Altruisti senza divisa

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Altruisti senza divisa
Cristiano Caltabiano
ALTRUISTI SENZA DIVISA
STORIE DI ITALIANI IMPEGNATI NEL
VOLONTARIATO INFORMALE
Roma - dicembre 2005
SECONDA DI COPERTINA
La fondazione Cariplo opera senza scopo di lucro per obiettivi di
interesse generale e di utilità pubblica in vari settori, dall’arte alla
cultura, all’educazione, alla ricerca scientifica, dalla sanità al sostegno
alle categorie sociali più deboli. La Fondazione, in particolare,
persegue e promuove le proprie finalità nei settori della ricerca
scientifica, dell’istruzione, dell’arte, della conservazione e
valorizzazione dei beni e delle attività culturali e dei beni ambientali,
della sanità e dell’assistenza alle categorie sociali deboli.
Rivolgiamo un particolare ringraziamento alla fondazione CARIPLO
che, grazie al proprio contributo economico, ha permesso la
realizzazione e la pubblicazione della presente indagine scientifica.
INDICE
Introduzione
Il volto invisibile dell’altruismo
L’ascesa dell’uomo solidale
La frammentazione dell’esperienza volontaria
Quanti sono i volontari in Italia?
Come decifrare il volto dell’altruista
Per terminare
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
1.1 Guardare oltre i confini del volontariato ufficiale
1.2 Incursioni solitarie nel pianeta dell’autismo
1.3 Il gioco dei legami sociali
1.4 Combattere la solitudine nella “montagna disincantata”
1.5 Un “calcio” alle illusioni
1.6 La mia Africa: un altro mondo è necessario
1.7 Il quotidiano solidale
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
2.1 Breve excursus teorico
2.2 Contestualizzare il rituale altruistico
2.3 Una tipologia
3. La riparazione
3.1 Il presupposto: porre rimedio ad un problema
3.2 Una questione di riconoscimento
3.3 Figli di una solidarietà minore?
3.4 Lo sconfinamento emotivo
4. Il contrasto
4.1 Una mobilitazione sottotraccia
4.2 La rivolta morale
4.3 La resistenza attiva
4.4 Uniti per che cosa?
5. L’iniziazione
5.1Esploratori o missionari?
5.2 Verso un “altrove” sconosciuto
5.3 Cronache di viaggio
5.4 Il rientro (o meglio) una transizione biografica
6. L’interconnessione
6.1 Superare la distanza
6.2 L’arte di costruire i ponti (umanitari)
6.3 Sentirsi interdipendenti
Conclusioni
Il richiamo dell’altro
Appendice
Cronistoria di una ricerca
Bibliografia
Il volto invisibile dell’altruismo
Introduzione
Il volto invisibile dell’altruismo
L’ascesa dell’uomo solidale
Donne e uomini che soccorrono l’altro o che si mettono al
servizio della comunità. I volontari potrebbero essere descritti in
poche battute, evocando la miriade di comportamenti solidali
con cui tessono la tela del legame sociale. D’altronde, questi
“cittadini impegnati”, contribuiscono in modo fattivo a mitigare
alcuni dei mali della modernità avanzata1; difatti, molto spesso
assistono gli emarginati e le persone svantaggiate (anziani non
autosufficienti, homeless, malati cronici, tossicodipendenti,
madri sole, detenuti ecc.); sono in prima fila quando si tratta di
lottare contro la deturpazione dell’ambiente o del patrimonio
artistico; difendono i diritti delle minoranze e dei gruppi sociali
deprivati; partecipano anche agli interventi umanitari nei paesi
in via di sviluppo; e via dicendo.
Sicché, la risorsa dell’altruismo si sprigiona in molteplici
sfere della società, attraverso l’opera silenziosa di una
moltitudine di persone che, un po’ ovunque nel mondo, si
rendono artefici di atti di responsabilità civica e umanitaria.
Dunque, a prima vista, sono queste le credenziali con cui si
presenta oggi il volontario. Un individuo-che-aiuta, facendosi
carico dei bisogni sociali emergenti2. La fisionomia del suo
impegno è piuttosto lineare; egli si prodiga in modo
disinteressato (gratuito) per una “causa” dando, per certi versi,
sostanza ai significati più autentici della carità cristiana, del
civismo liberale o dell’egualitarismo socialista.
Certo, si potrebbe sfogliare a lungo la margherita dei buoni
sentimenti, tentando di scorgere qualcosa di meno nobile dietro
alla generosità dell’uomo qualunque: la richiesta di
considerazione sociale; il narcisismo di chi è consapevole (autocompiaciuto) di “fare del bene”; le motivazioni strumentali, che
operano a livello latente, anche quando si compie un’azione
apparentemente lodevole3.
Nondimeno, pur volendo considerare le ragioni del
tornaconto personale, rimane comunque un fatto semplice. Non
è facile sottovalutare il comportamento pro-sociale; si può,
1
Il volto invisibile dell’altruismo
ovviamente, discettare a lungo sui motivi reconditi che lo
ispirano; ma il concreto dispiegarsi dell’azione volontaria lascia
una scia tangibile sul tessuto della società. Un giorno una
persona decide di dedicarsi alla risoluzione di problemi concreti,
che funestano la vita degli esclusi o che investono la società alle
prese con i dilemmi dello sviluppo. Tale gesto è spontaneo e,
specie quando viene ripetuto nel tempo, esprime un
atteggiamento verso la realtà che sconfessa (almeno in parte)
alcuni luoghi comuni sull’opportunismo e sul cinismo dei
cittadini.
Detto per inciso, l’utilitarismo (il calcolo mezzi-fini in vista
dell’interesse individuale) è parte costitutiva della natura umana,
essendo fortemente apparentato con il bisogno di
riconoscimento personale. In tal senso, non si può non
concordare con Elena Pulcini, laddove evidenzia che
l’individualismo moderno è permeato da due istanze
fondamentali: “la passione acquisitiva e la passione dell’Io, vale
a dire il desiderio di possedere ricchezza e beni materiali e il
desiderio di distinguersi dall’altro e di ottenere riconoscimento
(Pulcini, 2001, p. 12)”. Si deve, però, aggiungere che la società
contemporanea è, allo stesso modo, caratterizzata da forme di
reciprocità e di apertura verso l’altro. Questa dimensione
“nascosta” della modernità è stata reintrodotta nella discussione
scientifica dagli intellettuali del MAUSS (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali).
In sostanza, l’opera di autori come Serge Latouche, Jacques
Godbout e Alain Caillé si propone di fondare un paradigma
alternativo di analisi delle forme di convivenza nelle società
complesse; un paradigma che tende a rivalutare le prassi di
dono4; prassi che non si sono affatto erose nella società odierna
(Godbout, 1992). I volontari hanno molto da dire su questo
fronte: la loro esperienza è come un reagente che affiora
improvvisamente dalla cartina di tornasole del tardocapitalismo. La sorpresa è, infatti, grande quando si scorgono
segni (frammenti) di altruismo nella chimica sociale di una
società essenzialmente mercantile e rinchiusa nelle passioni
acquisitive.
Forse è per questo che le virtù del volontariato vengono
decantate ovunque. Basti pensare che ogni anno, il cinque di
dicembre, si celebra il giorno internazionale del volontario; un
2
Il volto invisibile dell’altruismo
evento simbolico al quale aderiscono circa cento nazioni, sotto
l’alto patrocinio dell’ONU. Sicché, l’uomo solidale è entrato nel
pantheon dei miti dell’era globale, racchiudendo i tratti in cui
l’umanità si rispecchia più volentieri, soprattutto quando va in
onda lo “spettacolo della solidarietà”. Infatti, anche il dolore, e
in senso più lato il “bisogno”, può diventare oggetto di consumo
(culto) mediatico (Boltanski, 1993); molto spesso, l’opinione
pubblica viene sollecitata nei suoi sentimenti più profondi,
attraverso la messa in scena di grandi happening
compassionevoli (ad esempio Telethon), con tutti gli eccessi del
caso.
In realtà, il riconoscimento del valore sociale delle
Organizzazioni dei Volontari (OdV5) è avvenuto molto prima
della loro consacrazione esteriore nell’immaginario popolare.
Soprattutto in Europa, la riscoperta di questa risorsa della
società civile risale alla fine degli anni Settanta, quando risultò
chiaro che il ciclo di espansione del welfare state si era ormai
esaurito (Kramer, 1981). Allora, si prendeva atto che il
volontariato rappresentava una risposta credibile (benché non
risolutiva) alla annunciata crisi dello Stato sociale6. Col
trascorrere del tempo, questa idea si è diffusa in gran parte dei
paesi sviluppati e non. Le OdV hanno così ottenuto una
legittimazione giuridica e politica. Oggi è alquanto improbabile
imbattersi in un disegno di riforma delle politiche sociali che
non assegni a questi enti un ruolo strategico: l’appello alle
valenze ideali e pratiche dell’altruismo organizzato è un leit
motiv nei programmi dei governi, a prescindere dagli
orientamenti ideologici e dalle differenze nazionali.
Anche in Italia si è verificato qualcosa di molto simile. Da
questo punto di vista, l’approvazione della legge quadro n. 266
del 1991 è stata senza dubbio un passaggio decisivo; questa
norma ha infatti regolamentato l’attività di volontariato,
fornendo la base giuridica per coinvolgere le OdV nel sistema
misto di erogazione dei servizi sociali: il welfare mix (Ascoli,
Pasquinelli, 1993; Fazzi, 1998). Con uno sguardo retrospettivo,
si può senz’altro affermare che nel nostro paese le associazioni
volontarie sono definitivamente entrate nell’arena pubblica,
avendo attivato dei rapporti proficui di cooperazione con le
amministrazioni regionali e comunali. In effetti, a questi
3
Il volto invisibile dell’altruismo
organismi viene attribuita in molte circostanze la gestione di
attività cruciali per il benessere dei cittadini7.
Peraltro, questa forma di accreditamento si estende ben oltre
gli steccati della politica: il volontariato si è senza alcun dubbio
radicato nella cultura italiana, sino a diventare materia prima del
senso comune. Per certi versi, la nostra società si è abituata alla
presenza attiva dei volontari: le campagne in difesa
dell’ambiente degli attivisti di Legambiente o del WWF; l’opera
discreta dei volontari ospedalieri della Federavo o del Tribunale
per i diritti del malato; il paziente lavoro dei fund raiser delle
Ong (Amref, Focsiv, Emergency, CTM-Movimondo solo per
citarne alcune), che raccolgono donazioni per le popolazioni
colpite da carestie, guerre o altre calamità, stazionando per
strada o facendo visite porta a porta. Ma non finisce qui; anche
in altri ambiti non mancano saldi riferimenti culturali: gli
avvocati di Adiconsum, Federconsumatori o Codacons, che
offrono consulenze gratuite ai cittadini alle prese con
malversazioni di ogni genere; gli operatori telefonici del
Telefono Azzurro e Rosa, che captano i sintomi più estremi del
disagio familiare, fornendo un apporto decisivo alla lotta contro
gli abusi subiti da minori e donne; gli anziani e i giovani che
servono pasti caldi nelle mense della Caritas, rispondendo così
ai bisogni primari della underclass urbana: senza fissa dimora,
famiglie indigenti di immigrati, altre figure frettolosamente
assimilate nella categoria delle nuove povertà. E’ perfino ovvio
sottolineare che si potrebbe procedere a lungo con questa
esemplificazione.
Insomma, l’universo dell’altruismo è saturo di sigle
organizzative, che danno espressione compiuta al lavoro svolto
dai volontari. Sigle che fanno ormai parte del costume
nazionale. Gli italiani sanno bene a chi rivolgersi quando
debbono affrontare un problema stringente o quando intendono
sostenere temporaneamente una causa sociale elargendo denaro;
allo stesso modo, sono consapevoli di poter aderire ad una vasta
platea di enti e associazioni, qualora si volessero cimentare in
prima persona “nell’arte della solidarietà”. A ben vedere, la
sfera del volontariato è oggi costellata da organizzazioni
rinomate e affidabili, dove ciascuno può trovare uno spazio
adatto alle sue inclinazioni personali. Nell’agone della
solidarietà convivono, infatti, esperienze collettive di matrice
4
Il volto invisibile dell’altruismo
laica e religiosa, con stili d’intervento e modalità di
aggregazione anche molto diversi tra loro.
Senza cedere alla retorica, è forse questo il lascito più
consistente che il volontariato porta in dote al nostro paese: una
rete articolata di soggetti organizzativi che ispira familiarità,
fiducia e talvolta un coinvolgimento attivo. Tale forma di
considerazione sociale non deve essere sminuita, perché ogni
istanza ideale si alimenta grazie ad un diffuso sostegno esterno.
Del resto, in questo genere di consenso popolare si può
intravede l’approdo di un percorso di sviluppo scandito da
alcune tappe fondamentali: negli anni ottanta, le OdV hanno
operato quasi in incognito, gettando le basi per la loro
successiva emersione dal tessuto frastagliato della nostra
società; gli anni novanta sono stati invece segnati
dall’istituzionalizzazione della solidarietà organizzata; mentre,
nello scorcio iniziale del terzo millennio si è assistito alla
definitiva consacrazione del volontariato nell’immaginario
collettivo. Si è, quindi, in presenza di una parabola positiva:
l’evoluzione di un attore sociale che ha acquisito piena
cittadinanza nella costituzione materiale del paese.
La frammentazione dell’esperienza volontaria
Finora si è compreso che i volontari e le loro organizzazioni
sono emersi definitivamente dalle retrovie della società italiana;
ciò non toglie che si debba esaminare meglio questo processo,
per comprendere la sua stessa evoluzione. Si tratta, in prima
battuta, di definire il lessico con cui viene descritta quella che, a
tutti gli effetti, è diventata una prassi consuetudinaria del nostro
paese. Quando si parla di volontariato si allude, in realtà, a tre
dimensioni che andrebbero tenute distinte tanto nel discorso
scientifico, quanto nelle rappresentazioni sociali in uso nei
media e nel mondo politico (fig. 1):
1. anzitutto, l’azione volontaria, vale a dire le forme di
impegno gratuito agite dai singoli cittadini;
2. in secondo luogo le OdV, ossia quelle strutture organizzative
che raccolgono le energie dei volontari, offrendo loro degli
spazi in cui prestare attività a carattere sociale;
5
Il volto invisibile dell’altruismo
3. infine, il settore volontario, ovvero l’ambito della società
dove viene collocato l’insieme (la totalità) delle associazioni
che attraggono i volontari; un ambito che varia da paese a
paese, per effetto delle normative vigenti e di particolari
tradizioni caritative, mutualistiche o associative.
Va da sé che tali dimensioni siano collegate, ma non per
questo sovrapponibili. In dettaglio, procedendo dalla prima alla
terza componente, si cambia decisamente punto di osservazione;
si passa, dal livello micro dei comportamenti individuali, ad
un’ottica sistemica (macro); quest’ultima identifica, appunto un
comparto dove coabitano pressoché tutte le esperienze collettive
in qualche modo riconducibili al volontariato. In mezzo (livello
meso8), si situano le OdV.
Come emerge dalla figura 1, vi è un altro aspetto da valutare.
Il volontariato acquisisce diversi gradi di visibilità, a seconda
dell’angolo visuale da cui viene esaminato. A livello sistemico,
il suo profilo è limpido, a tratti cristallino; è sufficiente sondare
rapidamente l’opinione pubblica o raccogliere indicatori grezzi
dai censimenti degli Istituti nazionali di statistica, per fare un
bilancio sul settore; si assembla tutto negli indici sintetici,
avendo così a disposizione un metro immediato del suo
sviluppo9.
Fig. 1 – Le dimensioni interne del volontariato
Settore volontario
(livello macro)
Organizzazioni che offrono spazi di
intervento ai volontari
(livello meso)
Azione volontaria dei cittadini
(livello micro)
Basso
Grado di visibilità
Medio
6
Alto
Il volto invisibile dell’altruismo
Ma le cose si complicano tremendamente quando si
esplorano con attenzione singole OdV o qualora si voglia
decodificare in presa diretta l’azione volontaria degli individui.
Scendendo di livello di analisi, l’impressione dominante è quella
di un offuscamento dello sguardo: l’oggetto si sfoca, i suoi
contorni sfumano senza soluzione di continuità. Difatti, sia sul
piano organizzativo che sul versante individuale, l’esperienza
dell’altruismo è molto più complessa di quanto non si pensi.
Questa considerazione è avvalorata da quelle ricerche che
seguono più da vicino le tracce del volontariato. Le conoscenze
accumulate in anni di indagini mirate sul tema, sono per lo più
frammentarie (Wilson, 2000). Si è ancora distanti da una
sistematizzazione delle evidenze empiriche e i risultati, spesso,
smentiscono alcune idee preconcette sui volontari. In ogni caso,
un dato di fondo colpisce in modo particolare: i valori
tradizionalmente attribuiti a coloro che prestano aiuto
(responsabilità civica, orientamenti egualitari, solidarietà, spirito
caritativo di stampo religioso, ecc.) non sembrano influire più di
tanto sulla loro propensione ad impegnarsi, né sul tipo di attività
che essi svolgono. Peraltro, si registra un certo consenso sui
fattori che spiegano questo processo: oggi le modalità con cui
viene esercitata la solidarietà sono sempre più mutevoli e,
perciò, non riducibili a matrici valoriali comuni; questo perché
l’azione volontaria si consuma fuori dai contesti comunitari,
quindi in assenza di un controllo normativo cogente (Wilson,
2000; Wuthnow, 1998).
A ben vedere, lo scollamento tra comportamento pro-sociale
e motivazioni etiche tende a decostruire l’immagine stereotipata
del volontario: quest’ultimo non è necessariamente il Buon
Samaritano a cui, non di rado, si appella la vulgata giornalistica.
Quindi, se si vuole cogliere l’attualità del volontariato, si deve
superare questa rappresentazione monolitica del bene incarnato
in una persona generosa, introducendo griglie di lettura più
articolate.
Sotto questo profilo, diversi studi segnalano che si sta
delineando un cambiamento significativo nel modo di concepire
l’attività volontaria (Wuthnow, 1998; Gaskin, 1998; Eckstein
2001; Mejis, Hoogstad, 2001). Lo scenario prevalente sarebbe
quello di una erosione delle forme collettivistiche di
volontariato, le quali verrebbero gradualmente sostituite da
7
Il volto invisibile dell’altruismo
modalità individualizzate di altruismo; insomma, la figura
emergente sarebbe quella di un attivista non più al servizio della
comunità; un cittadino sì disposto ad aiutare, ma anche più
propenso a considerare questa attività come un impegno “a
termine”, svolto su basi essenzialmente autonome,
concentrandosi soprattutto sui risultati degli interventi solidali.
Le stesse OdV si troverebbero in seria difficoltà, dovendo
coinvolgere una platea di persone sempre meno attratte dalla
vita associativa. Difatti, “i nuovi volontari” non sentirebbero più
di tanto il richiamo dell’appartenenza alle associazioni civiche o
assistenziali. Il loro legame con queste organizzazioni sarebbe
alquanto effimero: è l’obiettivo, il “problema sociale” (social
issue), a trainare l’altruismo contemporaneo, non tanto
l’adesione ad una subcultura organizzativa.
Dunque, dal punto di vista del soggetto-agente, il volontariato
diventa una dimensione di vita scelta. Tale ipotesi di lavoro è
suggestiva e plausibile, giacché si riallaccia ad una riflessione
complessiva sulla modernità avanzata. Quest’ultima ha alle
spalle un portato storico complesso, che ha modificato
sensibilmente il legame sociale: il modo con cui le persone
stanno assieme nella società (Giddens, 1990).
