolare secondo cui la caccia è innocua giacché, dalla notte dei tempi, gli esseri umani hanno sempre rappresentato l’ultimo anello della catena alimentare. Peccato che l’habitat non sia più quello della società pre-industriale e che, oggi come oggi, gli animali vadano tutelati, soprattutto quando il loro numero declina fino a pregiudicare la sopravvivenza della loro specie. In ultima analisi, le ardimentose sentinelle della domenica si battono per instillare una coscienza civica nella 56 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca comunità contadina, facendo capire che lo sviluppo umano deve coniugarsi con la sostenibilità ambientale. Quale lezione si può trarre dall’episodio appena illustrato? Innanzi tutto che, di per sé, la sequenza dell’azione solidale non rivela molto sul comportamento individuale, soprattutto se non si posseggono dati che aiutino a collocarla nel suo milieu sociale. In assenza di dettagli sul contesto, la scena della sentinella civica del parco potrebbe essere scambiata per un atto malevolo di delazione nei confronti dei propri conterranei. Inoltre, non sfugge un altro fattore significativo: in genere, il volontariato informale nasce da una presa di coscienza nei confronti di un problema stringente, che può intaccare il benessere della comunità d’appartenenza (o dell’umanità in senso lato). 2.3 Una tipologia Dunque, l’azione solidale non può essere svincolata dal suo milieu sociale. I frammenti di solidarietà, una volta isolati dal loro contesto, rischiano di apparire dei riti privi di senso. Bisogna, allora, riprendere le riflessioni svolte nelle precedenti pagine, proponendo una visione più sistematica della pratica altruistica. Come si è detto, il modo più pertinente per situare l’azione altruistica è quello di concepirla come una forma di coinvolgimento nei confronti di un problema specifico: chiunque si cimenti in un’attività di volontariato, presto o tardi, si lascia influenzare da una questione pressante. In tal senso, è quanto mai opportuno riferirsi qui al concetto di prossimità: una contiguità fisica e/o mentale verso uno degli innumerevoli dilemmi che gravano sull’umanità (la fame nel mondo, la pedofilia, le malattie croniche, la discriminazione delle minoranze etniche, l’isolamento degli anziani, la crisi ambientale, la discriminazione nei luoghi di lavoro, ecc.)2. Sotto questo profilo, non si può negare che molto dipende dalla posizione che si ha, in principio, nei confronti del problema: un conto è prendere atto che, a pochi metri dal sobborgo in cui si vive, vi è un campo Rom, dove la vessazione e lo sfruttamento a danno dei minori è quasi uno “schiaffo” che 57 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca si imprime sulla coscienza (almeno per chi non è disposto a far finta di nulla); altro è acquisire consapevolezza di emergenze quali il dramma umanitario del Darfur (Sudan) o la tutela dei diritti delle donne nelle società a maggioranza islamica. Nel primo caso, si è in presenza di un fenomeno critico che interpella direttamente il volontario, poiché la fonte del disagio è immediatamente percepibile, essendo incorporata nella sua vita quotidiana; nel secondo, invece, vi è un distacco iniziale dal problema; quindi, la costruzione della prossimità è più complicata: prima di operare in un senso o nell’altro, un “oggetto sconosciuto” (un’emergenza distante) deve essere ancorato nell’immaginario individuale, attraverso un processo riflessivo che s’innesca grazie all’esperienza, all’apprendimento e al coinvolgimento emotivo. Questa distinzione preliminare non esaurisce le dimensioni contestuali della pratica altruistica. L’azione solidale non viene condizionata soltanto dal rapporto di relativa vicinanza/distanza rispetto al problema con cui si confronta il volontario. Anche la modalità di attivazione gioca un ruolo preponderante: mobilitarsi a titolo individuale o in gruppo non è la stessa cosa. Di solito, quando si agisce singolarmente, si è ben lontani dalla condivisione della propria esperienza con persone che svolgono una simile attività; mentre, laddove subentra il gruppo, si delinea comunque un interscambio in termini di obiettivi concreti e mete ideali da raggiungere. Certo, trattandosi di volontariato informale, il legame collettivo non sfocia in un patto associativo strutturato. In un piccolo gruppo i ruoli e le funzioni non sono quasi mai definiti compiutamente; eppure, vi è sempre una qualche forma di reciprocità fra i membri che lo costituiscono. Va da sé che la relazione che si instaura in una cerchia spontanea di volontari influisca sull’esercizio della solidarietà: per esempio, è innegabile che il fatto di unire le proprie forze con quelle di altri aumenti la visibilità dell’esperienza volontaria, oltre a conferirle una maggiore carica di mutamento rispetto alla realtà sociale circostante. Poste queste premesse, lo spazio della pratica altruistica nasce dall’intersezione fra due dimensioni fondamentali: il rapporto con il problema e la modalità di attivazione. Incrociando questi due assi si ottengono quattro forme di pratiche altruistiche (fig. 4). Nel primo quadrante a sinistra, il 58 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca contesto dell’azione volontaria è caratterizzato da una questione sociale incapsulata nella vita quotidiana del soggetto-agente; allo stesso tempo, però, quest’ultimo si attiva individualmente. L’esito di questa combinazione di fattori è, in genere, una strategia di riparazione nei riguardi dei bisogni sociali che orientano la prassi solidale: in sostanza, il volontario tende a rispondere ad un’emergenza radicata nel suo ambiente più prossimo, cercando di porvi in qualche modo rimedio; in sostanza, egli si lascia coinvolgere dai sintomi più tangibili del disagio, scegliendo ad un certo punto di attingere dalle sue risorse personali: lo scopo è quello di limitare gli effetti negativi di situazioni penalizzanti per singoli individui o per la comunità locale. In queste circostanze, l’attivazione autonoma non consente (salvo in casi eccezionali) di incidere sulle cause del problema. Per questo non è ingiustificato parlare di pratica di riparazione, volendo con ciò evidenziare che si tratta di un modo di contenere le conseguenze critiche di un determinato fenomeno negativo. Fig. 4 – Lo spazio della pratica altruistica Problema incorporato nella vita quotidiana I II Riparazione Contrasto Attivazione individuale Attivazione di gruppo Iniziazione Interconnessione III IV Problema disancorato dalla vita quotidiana 59 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca Quando interviene il gruppo informale (secondo quadrante a destra), si prospetta un’altra tipologia d’azione volontaria. Il problema rimane ancorato nella realtà limitrofa, ma attorno ad esso convergono diverse persone disposte ad agire sui fattori ambientali che lo hanno provocato. Questa spinta congiunta aumenta, senza dubbio, la “massa critica” della pratica altruistica, al punto che è lecito pensare ad una sorta di azione di contrasto nei confronti delle cause del disagio: un intervento finalizzato a combattere con maggiore decisione il “malessere sociale”, andando a toccare (prevenire, anticipare) i suoi motivi scatenanti. E’ perfino scontato sottolineare che il tentativo di mutare l’esistente si scontra sempre con le forze che ostacolano il cambiamento3. Questo avviene anche nell’esperienze più formalizzate del volontariato, laddove si può per giunta fare affidamento su un’ampia gamma di strumenti di pressione (in primis, una base associativa pronta a scendere in campo per influenzare le decisioni politiche4). Per loro natura, i gruppi informali hanno una capacità d’impatto minore sulla realtà socio-politica; quindi, la loro “volontà di trasformazione” è comunque condizionata pesantemente dai vincoli esterni; malgrado ciò, l’obiettivo di questi sodalizi spontanei tra volontari è quello di modificare una condizione preesistente, intaccando la radice del problema per cui ci si mobilita. In tal senso, l’attivazione di gruppo può essere assimilata ad una pratica di contrasto verso una realtà problematica che tocca da vicino i suoi protagonisti. Nel terzo quadrante dello schema si ritorna al coinvolgimento a titolo individuale; tuttavia, in questo caso, il problema è lontano dalla vita del volontario: la carenza di acqua nell’Africa Sub-Sahariana; l’espropriazione delle terre a danno dei contadini chapaneki; la criminalità minorile nelle favelas brasiliane; ecc. Si tratta di vere e proprie emergenze; ma, perlomeno in principio, non fanno parte dell’orizzonte esistenziale di chi intende occuparsene. Ai fini della presente analisi, non è importante stabilire quando (e perché) si accende l’interesse per questi temi controversi, che incombono sull’umanità deprivata; è più rilevante, invece, capire come si arriva all’impegno in prima persona, per rispondere ad una sollecitazione che è lontana dalla propria biografia. Per colmare la distanza iniziale, c’è indubbiamente bisogno di una forma di immersione in un 60 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca contesto problematico avulso dall’esperienza individuale: una iniziazione soggettiva, una sorta di viaggio per scoprire un “nuovo mondo”. Senza questo itinerario iniziatico, l’oggetto del disagio non si sedimenterebbe nella coscienza del volontario. Quest’ultimo si avventura così in una delle innumerevoli periferie del pianeta. L’incontro con una realtà di penuria estrema non è indolore; di fronte ai volti trasfigurati dalla povertà, la reazione spontanea può essere il rifiuto, la fuga, la rimozione; ma anche un coinvolgimento emotivo e cognitivo che può spingere all’azione, all’impegno fattivo in soccorso delle vittime designate della catastrofe umanitaria. In genere, l’iniziazione vede in prima fila i giovani desiderosi di dare un senso alle loro incursioni all’estero: l’occhio indiscreto del turista si fonde così con lo sguardo indulgente di un inedito missionario, disposto ad aiutare “qui ed ora”, in un campo di volontariato internazionale, dove c’è spazio per conoscere e per essere solidali. Molto spesso il viaggio è limitato nel tempo: un modo alternativo di fare le vacanze estive. Poi si torna a casa: lo studio, il divertimento, gli amici. I villaggi africani o l’entroterra del Kossovo si allontanano nuovamente dalla vita quotidiana. Eppure, una traccia dell’esperienza sociale vissuta nelle zone di crisi del mondo rimane; tant’è che, non di rado, l’avventura viene rinnovata di anno in anno, trasformandosi in una esplorazione prolungata nelle enclave della precarietà. Il passaggio dall’iniziazione all’interconnessione (quarto quadrante a destra) richiede anch’esso l’intervento del gruppo5: nella società globale, per dare continuità e rendere più incisivo l’impegno nelle aree remote (desolate) del pianeta, si deve per forza di cose allacciare un legame di cooperazione con persone animate da simili intenti. In questa circostanza, l’obiettivo non è quello di saggiare il terreno, cercando delle assonanze emotive con contesti problematici. Si tratta piuttosto di influire su una realtà slegata dalla propria, alimentando delle iniziative di solidarietà a distanza. Come si è visto (cfr. la storia di Laura, capitolo 1), ci vuole un minimo di pianificazione delle attività per dar vita ad un progetto di cooperazione allo sviluppo nel terzo mondo, o per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto ad un tema ignorato come il diniego dei diritti umani in Cina, oppure la sopraffazione della donna in certi regimi islamici. Si può operare in loco o agire nel proprio paese: la sostanza non 61 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca cambia. Non è agevole raccordare due mondi separati, tentando per di più di smuovere le acque in patria, dove di solito è scarso l’interesse per ciò che avviene dall’altra parte dell’emisfero abitato. Per questo la collaborazione di gruppo è una risorsa vitale: è quasi una fatica di Sisifo trasferire (in senso metaforico, ovviamente) un problema da un capo all’altro del pianeta. L’unica via è confidare nel sostegno vicendevole che si può instaurare tra un drappello di donne e uomini di “buona” volontà. La tipologia appena proposta ha, naturalmente, una valenza analitica: in definitiva, si è proceduto soltanto ad identificare quattro forme di impegno solidale che, nella vita non tanto ordinaria dei volontari, si possono avvicendare, sovrapporre o (addirittura) intrecciare, dando luogo a ibridazioni originali fra comportamenti pro-sociali. Eppure, la riparazione, il contrasto, l’iniziazione e l’interconnessione presentano tratti distintivi, tali da circoscrivere esperienze specifiche di volontariato informale. E’ proprio questa la sfida che si intende affrontare nei prossimi capitoli: esaminare le biografie degli intervistati, riconducendole a quattro pratiche altruistiche per ora abbozzate solo sul piano teorico. L’impresa è ardua: si tratta di valutare se queste etichette concettuali siano utili per dar senso alla realtà. Cosa non facile perché, ragionando in questi termini, il ricercatore è costretto ad osare, avanzando un’interpretazione (una chiave di lettura fra le tante possibili) del suo oggetto di studio; così facendo egli è costretto a muoversi su un terreno impervio poiché, alla resa dei conti (ossia nel confronto con le evidenze empiriche), ogni ipotesi di lavoro è sempre esposta alla possibilità di risultare fallace, a maggior ragione quando si conduce un’indagine a carattere esplorativo. Malgrado ciò, presto o tardi, non si può evitare questo banco di prova, almeno se non si vuole scadere nella descrizione acritica dell’esistente. Note 1 L’esempio è tratto da un’inchiesta televisiva sulle nuove forme di militanza giovanile. L’autore desidera ringraziare l’ideatore della trasmissione, Alberto Grossi, per averglielo raccontato. 62 2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca 2 Il concetto di prossimità è stato utilizzato da Jean-Louis Laville nei suoi studi sull’economia sociale. In sostanza, l’autore francese ritiene che i servizi alla persona siano per loro natura relazionali, essendo fondati sulla vicinanza (fisica e psicologica) che si instaura tra l’operatore e l’utente del servizio socio-assistenziale (Laville, 1998). 3 Di qui l’uso del termine contrasto, che indica una azione di contrapposizione (una tensione attiva e permanente) nei confronti dei fattori che determinano il problema sociale. La principale differenza rispetto alla pratica della riparazione è che quest’ultima si limita ad adattarsi al contesto, cercando di tamponare un guasto sociale; mentre il contrasto tradisce l’ambizione di rimuovere le concause del disagio, avvalendosi di una duplice strategia d’intervento: la reazione (anche conflittuale) di gruppo e la prevenzione. 4 Per non parlare poi dell’influenza esercitata da molte OdV strutturate, grazie alla considerazione sociale di cui godono nella nostra opinione pubblica, oltre che nelle sedi ufficiali della politica. 5 L’iniziazione e l’interconnessione hanno in comune l’ancoraggio di un problema che, all’inizio, è scorporato dal vissuto del volontario. Nondimeno, al di là di questa analogia, è intuibile la differenza tra queste due pratiche altruistiche: nell’iniziazione prevalgono elementi quali la possibilità di fare esperienza, la scoperta di una realtà inedita e l’apprendimento sul campo; insomma una forma di impegno ancora allo stadio germinale; mentre nella interconnessione il coinvolgimento del volontario si cristallizza in un progetto più definito d’intervento sociale: un programma operativo che di solito tende a porre in relazione il Nord e il Sud del Mondo, creando una piccola comunità d’interesse (il nucleo ristretto dei volontari attivi, i simpatizzanti che sostengono la causa finanziandola con donazioni spontanee). Il tutto per tentare di risolvere una questione sociale pressante (ad esempio la mortalità infantile in un villaggio africano), non senza sperimentare soluzioni innovative. Da questo punto di vista, non è escluso che, in alcune circostanze, l’iniziazione possa essere propedeutica alla interconnessione; ma è anche verosimile che le due tipologie di volontariato informale rimangano distinte. 63 3. La riparazione 3 La riparazione 3.1 Il presupposto: porre rimedio ad un problema Una persona si attiva a titolo individuale (e in modo del tutto disinteressato) per tentare di risolvere un problema che fa parte della sua vita quotidiana. Lo scopo è quello di mitigare gli effetti negativi di questa “criticità” che, sovente, può assumere i contorni di una vera e propria emergenza sociale. Tale descrizione sommaria identifica, senza dubbio, il contesto (simbolico e materiale) entro il quale si sviluppa la pratica della riparazione. Si tratta, ora, di esaminare meglio le dinamiche interne di questa prima forma di altruismo spontaneo. In particolare, è necessario rispondere ad alcune domande cruciali: come nasce questa modalità di impegno sociale? Quali significati la sorreggono? Attraverso quali prassi di azione si estrinseca? Il modo migliore per affrontare tali questioni è quello di affidarsi al racconto degli intervistati. In fin dei conti, è sufficiente ascoltarli mentre ricostruiscono le loro vicende personali, replicando ad un quesito iniziale del ricercatore: “mi vuole parlare della sua attività da volontario […] quando ha cominciato?” E’ proprio questo il punto: in quale frangente (e per quale motivo) un individuo decide di uscire dal suo “guscio privato”, per occuparsi di bisogni che emergono nella realtà sociale circostante? E’ quasi scontato sottolineare che la molla che fa scattare il coinvolgimento personale non sia univoca. Angelo, ad esempio, ha voluto rimediare all’assenza di comunicazione tra istituzioni e cittadini: “ho iniziato ad impegnarmi qui, in una piccola frazione del Comune di Forlì, per dare un mano, per costruire legami sul territorio […] sono difficili le relazioni fra i cittadini e l’amministrazione locale […] i servizi sociali hanno un certo stile che non risponde ai bisogni delle persone […] mi sono messo semplicemente al servizio dei più bisognosi; aiuto alcune famiglie di italiani e extracomunitari a sbrigare le pratiche di assistenza, cerco di smussare gli spigoli della burocrazia, chiedo incontri con l’assessore al welfare, con gli assistenti sociali, con 64 3. La riparazione gli operatori sanitari […] sottopongo loro i problemi più pressanti della comunità in cui vivo”. Dunque, questo volontario sembra vigilare sulla sua comunità, facendosi portavoce di istanze sociali che, altrimenti, rimarrebbero inevase; il tutto per migliorare le condizioni di vita dei propri conterranei o di coloro che sono arrivati più di recente, sull’onda delle migrazioni internazionali che hanno investito il nostro paese nell’ultimo ventennio. Dietro agli intenti dell’intervistato, non è difficile vedere all’opera quella cultura solidale con cui si è soliti caratterizzare le “regioni rosse”; un civismo che sconfessa la presunta indolenza degli italiani di fronte ai destini della collettività territoriale d’appartenenza. Ma non è solo questione di capitale sociale o di tradizioni civiche virtuose, attribuite in genere alla “Terza Italia”; anche nelle martoriate enclave del Meridione, si osservano forme di coinvolgimento per certi versi simili. Con una laurea in medicina e una specializzazione in ginecologia, Assunta aveva già raggiunto una posizione professionale invidiabile: l’impiego sicuro in un poliambulatorio di Napoli e uno studio privato avviato, dove riceveva pazienti facoltosi. Malgrado ciò, lei non si è mai sentita a casa nei “quartieri alti” di questa metropoli meridionale; piuttosto, da sempre ha vissuto nell’hinterland partenopeo, in quella cintura suburbana conosciuta perlopiù per il degrado e la penetrazione della criminalità. Casoria è un nome che, di per sé, evoca le lancinanti faide della camorra, con la scia di sangue e di precarietà sociale che ne consegue. Otto anni fa, l’intervistata ha deciso di mandare a monte il suo tranquillo e radioso futuro da medico della “Napoli bene”. Così ha chiesto il trasferimento nel consultorio familiare di Casoria, dove non si limita a fare la ginecologa; anzi, ogni giorno fa gli “straordinari”; difatti, solo di rado si occupa di ordinari casi clinici legati alla sessualità femminile; piuttosto viene interpellata per far fronte ad una serie di esigenze dettate dalla povertà e dal malessere sociale: “sono diventata un punto di riferimento per qualsiasi cosa, anche al di fuori della ginecologia, per problemi di ordine pratico, familiare e anche di natura psicologica”. Perché questa donna ha lasciato i “fasti napoletani”, proiettandosi in uno scenario di emarginazione sociale? Di fatto, si è declassata nel ruolo di operatrice ausiliaria dei servizi di consulenza familiare, abbandonando una 65 3. La riparazione professione remunerativa e prestigiosa; oltretutto, per la sua attività di assistente sociale “dilettante” non percepisce alcun reddito: lavora ben oltre l’orario e le competenze (mediche) previste dal suo impiego. Eppure, si tratta di un impegno assai oneroso, visto che le richieste di aiuto sono incalzanti, costringendola ad un tour de force: “i bisogni degli utenti del consultorio sono pressoché inesauribili; praticamente, sono a disposizione in tutte le ore del giorno e della notte […]”. La sua è una scelta dissennata (o forse masochistica)? Col senno della razionalità si sarebbe portati a rispondere in modo affermativo; tuttavia, è risaputo che il comportamento individuale non è soltanto frutto del calcolo costi-benefici. Nel caso di Assunta, una parte preponderante l’ha giocata il richiamo di un luogo che, sebbene sia fonte di inquietudine, rimane per lei un saldo punto di riferimento: “sento di appartenere a Casoria […] io lavoro a cinquecento metri da casa, nel consultorio […]conosco la realtà, la mattina faccio lo stesso percorso delle massaie, accompagno i bambini a scuola, diciamo che ho respirato e respiro i loro stessi problemi”. Sicché l’intervistata, ad un certo punto della sua esistenza, ha optato per un ruolo da volontaria ausiliaria, in una delle frontiere “roventi” del Mezzogiorno. Alla base di questa svolta decisiva, vi è di sicuro una sensibilità verso le preoccupazioni che assillano gli abitanti del posto, specie le donne: i parti o gli aborti precoci, con il fidanzato (o il marito) in carcere; i lutti violenti in famiglia; gli stati di ristrettezza materiale; e quant’altro. In breve, gli affanni di una popolazione che versa in una situazione critica, rischiando di frequente di retrocedere sotto la soglia della povertà. E’ con questa realtà di segregazione sociale che Assunta si confronta quotidianamente, al punto da improvvisarsi anche nel ruolo di consulente psicologa: “non sono una psicologa ma, condividendo le esperienze delle persone che si presentano nel consultorio, forse posso dare una mano”. Dare una mano appunto; questo motivo ritorna spesso nelle parole di quanti si dedicano alla pratica della riparazione. Come si è visto, Angelo e Assunta hanno dichiarato in modo esplicito di aver scelto la via dell’altruismo per ricucire il tessuto sociale della comunità in cui essi vivono. Non si tratta di casi isolati. Anche Clemente, un pensionato di 71 anni, con alle spalle una carriera da manager nel settore delle telecomunicazioni, 66 3. La riparazione sottolinea che la sua attività di volontariato individuale in una mensa della Caritas di Ostia (Roma) è motivata dal desiderio spontaneo di aiutare le persone più sfortunate: “esiste una povertà di tipo diverso, c’è la solitudine, l’emarginazione, l’incapacità di comunicare con gli altri […] faccio solo attività estremamente umili, con una disponibilità al dialogo […] insomma mi metto al servizio dei più piccoli, applicando la dottrina evangelica”. Si delinea qui una disposizione morale verso l’altro, un’azione di sostegno verso chi vive uno stato di deprivazione, incarnando i sintomi più vistosi di un problema sociale. Certo, Clemente può sempre attingere dalla sua intensa fede religiosa, testimoniando nel sociale la carità cristiana. Nondimeno, anche chi non è credente o praticante, mostra una propensione (un’attenzione costante), verso la fragilità della condizione umana: “mi sono accorta che a Pralungo il problema principale era la solitudine degli anziani, così ho pensato di fare la volontaria, offrendo ascolto ai pazienti dell’ambulatorio, oltre che seguirli nelle cure mediche (Carla)”; “da tre anni e mezzo, il padre di una mia amica è stato colpito da una malattia terminale […] in media sto con lui una volta alla settimana […] gli tengo compagnia […] mi sembra un modo per stargli vicino, per sostenerlo nella sua realtà tormentata (Marta)”. Da questi primi accenni si possono già individuare alcuni tratti comuni nella pratica della riparazione. Gli ambiti e gli interlocutori con cui interagiscono Marta, Carla, Assunta, Vincenzo e Angelo sono molto diversi; nonostante ciò, si registra una tendenza trasversale. Prima si materializza il segno tangibile della sofferenza o del malessere strisciante: la povertà e l’emarginazione in una periferia tumultuosa del Sud; l’esclusione sociale in un quartiere “a rischio” di Roma; la burocrazia e la scarsa sensibilità delle istituzioni locali nei confronti delle richieste di assistenza dei cittadini svantaggiati (un malcostume che evidentemente può attecchire anche nella “civile” Emilia Romagna); la solitudine degli anziani in un territorio decentrato; l’alea del destino che si abbatte sulla famiglia di un’amica, quando il genitore si ammala gravemente. Poi vi è una persona che raccoglie il segnale: una situazione più o meno acuta di debolezza, carenza o precarietà. Si deve 67 3. La riparazione aggiungere che le reazioni individuali all’evento problematico sono molteplici: si esprime una vicinanza (un sentimento di partecipazione al trauma vissuto), tenendo semplicemente compagnia ad una persona immobilizzata nel letto; oppure ci si dedica anima e corpo per garantire il funzionamento di un ambulatorio di montagna o di un consultorio familiare, perché sono le uniche sedi dove le persone possono ricevere attenzione e comprensione; o, ancora, si assume il ruolo di mediatore civico, per rendere più umana la pubblica amministrazione locale1. Volendo riassumere, questi volontari solitari agiscono nel loro ambiente limitrofo; essi riparano guasti sociali, contengono il danno o, se si preferisce, cercano dei rimedi per tamponare questioni spinose dal punto di vista sociale e individuale. 