Nella fase pre-industriale le relazioni interpersonali erano
fissate una volta per tutte in un ordine sociale immutabile;
infatti, l’individuo era avvolto in un tessuto di norme fondate sul
principio di autorità e rafforzate dalla compattezza delle
comunità territoriali di appartenenza. Con l’avvento della
modernità industriale, si assiste ad una lenta trasformazione di
questo assetto: l’urbanizzazione, la fabbrica, il lavoro salariato,
il suffragio universale, i partiti e i sindacati, la stessa democrazia
rappresentativa schiudono un nuovo orizzonte; il suddito
comunitario diventa cittadino-lavoratore, attingendo lentamente
da una serie di diritti civili, politici e sociali. Egli si affranca così
dalla tradizione, agendo come soggetto autonomo nel proscenio
societario, sebbene in un quadro di regole pur sempre costrittive.
Sennonché, la stessa modernità va incontro ad una ulteriore
metamorfosi radicale. A partire dagli anni Settanta del secolo
scorso, con ritmi ed effetti che variano da paese a paese, si è
consumata una nuova svolta epocale. Alcuni autori hanno
parlato di modernità riflessiva (Beck, Giddens, Lash 1994), altri
di modernità liquida (Bauman, 2000), altri ancora si sono
8
Il volto invisibile dell’altruismo
limitati ad annunciare (con una certa lungimiranza) che la
società era diventata post-industriale (Bell, 1973).
Al di là delle sfumature terminologiche, si affievoliscono i
meccanismi di integrazione sociale ereditati dal passato recente;
infatti, la famiglia, la chiesa, il sindacato, i meccanismi di
rappresentanza democratica, le stesse subculture politiche e
associative non riescono (se non parzialmente) a regolare le
biografie delle persone. La conseguenza principale di questo
scenario ambivalente10 è un indebolimento complessivo del
collante della società. In estrema sintesi, i pilastri della vita
collettiva sono scossi dall’individualizzazione dell’esperienza
quotidiana: il soggetto è quasi “costretto” a negoziare ruoli e
legami, che in precedenza erano fissati in una rete di affiliazioni
sociali tendenzialmente stabili (Beck, 1986).
Non deve quindi stupire che anche il volontariato venga
investito da una dinamica di individualizzazione: gran parte dei
riferimenti collettivi si indeboliscono, lasciando gli attori liberi
di plasmare la loro biografia, sia nella vita privata, che in quella
pubblica. Non si vede perché questo non possa avvenire per la
sfera sociale dell’altruismo; in sintesi, i comportamenti prosociali tendono a disancorarsi dalle loro matrici organizzative,
riproducendo inedite forme di solidarietà. Non si tratta di
prospettare scenari apocalittici (“anche i volontari sono diventati
individualisti”), quanto di prendere atto che la loro esperienza si
modifica, essendo condizionata dalle trasformazioni che si
ripercuotono sulla società attuale. Ma ciò implica un radicale
mutamento di prospettiva; bisogna fuoriuscire dalla formula
semplicistica “volontario uguale associato”: un cittadino
automaticamente socializzato alle norme delle organizzazioni di
appartenenza. In tal senso le OdV, pur continuando ad attrarre
nella loro orbita gli attivisti, debbono comunque “contrattare”
alcuni aspetti fondamentali del trait d’union associativo; e
questo perché si confrontano con una base formata da volontari
sempre più indipendenti. Tale aspetto è stato colto con lucidità
da Hustinix e Lammertyn, laddove fanno riferimento al concetto
di volontariato riflessivo:
il modello del volontario riflessivo identifica forme atomizzate di impegno,
nelle quali il baricentro dell’azione si sposta verso il volontario come attore
individuale […] il volontariato non è più naturalmente iscritto in modelli di
comportamento collettivo. Al contrario, il mondo individuale diventa la
9
Il volto invisibile dell’altruismo
principale cornice di riferimento, e la decisione di impegnarsi in attività
volontarie dipende da considerazioni personali in un contesto altamente
individualizzato di situazioni ed esperienze (Hustinix e Lammertyn, 2003, p.
172, traduzione nostra).
Ciò non esclude che l’esperienza volontaria sia radicata (in
qualche misura) in una trama di rapporti interpersonali e di
gruppo. Sembrano dunque profilarsi all’orizzonte nuove
modalità di esercizio della solidarietà; forme originali di
impegno che combinano responsabilità e autosufficienza,
comunanza e personalismo, legame sociale e scelta individuale,
etica comunitaria e gratificazione soggettiva11. In definitiva,
potrebbe essere questa la specificità dei “nuovi volontari”.
Sennonché, il loro modo di agire diventa alquanto sfuggente,
essendo molto più impalpabile rispetto a quello dei volontari
associativi, che hanno dominato la scena della prima modernità.
I percorsi e le motivazioni che conducono alla solidarietà si sono
infatti destrutturati. Bisogna leggere con attenzione questo
processo epocale, che sembra marcare una discontinuità
sostanziale col passato.
Quanti sono i volontari in Italia?
E’ ormai chiaro che la crescita del volontariato si
accompagna ad una frammentazione delle prassi individuali di
altruismo. Di solito, si preferisce analizzare la parte più visibile
del fenomeno, raccogliendo dati a livello di settore: le OdV che
operano in ambiti riconosciuti quali l’assistenza sociale o
sanitaria, l’ambiente, la protezione civile, la cultura, la
cooperazione allo sviluppo, ecc. Tali analisi macro-strutturali, al
di là delle forzature e degli schematismi, quasi costringono gli
studiosi a comprimere l’esperienza volontaria dentro categorie
rigide di misurazione.
Del resto, gli indicatori quantitativi sono poco adatti a
spiegare perché i cittadini esprimano sentimenti di solidarietà,
decidendo di investire il loro tempo in attività sociali. Inoltre, i
gesti disinteressati delle persone, non di rado, sono del tutto
spontanei e, quindi, sganciati da contesti organizzativi formali; è
perfino scontato aggiungere che le indagini ad ampio spettro non
riescono a raggiungere quei cittadini che operano in incognito,
10
Il volto invisibile dell’altruismo
muovendosi nelle sfere sommerse della società. Eppure questi
ultimi sono in aumento. Questo aspetto emerge con tutta
evidenza se si tenta, ad esempio, di stabilire quanti siano i
volontari in Italia (fig. 2).
La cifra ammonta a poco meno di 700.000 persone, qualora
si consideri il “nocciolo duro” del volontariato: ovvero quello
che si sviluppa all’interno degli enti registrati negli appositi albi
regionali (circa 18.000 organizzazioni; Istat, 2004). Ma, in tal
modo, si rileva soltanto l’altruismo istituzionale, ossia un
segmento alquanto circoscritto dell’azione volontaria presente
nella società italiana: quella riconosciuta dallo Stato italiano, ai
sensi della legge n. 266 del 1991. Difatti, l’attivismo solidale
degli italiani cresce di molto quando si comincia a guardare
fuori dai suoi confini giuridici; se si assume, ad esempio, il
punto di vista della Fondazione Italiana per il Volontariato, si
raggiunge il numero ragguardevole di 950.000 cittadini adulti
(FIVOL, 2001). Questo scarto positivo (più di 250.000 unità
rispetto alla rilevazione precedente) deriva dal fatto che la
Fondazione, nelle sue indagini periodiche, tiene conto di una
quota non trascurabile di associazioni che non si accreditano
presso le Regioni.
Fig. 2 - Quanti sono i volontari in Italia?
10.000.000
9.000.000
8.000.000
7.000.000
6.000.000
5.000.000
4.000.000
3.000.000
2.000.000
1.000.000
0
6.802.000
3.315.327
695.334
950.000
Volontari nelle associazioni registratate (albi regionali del volontariato)
- Istat 2001
Volontari nelle associazioni di volontariato (riconosciute e non) - Fivol
2001
Volontari nelle Istituzioni non profit - Istat 2001
Volontari nella popolazione italiana adulta- Iref 2002 (stima)
11
Il volto invisibile dell’altruismo
Ma la riserva di volontariato esistente nel nostro paese
acquisisce proporzioni ben più ampie di quanto non dicano le
statistiche appena illustrate. Sotto questo profilo, è sufficiente
riferirsi al censimento sulle Istituzioni non profit (Istat, 2003):
sono oltre tre milioni (3.315.237) gli italiani che agiscono a
titolo gratuito nell’arcipelago del terzo settore; quindi, non solo
negli enti della legge 266/91 e consimili, ma anche nelle
associazioni culturali e ricreative, nelle cooperative sociali e in
altri organismi non lucrativi.
Ciò non basta. Non è detto che gli atti di generosità dei nostri
connazionali si consumino nella pur vasta rete del privato
sociale. L’azione volontaria può diffondersi anche in altri
ambiti: partiti, sindacati, gruppi spontanei, strutture parrocchiali,
comitati di quartiere o, semplicemente, esser agita a titolo
individuale. Vi è un solo modo per ottenere dati su questa quota
aggiuntiva di volontari: chiedere direttamente ai cittadini se si
dedicano ad attività sociali, senza ricompense economiche. E’
quanto fa l’Iref nel Rapporto sull’associazionismo sociale.
Ebbene, dall’ultima edizione di questa ricerca (Caltabiano,
2003), si può stimare che circa 6.800.000 italiani prestano aiuto
gratuitamente o sono protagonisti di altre iniziative civiche12.
Al di là di questo risultato generale, il Rapporto dell’Iref offre
alcuni indizi molto significativi sull’evoluzione del volontariato
in Italia (Lori, 2003). In particolare, nell’arco di un ventennio
(1983-2002)13, si è registrato un aumento costante dei cittadini
che dichiarano di svolgere attività volontarie su basi autonome,
ovvero senza appoggiarsi a strutture organizzative; nel 2002,
quasi due volontari su cinque (19,6%) hanno prediletto questa
forma inconsueta di solidarietà; accanto a ciò, non è irrilevante
la percentuale di coloro che esercitano il loro altruismo
all’interno di gruppi informali (9,5%). Dal che se ne deduce che
poco meno di un terzo dell’azione volontaria si dispiega al di
fuori dei circuiti formali, “sfuggendo” così dai suoi canali
consueti di reclutamento.
Dunque, in molte circostanze, “l’uomo solidale” non entra a
far parte di un patto associativo, di qualsivoglia natura. Egli
agisce così nel sommerso, creando non poca curiosità nel
ricercatore: chi sono coloro che si rendono artefici di questi
comportamenti pro-sociali? Perché rimangono ai margini della
sfera pubblica, in un frangente storico nel quale l’attività di
12
Il volto invisibile dell’altruismo
volontariato va incontro a riconoscimenti che gli erano
sconosciuti in passato? Quale visione etica e culturale sorregge
questi “volontari invisibili”?
Come decifrare il volto dell’altruista
L’incipit del presente libro è costituito proprio dal volto
enigmatico di questi individui dediti alla solidarietà, che
agiscono per vie così anonime. Il rebus nasce dal fatto che è
piuttosto disagevole portare allo scoperto il loro vissuto. Solo a
volerli raggiungere si affrontano non pochi problemi; infatti, nel
loro caso, non ci si può avvalere del medium organizzativo, che
rimane sempre un luogo di aggregazione valido dove
individuare i “volontari ufficiali”. Come si è detto, per superare
l’impasse, è necessario sondare l’opinione pubblica ponendogli
due quesiti diretti: “fornisce aiuto in modo gratuito o si impegna
in azioni a vantaggio della comunità?”; “Se sì, in quale ambito?”
Tra coloro che rispondono in modo affermativo, non è
infrequente trovare dei cittadini che dichiarano di prestare
volontariato in gruppi informali o in forma autonoma.
Una volta terminata la ricerca demoscopica, si entra così
possesso di una lista di intervistati che si sono autodefiniti
“altruisti spontanei”14. Il passo successivo è quello di
ricontattarli. Nasce così un dialogo attivo con i protagonisti
dell’indagine; si comincia con una telefonata, nel corso della
quale, tra il ricercatore e il volontario, si stabilisce un primo
legame del tutto informale. L’analista “tasta” il terreno; chiede
al suo interlocutore qualche notizia sul suo impegno sociale e,
dopo averne accertata la veridicità15, si spinge oltre proponendo
di fissare un appuntamento per realizzare un’intervista libera.
Egli avrà così l’opportunità di raggiungere finalmente il suo
scopo: trovarsi vis a vis con l’artefice di una storia originale di
altruismo.
Quello appena descritto è, a grandi linee, il percorso che si è
seguito nella presente ricerca. Un itinerario intricato ed
avvincente, che ha trasformato l’autore di questo volume in un
cronista di un’Italia poco conosciuta: il paese di coloro che si
tengono a debita distanza dai riflettori dell’opinione pubblica,
13
Il volto invisibile dell’altruismo
pur avendo da raccontare un’esperienza in cui molti si
vorrebbero (o potrebbero) identificare.
Solo girando in lungo e in largo per la Penisola, si può
comprendere quanto siano diversificate le testimonianze di
questi altruisti silenziosi. Si tratta, infatti, di donne e uomini che
vivono in contesti molto differenti: le piccole comunità del
settentrione “profondo”; le realtà urbane del Nord industrioso; le
città medie della “terza Italia”; le metropoli del Centro-Sud,
afflitte da problemi ancestrali di degrado sociale16. Anche il
retroterra sociale degli intervistati è assai variegato: studenti e
giovani-adulti, che cercano faticosamente di farsi largo nel
mercato del lavoro; casalinghe e pensionati, che mostrano un
attivismo insospettabile; dirigenti e lavoratori adulti, nella fase
apicale della loro carriera lavorativa. In sintesi, un ritratto
composito di attivisti. In pratica, il fenomeno del volontariato
sommerso percorre trasversalmente la società italiana; infatti,
esso è radicato in ogni luogo e strato sociale del paese, ben oltre
la sua consistenza statistica.
Nei prossimi capitoli ci si sforzerà di “dare un nome” a questi
volontari che operano quasi mimetizzati nella società. In
sostanza, si farà affiorare lentamente il loro volto, decodificando
con pazienza le loro prassi sociali. D’altro canto, quando lo
sfondo sul quale si compie una ricerca appare sfumato (per non
dire celato alla vista), è preferibile sondarlo in profondità, per
afferrare le sue dimensioni costitutive, che in principio si
percepiscono appena.
Si avvista prima l’oggetto d’analisi e poi si opera su di esso
come un archeologo impegnato in una campagna di scavo; si
circoscrive l’area di perlustrazione e si dissoda con cautela il
terreno per far emergere “reperti di conoscenza”, indizi
sotterranei (molto diversi dalle algide percentuali di un
campione), che aiutano a ricostruirne le tracce nascoste. Al
termine della “campagna”, la ricchezza dei ritrovamenti è tale da
fornire un’immagine piuttosto accurata della sagoma di ciò che
era inizialmente sconosciuto.
Questa “archeologia del sapere” è una scelta obbligata;
infatti, sui volontari circolano molti luoghi comuni. Schemi
rigidi di pensiero che non aiutano a far emergere la loro identità
complessa. Tale rilievo vale, a maggior ragione, per quei
cittadini impegnati, che si situano ai margini della sfera
14
Il volto invisibile dell’altruismo
pubblica: di loro si sa ancora troppo poco per avanzare in
anticipo qualsiasi interpretazione.
Pertanto, l’analista è costretto ad abbandonare il suo bagaglio
di tesi preconcette: deve dar prova, prima di tutto, di una buona
capacità d’ascolto. Per dirla in modo succinto, non può far altro
che immergersi nella vita quotidiana degli intervistati,
spogliandosi del suo armamentario concettuale.
Tuttavia, questo non implica che ci si accosti all’oggetto
dell’indagine come una tabula rasa; è pur sempre necessario
avere in mente cosa si intende osservare, prima di avventurarsi
nel lavoro di ricognizione sul campo. Il fuoco d’analisi della
presente indagine è la stessa attività di volontariato: gli atti con
cui una persona esplicita la sua volontà di essere solidale verso
gli altri o, in senso lato, verso la comunità. Si è, perciò, cercato
di rimanere il più possibile aderenti all’esperienza concreta dei
protagonisti di questo studio.
Chi scrive è, infatti, convinto che i segni tangibili dell’azione
volontaria siano in grado di far risaltare l’identità di colui che se
ne rende artefice. Come in un gioco di specchi, il gesto civico,
specie se ricorrente, riverbera all’esterno molti segni sul vissuto
del soggetto-agente.
In tale ottica, non è infondato considerare l’altruismo come
una pratica (Bourdieu, 1979): una relazione che il volontario
attiva nel suo habitat sociale, muovendosi in esso con limitati
gradi di libertà. Tale concetto è una valida bussola per orientarsi
nei mondi vitali degli intervistati (si veda il capitolo 2), almeno
per due motivi:
− la pratica è sempre situata in una trama di legami sociali;
benché agisca in modo autonomo e consapevole, l’individuo
è inserito in una trama di appartenenze di gruppo, che
condizionano le sue scelte; quindi, avendo adottato tale
termine come riferimento teorico, si tiene comunque conto
della rete versatile di influenze ambientali in cui si muove
l’attore, pur assegnando a quest’ultimo un certo margine di
autonomia nelle sue scelte;
− accanto a ciò, tale categoria concettuale esprime il doppio
livello della produzione di significati e dell’azione. Infatti,
essa è per sua natura radicata nel “campo” dove agiscono le
persone; quindi attualizza le loro visioni del mondo:
15
Il volto invisibile dell’altruismo
rappresentazioni sociali, credenze, valori, disposizioni
morali, ecc.
Da questo punto di vista, la pratica altruistica è lo snodo a
partire dal quale si dipana una storia; la vicenda di una persona
che presenta una moltitudine di significati complementari: oltre
al comportamento pro-sociale, i percorsi biografici nella
famiglia, nel lavoro e nel tempo libero; il modo di atteggiarsi nei
confronti della politica e della società (visione del mondo); le
aspirazioni personali (progetti di vita); i valori e le istanze
etiche.
In breve, quando si comincia ad analizzare la “pratica del
volontario” si schiude un varco nella sua esistenza (fig. 3). Il
frammento concreto di vita (l’atto di aiuto) diventa quasi un
“pretesto” per riannodare la trama e l’ordito di una biografia.
Fig. 3- La biografia del volontario
discorso (intervista non direttiva)
Percorsi biografici
Progetti di vita
Pratica altruistica
Visione del mondo
Orientamenti etici
Ma, per compiere quest’opera di rispecchiamento sul vissuto
dei volontari occorre attrezzarsi con strumenti adeguati; bisogna
munirsi di sensori sufficientemente sensibili, se si vuole cogliere
la ricchezza e la complessità di una microstoria solidale. Il
sensore utilizzato in questa indagine è l’intervista non direttiva:
16
Il volto invisibile dell’altruismo
la testimonianza condensata nella vivida narrazione
dell’intervistato.
Sull’uso dell’intervista nella ricerca qualitativa sono stati
scritti fiumi di inchiostro (Montesperelli, 1998; Silverman,
2000; Denzin, Lincoln, 2000; Gianturco, 2004). Non è certo
questa la sede dove svolgere una trattazione sistematica
sull’argomento. Malgrado ciò, si possono delineare alcuni
aspetti di questa tecnica d’indagine, che si sono dimostrati
particolarmente utili ai fini della presente analisi.
In genere, l’obiettivo di questo “colloquio informale” è quello
di far affiorare la soggettività degli attori, limitando le
interferenze dell’analista. Il ricercatore diventa così un
interlocutore “discreto” che attiva con l’intervistato un dialogo
spontaneo, il cui scopo è quello di svelare il mondo visto con gli
occhi di quest’ultimo.
In altre parole, l’intervistato non viene bersagliato dalle
domande “preconfezionate” in uso nei sondaggi e in altre
indagini campionarie. Al soggetto coinvolto nella ricerca, non si
chiede di scegliere tra una gamma di alternative di risposta,
pensate in precedenza dal ricercatore. Al contrario, si scende sul
campo con una traccia “aperta” (sempre reversibile) di quesiti,
che mirano solo a mettere a fuoco alcuni argomenti rilevanti (si
veda l’appendice).
Il resto lo fa l’intervistato, con la sua attività di ricostruzione
simbolica del proprio vissuto; mentre risponde alle domande,
egli è libero di riconfigurarle, di cambiare il loro ordine, di
introdurre nuovi temi di discussione. In tal senso, quando si
utilizza questo approccio (qualitativo), l’intervistatore vede il
suo ruolo radicalmente trasformato: non è più uno stimolatore
verbale (o peggio “un persuasore occulto”), che agisce
indisturbato su un soggetto inerme; quanto un interlocutore
attento che tenta di carpire il discorso di un narratore attivo.
Nella presente ricerca, il discorso inizia quando
l’intervistatore preme il bottone del registratore e, dopo aver
guardato fisso negli occhi l’intervistato, rivolge a quest’ultimo
uno stimolo verbale: “raccontami della tua esperienza di
volontariato…”. Di solito, passano alcuni secondi e
l’interlocutore comincia a parlare. Il flusso della comunicazione
si materializza in un dialogo costruttivo, il cui scopo è quello di
cogliere i momenti cruciali di una storia di vita: il racconto della
17
Il volto invisibile dell’altruismo
realtà vissuta da un cittadino che si adopera per una causa
sociale.
Al termine del colloquio d’intervista si spegne il
magnetofono. Dopo alcuni giorni, si trascrive puntualmente la
registrazione, rispettando alla lettera il testo dell’io-narrante.
Comincia così l’attività di interpretazione, senza assumere una
posizione completamente distaccata (come quella di un
entomologo che osserva gli insetti dall’asettica lente di un
microscopio); piuttosto, come Hermes (il progenitore di ogni
impresa ermeneutica), il ricercatore raccoglie i messaggi
contenuti nei racconti degli intervistati, non senza avvertire un
senso di coinvolgimento, che è funzionale alla comprensione
degli stessi messaggi.
In sintesi, il vantaggio dell’intervista non direttiva è quello di
far affiorare il vissuto dell’attore sociale, tramite la forza
evocativa del discorso. Difatti, “i comportamenti sono rivestiti
di senso mediante parole […] ogni azione è inseparabile dal
tessuto discorsivo che incessantemente la interpreta” (Jedlowski
2000, p. 221). In altre parole, dalle comunicazioni linguistiche
dell’intervistato affiorano i confini precari dell’esperienza
quotidiana, si ricostituisce il filo del sé e prendono forma i
legami sociali. Queste tracce culturali affiorano perché il flusso
discorsivo evoca la biografia, la situa, la ricostruisce, la proietta
nel tempo, esprimendo anche le sue fratture e i suoi punti di
continuità. In sostanza, la narrazione racchiude (ed esprime)
l’esperienza soggettiva del volontario, offrendo al ricercatore
un’ampia gamma di informazioni per decifrare le sue azioni e
rappresentazioni sociali.
In effetti, il racconto è il “materiale vivo” da cui si dipana la
presente indagine. La restante parte di questo libro analizza
trenta storie di cittadini altruisti, che agiscono nel sommerso. Si
tratta di un oneroso lavoro di approfondimento, quasi un viaggio
alla scoperta della sfuggente identità di quei volontari invisibili,
che si celano dietro alle statistiche ufficiali, rimanendo anche in
ombra nelle indagini demoscopiche.
18
Il volto invisibile dell’altruismo
Per terminare
Prima di addentrarsi nei risultati della ricerca, è necessario
soffermarsi per un momento sulle sue finalità, fugando da subito
eventuali equivoci. Per essere espliciti, l’intento di questo
volume non è quello di contrapporre il volontariato formale al
volontario informale; anche perché, l’esistenza di una riserva di
volontari che operano fuori dalle compagini organizzate del
terzo settore, dovrebbe essere considerata comunque un segnale
positivo; il sintomo che vi è un sovrappiù di energie solidali
nella società italiana, a tutto vantaggio della stessa rete di
associazioni volontarie che, in futuro, potranno intercettare
questa domanda latente di altruismo. Del resto, gli assetti
organizzativi di cui si è dotato il movimento del volontariato in
Italia, sebbene siano inclusivi e flessibili, non sono in grado di
raccogliere tutte le spinte che provengono dalla società civile.
L’impegno dei cittadini può convergere all’interno di esperienze
collettive, riconosciute a livello politico e sociale; ma può anche
rimanere allo stato embrionale, attraverso atti personali e
spontanei di responsabilità civica; oppure può sfociare nella
costituzione di gruppi destrutturati che non vogliono (né
possono spesso) acquisire un profilo di visibilità pubblica. Posta
in questo modo, la questione dovrebbe quindi lasciare poco
spazio a dubbi e fraintendimenti: volontariato formale e
informale coesistono senza attriti nel nostro come in altri
paesi17. Il primo raccoglie di solito la maggior parte dei cittadini
propensi a donare il proprio tempo a favore di cause sociali; il
secondo circoscrive l’esperienza di coloro che, benché siano
animati da simili intenti, decidono di non varcare la soglia di
un’organizzazione strutturata.
Il problema semmai si pone in altri termini. A correnti
alternate, capita di imbattersi in analisi che denunciano una crisi
delle associazioni volontarie (Marsico, 2003); al di là dei toni
più o meno allarmati di tali diagnosi, si evidenziano i rischi a cui
vanno incontro gli enti di volontariato iscritti negli albi regionali
previsti dalla legge 266 del 1991: l’eccessiva dipendenza
dall’attore pubblico; la professionalizzazione degli operatori; il
progressivo irrigidimento delle strutture organizzative. Questi ed
altri effetti negativi preannuncerebbero scenari foschi; primo fra
tutti, il fatto che l’attività volontaria si snaturi, perdendo la sua
19
Il volto invisibile dell’altruismo
identità costitutiva (la gratuità dell’atto; le motivazioni etiche; il
legame solidale e quant’altro). Ora, a prescindere dalla
fondatezza di tali rilievi critici, bisogna dire che queste analisi
ripropongono un tema di non poco conto: la capacità di attrarre
persone attive e disinteressate nell’alveo di organizzazioni ormai
inserite a pieno titolo nell’arena delle politiche sociali. Difatti,
per gli enti di volontariato che hanno scelto la via
dell’accreditamento istituzionale, si pone indubbiamente un
dilemma alquanto spinoso: da un lato, l’esigenza di strutturarsi
per far fronte all’attività di servizio; dall’altro, la necessità di
preservare il loro “codice genetico”: il significato autentico (non
mediato) della prassi di aiuto. Si tratta di due dimensioni solo in
parte conciliabili.
Di qui nasce la preoccupazione per lo stato di salute del
volontariato ufficiale. Una preoccupazione che può in qualche
modo chiamare in causa, ancorché solo indirettamente, il
volontariato sommerso; infatti, quest’ultimo potrebbe essere
concepito come una sorta di “via di fuga” per quei cittadini che
disertano le reti formali dell’associazionismo, proprio perché
quest’ultimo si è via via istituzionalizzato, smarrendo la sua
carica di spontaneità. L’argomento è plausibile ma alquanto
sbrigativo, non fosse altro per una ragione intuibile: sposando
questa tesi, ai volontari invisibili si attribuirebbe un
atteggiamento di rifiuto (una defezione dai canali ufficiali di
reclutamento del volontariato organizzato), senza conoscere le
ragioni che li hanno indotti ad attivarsi individualmente o in
gruppi informali. Ben si capisce che, in tal modo, si
compierebbe una vistosa forzatura su una realtà inedita: si
etichetterebbe un fenomeno prima di averne una cognizione
precisa. Nei restanti capitoli di questo volume si tenterà quanto
meno di scansare questa tesi preconcetta, seguendo da vicino le
correnti sotterranee di altruismo che percorrono la nostra
società.
Note
1
In realtà, il fenomeno del volontariato non è una novità. Come ha
sostenuto di recente Achille Ardigò: “in ogni tempo e in ogni paese, specie in
presenza di un minimo di civile convivenza, molte persone hanno percepito
20
Il volto invisibile dell’altruismo
motivazioni ad agire per aiutare il prossimo in difficoltà […] L’impulso del
dono di sé, spesso a tempo parziale, è iscritto nella natura umana” (Ardigò,
2001, p. 5).
2
In tal senso, l’attività dei volontari non è tanto caratterizzata dalla
volontarietà dell’atto, quanto dalla sua gratuità e dal suo orientamento
altruistico: ossia il fatto di prestare un servizio che va a vantaggio di altri. Su
questo aspetto, si riscontra peraltro un certo accordo tra studiosi ed esperti. In
proposito si veda l’analisi di Costanzo Ranci (Ranci, 1998).
3
Per certi versi, non ha senso proporre una distinzione manichea tra
altruismo ed egoismo; infatti, queste due inclinazioni umane, che hanno
riflessi emotivi, cognitivi e comportamentali, si intersecano nella vita
quotidiana della maggior parte delle persone.
4
Il concetto di dono sta ad indicare “ogni prestazione di beni o servizi
effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o
ricreare il legame sociale tra le persone (Godbout, trad. it. 1993, p. 30.)”.
Come si vede, tale definizione si attaglia bene a gran parte delle attività
svolte dai volontari, poiché pone in risalto due elementi fondamentali: il
soggetto agisce per costruire relazioni dotate di senso con altre persone; la
sua azione non è guidata dalla richiesta immediata di ricompense materiali o
immateriali. In effetti, il dono si fonda su una forma gratuita di apertura verso
l’altro.
5
Non è un caso che in questa sede si utilizzi l’espressione Organizzazioni
Dei Volontari, volendo con ciò estendere il campo a tutti gli enti che offrono
“ospitalità” alle persone desiderose di prestare aiuto. Ciò implica che, oltre
alle organizzazioni di volontariato in senso stretto (in Italia, gli enti
riconosciuti dalla legge n. 266 del 1991), si faccia qui riferimento anche ad
altre strutture organizzate che convogliano l’azione dei volontari: parrocchie,
gruppi spontanei, imprese sociali, partiti, sindacati, associazioni pro-sociali,
altri organismi del terzo settore.
6
La letteratura su questo argomento è sterminata. Parlando dei limiti delle
politiche sociali pubbliche, non si può tuttavia fare a meno di menzionare il
contributo seminale di Pierre Ronsanvallon, che ha messo a nudo le aporie
dello Stato assistenziale (Ronsavallon, 1981 e 1995). Un punto di riferimento
essenziale è anche Esping-Andersen, che è di recente tornato a riflettere sui
diversi “mondi del welfare”, mettendone in luce i principali dilemmi (EspingAndersen, 1999). Robert Castel ha, invece, affrontato il tema dell’insicurezza
sociale: un fenomeno dilagante in gran parte delle democrazie occidentali,
nonostante l’esistenza dei meccanismi di protezione sociale (Castel, 2003).
7
Peraltro, in Italia, la promozione delle OdV è avvenuta anche grazie ad
un quadro normativo tutto sommato funzionante ed efficace Si pensi al
livello di diffusione capillare raggiunto dai registri regionali del volontariato
e al supporto tecnico offerto dai Centri di servizio per il volontariato.
8
La tradizione sociologica è segnata da dispute accese tra i fautori degli
approcci macro (teoria dei sistemi, funzionalismo, evoluzionismo, teorie del
conflitto, ecc.) e coloro che parteggiano per i modelli incentrati sulle
dimensioni micro del sociale (etnometodologia, frame analysis,
interazionismo simbolico, ecc.). Negli ultimi anni, si sono fatti strada anche
21
Il volto invisibile dell’altruismo
gli approcci meso: teorie e prospettive di ricerca che si muovono in ambiti
intermedi (meso), fra i due visti in precedenza, come l’analisi dei reticoli
sociali. Si tratta comunque di un dibattito inesauribile, che non accenna a
svigorirsi, forse perché i tre livelli si implicano a vicenda, intrecciandosi
nello sviluppo della vita individuale e collettiva. In proposito si veda
(Collins, 1988).
9
In proposito non si può non citare il contributo dell’Università Johns
Hopkins di Baltimora. In particolare, Lester Salamon e Helmut Anheier si
sono resi promotori della rinomata ricerca transnazionale sul settore non
profit, nel quale evidentemente rientrano anche le OdV. L’indagine ha
coinvolto, in principio, soltanto tredici paesi; ma, poi, si è estesa molto
rapidamente. Alla fine del decennio, le nazioni passate al setaccio dal Johns
Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project erano 42, sebbene ad oggi
siano stati pubblicati i risultati definitivi di poco più della metà (22) dei paesi
presi in esame (Salamon, Anheier, 1999). In Italia, l’ISTAT ha fatto propri i
criteri di classificazione della Johns Hopkins nel primo censimento sulle
istituzioni non profit (ISTAT, 2001).
10
In una battuta, l’individuo è più libero rispetto al passato, ma esposto a
condizioni durature di incertezza.
11
Questo scenario è emerso in una recente indagine a carattere
qualitativo, curata da Maurizio Ambrosini. La ricerca ha sondato le opinioni
di circa cento giovani volontari, che operano all’interno di associazioni
(riconosciute e non) della provincia di Genova. Al termine di un ricco
percorso di analisi, l’autore giunge alle seguenti conclusioni: “sembra
confermata l’idea iniziale di un volontariato giovanile che, sebbene sia
radicato in esperienze familiari, associative ed educative, appare attraversato
da un minore senso di doverosità […] più animato dalla ricerca di esperienze
soggettivamente gratificanti, possibilmente anche vantaggiose per il corso
successivo della propria esistenza […] In questo senso, se i giovani volontari
smentiscono l’idea di una condizione giovanile omologata, schiacciata sulla
socialità ristretta e aliena da sentimenti di solidarietà sociale, rivelano però di
essere a loro modo partecipi di una cultura contemporanea che ha eletto la
soggettività e la realizzazione personale a valori guida” (Ambrosini, 2004, p.
205).
12
L’istituto demoscopico Doxa ha fornito una stima molto simile (6
milioni di volontari), in un’indagine campionaria condotta quasi in
concomitanza con quella dell’Iref: novembre 2002 (Doxa, 2002).
13
Il Rapporto sull’associazionismo sociale viene ripetuto con cadenza
triennale dal 1983; quindi, registra le tendenze della partecipazione civica
nella società italiana in una prospettiva di lungo periodo.
14
Purtroppo, la lista di questi rispondenti si assottiglia già in partenza: al
termine dell’intervista demoscopica, molte persone dicono di non voler
essere raggiunte telefonicamente per eventuali altre indagini. In tali
circostanze, per rispettare la legge sulla privacy e sul consenso informato,
non si ha più la possibilità stabilire un legame con l’intervistato “eleggibile”.
Il volontario decide così di rimanere invisibile.
22
Il volto invisibile dell’altruismo
15
In alcuni casi, le persone che avevano dichiarato di svolgere un’attività
volontaria a titolo individuale o in gruppi informali non rientravano nella
definizione di volontariato adottata nella presente ricerca. Si tratta perlopiù di
persone che si limitano ad aiutare qualche volta un vicino o un parente. E’
perfino ovvio aggiungere che, in tali circostanze, non si è proceduto ad
intervistare i diretti interessati.
16
Per un’analisi della costruzione del panel degli intervistati
(stratificazione socio-anagrafica ed ecologica) si veda l’appendice.
17
L’Independent Sector ha stimato, ad esempio, che negli Stati Uniti circa
il 24% della popolazione adulta svolge attività informali di volontariato - dati
riferiti al 1998 (Independent Sector, 2001).
23
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
1
Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a
soggetto
1.1 Guardare oltre i confini del volontariato ufficiale
Il legislatore ha compiuto una scelta di fondo quando ha
varato la legge quadro sul volontariato (legge n. 266 del 1991).
In questo importante provvedimento normativo, l’attività dei
volontari viene infatti riconosciuta solo se si sviluppa nell’alveo
di un’organizzazione. In proposito è sufficiente menzionare
l’articolo 2 laddove si stabilisce che:
per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale,
spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte,
senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà
(corsivo nostro).
Il dettato della normativa è, quindi, alquanto chiaro su questo
punto: l’impegno personale dei cittadini viene legittimato
soltanto in presenza di soggetti collettivi che ne avvalorino il
carattere pro-sociale1. Inoltre, la legge individua anche il
contesto più idoneo dove si esplicano gli atti di altruismo
(articolo 3): le organizzazioni di volontariato, ossia enti costituiti
giuridicamente, in assenza di finalità di lucro, con l’obbligo di
seguire procedure democratiche e di tenere dei bilanci2. Sicché,
per lo Stato italiano, l’azione volontaria è tale in quanto si
avvale di un medium organizzativo in varia misura strutturato.
Questo principio è peraltro ragionevole. All’epoca
dell’approvazione della legge, i volontari avevano operato nella
nostra società in assenza di strumenti di regolazione. Quindi,
bisognava fare ordine attraverso un quadro di norme precise,
benché flessibili. Soprattutto, si voleva evitare che il
volontariato potesse dare adito a pratiche sociali di dubbia
liceità; innanzi tutto, l’intreccio perverso con l’occupazione
sommersa. In un Paese come l’Italia - dove il lavoro al nero è un
fenomeno pervicace - non si poteva escludere tale eventualità.
Insomma, lo sfruttamento economico di attività cruciali, quali
l’assistenza sociale e sanitaria, prestate per di più a titolo
gratuito, era una possibilità tutt’altro che remota.
24
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
Ben si capisce, dunque, che la classe politica e gli stessi
dirigenti del mondo associativo si siano voluti cautelare di fronte
a problemi del genere. Perciò, l’attività volontaria è stata
ancorata ad un ambito organizzativo, fornendo ai suoi
protagonisti una sede naturale in cui poter agire in modo
trasparente e tutelato.
A ben vedere, vi è un altro argomento solido che sorregge
questo orientamento politico. In definitiva, lo Stato riconosce il
volontariato perché attribuisce a quest’ultimo un valore
universale (un rilievo per tutta la comunità). Ma ciò presuppone
che esso fuoriesca dalla sfera privata, acquisendo una
dimensione pubblica; una dimensione che comporta l’adozione
di alcuni obiettivi sociali condivisi e di una qualche forma di
organizzazione. Insomma, un patto associativo tra volontari, che
implica inevitabilmente un vincolo giuridico3.
Tale vincolo non ha, peraltro, intaccato l’autonomia della
società civile. Infatti, la legge 266/1991 è ormai collaudata
avendo, in quasi quindici anni di applicazione, assecondato
(promosso) l’evoluzione del volontariato. La crescita costante
degli enti iscritti negli appositi albi regionali dimostra che
questo assetto legislativo ha funzionato tutto sommato bene4;
senza dubbio, oggi le OdV raccolgono le energie della maggior
parte dei cittadini sensibili al richiamo del “sociale”, offrendo
loro spazi di partecipazione dove coltivare il proprio civismo, al
riparo da dinamiche sociali ambigue.
Tuttavia, pur volendo considerare questi elementi positivi,
non si può sottacere una questione assai spinosa. Il volontariato
ufficiale (quello previsto dalla legge) non contempla le forme di
solidarietà spontanee. Chiunque presti aiuto in modo individuale
o in gruppi informali rimane in un cono d’ombra, poiché la
normativa non tiene conto di questa fattispecie di altruismo.
Certo, si può sempre sostenere che tale componente dell’azione
volontaria sia trascurabile, in quanto priva di “spessore sociale”:
un gesto improvvisato (e quindi discontinuo) di indulgenza
verso il bisogno di turno, tanto per sedare il senso di colpa;
oppure una lodevole (quanto banale) azione di buon vicinato,
per quieto vivere. In breve, un volontariato alquanto effimero.