3.2 Una questione di riconoscimento L’attivismo degli artefici della riparazione potrebbe, quindi, essere concepito come una risposta adattiva ad uno scenario circoscritto di crisi: una strategia minimalista volta a limitare l’impatto di un fenomeno di segno negativo. In breve, un gesto estemporaneo di aiuto di fronte all’ineluttabilità del bisogno, espresso da una persona o da una collettività. Sotto questo profilo, non è del tutto infondato il rilievo di Ota de Leonardis, che attribuisce a tali professioni di solidarietà un carattere pre-sociale, essendo queste ultime radicate nella coscienza individuale del soggetto: una disposizione morale verso l’altro […] la disponibilità a condividere le proprie risorse con l’altro in condizioni di bisogno, un estraneo, ad ascoltare e accettare in totale gratuità, senza che si costruisca su questa condivisione un durevole legame. Dopo aver prestato il suo aiuto il buon samaritano se ne và. Perciò l’ambito di espressione della solidarietà così intesa non sono i rapporti – la società – ma il foro interiore della coscienza singola e, semmai, l’intera umanità: essa non dà luogo a legame sociale (de Leonardis, 1998, p. 60)”. La riparazione è, senza dubbio, un modo individualizzato di “praticare” la solidarietà; tuttavia non è detto che essa sfoci nell’abbandono prematuro della scena dell’altruismo, come nel caso del Buon Samaritano. Di sicuro, l’impegno soggettivo non 68 3. La riparazione converge in esperienze organizzate di volontariato; ma ciò non implica che gli atti solidali degli intervistati siano transitori o privi di effetti concreti, al punto da decretarne l’inutilità sociale. Al contrario, i comportamenti pro-sociali di questi volontari sono prolungati nel tempo2; e, molto spesso, contribuiscono ad alleviare traumi o condizione disagevoli. Accanto a ciò, è necessario soffermarsi su un aspetto molto importante: questo genere di attivismo personale trae alimento dalla gratitudine di chi riceve l’aiuto. Si tratta di un potente corroborante che, in assenza di altre fonti di legittimazione esterna3, fornisce la ragione per continuare a svolgere l’attività informale di volontariato. In altri termini, gli intervistati sono consci di essere apprezzati per il loro impegno: sono gli stessi beneficiati dei loro gesti solidali a farli sentire utili. Carla, l’indomita “crocerossina” di Pralungo, viene circondata da un alone di insostituibilità, visto che i suoi pazienti non possono fare a meno di lei, anche se defeziona solo per un giorno dal servizio: “lunedì non ho potuto ricevere gli anziani nell’ambulatorio; loro mi hanno subito lasciato un messaggio (ci manchi, ma cosa è successo!). Di fronte a queste testimonianze d’affetto io torno a casa come su “una nuvoletta”. Mi sento gratificata perché è un riconoscimento tangibile del fatto che il mio impegno viene da loro apprezzato, sino a preoccuparsi se (per qualche motivo) mi debbo assentare dall’ambulatorio o se non posso effettuare le visite a domicilio”. Demetrio ha capito di essere utile quando il padre di Samuele (vedi capitolo 1) gli ha espresso tutta la sua riconoscenza per aver insegnato al figlio a non avere paura dell’acqua: “è bellissimo quando un bambino che segui apprende qualcosa di importante […] quando ha imparato a nuotare […] la soddisfazione e anche la gratitudine del padre […] non posso dimenticare”. Angelo è più pragmatico, laddove nota che un numero sempre maggiore di famiglie “precarie” gli richiede di intercedere presso i funzionari comunali; il fatto di condurre in porto queste pratiche è motivo di soddisfazione, tanto più che gli stessi immigrati si aspettano che egli svolga la sua funzione di difensore civico: “oggi ho sette richieste da presentare in Comune, agendo in modo appropriato posso andare incontro alle necessità delle famiglie immigrate […] quando comprendi di 69 3. La riparazione aver corrisposto un bisogno reale ti senti utile, gratificato […] Poi loro, ormai, si aspettano che io lo faccia”. Infine Assunta, pur essendo poco avvezza ad accettare lusinghe per l’opera da lei svolta, ha ricevuto un imprimatur dal parroco di Casoria: “mi ha rincuorato dicendomi che le persone si rivolgono a me perché provvedo a sbrogliare la matassa dei loro problemi concreti […] ha detto che loro sono profondamente grati per il mio aiuto perché nessun altro, al mio posto, lo avrebbe fatto”. Questi brani d’intervista rafforzano l’idea che la riparazione sia depositaria di una dinamica di “rispecchiamento”. L’uomo solidale vede la sua immagine riflessa nella considerazione sociale acquisita presso le persone con cui stabilisce un contatto: i beneficiari dei suoi atti d’aiuto e i testimoni che avvalorano il suo operato. D’altronde, ogni processo di costruzione dell’identità poggia sulla volontà di essere riconosciuti all’esterno, come ha osservato con la sua consueta lucidità Alberto Melucci: raccontiamo noi stessi, cioè investiamo una parte altrettanto importante delle nostre risorse a chiedere riconoscimento, a domandare agli altri che confermino la costruzione di noi […] identifichiamo degli interlocutori […] non si tratta di altri generici, ma di altri significativi, sempre situati in un campo specifico d’azione (Melucci, 2000, p. 41). I volontari non fanno eccezione a questa regola generale: narrano sé stessi nel corso delle interviste (ma anche nella vita di tutti i giorni). Il racconto diventa così il veicolo fondamentale con cui costruire il proprio sé. Ma come per altre sfere decisive dell’esistenza (il lavoro, la famiglia, ecc.) non si può fare a meno di interlocutori significativi per dare senso al proprio “essere nel mondo”. Nel caso dell’altruismo “riparatorio”, lo specchio dell’identificazione va ricercato nello sguardo riconoscente di chi si è sentito spalleggiato da un atto sincero di aiuto; oppure nella consapevolezza che la propria attività volontaria ha contribuito ad eliminare uno stato di disagio. Con queste tessere di riconoscimento gli intervistati compongono il mosaico della loro identità solidale. 70 3. La riparazione 3.3 Figli di una solidarietà minore? Il rispecchiamento nell’altro rende alquanto sbrigativa la tesi secondo cui l’altruismo spontaneo sia destinato a rimanere un “fatto della coscienza”: una professione di generosità custodita gelosamente nell’animo benevolente del volontario; in altre parole, un’abitudine autoreferenziale del cuore, che non contribuirebbe a creare legami sociali duraturi (si veda il passo citato da de Leonardis a pagina 67). Infatti, se l’attore adotta come criterio di autovalutazione la gratitudine o il sollievo del proprio interlocutore, è arduo immaginare che egli non intrecci una qualche forma di relazione durevole con quest’ultimo. Comunque, per aggirare questo argomento, bisogna aprire una parentesi, tenendo conto del modo con cui gli scienziati sociali trattano il concetto di solidarietà. Il punto è che gli scienziati sociali, in particolare i sociologi, considerano questo termine come sinonimo di tenuta d’insieme della società: regole, valori, canali di partecipazione, meccanismi di cooperazione che assicurano la coesione di un determinato contesto societario4. Sennonché, la solidarietà così intesa è tornata in auge dinnanzi ai processi di frammentazione che si registrano nell’era della globalizzazione, sollecitando le diagnosi allarmate di molti studiosi (Touraine 1997; Beck, 1997; Bauman, 1999; Giddens, 2000; Zoll, 2000). Questi autori, a prescindere dalle singole vedute, hanno tutti puntato l’indice sulla decomposizione del “cemento” della società: in sostanza, nella modernità avanzata la trama delle appartenenze convenzionali si lacera, indebolendo di molto il comune sentire dei cittadini; le istituzioni sociali entrano così in fibrillazione (dalla famiglia, alle istituzioni della democrazia, fino a giungere ai simboli suggestivi della nazione). Sicché, si sfalda la trama di rapporti che consente alle persone di vivere insieme. Di qui nasce la preoccupazione per l’erosione delle solidarietà ad ampio raggio: in un passaggio d’epoca sempre più incerto, quali cornici culturali e sociali possono fungere da collante collettivo, facendo avvertire ai cittadini un senso di comunanza rispetto ad un avvenire quanto mai indecifrabile? L’alba del terzo millennio non è forse sorta con il presagio sinistro di un’umanità funestata da scontri di 71 3. La riparazione civiltà e dall’inanità delle diverse proposte messe in campo dagli attori della politica? L’impressione prevalente è quella di un senso di smarrimento provocato da un vuoto sociale: l’assenza di un idem sentire, ad ogni livello e settore della convivenza civile. Forse è per questo che si fa largo una cultura del sospetto verso le solidarietà particolaristiche; d’altronde queste ultime, in non poche circostanze, scatenano conflitti simbolici per la difesa delle identità (Wieviorka, 2001), rendendo ardua l’applicazione dei principi dell’universalismo democratico: chi può garantire il funzionamento del welfare e l’esercizio dei diritti fondamentali, in una società disarticolata in gruppi autocentrati, la cui unica “fedeltà” è verso la propria membership etnica o sociale? La diffidenza diventa poi sottovalutazione quando si considerano i sentimenti individuali di solidarietà. Il men che ci si possa aspettare da una cultura del pessimismo (Bennett, 2001) è la tendenza a sminuire la dedizione soggettiva verso il bene; anche qui non mancano gli appigli per fustigare il “buonismo di facciata”: le gare televisive della compassione; la “carità monetaria” di chi mette mano al portafoglio una volta tanto, solo per scacciare il senso di colpa, soprattutto quando si imbatte nelle immagini “urticanti” della sofferenza; il narcisismo di chi si improvvisa eroe-salvatore, non tanto per strappare dal pericolo le “vittime”, quanto per esibire il proprio sé taumaturgico; ecc. D’altronde, il volontariato si presta a queste operazioni di maquillage: dietro al suo innegabile appeal, si possono sempre celare mistificazioni della moralità. Ciò non toglie che – come si è già sottolineato – alcuni Buoni Samaritani non escano facilmente dai binari del quotidiano solidale: essi, un giorno dopo l’altro, spendono energie fisiche e mentali per andare incontro alle esigenze di un “estraneo”. Lo fanno con assiduità e senza tornaconto personale, venendo peraltro riconosciuti in quanto soggetti-che-aiutano. Non è facile pertanto liquidare il loro impegno, sostenendo che esso non migliora la salute della società, perché tale rilievo assomiglia ad una tautologia: è perfino ovvio ribadire che una “miniatura d’altruismo” non sia sufficiente per emendare il fragile edificio della convivenza nelle democrazie contemporanee. 72 3. La riparazione Non saranno certo le azioni (per quanto lodevoli) di un volontario, per di più “senza divisa”, a risolvere l’odierno deficit di mutualismo e di compartecipazione, che si riscontra nell’Occidente sviluppato. I grandi scenari epocali non vengono influenzati, se non con gradualità, dalla microstoria ordita dal basso; eppure quest’ultima ha un suo ruolo nel divenire della società, specie quando concorre a strutturare l’agorà: lo spazio dove si incontrano i cittadini, scambiando esperienze e risorse intangibili. Dalla notte dei tempi, il legame sociale si sviluppa a partire dalla relazione fra un ego ed un alter, specialmente quando questo rapporto è basato su un’apertura autentica (una disponibilità reale a mettersi nei panni del proprio interlocutore). Il volontariato ha proprio questa caratteristica: fondare un nesso di prossimità non mediata fra due o più persone. Si può pensare che il suo impegno sia pre-sociale, solo perché non riproduce in modo automatico beni pubblici quali l’equità orizzontale, la giustizia redistributiva o l’accesso generalizzato ai diritti sociali? L’interrogativo è evidentemente retorico: è scontato che non si possa chiedere ai volontari di sostituirsi al welfare state o allo Stato di diritto. Ma è proprio questa l’obiezione che viene posta, con una certa ricorrenza, allo spontaneismo dei cittadini solidali: il terzo settore non è un modello alternativo per costruire un benessere diffuso5. Da più parti si fa rilevare che esso è adatto per ingrossare il fiume carsico dell’emotività: nelle occasioni sporadiche in cui l’opinione pubblica vuole riscoprirsi indulgente verso “i deboli”; o quando un amministratore locale propaganda la sua visione illuminata di buon governo, cooptando nei suoi programmi qualche sigla organizzativa del non-profit, col fine malcelato di essere politicamente corretto. Il privato sociale diventa, invece, inadeguato quando si tratta di badare al sodo: gestire la cosa pubblica, riformare le costituzioni, prendere decisioni essenziali di politica economica, addomesticare i conflitti sociali. In tutte queste evenienze, il mondo delle solidarietà primarie (organizzate e non) è alquanto “insignificante”. Così il volontariato viene blandito quando c’è bisogno di un antidoto all’indifferenza nei confronti degli esclusi (o nel momento in cui si deve trovare un nobile ideale per educare alla cittadinanza); mentre cade nel dimenticatoio quando subentra la politica con la P maiuscola. 73 3. La riparazione Questo discorso non è del tutto incoerente: la società civile, per quanto vivace e animata da intenti meritori, non può surrogare lo Stato. Peccato che, ragionando in questo modo, si trascuri un aspetto di non poco conto: le compagini organizzate del terzo settore sono ormai parte costitutiva del welfare mix, avendo assunto un ruolo di primo piano nella produzione di beni pubblici fondamentali, a livello comunale, regionale e nazionale (si veda l’introduzione); inoltre, col trascorrere del tempo il volontariato si è fatto largo nell’opinione pubblica; non solo come fenomeno mediatico; ma anche come consuetudine che coinvolge milioni di cittadini. Queste forme di partecipazione solidale sono prive di una valenza sociale? Alla domanda non si può che rispondere negativamente, esprimendo peraltro un convincimento diffuso fra gli analisti che hanno studiato l’evoluzione recente del volontariato e del terzo settore in Italia (Ardigò, 2001; Fazzi, 1998; Ranci, 1999; Donati, 2000). L’attivismo sociale delle persone crea legami “densi”, contribuendo a rinsaldare la tenuta della nostra (come di altre) società. Tuttavia, ciò avviene se si verificano certe condizioni ambientali: unità politica sulle questioni fondamentali, riforme efficaci, economie propulsive, ripresa della concertazione tra le parti sociali, ecc. Purtroppo, su questo fronte il nostro paese presenta carenze non trascurabili. E questo deficit rischia, per certi versi, di vanificare il civismo spontaneo dei cittadini che si mobilitano nel sociale. Nel frattempo, l’uomo comune continua a cimentarsi nell’arte dell’altruismo, in attesa di tempi migliori. E, allora, il problema di quanto sia coesiva (socialmente rilevante) la sua solidarietà passa in secondo piano. Per questo è opportuno chiudere la parentesi, tornando ad esaminare le “biografie minime” degli intervistati. 3.4 Lo sconfinamento emotivo Vedendo i volontari in azione, risulta del resto evidente la loro attitudine a costruire relazioni sociali dotate di senso con i beneficiari dei loro interventi. Assunta sostiene che, tra lei e gli utenti del consultorio, si è stabilito un rapporto di mutua comprensione, molto simile ad una relazione amicale: 74 3. La riparazione “condividiamo le stesse scelte (che cuciniamo oggi?), questo per dire che tra noi si è formato un piccolo gruppo”. Demetrio pone l’accento sulla reciprocità instaurata con Samuele, il bambino autistico che assiste da un anno: “il bel rapporto che si stabilisce a un certo punto ti permette di aiutare, ma è un aiuto reciproco […] ti accorgi che apprendi […] la sua capacità di essere tollerante, di capire perché ti metti in ascolto […] è un’interazione vicendevole”. Angelo viene ormai assimilato ad uno zio premuroso dal figlio di una coppia di albanesi, avendo passato del tempo con il bambino quando i genitori erano assenti per lavoro: “mi chiama zio, del resto molte volte l’ho tenuto in braccio, colmando le sue carenze affettive, visto che il padre e la madre sono costretti a lasciarlo solo durante l’orario di lavoro”. Carla scomoda addirittura la metafora della famiglia allargata quando evoca il suo legame con gli anziani di Pralungo: “ti senti parte di una comunità formata da persone bisognose, è come una grande famiglia, con tutti i pregi e i difetti, sai che ti metti al servizio in modo gratuito, loro non ti devono nulla per quello che fai, però quasi sempre sai di essere stata accettata, di essere considerata una di loro”. Marta, infine, è conscia di aver acquisito una forte familiarità con Renzo, malgrado le gravose condizioni di salute di quest’ultimo. In certi casi, basta uno sguardo per intendersi: “mi sembra che il nostro rapporto sia cresciuto. Certo è difficile comunicare quando ha delle crisi respiratorie o altri sintomi della sua malattia cronica […] ma quando c’è attenzione l’uno per l’altro, è sufficiente uno sguardo di intesa […]”. Dunque, i volontari si trovano immersi in rapporti sociali stretti: il gruppo, la grande famiglia, la reciprocità dello scambio interpersonale, la familiarità (l’intesa). Gli intervistati adottano un registro linguistico poliedrico, evidenziando che il loro trait d’union con i destinatari della pratica d’altruismo non è quello che, di norma, si instaura tra un operatore e gli utenti di un servizio sociale pubblico: non v’è nulla di anonimo, codificato, prestabilito nella relazione d’aiuto. Quest’ultima non si specializza, diventando una prassi ritualizzata. Beninteso, la dinamica del sostegno concreto permea sempre l’azione volontaria: Carla pratica iniezioni e dà preziosi consigli medici agli anziani; Assunta e Angelo evadono con puntiglio un 75 3. La riparazione congruo numero di pratiche assistenziali, pur di soddisfare le esigenze primarie delle famiglie indigenti; Marta e Demetrio fanno compagnia a Renzo e Samuele, perché sono consapevoli che bisogna essere presenti per avere qualche speranza di fare progressi con una malattia grave o con l’autismo; Aldo poi, ogni fine settimana, si informa sulle vicissitudini dei suoi calciatori in erba, confortandoli se hanno subito delle “angherie” dai loro allenatori. Questi gesti sono ricorrenti, essendo elementi costitutivi della pratica della riparazione. Quest’ultima, però, non è soltanto una prestazione socio-assistenziale a titolo gratuito. Piuttosto, col trascorrere del tempo, tra il volontario e il suo interlocutore si stabilisce una forma di comunicazione a due vie, con un’evidente trasformazione della loro relazione. In sintesi, si passa gradualmente dalla dinamica tipica della prossimità solidale (offro/ricevo aiuto) a un rapporto che assume significati, per certi aspetti, diversi rispetto alla logica stringente del bisogno. In breve, si sviluppa un legame interpersonale. Per spiegare questo processo di apertura relazionale si può parlare, a ragione, di sconfinamento emotivo: i limiti (confini) di un rapporto basato in principio solo sulla risoluzione di una necessità impellente, vengono superati grazie all’intervento delle emozioni. Tra ego (il volontario) e alter (il suo interlocutore) subentra così l’empatia: una fusione di stati d’animo che fa leva sulla condivisione di un problema. In proposito, si possono citare alcuni passi delle interviste da cui emerge con chiarezza questo processo socio-psicologico. Marta manifesta non poche esitazioni di fronte alla lenta agonia di Renzo. Spesso la sua determinazione di rimanere al capezzale dell’uomo vacilla dinnanzi all’implacabilità della malattia. Eppure, i suoi dubbi svaniscono quando pensa all’intensa relazione emotiva che la lega al suo assistito: “è una lenta agonia ; pur non essendo un accanimento terapeutico, lui è collegato alle macchine […] viene mantenuto in vita in modo artificiale […] alle volte mi chiedo che senso abbia assisterlo, se deve subire questo travaglio […] poi penso però alla sua emotività, alla sua reattività, lui ascolta tutto quello che avviene intorno, interagisce, esprime sentimenti forti […] ride, piange, è triste e, poi, riesce a leggere i tuoi stessi stati interiori […] 76 3. La riparazione insomma è una relazione emotiva vigorosa che ti da la forza di continuare ad aiutarlo”. Demetrio insiste sull’importanza della comunicazione emotiva; una chiave di volta instaurare un reale contatto (uno scambio) con una persona colpita da un handicap mentale: “devi capire come si esprime, devi metterti allo stesso livello di comunicazione, non puoi comunicare solo sul piano verbale, devi cogliere i segni non verbali e, se sai ascoltare, allora si crea la fiducia, lo scambio di emozioni”. Carla fa un bilancio dei quattro anni di impegno al fianco degli anziani di Pralungo, sottolineando che i sentimenti recitano la parte del leone nella sua attività volontaria : “oggi, come all’inizio, quando ho deciso di impegnarmi con gli anziani avevo l’esigenza di esprimere una parte di me […] avevo qualcosa da dare con l’animo e ho ricevuto affetto, calore, considerazione umana […] ti rendi conto della delicatezza dei sentimenti di una persona che non è completamente autosufficiente […] così fai le cose con amore e ricevi amore […] quando il problema è la solitudine con un abbraccio e un bacio fai molto di più che con le medicine”. Aldo, è convinto di aver arricchito il suo bagaglio di esperienze umane, grazie al volontariato con i calciatori; difatti, per comprendere le ansie e le attese dei giovanissimi, bisogna affinare doti non comuni di sensibilità e di introspezione, senza le quali non si intercettano i turbamenti di un età instabile come l’adolescenza. In tale ottica, è significativo il ricorso ad una espressione suggestiva come l’altalena delle emozioni: “grazie a questi ragazzi ho fatto esperienza […] mi hanno insegnato l’altalena delle emozioni […] l’entusiasmo e la depressione; l’ansia e la spensieratezza; la paura di non farcela e la forza d'animo che subentra quando si supera una prova […] ogni ragazzo è un mondo a se stante, reagisce in base alla sua sensibilità; quindi per entrare nella sua testa ci vuole una capacità di introspezione, senza essere invadenti”. Non è necessario procedere oltre con queste esemplificazioni. Nonostante le variazioni sul tema, il registro è analogo: l’emozione è un veicolo di comunicazione essenziale nella prassi di riparazione. In effetti, il legame non mediato con i portatori del bisogno si fonda sulla consonanza emotiva. Prima o poi, i sentimenti diventano materia viva di questa forma di 77 3. La riparazione volontariato informale. A partire da essi si ridefinisce il senso dell’esperienza d’altruismo: non solo una risposta “al qui e l’ora” di una esigenza improcrastinabile d’aiuto; ma anche l’attivazione di un rapporto umano denso, vibrante, complesso. Il risultato è uno sconfinamento rispetto alla concretezza dell’atto solidale. Il che non sorprende, almeno se si tiene conto di quanto afferma Zygmunt Bauman sul nesso di prossimità nella sfera dell’etica, riallacciandosi peraltro al pensiero del filosofo Emmanuel Lévinas: la prossimità del prossimo è ossessiva, il genere di immediatezza che brucia la tappa della coscienza: non per difetto ma per eccesso, per l’eccedenza dell’avvicinamento (Bauman, 1993, trad. it. p. 93). Dunque, la prossimità (specie nel volontariato) è di per sé connaturata ad un eccesso di vicinanza, ad un capovolgimento di fronte nell’esperienza individuale: volenti o nolenti, si assume lo sguardo altrui, i suoi problemi, se si vuole la sua angoscia per una condizione variabile di deprivazione. Ciò presuppone, tuttavia, una proiezione in una realtà inizialmente estranea al soggetto-agente. Quindi, per accostarsi al mondo vitale dell’altro, ci vuole un sovrappiù di immedesimazione. L’immediatezza dell’atto altruistico non è sufficiente, poiché è depositaria di “una ragionevole” volontà di risolvere una criticità. Ma quando si comincia, si innesca la spirale del bisogno: in genere, le esigenze del proprio interlocutore sono innumerevoli, soprattutto se nella sua biografia serpeggia la vulnerabilità sociale: una malattia terminale, la solitudine, l’emarginazione, ecc. In tutti questi casi, il compito del volontario non è agevole: non basta curare le ferite con un gesto concreto di solidarietà; una buona azione per guarire “il male”. Quest’ultima ha una sua utilità, è perfino ovvio ripeterlo; ma è soltanto una panacea momentanea: le ferite del legame sociale non si rimarginano con tanta facilità. Per questo non è facile abbandonare la scena solidale. S’impone così una presenza stabile. Nondimeno, ciò implica uno spostamento di prospettiva: dal sé all’altro. Una sorta di decostruzione della soggettività, per coltivare una relazione sociale, per raggiungere uno stato di coinvolgimento rispetto alla realtà problematica di colui che è oggetto di attenzione. Di qui il ricorso al linguaggio delle 78 3. La riparazione emozioni: il medium emozionale crea condivisione perché, dal flusso dei sentimenti, sgorga la comunanza, la comunicazione non alienata tra due persone. Il volontario e l’altro bisognoso: senza sconfinamento emotivo è difficile “agire” la prossimità. A ben vedere, la riparazione si avvale di una strategia dell’intimità: l’empatia del bisogno. Il tale ottica, il dilemma etico che si ripropone in ogni esperienza di responsabilità individuale, trova qui un riscontro convincente: “sono forse io il custode di mio fratello (Bauman, 1993)?” La risposta corale degli intervistati potrebbe essere: “entro in sintonia con i problemi di mio fratello, per questo lo custodisco”. Note 1 Per non appesantire troppo il testo con un numero eccessivo di esempi, non sono state menzionate le storie di altri intervistati, che sono assimilabili nella pratica della riparazione. Di Aldo si è già detto (capitolo 1): ad un certo punto, la sua passione sportiva non gli ha impedito di vedere i rischi a cui vanno incontro gli aspiranti campioni del calcio; da allora, egli ha offerto un rifugio accogliente ai calciatori in erba, occupandosi in particolare del loro inserimento extracalcistico. Anche il caso di Demetrio è già stato esaminato in precedenza (capitolo 1): durante il servizio civile, il giovane di Bergamo ha scoperto quanto sia “assordante” il silenzio dell’autismo; da quel momento, non ha lesinato sforzi ed energie per penetrare nel muro di impenetrabilità di questo handicap psichico. 2 Marta, Carla, Assunta, Angelo, Aldo, Clemente e Demetrio svolgono la loro attività di volontariato almeno una volta alla settimana, dedicandovi svariate ore. Inoltre, il loro impegno nel sociale è ormai pluriennale, variando da un minimo di tre anni ad un massimo di 13 anni. 3 In genere, le persone che operano nel volontariato “ufficiale” si sentono riconosciute anche perché si identificano (almeno in parte) nell’organizzazione di appartenenza. Cosa che evidentemente non avviene laddove si professi il proprio altruismo senza aderire ad un ente di volontariato. 4 Luciano Gallino definisce la solidarietà come “la capacità dei membri d’una collettività di agire nei confronti di altri come un soggetto unitario” (Gallino, 1993, p. 633). 5 Ad esempio, in un recente volume, Maurizio Ambrosini registra alcune resistenze e timori di fronte al protagonismo del terzo settore nell’erogazione di servizi assistenziali in precedenza affidati allo Stato sociale: “permane infatti nel dibattito sul tema una preoccupazione di cedimento a forme di discrezionalità, particolarismo, disuguaglianza, nel momento in cui una serie di servizi alle persone vengono dispensati da soggetti privati” (Ambrosini, 2005, p. 65). 79 4. Il contrasto 4 Il contrasto 4.1 Una mobilitazione sottotraccia L’idea del contrasto può essere presa a prestito per analizzare un’azione di contrapposizione verso una situazione problematica che interpella le coscienze, ponendo seri dilemmi morali. In tal senso, il concetto sembra particolarmente adatto per studiare l’evoluzione di quei movimenti collettivi che, a partire dagli anni settanta del Novecento, hanno fatto irruzione nel proscenio delle democrazie tardo-capitalistiche (Melucci, 1982; Neveu, 1996; Della Porta, Diani, 1997; Ceri 2002). In effetti, le rivendicazioni di diversi attori sociali (studenti, donne, minoranze etniche, ambientalisti, pacifisti e, più di recente, i cosiddetti no-global) esprimono una carica di opposizione verso “l’ordine esistente”, ispirandosi a criteri di giustizia ed equità. Ma il contrasto può anche contribuire a decifrare esperienze di attivismo che non raggiungono la stessa visibilità di questi movimenti (e quindi la medesima forza d’urto). Certo, l’antagonismo sociale richiede quasi sempre un coinvolgimento ad ampio raggio sul tema controverso (in inglese issue) per cui si innesca la protesta. In quest’ottica, non v’è dubbio che ogni progetto di palingenesi della società si fonda sulla mobilitazione di risorse (materiali e simboliche) nient’affatto trascurabili (McCarthy, Zald, 1977): prima di tutto una nutrita platea di militanti e simpatizzanti disposti a sposare la “causa”; ma anche adeguati spazi di controinformazione nei palinsesti dei media, il cui potere di condizionamento sull’opinione pubblica è davvero smisurato; per non sottacere, poi, l’importanza di variabili strategiche quali i finanziamenti e la capacità di darsi una qualche forma di organizzazione efficiente, in assenza delle quali è difficile pensare di poter costruire un mondo diverso o migliore. Tuttavia, pur considerando questi fattori, le strategie di contrasto possono anche radicarsi nel tessuto della società civile, senza necessariamente assumere un profilo pubblico marcato. D’altronde, contrastare vuol dire letteralmente entrare in 80 4. Il contrasto conflitto (essere in disaccordo) con “qualcosa” giudicato ingiusto o semplicemente nocivo nei suoi effetti sociali. Va da sé che questo verbo (e l’omonimo sostantivo) possa, a certe condizioni, rappresentare bene l’operato di un volontario in incognito. In definitiva, si può combattere per un ideale senza portare una bandiera o ripetere slogan in un megafono. In tali circostanze il cittadino esprime un dissenso silenzioso: una mobilitazione sottotraccia il cui fine è quello di rimuovere le concause della marginalità o di opporsi ad una situazione di prevaricazione sociale. Inoltre, è necessario tener conto anche di un altro elemento: il volontariato informale può essere contiguo alla rete del movimento no-global, come si avrà modo di vedere più avanti. Alle volte, quindi, l’azione volontaria s’intreccia con la contestazione a carattere planetario, che si è materializzata nelle piazze di Seattle, Genova, Londra e New York; il che non vuol dire che siano due prassi identiche: un volontario può impegnarsi nella vita d’ogni giorno, avversando i responsabili di un determinato problema sociale; e, allo stesso tempo, può scendere in piazza, per protestare contro lo strapotere delle multinazionali. Si tratta di forme di partecipazione civica distinte, sebbene siano agite dalla stessa persona. Quindi non ha senso porle sullo stesso piano; piuttosto, è necessario metterle in relazione. In ogni caso, la pratica del contrasto lascia intravedere un’assunzione di responsabilità condivisa all’interno di un gruppo spontaneo. Lontano dai riflettori dei mass media, si forma così un piccolo sodalizio di individui pronti ad esporsi in prima persona, conducendo una battaglia “senza quartiere” contro i sintomi più palesi dell’iniquità sociale o del degrado civile. A ben vedere, anche questi inediti attivisti sono mossi da una aspettativa di cambiamento (rimuovere il male o la sopraffazione); solo che la loro voce è flebile, poiché è priva di una cassa di risonanza politica e sociale. Bisogna, allora, ascoltarli con attenzione, tentando di decodificare le opinioni che hanno rilasciato nel corso delle interviste. In tale prospettiva, si deve innanzi tutto precisare che una quota consistente dei protagonisti dell’indagine sono dediti alla pratica del contrasto (10 intervistati su 31). Si è, quindi, in 81 4. Il contrasto presenza, di un vasto campionario di storie solidali nelle quali la tendenza di fondo è una conflittualità più o meno vigorosa. Sotto questo profilo, si possono individuare almeno due processi attraverso i quali i volontari sviluppano un’insofferenza nei confronti di una realtà sociale controversa: la rivolta morale e la resistenza attiva. 4.2 La rivolta morale Anna, Rita, Mario, Manuela e Paolo; nel loro caso si può a ragione parlare di rivolta morale. Questi intervistati hanno difatti reagito con sdegno a situazioni sociali “estreme”, laddove la decomposizione del tessuto civico si trasforma in una questione etica impellente. Anna, da lungo tempo, rifiuta l’immagine deteriore con cui viene etichettato il proprio quartiere di residenza (San Paolo, Bari). Per lei questo stereotipo è come una ferita aperta nell’animo: “fa male essere considerati cittadini di serie B, soltanto perché si vive in un luogo dove violenza e povertà sono la regola”; ma questo stigma non la scoraggia; semmai è un motivo in più per opporsi ad una condizione generale di emarginazione, tentando di restituire il sorriso ai bambini nati in famiglie a rischio (si veda il capitolo 1). Rita parla di turbamento e di ribellione costruttiva nei confronti della mafia, quando spiega perché ha deciso di stare al fianco dei minori dello Zen a Palermo: “agli inizi degli anni novanta a Palermo sono ricominciate le stragi […] il territorio (lo Zen – N.d.A.) era sempre occupato dalla mafia, ci voleva una presenza nel quartiere […] io avevo una sensibilità […] non potevo far finta di nulla […] la povertà, l’analfabetismo diffuso, lo spaccio della droga, la criminalità […] tutto ciò mi turbava profondamente; per questo, insieme ad altre persone volenterose, mi sono ribellata in modo costruttivo, cercando di testimoniare in modo attivo il mio impegno nel sociale”. Anche Mario e Manuela si sono ribellati al dominio incontrastato della mafia. Entrambi si sono trasferiti in due rioni di Catania (rispettivamente S. Cristoforo e Antico Corso), dove il controllo esercitato dalla criminalità organizzata è stringente. La loro è un scelta di vita: una di quelle decisioni che mutano il corso della propria esistenza e di quella dei propri familiari. 82 4. Il contrasto Non si va, infatti, a vivere per caso nel territorio “governato” dai mafiosi. Mario lo ha fatto per “abitare la scuola”; lavorando a stretto contatto con altri animatori volontari, fa funzionare un doposcuola in un edificio fatiscente del quartiere: un ex fabbrica di porte d’alluminio, affacciata su un vicolo desolato. Lo stabile è a tutti gli effetti un magazzino decrepito: un grande ambiente unico, senza finestre, con un tetto precario in legno; le pareti non sono neppure imbiancate e il pavimento è una vasta spianata di cemento polveroso. Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare dalle apparenze. Si tratta di un luogo dove si studia: nell’unico angolo del locale dove filtra la luce, si distendono alcuni banchi disposti con un certo ordine. E’ lì che, tre volte alla settimana, i minori del luogo vengono impegnati nelle attività di sostegno didattico. Lo scopo è quello di incoraggiarli a coltivare l’istruzione. L’unica alternativa al lavoro nero o, peggio, al reclutamento nelle fila della malavita. Mario è un uomo mite di circa cinquant’anni, ma non riesce a dissimulare la sua animosità quando si sofferma sulle ragioni che lo inducono a fare l’insegnante volontario in una zona off limits come S. Cristoforo: “io non accetto che gli abitanti di questo quartiere vengano emarginati, che cadano nella spirale dell’illegalità o dell’economia clandestina perché versano in uno stato di bisogno […] i bambini hanno il padre in galera e spesso sono costretti ad aiutare la famiglia lavorando e qui è facile cadere preda della mafia per necessità […] la mafia ha interesse che tutto resti uguale, perché in quartieri come questo può sempre trovare la manovalanza […] provo rabbia per questo stato di abbandono […] le istituzioni sono assenti […] non si può sottostare a questo stato di cose. Qualcuno deve pur dare un segnale forte: io ho deciso di fare il volontario nel doposcuola”. Si deve aggiungere che Mario e gli altri volontari non si limitano a far studiare i recalcitranti scolari di S. Cristoforo; spesso scendono in campo, lanciando messaggi inequivocabili a “cosa nostra”; di recente, hanno ospitato una riunione della “carovana antimafia”: la scena era quasi surreale. La spianata di cemento del doposcuola si è riempita di magistrati, giornalisti, parlamentari, dirigenti di associazioni civiche. All’appello mancavano soltanto gli abitanti del quartiere: solo uno sparuto drappello di coraggiosi ha assistito al dibattito. Del resto, la paura regna sovrana a S. Cristoforo; eppure, anche chi è rimasto 83 4. Il contrasto a casa, ha avvertito per un momento la presenza delle istituzioni e della società civile. Una presenza che d’altronde non è occasionale; Mario conduce la sua battaglia civica con ostinazione: con la sua ribellione personale si propone di riscattare il destino di un quartiere tenuto in ostaggio dalla mafia. Una determinazione analoga è rintracciabile nelle riflessioni di Manuela, anche lei impegnata nell’attività di supporto scolastico, a qualche isolato di distanza da dove opera Mario, nel quartiere dell’Antico Corso: “questo posto era conosciuto essenzialmente come ricettacolo della malavita, un luogo trascurato completamente anche dal punto di vista amministrativo […] e poi il problema dell’indigenza e dell’analfabetismo della popolazione […] ci sono delle ingiustizie che lasciano un marchio sulla coscienza […] allora bisogna reagire impedendo il malaffare, bloccando i soprusi, lottando contro l’iniquità […] queste sono le ragioni fondamentali che mi spingono ad agire qui […]”. Come si vede, non si può stare fermi di fronte all’ingiustizia, perché quest’ultima lascia una traccia indelebile. In tal senso, Manuela sembra aver risposto ad un appello della coscienza: per lei il sopruso è intollerabile, al punto da trasformarsi in un avversario da sconfiggere giorno dopo giorno, con un volontariato dai toni agguerriti. Ancor più emblematica è la vicenda personale di Paolo. Con tutta probabilità, questo quarantenne dinamico e ingegnoso non avrebbe mai immaginato di dover dedicare gran parte del suo tempo alla lotta contro il racket. Fino a cinque anni fa la sua preoccupazione principale era quella di fare l’imprenditore. Un’attività che peraltro gli riusciva piuttosto bene. Nell’aprile del 2000 apre un pub nel centro di Siracusa che, nel giro di un anno, diventa un locale alla moda, con un largo seguito di clienti giovani. Ma poi la faccenda si complica. La mafia è sempre in agguato, con i suoi innumerevoli tentacoli che avviluppano la società civile siciliana; in particolare, l’industria del “pizzo” è un modo efficace per estendere il controllo sul territorio: oltre ad essere un affare assai remunerativo, è anche una strategia per ricondurre all’ordine commercianti ed imprenditori, per convincerli che bisogna essere supini di fronte all’egemonia dilagante delle cosche e dei capi mandamento. Ben si capisce, 84 4. Il contrasto allora, che un giovane intraprendente come Paolo sia stato preso di mira dal racket: il suo pub andava a gonfie vele, riscuotendo il gradimento dei giovani che la sera, nel centro cittadino di Ortigia, si assiepavano dentro il locale, pur di ascoltare la musica live, bevendo una birra con gli amici. Questa visibilità attira un clan mafioso locale. Il primo segnale è la visita di un esponente di una nota “famiglia siracusana”; con toni perentori, l’uomo d’onore fa capire all’intervistato che deve installare delle macchine per il videopoker nel pub: un modo indiretto per finanziare “cosa nostra”. Il malcapitato tenta di ribattere che il suo disco-bar non si presta a questo genere di scommesse. Ma non c’è verso di fargli cambiare idea. Le macchine vengono così sistemate nel locale; dopo alcuni mesi, tuttavia, il clan si rende conto che il videopoker fornisce introiti bassi, anche perché Paolo si era inventato alcuni stratagemmi per boicottarlo: ad esempio, comunicava alla clientela che le macchine da gioco erano guaste (in realtà, le aveva semplicemente staccate dalla corrente). Così, l’imprenditore riceve una seconda visita sgradita: questa volta gli comunicano in modo esplicito che deve versare alla cosca 1,500 euro al mese. Paolo reagisce con fermezza: “gli dissi che non avevo i soldi per far fronte alla loro richiesta, perché avevo messo su da poco l’attività del pub, quindi dovevo pagare dei debiti […] ma ho aggiunto che, se anche avessi avuto il denaro, non avrei in ogni caso dato alcuna somma a loro […] anzi dissi che li avrei denunciati se non fossero scomparsi […] Ma loro non hanno ceduto e io mi sono rivolto alle forze dell’ordine e alla magistratura”. La denuncia va peraltro a buon fine: dopo quattro mesi di indagini serrate, vengono arrestate quattro persone appartenenti al clan mafioso, di cui due risultano essere i mandanti del tentativo di estorsione ai danni dell’intervistato. Passano circa venti giorni (per l’esattezza il 25 febbraio del 2002) e Paolo sente un odore strano di benzina nel pub: “avevano versato all’interno del locale sessanta litri di benzina. Non erano riusciti ad appiccare il fuoco soltanto perché era scattato l’allarme”. L’incendio non è dunque divampato; ma ormai Paolo non può più tornare indietro, essendo uscito allo scoperto: egli ha denunciato i boss di un’importante famiglia mafiosa. Facendo ciò ha spezzato la catena del silenzio, schierandosi decisamente 85 4. Il contrasto dalla parte dello Stato. E queste forme di defezione non vengono perdonate da “cosa nostra”; non sorprende che, da allora, il suo destino sia stato sconvolto da una lunga scia di eventi drammatici: il pub viene dato alle fiamme per ben due volte nell’arco di tre anni1; allo stato attuale, il locale sarebbe anche agibile, essendo stato ristrutturato con i fondi messi a disposizione dalla legislazione antiracket2; ma, per evidenti motivi di sicurezza, è stato praticamente blindato, con una sorveglianza continua delle forze dell’ordine; l’intervistato è stato, inoltre, messo sotto la protezione di una scorta, che vigila su di lui di giorno e di notte. Quindi, si è dinnanzi ad una coraggiosa scelta di campo: Paolo ha optato per la legalità, rifiutando la sottomissione al giogo mafioso; ma il costo personale che deve pagare è gravoso, dovendo vivere sotto sorveglianza: “perdi la tua privacy: il piacere di fare una passeggiata in bicicletta, io non lo posso fare […] cambia tutto, la tua vita viene stravolta e sconvolgi anche l’esistenza dei tuoi familiari […] il primo giorno che mia madre mi ha visto uscire con la scorta si è messa a piangere; un genitore rimane traumatizzato quando vede il figlio in costante pericolo […] ogni scelta ha un prezzo e il prezzo delle mie scelte è questo”. In queste condizioni, è difficile ritornare ad una esistenza ordinaria, ad esempio riaprendo pub. Quest’ultimo assomiglia ad un bunker: un’area presidiata ininterrottamente dalle forze dell’ordine, per evitare che venga di nuovo devastata da un incendio doloso. L’imprenditore siracusano però non si rassegna; spera di farne, in futuro, un luogo di aggregazione; un forum aperto dove si possano sensibilizzare i giovani: “un giorno trasformerò il pub in un punto di riferimento per gli eventi culturali organizzati a Siracusa […] faremo spettacoli, proiezioni di film, convegni per promuovere la legalità […] bisogna capire che, qui in Sicilia, il racket mafioso è un problema con profonde radici culturali […] questo fenomeno va combattuto nelle scuole, tra i giovani, facendo ragionare le nuove generazioni”. Sicché Paolo, malgrado tutto, non vuole gettare la spugna. In lui non è mai subentrata l’idea di emigrare in una regione del Nord Italia o all’estero, magari per aprire un nuovo pub; in fin dei conti, in altri contesti potrebbe fare il suo lavoro senza dover 86 4. Il contrasto sottostare alle vessazioni della criminalità organizzata. Forse questa opportunità gli è balenata nella mente qualche volta. Ma poi l’ha subito scartata, avendo deciso di portate avanti la sua battaglia personale per la legalità. Perciò, nel mese di giugno 2004, ha assunto il coordinamento del Comitato Antiracket di Siracusa: un organismo che raggruppa dodici associazioni particolarmente attive nel territorio della provincia. Non potendo riprendere la sua attività imprenditoriale, egli si dedica ormai a tempo pieno alla lotta contro il racket: organizza campagne pubblicitarie contro il “pizzo”; interviene nelle aule scolastiche, per raccontare la sua esperienza agli studenti; si avvicina con discrezione a quei commercianti e imprenditori che hanno ricevuto la “visita” di un uomo d’onore, cercando di persuaderli ad uscire allo scoperto, come ha fatto lui; talvolta gli capita anche di essere assimilato ad un simbolo positivo della società civile siciliana, specie da quando ha partecipato ad alcune trasmissioni televisive popolari. Insomma, Paolo è diventato un emblema della lotta al racket mafioso. Tutto è cominciato quando ha opposto un diniego ad un picciotto mandato in avanscoperta dai boss del siracusano. Quel rifiuto iniziale ha modificato drasticamente il suo vissuto. Ma non è il caso di dilungarsi oltre su questo aspetto. Rimane, piuttosto, da stabilire perché egli abbia compiuto questo atto di civismo. Da questo punto di vista, è lo stesso intervistato a fornire una chiave di lettura assai convincente: “quando venivano a chiedermi il pizzo ho provato la sensazione di essere privato dei diritti elementari che portano l’uomo ad essere parte della società civile. In quel momento ti senti defraudato della tua libertà. Ecco questa è la cosa che non ho accettato e che non accetterò mai”. Il brano appena citato esprime con schiettezza le ragioni dell’intervistato: in estrema sintesi, egli non ha accettato di essere privato dei suoi diritti fondamentali, in primis la libertà. Di qui nasce ribellione interiore di Paolo. Egli reagisce, come gli altri intervistati, ad un’ingiustizia. Una prevaricazione lo spinge a rigettare il codice arcaico della subordinazione al potere mafioso, scegliendo la via della legalità e dell’impegno civile. Per questo non è infondato il ricorso al concetto di rivolta morale. E’ perfino scontato aggiungere che la storia dell’imprenditore di Siracusa non possa essere facilmente 87 4. Il contrasto paragonata all’esperienza degli altri intervistati: in definitiva, lui è stato toccato in prima persona dal sopruso; mentre Anna, Rita, Mario e Manuela non sono delle vittime “designate” dell’iniquità sociale. Piuttosto, hanno conosciuto l’ingiustizia vedendola scolpita nei volti emaciati dei bambini di Bari, Catania e Palermo. E, da quel momento, non hanno potuto (e voluto) voltare le spalle all’umanità afflitta dal malaffare e dalla povertà; pertanto, anche questi volontari hanno a più riprese manifestato un sentimento di intolleranza verso l’emarginazione e la criminalità. Così, il loro senso di indignazione morale li sorregge nelle loro battaglie quotidiane contro la sopraffazione dei più deboli. Forse non sono mai stati minacciati da un “picciotto”, ma si sentono comunque parte in causa nelle travagliate vicende degli abitanti di San Paolo, S. Cristoforo, Antico Corso e dello Zen. 4.3 La resistenza attiva La rivolta morale non è l’unico processo che alimenta la pratica del contrasto. Non di rado, quest’ultima si sviluppa attraverso dinamiche più complesse; talvolta la reazione al contesto problematico è portatrice di atteggiamenti non riducibili al solo sentimento di indignazione. L’iniquità suscita sempre un dissenso; ma il volontario non si lascia guidare soltanto dal tumulto della coscienza; piuttosto, subentrano altre componenti che orientano la sua azione. La resistenza attiva è una di queste forme di reazione. Questo genere di dinamica socio-psicologica emerge con chiarezza dai racconti di alcuni volontari che, come si è anticipato, gravitano attorno al multiforme movimento dei “no-global”. In proposito, è sintomatica la testimonianza di Fausto. Questo ventenne è un attivista di Spinta dal Basso: un comitato popolare che si oppone alla costruzione della ferrovia ad alta velocità lungo la tratta Torino-Lione. Si tratta di una mobilitazione legata ad un questione ambientale spinosa: il potenziamento della linea ferroviaria altererebbe i connotati della Val di Susa, destando allarme per le persone che vivono in quest’area; infatti, per far viaggiare in modo più spedito i treni è necessario scavare diverse gallerie. Il punto è che le montagne sono ricolme di 88 4. Il contrasto amianto; una fibra minerale particolarmente nociva per la salute delle persone. In particolare, preoccupa lo stoccaggio di questo materiale tossico. Fausto cita un rapporto preparato di recente da un équipe di esperti secondo il quale “ci sarebbero un migliaio di morti nel caso in cui questa grande opera pubblica venisse realizzata”. In definitiva è questa la ragione per cui l’intervistato combatte la sua battaglia dal 2001. Il teatro della sua azione è suggestivo: Avigliana, un piccolo borgo medioevale immerso in un paesaggio montuoso incantevole, proprio all’imbocco della Val di Susa. E’ da qui che partono le iniziative di Spinta dal Basso. Il giovane fa opera di proselitismo presso la popolazione locale; organizza e partecipa ai cortei di protesta; suona il violino in occasione di cene sociali ed altri eventi, raccogliendo fondi da destinare alle molteplici attività del comitato. In breve, si rende artefice di un impegno intenso e polivalente. A prima vista, il suo scopo è molto concreto: bloccare un progetto ferroviario che, oltre a mettere a repentaglio la vita dei residenti, può sconvolgere gli equilibri di una zona a forte vocazione naturalistica. La posta in gioco è, perciò, l’avvenire della Valle; un luogo con cui Fausto si identifica pienamente, condividendone ansie e speranze: “vorrei vivere ancora a lungo qui […] non mi piacerebbe assistere alla distruzione del paesaggio e non vorrei morire di cancro […] dobbiamo prendere coscienza che è in gioco l’avvenire della nostra Valle”. Dietro alle aspirazioni di questo volontario, non è peraltro difficile scorgere una forte carica idealistica: “siamo dei donchisciotte […] lottiamo per impedire che le persone muoiano a causa di un’opera faraonica di trasporto […] è una lotta contro i giganti”. Un idealismo che si salda con molte delle istanze maturate nell’alveo del movimento “no-global”: “i treni ad alta velocità sono solo un esempio di come la globalizzazione anteponga gli interessi economici (le merci) alla qualità della vita delle persone […] è il modello di sviluppo capitalistico che non funziona […]”. Del resto, Fausto rende esplicito questo legame in un altro passo dell’intervista: “ci siamo conosciuti durante la manifestazione di Genova e lì che abbiamo deciso di costituire il comitato Spinta dal Basso […] l’estrazione della mia associazione è quella […] proveniamo dal movimento noglobal”. 89 4. Il contrasto Sembra quindi emergere una sorta di imprinting: il volontario di Avigliana si è forgiato nelle giornate convulse di Genova; nella città ligure si è difatti compiuto il suo “battesimo del fuoco”, mentre imperversava la protesta contro la Nike e il G8. In tale ottica, non v’è dubbio che Fausto abbia assimilato i valori portanti della controcultura globale: la critica serrata al neoliberismo; l’antiamericanismo; il pacifismo; la solidarietà nei confronti del Sud del mondo; la difesa planetaria dell’ecosistema; e quant’altro. In sostanza, egli ha abbracciato una visione del mondo antagonistica: una contestazione che mette all’indice le contraddizioni più palesi del tardocapitalismo, proponendosi di superare il modello attuale di sviluppo. Insomma l’ideale del cambiamento radicale si sedimenta nell’immaginario di un giovane militante. Nonostante ciò, sarebbe fuorviante liquidare l’esperienza nel sociale dell’intervistato, sostenendo che essa è frutto di un’utopia visionaria: Fausto ha letto Marx, vedrebbe di buon occhio una trasformazione dei rapporti di forza nel mercato globale, a tutto vantaggio delle fasce deboli della popolazione mondiale; tuttavia, è anche realista; egli sa bene che la sua non è un’epoca di grandi narrazioni ideologiche; un cambiamento s’impone, ma non avverrà per mano di una rivoluzione, per di più a carattere planetario. Semmai bisogna puntare su una strategia lillipuziana: “quello che cerchiamo di fare non è di trasformare il mondo in senso oggettivo; basti pensare che il commercio equo e solidale rappresenta solo l’1% del commercio mondiale3; nella battaglia contro i treni ad alta velocità partiamo da una situazione ancora più svantaggiata […] Siamo dei lillipuziani […] possiamo sperare tutt’al più in un mutamento culturale […] oggi la sfida è quella di sensibilizzare le persone, facendogli capire che una linea ferroviaria è pericolosa per il loro futuro […] senza un coinvolgimento popolare ogni causa, per quanto nobile, è destinata a fallire”. Ciò non toglie che la contrapposizione si farà aspra quando arriverà il momento della resa dei conti: “quando riapriranno i cantieri (per ora siamo solo riusciti a bloccarli temporaneamente), spireranno venti di contestazione più radicali; faremo delle azioni dimostrative, siamo disposti ad incatenarci ai binari pur di arrestare i lavori […] ovviamente agiremo in modo pacifico, siamo contro la violenza in ogni sua forma”. 