La tesi sarebbe verosimile se, dietro al modus operandi del
volontariato informale, non fosse possibile rintracciare quei
tratti distintivi che la nostra società assegna al volontariato
25
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
formale: un comportamento duraturo e disinteressato, con
esplicite finalità pro-sociali. Di per sé l’impegno solidale non
viene sminuito nella sua portata, anche se non rientra nei canoni
della legge: l’essenziale è che in esso si possa ravvisare
un’esperienza autentica di altruismo. Questo rilievo è quasi un
invito ad avvicinarsi senza preconcetti all’oggetto della presente
indagine; si tratta, in ultima analisi, di guardare oltre i confini
del volontariato ufficiale. In tale ottica, può essere utile
raccontare alcune storie emblematiche di cittadini che agiscono
in modo autonomo (e spesso anonimo). Vicende di volontari che
recitano a soggetto, senza seguire il copione convenzionale della
solidarietà.
1.2 Incursioni solitarie nel pianeta dell’autismo
Demetrio5 ha trent’anni e vive a Bergamo; sebbene abbia
studiato filosofia, egli lavora nel settore dell’informatica. Di
norma fa il docente in alcuni corsi di formazione professionale
per lavoratori adulti, insegnando a questi ultimi i rudimenti dei
più comuni software informatici. Si tratta comunque di
un’occupazione instabile, poiché questi corsi vengono di solito
finanziati dall’Unione Europea; non offrono quindi alcuna
garanzia di continuità nel tempo. Così, per arrotondare lo
stipendio, l’intervistato non disdegna di installare computer
presso ditte e privati. Del resto, è abituato ad arrangiarsi; appena
terminati gli studi universitari, si è cimentato in vari impieghi
precari pur di arrivare alla fine del mese: operaio, cameriere,
animatore.
Sin ora si è compreso che la situazione lavorativa di questo
giovane-adulto è tutt’altro che risolta; per certi versi, il suo
percorso nel mercato del lavoro assomiglia a quello descritto da
Richard Sennett ne L’uomo flessibile (Sennett, 1998), dove
l’autore analizza il senso di precarietà vissuto dai lavoratori “a
contratto”6. Malgrado ciò, Demetrio non si preoccupa più di
tanto della sua instabile posizione lavorativa. Piuttosto, egli
coltiva un’inclinazione in modo del tutto disinteressato: aiutare
le persone con un disturbo mentale. Un attività che non ha nulla
a che vedere con la sua realizzazione professionale. Infatti, da
circa un anno, ogni fine settimana tiene compagnia ad un
bambino autistico di sette anni: Samuele, il figlio di una coppia
26
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
di vicini che abitano nel suo quartiere. A prima vista, è un
impegno ordinario, privo di scopi prefissati, salvo badare ad
una persona in difficoltà: scortarlo in bicicletta nel parco, stare
attenti che il bimbo non si faccia male, magari offrirgli
discretamente un gelato o dare due calci al pallone in un grande
prato ombreggiato. Nondimeno, dalle stesse parole con cui il
volontario racconta questa vicenda, si capisce che le cose sono
più complesse di quanto non sembri: “passare il tempo con lui
mi dà di più davvero […] il bel rapporto che si stabilisce a un
certo punto ti permette di aiutarlo, di educarlo, perfino di
insegnargli quello di cui ha bisogno, in un mondo che Samuele
fa fatica a riconoscere […] però lui ha una buona comprensione
del linguaggio (verbale – N.d.A.) […] l’importante è la
relazione, cioè stabilire un canale comunicativo con cui far
arrivare dei messaggi ”.
Dunque, l’informatico di Bergamo non si limita a svolgere il
ruolo di un semplice accompagnatore; al contrario, riannodando
i fili del suo rapporto con Samuele, egli snocciola una serie di
termini che potrebbero tranquillamente comparire nella
relazione di un educatore professionale. Colpisce soprattutto il
riferimento alla dimensione dell’insegnamento, che del resto
ritorna in un altro passo dell’intervista: “è un rapporto reciproco,
ma soprattutto è di più […] nel senso di insegnargli delle abilità
[…] per esempio andare in bicicletta, fargli capire come frenare,
come rispettare le regole della strada […] questo è già un
insegnamento”. Ma è altrettanto centrale il tema della
comunicazione, come si evince da un ulteriore brano: “se sei
tollerante e ascolti sai anche metterti allo stesso livello
comunicativo, si crea fiducia e allora c’è scambio, scambio di
emozioni”.
In effetti, l’esperienza di Demetrio potrebbe essere racchiusa
in tre operazioni fondamentali: 1) ascoltare per capire; 2)
instaurare un legame di reciprocità (lo scambio) 3) intervenire
con una finalità pedagogica. Il tutto per migliorare la vita di un
bambino vittima di un handicap psichico grave. Se non fosse per
il carattere informale di questa forma di sostegno sociale, si
sarebbe quasi tentati di considerarla un vero e proprio lavoro
terapeutico.
Si deve anche dire che il giovane volontario non è un neofita
del “mondo delle disabilità”. In realtà, il suo interesse viene da
27
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
lontano: scorrendo a ritroso la biografia dell’intervistato, si
percepisce chiaramente che la sua attenzione verso il problema
del disagio mentale è maturata col tempo. Prima di Samuele,
egli si è fatto carico per due anni di un’altra persona con deficit
psichici simili, cercando (con esiti alterni) di fargli sperimentare
un minimo di vita sociale: bere una birra in un pub, andare ad un
concerto e quant’altro. Ma, per capire quando Demetrio ha
deciso di dedicarsi all’autismo, si deve risalire ad un periodo
ancora antecedente.
Poco dopo la laurea, egli svolge infatti il servizio civile
presso una cooperativa di inserimento lavorativo per disabili
psichici. In quel frangente, si fa strada in lui la consapevolezza
di essere tagliato per il sociale: “ho capito di essere in grado di
instaurare una certa spontaneità di rapporto, che comunque dava
i suoi frutti anche a livello educativo, perché nasceva da una
facilità di comunicazione”. In estrema sintesi, un obiettore di
coscienza scopre di potersi aprire una breccia nel muro di
incomunicabilità dell’autismo. La sua propensione naturale alla
comunicazione, o forse soltanto una spiccata sensibilità, gli
preannunciano quasi una vocazione.
Demetrio ha intuito sin dal principio di avere una dote
particolare: la non comune capacità di penetrare nelle pieghe
dell’isolamento mentale. Per di più, coltivando questa
inclinazione, riesce anche a rapportarsi meglio con le persone
normodotate: “ti accorgi di apprendere quando entri in relazione
con loro (le persone colpite da autismo – N.d.A.) […] impari ad
essere tollerante, a capire, ad esprimerti […] capacità che sono
utilissime nei legami con le persone normodotate”. In tal senso,
non sorprende che il giovane abbia continuato a dedicarsi
all’autismo: oltre ad esser predisposto all’ascolto, egli ritiene di
esser cresciuto sul piano personale grazie a questa relazione
d’aiuto. Col senno di poi, viene piuttosto da chiedersi per quale
ragione non abbia scelto di trasformare questa sua abilità in una
professione; tanto più che la sua attuale posizione nel mercato
del lavoro non è salda. Con le sue qualità, avrebbe di certo
potuto aspirare ad un carriera da operatore sociale, agendo così
con maggiore sistematicità sul disagio mentale.
Con tutta probabilità, l’intervistato non ha seguito questa
strada perché non ha condiviso il tipo di approccio utilizzato
dalla cooperativa in cui ha prestato il servizio civile, soprattutto
28
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
l’accento sulla produttività, ben esemplificato da questo
passaggio dell’intervista: “loro (i soci della cooperativa – ndr)
volevano che facessi più lavoro in fabbrica, per aumentare la
produttività7, io invece volevo essere socialmente utile, parlare
con i ragazzi disturbati”. Il ragionamento è abbastanza lineare.
Demetrio ricerca un contatto diretto con i disabili; mentre i
cooperatori gli fanno notare che l’impresa sociale, per poter
sopravvivere, ha necessità di sviluppare le proprie attività,
concentrandosi soprattutto sui margini di ricavo. Sicché, i
desideri dell’obiettore mal si conciliano con le priorità
dell’organizzazione. Insomma, si è in presenza di un conflitto di
aspettative piuttosto comune. Una di quelle esperienze negative
che possono indubbiamente influenzare le scelte future di un
giovane volenteroso. Perché farne un lavoro – deve essersi
chiesto allora Demetrio - se questo vuol dire preoccuparsi dei
bilanci e della redditività? Meglio operare in modo
disinteressato; libera da condizionamenti economici, l’attività di
cura non rischia di snaturarsi. In tale prospettiva, la scelta di
agire a titolo gratuito appare quanto mai congruente con la
visione espressa a più riprese dall’informatico di Bergamo: egli
vuole allacciare un legame con la persona autistica. La sua
attività, da sempre, prescinde da considerazioni di altro tipo, in
primis quelle economiche.
Rimane da vedere perché egli non abbia aderito ad una delle
tante associazioni volontarie che si occupano di autismo. In fin
dei conti, in un’organizzazione di volontariato si può sempre
attingere ad una serie di risorse (materiali e simboliche)
significative. Non ultima, la possibilità di unire le proprie forze
con quelle di altri “uomini solidali”, per raggiungere uno scopo
comune. Un elemento decisivo per chi si confronta con un
problema grave come la sindrome da isolamento psichico. Ma
Demetrio non concepisce il suo impegno come un’esperienza da
condividere in gruppo; anzi, lo considera una sfera intimamente
legata alla sua crescita personale, al punto da scomodare un
concetto impalpabile come l’anima: “il mio rapporto con
Samuele lo vivo in modo individuale, ci sono cose da non
condividere […] è una crescita personale, un fatto che riguarda
l’anima”. Di qui nasce la sua distanza dal volontariato
organizzato: “queste associazioni di volontariato […] è un
29
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
ambiente a cui non sento di appartenere, non mi piace essere
parte di qualcosa, desidero sentirmi libero”.
Libero sì, ma non inconcludente. Grazie a Demetrio, Samuele
ha anche imparato a nuotare. Il padre del bambino gli ha
mostrato tutta la sua riconoscenza, quel giorno, quando ha
scoperto che, per la prima volta, il figlio non era più spaventato
dall’acqua. Forse, in quel momento, il nostro volontario ha
capito di essere utile. Poco importa che egli non sia diventato un
operatore sociale di mestiere; o che sia alquanto distaccato dal
volontariato organizzato. Le sue incursioni solitarie nel mondo
dell’autismo hanno già aperto una fenditura nel muro
dell’incomunicabilità.
1.3 Il gioco dei legami sociali
Il quartiere San Paolo di Bari è assurto tristemente alle
cronache per la vicenda di un bimba di sedici mesi, morta per
denutrizione agli inizi del 2005. Stando ad un laconico articolo,
apparso il 7 gennaio sulla Gazzetta del Mezzogiorno, dietro alla
tragedia vi sarebbe stata “una difficile situazione familiare e
sociale”. Al momento del decesso, il padre della neonata era in
carcere e la madre viveva in condizioni acute di marginalità.
Il giorno successivo, il Sindaco della città ha espresso il suo
sdegno per questo evento drammatico, lamentando il “numero
pateticamente esiguo di assistenti sociali, educatori e vigili
urbani, di persone in grado di entrare nelle case dei nostri
concittadini per prevenire la morte fisica e sociale8”. L’allarme
ha risuonato forte, perché proveniva da una metropoli già afflitta
da tante emergenze: prima fra tutte, la presenza capillare della
criminalità organizzata. Come è noto, il tessuto urbano barese è
lacerato dalla lotta per il controllo di varie attività malavitose:
traffico di droga, contrabbando, prostituzione, racket, trasporto
di stranieri clandestini. Una guerra fra clan che, ogni anno, miete
molte più vittime di quelle uccise direttamente nelle faide
interne della sacra corona unita. Difatti, nel capoluogo pugliese,
sono assai numerose le famiglie ai limiti della povertà, con uno
o più componenti in prigione, senza poter contare su una rete di
servizi socio-assistenziali. In tale ottica, il nesso fra criminalità e
vulnerabilità sociale è evidente. Pertanto, non stupisce che il
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1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
primo cittadino di Bari abbia denunciato il problema,
proponendo tra l’altro la costituzione di una “grande società
comunale di mutuo soccorso” per assistere i bambini in
situazione di grave disagio. L’idea è suggestiva ma, nel
frattempo, camminando per le vie di San Paolo, si ha
l’impressione di aggirarsi in un sobborgo desolato e pericoloso;
una realtà suburbana dove le istituzioni sono assenti, se non
fosse per qualche raid occasionale compiuto dalle autorità di
pubblica sicurezza, per ripristinare l’ordine pubblico.
Anna vive da 25 anni a San Paolo; e non ha nessuna
intenzione di mettere in discussione la sua permanenza in questo
quartiere degradato, verso il quale si sente anzi molto legata,
malgrado tutto: “conosco bene altre città, Roma e Milano, ma
ogni volta che ritorno qui, vedo “l’uscita cinque” della
tangenziale (San Paolo – N.d.A.) e respiro. Quando sono
altrove questo posto mi manca davvero, con tutti i pro e i contro
[…]”. A 38 anni, con tre figli in tenera età da crescere,
l’intervistata avrebbe diversi motivi validi per abbandonare un
luogo alquanto insicuro. Ma lei non si da per vinta, forse perché
sa che la criminalità affonda le radici nella precarietà sociale:
“se c’è delinquenza è perché manca qualcosa […] è solo una
richiesta d’aiuto”. Così, da due anni circa, ha deciso di
impegnarsi in prima persona per rigenerare questa zona
periferica. Assieme a due insegnanti e ad altri otto genitori, si è
riunita in una piccola associazione9. L’obiettivo di questo
gruppo informale è quello di diventare un “punto di riferimento”
per i residenti, tentando di rispondere ai fabbisogni sociali delle
famiglie in difficoltà.
Più in concreto, Anna e i suoi colleghi volontari utilizzano
l’arte ludica per far socializzare i bambini, specie se versano in
situazioni problematiche. Hanno cominciato dall’asilo e dalla
scuola elementare, dove per un’ora al giorno organizzano giochi
di gruppo ed altre attività ricreative: “qui ci sono molte scuole a
rischio, perché i bambini hanno in genere uno o entrambi
genitori in carcere. Spesso vivono con i nonni e vengono
emarginati dagli altri alunni […]. Noi gli proponiamo giochi di
gruppo o gli facciamo costruire aquiloni, girandole […]”.
Anche questo è un modo per stimolare la comunicazione e la
cooperazione in una fase cruciale come quella dell’infanzia,
specie quando si cresce in una situazione di deprivazione
31
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
sociale: “palla avvelenata, palla prigioniera, nascondino […]
dapprima ci sono dei bambini che tra di loro non si parlano, ma
alla fine del gioco comunicano intensamente”. E’ proprio questa
la questione fondamentale: ristabilire dei legami laddove si sono
sfilacciati, specie nei casi più estremi di isolamento. Per spiegare
questo aspetto, Anna cita l’episodio di una bambina che, fino
alla quinta elementare, si limitava a scrivere, rimanendo in
silenzio assoluto, destando non poca apprensione negli
insegnanti. Poi un giorno, all’improvviso, durante l’attività
ludica ha gridato, esprimendo le sua rabbia. Potere catartico del
gioco: quello di liberare la frustrazione in un’infanzia
penalizzata.
Il quartiere ha reagito con gradualità alla presenza attiva dei
volontari: “abbiamo cominciato a vedere che i bambini ci
riconoscevano, ci richiedevano […] così abbiamo iniziato a
capire che facevamo qualcosa di utile […] è importante perché
questo posto non offre nulla, sì c’è un parco ma nessuno ci va
per paura di fare brutti incontri”. E, poi, anche i familiari dei
bambini più a rischio, hanno cambiato atteggiamento; in
principio erano sospettosi, ma poi hanno visto che i figli o i
nipoti preferivano passare il tempo con il gruppo di animatori; e
questo ha contribuito a farli riavvicinare alle istituzioni
scolastiche: “E’ come una catena” – sottolinea Anna – “il
genitore, incurante della scuola, osserva il bambino che torna a
casa euforico; gli parla dei giochi, del fatto che si è divertito e
che vuole tornarci. Così inizia ad interessarsi, riprendendo a
frequentare i colloqui con la maestra”. Un risultato tutt’altro che
trascurabile in un contesto dove l’abbandono scolastico va a
braccetto con il disinteresse dei genitori.
Questi
segnali
hanno
incoraggiato
i
membri
dell’associazione. La loro azione si è così intensificata e
diversificata: l’animazione delle favole in biblioteca, per
stimolare gli allievi alla lettura e al confronto; le attività di
ricreazione nel centro per anziani; le visite ludiche nel reparto di
pediatria dell’ospedale locale; lo sportello informativo per i
genitori. In breve, gli impegni si moltiplicano, al punto da
richiedere una programmazione delle attività quasi giornaliera:
“abbiamo tutti i giorni occupati, c’è sempre qualcosa da fare
[…]”. Si tratta di uno sforzo notevole per un gruppo composto
da dieci persone, che debbono comunque occuparsi delle loro
32
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
famiglie, le quali non navigano certo nell’oro. Ma queste
difficoltà passano in secondo piano se si è sorretti da una sincera
volontà di cambiamento: “mi piace quando il quartiere
progredisce. Spero che un giorno non sia più considerato come
un ghetto periferico […] Perché noi siamo di Bari, ma ci
etichettano come abitanti di San Paolo […] questo distacco fa
male”. In effetti, Anna e gli altri volontari si sono mobilitati
perché non si rassegnano a questo stigma negativo; per questo
riannodano pazientemente la trama del legame sociale: sperano
che in futuro, ripristinando le basi della convivenza civile, San
Paolo possa diventare un quartiere normale.
1.4 Combattere la solitudine nella “montagna disincantata”
La fragilità del legame sociale si avverte anche in aree non
colpite dal vulnus della criminalità. Percorrendo da nord a sud lo
Stivale, ci si imbatte infatti in una miriade di realtà municipali
disancorate dal resto del paese; luoghi decentrati nei quali le
lancette della storia sembrano essersi fermate da secoli.
Pralungo, in provincia di Biella, è per certi versi un emblema di
questa condizione di isolamento: un piccolo centro di montagna
(circa 3000 abitanti), dove le persone vivono in case sparse,
avvolte da profili montuosi che si protendono senza soluzione di
continuità verso l’Appennino ligure e la Val D’Aosta. Il
paesaggio è di per sé suggestivo; tuttavia, non c’è di che
rallegrarsi da queste parti. In particolare, il declino demografico
(invecchiamento della popolazione) mette al repentaglio la
tenuta della comunità, provocando una serie di conseguenze
allarmanti: l’aggravarsi delle condizioni di salute degli abitanti,
anche per le malattie genetiche contratte a causa dei matrimoni
tra consanguinei; i giovani (per la verità pochi) che si
trasferiscono nelle città vicine; ma, più di tutto, la solitudine
degli anziani. Insomma, Pralungo è un posto dove è arduo
vivere e dove i fabbisogni di sostegno sociale e di assistenza
sanitaria sono molti.
E’ questo l’habitat nel quale opera Carla, una donna di
cinquant’anni, con un vissuto alle spalle alquanto intricato: due
matrimoni falliti e tre figli adulti che la vengono a trovare
quando possono; diversi traumi emotivi che hanno forgiato la
33
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
sua personalità; una traiettoria discontinua nel mondo del lavoro.
In passato, infatti, dopo aver preso il diploma da infermiera con
specializzazione in pediatria, ha maturato esperienze lavorative
assai diverse: i lavori occasionali per mantenersi durante il
periodo degli studi (commessa in un supermercato, postina,
assistente di un veterinario); alcuni impieghi più vicini ai suoi
interessi personali (svariati contratti da infermiera ed un incarico
nel ruolo di direttrice di un asilo nido); e una lunga parentesi
milanese, che ha coinciso con il suo secondo matrimonio; in
quel frangente, si è sperimentata come imprenditrice, avendo
assunto un ruolo di primo piano nell’azienda del suo ex marito:
una società leader nel settore della pubblicità. Poi, la donna ha
deciso di ritornare nel paese in cui è nata. A Pralungo ha aperto
un bed & breakfast: una piccola pensione che la tiene impegnata
soprattutto nella stagione estiva. Ma l’albergo non è in cima ai
suoi pensieri.