90 4. Il contrasto Volendo riassumere, si è di fronte ad un attivismo molto fattivo: il ragazzo è pronto a fare le barricate contro uno dei tanti progetti di trasporto industriale che possono deturpare l’ambiente, oltre a pregiudicare la salute dei cittadini. Apparentemente egli lotta per un dettaglio nello scacchiere del capitalismo globale. Ciononostante, Fausto non lesina energie e tempo per realizzare un’utopia molto concreta: salvaguardare gli abitanti di Avigliana e dei comuni limitrofi, preservando un paesaggio di indubbio interesse artistico e naturalistico. In tale ottica, la sua è una resistenza attiva nei confronti di un problema circoscritto: “ qui i treni ad alta velocità sono dannosi per tutta la comunità […] quindi continueremo ad agire finché il progetto non verrà ritirato […] io ho scelto questo tipo di lotta perché si cerca sempre di partire da una piccola realtà per cambiare fra virgolette il mondo”. Sicché, il mondo può essere cambiato, ma solo mettendo il proprio impeto antagonistico tra virgolette; ci vuole, in breve, una buona dose di pragmatismo (di aderenza alla realtà) per sperare - un domani - di veder realizzato l’ideale della giustizia sociale. La resistenza attiva non contraddistingue soltanto l’operato di Fausto; un simile orientamento è rintracciabile anche in altri intervistati che si impegnano nei centri sociali4. Sonia, da dieci anni, presta la sua attività volontaria nel Centro Magazzino 47 di Brescia. Tutto è cominciato con l’autogestione di un edificio comunale abbandonato; un gruppo di giovani occupano un fabbricato dismesso, trasformandolo in uno spazio di aggregazione: un luogo dove si tengono concerti di band alternative, assemblee interminabili sulla fame nel mondo, mostre di artisti anticonformisti. Una realtà sociale magmatica, nella quale convergono le poliedriche istanze del mondo giovanile, senza dimenticare i militanti “duri e puri” di una volta. In breve, un’esperienza collettiva analoga a tante altre, dove l’anarchia può sfociare in iniziative solidali creative. Capita, così, che nasca qualcosa di nuovo e di utile. Brescia è un polo propulsivo del nord industrioso; tuttavia, anche in questa città alligna la precarietà sociale: i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, a causa dei processi di ristrutturazione aziendale; gli “atipici” che non riescono ad inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro; gli immigrati che lavorano nei capannoni delle imprese familiari, senza essere 91 4. Il contrasto messi in regola; i rom che vivono ai margini del tessuto urbano, in campi che assomigliano a ghetti. Gli attivisti del centro sociale di Brescia si sono mobilitati contro queste nuove forme di esclusione sociale: “abbiamo individuato nella frammentazione dei lavoratori l’elemento di ricattabilità maggiore”. Per rispondere a questo dilemma pressante, Sonia e gli altri volontari hanno deciso di stare dalla parte dei lavoratori precari; il loro scopo è quello di tutelare i “senza diritti”, appoggiandosi ai servizi istituzionali e sindacali già esistenti: “noi in qualche modo cerchiamo di fare da mediatori con le istituzioni […] offriamo consulenza e informazione ai lavoratori precari, orientandoli verso i sindacati quando serve […] non vogliamo sostituirci alle strutture di servizio già esistenti sul territorio […] semplicemente tentiamo di facilitare l’inserimento lavorativo e sociale delle persone in difficoltà, indirizzandole dove possono essere aiutate”. Il taglio dell’iniziativa sembra quindi alquanto pratico. I militanti del centro agiscono come degli operatori di un servizio per l’impiego, pur di offrire soluzioni concrete a coloro che versano in condizioni di disagio: l’assegnazione degli alloggi popolari, gli assegni familiari, i corsi di formazione professionale, il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria di base, la difesa contrattuale. Il welfare mix locale assicura un minimo di copertura rispetto a questi fabbisogni. Dunque, in prima battuta, Sonia e gli altri “compagni” si rivolgono ai servizi socio-assistenziali e agli sportelli sindacali, almeno per far fronte alle necessità più immediate dei soggetti emarginati. Malgrado ciò, l’intervistata è consapevole che oggi “i precari” sono tagliati fuori dai diritti canonici della cittadinanza : “gli immigrati, i lavoratori atipici non riescono ad uscire da una condizione di privazione dei diritti sindacali fondamentali”. C’è quindi un deficit di rappresentanza e di tutela. Un vuoto che non può essere colmato con la strategia “morbida” della mediazione istituzionale. Così, la giovane bresciana abbandona l’aplomb utilizzato in precedenza, tornando a vestire i panni di un attivista radicale: “bisogna protestare, denunciare le omissioni e le iniquità […] creare dei momenti di contestazione nei centri commerciali o nei call center, dove di solito i lavoratori a progetto subiscono abusi da parte dei datori di lavoro”. In alcuni casi, lo scontro frontale è l’unica via 92 4. Il contrasto percorribile, anche perché i cosiddetti “flessibili” sono incerti sul da farsi quando si tratta di difendere i propri diritti; perciò la protesta può scuoterli dal loro stato di torpore: “una volta abbiamo fatto un’azione dimostrativa in un cinema multisala di Brescia, dove c’era una situazione di sfruttamento […] i lavoratori volevano muoversi, ma erano ancora indecisi […] la nostra protesta ha incoraggiato queste persone, gli ha dato quasi una scossa”. Sonia si propone, pertanto, di dare una sponda ai “nuovi esclusi”, scendendo in campo al loro fianco quando vengono sottoposti a prevaricazioni di varia natura. Le forme della protesta sono mutevoli: marce, boicottaggi, sit-in, ecc; molto dipende dal tipo di vessazione e dall’interlocutore (il datore di lavoro); bisogna, soprattutto, evitare che il lavoratore si esponga troppo durante la rivendicazione, perché quest’ultimo potrebbe perdere l’impiego, non potendo contare sulle tutele di un contratto a tempo indeterminato: “è necessario intervenire senza mettere a rischio una posizione lavorativa di per sé instabile”. Non si possono, perciò, utilizzare gli usuali strumenti di pressione sindacale: le vertenze, la contrattazione, gli scioperi autorizzati. Si è quasi costretti a far di necessità virtù, se si vuole difendere l’underclass urbana. Di qui il ricorso ad una ampia gamma di lotte fluide, decentrate, per sopperire alle privazioni a cui vanno incontro i lavoratori più vulnerabili. Nel mirino di Sonia non finiscono solo quei contesti lavorativi che penalizzano le persone; anche i responsabili dei servizi socio-assistenziali possono essere contestati, specie se contribuiscono a peggiorare il destino dei meno abbienti, ponendo ostacoli alla loro integrazione sociale: “di fronte agli sfratti dei poveri dalle case popolari o alla ghettizzazione dei bambini rom, che di fatto non accedono alla scolarizzazione, noi non ci limitiamo a tamponare il problema, denunciamo pubblicamente le responsabilità dei funzionari e dei dirigenti dei servizi sociali; andiamo alla radice del male”. La protesta non risparmia nessuno quando è in gioco la travagliata esistenza dei “senza diritto”. La volontaria di Brescia è in uno stato di tensione permanente: intercetta i bisogni sul territorio; cerca anche il compromesso con le istituzioni locali, se questo può contribuire alla causa; tuttavia, la strategia felpata (la collaborazione con il 93 4. Il contrasto mondo politico e sindacale) spesso si dimostra fallimentare, soprattutto quando si difendono i “diritti negati” degli outsider. Allora (quando non si può andare tanto per il sottile) subentra il contrasto sociale, attingendo da un registro versatile di atteggiamenti e comportamenti (idealismo, pragmatismo ed antagonismo). La resistenza attiva è, in ultima analisi, proteiforme, perché nella modernità avanzata anche il disagio estremo diventa cangiante. Se si vuole combattere in prima linea, accanto ai “nuovi paria” del proletariato urbano o al fianco di una comunità assediata dal pericolo dell’amianto, si deve necessariamente apprendere l’arte dell’equilibrismo: le lotte si sono trasferite nella dimensione impalpabile del quotidiano, per questo bisogna saper dosare immaginazione, concretezza e conflittualità. In linea generale Sonia e Fausto (come gli altri intervistati – si veda la nota 4) applicano una delle ricette più in voga nel movimento no-global: “agire nel locale, pensando in modo globale”. Il punto è che questo pensiero lascia ampi margini di libertà; non si tratta, infatti, di un’impalcatura ideologica; ma di un copione culturale aperto, dove ciascuno può scrivere la sua storia di attivista, non cedendo mai alla tentazione di accettare l’ordine esistente. Anche per questo si afferma una visione poco ortodossa della militanza: una resistenza praticata nelle desolanti periferie della società globale, perché è lì che riappare l’ingiustizia planetaria, tra i volti sommessi di un’umanità che non ha voce né diritti. 4.4 Uniti per che cosa? Finora si è compreso che anche l’impegno nel sociale può assumere toni vigorosi; in genere questo avviene quando il volontario si confronta con situazioni “estreme”: ambiti e contesti dove i sintomi del disagio si inaspriscono al punto tale da richiedere una risposta risoluta e combattiva (una re-azione di contrasto appunto). La mobilitazione però rimane sottotraccia perché si opera in quei “territori di frontiera” che, solo di rado, filtrano nell’immaginario collettivo o entrano a far parte dell’agenda della politica. Da questo punto di vista, non è agevole praticare la resistenza attiva o dar seguito ad una rivolta 94 4. Il contrasto morale: si rischia sempre di lottare contro i mulini a vento, qualora si voglia sfidare l’ordine esistente, addentrandosi negli interstizi dell’emarginazione. Il motivo per cui ci si attiva può essere giusto e condivisibile; ma non si dispone degli strumenti necessari per influenzare l’opinione pubblica e i decisori politici. Dunque, l’unica strategia percorribile è quella di rinserrare le fila, cementando il legame con chi condivide la stessa causa. In tale prospettiva, il contrasto è di per sé una pratica di gruppo. In effetti, gli intervistati sembrano assai propensi a riconoscere questo aspetto. I giovani dei centri sociali (e lo stesso Fausto) sentono ormai di appartenere ad un sodalizio fra giovani impegnati: “in questi due anni siamo riusciti a fare tutti insieme un’esperienza avvincente di socialità; abbiamo condiviso molto (l’occupazione, lo sgombero, le assemblee, la volontà di rifare la politica e la società dal basso) […] e oggi ci sentiamo delle persone accomunate dallo stesso impegno sociale (Tiziano)”; “quando ti mobiliti è fondamentale l’aggregazione che si crea con persone che senti vicine nel modo di pensare e di agire […] con loro poi allacci dei rapporti di amicizia (Fausto)”; “il nostro gruppo ha una sensibilità collettiva e questo ci aiuta nei momenti critici […] quando, ad esempio, ricevi una denuncia penale per un atto di disobbedienza civile (Alex)”; “questo è un centro dove si costruiscono insieme le iniziative […] facciamo le assemblee e definiamo obiettivi comuni […] alle volte ci dividiamo sul da farsi, ma poi sulle questioni importanti troviamo sempre una sintonia di fondo (Sonia)”. Il gruppo quindi vuol dire molte cose: reciprocità (il mutuo sostegno); socialità (la possibilità di aggregarsi e di tessere legami amicali); comunanza (la sintonia sugli obiettivi dell’azione di contrasto); e via discorrendo. In sostanza si agisce insieme, percependosi come un collettivo solidale. In tal modo, l’attivismo viene declinato al plurale: “condividiamo; combattiamo; costruiamo”. I verbi della resistenza attiva hanno un soggetto definito: il “noi”. Senza di esso sarebbe difficile fare i lillipuziani o dissentire in modo aspro con gli interlocutori politici ed istituzionali. Nel caso della rivolta morale, la dimensione di gruppo assume una valenza differente, sebbene rivesta sempre un’importanza decisiva. Mario ritiene che essere in trenta è essenziale, soprattutto se si vuole dar corpo ad una presenza 95 4. Il contrasto visibile nel quartiere: “A S. Cristoforo siamo trenta operatori volontari […] è importante svolgere questa attività in gruppo perché, senza questa presenza collettiva, non si riuscirebbe ad abitare il quartiere, a dare l’impressione che noi i residenti di questo luogo martoriato non li abbandoniamo al loro destino”; Rita esprime un concetto simile quando dice che “ è basilare avere un gruppo di volontari come noi in una realtà come lo Zen […] così diamo un segno tangibile della lotta contro l’occupazione mafiosa”. Manuela pensa che sia fondamentale agire in un comitato popolare, perché questa formula associativa stimola la partecipazione dei cittadini nel territorio: “il mio comitato, come altri, ha una funzione positiva in quanto sprona le persone ad intraprendere un’attività sociale e politica partecipata […]”. Anna sottolinea che, sin dal principio, la sua associazione informale si è basata su un principio semplice (l’unione fa la forza): “abbiamo deciso di chiamare l’associazione Sinergia, che significa unione, forza, perché solo stando uniti (e collaborando) si può riuscire a fare qualcosa di utile in un quartiere come S. Paolo”. Paolo, infine, considera la rete antiracket come l’unica sponda a cui possono aggrapparsi i commercianti: “le associazioni antiracket sono importantissime perché servono a non far sentir soli quegli esercenti che subiscono l’intimidazione dei mafiosi”. Al di là delle differenze, per questi intervistati il gruppo è principalmente uno strumento: un fattore di visibilità sul territorio (Rita e Mario); un veicolo di partecipazione democratica (Manuela); un’ancora di salvezza per evitare una condizione di isolamento ambientale (Paolo); l’unione per raggiungere un risultato (Anna). Si delinea, pertanto, una distinzione significativa tra la rivolta morale e la resistenza attiva; entrambe sono pratiche che fanno leva sul gruppo, salvo attribuire ad esso due significati non sovrapponibili: nel primo caso il sodalizio assume una funzione strumentale (un mezzo per raggiungere un fine); nel secondo diventa, invece, una fonte di espressività e di socialità. Tale difformità potrebbe essere spiegata con un argomento abbastanza persuasivo; in ultima analisi, i “resistenti” sono tutti giovanissimi o giovani-adulti; è risaputo che, in questa fase della biografia individuale, l’impegno tenda a collimare con il bisogno di socializzazione: la transizione verso i ruoli adulti è 96 4. Il contrasto d’altronde costellata dalla ricerca del legame sociale, in primis nel gruppo dei pari. A ben vedere, anche le forme più “militanti” di partecipazione civica sono percorse da motivazioni quali la volontà di aggregazione, il desiderio di intessere relazioni amicali, la necessità di costruire una comunione d’intenti con i propri coetanei. In breve, il gruppo diventa una chiave di volta per schiudersi un orizzonte di possibilità partecipative. Questo tipo di coinvolgimento si indebolisce col passare degli anni. Di qui il maggiore pragmatismo dei volontari dediti alla rivolta morale: essi sono adulti e, quindi, meno inclini a lasciarsi trasportare dall’onda della socialità, se non altro perché hanno vissuto qualcosa di simile durante la loro gioventù, ritenendola ormai una vicenda conclusa, verso la quale si può nutrire tutt’al più un sentimento di nostalgia; oppure perché non hanno partecipato alla stagione partecipativa dei movimenti, quando frequentavano le scuole superiori o l’università. L’atteggiamento verso il gruppo è comunque più disincantato: il comitato o l’associazione informale diventano dei veicoli per rinforzare una reazione personale. Sotto questo profilo, la dinamica della rivolta ha una sequenza ben definita: prima ci si lascia guidare dal tumulto della propria coscienza (l’indignazione morale); poi, una volta usciti allo scoperto come individui, si cerca una consonanza con altre persone animate da un’analoga professione di civismo. Dunque, il sodalizio non può che essere funzionale a tale ribellione intima; è per questo che nasce: per rinvigorire il rifiuto soggettivo nei confronti di una prevaricazione sociale; per alimentare una speranza di riscatto che non può essere coltivata operando in modo solitario. Uniti si può vincere una battaglia o, quanto meno, si combatte meglio. Note 1 Senza contare gli altri tentativi di incendio che sono stati sventati grazie ad un sistema di allarme particolarmente efficace. 2 La legge n. 44/1999 prevede un fondo a favore delle vittime del racket, delle estorsioni e dell’usura che decidono di rompere il muro dell’omertà, denunciando alle autorità giudiziarie i loro aggressori. 3 Fausto svolge il servizio civile in una bottega del commercio equo e solidale di Torino. Di qui il suo riferimento al fair trade nel passo citato dell’intervista. 97 4. Il contrasto 4 Nel corso dell’indagine si è avuto modo di intervistare quattro volontari che operano all’interno di centri sociali; di Sonia si parlerà diffusamente più avanti nel testo, sorvolando sull’esperienza degli altri tre intervistati. Peraltro, le vicende di Alex, Tiziano e Carola sono molto simili a quella di Sonia. Anche loro sono dei resistenti attivi con accenti che, talora, appaiono ancor più radicali. Alex, ad esempio, studia sociologia nell’Università di Trento, ma dedica gran parte del suo tempo a difendere i diritti degli immigrati senza casa. Egli li affianca nell’occupazione di alloggi abbandonati ed è in prima fila quando si tratta di compiere delle azioni dimostrative (boicottaggi e altre forme di disobbedienza civile) per spingere le autorità comunali ad adottare una politica più “accogliente” nei confronti di questi stranieri. Parlando del suo impegno, si definisce “un operatore di strada” che vuole combattere contro la segregazione sociale degli immigrati. Le denunce penali, che già gli sono state comminate, non lo fanno esitare più di tanto. Un resistente come lui non arretra di fronte allo spauracchio del carcere, perché è convinto di combattere per una causa giusta e condivisa: “la repressione della protesta non ferma le nostre iniziative sociali, che raccolgono un consenso popolare crescente, essendo sacrosante; tutt’al più le denunce possono bloccare i singoli attivisti, ma questo è un rischio da mettere in conto”. Tiziano, anch’egli attivo a Trento, mostra un atteggiamento analogo, quando descrive le sue lotte quotidiane contro le ricadute della legge “BossiFini”. Così, un provvedimento da lui considerato intollerante (se non razzista), lo induce a superare la soglia della legalità: “il contrasto nasce da una legge che ha evidenti accenti razzisti (la Bossi-Fini) […] abbiamo fatto un patto fra noi attivisti del centro […] abbiamo nascosto persone che non avevano il permesso di soggiorno […] abbiamo boicottato con tutte le nostre forze i Centri di Permanenza Temporanea presenti sul territorio”. Il tutto per aiutare persone e famiglie che versano in uno stato di indigenza. Carola sottolinea che lei non fa attività di volontariato socio-assistenziale: “quando arriva lo straniero impoverito non gli do solo le coperte e un pezzo di pane […] non lo tratto come il povero migrante […] certo lo assisto se serve, ma gli offro anche gli strumenti per emanciparsi dalla sua condizione di svantaggio […] i corsi di lingua italiana servono a questo […] dopo spero che in lui si accenda la scintilla […] la capacità di comprendere la sua ingiusta collocazione nella società e di reagire, rivendicando i suoi diritti”. In sintesi, per Carola bisogna fuoriuscire da un modello caritativo del volontariato; il suo attivismo vuole sì creare un legame con i soggetti del disagio; ma tale relazione deve essere incisiva dal punto di vista sociale, perché deve comunque contribuire ad un cambiamento (ad una rottura) dell’ordine esistente. 98 5. L’iniziazione 5 L’iniziazione 5.1 Esploratori o missionari? La pratica dell’iniziazione è tutt’altro che lineare; in questa forma embrionale di volontariato si possono, infatti, intravedere diverse motivazioni individuali che, tra l’altro, sono per loro natura mutevoli nel tempo e, perciò, provvisorie. Diventa così arduo stabilire chi siano (e cosa vogliano realmente) coloro che si cimentano in questo genere di attività volontaria: si tratta di indomiti esploratori, che desiderano solo andare alla scoperta di culture e persone a loro ignote? Oppure, si è in presenza di “aspiranti missionari”, che si spostano laddove il bisogno si incrudisce, per portare conforto e aiuto all’umanità sofferente? Non è semplice sciogliere il dilemma. Forse, tutto dipende dal fatto che l’impegno di questi giovani intervistati si compie nella sfera “catartica” del viaggio; una dimensione esistenziale di per sé fluida, che mal si presta a spiegazioni univoche: il viaggio è un’esperienza variegata, polisemica, colorata nelle emozioni, foriera di innovazioni come di tradizione, profondamente personale e mai assolutamente individuale […] la scelta di un luogo, come l’emozione di un mezzo; il rifugio dalle difficoltà ma anche la scoperta dell’avventura; il miglior sinonimo di conoscenza e istruzione, ma anche la dimensione principale del pellegrinaggio e della missione spirituale. Insomma, capire cos’è il viaggio è un po’ come viaggiare (Iannone, 2005, p. 110). Conviene allora raccogliere questo invito a fare un viaggio nel viaggio: seguire le tracce dei protagonisti dell’iniziazione senza ipotesi di lavoro precostituite; accompagnarli nella circolarità di un’esperienza che rimane sempre in bilico tra solidarietà e apprendimento, tra la spontaneità del gesto d’aiuto e la necessità di acquisire informazioni di prima mano sul mondo circostante. Quindi è opportuno assumere il punto di vista di questi volontari “itineranti”, evitando accuratamente di anticipare alcunché sul loro modo di operare e di pensare. Si può solo prendere le mosse da un’evidenza preliminare: questi giovani non si lasciano attrarre più di tanto dalle mete esotiche del turismo di massa, o dalle cattedrali del divertimento che 99 5. L’iniziazione affollano le coste della nostra Penisola; piuttosto, nei periodi di vacanza (in prevalenza l’estate), essi decidono di soggiornare in campi di lavoro volontario, peraltro senza avere particolari legami con le associazioni che li organizzano; non comprano un last minute per Ibiza o per Sharm el Sheik; preferiscono andare in Africa, per partecipare ad un programma di educazione sessuale, rivolto alle popolazioni locali falcidiate dal virus dell’Aids; o scelgono di trattenersi in una comunità di recupero per tossicodipendenti, dislocata in una piccolo centro montano piemontese. Insomma, contesti sociali e territori dove è arduo crogiolarsi in qualche passatempo frivolo. Prima di accodarsi a questi inediti itinerari nei luoghi del disagio e della speranza, è necessario fornire qualche notizia sommaria su chi se ne rende artefice. I viaggiatori sono quattro e nient’affatto simili. L’unica cosa che li unisce è la comune condizione studentesca; il che è un indizio non trascurabile: in effetti, l’iniziazione si sviluppa in una fase biografica antecedente all’assunzione dei ruoli adulti. Ma su questo aspetto si avrà modo di tornare più avanti. Per ora è sufficiente limitarsi ad un breve presentazione degli intervistati. Consuelo è una ragazza di 22 anni che vive a Caserta, assieme ai genitori; si appresta a tagliare il traguardo della laurea, avendo seguito un indirizzo di studi molto originale: lingue e culture comparate presso l’Università Orientale di Napoli, con una predilezione particolare per la civiltà swahili. Oltre ad essere particolarmente attiva sul piano culturale, la giovane campana è un tipo “solare”, con una cerchia molto larga di amici e conoscenti. Consuelo ha, inoltre, la valigia sempre pronta; sostiene di essere “figlia del mondo”, non disdegnando le capitali della globalizzazione (New York e Londra); ma il suo chiodo fisso è l’Africa Sub-Sahariana. Anche Giovanni ha 22 anni; questo giovane vive a Roma, dove frequenta la facoltà di giurisprudenza. Nonostante i modi garbati (a tratti quasi impacciati), egli è una persona piuttosto determinata: passa la maggior parte del tempo chino sui tomi di diritto, per fare (un domani) l’avvocato; tuttavia, appena può, scambia dei servizi gratuiti avvalendosi della “banca del tempo” comunale: talvolta insegna la lingua italiana ad una ragazza di Bonn che, a sua volta, lo erudisce nell’idioma tedesco. Per il 100 5. L’iniziazione resto, Giovanni si divide fra le amicizie e una passione alquanto spiccata per la narrativa. Alberto non è più un giovanissimo (29 anni); malgrado ciò non ha ancora raggiunto la laurea. Del resto, diventare biologo non è semplice; bisogna prima passare per le “forche caudine” di alcuni esami estenuanti, tra cui embriologia, fisiologia comparata e microbiologia cellulare. Insomma, materie ostiche che richiedono uno sforzo prolungato per tentare di impadronirsi dei codici astrusi delle scienze della vita; il che aumenta la probabilità di rimanere a lungo nei corridoi dell’Università. Ad Alberto manca comunque solo un esame. Nel frattempo, si dà da fare, svolgendo dei lavori stagionali nel ramo delle vendite. Nel tempo che gli rimane suona con una band nei locali della provincia di Arezzo. Non da ultimo – come tanti altri coetanei che vivono nelle “regioni rosse” – partecipa alle attività di un’associazione civica che si occupa, in particolare, di rifugiati politici e profughi di guerra. Infine, Caterina ha 25 anni. Anche lei è sul punto di concludere gli studi universitari a Roma, dove vive con il nucleo familiare d’origine: le mancano pochi esami per laurearsi in filosofia. Vorrebbe scrivere una tesi sui teologi eretici, forse perché la sue profonde convinzioni religiose non si conciliano completamente con la dottrina ufficiale della Chiesa. In ogni caso, frequenta con assiduità gli incontri della preghiera organizzati dal movimento dei focolari. La sensibilità di questa ragazza taciturna non si esaurisce, tuttavia, nella spiritualità e nel trascendente; nel privato, custodisce gelosamente un interesse per la pittura, al punto che si è iscritta ad un corso d’arte che la tiene impegnata per circa nove ore alla settimana. Dunque, questo è un profilo assai succinto degli stili di vita di Consuelo, Giovanni, Alberto e Caterina. Non resta che “pedinarli” mentre si avvicinano al “continente poliedrico del bisogno”. In definitiva, si deve soltanto rimanere fedeli ai loro racconti; difatti, tali narrazioni offrono un quadro minuzioso di un’esperienza che, agli occhi degli intervistati, è stata estremamente formativa. E’ necessario, tuttavia, procedere con ordine: spesso i loro discorsi si confondono, giacché non è facile ricostruire un processo complesso come l’iniziazione, essendo quest’ultimo depositario di una vicenda personale intricata. In tal senso, può essere proficuo utilizzare la scansione tipica di un 101 5. L’iniziazione viaggio: gli eventi preparatori e la partenza; l’arrivo e la permanenza nella meta di destinazione; il rientro a casa. 5.2 Verso un “altrove” sconosciuto I campi di volontariato internazionale non sono una novità; da svariati decenni, diversi enti (partiti, sindacati, associazioni civiche) svolgono un’azione di facilitazione nei confronti delle aree depresse del mondo. Nel passato recente queste organizzazioni hanno mobilitato i loro militanti o simpatizzanti per realizzare attività umanitarie in una molteplicità di paesi poveri; ad esempio, la Cgil e l’ex Pci hanno inviato i loro tesserati a Cuba, in Nicaragua, in Angola o ancora in Palestina, per aiutare le popolazioni locali nella coltivazione agricola e nella costruzione di infrastrutture di base. Ma anche sul fronte cattolico si predisponevano iniziative analoghe, grazie al protagonismo delle associazioni e dei movimenti di ispirazione cristiana. Capitava, così, che una persona vicina alla subcultura “rossa” o “bianca” svolgesse una sorta di tirocinio volontario all’estero, partecipando a progetti di solidarietà in loco, sviluppati perlopiù nella stagione estiva. Si deve aggiungere che tale periodo di formazione, sebbene fosse basato su impegni molto concreti (costruire una scuola o seminare il grano), era anche un modo per riconoscersi in una visione del mondo distinta: i valori di un attivista di sinistra o l’etica di un credente impegnato nel sociale. Più di recente, dagli anni ottanta in poi, un nuovo soggetto ha occupato stabilmente la scena degli aiuti internazionali: la filiera composita di Organizzazioni Non Governative (ONG) e associazioni che operano nel settore della cooperazione allo sviluppo. Questi attori della società civile hanno acquisito un ruolo di primo piano nell’ambito dei più importanti programmi di lotta contro la malnutrizione o contro la mortalità infantile. Col trascorrere del tempo, le ONG hanno accumulato competenze invidiabili, facendo maturare nel proprio alveo una nuova generazione di cooperatori. Oggi, questi intraprendenti “pontieri” fra il Nord e il Sud del mondo, vengono da più parti considerati una risorsa insostituibile per combattere la povertà globale. 