Da quattro anni, Carla gestisce (assieme ad un medico)
l’unico ambulatorio ospedaliero della comunità. La struttura è
stata messa a disposizione dal comune; tuttavia, senza il lavoro
gratuito di questa infermiera volontaria, sarebbe difficile
assistere 210 pazienti, con un orario di apertura che si prolunga
per tutta la settimana. L’intervistata non fornisce le prestazioni
infermieristiche solo nell’ambulatorio; la sua attività di servizio
è itinerante, perché gli anziani hanno molteplici esigenze e, di
sovente, non sono autosufficienti: “svolgo un servizio per tutta
la comunità […] faccio anche il taxi per le persone anziane,
accompagnandole a Biella, quando me lo chiedono, altrimenti
rimarrebbero isolate […] poi vado a visitarle a domicilio, perché
oltre alle medicazioni debbo seguirle nelle terapie; molto spesso
hanno dei farmaci in casa, ma si dimenticano di prenderli o ne
fanno un uso scorretto. Per questo è necessario muoversi sul
territorio”.
In effetti, la mobilità sul territorio è essenziale per curare i
pazienti. Per rendersene conto, basta seguire Carla mentre visita
una donna ottuagenaria che ha, di recente, contratto un’infezione
all’alluce del piede sinistro10; l’infezione potrebbe avere delle
ripercussioni serie: amputazione del dito con conseguenti
problemi di locomozione; il che comprometterebbe seriamente
la sua autonomia individuale. Un’eventualità molto pericolosa
34
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
per una persona in età avanzata che, insieme al marito (anch’egli
attempato), abita in un luogo assai appartato.
Per di più, la coppia vive in una situazione che rasenta la
precarietà: la casa è spoglia e addossata ad una valle. Gran parte
dell’edificio è ancora in costruzione. I due anziani alloggiano
nell’appartamentino al primo piano, al di sotto del quale c’è un
soggiorno di dimensioni anguste, arredato con mobili fatiscenti;
nel piccolo appezzamento di terra che circonda il fabbricato, si
notano un pollaio quasi vuoto, un orto tutt’altro che rigoglioso e
due cani smagriti che latrano di continuo. Il dato prevalente è
dunque la penuria: con tutta probabilità, la famiglia riesce a
malapena a sostentarsi con i prodotti della terra e i pochi capi di
bestiame di cui dispone.
Carla entra nel locale dove l’attende la sua paziente.
Considerando la gravità del quadro clinico, il clima all’interno
dovrebbe essere alquanto pesante. Invece, contrariamente alle
attese, la visita si svolge in un’atmosfera allegra: per tutto il
tempo, la volontaria e la paziente si scambiano battute scherzose
nel dialetto locale. Dopo circa trenta minuti, l’infermiera esce
assieme alla coppia anziani. L’aspetto dei due coniugi è più
trasandato del solito; prima della malattia, marito e moglie erano
fieri di indossare abiti variopinti; era un modo per esprimere il
loro attaccamento al folklore locale. Ora è diverso: si sono
entrambi lasciati andare; un sintomo dello stato di disagio che i
due vivono a causa del precario stato di salute della donna.
La visita volge al termine. L’anziana si avvicina a Carla e le
consegna un pacco con delle uova fresche. Dopo essere risalita
in macchina, la volontaria sottolinea che ha dovuto accettare il
dono: “fa parte del patto fiduciario che ho stabilito con i miei
pazienti; non accetterebbero mai i miei servizi gratuiti senza
dare qualche cosa in cambio […]”.
Un patto fiduciario; tale è il rapporto che lega l’infermiera ai
suoi utenti. E questo per un’ovvia ragione: nei momenti difficili,
quando la malattia e la solitudine funestano la vita degli abitanti
di Pralungo, l’infermiera stabilisce con loro una relazione di
prossimità. Carla agisce quasi alla stregua di un medico
condotto: si reca al capezzale della persona sofferente e, dopo
avergli approntato le cure del caso, dispensa consigli utili,
ascolta il disagio, la rincuora.
35
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
In molte circostanze, il suo è un intervento provvidenziale;
come nel caso di un uomo ottantenne che ha rischiato il
trattamento in dialisi: “un paziente di ottanta anni ha avuto
un’insufficienza renale grave, con il rischio di essere messo in
dialisi; voleva suicidarsi e l’avrebbe fatto; ho cominciato a
parlargli, a stargli vicino, a spiegargli il percorso terapeutico che
doveva seguire; pian piano si è reso conto che doveva mettersi a
dieta, rispettando una serie di regole ferree per curare la sua
salute. Alla fine di questo difficile percorso, si è scoperto che
egli non doveva fare la dialisi, pur dovendo continuare a
condurre una vita controllata. La mia più grande soddisfazione è
averlo visto di nuovo vitale”.
Come si vede, la guarigione di un anziano ha delle forti
componenti psichiche: le terapie mediche non andrebbero a
buon fine, se non fossero assecondate dalla comprensione
umana. E, Carla, pur non essendo una psicologa, ha capito che la
sua è, prima di ogni altra cosa, una attività di ascolto per lenire il
senso di isolamento: “ho imparato ad ascoltare perché qui il
problema principale è la solitudine”.
Si deve dire che il suo impegno è stato, in qualche misura,
premiato: i funzionari del Comune le lasciano, ad esempio, carta
bianca nell’acquisto dei medicinali. Si tratta di un’apertura di
credito significativa, perché sottende un riconoscimento pieno
dell’attività svolta dalla volontaria: il sindaco e gli assessori
sono consapevoli che è lei a mandare avanti, pressoché da sola,
un piccolo ospedale di montagna.
Tuttavia, Carla ha assunto un ruolo ancor più decisivo per i
destini della comunità di Pralungo. Lei è diventata a tutti gli
effetti una figura cardine per la stragrande maggioranza degli
abitanti del paese. Gli anziani la ricercano, ponendogli questioni
che prescindono dalla cura della salute; in particolare, quelli che
versano ancora in buona salute, si recano presso l’ambulatorio
anche quando non hanno necessità impellenti: iniezioni, visite
mediche, richiesta di informazioni sui dosaggi dei farmaci. Si
accomodano nella sala d’attesa e cominciano a chiacchierare fra
di loro del più e del meno. Poi, all’improvviso, compare
l’intervistata e, quasi per incanto, nasce un dialogo serrato sugli
affanni quotidiani vissuti da ciascuno dei pazienti. I racconti
variano, ma si possono individuare alcuni fili conduttori comuni:
la sensazione di isolamento, le ristrettezze economiche, la
36
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
nostalgia, il bisogno di stare in compagnia, il lutto non elaborato
della vedovanza, che colpisce in particolare le donne.
In questi incontri Carla non agisce più come un’infermiera
scrupolosa; piuttosto, la sua funzione ricorda da vicino quella di
una moderatrice in un gruppo di auto-ascolto. La donna prende
in mano la situazione: stimola la discussione, fa emergere il
disagio, cerca soluzioni. Il suo scopo è ormai chiaro: far si che
gli anziani condividano le loro ansie, per placare la morsa della
solitudine, per sconfiggere il senso di disillusione. Certo queste
conversazioni non sono la panacea di tutti i mali; ma almeno
ravvivano il paesaggio inerte della “montagna disincantata”.
1.5 Un “calcio” alle illusioni
Nel nostro paese il calcio è sicuramente un fenomeno di
costume. Di allenatori, partite, campioni e arbitri si discorre
praticamente ovunque: in famiglia, al bar, in televisione, sui
giornali e, non di rado, nei circoli intellettuali e nelle sedi
ufficiali della politica. Gli italiani sono subissati dal diluvio
d’informazione sulle vicende calcistiche, al punto che non
possono fare a meno di interrogarsi sul futuro della loro squadra
preferita, senza trascurare il gossip sul goleador del momento;
per non parlare poi dei concitati scambi di vedute sugli
immancabili “episodi da moviola”, che animano i tifosi per
settimane intere. In breve, l’opinione pubblica esprime una
tensione permanente per quello che avviene nel fantasmagorico
mondo del pallone.
Non sorprende, pertanto, che le attese verso questo sport
siano particolarmente diffuse nella nostra società, soprattutto fra
i calciatori “in erba” che sperano, un giorno, di poter
intraprendere la carriera da professionisti, magari calcando i
campi della “serie A”. Non ci sarebbe nulla di disdicevole in
un’aspirazione del genere, se non accadesse che, spesso, i sogni
diventano talmente ingombranti da non potersene liberare tanto
facilmente. Anche quando la “cruda realtà” li sconfessa.
Aldo tenta di evitare che gli aspiranti campioni vengano
sedotti dalla chimera del successo. Nel 1992, l’intervistato ha
cominciato a seguire i giovani del Brescia Calcio; non è un
dettaglio che egli abbia sempre lavorato a titolo gratuito,
37
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
sebbene il suo incarico fosse cruciale: “il club mi ha affidato i
giovani; dagli allievi (14-15 anni), fino alla primavera (20 anni).
Perciò, io mi sono occupato (tengo a precisare sempre in modo
gratuito, senza lucro né interessi) delle esigenze di persone
provenienti da tutte le zone d’Italia (principalmente dal
Meridione), oltre che dall’estero”. Poi, dopo sette anni, egli ha
interrotto la collaborazione con la squadra della sua città.
Tuttavia, anche in seguito, ha continuato a tenere d’occhio i suoi
“pupilli”, viaggiando in lungo e in largo per i campi di
provincia. Oggi, si mantiene in contatto costante con una ventina
di calciatori, principalmente dilettanti, senza mai negargli un
consiglio o una parola di conforto: “non bisogna perderli di
vista, perché i ragazzi sono in giro per l’Italia e hanno bisogno
di sostegno morale. Per questo io li vado a trovare oppure, se
non posso, faccio un telefonata”.
Dunque, Aldo si è ritagliato un ruolo del tutto inedito,
operando come una sorta di mentore che si aggira per il paese, al
solo scopo di stare vicino agli emuli di Totti e Del Piero. Lo
sforzo profuso è notevole se si considera che, nei giorni
infrasettimanali, quest’uomo di cinquant’anni fa il dirigente in
un’azienda municipalizzata. Un lavoro stressante, che lo
costringe ad assumersi responsabilità nient’affatto trascurabili.
Malgrado ciò, nei weekend, si sottopone quasi sempre a
spostamenti lunghi, pur di raggiungere i suoi adepti. Come
spiegare lo slancio con cui si dedica al suo passatempo
preferito?
A prima vista, l’attività volontaria di Aldo sembra coincidere
con un’incrollabile passione sportiva. In tal senso, il suo
impegno verso i giovani potrebbe essere motivato solo dal
fervore agonistico: allevare calciatori per poter dire, un domani,
che qualcuno di essi è diventato un campione celebrato. In
breve, una partita vibrante, giocata tutta “fuori dal campo”;
come quella di molti genitori che s’improvvisano allenatori o
procuratori, immaginando che i figli possano raggiungere
l’eldorado calcistica.
Certo, l’intervistato è un entusiasta del gioco del pallone;
tuttavia, egli non agisce come un talent scout (un procuratore
professionista) alla ricerca del fuoriclasse di turno: non ambisce,
in altri termini, alla fama (o al guadagno) per interposta persona.
Al contrario, egli offre un sostegno a coloro che si candidano
38
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
per un “posto al sole”, preoccupandosi soprattutto dei loro
destini extracalcistici. Quest’ultimo elemento emerge in modo
lampante quando rievoca la sua esperienza nella squadra di
Brescia: “c’erano ragazzi adolescenti […] il problema era
l’impatto che questi giovani subivano perché erano fuori di casa,
senza famiglia […] dovevo fargli da padre e da tutore […]
andare a parlare con gli insegnanti a scuola, dargli un appoggio
emotivo la sera, quando se ne stavano soli presso il convitto
religioso dove alloggiavano […] li portavo a cena, poi rimanevo
a lungo nel convitto per fargli compagnia. La dirigenza della
società sportiva non si occupava più di tanto di queste cose […]
loro pensavano alle questioni agonistiche […] io invece mi
preoccupavo dei ragazzi che non giocavano, perché non
rientravano nei parametri tecnici della società […] si sentivano
emarginati […] rischiavamo di disintegrare le loro vite […] io
mi facevo carico di questi outsider”.
Il brano è eloquente: Aldo funge da rete di supporto per un
manipolo di ragazzi mandati allo sbando in una ricca provincia
del Nord, col sogno nel cassetto di fare fortuna nel dorato
mondo del calcio. Il punto è che solo pochi arrivano al
traguardo: l’esordio nella massima serie e, dopo qualche anno,
mettendosi in mostra, il trasferimento in una squadra blasonata,
gli ingaggi da capogiro e magari la nazionale; ma, nel frattempo,
bisogna fare la gavetta. Gli allenamenti lontano da casa, senza i
genitori, il senso di abbandono, la difficoltà di conciliare lo
studio con la preparazione atletica. E poi conta anche il contesto
da cui si proviene: la stragrande maggioranza dei giovani
menzionati dall’intervistato sono di bassa estrazione sociale, per
lo più meridionali. Per loro la corsa verso l’Olimpo del calcio è
ancora più gravosa: la depressione è dietro l’angolo, quando si
dimora a centinaia di chilometri di distanza dal luogo in cui si è
nati, facendo la spola tra il campo da gioco e un convitto
religioso, senza poter contare sugli affetti familiari e sugli amici.
L’intervistato conosce bene queste storie di stenti e di
abbagli; per questo si affretta a dire “non bisogna mai illuderli”.
D’altronde ne ha viste tante; ha dovuto affrontare anche il
problema della tossicodipendenza. Di recente, infatti, ha aiutato
due giovani calciatori che erano finiti nel giro della droga: oltre
a fare uso di stupefacenti, spacciavano. Poi è venuta l’inevitabile
condanna penale. Lui non li ha abbandonati; anzi, gli è stato
39
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
vicino per tutto il periodo della detenzione. E, oggi, si sente
orgoglioso perché sono usciti indenni dal carcere. Non sono
diventati dei giocatori professionisti, ma conducono un’esistenza
tranquilla: “sono riuscito a salvarli […] questo era il mio scopo.
Li vado a trovare e mangiamo insieme. La mia soddisfazione è
sapere che si sono reinseriti, hanno un lavoro, una famiglia e
stanno bene”.
Dietro all’impegno volontario di Aldo si può anche leggere
l’intento di moralizzare il fenomeno calcistico, facendo
comprendere ai giovani che non si deve diventare a tutti i costi
qualcuno: “all’adolescente non bisogna inculcargli l’idea che
deve arrivare chissà dove, ma che deve essere cosciente di
quello che fa; è necessario educarlo al rispetto […] e soprattutto
deve capire che nella vita ci sono altri valori oltre al successo
sportivo […] qualcuno prima di lui si è sacrificato per dargli la
possibilità di esprimere le sue potenzialità, al di là dei problemi
contingenti”. Questo discorso potrà apparire eccessivo, a tratti
paternalistico; ma, intanto, Aldo continua a svolgere con
convinzione la sua funzione di mentore, infondendo un sano
realismo in chi potrebbe cadere preda di un’illusione fatale.
1.6 La mia Africa: un altro mondo è necessario
L’Africa brancola nel tunnel di una crisi umanitaria senza via
d’uscita: carestie, malnutrizione, mortalità infantile, eccidi
tribali, propagazione dell’Aids, catastrofi ambientali, ecc. Il
dramma è di proporzioni smisurate, specialmente se si guarda a
quanto avviene nell’area Sub-Sahariana: centinaia di milioni di
persone che vivono in uno stato di penuria estrema, senza acqua
e cibo, con una probabilità elevatissima di morire a causa della
difterite o per mano di qualche sanguinario “signore della
guerra”, pronto a scatenare un conflitto etnico, le cui vittime più
frequenti sono donne, bambini e anziani. Di fronte a questo
scenario apocalittico, anche gli impegni solenni delle Nazioni
Unite appaiono proclami alquanto illusori11. Per non sottacere,
poi, le inadempienze sul fronte dall’azzeramento del debito
estero dei paesi poveri.
L’opinione pubblica occidentale reagisce, di solito, in modo
ambiguo dinnanzi alle crude immagini del “flagello africano”:
40
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
alcuni voltano la testa dall’altra parte, tentando di rimuovere
(negare) l’evidenza dei fatti; altri rimangono attoniti, perché le
“icone del dolore” possono anche condurre alla paralisi della
coscienza; altri ancora mettono mano al portafoglio, elargendo
denaro alle organizzazioni umanitarie, tanto per placare il senso
di colpa. Ma c’è anche una minoranza di cittadini che si
mobilitano in prima persona, facendosi carico (per quanto
possibile) dell’emergenza.
Laura fa parte di quella schiera di attivisti che cercano di fare
qualcosa di concreto per l’Africa. Dal 2001 ha aderito ad un
gruppo spontaneo che raccoglie fondi per realizzare progetti di
sviluppo in un’area al confine con il Mozambico.
L’associazione, del tutto informale, nasce per iniziativa di un
medico che aveva lavorato per l’Unicef e per l’Organizzazione
mondiale della sanità. Nel corso delle sue missioni all’estero,
egli si era difatti accorto che le grandi organizzazioni
internazionali, dovendo operare su più fronti, lasciano scoperte
alcune aree decentrate. Gli viene quindi l’idea di raccogliere
attorno a sé alcuni amici e conoscenti, per dar vita ad
un’iniziativa umanitaria su piccola scala. E’ proprio questo
aspetto ad attrarre l’intervistata nell’orbita del volontariato
internazionale, anche se non nasconde che alla base della suo
coinvolgimento in questa attività c’è un’altra motivazione:
“faccio parte di una generazione che ha alle spalle un’esperienza
di militanza politica forte che ora non c’è più […] oggi la
politica non ti soddisfa e, in qualche modo, l’impegno nel
sociale va a colmare questo vuoto di partecipazione civica”. In
effetti, la donna per molti anni è stata una sindacalista della
CGIL, nel settore della scuola. Poi, però, si è stancata: “in
passato, il sindacato si impegnava in battaglie sociali di grande
respiro. Dopo, tutto si è ridotto alla questione dei contratti di
lavoro […] ero scontenta, dovevo trovare una cosa che
soddisfacesse questo mio bisogno di partecipazione e quindi ho
scelto il volontariato”.
Fin qui nulla di sorprendente: sono innumerevoli i casi di
militanti di sinistra (e non solo) che, essendo rimasti delusi dalla
loro esperienza politica, hanno compiuto una scelta come quella
di Laura. D’altronde, lei fa parte della generazione degli anni
Settanta: la gioventù che ha attraversato la stagione turbolenta
degli “anni di piombo”, con tutti gli strascichi che questo ha
41
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
comportato: “gli anni in cui si partecipava alle manifestazioni, in
cui ognuno di noi credeva in quello che faceva, ma sapeva di
rischiare grosso […] ho tanti amici che sono morti negli scontri
con la polizia o che hanno scelto la via della clandestinità. Altri
si sono semplicemente annientati con la droga […] Non so
perché alcuni di noi sono usciti indenni da questa esperienza
lacerante ed altri no […] Se ripenso a quegli anni dico che mi è
andata bene”.
Guardando al passato, l’intervistata può senza dubbio
considerarsi fortunata; diversamente da molti suoi coetanei, non
è rimasta irretita dagli eccessi dell’utopia rivoluzionaria. Dopo il
periodo della contestazione studentesca, ha così condotto una
vita alquanto ordinaria, vincendo tra l’altro un concorso nella
scuola pubblica (docente di ruolo in un liceo linguistico). A
dispetto della tranquillità raggiunta, deve aver nondimeno
avvertito uno strano senso di inquietudine: ad un certo punto, i
valori in cui ha creduto si sono appannati. L’impegno sindacale
si è trasformato in una routine; l’attività di insegnamento si è
spogliata dei suoi significati più nobili, anche perché, oltre a non
condividere la “riforma Moratti”, la donna ha cominciato a
manifestare una scarsa sopportazione verso gli studenti: “ho
iniziato ad essere insofferente nei loro confronti”. Di qui la
richiesta di essere trasferita in una biblioteca statale di Roma.
Un impiego ordinato, dietro una scrivania ricolma di scartoffie.
In breve un lavoro che, per un ex militante combattiva, equivale
ad un ritiro dalla vita pubblica.
Ma non ci si deve lasciar ingannare dalle apparenze: questo
riflusso nel privato non si addice a Laura. Gli ideali di giustizia
sociale non tramontano. Di sicuro, la palingenesi della società
non è realizzabile, almeno nel medio periodo. Tuttavia, ci si può
sempre impegnare per quella parte di umanità che soffre di
stenti. Se non altro perché la situazione del pianeta è diventata
insostenibile: “penso che se l’umanità non arriva ad una svolta
epocale, si andrà velocemente verso una catastrofe: ci saranno
sempre meno ricchi e una moltitudine di poveri a cui manca
tutto (il cibo, l’acqua, i medicinali, l’istruzione di base)”. Come
si vede, l’intervistata ha ben presente la situazione drammatica
in cui versano i paesi poveri. Lei, d’altro canto, in Africa ci è
stata; ha visto con i suoi occhi quel che accade nei villaggi SubSahariani: “sono stata nella terra degli Zulù, nel nord-ovest, al
42
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
confine con il Mozambico, dove opera il nostro gruppo. La
località si chiama Makeleni: è un’area circoscritta e molto
povera, le abitazioni sono ancora capanne di fango e paglia.
Ogni 25 adulti ci sono 100-125 bambini malnutriti. Gli adulti
sono pochissimi perché o sono morti di Aids o si sono spostati
in città, per cercare un lavoro […] c’è inoltre una carenza
assoluta d’acqua, perché mancano i pozzi. La popolazione è
costretta ad attingere dalle pozze d’acqua che si formano dopo le
piogge, con ovvi problemi di igiene […]”.
Per Laura, il viaggio in Africa è stato decisivo: “per me è
stato importantissimo recarmi sul posto, perché quando fai il
volontario lavori per una causa giusta, però non hai ancora un
legame reale con le popolazioni locali. Invece lì ti trovi di fronte
ai bambini denutriti […] dopo sei consapevole che mille euro
possono salvare più di una vita. Il tuo coinvolgimento
aumenta”.
Ben si capisce allora che la volontaria, una volta tornata in
Italia, abbia dedicato maggiori energie alla “causa”. Il suo
impegno nell’associazione è diventato poliedrico: “raccolgo
fondi, ma in realtà faccio di tutto; preparo le “ceste solidali” per
le collette di natale; vado in tipografia a stampare gli opuscoli
informativi; contatto imprenditori e commercianti per
convincerli a fare delle donazioni; organizzo feste ed altre
iniziative di solidarietà per l’Africa; molto spesso sensibilizzo le
persone nei supermercati”.
In sintesi, la sua è una forma di attivismo a tutto campo; un
dinamismo alquanto pratico. Laura e gli volontari sono
consapevoli che non c’è tempo da perdere: vogliono costruire 17
asili nido nella terrà degli Zulù, oltre a dotare i villaggi di pozzi
per l’acqua. Si tratta di strutture fondamentali: possono salvare
la vita di molte persone. Nel campo degli aiuti umanitari, c’è
poco spazio per coltivare le utopie: l’entità del dramma africano
impone la concretezza (obiettivi chiari, disponibilità di risorse,
interventi mirati, risultati tangibili). Tutto ciò richiede uno
spirito fattivo; forse è per questo che l’intervistata si congeda
con un’ultima riflessione disincantata sull’ideale del
cambiamento: “oggi non direi più che un altro mondo è
possibile; mi limiterei ad affermare che un altro mondo è
necessario”.
43
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
1.7 Il quotidiano solidale
Non è agevole fare un bilancio complessivo sulle storie di
Demetrio, Anna, Carla, Aldo e Laura. Dietro ai gesti di questi
volontari non convenzionali si possono infatti scorgere molti
elementi singolari: tratti peculiari che mal si prestano ad una
lettura comparata delle loro vicende personali. Malgrado ciò, tra
le pieghe di questi racconti, si può in ogni caso rintracciare un
elemento comune: una disposizione autentica e prolungata verso
l’altruismo, che si sviluppa fuori dal seminato del volontariato
canonico. Ciò dimostra che l’uomo solidale può impegnarsi in
modi inconsueti, senza per questo essere meno attivo (o
“generoso”) di chi opera nelle forme previste dalla legge.
Il problema è che il volontariato informale è per sua natura
radicato nell’esperienza del soggetto-agente. Certo, anche i
volontari che agiscono alla “luce del sole” (nelle organizzazioni
riconosciute) esprimono la loro individualità. Tuttavia, nel loro
caso, si può sempre fare appello ad un “marchio” che qualifica
l’azione volontaria: gli stili di lavoro, i valori portanti, i ruoli e i
compiti, i processi di socializzazione e via discorrendo. Per
essere succinti, si delinea qui l’influsso di una sub-cultura
organizzativa, che spiega gran parte del comportamento prosociale. Talvolta, gli studiosi sono portati ad enfatizzare questa
forma di condizionamento ambientale; come Pearce, quando
sottolinea che: “la caratteristica peculiare delle organizzazioni
(di volontariato – ndr.) in quanto realtà sociali consiste proprio
nell’esplicita o formale strutturazione di azioni e interrelazioni
individuali (Pearce, 1993, trad. it., p. 46). Si deve, però, dire che
tale assunto rimane comunque valido, soprattutto se si evita di
scadere nel determinismo12. Senza dubbio, il “fattore
organizzazione” aiuta a fare ordine negli atti disinteressati delle
persone. Ma cosa accade quando l’altruismo viene agito al di
fuori di una organizzazione strutturata?
La risposta non è immediata. Si può soltanto partire
dall’ovvia constatazione che i protagonisti di questa indagine
recitano a soggetto; la loro solidarietà è di per sé affrancata dal
legame organizzativo, non essendo vincolata da un patto
associativo formale; nonostante ciò, essi sono collocati
all’interno di una rete di rapporti sociali: una trama di relazioni
che influenza (in qualche misura) la condotta volontaria. Ma –
44
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
questo è il punto – per far risaltare questa dimensione occorre
addentrarsi nella vita quotidiana degli intervistati. In tal modo, si
complica di molto l’analisi, perché si amplia a dismisura lo
spettro di osservazione.
Sul piano teorico, infatti, la quotidianità può essere
considerata come:
l’insieme delle pratiche, degli ambienti, delle relazioni e degli orizzonti di
senso in cui una persona è coinvolta ordinariamente, cioè più spesso e con la
sensazione della maggiore familiarità, in una certa fase della sua biografia
(Jedlowski 2005, p. 20, corsivo nostro).
Questa definizione pone in rilievo almeno tre aspetti
significativi: 1) l’esperienza dell’individuo (anche la più banale)
è molto articolata, perché si sviluppa attraverso un serie
(pressoché infinita) di rimandi tra azioni, relazioni situate e
orizzonti di senso (significati attribuiti alla propria esistenza e
alla realtà sociale); 2) inoltre, non sfugge che la vita quotidiana è
anche il territorio delle minuzie, il proscenio da cui emergono
quegli atti ripetitivi (routine) che fissano la posizione
dell’individuo nella società; 3) ciò non toglie che, infine, la vita
d’ogni giorno sia permeata dal mutamento, perché ogni persona
(con l’incedere degli anni) affronta diverse transizioni
biografiche . Sotto questo profilo, la quotidianità non è solo il
luogo dove si inscena ciò che è familiare (ordinario); è anche
l’ambito dove gli individui si muovono con un certa dose
inventiva, dovendosi adattare di continuo ai cambiamenti.
Insomma, l’esistenza quotidiana di ciascuno è caratterizzata
dall’alternanza fra stabilità e mutamento; per di più, tale
circolarità investe praticamente ogni dimensione della biografia
individuale. E’ per questo che è difficile tracciare i confini entro
cui si compie l’esperienza soggettiva. L’analista prova un certo
smarrimento, poiché si ritrova a setacciare un flusso inesauribile
di eventi complessi e frammentari.
Un primo assaggio lo si è avuto con le storie narrate nelle
precedenti pagine: non è stato facile riannodarle in una trama
dotata di senso. Il che la dice lunga: si voleva ricostruire un
numero limitato di vicende emblematiche, solo per abbozzare
alcuni ritratti esemplari di attivismo solidale. Ora, invece, si
deve esplorare la totalità del panel degli intervistati: trenta
profili di altruisti spontanei, trenta volti singolari da far confluire
45
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
in un’ipotetica foto di gruppo. Bisogna insomma utilizzare il
grandangolo per ritrarli tutti, senza però tralasciare i dettagli.
Un’operazione estremamente laboriosa: si corre sempre il
rischio di rovinare la fotografia, deformando l’immagine
complessiva o eliminando i particolari.
In tal senso, si ripresenta il dilemma di ogni ricerca
qualitativa: far risaltare l’unicità dei “tipi umani” osservati sul
campo, oppure cercare delle analogie nelle loro condotte
esistenziali? Senza entrare nel merito di una querelle che, da
decenni ormai, divide gli scienziati sociali13, in questa sede ci si
può limitare ad alcune considerazioni di buon senso, utilizzando
una metafora. Ogni storia raccolta in questa indagine è un
tassello importante per assemblare il mosaico del volontariato
informale. Tuttavia, le singole tessere non restituiscono
l’immagine d’insieme; soltanto con un paziente lavoro
d’incastro si può intravedere la configurazione generale
dell’oggetto di studio.
In ultima analisi, le testimonianze dei volontari, pur essendo
atipiche e originali, non sono dei frammenti chiusi d’esperienza.
Anzi, mettendole in relazione, si possono sempre trovare alcune
affinità, al di là delle ovvie divergenze. In altre parole, non è
infondato avventurarsi in un’analisi comparativa quando, come
nel nostro caso, si interpretano le interviste rilasciate da un
numero congruo di persone. Si va alla ricerca di similitudini e
dissomiglianze, al solo fine di stabilire dei nessi fra le differenti
soggettività esaminate. L’obiettivo è quello di portare allo
scoperto i segni comuni di un civismo non assimilabile alle
formule ortodosse della solidarietà; in tale prospettiva, si tratta
di tratteggiare i contorni di un affresco corale: un racconto a più
voci sul “quotidiano solidale”. Con quest’ultimo termine si
intende, ancora una volta, sottolineare che l’azione volontaria,
specie nella sua veste informale, è imbevuta di vita quotidiana.
Ma, una volta assunta questa prospettiva, si dilatano
inevitabilmente i confini della ricerca: da un comportamento
circoscritto (l’attività volontaria) si passa all’esame di
un’esistenza a tutto tondo. Va da sé che, per procedere in tale
direzione, si debbano necessariamente individuare dei fuochi
d’analisi; perciò, prima di immergersi nel vissuto degli
intervistati, occorre accennare ai passi salienti che si debbono
compiere, se si vuole giungere alla comprensione di un
46
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
fenomeno sfuggente come il volontariato informale. In tale
ottica, è opportuno non lasciarsi ammaliare dalle “sirene del
pensiero sociologico”: dato il carattere esplorativo di questo
libro, non è necessario affidarsi più di tanto al lessico
concettuale o alle congetture teoriche. Piuttosto, l’unica via
praticabile è quella di rimanere aderenti alla realtà osservata.
Ebbene, il modo più appropriato per agganciare
l’interpretazione ai “dati di fatto” è quello di ripartire dalla
stessa azione volontaria, ponendosi alcuni quesiti dirimenti;
occorre chiedersi come e perché si sviluppano le pratiche
spontanee d’altruismo. Una volta chiarita tale questione
preliminare, sarà possibile confrontarsi con due ulteriori
problemi di non poco conto: dove (in quale contesto simbolico e
materiale) si esplica l’impegno sociale degli intervistati?
Quando (in che modo) l’esperienza solidale entra a far parte
della biografia personale? I prossimi capitoli affrontano di petto
questi interrogativi, seguendo sempre da vicino le vicissitudini
dei volontari “fai-da-te”. Prima di ciò, non si può tuttavia
tralasciare una questione cruciale: qual è il linguaggio
concettuale più appropriato per descrivere l’esperienza dei
protagonisti della presente indagine?
Note
1
In generale, i giuristi concordano su questo principio contenuto nella
legge 266/91. Ad esempio, Panico e Picciotto sottolineano che “la legge sul
volontariato impone che l’attività deve essere svolta in forma organizzata,
vale a dire in forma che prevede una pluralità di soggetti fra di essi legati da
un vincolo (giuridico) per lo svolgimento di attività con fini di solidarietà
(Panico, Picciotto, 1992, p. 51, corsivo nostro)”.
2
Ciò non esclude che i volontari possano agire in altri soggetti collettivi,
ad esempio una cooperativa sociale, a patto che la loro attività rispetti i criteri
individuati dalla legge: prima di tutto il carattere gratuito (non remunerato)
delle loro attività.
3
Anche in ambito sociologico si tende a porre in rilievo che l’azione
altruistica si fonda comunque su un vincolo sociale, a cui il soggetto-agente
decide di aderire deliberatamente: “l’adesione libera ad una forma di
solidarietà collettiva e l’appartenenza ad una rete di relazioni a cui si
partecipa per scelta (Melucci, 1991, p. 33)”
4
L’aumento delle organizzazioni di volontariato accreditate negli albi
regionali è stato, senza alcun dubbio, significativo: nel 1995 la loro
47
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
numerosità era pari a 8.343 unità, mentre nel 2001 si registravano 18.293
unità, con un incremento pari al 119% (ISTAT, 2004).
5
Per tutelare la privacy degli intervistati sono stati attribuiti loro degli
pseudonimi. Nel paragrafo si è utilizzato un nome finzionale anche per il
bambino con cui Demetrio passa i suoi week end (infra).
6
Per Sennett è l’erosione del “carattere” (l’identità lavorativa) la
principale conseguenza di un sistema di mercato che rende il lavoro
malleabile, pronto all’uso e al disuso, a seconda delle esigenze produttive.
Così l’impiego non è più un il baluardo attorno al quale organizzare la vita,
specie in contesti come quello dell’informatica, dove la velocità del
cambiamento rende quanto mai instabili le biografie dei lavoratori. Inoltre, il
viavai tra un contratto di lavoro e l’altro ha un costo psicologico evidente:
l’indeterminatezza del presente e del futuro.
7
La cooperativa dove l’intervistato ha svolto il servizio civile è di “tipo
B” (ai sensi della legge n. 381 del 1991 sulla cooperazione sociale); in
genere, questi enti non lucrativi producono beni e servizi al fine di reinserire
nel mercato del lavoro soggetti svantaggiati (disabili, ex detenuti, ex
tossicodipendenti). L’attività di fabbrica a cui fa riferimento Demetrio
consiste nell’assemblaggio dei rubinetti.
8
Cfr., Per i servizi sociali dobbiamo vendere, articolo pubblicato sulla
“Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8/01/2005.
9
L’associazione non è stata mai costituita formalmente: Anna e gli altri
volontari per ora non pensano neppure a redigere uno statuto da depositare
presso un notaio o negli uffici comunali competenti.
10
Il resoconto di questo episodio è frutto dell’osservazione diretta della
visita effettuata da Carla.
11
In una risoluzione adottata nel 2000 (United Nations Millennium
Declaration, n.55/2), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è
impegnata a dimezzare (entro il 2015) la quota di persone che non hanno cibo
e acqua a sufficienza per sopravvivere, oltre a disporre di un reddito
giornaliero inferiore ad un dollaro. Inoltre, nel vertice del G8 del 2004, i capi
di Stato e di Governo dei paesi ricchi hanno fatto propri questi “obiettivi del
Millennio”, aggiungendo un’ulteriore sfida: abbattere di due terzi la mortalità
infantile. Ma è lo stesso direttore dello Human Development Report Office
delle Nazioni Unite, a sottolineare che tali obiettivi si stanno allontanando
fatalmente, soprattutto sul fronte della tutela della vita dei bambini: “il
programma di sviluppo delle Nazioni Unite ha appena concluso un’analisi
valutativa sui progressi compiuti nella riduzione della mortalità infantile
nell’Africa Sub-Sahariana. I risultati non sono per i deboli di cuore. Se le
attuali tendenze continueranno, la regione non raggiungerà gli obiettivi del
Millennio con uno scarto negativo epico. Secondo le nostre stime, ci saranno
tre milioni di bambini morti in più nel 2015, rispetto a quanto preventivato.
Nel 2015, in Africa Sub-Sahariana si registrerà una mortalità infantile pari a
due terzi di quella mondiale (traduzione nostra)”. Cfr. Kevin Watkins, Three
Millions Reasons to Act for Africa, articolo apparso su “International Herald
Tribune”, 8 luglio 2005.
48
1. Invito alla lettura: storie di volontari che recitano a soggetto
12
Questa forma di determinismo non aiuta a comprendere la realtà;
infatti, quasi mai gli individui vengono completamente eterodiretti dalle
organizzazioni a cui sono affiliati; questo rilievo appare assai pertinente per
gli enti di volontariato: sebbene questi enti tendano ad assumere una veste
formale, attraverso la definizione di regole e ruoli operativi, restano in ogni
caso degli ambiti informali di socializzazione e partecipazione. In essi,
quindi, i volontari possono sempre operare con un certo margine di libertà.
13
Si allude al dibattito tra i fautori dell’unicità e i sostenitori della
regolarità negli approcci qualitativi di ricerca (Diana, Montesperelli, 2005).
49
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
2
La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche
della ricerca
2.1 Breve excursus teorico
Gli spunti raccolti nel precedente capitolo spingono ad
analizzare le condotte dei “volontari fai-da-te”, senza avanzare
alcuna ipotesi di lavoro preliminare. Del resto, si è ripetuto più
volte che la presente è un’indagine esplorativa: si tratta, in
sostanza, di immergersi nel vissuto degli intervistati, cercando di
decifrare le loro esperienze originali d’altruismo. In tal senso,
sarebbe alquanto sconveniente lasciarsi guidare da
interpretazioni a “scatola chiusa”.
L’unica via percorribile è, quindi, quella di considerare il
volontariato informale come una sfera d’azione legata a doppio
filo con la quotidianità del soggetto-agente. Malgrado ciò, è in
ogni caso opportuno fissare alcune coordinate teoriche, prima di
passare in rassegna i risultati della ricerca empirica; non si
intende, evidentemente, imbrigliare più di tanto l’oggetto di
studio, proponendo griglie di lettura preconfezionate o modelli
rigidi di spiegazione; piuttosto, è necessario elaborare una
mappa concettuale accurata, per afferrare tutte le implicazioni
di un fenomeno fluido come quello esaminato.
A tal fine, può essere utile servirsi del concetto di pratica: una
nozione che è stata fin qui utilizzata con una certa disinvoltura.
Ora, invece, è giunto il momento di definire con maggiore
precisione questa categoria analitica, tenendo conto (per quanto
parzialmente) della sua complessa gestazione nella teoria
sociale.
Nel senso comune, la pratica rimanda all’attività ricorrente e
concreta che ogni persona conduce nella vita ordinaria:
preparare la cena, svolgere le mansioni tipiche di un lavoro,
frequentare un club sportivo o dedicarsi al modellismo, ecc. A
questo livello, pertanto, il termine non pone particolari difficoltà
di comprensione; per certi versi, basta gettare uno sguardo sugli
atti che l’individuo compie periodicamente nella sua esistenza.
Ma è risaputo che gli studiosi non si accontentano quasi mai
50
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
dell’ovvio, specie quando si lasciano trasportare dalla loro
“immaginazione sociologica”; non di rado, lo sforzo intellettuale
da loro profuso contribuisce ad affinare il linguaggio con cui si
descrive ed analizza la realtà. A dispetto di ciò, si deve
purtroppo constatare che la pratica non ha ancora acquisito
sufficiente chiarezza nel lessico delle scienze sociali.