102 5. L’iniziazione In fin dei conti, la rete delle ONG si è specializzata nel ramo degli interventi umanitari. Le sigle di Amref, Focsiv ed Emergency (solo per citare alcuni esempi noti) sono ormai diventate un punto di riferimento per una parte consistente dell’opinione pubblica. Non sorprende, dunque, che chi vuole sperimentarsi in un’attività socialmente utile in Africa, nell’Europa dell’Est o in America latina si rivolga a questi enti. Consuelo, Giovanni e Alberto hanno optato per questo canale organizzativo, volendo inseguire un sogno alquanto ardito: mettersi alla prova in un campo di volontariato internazionale. Il punto è che essi non assomigliano ai loro predecessori: gli attivisti di sinistra e i credenti impegnati, che sacrificavano le loro vacanze mettendole al servizio degli ideali di una subcultura d’appartenenza. Questi giovani non si identificano, difatti, nelle ONG che promuovono il campo; al contrario, le concepiscono come un mezzo per raggiungere un fine: andare all’estero per saggiare una realtà nuova e problematica. Questo aspetto emerge con chiarezza quando gli intervistati descrivono il loro legame con tali associazioni: “i miei rapporti con Lunaria sono marginali […] ricevo periodicamente le loro email, dove riassumono idee e programmi […] ma la mia vita è dedicata ad altre cose […] studio, suono e faccio qualche lavoretto occasionale […] è ovvio che non si creino molti punti di contatto tra me e l’associazione (Alberto)”; “non ho relazioni particolari con l’Oikos […] in effetti quando sono andata in Tanzania l’ho fatto da sola (Consuelo)”; “ i miei legami con l’ONG sono molto limitati, consulto la loro banca dati per vedere se c’è un posto disponibile nel campo estivo e, nel caso, li sento telefonicamente per dare la mia adesione. Tutto qui (Giovanni)”. Per comprendere questo atteggiamento di apparente distacco (se non di indifferenza) bisogna fare un passo indietro, tornando al momento nel quale gli intervistati hanno deciso di intraprendere l’esperienza di volontariato internazionale. In quel frangente, essi hanno di sicuro compiuto una scelta autonoma, concependo il loro futuro impegno come un’avventura solitaria. Non diversamente dai turisti che hanno in tasca la guida della Lonely Planet o che viaggiano con “Avventure nel mondo”, i nostri volontari hanno preparato la loro partenza con uno spirito 103 5. L’iniziazione assolutamente libero, mettendo in conto le insidie di un’esperienza di cui (in principio) conoscevano poco o nulla. Certo, quando un turista progetta un’incursione nel deserto o nella giungla tropicale, può sempre attingere dalla copiosa letteratura da viaggio in vendita nelle librerie, emulando le gesta di qualche spericolato esploratore che si è già arrischiato nei luoghi più impervi del globo. Invece, nel caso del volontariato, tali testimonianze (qualora esistano) circolano al massimo fra gli addetti ai lavori, il più delle volte attraverso racconti orali. Quindi, per preparare un “viaggio della solidarietà”, si è quasi costretti ad arrangiarsi, esibendo una buona dose di iniziativa e di creatività. E’ quanto hanno fatto i giovani intervistati, quando hanno deciso di partire per la prima volta. Caterina voleva imprimere una svolta alla sua vita, per fugare una depressione incipiente: “da qualche mese mi sentivo depressa, così un giorno, all'improvviso, mi sono detta che valeva la pena di spendere un’estate in modo diverso; invece di stare sola, a passare dei pomeriggi interminabili sul divano, ho pensato di fare qualcosa di utile per gli altri”. A dispetto di quel pensiero fulmineo, la ragazza non è stata avventata; prima di scegliere una soluzione adatta alla sue esigenze, ha passato al setaccio diverse alternative: “ho navigato a lungo su Internet cercando varie associazioni che facessero al mio caso […] detto sinceramente i siti telematici di molte ONG non mi sembravano molto seri […] poi mi sono imbattuta nell’associazione Emmaus; nella home page ho letto un comunicato che mi ha colpito molto: noi recuperiamo materiale usato e vite usate; se non sai che fare della tua vita dona un po’ del tuo tempo a noi, impegnandoti in un’attività utile per gli altri. Quelle parole sembravano fatte apposta per una persona come me, che cercava in quel momento di mettere ordine nella sua vita facendo qualcosa di positivo”. Caterina è dunque entrata in sintonia con un messaggio di speranza, per gli Altri e per sé stessa; la metafora del recupero delle vite usate ha destato una forte impressione nel suo animo malinconico: cercava una via d’uscita e, alla fine, l’ha trovata. Ma non si è trattato della prima scappatoia a portata di mano, avendo vagliato e scartato diversi programmi di volontariato all’estero. Dopo questo screening preliminare, ha ritenuto (a torto o a ragione), che un mese di vita comunitaria a Boves 104 5. L’iniziazione (Cuneo) potesse giovarle. Così ha alzato la cornetta del telefono, comunicando al responsabile dell’associazione che avrebbe preso volentieri parte al campo di lavoro. Quest’ultimo ha assentito e, in men che non si dica, la studentessa romana si è proiettata in una realtà che ignorava quasi del tutto: dieci ex alcolisti che vivevano insieme in una casa-famiglia, riciclando faticosamente gli oggetti usati, oltre che se stessi. Sul treno, a pochi chilometri da Cuneo, Caterina ancora non sapeva nulla della comunità di Boves. Tuttavia, di lì a poco, l’avrebbe scoperto. Anche Consuelo ha passato diverse ore davanti allo schermo del computer, sperando di scovare un programma di volontariato che potesse soddisfarla. Alla fine si è rivolta all’associazione Oikos di Roma, che aveva messo in cantiere alcune attività sociali a Bagamoyo, in Tanzania. L’idea l’allettava, poiché le consentiva di realizzare un progetto coltivato a lungo: addentrarsi nel cono sud del continente africano, laddove dimorano le tribù swahili; in sostanza, l’intervistata voleva raggiungere quella civiltà lontana, di cui aveva sentito parlare solo nei testi universitari. Non le bastavano più le analisi dotte dei cattedratici; intendeva recarsi sul posto, per conoscere direttamente i volti e le vicende dell’Africa profonda. Eppure l’itinerario non era fissato una volta per tutte nella sua mente: “mi sono avvicinata a questa esperienza in modo aperto e libero; per me era come leggere un nuovo libro, ben diverso da un saggio storico o letterario: non sapevo cosa mi aspettava […]”. In questo brano d’intervista, ritorna dunque il tema dell’incognita: anche la giovane di Caserta è partita senza sapere bene dove sarebbe approdata, come un esploratore che si accinge a varcare le colonne d’Ercole, non senza essere munito di una buona dose di incoscienza; senza dubbio, tale atteggiamento disinvolto l’ha aiutata nelle tappe successive del viaggio; infatti, una volta giunta in Tanzania, ha dovuto affrontare molti imprevisti, sin dall’arrivo nell’aeroporto di Dar es Salaam: ad attenderla non c’era nessuno, malgrado le rassicurazioni che le erano state date dai dirigenti dell’Oikos. Ma Consuelo, dopo una comprensibile sensazione di smarrimento per quello spiacevole disguido organizzativo, non si è scomposta più di tanto, proseguendo il suo viaggio alla 105 5. L’iniziazione stregua di un viaggiatore ottocentesco (si veda il prossimo paragrafo). Il discorso non cambia di molto se si analizzano le partenze di Alberto e Giovanni; anch’essi si sono attivati individualmente, facendo una cernita tra differenti campi di volontariato all’estero. Lo studente aretino, ad esempio, si è interrogato per settimane tentando di capire quale fosse la soluzione migliore; poi si è ricordato che un suo amico aveva partecipato ad esperienze analoghe; perciò, si è consultato con lui prima di arrivare alla risoluzione finale: un soggiorno in Spagna, in un paesino alquanto isolato a circa settanta chilometri da Madrid; il tutto per ristrutturare dei vagoni ferroviari, adibendoli a parco divertimento per quei bambini spagnoli che provengono da famiglie del ceto sociale medio-basso. Giovanni, invece, si è recato presso gli uffici dell’Informagiovani del Comune di Roma, ottenendo una lista di associazioni papabili; in seguito, attraverso una serie di controlli incrociati su Internet, è addivenuto alla sua scelta: tre settimane di attività di animazione ludica, vicino a Stoccarda, in una colonia estiva per i figli della classe operaia. Molte sono, inoltre, le analogie nel modo di concepire la partenza. Alberto e Giovanni – come le altre due volontarie – hanno avvertito l’alea dell’incertezza nell’imminenza del viaggio all’estero; nondimeno, ad un certo punto hanno rotto gli indugi, pensando che era giunto il momento di sperimentarsi in un’esperienza del tutto inedita: “non nascondo che all’inizio ero abbastanza timoroso, ignoravo a cosa andavo incontro in Spagna; ma alla fine ho deciso di lasciarmi trascinare da un’esperienza che per me era del tutto nuova (Alberto)”; all’inizio avevo molti dubbi […] non sapevo bene cosa sarebbe accaduto a Stoccarda, poi mi sono detto che era giusto provare (Giovanni)”. Dunque, vi è un filo conduttore nelle narrazioni degli artefici dell’iniziazione; ovvero l’aver scelto in modo indipendente la meta di destinazione, selezionando un percorso di volontariato che fosse adatto alle esigenze del momento: il bisogno di rendersi utili (Caterina); uno scambio autentico con una popolazione conosciuta solo nei libri (Consuelo); o, semplicemente, la voglia di mettersi alla prova facendo qualcosa di nuovo (Alberto e Giovanni). Queste erano le motivazioni 106 5. L’iniziazione degli intervistati mentre si accingevano a partire, senza nascondere la loro volontà di misurarsi con l’ignoto. Si tratta ora di continuare il viaggio, osservandoli in azione nei rispettivi campi di volontariato. 5.3 Cronache di viaggio L’avventura dei giovani comincia quando questi ultimi giungono sul posto, immergendosi nelle situazioni sociali in cui dovranno prestare aiuto. In tal senso, l’arrivo sancisce una sorta di rituale di passaggio: non si è più dinnanzi ad una proiezione del desiderio di scoperta o del bisogno di sentirsi utili. La realtà supera l’immaginazione; adesso il campo di volontariato è a portata di mano; si entra così a far parte di un gruppo di lavoro che deve comunque raggiungere degli obiettivi concreti. Per la verità, in alcuni casi, molto viene lasciato alla capacità di improvvisazione dei partecipanti: “la prima settimana abbiamo predisposto da soli i giochi, ci siamo divisi in gruppi […] ciascuno dei volontari ha scelto il tipo di attività che avrebbe svolto con i bambini le due settimane successive […] sport, arte, teatro, giardinaggio, ecc. (Giovanni)”; “quando sono arrivata a Bagamoyo ho incontrato, a mia insaputa, cinque volontari italiani […] il campo non era pronto, non c’erano neppure i letti dove noi avremmo dovuto dormire […] quindi abbiamo dovuto autogestirci, siamo andati da soli a parlare con i presidi delle scuole elementari, medie e superiori […] abbiamo concordato con loro il programma di educazione sessuale e, poi, sono iniziati gli incontri con gli allievi, nel corso dei quali abbiamo spiegato loro l’importanza dei metodi contraccettivi in un paese dove la mortalità infantile per Aids è elevatissima (Consuelo)”. In altre circostanze, tuttavia, le regole sono più rigide e i compiti maggiormente definiti: “a Cuneo ho trovato tre volontarie […] ci hanno subito inserite nella vita comunitaria: otto ore di lavoro giornaliero, assieme alle persone che vivono in pianta stabile nella comunità (Costanza)”; “nel campo vicino a Madrid ci hanno impartito delle istruzioni precise su cosa avremmo fatto […] la nostra mansione era quella di ristrutturare dei vecchi vagoni ferroviari, facendoli diventare degli ambienti 107 5. L’iniziazione agibili; i responsabili del campo ci hanno detto che il nostro lavoro era diviso in tre fasi: scartavetrare le pareti interne dei vagoni; togliere il catrame sul tetto; e, solo alla fine, dipingerli (Alberto)”. Ad ogni modo, l’iniziazione è qualcosa in più dell’assolvimento di uno specifico compito nell’ambito di un programma prestabilito di volontariato; difatti, a prescindere dal grado di definizione dei ruoli e delle funzioni, i volontari si muovono con ampi margini di libertà. A ben vedere, il loro periodo di tirocinio volontario è frammentato e denso, essendo contraddistinto da tre processi complementari: la scoperta del contesto in cui si agisce; la sperimentazione di un modo nuovo di operare, ossia il coinvolgimento nell’attività volontaria, non senza avergli attribuito un significato particolare; la condivisione di legami con gli altri volontari o con i destinatari dei propri interventi sociali. Queste tre dimensioni s’intrecciano nel vissuto degli intervistati; per rendersene conto basta ascoltarli mentre richiamano alla mente gli episodi salienti della loro esperienza volontaria. Consuelo racconta del pellegrinaggio spontaneo che ha deciso di compiere in Tanzania, dopo aver terminato il lavoro di sensibilizzazione nelle scuole di Bagamoyo. Il suo taccuino da viaggio è gremito di ricordi1: “appena abbiamo finito l’attività nelle scuole, ci siamo inoltrati da soli nel paese, camminando a piedi per chilometri, sotto un sole infernale, o spostandoci con mezzi di trasporto dove si accalcano donne, vecchi e bambini […] siamo stati in un villaggio dell’entroterra tanzaniano, dove un missionario accoglie gli orfani e le famiglie senza tetto; abbiamo dato una mano per una settimana scoprendo cosa voglia dire soccorrere delle persone che vivono in modo gramo […] a Dar es Salaam ho osservato le donne e perfino i Masai prostituirsi, con una schiera nutrita di occidentali anziani che gli stavano attorno come degli avvoltoi; c’è inoltre molta criminalità e violenza nella capitale; la sera, quando si esce si prova una certa angoscia, perché spengono i lampioni, per risparmiare, anche questo particolare mi ha fatto riflettere […] e poi, ad Arusha, l’impatto è stato veramente forte, avevamo paura perché gli indigeni hanno un modo di relazionarsi apparentemente aggressivo, poi capisci che nella maggior parte dei casi sono ospitali; le popolazioni locali sono 108 5. L’iniziazione accoglienti; quel poco che hanno lo mettono a tua disposizione (metà è mio e metà e tuo). Insomma ho visto l’Africa da vicino […] le immagini delle persone che soffrono, ma anche la loro fierezza, la dignità, la ricca cultura e le tradizioni, la loro splendida lingua […] per fare volontariato è sufficiente trasferirsi da una località all’altra […] arrivi in un nuovo villaggio e incontri qualcuno che ha dei bisogni materiali inappagati, così ti rimbocchi le maniche […] ”. Il brano è significativo, sembra quasi di trovarsi di fronte ad un flusso inarrestabile della coscienza; fuori dal campo di Bagamoyo, Consuelo è stata investita da una molteplicità di stimoli che hanno esercitato un forte impatto sul suo immaginario giovanile: la povertà cronica dei villaggi dell’interno, la prostituzione e la violenza nella città; ma anche gli usi e i costumi di un popolo accogliente e generoso, benché le persone comuni possano apparire talvolta burbere o aggressive. In breve, proprio quello che la ragazza cercava: un contatto ravvicinato con l’Africa profonda per rendere più autentiche le sue cognizioni limitate (scolastiche) sulla civiltà swahili. Nondimeno, l’intervistata non ha soltanto “visto da vicino” un mondo che, in precedenza, non le apparteneva; mentre procedeva di luogo in luogo, ha preso parte alla vita locale, senza mai smettere di offrire un sostegno spontaneo alle persone bisognose che incontrava lungo il cammino. Sicché, nell’apprendistato itinerante di Consuelo (come per certi versi in quello di Giovanni e Alberto2) si può sicuramente leggere una dilatazione dell’esperienza soggettiva: un percorso di apprendimento sul campo, che non si risolve soltanto nella accumulazione di informazioni di prima mano su una realtà sociale assai lontana; difatti, la conoscenza dell’ignoto si salda con la ricerca di legami sociali e con la necessità di misurarsi con forme immediate di solidarietà. Caterina non è mai fuoriuscita dagli schemi ordinati della comunità di Boves; nel corso di questa prima attività volontaria, come in quelle successive3, si è conformata alla vita del campo: ha smontato i motori e gli involucri degli elettrodomestici usati, estraendo il ferro e l’alluminio; ha suddiviso con pazienza cumuli di carta, dando così avvio all’attività di riciclaggio; ha anche fatto il rigattiere, rastrellando qua è là mobili e oggetti vecchi. Sapeva che queste operazioni onerose e ripetitive 109 5. L’iniziazione servivano al sostentamento economico della comunità, oltre che a raccogliere dei fondi da inviare nei paesi in via di sviluppo. Tanto le bastava; ha offerto un sostegno fattivo a queste attività meritorie, adattandosi ai ritmi e alle consuetudini della vita comunitaria: un’alternanza scrupolosa fra il lavoro e i momenti di socializzazione; il rispetto di alcune norme basilari (discrezione, puntualità, gestione consensuale degli spazi, ecc.), che assicurano la convivenza in un ambiente difficile. Non è tuttavia agevole muoversi in una struttura di recupero terapeutico, specie per una giovane di vent’anni. Di solito, gli ex alcolisti svolgono diligentemente i loro compiti, accettando un regime di convenzioni e precetti, pur di spezzare la catena della dipendenza psicologica4. Il volontario che soggiorna temporaneamente in un ambito sociale del genere deve esibire una capacità non comune di adattamento; in fin dei conti, deve entrare in sintonia con l’esistenza sobria e predeterminata dei “comunitari”. Quindi, a differenza di Consuelo, Caterina ha agito in un contesto alquanto “ingessato”: l’attività di volontariato si inseriva in un ordine sociale praticamente impermeabile alle influenze esterne. Eppure, anche nel suo caso, emerge un’esperienza ad ampio spettro, dove le diverse componenti costitutive dell’iniziazione riaffiorano ancora una volta. E’ sufficiente prestar fede a quanto dice l’intervistata, quando accenna al periodo passato a Boves : “è stato un momento molto formativo per me […] si trattava di inserirsi nella vita di dieci uomini che vivono in modo frugale, tentando faticosamente di risolvere i loro problemi […] abbiamo lavorato a stretto contatto con loro […] ho imparato a coltivare dei rapporti umani con persone che versano in una situazione di disagio, rispettando i loro silenzi: molto spesso non avevano voglia di raccontare la propria storia; ho capito che, alle volte, bisogna saper attendere e, nel caso, ascoltare se e quando arriva il momento del dialogo spontaneo […] ho anche cominciato ad apprezzare il valore degli oggetti che vengono disprezzati da tutti, superando la logica consumistica del mercato, per cui un elettrodomestico o un complemento d’arredo non serve più a nulla quando invecchia o quando non è più di moda […] noi recuperavamo anche i fili di rame dei congegni elettrici […] poi mi sono abituata ad un altro modo di vivere: abitare insieme, condividendo quasi tutto, a partire dagli spazi ristretti […] 110 5. L’iniziazione sicuramente ho scoperto l’altro […] le persone possono avere delle situazioni terribili dietro alle spalle, ma non per questo sono così diverse da noi […] si può solo condividere a livello emotivo la loro sofferenza, mettendosi nei loro panni, assumendo il loro punto di vista […] una bella lezione di vita […]”. Come si vede, anche in uno spazio sociale “segregato”, si possono cogliere molte novità; nel breve volgere di un mese, Caterina ha esplorato nuove possibilità, confrontandosi con le dinamiche complesse del legame sociale: il coinvolgimento in un’attività di utilità collettiva (dare valore agli oggetti deprezzati, praticando una cultura della sobrietà); la condivisione di un ideale di comunione; l’attivazione di relazioni fondate su uno spirito collaborativo, senza escludere le tensioni derivanti dal fatto di dover coabitare sotto lo stesso tetto fra “diversi”. Ma, più di tutto, la ragazza ha scoperto l’altro: il disagio stampigliato nei volti corrugati delle persone che, per varie ragioni, sono cadute nella spirale dell’alcolismo. Oggi come oggi, la studentessa romana non arretrerebbe di fronte ai silenzi di un uomo che sta male, perché a Boves ha capito che non bisogna giudicare o cedere agli eccessi del pietismo. Ciascuno ha la sua storia e si deve ascoltarla attentamente prima di poter pensare di aiutare o soccorrere. Farsi carico della fragilità altrui vuol dire spartire l’emotività con il proprio interlocutore, immedesimandosi nella sua condizione personale. Caterina è consapevole di aver assimilato “una bella lezione di vita”. Qualcosa che non si apprende nelle aule universitarie o negli incontri di preghiera di un movimento religioso. A rivelarle l’arcano è stato un “viaggio sacrificato” nel perimetro chiuso di una comunità dove, oltre agli oggetti, si recuperano anche gli esseri umani. 5.4 Il rientro (o meglio) una transizione biografica Il ritorno a casa non è quasi mai un atto neutro. Per i viaggiatori di ogni epoca e condizione sociale il rientro nei ranghi della quotidianità è comunque foriero di conseguenze ambivalenti: da una parte, si interrompe lo stato di eccezionalità del viaggio5, dovendosi così riadattare al tran tran della vita di 111 5. L’iniziazione tutti i giorni; dall’altra, si integra il viaggio nel proprio vissuto, cercando di non disperdere i “momenti topici” di un’esperienza che può senza dubbio modificare gli atteggiamenti e i comportamenti di chi l’ha compiuta. In tale ottica, è proprio quest’ultimo aspetto del rientro a destare interesse, soprattutto se si intende esaminare gli effetti di una pratica informale come l’iniziazione. Più in particolare, occorre chiedersi se (e in che modo) la permanenza nei campi di volontariato abbia lasciato una scia tangibile nell’immaginario dei giovani intervistati. E’ perfino scontato sottolineare che tale questione possa essere affrontata da molteplici punti di vista: il cambiamento negli stili di vita; l’acquisizione di nuovi valori; l’attribuzione di significati complementari alla propria identità e quant’altro. Sennonché, volendo sondare queste dimensioni pur importanti del mutamento individuale, si rischia di scadere in letture oltremodo generiche e, quindi, fuorvianti. In sostanza, si è portati ad assegnare un “senso ultimo” all’immediatezza dell’esperienza soggettiva, dimenticando spesso che quest’ultima è situata in un contesto biografico specifico. Nel caso del volontariato giovanile questo genere di operazione può davvero essere controproducente. Non è mai sopita, ad esempio, la tentazione di spiegare il comportamento pro-sociale dei giovani, rispolverando discorsi alquanto effimeri sull’etica delle generazioni che si avvicendano nella società. Ci si abbandona così a confronti (a volte impietosi) con il passato recente. In tal modo, l’impegno degli studenti che hanno partecipato alla rivoluzione dei costumi del ’68 viene assunto come metro di giudizio per capire se le nuove leve della società siano altrettanto partecipative e idealiste. Il paragone è quasi sempre penalizzante per chi raccoglie il testimone di quella stagione turbolenta e creativa. I giovani di oggi vengono considerati a più riprese passivi, narcisisti, scettici, strumentali; insomma incapaci di (o poco propensi a) lottare per un mondo migliore; salvo poi enfatizzare (sopravvalutare) il civismo o l’altruismo di quella sparuta minoranza di loro che si impegna nel sociale. E’ bene quindi tenersi a debita distanza da queste generalizzazioni che sfociano, non di rado, in sterili esercizi di retorica sociologica. Si tratta di “volare basso”, ossia di rimanere aderenti al vissuto di Consuelo, Caterina, Giovanni e Alberto. 112 5. L’iniziazione Cosa è cambiato nella loro esistenza quando sono tornati dai campi di volontariato? Sono loro stessi ad offrire alcuni spunti significativi per rispondere a questa domanda, soprattutto laddove si soffermano sui loro progetti futuri. Consuelo dice di volersi spendere in prima persona per modificare lo stereotipo negativo secondo cui in Africa c’è soltanto miseria: “nella nostra società l’Africa filtra solo attraverso immagini di povertà e oppressione; eppure i paesi sub-sahariani sono la culla della civiltà dalla quale proveniamo anche noi […] la loro lingua, le loro tradizioni sono un patrimonio ricchissimo di conoscenze […] da noi quasi nessuno è al corrente della letteratura di quelle nazioni […] mi piacerebbe fare qualcosa per diffondere questo patrimonio culturale in Italia”. Ciò non esclude che la ragazza voglia tornare in Tanzania, per partecipare ad un programma di istruzione a favore di donne e bambini. Giovanni è pronto a rifare le valigie nuovamente, magari per partecipare ad un campo di volontariato più impegnativo, occupandosi di disabili o della salvaguardia dell’ambiente: “vorrei sicuramente ripetere l’esperienza facendo qualcosa di ancora più coinvolgente dal punto di vista sociale […] lavorare con i disabili o recuperare zone e territori particolarmente degradati sotto il profilo ambientale”. Alberto pensa di essere maturo per un salto di qualità; finora si è impegnato in attività di routine nei campi di lavoro europei (ristrutturazioni edili, manutenzione di boschi, ecc.), dove tutto sommato non ci si confronta con le emergenze umanitarie; nondimeno, un domani non tanto lontano, vedrebbe di buon occhio un suo coinvolgimento in progetti di sviluppo in Africa: “non nascondo che in futuro penso al volontariato come ad un’importante scelta di vita, magari in zone dove c’è veramente bisogno […] in Africa potrei aiutare a smistare i viveri e i medicinali alle popolazioni tormentate dalle carestie […] vorrei confrontarmi con realtà sociali più difficili di quelle che ho affrontato fino ad oggi”. Infine, anche Caterina immagina il suo avvenire nel volontariato, proiettandosi con la mente in Brasile, dove pensa di dar corpo a quella che già considera una vocazione: “vorrei riuscire ad andare all’estero; penso ad un’attività volontaria in Brasile, anche se è complicato; per fare un’esperienza del 113 5. L’iniziazione genere, si deve comunque aderire ad un’associazione; non si può andare come un outsider in America Latina […] in ogni caso sono convinta che il sociale sia la prospettiva della mia vita […] la possibilità di vivere accanto all’altro che sta peggio […] per me è diventata ormai una vocazione: datemi da mangiare, lasciatemi sopravvivere e io darò il mio amore”. Dunque, l’iniziazione lascia dei segni nei suoi artefici. Una volta tornati a casa gli intervistati non rimuovono quanto hanno visto e realizzato nei campi di volontariato internazionale. Anzi, sembrano intenzionati a dare continuità al loro impegno volontario. Naturalmente si tratta di aspirazioni giovanili; essendo affrancati da obblighi pressanti (famiglia, lavoro, ecc.), questi giovani liberano la loro fantasia, immaginando nuove avventure in Africa, in Brasile o in altre zone del mondo, dove i bisogni dell’umanità sono più impellenti. Si potrebbe pertanto concludere che questi progetti siano destinati ad essere sopraffatti dall’avanzare dell’età: l’inserimento in una occupazione stabile; la costituzione di una famiglia propria; l’arrivo dei figli; insomma, quei riti di passaggio alla vita adulta che stemperano inevitabilmente gli ardori giovanili. Ma, ragionando in questi termini, non si va molto lontano. In ogni fase della sua esistenza, l’individuo si spinge in avanti, esprimendo sogni e desideri per l’avvenire. Queste proiezioni mentali plasmano il presente, anche se un giorno (alla riprova dei fatti) dovessero dimostrarsi illusorie. Quindi, non è utile fare professione di scetticismo, sminuendo i proponimenti dei nostri quattro viaggiatori; è più proficuo prenderli sul serio, considerandoli come degli scenari verosimili, all’interno di una transizione biografica ancora aperta a diversi adattamenti ed esiti. Del resto, nella ricerca sociale, non si può vaticinare il futuro; ci si può solo commisurare con l’attualità della condizione umana. In tal senso, non si può negare che Consuelo, Alberto, Caterina e Giovanni vogliano continuare ad esplorare la solidarietà. La loro iniziazione non è terminata; nuovi viaggi solidali si prospettano all’orizzonte, per scoprire, sperimentarsi, lasciarsi coinvolgere in altri legami sociali. E’ arduo dire dove andranno a parare queste incursioni nei mondi vitali dei meno abbienti; ma già da ora si intravede una sollecitudine verso l’altro che in principio non c’era. 114 5. L’iniziazione Note 1 La studentessa napoletana ha lavorato nel campo di Bagamoyo per due settimane; in seguito, si è trattenuta per un mese in Tanzania. Il suo racconto si riferisce alla seconda parte del viaggio in Africa. 2 Giovanni ritiene di essersi arricchito di molto da quando ha partecipato ai campi di volontariato in Germania e nel Regno Unito: “è un’esperienza unica nel suo genere, che mi arricchisce ogni anno con qualcosa di nuovo, mi permette di scoprire un paese, di misurarmi con un’attività socialmente utile, di stabilire un legame con una comunità (un territorio) al quale sento di appartenere durante tutta il periodo di volontariato e anche dopo”. Alberto mette invece l’accento sulla socialità: “nei campi di volontariato ho allacciato legami di amicizia che resistono nel tempo e a distanza, oltre a fare qualcosa di utile per gli altri e ad avere l’opportunità di familiarizzare con una cultura e un paese straniero”. 3 Dopo il primo soggiorno estivo nella comunità di Boves, Caterina vi ha fatto ritorno una seconda volta (durante le vacanze di natale dello stesso anno). Inoltre, nel 2003, ha passato il mese di luglio a Bologna, impegnandosi nella costruzione di una struttura per l’ippoterapia, destinata ai bambini portatori di handicap. Infine, ha partecipato ad un altro campo organizzato dalla Comunità Emmaus di Arezzo nell’estate del 2005. 4 E’ la stessa comunità di Cuneo a chiarire quali siano le regole basilari per garantire il buon funzionamento dell’attività di recupero: “rispetto di ciascuno soprattutto dei più deboli o di quelli che sono in maggiore difficoltà; adattamento allo stile di vita semplice (sobrietà – ndr.); rispetto degli orari e delle mansioni e del regolamento interno; astinenza assoluta da bevande alcoliche e da ogni tipo di droga; nonviolenza nei rapporti interpersonali. I componenti della comunità si ritrovano settimanalmente per programmare l'attività e affrontare le difficoltà che si possano venire a creare (si veda il sito www.emmauscuneo.it)”. 5 L’eccezionalità del viaggio è intuibile: chiunque parta, a prescindere dai suoi scopi reconditi, rompe con gli schemi della quotidianità, proiettandosi oltre confine, ossia immergendosi in una dimensione temporale e prasseologica avulsa dalla vita di tutti i giorni. In tal senso, è condivisibile la riflessione di Gasparini: “il viaggio interrompe […] la situazione e la condizione di un attore che vive nell’ambito di una residenza e di un territorio definito, ivi esplicando l’insieme delle proprie esperienze e attività socialmente rilevanti […] l’attore può addirittura entrare in un nuovo ruolo, al limite sospendendo quello abituale di cittadino appartenente a una determinata comunità territoriale o nazionale (Gasparini, 1998, pp. 20- 21)”. 115 6. L’interconnessione 6 L’interconnessione 6.1 Superare la distanza Allacciare un legame tra l’occidente sviluppato e le innumerevoli “periferie” del mondo; in ultima analisi, è questa l’aspirazione dei volontari che si impegnano nella pratica dell’interconnessione. Si deve aggiungere che non si tratta di un’operazione semplice; bisogna, infatti, superare una distanza abissale se si vuole agire nei luoghi della “penuria cronica”, portando soccorso alle popolazioni locali. Difatti, pur essendo animati da buoni intenti, non si può non provare un senso di inadeguatezza (per non dire di impotenza) di fronte ai molti drammi che affliggono i villaggi dell’Africa Sub-Sahariana o le baraccopoli del Sud America: la malnutrizione, la carenza di acqua, le guerre civili, la mortalità infantile, le catastrofi ambientali, le epidemie devastanti. Queste ed altre emergenze umanitarie, almeno in principio, non fanno parte della vita quotidiana dell’uomo solidale; anzi, per certi versi, la sovvertono con una semplice evidenza: all’alba del ventunesimo secolo una moltitudine di esseri umani non hanno ancora diritto ad un’esistenza decente. La fame, la sete, i segni trasfiguranti del contagio da AIDS, gli eccidi etnici, la riduzione in schiavitù di bambini e donne, ecc. Insomma la sofferenza che deforma i volti e i corpi di quell’umanità che vive al di sotto dei livelli di sussistenza. Chiunque voglia fare qualcosa per curare “queste ferite”, è quasi costretto a confrontarsi con un sensazione iniziale di disorientamento: il volontario proviene comunque dall’emisfero opulento del mondo; ha le sue sicurezze; è abituato a vivere in un habitat sociale nel quale il problema della sopravvivenza tocca soltanto quote marginali della popolazione. Dunque, il distacco che lo separa dalle “enclave della disperazione” è impressionante, al punto da spiazzarlo. D’altronde, gli intervistati non sono dei “professionisti” degli aiuti umanitari: non hanno mai lavorato nelle grandi organizzazioni internazionali che si occupano di programmi di assistenza al terzo o quarto mondo (prima di tutto la FAO); e 116 6. L’interconnessione non hanno neppure partecipato ai progetti di quelle ONG che vantano un’esperienza consolidata nel settore della cooperazione allo sviluppo. Quindi si sono avventurati come dei neofiti lungo il sentiero impervio della solidarietà internazionale. L’incontro con “il pianeta dei vinti” (Latouche, 1991) è stato tutt’altro che indolore, perché ha fatto affiorare una differenza costitutiva: da una parte, la visione del mondo di un cittadino occidentale, assuefatto ad una condizione relativa di agio; dall’altra, la realtà di stenti di chi è escluso per definizione dai consumi primari, oltre a perdere il controllo sulla propria esistenza. Questo contrasto stridente traspare dai racconti dei volontari, soprattutto quando rievocano i loro viaggi nelle “terre di nessuno”. Laura quasi non riusciva a credere ai suoi occhi vedendo la desolazione nei villaggi del Mozambico :“ho visto di tutto […] schiere di bambini smagriti, capanne di fango e paglia esposte alle temperie […] donne e anziani costretti a bere insieme alle mucche e alle capre, perché lì le fonti d’acqua naturali sono scarsissime […] all’inizio, quasi non riesci a capacitarti della realtà che sfila davanti ai tuoi occhi ”. Serena si è perfino sentita “in difetto” per aver raggiunto la soglia dei 35 anni; tale privilegio è infatti concesso solo a pochi contadini chapaneki: “nei villaggi del Chiapas non esiste l’acqua potabile […] quasi tutti gli indios contraggono gravi infezioni intestinali […] e anche l’alimentazione dei bambini è deleteria, la maggior parte soffre di dissenteria cronica […] in queste condizioni d’igiene gravissime si muore presto […] io, che avevo già 35 anni, non trovavo il coraggio di dirlo […] le persone della mia età dimostravano infatti il doppio degli anni, venivano portati a braccia dai figli e dai nipoti, sembravano degli anziani”. Clara è rimasta attonita di fronte alla miseria delle famiglie palestinesi, che vivono recluse in un campo profughi vicino a Hebron, nel sud della Cisgiordania: “abitano in scantinati privi di aria e di luce, in povertà estrema, in una condizione davvero allucinante […] ci sono situazioni di marginalità che ti lasciano quasi esterrefatta quando le vedi per la prima volta”; Alessia, infine, non può dimenticare la sua prima visita nelle favelas di Jandira (un sobborgo di San Paolo del Brasile), durante la quale ha preso coscienza della situazione dei “senza dimora” brasiliani: “ho visitato le favelas assieme ai miei figli 117 6. L’interconnessione piccoli […] mi ricordo che dentro una baracca di legno e plastica c’era un bimbo di appena un anno […] i miei bambini hanno giocato per tutto il tempo con lui […] la sera siamo tornati nella missione […] i miei figli erano pieni di zecche, li ho dovuti lavare e disinfettare […] poi ho pensato che quel bambino viveva in una baraccopoli, non aveva acqua, luce, nulla […] le zecche gli sarebbero rimaste addosso chissà per quanto tempo ancora […] ecco, per rendersi conto, bisogna vedere e vivere questa distanza enorme […]”. Una distanza enorme appunto. Il viaggio nelle favelas o in un campo profughi mette a nudo una disparità antropologica apparentemente insuperabile: i marcatori dell’indigenza tracciano un confine netto tra il volontario e le persone che egli vorrebbe aiutare. Lo squilibrio è talmente vistoso da creare una congerie di sentimenti contrastanti: smarrimento, incredulità, senso di colpa. Eppure, il fatto di recarsi sul posto non è solo fonte di disagio cognitivo ed emozionale. Da questo punto di vista, l’incontro (scontro) con le vittime predestinate della società globale, oltre a marcare una distanza, è motivo di un più forte coinvolgimento personale. Laura lo dice apertamente: “per me è stato importantissimo visitare il Mozambico, perché quando decidi di fare il volontario per l’Africa sei conscio di operare per una causa giusta, però non hai ancora un legame reale con le popolazioni locali. Invece lì ti trovi di fronte ai bambini denutriti […] è chiaro che il tuo coinvolgimento aumenta”. Clara sostiene qualcosa di simile mentre riflette a voce alta sul suo soggiorno nel campo profughi in Palestina: “finché non ti confronti con certe situazioni di emarginazione non riesci ad interpretarle in modo corretto […] prima non sei abituata a decodificare l’altro mondo […] dopo entri in possesso dei codici giusti per capire cos’è la povertà illimitata e questo ti spinge a prodigarti ancor più per un bambino o per una famiglia che vive in condizioni di indigenza”. Aurelio parla della sua esperienza in Bielorussia, nella zona di Chernobyl, dove i superstiti del disastro nucleare gli hanno insegnato che si può vivere nella ristrettezza materiale mantenendo un decoro personale; da quel momento non li ha più abbandonati: “il viaggio a Chernobyl mi ha arricchito come persona […] ho osservato come le famiglie vivono nelle 118 6. L’interconnessione campagne, in case di legno modeste […] faticano a tirare avanti fino alla fine del mese e poi c’è il problema della leucemia che colpisce i bambini […] malgrado ciò mi hanno accolto con dignità […] cercano di darti tutto quello che hanno, alle volte si privano anche del pane pur di essere ospitali […] la loro umiltà e i loro bisogni si sono impressi nella mia mente […] da allora ho scelto di aiutarli come potevo”. Alessia, dopo essere stata tre volte a Jandira, si sente ormai legata ai “senza dimora”; anche dall’Italia, non può fare a meno di pensare alla vita disagevole degli abitanti delle favelas, non senza mostrare un forte attaccamento emotivo nei loro confronti: “molto spesso ho la sensazione di essere con loro […] ormai, dopo essere stata lì per tre volte, mi sento coinvolta emotivamente nella loro difficile realtà”. Non v’è dubbio, quindi, che l’esperienza in loco segni un passaggio decisivo nella vita degli intervistati: Jandira, Hebron, Chernobyl, il Chiapas, il Mozambico non sono più delle località indistinte nel panorama mondiale del sottosviluppo. Il viaggio in questi luoghi ha consentito di dare un “nome” alla povertà: difatti, dopo aver visto di persona, subentra una compenetrazione nel vissuto di coloro che lottano per la sussistenza; si prende atto della divario esistente con le popolazioni locali, ma si stabilisce con loro un legame di prossimità. In genere, il contatto immediato con questa realtà di “deprivazione assoluta” diventa un’esortazione ad agire. Il volontario ritorna in patria con maggiore determinazione1: l’urgenza dei bisogni è tale da sgombrare il campo dalle esitazioni dettate dalla propria posizione di privilegio o da un senso di inadeguatezza di fronte all’entità dei problemi umanitari. Si apre così un nuovo capitolo nella storia di questi “altruisti globali”; essi ricominciano da dove sono partiti: dall’esistenza confortevole nell’emisfero ricco del pianeta, dove non si muore per denutrizione o soltanto perché si appartiene ad una minoranza etnica. Sicché, una volta tornati in Italia, gli artefici della pratica dell’interconnessione riprendono a tessere la tela della solidarietà internazionale, instaurando tuttavia un rapporto più intenso con le aree depresse del mondo. 119 6. L’interconnessione 6.2 L’arte di costruire i ponti (umanitari) Vi sono naturalmente diversi modi per soccorrere le popolazioni escluse dal “banchetto dei consumi” ordito dal capitalismo globale (Latouche, 1991). Del resto, la pratica dell’interconnessione è per definizione poliedrica, essendo agita al di fuori dei canali ufficiali della cooperazione allo sviluppo. In sostanza, gli intervistati si cimentano nell’arte di costruire “piccoli” ponti umanitari; il loro impegno, infatti, confluisce all’interno di gruppi spontanei, grazie ai quali essi riescono a mettere in cantiere iniziative solidali di natura prevalentemente informale; nascono così progetti decentrati e flessibili, che lasciano ampi margini di libertà a chi li predispone. Gli stili di intervento e gli stessi obiettivi sono mutevoli; molto dipende, inoltre, dai bisogni dei destinatari dell’azione di sostegno, senza dimenticare il retroterra culturale e sociale dei volontari. Laura, ad esempio, opera in un’associazione non riconosciuta, che si propone di agire laddove non arrivano le ONG più rinomate; in effetti, i principali programmi umanitari lasciano scoperte alcune zone particolarmente immiserite. Makeleni (in Mozambico) è una di queste aree abbandonate al loro infausto destino; di qui l’esigenza di agire con prontezza, affrontando innanzi tutto l’emergenza dell’acqua; ma anche cercando di rispondere ai fabbisogni dei bambini che, oltre a versare in condizioni di salute precarie, rischiano di restare analfabeti. Lo scopo di questa volontaria è quindi assai concreto: raccogliere finanziamenti per realizzare alcune infrastrutture di base (pozzi per l’acqua e asili nido) nei villaggi degli Zulu. Non è tuttavia agevole improvvisarsi fund raiser; ci vuole, infatti, una dedizione costante (e una buona dose di versatilità) per sollecitare le donazioni dei cittadini italiani. L’intervistata non si tira certo indietro di fronte a questo arduo compito: organizza collette per inviare generi alimentari in Africa; cura gli opuscoli informativi dell’associazione; cerca di convincere gli imprenditori e i commercianti a sponsorizzare la costruzione di un pozzo o di un asilo nido; non diserta neanche i banchetti in strada e nei supermercati, quando si tratta di sensibilizzare i passanti e i consumatori. Come si vede, Laura è alquanto fattiva. Non si pone mete troppo ambiziose; sa bene che “mille euro possono salvare più 120 6. L’interconnessione di una vita”. Per questo fa opera di proselitismo presso i suoi connazionali: anche una libera elargizione di un “filantropo distratto” può contribuire a cambiare le cose, specie se si deve portare l’acqua potabile nell’arida terra degli Zulù. Di fronte all’urgenza del momento (la ferrea logica di un catastrofe umanitaria sempre incombente), non si può andare troppo per il sottile: “penso che se l’umanità non arriva ad una svolta epocale si andrà presto verso uno stato di decadenza; un mondo dove i ricchi saranno una minoranza rispetto alla massa di diseredati che popolano il nostro pianeta […] persone veramente povere, a cui manca il necessario dal mangiare al bere, ad un minimo di istruzione”. Dunque, l’intervistata vive il suo attivismo in modo pragmatico: per impedire la moria degli Zulù bisogna prima di tutto scavare pozzi, distribuire generi alimentari e medicinali, alfabetizzare i bambini. In breve, occorre essere realisti, fare un passo alla volta, trovando le risorse economiche per dare le ali ad un progetto di sviluppo che si impone ormai come una necessità impellente. In passato (si veda il capitolo 1), Laura non avrebbe ragionato in questi termini: da studente ha attraversato la stagione calda delle contestazioni e degli anni di piombo; inoltre, ha militato a lungo anche nei sindacati. Allora, con tutta probabilità, avrebbe messo al primo posto gli ideali universali (la giustizia, l’equità e la solidarietà), ripetendoli come dei “mantra” nei cortei e negli scioperi. Oggi è diverso: sotto l’equatore c’è un villaggio di capanne in fango e paglia, dove si muore in silenzio, per una carestia atavica che continua a far strage di innocenti. E’ questo il volto più insopportabile dell’ingiustizia globale: venir al mondo senza avere il diritto di esistere2. La donna sente ormai il richiamo di questa sfida disperata: mettere in salvo i bambini africani. Così si fa carico di un ruolo che non le si addice affatto; un ex sindacalista costretta ad imbarcarsi in una snervante attività di persuasione, al cospetto dei suoi “avversari” di un tempo: imprenditori, commercianti, cittadini facoltosi, consumatori assiepati nei supermercati, col carrello pieno del “superfluo”. In realtà, non v’é nulla di singolare nel suo comportamento; per un’elargizione in più si può anche “blandire” la neoborghesia, se questo serve a restituire la speranza all’infanzia rinnegata. 