A ben vedere, il problema nasce dal fatto che diversi autori si
sono avvalsi di questo costrutto nei loro studi, senza tuttavia
elaborare una teoria sistematica sull’argomento (Reckwitz,
2002). Il caso più conosciuto è quello di Pierre Bourdieu che,
dopo un inizio promettente (Bourdieu, 1972, 1979), ha
lentamente abbandonato questa nozione, affidandosi ad altre
chiavi interpretative per dar conto dei conflitti materiali e
simbolici nelle società complesse: l’habitus, il campo, il capitale
culturale e sociale, ecc. (Warde, 2004). Ma anche intellettuali
del calibro di Anthony Giddens, Michel Foucault, Charles
Taylor e Bruno Latour non hanno offerto una definizione
organica, sebbene abbiano più volte accennato alla pratica nelle
loro riflessioni sulla modernità.
Peraltro, a questa opacità teorica fa da contraltare la
diffusione del termine in molteplici ambiti disciplinari (studi
culturali, etnologia, psicologia sociale, antropologia, sociologia,
ecc.); non sorprende, dunque, che il suo raggio d’applicazione
nelle ricerche empiriche sia davvero esteso: la sofisticazione del
gusto nell’arte postmoderna; le dinamiche di lavoro nelle
multinazionali o nelle comunità di esperti; l’omologazione della
cultura popolare; i rituali mistici nelle tribù primitive; i cicli di
protesta collettiva che, a tratti, scuotono le “asfittiche”
democrazie post-industriali; ecc. Secondo molti ricercatori
accademici, questi ed altri processi sociali possono essere
decodificati tramite le pratiche, nonostante si sia in presenza di
contesti d’azione disparatamente diversi. L’impressione è di
trovarsi di fronte ad un vocabolo di cui si fa un uso smodato.
Orbene, si deve necessariamente procedere con cautela
laddove si decida di adoperare questo concetto come strumento
di analisi. Innanzi tutto, è opportuno sottolineare da subito che il
suo uso generico è di scarsa utilità: in definitiva, la pratica
designa tutte le attività umane che prescindono dal pensiero
speculativo. Ben si capisce che questa accezione risulti
praticamente inservibile per esaminare fenomeni sociali
51
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
circoscritti. Sicché, conviene adottare il plurale (pratiche),
oppure specificare l’ambito che si intende studiare: ad esempio,
la pratica di consumo o la pratica artistica.
Al di là di tali sfumature terminologiche, le pratiche mostrano
una indubbia validità analitica, visto che indicano:
un tipo di comportamento ritualizzato che consiste di diversi elementi
interconnessi: attività fisiche, attività mentali, gli oggetti e il loro uso, una
base di conoscenza nella forma della comprensione, del know-how, oltre agli
stati emotivi e alle motivazioni (Reckwitz, 2002, p. 249).
In sintesi, si parte da un’azione situata nel tempo e nello
spazio e la si osserva nella sua espressione più tangibile:
l’esecuzione di una serie di routine (i gesti ripetuti della
quotidianità); ma, ben presto, ci si accorge che tali atti concreti
sono portatori di cognizioni, motivazioni, rappresentazioni
sociali e stati emotivi; in breve, dietro al dato immanente del
comportamento reiterato, si annida il significato (tacito ed
esplicito) che ogni persona attribuisce al suo modo di agire nel
mondo circostante.
In fin dei conti, è proprio la valenza simbolica ed emotiva di
tali condotte a renderle, almeno in parte, ritualizzate; sotto
questo profilo, la consuetudine non presuppone soltanto che
l’esperienza si standardizzi, ma anche che quest’ultima diventi
familiare: sia riconosciuta in quanto tale dall’individuo. Il che
implica comunque la produzione di senso, oltre che il
coinvolgimento emotivo (Jedlowski, 2003, pp. 178-179).
Inoltre, non sfugge un altro aspetto rilevante: le pratiche sono
per loro natura collocate in una rete di rapporti sociali; esse si
sviluppano quasi sempre in una cornice di relazioni
interpersonali e di vincoli sistemici; perciò, rispecchiano i
condizionamenti ambientali a cui ciascuno è sottoposto, facendo
parte di una determinata società. Il punto è che le prassi sociali,
pur essendo assoggettate a queste influenze esterne, lasciano
ampi margini di libertà all’attore. E questo per una ragione
intuibile: anche nelle situazioni più formali, non tutto è
questione di ruoli e convenzioni sociali. L’individuo può sempre
sovvertire gli schemi costituiti, esprimendo la sua soggettività,
soprattutto quando affronta situazioni incerte o critiche, che
possono compromettere le routine consolidate (Reckwitz, 2002,
p. 255).
52
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
Dunque, la prospettiva delle pratiche sociali consente di
evitare il determinismo delle teorie normative dell’azione
sociale (l’attore introietta norme e valori, muovendosi quasi
come una “pedina” nello scacchiere preordinato della società);
senza per questo scadere nell’individualismo radicale
prospettato dall’utilitarismo o dal modello della scelta razionale
(rational choice): l’uomo completamente affrancato da obblighi
sociali, ossia un “sovrano assoluto” che risponde esclusivamente
all’imperativo dei suoi interessi personali. Tra questi due
estremi, si apre uno spazio dove scelta e costrizione coesistono,
offrendo una visione più realistica dei processi collettivi e della
stessa esperienza individuale.
La pratica è, pertanto, uno strumento concettuale duttile e
prolifico. Una sorta di bussola che può contribuire a fissare
alcuni punti fermi nel caotico fluire dell’altruismo spontaneo:
l’immediatezza del comportamento; la versatilità delle sue
componenti simboliche; la collocazione ambivalente nella trama
della società. L’osservatore deve aguzzare la vista se vuole
ricostruire queste dinamiche complesse; per questo non può far
altro che sviscerare le strategie concrete con cui il volontario
ordisce la sua trama nel “quotidiano solidale”.
2.2 Contestualizzare il rituale altruistico
Finora si è compreso che l’angolo visuale delle pratiche può
dimostrarsi particolarmente fecondo ai fini della presente
ricerca. Nondimeno, ciò non è ancora sufficiente: il passo
successivo è quello di calare il concetto nella realtà specifica
dell’altruismo spontaneo. In breve: cosa vuol dire considerare il
volontariato informale come una prassi? In modo alquanto
sommario, si potrebbe rispondere che anche i gesti di generosità
entrano a far parte della vita quotidiana dell’individuo, al punto
da diventare delle routine: miniature di solidarietà ripetute nel
tempo o, se si preferisce, “automatismi del cuore”. Insomma, la
disposizione altruistica si trasformerebbe quasi in un gesto
incondizionato di apertura verso l’altro: una sorta di chimica dei
buoni sentimenti, dalla quale non ci si può sottrarre, perché si
segue un copione già scritto (essere benevolenti verso il
prossimo) e, perciò, si agisce di conseguenza.
53
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
Come si vede, tale ragionamento è assai riduttivo: in primo
luogo perché il comportamento pro-sociale si svuota di senso,
essendo assimilato ad una abitudine fra le tante (come il tè
pomeridiano). Beninteso: anche i rituali riempiono di significato
l’esistenza, ben al di là della loro apparente banalità. Il problema
però non è quello di rivalutare la loro importanza per chi li
compie, o per chi li analizza.
Piuttosto, ci si deve soffermare su un altro aspetto: ogni
azione, anche la più inaspettata, può sembrare un dettaglio
trascurabile se viene estrapolata dall’ambito in cui si sviluppa.
In sintesi, la pratica rischia di apparire un frammento sterile
dell’esperienza, se non viene proiettata in un contesto di
riferimento. Solo con questo ampliamento di orizzonte, si
possono infatti cogliere le sue componenti emotive, cognitive e
valoriali, oltre al suo dinamismo interno. Nel caso del
volontariato informale, questa cornice simbolica e materiale è
rappresentata dal problema che mobilita (attiva) l’uomo solidale.
Un esempio, non troppo distante dalla realtà1, può chiarire
quest’ultima affermazione.
Una persona si sveglia ogni domenica di buon ora; si veste in
fretta ed esce di casa. Senza dubbio, ha qualcosa di impellente
da fare. Sale in macchina e si dirige di carriera fuori dal centro
abitato, dove c’è un’area naturalistica. Lascia l’automobile in un
luogo appartato e si incammina dentro la boscaglia. Mentre
avanza, estrae da uno zaino una macchina fotografica,
assicurandosi che sia tutto in ordine: un rullino intonso (per
scattare almeno una trentina di istantanee), l’obiettivo già messo
a fuoco e quant’altro. Ad un certo punto, si ferma dietro ad un
grande albero secolare: ha sentito dei rumori che hanno attratto
la sua attenzione. In effetti, non sembra essersi sbagliato: dopo
poco, vede sfilare una coppia di caprioli che se la danno a
gambe. Il fotografo amatoriale non perde tempo: nel breve
volgere di alcuni secondi scatta una decina di foto, ritraendo la
corsa affannosa degli animali; ma l’evento clou deve ancora
arrivare. Passa ancora qualche attimo e scorge tre cacciatori con
la doppietta già carica. Si trasforma così in un detective e, dopo
aver inseguito a lungo i predatori, non si lascia sfuggire il
momento fatidico: immortala i bracconieri mentre prendono la
mira contro i malcapitati caprioli…
54
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
La scena appena descritta è emblematica, soprattutto se si
considera che non si tratta di un avvenimento sporadico. Come
si è detto, il reporter dilettante compie questo rituale ogni
domenica. E’ forse una guardia forestale, che svolge con
puntiglio la sua funzione di servizio a presidio dei parchi?
Oppure è un delatore delle domenica, che vuole cogliere in fallo
gli incauti cacciatori, magari perché li detesta per ragioni che
nulla hanno a che vedere con la difesa della fauna? O, ancora, è
un animalista solitario, che semplicemente vorrebbe abolire la
caccia dalla faccia della terra, poiché nutre un affetto viscerale
nei confronti di tutte le specie viventi? Come si vede, si
potrebbero addurre diversi motivi per spiegare l’incursione
clandestina del fotografo: l’etica di un funzionario pubblico; i
conflitti personali all’interno di una piccola comunità locale; una
sensibilità spiccata nei confronti degli animali. Peraltro,
affidandosi alla sola osservazione dell’episodio, risulta alquanto
arduo formulare delle considerazioni ulteriori. Si può
esclusivamente prendere atto dei fatti: una persona vaga nei
boschi per ritrarre i predatori che fanno strage dei caprioli. Di
più non è dato sapere, a meno che non si raccolgano altri indizi
sulla situazione appena descritta. In particolare, si deve
contestualizzare il comportamento dell’attore. Soltanto con tale
allargamento di prospettiva si può sperare di afferrare l’arcano:
cosa muove il nostro stravagante fotografo, mentre si aggira in
modo assai temerario nella boscaglia? Il mistero può essere
svelato con poche informazioni aggiuntive: il protagonista del
raid domenicale fa parte di un gruppo spontaneo di giovani
ambientalisti, che hanno deciso di mobilitarsi per difendere le
specie protette dell’area naturalistica. Visto che la guardia
forestale non ha un organico sufficiente per sorvegliare il parco,
questi attivisti hanno scelto di surrogare l’intervento delle forze
dell’ordine: così hanno assunto il ruolo di sentinelle dell’oasi
verde, raccogliendo una serie di prove che inchiodino i
bracconieri. Da questo punto di vista, le fotografie sono molto
efficaci: puntano l’indice su un una consuetudine illecita, quella
di uccidere gli sparuti esemplari del capriolo, per di più
all’interno di una riserva naturale. La questione di fondo è che,
malgrado i divieti posti dal Ministero dell’Ambiente, la caccia fa
parte degli usi locali. E questo aggrava l’equilibrio
dell’ecosistema: nel luogo dove si è svolta la scena (non importa
55
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
quale in questo momento) stanno scomparendo non solo i
caprioli, ma anche diverse specie di uccelli. I cacciatori
continuano a uccidere gli animali, nonostante la possibilità di
vedersi comminare delle multe salate o la minaccia di ritiro della
licenza. Del resto, l’arte venatoria è un costume tradizionale
nell’area dove operano i giovani ambientalisti: procacciarsi la
selvaggina è un modus operandi tipico della cultura contadina;
per questo è arduo spezzare la catena degli eccidi dei caprioli,
anche in presenza di proibizioni sancite dalla legge. Il gruppo di
volontari sa bene che deve scontrarsi con l’acquiescenza della
popolazione verso un’usanza che perdura da secoli. Ma questo
non li ferma; anzi, moltiplica i loro sforzi: la sorveglianza nel
parco rappresenta solo una parte del loro impegno, sebbene sia
un atto alquanto coraggioso, poiché non si può mai escludere di
“rimanere impallinati” per sbaglio, durante l’attività di
avvistamento e smascheramento dei cacciatori. Nondimeno,
accanto alla funzione di vigilanza, i giovani vogliono anche
sensibilizzare la comunità in cui vivono. A ben vedere, il loro
scopo è quello di denunciare il problema, facendo capire ai loro
concittadini che la caccia mette a repentaglio l’equilibrio
naturalistico, con effetti negativi sull’ecosistema locale,
compresa la coltivazione agricola. Per questo, oltre ad inviare le
prove alle autorità competenti, il nostro fotografo (e gli altri
membri del gruppo) pubblicano la documentazione su un
giornalino, che provvedono a distribuire nei principali luoghi di
aggregazione del paese. Le foto sono accompagnate da articoli
che segnalano i guasti prodotti dall’attività venatoria.
Quest’opera di divulgazione si propone di coinvolgere la
cittadinanza, contribuendo così a rompere lo schema rituale
della cacciagione: in effetti, l’unico modo per impedire
“l’ecocidio” della fauna protetta è quello di demolire la
credenza popolare secondo cui la caccia è innocua giacché, dalla
notte dei tempi, gli esseri umani hanno sempre rappresentato
l’ultimo anello della catena alimentare. Peccato che l’habitat non
sia più quello della società pre-industriale e che, oggi come
oggi, gli animali vadano tutelati, soprattutto quando il loro
numero declina fino a pregiudicare la sopravvivenza della loro
specie. In ultima analisi, le ardimentose sentinelle della
domenica si battono per instillare una coscienza civica nella
56
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
comunità contadina, facendo capire che lo sviluppo umano deve
coniugarsi con la sostenibilità ambientale.
Quale lezione si può trarre dall’episodio appena illustrato?
Innanzi tutto che, di per sé, la sequenza dell’azione solidale non
rivela molto sul comportamento individuale, soprattutto se non
si posseggono dati che aiutino a collocarla nel suo milieu
sociale. In assenza di dettagli sul contesto, la scena della
sentinella civica del parco potrebbe essere scambiata per un atto
malevolo di delazione nei confronti dei propri conterranei.
Inoltre, non sfugge un altro fattore significativo: in genere, il
volontariato informale nasce da una presa di coscienza nei
confronti di un problema stringente, che può intaccare il
benessere della comunità d’appartenenza (o dell’umanità in
senso lato).
2.3 Una tipologia
Dunque, l’azione solidale non può essere svincolata dal suo
milieu sociale. I frammenti di solidarietà, una volta isolati dal
loro contesto, rischiano di apparire dei riti privi di senso.
Bisogna, allora, riprendere le riflessioni svolte nelle precedenti
pagine, proponendo una visione più sistematica della pratica
altruistica.
Come si è detto, il modo più pertinente per situare l’azione
altruistica è quello di concepirla come una forma di
coinvolgimento nei confronti di un problema specifico:
chiunque si cimenti in un’attività di volontariato, presto o tardi,
si lascia influenzare da una questione pressante. In tal senso, è
quanto mai opportuno riferirsi qui al concetto di prossimità: una
contiguità fisica e/o mentale verso uno degli innumerevoli
dilemmi che gravano sull’umanità (la fame nel mondo, la
pedofilia, le malattie croniche, la discriminazione delle
minoranze etniche, l’isolamento degli anziani, la crisi
ambientale, la discriminazione nei luoghi di lavoro, ecc.)2.
Sotto questo profilo, non si può negare che molto dipende
dalla posizione che si ha, in principio, nei confronti del
problema: un conto è prendere atto che, a pochi metri dal
sobborgo in cui si vive, vi è un campo Rom, dove la vessazione
e lo sfruttamento a danno dei minori è quasi uno “schiaffo” che
57
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
si imprime sulla coscienza (almeno per chi non è disposto a far
finta di nulla); altro è acquisire consapevolezza di emergenze
quali il dramma umanitario del Darfur (Sudan) o la tutela dei
diritti delle donne nelle società a maggioranza islamica. Nel
primo caso, si è in presenza di un fenomeno critico che
interpella direttamente il volontario, poiché la fonte del disagio è
immediatamente percepibile, essendo incorporata nella sua vita
quotidiana; nel secondo, invece, vi è un distacco iniziale dal
problema; quindi, la costruzione della prossimità è più
complicata: prima di operare in un senso o nell’altro, un
“oggetto sconosciuto” (un’emergenza distante) deve essere
ancorato nell’immaginario individuale, attraverso un processo
riflessivo che s’innesca grazie all’esperienza, all’apprendimento
e al coinvolgimento emotivo.
Questa distinzione preliminare non esaurisce le dimensioni
contestuali della pratica altruistica. L’azione solidale non viene
condizionata soltanto dal rapporto di relativa vicinanza/distanza
rispetto al problema con cui si confronta il volontario. Anche la
modalità di attivazione gioca un ruolo preponderante:
mobilitarsi a titolo individuale o in gruppo non è la stessa cosa.
Di solito, quando si agisce singolarmente, si è ben lontani dalla
condivisione della propria esperienza con persone che svolgono
una simile attività; mentre, laddove subentra il gruppo, si delinea
comunque un interscambio in termini di obiettivi concreti e mete
ideali da raggiungere. Certo, trattandosi di volontariato
informale, il legame collettivo non sfocia in un patto associativo
strutturato. In un piccolo gruppo i ruoli e le funzioni non sono
quasi mai definiti compiutamente; eppure, vi è sempre una
qualche forma di reciprocità fra i membri che lo costituiscono.
Va da sé che la relazione che si instaura in una cerchia
spontanea di volontari influisca sull’esercizio della solidarietà:
per esempio, è innegabile che il fatto di unire le proprie forze
con quelle di altri aumenti la visibilità dell’esperienza
volontaria, oltre a conferirle una maggiore carica di mutamento
rispetto alla realtà sociale circostante.
Poste queste premesse, lo spazio della pratica altruistica
nasce dall’intersezione fra due dimensioni fondamentali: il
rapporto con il problema e la modalità di attivazione.
Incrociando questi due assi si ottengono quattro forme di
pratiche altruistiche (fig. 4). Nel primo quadrante a sinistra, il
58
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
contesto dell’azione volontaria è caratterizzato da una questione
sociale incapsulata nella vita quotidiana del soggetto-agente;
allo stesso tempo, però, quest’ultimo si attiva individualmente.
L’esito di questa combinazione di fattori è, in genere, una
strategia di riparazione nei riguardi dei bisogni sociali che
orientano la prassi solidale: in sostanza, il volontario tende a
rispondere ad un’emergenza radicata nel suo ambiente più
prossimo, cercando di porvi in qualche modo rimedio; in
sostanza, egli si lascia coinvolgere dai sintomi più tangibili del
disagio, scegliendo ad un certo punto di attingere dalle sue
risorse personali: lo scopo è quello di limitare gli effetti negativi
di situazioni penalizzanti per singoli individui o per la comunità
locale. In queste circostanze, l’attivazione autonoma non
consente (salvo in casi eccezionali) di incidere sulle cause del
problema. Per questo non è ingiustificato parlare di pratica di
riparazione, volendo con ciò evidenziare che si tratta di un modo
di contenere le conseguenze critiche di un determinato
fenomeno negativo.