121 6. L’interconnessione La storia di Alessia è molto differente da quella di Laura; fin da giovane ha sempre aderito alle attività della parrocchia, testimoniando nel “sociale” la sua sensibilità di credente: “il messaggio cristiano è semplice […] essere prossimi, vicini, solidali verso chi ha bisogno […] sono in piena sintonia con tale messaggio religioso”. Come tanti altri italiani, l’intervistata ha partecipato ai gruppi giovanili dell’oratorio, aiutando di tanto in tanto le persone bisognose; nel 1989, però, ha incontrato un missionario di Reggio Emilia che operava in America Latina. Quest’ultimo l’ha introdotta nel convulso mondo della favelas, destando in lei una spiccata sollecitudine verso i problemi dei “senza dimora” brasiliani. In oltre un decennio, Alessia ha raccolto fondi per migliorare la condizione degli abitanti di Jandira. A prima vista, la sua attività non differisce di molto da quella di Laura: raccogliere donazioni in Italia per far fronte alle esigenze di una comunità vulnerabile, che vive al di là dell’oceano atlantico. Tuttavia, i sobborghi di San Paolo non sono uguali ai villaggi dell’Africa sub-sahariana; difatti, nella metropoli carioca la miseria è un fenomeno tangibile, ma non raggiunge il baratro dell’assenza completa di risorse alimentari ed idriche. Piuttosto, la megalopoli brasiliana è afflitta dall’annosa questione della criminalità minorile. In particolare, i meninos de rua sono l’emblema di una situazione davvero allarmante; questi bambini ed adolescenti provengono da famiglie disgregate ed impoverite; per loro la strada è una scelta quasi obbligata, con la conseguenza di cadere (presto o tardi) nella spirale della delinquenza: furti, prostituzione, consumo di droghe sintetiche, omicidi; oltretutto, essi rimangono spesso vittime degli “squadroni della morte”, che si aggirano minacciosi nelle periferie della città, utilizzando talvolta metodi di repressione spietati per ripristinare l’ordine pubblico. La devianza minorile è un’emergenza al pari delle carestie in Africa. Nondimeno, la ricetta per curare “il male” non sono soltanto gli aiuti umanitari; beninteso, anche a Jandira c’è una carenza di asili nido e di scuole; come, del resto, è acuta la scarsità di generi alimentari e medicinali fra le famiglie che abitano nelle favelas; eppure non sfugge un altro elemento critico: i meninos de rua vengono risucchiati nel circolo vizioso della violenza perché non hanno alternative. Sin dalla tenera età, 122 6. L’interconnessione i genitori li spingono a portare a casa i soldi, con ogni espediente possibile. In breve, per questi bambini la scuola è una chimera. Ebbene Alessia, assieme ad altri sette volontari, ha puntato sul bene istruzione per offrire un futuro ai minori brasiliani. Il gruppo si avvale di uno strumento efficace e parsimonioso per avviarli agli studi: l’adozione a distanza. In breve, chi vuole può farsi carico della scolarizzazione di un bambino, inviando periodicamente del denaro presso la missione religiosa di Jandira che, da alcuni anni, si è gemellata con la parrocchia frequentata dall’intervistata. Il che non guasta perché, almeno in principio, gran parte dei donatori erano fedeli della Chiesa di San Roberto Bellarmino di Roma. Anche se la volontaria tiene a precisare che la sua associazione informale ha sempre operato in piena autonomia: “siamo un gruppo che è nato in una parrocchia, ma siamo totalmente indipendenti dalla diocesi romana […]”. Prova ne è che il bacino dei donatori si è col tempo allargato a macchia d’olio, coinvolgendo persone che provengono da ambiti non propriamente religiosi e da altre città (Milano e Reggio Emilia). Allo stato attuale, grazie alle somme raccolte dal gruppo di Alessia, circa 600 minori frequentano gli asili nido o le scuole materne ed elementari di San Paolo. Un risultato non trascurabile: un domani, questi allievi potranno infatti accedere all’istruzione secondaria3. Ma ciò implica che si instauri un legame più stretto fra i benefattori italiani e la comunità brasiliana. Non basta la corrispondenza epistolare con il bambino che ha beneficiato dell’adozione: le lettere episodiche con cui egli esprime riconoscenza ai suoi “genitori putativi”; o, magari, le fotografie che lo ritraggono sorridente fra i banchi di scuola. Ci vuole molto di più per coltivare una relazione duratura, soprattutto quando questa si sviluppa da un capo all’altro del pianeta; anzitutto, un’informazione capillare su quello che avviene oltreoceano, nel caleidoscopio della metropoli sanpaulista. In tale ottica, i volontari di S. Bellarmino usano Internet per diffondere una newsletter a tutte le persone che hanno compiuto le adozioni a distanza: “si tratta di un bollettino informativo sul quale non vengono pubblicate solo notizie di cronaca da Jandira e lettere di ringraziamento dei bambini; l’idea è anche quella di ampliare un po’ la prospettiva, fornendo degli approfondimenti 123 6. L’interconnessione sulla politica e l’economia brasiliana”. Anche perché l’interesse dei donatori si è intensificato, soprattutto da quando Alessia e gli altri volontari hanno organizzato dei seminari su Jandira. Il fine di questi incontri informali è quello di preparare un eventuale viaggio in Brasile: “abbiamo sempre sostenuto coloro che volevano andare a Jandira […] ora realizziamo cicli di incontri per far capire qual è la condizione sociale e la cultura di questo grande paese del Sudamerica”. L’iniziativa ha riscosso un certo successo, se si considera che negli ultimi cinque anni l’intervistata ha già accompagnato nel sobborgo di San Paolo tre gruppi di visitatori. Col trascorrere del tempo, quindi, il progetto ha innescato un processo a cascata; uno sparuto gruppo di giovani religiosi impegnati nel sociale ha promosso il gemellaggio tra due parrocchie; i primi a partire (tra cui Alessia) si sono resi conto che la priorità era quella di togliere dalla strada i minori brasiliani, trovando in Italia le risorse per mandarli a scuola; il veicolo utilizzato (le adozioni a distanza) si è dimostrato particolarmente valido. Oggi circa 800 persone si fanno carico dell’istruzione di un bambino; accanto a ciò, è aumentato il coinvolgimento dei sostenitori di questa iniziativa spontanea: una quota significativa dei donatori si informa e frequenta i corsi di formazione, recandosi non di rado nelle favelas. A ben vedere, il principale risultato di questa esperienza associativa è una dinamica di community building: l’attivazione di una rete di “amici e sostenitori di Jandira”; un network di cittadini italiani che si sentono vicini agli abitanti di una fra le megalopoli più indecifrabili del mondo; per loro San Paolo non è più lontana e “illeggibile”, essendo diventata un luogo familiare: il suburbio dove anche un menino de rua può avere l’opportunità di investire nel suo avvenire, a patto che qualcuno (dall’Italia) lo sostenga economicamente. In tal senso, si è venuta a determinare una forma di interdipendenza tra due comunità in precedenza disunite. Il ponte fra l’Italia e il Brasile si è pertanto irrobustito4. L’attività volontaria di Stefano non è legata ad un luogo specifico nella geografia mondiale della povertà. Egli si limita a costruire case, scuole e ospedali in giro per il pianeta. Lo fa in modo del tutto disinteressato, mettendo la sua professionalità al servizio dell’Unione dei missionari di Vicenza. In effetti, la sua 124 6. L’interconnessione esperienza nel settore edile è realmente utile; in Angola, Ruanda, Brasile, Romania c’è un estremo bisogno di persone capaci di realizzare opere civili; si tratta di contesti dove è peraltro estremamente gravoso far partire i cantieri: “nelle zone depresse, in genere, c’è una carenza di attrezzature […] non ci sono le gru, gli argani […] la sabbia viene ancora portata sul dorso dei muli e le betoniere sono una rarità […] quindi bisogna darsi molto da fare […] ci vuole molto estro”. Stefano, tuttavia, non si lascia scoraggiare dalle difficoltà. D’altronde, conosce bene il “mestiere”: per anni ha fatto il capo mastro presso alcune imprese edili venete; poi si è messo in proprio. Oggi ristruttura appartamenti e costruisce villette per il ceto medio vicentino. Il lavoro è abbastanza remunerativo e pressante. Ma egli non si dimentica di coloro che non hanno le risorse per innalzare edifici in muratura, pur avendone grande necessità; così, si riunisce periodicamente con altri “carpentieri volontari”, quando le missioni hanno raccolto sufficienti fondi per edificare una nuova scuola o una struttura ospedaliera: “ci riuniamo con altri volontari che tornano da un viaggio, facciamo nuovi progetti, sempre con l’obiettivo di far partire nuovi cantieri […] e quando si sono raccolti i soldi necessari si parte: l’Africa, l’Europa dell’est, l’America latina […]”. Il cantiere rimane aperto fintanto che non si ultima l’opera civile: due settimane o quaranta giorni, dipende dalla complessità dell’edificio e dalle condizioni ambientali. La permanenza sul luogo è comunque disagevole, perché i volontari rischiano sempre di contrarre malattie, dovendo lavorare a stretto contatto con le popolazioni locali; è difficile mantenere condizioni sicure d’igiene: “ ci sono quasi sempre problemi di salute […] mi capita spesso di prendere la dissenteria […] alcuni volontari si sono anche ammalati di malaria […] è molto pericoloso soggiornare in paesi dove l’acqua non è potabile e il cibo non viene controllato […]”. Stefano non si nasconde questi problemi, ma sa bene che il suo apporto è fondamentale per completare i fabbricati: “sarebbe molto più comodo rimanere a casa […] mostrare la propria solidarietà tirando fuori il portafoglio […] che so io con una donazione […] ma non basta mandare il denaro […] per erigere un edificio ci vuole esperienza […] molto spesso le popolazioni vanno aiutate, 125 6. L’interconnessione almeno all’inizio, poi quando hanno acquisito il mestiere possono fare da sole”. Dunque, l’intento non tanto recondito del volontario vicentino è quello di insegnare i “trucchi” del lavoro edile agli abitanti dei paesi poveri: impastare le malte; mettere in sesto porte e finestre; dare l’intonaco alle pareti; il tutto per far sì che essi possano, in un non lontano futuro, rendersi autonomi, dotandosi di quelle strutture abitative e civili di cui hanno necessità. Per spiegare la sua “vocazione pedagogica”, l’intervistato ricorre ai dettami dell’etica cristiana, che egli applica con profonda convinzione: “dietro al mio impegno ci sono i valori cristiani […] ho dei talenti (la maestria in campo edile –ndr.) e li metto a disposizione degli altri […] un buon credente non è tale perché osserva i sacramenti, ma se non rimane indifferente ai bisogni delle persone meno abbienti […] saremo giudicati per quanto aiuto abbiamo dato a chi versa in una condizione peggiore della nostra”. Per questo Stefano si sposta da un cantiere all’altro, sottoponendosi ad un tour de force per certi versi estenuante; egli è certo che, nel suo caso, la carità si erge su fondamenta solide: la solidarietà si costruisce un mattone dopo l’altro, assieme ad una squadra di operai impacciati che non conoscono il mestiere; tuttavia, dopo aver completato il tetto di un edificio, qualcuno di loro sarà in grado di elevare una nuova casa da solo; e, forse, si ricorderà degli insegnamenti di un volontario venuto da Vicenza. 6.3 Sentirsi interdipendenti Laura, Alessia e Stefano. Questi volontari rispondono alle emergenze umanitarie con inventiva e determinazione, agendo all’interno di circuiti sociali informali. I “loro ponti” assomigliano ad opere minute di altruismo che oltrepassano le frontiere delle nazioni5. Grazie a questi infaticabili tessitori di legami di aiuto e mutua comprensione, si apre una prospettiva inedita: talvolta, il mondo dei ricchi e quello dei poveri possono interagire, senza più procedere come universi slegati e paralleli. In tal senso, è lecito chiedersi se questi attivisti abbiano maturato una nuova visione della realtà: un orientamento culturale che fa leva sull’interdipendenza fra i destini dei popoli 126 6. L’interconnessione divisi dal divario dello sviluppo. Il tema è complesso e non può essere certo esaurito analizzando un numero limitato di storie di volontariato informale. Malgrado ciò, nelle biografie dei protagonisti dell’interconnessione si possono rintracciare alcuni elementi significativi per cominciare se non altro a riflettere su tale questione. Quando si pensa al concetto di interdipendenza viene quasi spontaneo riferirsi al suo significato economico: gli effetti di retroazione (le influenze vicendevoli) che si determinano fra i sistemi produttivi e finanziari nell’era del capitalismo globale. In altre parole, soprattutto oggi, si assiste ad un’integrazione pressoché completa fra i mercati, al punto che una repentina crisi di borsa nel sud-est asiatico si riverbera velocemente dall’altra parte dell’emisfero abitato; il vento sinistro di questo movimento tellurico può squassare il quieto vivere nelle “fragili cittadelle” dell’Occidente; difatti, le economie nazionali sono ormai sincronizzate, all’insegna di una competizione spietata, che può travolgere interi comparti industriali o del terziario, mettendo a repentaglio i posti di lavoro di migliaia di persone. In breve, quello che avviene in estremo oriente ha dei riflessi repentini e tangibili in Europa o negli Stati Uniti. Ma vi è anche un altro modo di concepire l’interdipendenza, tenendo conto delle sue componenti extraeconomiche; da questo punto di vista, si può attingere dalle riflessioni del politologo americano Benjamin Barber (Barber, 2004). Secondo questo studioso, gli stati nazionali non sono più in grado di garantire la libertà, la sicurezza e il benessere all’interno dei propri confini. Occorre, pertanto, passare da un contesto di indipendenza geopolitica fra paesi ad un quadro di maggiore cooperazione transnazionale, nel quale si lavori con alacrità per integrare culture e popoli. Nondimeno, per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente puntare sul multilateralismo politico dei governi6; è urgente che gli stessi cittadini si rendano artefici di un processo di apertura culturale, per stemperare i “conflitti fra civiltà” ed evitare di cadere nelle pastoie di un capitalismo senza regole ed etica. In sintesi, tale concezione dell’interdipendenza poggia su un progetto sociale alquanto ambizioso: l’idea che un giorno non troppo lontano possa costituirsi una società civile transnazionale. Per certi versi, il destino del mondo è affidato 127 6. L’interconnessione alla sensibilità dei singoli, che dovrebbero esibire un civismo planetario, guardando oltre i confini del “qui ed ora” nazionale. Il carattere globale di molti rischi che incombono sui paesi ricchi e poveri (epidemie, terrorismo, shock economici, catastrofi naturali, ecc.) sembrerebbe spingere in tale direzione, rendendo quanto mai opportuno un approccio cosmopolita ai problemi contemporanei che investono l’umanità (Beck, 2003). Viene, tuttavia, da chiedersi se tale disegno culturale e politico possa incentrarsi soltanto sulla dimensione planetaria del pericolo. L’impressione è che la comune esposizione a minacce di ordine economico, politico e ambientale non sia sufficiente per creare un idem sentire a livello mondiale; anzi, in alcuni casi, l’insicurezza dei cittadini può mettere al repentaglio i processi di integrazione sopranazionale, come è avvenuto di recente in Europa7. Una società cosmopolita non può che reggersi su una qualche forma di reciprocità fra persone che appartengono, comunque, a nazioni diverse: una comunanza fra estranei, che sono per di più separati da barriere geografiche e sociali. Lo scenario è suggestivo, ma assai vago: su cosa si può basare questa solidarietà a distanza? In che modo può entrare a far parte dell’immaginario individuale? I volontari hanno molto da dire su questo fronte. A prescindere dai loro atti di altruismo globale, essi sono infatti dei produttori di senso: dietro ai loro gesti solidali, vi è un processo di immedesimazione nella condizione dell’altro (lo straniero che abita nelle zone marginali del mondo capitalistico). Questo aspetto è emerso in precedenza, esaminando le dinamiche con cui gli intervistati superano la distanza dai beneficiari della loro attività di aiuto internazionale. Ora si tratta di precisare meglio la natura di questo “sentimento di fratellanza”, decifrando le sue dimensioni costitutive. Alessia sostiene di essere profondamente unita agli abitanti di Jandira: “per me, il prossimo sono i baraccati di San Paolo […] è una vicinanza con persone che vivono molto lontane”. Quando spiega i motivi di questa prossimità sottolinea che, col passare del tempo, si è instaurato uno scambio paritetico tra lei e i “senza dimora” brasiliani: “è un rapporto alla pari, tu offri un sostegno concreto e loro ti mostrano una realtà che non conosci […] è come un’università di vita […] mi hanno insegnato quali 128 6. L’interconnessione sono le logiche che creano l’ingiustizia, ma anche che è più dignitoso vivere senza beni di consumo superflui, perché le ristrettezze materiali passano in secondo piano se c’è il calore umano, l’allegria e l’amicizia spontanea […]”. Il brano è eloquente: in Brasile, la donna romana non ha scoperto soltanto l’implacabile legge dell’emarginazione sociale; girando per le favelas, è rimasta sedotta anche da stili di vita sobri e socievoli. Oggi, l’intervistata si rispecchia nei tratti tipici della cultura sudamericana: una miscela di prassi e valori (frugalità, socialità, simpatia umana, mutualismo spontaneo) che rendono più autentica l’esistenza. Per questo la volontaria si sente legata a doppio filo con il pueblo di Jandira, sino ad immaginare un futuro in America latina: “sebbene mi senta italiana, molto spesso penso che potrei trasferirmi laggiù, per far crescere i miei figli in un contesto dove si dà ancora importanza ai valori che noi italiani abbiamo perso”. Anche Serena si compenetra nella realtà dei contadini chapaneki. Tale forma di compartecipazione nasce, senza alcun dubbio, da una militanza vissuta con passione. L’intervistata appoggia con convinzione l’insurrezione zapatista. Per questo ha partecipato ai campi di volontariato internazionale, a fianco degli indios oppressi dal governo messicano. Del resto, dopo la caduta del muro di Berlino, la speranza di cambiare i rapporti di forza nella società si è scontrata con il fallimento del socialismo reale. Da allora, l’ideale della giustizia sociale può essere inseguito solo in ambiti circoscritti. Il Chiapas è uno di quei luoghi dove si sperimenta l’autogestione popolare e la democrazia partecipativa; in tal senso, esso offre uno spiraglio a chi continua a coltivare (nel suo intimo) il sogno dell’egualitarismo. E’ la stessa volontaria a ricondurre la sua attività ad una precisa opzione politica: “stare accanto agli zapatisti è una scelta di campo. Ed è sempre lo stesso campo: il pacifismo, essere contro la guerra, combattere ogni forma di violenza e sfruttamento economico, soprattutto schierarsi contro la repressione di un popolo. Il mio rapporto con la politica è organico. Mi considero comunista a tutti gli effetti. In tutto quello che faccio”. Dunque, l’impegno nelle comunità chapaneke viene sorretto da una specifica subcultura politica, che farebbe pensare ad un impeto ideologico fine a se stesso. Ma questa è solo una faccia 129 6. L’interconnessione della medaglia: è ben difficile crogiolarsi nell’utopia quando si è stati nelle valli che circondano San Cristobal, in quel fitto intreccio di foresta e selva, dove si annidano gli indios alle prese con problemi di sussistenza. Non sorprende, perciò, che la donna si sia trovata a fare opera di proselitismo in Italia, non tanto per esaltare la figura mitica del sub-comandante Marcos; quanto piuttosto per dar voce ai bisogni delle popolazioni indigene: “quando sono tornata a casa sono intervenuta in diverse manifestazioni pubbliche per spiegare cosa stava accadendo nel Chiapas […] ho detto che in Messico non c’è soltanto un uomo mascherato (Marcos), ma un’infinità di bambini che muoiono di dissenteria perché non hanno l’aspirina”. Alla volontaria tremavano le gambe quando prendeva parola nei cortei e in altri dibattiti politici. E questo per una ragione semplice; si sentiva investita di una responsabilità onerosa: “in Chiapas i contadini mi hanno rivolto un invito; volevano che li aiutassi a far capire agli italiani la loro precaria condizione sociale”. L’interdipendenza si fonda anche su queste basi: parlare a nome (identificarsi nel destino) di un popolo che sopravvive in una situazione di clandestinità. Mentre si compie l’epopea della ribellione chapaneka, Serena si improvvisa portavoce della causa indigena, sebbene non somigli per nulla agli algidi speaker della politica, che allignano anche nella sinistra radicale. Lei sa di parlare per conto di un popolo soggiogato da strategie di dominio post-coloniale; in Chiapas, ha lasciato una parte di sé: durante i suoi soggiorni nei campi di volontariato, ha partecipato ad un movimento di liberazione popolare che non è sostenuto soltanto dai guerriglieri; nella regione messicana ha visto soprattutto le donne, gli anziani e i bambini lottare per la terra, il benessere materiale, la libertà di culto, la lingua, l’identità culturale; si rispecchia pertanto in questa risoluta ribellione dei “deboli”. Non può dimenticare la loro battaglia per i diritti inalienabili della persona. Gli atteggiamenti di Serena e Alessia tendono a convergere; infatti, fra la militante di sinistra e la cattolica impegnata sono molte le analogie: ai loro occhi i contadini chapaneki e i senza dimora brasiliani sono dei “vicini”, non soltanto dei portatori di bisogni irrinunciabili. Per queste due intervistate – ma anche per Laura, Stefano, Aurelio e Clara – il legame a distanza con il 130 6. L’interconnessione “pianeta dei vinti” non si esaurisce in una professione d’altruismo. Beninteso, la concretezza dell’attività di volontariato è un elemento basilare di questa relazione; tuttavia, sarebbe fuorviante ritenere che si risolva tutto in una sequenza di gesti solidali che viaggiano da un capo all’altro del mondo. Per ravvivare la pratica dell’interconnessione ci vuole ben altro. Il volontario non si limita ad aiutare; egli incorpora nel suo immaginario un “mondo vitale” che non gli appartiene; assieme ai volti emaciati della povertà, egli assimila condotte di vita che, in principio, gli apparivano estranee: la socialità che imperversa nelle favelas brasiliane, alleviando il fardello della criminalità urbana; la fiera determinazione con cui le donne del Chiapas si oppongono agli eredi della sopraffazione coloniale; il decoroso contegno con cui i superstiti di Chernobyl affrontano i postumi del disastro nucleare; l’esistenza segregata nei campi profughi dei palestinesi, dove non si è mai persa la speranza di diventare cittadini di uno Stato libero; l’ostinata laboriosità con cui gli agricoltori africani coltivano le loro terre inaridite. Un viaggiatore disattento (o un telespettatore annoiato) non si lascerebbe coinvolgere più di tanto da queste manifestazioni di esistenza grama, considerandole tutt’al più delle semplici tattiche di sopravvivenza; ma, per chi si è immerso nei contesti della penuria cronica, condividendone i drammi e le attese, il discorso è radicalmente diverso: sotto la superficie degli stati di privazione materiale, scorre la vita quotidiana di popoli che combattono per schiudersi un orizzonte futuro migliore. E’ con questa lotta che solidarizzano gli intervistati. In ultima analisi, l’interdipendenza si sviluppa grazie ad un mutamento radicale di prospettiva. Il volontario non si sofferma più sui segni palpabili della deprivazione, poiché ha gettato lo sguardo in avanti: vede un’umanità, tutt’altro che rassegnata, avventurarsi faticosamente verso un sentiero di sviluppo endogeno. Così, il premuroso uomo occidentale scopre di non essere più un semplice prestatore di soccorso: anch’egli ha intrapreso un percorso di emancipazione sociale, camminando assieme alla moltitudine dei meno abbienti. 131 6. L’interconnessione Note 1 In tale prospettiva, si delinea una distinzione netta rispetto ai volontari dediti alla pratica dell’iniziazione (capitolo 5): anch’essi transitano nelle periferie della società globale; ma la loro esperienza di mobilità assume un significato diverso rispetto a quella degli artefici dell’interconnessione; come si è visto, i giovani vanno alla scoperta del disagio senza uno scopo predefinito. Ai loro occhi, il viaggio è un mezzo per trasformare la propria identità; un rito di passaggio che prevede ulteriori tappe: altri luoghi dove continuare l’esplorazione dei bisogni e delle culture locali. Laura Alessia, Aurelio, Serena e Clara avevano, invece, in mente un percorso prestabilito quando si sono avventurati all’estero: essi avevano ormai deciso di impegnarsi “per qualcuno e per qualche cosa”. Il viaggio non è dunque fonte di autodeterminazione (o lo è solo in parte); piuttosto, sin dalla partenza, viene concepito come un modo per cementare i rapporti con i destinatari di un progetto umanitario già esistente. 2 Il Mozambico primeggia nella triste classifica dei paesi con i più alti tassi di mortalità infantile. Secondo stime recenti dell’Unicef, in questa nazione ogni anno muoiono circa 170.000 bambini in età compresa tra zero e cinque anni (fonte: Unicef, The Official Summary of The State of the World’s Children, 2005); per maggiori approfondimenti sul tema può essere utile consultare il sito ufficiale dell’Unicef (www.unicef.org). 3 Il gruppo parrocchiale già sostiene economicamente alcuni studenti universitari di Jandira. 4 Anche le istituzioni brasiliane si sono accorte dell’importanza degli amici italiani di Jandira; nel 2003 il Sindaco del sobborgo ha interpellato Alessia e gli altri volontari affinché essi collaborino ad un progetto municipale che si propone di incentivare la scolarizzazione nelle favelas. 5 Nel testo non si è accennato alle attività svolte dagli altri tre volontari impegnati nella pratica dell’interconnessione. Aurelio partecipa ad un comitato di cittadini che sostengono gli abitanti di Chernobyl; questo falegname di Sermoneta aiuta in diversi modi i reduci del disastro nucleare: ospita in casa i bambini malati di leucemia, durante i loro soggiorni curativi in Italia; organizza eventi per raccogliere sottoscrizioni in favore dei villaggi bielorussi più impoveriti. Serena non ha mai smesso di portare il suo soccorso ai contadini chapaneki e cubani. Clara, oltre ad aver svolto attività di animazione sociale nei campi profughi palestinesi, è stata anche in Nicaruaga, dove ha fornito un supporto al personale ospedaliero, per migliorare le attività diagnostiche. Oggi continua ad occuparsi di adozioni a distanza in varie zone del mondo. 6 E’ del tutto evidente che, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York, il multilateralismo abbia subito una battuta d’arresto. 7 Si pensi ai dilemmi con cui si confronta l’Unione Europea nel suo tortuoso cammino verso il completamento del progetto comunitario; in particolare, il “no” francese e olandese alla ratifica della Carta costituzionale dell’Unione suona come una sconfessione di una certa visione (ingenua) dell’europeismo: l’idea che basti creare una moneta unica e un’integrazione 132 6. L’interconnessione (peraltro incompleta) dei mercati, per infondere un comune sentire nei popoli europei. Non sfugge inoltre un altro fatto: il diniego dei francesi e olandesi nasce da un sentimento di incertezza verso l’allargamento ad Est della UE, oltre che da problemi di natura interna: prima di tutto, la bassa crescita economica nelle rispettive nazioni e i paventati tagli allo Stato sociale. Il che la dice lunga su quanto sia arduo costruire un legame di cittadinanza fra popolazioni che continuano ad anteporre l’interesse nazionale a quello della UE. 133 Conclusioni. Il richiamo dell’altro Conclusioni Il richiamo dell’altro In genere il ricercatore prova un senso di inadeguatezza quando si appresta a mettere la parola fine ad un percorso di analisi. Egli passa in rassegna i risultati dello studio appena terminato affannandosi davanti al suo scrittoio, dove ha sparso in modo più o meno disordinato gli appunti di lavoro; in fin dei conti, cerca soltanto di raccogliere le idee, per mettere ordine nel caos; ma non può che avvertire una sensazione strisciante di disagio; non è agevole, infatti, afferrare l’esito complessivo della propria attività intellettuale. Il sipario si chiude, l’indagine è già dietro le spalle e l’analista rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano. Immergendosi nel laboratorio della società, ha raccolto solo dei frammenti limitati di conoscenza. Un barlume di luce che non aiuta certo a rischiarare la sua mente ormai esausta. Molte sono le curiosità inappagate, senza contare i dubbi che continuano a vorticare nel cervello. Del resto, questo stato di fibrillazione è parte integrante del lavoro di ricerca: i risultati di un’indagine empirica non rappresentano quasi mai un punto d’arrivo; semmai pongono sempre nuovi interrogativi, innescando un gioco pressoché infinito di rimandi fra ciò che è noto e ciò che rimane ancora da scoprire. Non sorprende che per lenire quest’ansia cognitiva si ricorra spesso ad un registro generale di spiegazione: invece di soffermarsi sul “qui e l’ora” del fenomeno esaminato, si compie un deciso balzo in avanti, congetturando sulle possibili implicazioni che si celano dietro ad un particolare oggetto di studio. In sostanza, si tenta di estrapolare dei “significati ultimi” dall’immediatezza dell’esperienza umana, non senza compiere delle forzature che stridono con quanto si è trovato “sul campo”, osservando gli individui nel loro habitat sociale. Così, volendo tirare le somme della presente analisi, si deve agire con circospezione e pazienza, evitando accuratamente le chiavi di lettura ad ampio raggio, specie di fronte ad una realtà inedita come il volontariato informale: una pratica che è di per sé situata in un contesto d’azione specifico. In tal senso, bisogna assolutamente liberarsi dal “tormentone” sui valori. Da più parti ci si interroga sui motivi reconditi che 134 Conclusioni. Il richiamo dell’altro spingerebbero gli individui a mettersi nei panni del Buon Samaritano: lo spirito caritativo o la benevolenza laica; la voglia di comunità (il bisogno di instaurare relazioni autentiche); il mutualismo o la reciprocità (la volontà di identificarsi e mobilitarsi in un gruppo). Sennonché, molto spesso, dietro ai gesti lodevoli dei volontari si celano finalità meno nobili: la richiesta di considerazione sociale; la necessità di muoversi in ambiti dove non vigono regole prefissate, lasciando ampio spazio alla propria libertà ed inventiva (espressività); o semplicemente la ricerca di opportunità di lavoro nel settore dei servizi alla persona. Comunque, in non pochi casi, questi moventi si possono sovrapporre. In altre parole, le motivazioni dei volontari quasi mai confluiscono in un senso morale organico, con sommo dispiacere degli studiosi. Per cavarsi d’impaccio, si è soliti attingere dalla tesi sulla polifonia dei valori - un tratto tipico della tanto invocata (e vituperata) condizione postmoderna. Anche la sensibilità delle persone dedite all’altruismo sarebbe polifonica, poiché seguirebbe uno spartito valoriale poliedrico, riproducendo in tal modo lo “spirito dei tempi”: il relativismo culturale delle società contemporanee. Ben si capisce che tale tesi è sommaria e, perciò, può risultare fuorviante. Invece di sconfinare nel campo dei grandi scenari epocali, basterebbe limitarsi ad una considerazione di buon senso: in ultima analisi, il volontariato è un’attività circoscritta nello spazio e nel tempo; chi la svolge, con tutta probabilità, è animato da diverse aspirazioni e sollecitazioni, non necessariamente legate all’appello della solidarietà. Si deve, inoltre, aggiungere un altro fattore significativo: come ogni altra sfera d’azione, l’impegno volontario è destinato a modificarsi con l’avanzare dell’età, sull’onda delle transizioni biografiche vissute da ogni persona. Del resto, l’altruismo si presenta in forma spuria quando viene calato nella vita di tutti i giorni; sicché, è alquanto inverosimile ritenere di potersi imbattere in una personalità solidale idealtipica, salvo che nei casi estremi di esistenze sacrificate sull’altare di qualche ideale utopico (sulle quali peraltro è sempre lecito dubitare). Dietro al volontario, c’è un uomo in carne ed ossa, che esprime sentimenti e desideri assai “terreni”: dalla brama di 135 Conclusioni. Il richiamo dell’altro riconoscimento alle ambizioni sottaciute nell’intimità. Non si tratta – come si è avuto modo di sottolineare in precedenza (si veda l’introduzione) – di proporre una distinzione “manichea” tra prodigalità ed egoismo, tra una non meglio precisata generosità e un altrettanto indefinibile narcisismo o amor proprio. L’individuo è materia troppo complessa per essere ridotta agli schematismi di queste antinomie del pensiero. Tali opposizioni possono funzionare quando vengono traslate sull’asse normativo delle dottrine (religiose e laiche); ma risultano quanto mai fallaci se si rimane agganciati all’ordinario fluire dei rapporti interpersonali. E’ bene, dunque, tenersi alla larga dai panegirici sull’etica, perché si rischia sempre di propinare una versione caricaturale del volontariato, accreditando una retorica dei buoni sentimenti; o, per converso, insinuando il sospetto che dietro al velo di ogni gesto disinteressato, si annidi il tornaconto personale. Certo gli intervistati hanno a più riprese espresso le ragioni per cui si impegnano nel sociale; nondimeno, le motivazioni che hanno addotto sono inevitabilmente situate in una trama di senso delimitata. La dimensione valoriale esiste, ma è incastonata nella pratica del volontariato informale. In effetti, la riparazione, il contrasto, l’iniziazione e l’interconnessione non sono etichette astratte; piuttosto, sono concetti che sembrano adattarsi bene al vissuto dei protagonisti di questa indagine: seguendo diversi percorsi e approcci, i volontari si impegnano per una “causa sociale”, sviluppando atteggiamenti e forme di coinvolgimento personale piuttosto coerenti. Riparare un danno (rimediare ad una criticità sociale che colpisce i cittadini vulnerabili); contrastare un’ingiustizia; avventurarsi alla scoperta del disagio; allacciare un legame con le periferie del mondo. Questi non sono slogan (o principi ideali) sganciati dalle vite degli intervistati. Al contrario, sono espressioni di un attivismo che risponde ad un problema concreto; la matassa del volontariato informale comincia a dipanarsi laddove si esamina il suo nucleo fondante: un’emergenza sociale percepita dal soggetto-agente. Gli altruisti senza divisa affrontano istanze problematiche che, per differenti ragioni, filtrano nella loro quotidianità, trasformandosi in un imperativo morale della coscienza. La 136 Conclusioni. Il richiamo dell’altro professione d’altruismo si integra così in una storia individuale. In definitiva, in questo libro non si è fatto altro che riannodare il filo di alcune vicende personali che riflettono questo modo di atteggiarsi e di comportarsi, senza accampare pretese più ambiziose; prima fra tutte, dire alcunché di conclusivo sul volontariato spontaneo. Dunque, volendosi congedare dal lettore, si può svolgere un’ultima considerazione minimalista. L’unico tratto che accomuna gli intervistati è la loro attitudine a lasciarsi attrarre da un elemento avulso dal loro dominio privato di vita. Il che spinge a riproporre una definizione di senso comune dell’altruismo: il fatto di prodigarsi per “qualcosa o qualcuno”, senza ricavarne un vantaggio personale immediato. Non interessa qui stabilire se il movente di questa azione sia la gratificazione morale o altre ragioni imperscrutabili. Piuttosto, le donne e gli uomini che hanno raccontato di sé in questo volume hanno subito (volenti o nolenti) una mutazione antropologica; i loro gesti (simbolici e materiali) esprimono un coinvolgimento crescente nella condizione altrui. L’estraneo (un malato terminale ma anche un villaggio dove si muore per denutrizione) entra gradualmente a far parte del loro vissuto. Si assiste così ad un processo di immedesimazione nel “diverso” da sé: perché altrimenti ci si interesserebbe dei destini di un bambino ossuto che vive in Africa o degli immigrati che vivono ai margini del tessuto urbano? E’ come se cambiasse il centro di gravità attorno al quale ruota un’esistenza: ad un certo punto, l’orbita biografica tracciata dall’uomo moderno devia dal suo asse naturale. Le passioni acquisitive vengono per un momento accantonate. Un pensiero fulmineo s’insinua nella mente di un cittadino qualunque: c’è qualcuno dall’altra parte dell’emisfero abitato, o a pochi passi da casa, che ha bisogno d’aiuto; si va così in suo soccorso, rimanendo al suo fianco. E, poco a poco, si condividono le inquietudini e le speranze di quell’interlocutore che non è un parente e neppure un vicino, sino a delineare un impegno costante che si affianca alla cura del sé. Per spiegare questa dinamica socio-psicologica, non è necessario scomodare il lessico aulico con cui si è soliti qualificare il volontariato: la gratuità; la carità; l’egualitarismo; il senso di giustizia; l’etica e via discorrendo. Basta seguire un volontario ordinario che recita a soggetto nella vita quotidiana: 137 Conclusioni. Il richiamo dell’altro costui comincia a soffermarsi sui sintomi palpabili del malessere o dell’iniquità sociale. Ma, a differenza di molti suoi concittadini, non guarda dall’altra parte o si limita a versare una somma in beneficenza. In sostanza, egli decide di farsi carico di un problema che non lo toccherebbe in prima persona; da quel momento la sua vita cambia perché è costretto a muoversi sul doppio binario della ragione e dei sentimenti. E’ la logica stringente del bisogno, infatti, che invita a pensare con il cuore, emozionandosi con la mente: per rispondere alle necessità impellenti dei più deboli ci vuole un sano pragmatismo, ma anche la non comune capacità di riconoscersi nelle proprie e altrui emozioni, facendole diventare una componente costitutiva del legame sociale. Senza questo quid aggiuntivo l’esperienza volontaria franerebbe prima o poi sotto i colpi del realismo e della razionalità. D’altronde, la generosità è simile ad un “vuoto a perdere”: si porta qualcosa in dono oggi, senza sapere cosa si riceverà domani. Ma gli altruisti senza divisa non possono (né vogliono) più ritirarsi da questo scambio ineguale: un giorno hanno incontrato l’altro e ne hanno saputo ascoltare il richiamo inappellabile. 138 Appendice. Cronistoria di una ricerca Appendice Cronistoria di una ricerca Ogni indagine si inquadra a pieno titolo nella biografia di chi la compie; di solito si sorvola sui motivi, più o meno fondati, che inducono un ricercatore ad interessarsi di un particolare ambito sociale. In questa sede si preferisce, invece, accennare alle ragioni che hanno spinto l’autore ad occuparsi del volontariato informale. Per questo abbandono volentieri la forma impersonale, mentre mi accingo a raccontare il “dietro le quinte” di questo libro. Da anni cerco di capire perché i cittadini si impegnano in una molteplicità di attività meritorie (dal volontariato al consumo responsabile), avendo lavorato alle ultime edizioni del Rapporto sull’Associazionismo Sociale; ho avuto, perciò, la possibilità di osservare l’evoluzione della partecipazione civica nella nostra società, seguendone da vicino le trasformazioni più significative. Ebbene, uno dei cambiamenti che mi ha colpito di più è stato l’aumento costante del volontariato informale nel corso degli anni novanta: un numero sempre maggiore di italiani dichiarano di prodigarsi per “qualcuno o per qualcosa”, operando da soli o in piccoli gruppi che nascono spontaneamente sul territorio. La mia curiosità verso questo fenomeno è cresciuta di anno in anno, sollecitandomi ad approfondire un tema che (se non altro in Italia) è ancora scarsamente studiato e dibattuto. Per dare corpo a questa idea, assieme all’équipe dell’Iref, ho elaborato una proposta articolata di ricerca, inserendola nelle attività preparatorie del nuovo Rapporto sull’Associazionismo sociale (nona edizione). La Fondazione Cariplo - alla quale va il mio sentito ringraziamento - ha creduto nella validità di questo progetto scientifico, concedendo un finanziamento per realizzarlo. E, così, è cominciata l’avventura… Per circa tre mesi (novembre2004/gennaio2005) mi sono cimentato in quella che in gergo tecnico viene definita analisi di sfondo: in pratica, ho messo a punto gli strumenti per poter svolgere l’indagine. Prima ho letto letteratura specialistica sull’argomento, per approfondire il contesto entro il quale si sarebbe sviluppato lo studio. Gran parte dei volumi, delle riviste scientifiche e del materiale “grigio” che ho potuto consultare 139 Appendice. Cronistoria di una ricerca sono citati nella bibliografia. Posso aggiungere che questo esame preliminare mi ha offerto molte suggestioni per proseguire nel lavoro di ricerca; in particolare, mi sento in debito verso quegli studiosi che, prima di me, hanno tentato di ricostruire l’esperienza volontaria con un approccio biografico: ossia, analizzando la vita quotidiana di coloro che compiono gesti disinteressati di solidarietà. Comunque, dopo aver passato al setaccio molti volumi e articoli scientifici, è giunto il momento di far partire la ricerca. Due operazioni fondamentali mi hanno tenuto impegnato per circa un mese (febbraio 2005): la stesura di una traccia d’intervista; e la costruzione del panel degli intervistati. Sul primo aspetto mi sono soffermato nell’introduzione, quando mi sono dilungato sui pregi della tecnica d’intervista in profondità. In questa sede mi limito, pertanto, a riportare in forma schematica i temi di discussione e alcuni esempi degli stimoli verbali che ho utilizzato per far esprimere liberamente gli intervistati; salvo ribadire che mi sono concesso ampia facoltà di invertire, eliminare o aggiungere le domande, a seconda dell’andamento dei singoli colloqui con i volontari. Prospetto A - Schema dell’intervista in profondità Temi Esempi di stimoli verbali L’esperienza volontaria obiettivo: far ricostruire all’intervistato la propria attività di volontariato - mi puoi raccontare della tua esperienza da volontario? quando, dove e come hai cominciato…? perché? quanto tempo gli dedichi? che tipo di attività svolgi? - c’è un episodio che descrive meglio il tuo impegno da volontario? - cosa è cambiato nella tua vita da quando fai questa attività? - quale è il tuo rapporto con la politica? E con La cornice obiettivo: la religione? far esprimere - quali aspetti sono più importanti per te nella opinioni su vita: il lavoro, la famiglia, ecc. questioni sociali - che cos’è per te la solidarietà? e la libertà? dirimenti; sondare - che cosa pensi della globalizzazione? e altre sfere di dell’immigrazione in Italia? partecipazione civica - mi puoi raccontare della tua esperienza nel Il profilo lavoro? ci sono stati dei momenti di difficoltà? biografico e delle svolte positive? obiettivo: - quale è la tua situazione familiare? inquadrare la - cosa fai nel tempo libero? situazione - quali sono i tuoi progetti futuri? familiare e lavorativa dell’intervistato 140 Fuochi di riflessione - tappe dell’esperienza volontaria; - significato attribuito; all’attività svolta - motivazioni e pratiche di aiuto; - i progetti nel volontariato - visioni del mondo - altri ambiti di coinvolgimento personale - opinioni sulla società - passaggi chiave della biografia: transizioni positive e criticità; aspirazioni personali Appendice. Cronistoria di una ricerca Sul modo con cui ho selezionato gli intervistati è invece opportuno spendere qualche parola in più. Già nell’introduzione ho anticipato che è stato molto difficile entrare in contatto con i protagonisti di questo volume: gli italiani impegnati nel volontariato informale sono infatti particolarmente dinamici, ma purtroppo si rendono invisibili ai sensori delle statistiche ufficiali; il motivo è semplice: non prestano aiuto all’interno di ambiti organizzativi definiti; sicché, non possono essere rintracciati attraverso gli archivi delle associazioni di volontariato o di altri enti del terzo settore. Per fortuna lavoro in un istituto di ricerche che realizza numerose indagini campionarie; così ho potuto superare il problema, chiedendo direttamente ai cittadini italiani se svolgevano attività di volontariato, e nel caso, se questo impegno fosse a titolo personale o in gruppi informali1. In particolare, l’operazione di selezione dei volontari è stata ripetuta due volte, agli inizi del 2005: nel corso di un sondaggio telefonico sulle opinioni degli italiani nei confronti del sistema fiscale2; e nell’ambito di un’indagine a carattere nazionale sul consumo responsabile3. Una volta terminate queste due ricerche, ho raccolto circa ottanta nominativi di potenziali candidati a cui rivolgermi per le successive interviste in profondità. In realtà, per poter accedere alle liste di questi volontari, mi sono dovuto recare nei due istituti che avevano condotto le rilevazioni campionarie. I responsabili di Codres e Pragma erano infatti tenuti a tutelare la privacy di questi intervistati. Quindi, per aggirare l’ostacolo, abbiamo stabilito che li avrei contatti nelle loro sedi, evitando così di far circolare all’esterno informazioni comunque riservate. Ben presto mi sono tuttavia accorto che la lista si sarebbe assottigliata di molto: trenta volontari informali, durante i sondaggi preliminari, avevano detto di non essere disponibili a rilasciare nuove interviste, volendo con ciò rimanere nell’anonimato; altri venti sono risultati irreperibili dopo numerose telefonate andate a vuoto. Quindi (volente o nolente) mi sono dovuto abituare all’idea di poter contare su una lista effettiva di circa trenta intervistati4. Peraltro, i colloqui iniziali con queste persone mi hanno rassicurato sulla reale consistenza del loro impegno sociale: solo 141 Appendice. Cronistoria di una ricerca cinque volte mi sono imbattuto in persone che si limitavano ad aiutare occasionalmente un vicino o un parente. Nei restanti casi si trattava di esperienze prolungate di volontariato informale. A quel punto, il panel degli intervistati era quasi completo; in modo quasi casuale, avevo selezionato trentuno volontari distribuiti su tutto il territorio nazionale. Il passo successivo è stato quello di fissare un appuntamento per svolgere il colloquio d’intervista. Prospetto B - Il panel degli intervistati Età Condizione occupazionale Luogo di residenza Area geografica Alessia Aurelio Assunta Anna Consuelo Alberto Angelo Giovanni Clemente Aldo Carla 37 55 47 38 22 29 44 22 71 52 55 20 45 40 50 37 77 Roma Sermoneta Casoria (Napoli) Bari Caserta Arezzo Forlì Roma Roma Brescia Pralungo S. Eurosia (Biella) Avigliana (Torino) Roma Catania Catania Siracusa Palermo Centro Centro Sud e Isole Sud e Isole Sud e Isole Centro Nord Est Centro Sud e Isole Nord Ovest Nord Ovest Fausto Laura Manuela Mario Paolo Rita Nord Ovest Centro Sud e Isole Sud e Isole Sud e Isole Sud e Isole Marta Clara 40 40 Bologna Bergamo Nord Est Nord Ovest Demetrio Serena Sonia Liliana Valentino 30 40 28 52 30 29 Bergamo Bologna Brescia Bologna Casalecchio (Bologna) Trento Nord Ovest Nord Est Nord Ovest Nord Est Nord Est Tiziano Stefano Goffredo Alex Piero Carola Caterina 57 41 23 70 27 25 Contratti a progetto Falegname Medico Casalinga Studente Studente Coltivatore diretto Studente Pensionato Dirigente Proprietaria (bed&break feast) Studente-lavoratore Impiegata (biblioteca) Insegnante Impiegato (ditta edile) Proprietario di un Pub Pensionata (ex assistente sociale) Funzionaria (ente pubblico) Analista in un laboratorio sanitario Insegnante Sindacalista Contratti a progetto Insegnante Quadro in una società d’ingegneria Cameriere in una tavola calda Imprenditore edile Informatico Studente Pensionato Disoccupata Studente Vicenza Vicenza Trento Cagliari Brescia Roma Nord Est Nord Est Nord Est Sud e Isole Nord Ovest Centro Pseudonimo 142 Nord Est Appendice. Cronistoria di una ricerca Da allora ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, raccogliendo le storie dei protagonisti dell’indagine. Ho effettuato la prima intervista a Sermoneta, un piccolo centro nei pressi di Latina. Era il 26 febbraio 2005; Aurelio mi ha accolto nel soggiorno della sua abitazione; per circa due ore mi ha raccontato del suo volontariato a favore dei bambini di Chernobyl, senza tralasciare nulla: questo falegname di cinquantacinque anni, mi ha aperto lo scrigno dei suoi pensieri mentre ricostruiva la sua esperienza personale. Oltre a descrivere in modo minuzioso il suo impegno a favore dei reduci del disastro nucleare, l’intervistato ha espresso compiutamente le motivazioni e il significato che egli attribuisce alla sua attività volontaria, dando prova di sapersi rispecchiare in quello che fa. Questa capacità di autoanalisi l’ho ritrovata in tutti i volontari che ho incontrato successivamente; in tal senso, il mio itinerario di ricerca è stato suggestivo ed istruttivo, grazie alle testimonianze vivide degli intervistati. Percorrendo il Belpaese, ho conosciuto un vasto campionario di italiani dediti all’altruismo. In questo viaggio, mi sono avvalso della collaborazione di Marta Simoni che, con la sua professionalità e competenza, mi ha aiutato nel lavoro di intervista, oltre a fornirmi spunti e consigli preziosissimi. A lei va la mia riconoscenza: senza il suo apporto decisivo, non sarei riuscito a portare a termine la ricerca empirica. L’indagine sul campo è finita il dieci ottobre 2005, quando ho posto l’ultima domanda a Caterina, una giovane studentessa di Roma. Gli ho chiesto se pensava di continuare ad impegnarsi in futuro nel volontariato; lei ci ha pensato su per qualche attimo e poi mi ha detto: “vorrei proseguire quest’esperienza; non è volontariato, né lavoro: è una vocazione”. Riascoltando le sue parole vibranti, ho ripensato a tutti i volti degli intervistati che l’avevano preceduta, alla loro volontà di mettersi al servizio degli altri. Come si può vedere dal prospetto B, si tratta di un gruppo composito di persone. Innanzi tutto, il dato sull’età è estremamente variegato; si và dai venti anni di Fausto ai settantantasette anni di Rita; in sostanza, fra gli “altruisti senza divisa” si ritrovano tutte le leve anagrafiche presenti nella nostra società: giovanissimi, giovani-adulti, adulti e anziani. Anche sul 143 Appendice. Cronistoria di una ricerca piano occupazionale, questi cittadini versano in condizioni assai diverse: studenti, pensionati, casalinghe; disoccupati e lavoratori a contratto; insegnanti e impiegati pubblici; imprenditori, artigiani, quadri in imprese private; ecc. Allo stesso modo, è alquanto bilanciato il rapporto di genere: 15 donne e 16 uomini. Al lettore smaliziato non sarà sfuggito che il panel dei volontari è ben proporzionato anche a livello territoriale: gli intervistati sono dislocati in modo abbastanza uniforme nelle differenti ripartizioni geografiche del paese (7 Nord-Ovest; 9 Nord-Est; 6 Centro; 9 Sud e Isole); inoltre, i contesti in cui risiedono sono molto diversificati: alcune grandi metropoli (Roma, Bologna, Napoli, Bari, Cagliari e Palermo); le città medie del nord industrioso (Brescia, Bergamo e Vicenza); le realtà provinciali del Meridione (Caserta, Catania e Siracusa); le aree municipali delle regioni rosse (Arezzo e Forlì); le piccole comunità isolate (Avigliana, Pralungo S. Eurosia, Sermoneta). Insomma, mi sembra di poter concludere la foto di gruppo degli intervistati rappresenti in miniatura uno spaccato significativo della nostra società. D’altronde, come ho ripetuto più volte nel testo, non era mia intenzione costruire un campione probabilistico della popolazione. Non mi interessava estendere i risultati della ricerca a tutta la collettività degli italiani. Piuttosto, volevo condurre uno studio esplorativo sul volontariato informale, decifrando le sue componenti biografiche. In tal senso, mi pare che il profilo sociale delle persone che hanno partecipato a questo studio sia sufficientemente articolato. In effetti, la ricerca ha portato allo scoperto un ampio ventaglio di “tipi umani” che si dedicano all’altruismo spontaneo. Ma, al di là dei ragionamenti sulla “tenuta” del metodo qualitativo, mi preme sottolineare che forse il contributo di questa indagine va rintracciato nelle storie che ha fatto emergere. Dopo aver ultimato le interviste, ho passato molto tempo a leggerle (e rileggerle). I resoconti dei volontari sono stati per me una fonte inesauribile di riflessione e conoscenza; senza queste narrazioni autentiche non avrei mai potuto comprendere le dinamiche dell’esperienza volontaria; per questo ho cercato di rimanere il più possibile aderente al loro vissuto. Spero di esserci riuscito con questo libro5. 144 Appendice. Cronistoria di una ricerca Note 1 In particolare, la domanda era così formulata: “Lei svolge attualmente attività di volontariato, cioè un’attività non retribuita con una finalità sociale (escluso il servizio civile)?”. Chi rispondeva in modo affermativo, poteva indicare se svolgeva questa attività da solo o in un gruppo spontaneo, oltre che in diverse organizzazioni strutturate (associazioni del terzo settore, locali o nazionali; cooperative sociali; parrocchie; partiti e sindacati, ecc.). 2 Il sondaggio è stato svolto dalla società di ricerche Pragma di Roma, per conto dell’Iref e della Presidenza nazionale Acli, raggiungendo un campione casuale di 1003 individui maggiorenni. Le interviste sono state realizzate materialmente dal 20 Gennaio al 2 Febbraio 2005, utilizzando la procedura CATI (Computer Assisted Telephone Interview); una tecnica che consente di controllare al meglio le operazioni di raccolta dei dati, eliminando possibili errori di codifica degli stessi. 3 La ricerca è stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 1.000 cittadini in età maggiorenne. Le interviste sono state realizzate “faccia a faccia”, nel mese di gennaio 2005. L’indagine sul campo è stata realizzata dalla Società di ricerche Codres di Roma, per conto dell’Iref. 4 Durante il processo di selezione telefonica degli intervistati, mi sono reso conto che sarebbe stato estremamente difficile contattare i giovanissimi. Difatti, risulta arduo reperire in casa gli studenti durante gli orari diurni. Dopo vari tentativi andati a vuoto, ho deciso di rivolgermi ad alcune associazioni che organizzano campi di lavoro volontario nei periodi estivi. Sapevo infatti che questa attività viene svolta su basi autonome da molti giovani: in sostanza questi ultimi scelgono di anno in anno di partecipare ad un’iniziativa di solidarietà (principalmente nei paesi in via di sviluppo), senza essere iscritti all’ente che la promuove. Alcune di queste organizzazioni mi hanno consentito di spedire una e-mail in cui spiegavo gli scopi della ricerca, oltre a richiedere la disponibilità a sottoporsi ad un’intervista libera. Quattro giovani hanno risposto al mio messaggio; così ho potuto intervistarli. 5 Massimo Lori e Gianfranco Zucca hanno letto una versione preliminare del manoscritto, fornendo alcuni suggerimenti e spunti critici fondamentali. Grazie a loro ho potuto eliminare molte sviste, omissioni ed esagerazioni presenti nel testo. Dei difetti rimasti sono ovviamente l’unico responsabile. 145 Bibliografia Ambrosini M. (2004), a cura di, Per gli altri e per sé. Motivazioni e percorsi del volontariato giovanile, Milano, Franco Angeli. Ambrosini M. (2005), Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempi di soggettivismo, Bologna, Il Mulino. Ardigò A. (2001), Volontariati e globalizzazione. Dal <<privato sociale>> ai problemi dell’etica globale, Bologna, EDB. Ascoli U., Pasquinelli S. (1993), a cura di, Il welfare mix. Stato sociale e terzo settore, Milano, Franco Angeli. Barber B. R. (2004), L'impero della paura. Potenza e impotenza dell'America nel nuovo millennio, Torino, Einaudi. Bauman Z. 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