Fig. 4 – Lo spazio della pratica altruistica
Problema incorporato nella vita quotidiana
I
II
Riparazione
Contrasto
Attivazione individuale
Attivazione di gruppo
Iniziazione
Interconnessione
III
IV
Problema disancorato dalla vita quotidiana
59
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
Quando interviene il gruppo informale (secondo quadrante a
destra), si prospetta un’altra tipologia d’azione volontaria. Il
problema rimane ancorato nella realtà limitrofa, ma attorno ad
esso convergono diverse persone disposte ad agire sui fattori
ambientali che lo hanno provocato. Questa spinta congiunta
aumenta, senza dubbio, la “massa critica” della pratica
altruistica, al punto che è lecito pensare ad una sorta di azione di
contrasto nei confronti delle cause del disagio: un intervento
finalizzato a combattere con maggiore decisione il “malessere
sociale”, andando a toccare (prevenire, anticipare) i suoi motivi
scatenanti. E’ perfino scontato sottolineare che il tentativo di
mutare l’esistente si scontra sempre con le forze che ostacolano
il cambiamento3. Questo avviene anche nell’esperienze più
formalizzate del volontariato, laddove si può per giunta fare
affidamento su un’ampia gamma di strumenti di pressione (in
primis, una base associativa pronta a scendere in campo per
influenzare le decisioni politiche4). Per loro natura, i gruppi
informali hanno una capacità d’impatto minore sulla realtà
socio-politica; quindi, la loro “volontà di trasformazione” è
comunque condizionata pesantemente dai vincoli esterni;
malgrado ciò, l’obiettivo di questi sodalizi spontanei tra
volontari è quello di modificare una condizione preesistente,
intaccando la radice del problema per cui ci si mobilita. In tal
senso, l’attivazione di gruppo può essere assimilata ad una
pratica di contrasto verso una realtà problematica che tocca da
vicino i suoi protagonisti.
Nel terzo quadrante dello schema si ritorna al coinvolgimento
a titolo individuale; tuttavia, in questo caso, il problema è
lontano dalla vita del volontario: la carenza di acqua nell’Africa
Sub-Sahariana; l’espropriazione delle terre a danno dei contadini
chapaneki; la criminalità minorile nelle favelas brasiliane; ecc.
Si tratta di vere e proprie emergenze; ma, perlomeno in
principio, non fanno parte dell’orizzonte esistenziale di chi
intende occuparsene. Ai fini della presente analisi, non è
importante stabilire quando (e perché) si accende l’interesse per
questi temi controversi, che incombono sull’umanità deprivata;
è più rilevante, invece, capire come si arriva all’impegno in
prima persona, per rispondere ad una sollecitazione che è
lontana dalla propria biografia. Per colmare la distanza iniziale,
c’è indubbiamente bisogno di una forma di immersione in un
60
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
contesto problematico avulso dall’esperienza individuale: una
iniziazione soggettiva, una sorta di viaggio per scoprire un
“nuovo mondo”. Senza questo itinerario iniziatico, l’oggetto del
disagio non si sedimenterebbe nella coscienza del volontario.
Quest’ultimo si avventura così in una delle innumerevoli
periferie del pianeta. L’incontro con una realtà di penuria
estrema non è indolore; di fronte ai volti trasfigurati dalla
povertà, la reazione spontanea può essere il rifiuto, la fuga, la
rimozione; ma anche un coinvolgimento emotivo e cognitivo
che può spingere all’azione, all’impegno fattivo in soccorso
delle vittime designate della catastrofe umanitaria. In genere,
l’iniziazione vede in prima fila i giovani desiderosi di dare un
senso alle loro incursioni all’estero: l’occhio indiscreto del
turista si fonde così con lo sguardo indulgente di un inedito
missionario, disposto ad aiutare “qui ed ora”, in un campo di
volontariato internazionale, dove c’è spazio per conoscere e per
essere solidali. Molto spesso il viaggio è limitato nel tempo: un
modo alternativo di fare le vacanze estive. Poi si torna a casa: lo
studio, il divertimento, gli amici. I villaggi africani o l’entroterra
del Kossovo si allontanano nuovamente dalla vita quotidiana.
Eppure, una traccia dell’esperienza sociale vissuta nelle zone di
crisi del mondo rimane; tant’è che, non di rado, l’avventura
viene rinnovata di anno in anno, trasformandosi in una
esplorazione prolungata nelle enclave della precarietà.
Il passaggio dall’iniziazione all’interconnessione (quarto
quadrante a destra) richiede anch’esso l’intervento del gruppo5:
nella società globale, per dare continuità e rendere più incisivo
l’impegno nelle aree remote (desolate) del pianeta, si deve per
forza di cose allacciare un legame di cooperazione con persone
animate da simili intenti. In questa circostanza, l’obiettivo non è
quello di saggiare il terreno, cercando delle assonanze emotive
con contesti problematici. Si tratta piuttosto di influire su una
realtà slegata dalla propria, alimentando delle iniziative di
solidarietà a distanza. Come si è visto (cfr. la storia di Laura,
capitolo 1), ci vuole un minimo di pianificazione delle attività
per dar vita ad un progetto di cooperazione allo sviluppo nel
terzo mondo, o per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto ad
un tema ignorato come il diniego dei diritti umani in Cina,
oppure la sopraffazione della donna in certi regimi islamici. Si
può operare in loco o agire nel proprio paese: la sostanza non
61
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
cambia. Non è agevole raccordare due mondi separati, tentando
per di più di smuovere le acque in patria, dove di solito è scarso
l’interesse per ciò che avviene dall’altra parte dell’emisfero
abitato. Per questo la collaborazione di gruppo è una risorsa
vitale: è quasi una fatica di Sisifo trasferire (in senso metaforico,
ovviamente) un problema da un capo all’altro del pianeta.
L’unica via è confidare nel sostegno vicendevole che si può
instaurare tra un drappello di donne e uomini di “buona”
volontà.
La tipologia appena proposta ha, naturalmente, una valenza
analitica: in definitiva, si è proceduto soltanto ad identificare
quattro forme di impegno solidale che, nella vita non tanto
ordinaria dei volontari, si possono avvicendare, sovrapporre o
(addirittura) intrecciare, dando luogo a ibridazioni originali fra
comportamenti pro-sociali.
Eppure, la riparazione, il contrasto, l’iniziazione e
l’interconnessione presentano tratti distintivi, tali da
circoscrivere esperienze specifiche di volontariato informale. E’
proprio questa la sfida che si intende affrontare nei prossimi
capitoli: esaminare le biografie degli intervistati, riconducendole
a quattro pratiche altruistiche per ora abbozzate solo sul piano
teorico. L’impresa è ardua: si tratta di valutare se queste
etichette concettuali siano utili per dar senso alla realtà. Cosa
non facile perché, ragionando in questi termini, il ricercatore è
costretto ad osare, avanzando un’interpretazione (una chiave di
lettura fra le tante possibili) del suo oggetto di studio; così
facendo egli è costretto a muoversi su un terreno impervio
poiché, alla resa dei conti (ossia nel confronto con le evidenze
empiriche), ogni ipotesi di lavoro è sempre esposta alla
possibilità di risultare fallace, a maggior ragione quando si
conduce un’indagine a carattere esplorativo. Malgrado ciò,
presto o tardi, non si può evitare questo banco di prova, almeno
se non si vuole scadere nella descrizione acritica dell’esistente.
Note
1
L’esempio è tratto da un’inchiesta televisiva sulle nuove forme di
militanza giovanile. L’autore desidera ringraziare l’ideatore della
trasmissione, Alberto Grossi, per averglielo raccontato.
62
2. La pratica dell’altruismo: le coordinate teoriche della ricerca
2
Il concetto di prossimità è stato utilizzato da Jean-Louis Laville nei suoi
studi sull’economia sociale. In sostanza, l’autore francese ritiene che i servizi
alla persona siano per loro natura relazionali, essendo fondati sulla vicinanza
(fisica e psicologica) che si instaura tra l’operatore e l’utente del servizio
socio-assistenziale (Laville, 1998).
3
Di qui l’uso del termine contrasto, che indica una azione di
contrapposizione (una tensione attiva e permanente) nei confronti dei fattori
che determinano il problema sociale. La principale differenza rispetto alla
pratica della riparazione è che quest’ultima si limita ad adattarsi al contesto,
cercando di tamponare un guasto sociale; mentre il contrasto tradisce
l’ambizione di rimuovere le concause del disagio, avvalendosi di una duplice
strategia d’intervento: la reazione (anche conflittuale) di gruppo e la
prevenzione.
4
Per non parlare poi dell’influenza esercitata da molte OdV strutturate,
grazie alla considerazione sociale di cui godono nella nostra opinione
pubblica, oltre che nelle sedi ufficiali della politica.
5
L’iniziazione e l’interconnessione hanno in comune l’ancoraggio di un
problema che, all’inizio, è scorporato dal vissuto del volontario. Nondimeno,
al di là di questa analogia, è intuibile la differenza tra queste due pratiche
altruistiche: nell’iniziazione prevalgono elementi quali la possibilità di fare
esperienza, la scoperta di una realtà inedita e l’apprendimento sul campo;
insomma una forma di impegno ancora allo stadio germinale; mentre nella
interconnessione il coinvolgimento del volontario si cristallizza in un
progetto più definito d’intervento sociale: un programma operativo che di
solito tende a porre in relazione il Nord e il Sud del Mondo, creando una
piccola comunità d’interesse (il nucleo ristretto dei volontari attivi, i
simpatizzanti che sostengono la causa finanziandola con donazioni
spontanee). Il tutto per tentare di risolvere una questione sociale pressante
(ad esempio la mortalità infantile in un villaggio africano), non senza
sperimentare soluzioni innovative. Da questo punto di vista, non è escluso
che, in alcune circostanze, l’iniziazione possa essere propedeutica alla
interconnessione; ma è anche verosimile che le due tipologie di volontariato
informale rimangano distinte.
63
3. La riparazione
3
La riparazione
3.1 Il presupposto: porre rimedio ad un problema
Una persona si attiva a titolo individuale (e in modo del tutto
disinteressato) per tentare di risolvere un problema che fa parte
della sua vita quotidiana. Lo scopo è quello di mitigare gli effetti
negativi di questa “criticità” che, sovente, può assumere i
contorni di una vera e propria emergenza sociale. Tale
descrizione sommaria identifica, senza dubbio, il contesto
(simbolico e materiale) entro il quale si sviluppa la pratica della
riparazione. Si tratta, ora, di esaminare meglio le dinamiche
interne di questa prima forma di altruismo spontaneo. In
particolare, è necessario rispondere ad alcune domande cruciali:
come nasce questa modalità di impegno sociale? Quali
significati la sorreggono? Attraverso quali prassi di azione si
estrinseca?
Il modo migliore per affrontare tali questioni è quello di
affidarsi al racconto degli intervistati. In fin dei conti, è
sufficiente ascoltarli mentre ricostruiscono le loro vicende
personali, replicando ad un quesito iniziale del ricercatore: “mi
vuole parlare della sua attività da volontario […] quando ha
cominciato?” E’ proprio questo il punto: in quale frangente (e
per quale motivo) un individuo decide di uscire dal suo “guscio
privato”, per occuparsi di bisogni che emergono nella realtà
sociale circostante?
E’ quasi scontato sottolineare che la molla che fa scattare il
coinvolgimento personale non sia univoca. Angelo, ad esempio,
ha voluto rimediare all’assenza di comunicazione tra istituzioni
e cittadini: “ho iniziato ad impegnarmi qui, in una piccola
frazione del Comune di Forlì, per dare un mano, per costruire
legami sul territorio […] sono difficili le relazioni fra i cittadini
e l’amministrazione locale […] i servizi sociali hanno un certo
stile che non risponde ai bisogni delle persone […] mi sono
messo semplicemente al servizio dei più bisognosi; aiuto alcune
famiglie di italiani e extracomunitari a sbrigare le pratiche di
assistenza, cerco di smussare gli spigoli della burocrazia, chiedo
incontri con l’assessore al welfare, con gli assistenti sociali, con
64
3. La riparazione
gli operatori sanitari […] sottopongo loro i problemi più
pressanti della comunità in cui vivo”.
Dunque, questo volontario sembra vigilare sulla sua
comunità, facendosi portavoce di istanze sociali che, altrimenti,
rimarrebbero inevase; il tutto per migliorare le condizioni di vita
dei propri conterranei o di coloro che sono arrivati più di
recente, sull’onda delle migrazioni internazionali che hanno
investito il nostro paese nell’ultimo ventennio. Dietro agli intenti
dell’intervistato, non è difficile vedere all’opera quella cultura
solidale con cui si è soliti caratterizzare le “regioni rosse”; un
civismo che sconfessa la presunta indolenza degli italiani di
fronte ai destini della collettività territoriale d’appartenenza.
Ma non è solo questione di capitale sociale o di tradizioni
civiche virtuose, attribuite in genere alla “Terza Italia”; anche
nelle martoriate enclave del Meridione, si osservano forme di
coinvolgimento per certi versi simili. Con una laurea in
medicina e una specializzazione in ginecologia, Assunta aveva
già raggiunto una posizione professionale invidiabile: l’impiego
sicuro in un poliambulatorio di Napoli e uno studio privato
avviato, dove riceveva pazienti facoltosi. Malgrado ciò, lei non
si è mai sentita a casa nei “quartieri alti” di questa metropoli
meridionale; piuttosto, da sempre ha vissuto nell’hinterland
partenopeo, in quella cintura suburbana conosciuta perlopiù per
il degrado e la penetrazione della criminalità.
Casoria è un nome che, di per sé, evoca le lancinanti faide
della camorra, con la scia di sangue e di precarietà sociale che
ne consegue. Otto anni fa, l’intervistata ha deciso di mandare a
monte il suo tranquillo e radioso futuro da medico della “Napoli
bene”. Così ha chiesto il trasferimento nel consultorio familiare
di Casoria, dove non si limita a fare la ginecologa; anzi, ogni
giorno fa gli “straordinari”; difatti, solo di rado si occupa di
ordinari casi clinici legati alla sessualità femminile; piuttosto
viene interpellata per far fronte ad una serie di esigenze dettate
dalla povertà e dal malessere sociale: “sono diventata un punto
di riferimento per qualsiasi cosa, anche al di fuori della
ginecologia, per problemi di ordine pratico, familiare e anche di
natura psicologica”. Perché questa donna ha lasciato i “fasti
napoletani”, proiettandosi in uno scenario di emarginazione
sociale? Di fatto, si è declassata nel ruolo di operatrice
ausiliaria dei servizi di consulenza familiare, abbandonando una
65
3. La riparazione
professione remunerativa e prestigiosa; oltretutto, per la sua
attività di assistente sociale “dilettante” non percepisce alcun
reddito: lavora ben oltre l’orario e le competenze (mediche)
previste dal suo impiego. Eppure, si tratta di un impegno assai
oneroso, visto che le richieste di aiuto sono incalzanti,
costringendola ad un tour de force: “i bisogni degli utenti del
consultorio sono pressoché inesauribili; praticamente, sono a
disposizione in tutte le ore del giorno e della notte […]”. La sua
è una scelta dissennata (o forse masochistica)? Col senno della
razionalità si sarebbe portati a rispondere in modo affermativo;
tuttavia, è risaputo che il comportamento individuale non è
soltanto frutto del calcolo costi-benefici.
Nel caso di Assunta, una parte preponderante l’ha giocata il
richiamo di un luogo che, sebbene sia fonte di inquietudine,
rimane per lei un saldo punto di riferimento: “sento di
appartenere a Casoria […] io lavoro a cinquecento metri da casa,
nel consultorio […]conosco la realtà, la mattina faccio lo stesso
percorso delle massaie, accompagno i bambini a scuola, diciamo
che ho respirato e respiro i loro stessi problemi”. Sicché
l’intervistata, ad un certo punto della sua esistenza, ha optato per
un ruolo da volontaria ausiliaria, in una delle frontiere “roventi”
del Mezzogiorno. Alla base di questa svolta decisiva, vi è di
sicuro una sensibilità verso le preoccupazioni che assillano gli
abitanti del posto, specie le donne: i parti o gli aborti precoci,
con il fidanzato (o il marito) in carcere; i lutti violenti in
famiglia; gli stati di ristrettezza materiale; e quant’altro. In
breve, gli affanni di una popolazione che versa in una situazione
critica, rischiando di frequente di retrocedere sotto la soglia
della povertà. E’ con questa realtà di segregazione sociale che
Assunta si confronta quotidianamente, al punto da improvvisarsi
anche nel ruolo di consulente psicologa: “non sono una
psicologa ma, condividendo le esperienze delle persone che si
presentano nel consultorio, forse posso dare una mano”.
Dare una mano appunto; questo motivo ritorna spesso nelle
parole di quanti si dedicano alla pratica della riparazione. Come
si è visto, Angelo e Assunta hanno dichiarato in modo esplicito
di aver scelto la via dell’altruismo per ricucire il tessuto sociale
della comunità in cui essi vivono. Non si tratta di casi isolati.
Anche Clemente, un pensionato di 71 anni, con alle spalle una
carriera da manager nel settore delle telecomunicazioni,
66
3. La riparazione
sottolinea che la sua attività di volontariato individuale in una
mensa della Caritas di Ostia (Roma) è motivata dal desiderio
spontaneo di aiutare le persone più sfortunate: “esiste una
povertà di tipo diverso, c’è la solitudine, l’emarginazione,
l’incapacità di comunicare con gli altri […] faccio solo attività
estremamente umili, con una disponibilità al dialogo […]
insomma mi metto al servizio dei più piccoli, applicando la
dottrina evangelica”. Si delinea qui una disposizione morale
verso l’altro, un’azione di sostegno verso chi vive uno stato di
deprivazione, incarnando i sintomi più vistosi di un problema
sociale.
Certo, Clemente può sempre attingere dalla sua intensa fede
religiosa, testimoniando nel sociale la carità cristiana.
Nondimeno, anche chi non è credente o praticante, mostra una
propensione (un’attenzione costante), verso la fragilità della
condizione umana: “mi sono accorta che a Pralungo il problema
principale era la solitudine degli anziani, così ho pensato di fare
la volontaria, offrendo ascolto ai pazienti dell’ambulatorio, oltre
che seguirli nelle cure mediche (Carla)”; “da tre anni e mezzo, il
padre di una mia amica è stato colpito da una malattia terminale
[…] in media sto con lui una volta alla settimana […] gli tengo
compagnia […] mi sembra un modo per stargli vicino, per
sostenerlo nella sua realtà tormentata (Marta)”.
Da questi primi accenni si possono già individuare alcuni
tratti comuni nella pratica della riparazione. Gli ambiti e gli
interlocutori con cui interagiscono Marta, Carla, Assunta,
Vincenzo e Angelo sono molto diversi; nonostante ciò, si
registra una tendenza trasversale.
Prima si materializza il segno tangibile della sofferenza o del
malessere strisciante: la povertà e l’emarginazione in una
periferia tumultuosa del Sud; l’esclusione sociale in un quartiere
“a rischio” di Roma; la burocrazia e la scarsa sensibilità delle
istituzioni locali nei confronti delle richieste di assistenza dei
cittadini svantaggiati (un malcostume che evidentemente può
attecchire anche nella “civile” Emilia Romagna); la solitudine
degli anziani in un territorio decentrato; l’alea del destino che si
abbatte sulla famiglia di un’amica, quando il genitore si ammala
gravemente.
Poi vi è una persona che raccoglie il segnale: una situazione
più o meno acuta di debolezza, carenza o precarietà. Si deve
67
3. La riparazione
aggiungere che le reazioni individuali all’evento problematico
sono molteplici: si esprime una vicinanza (un sentimento di
partecipazione al trauma vissuto), tenendo semplicemente
compagnia ad una persona immobilizzata nel letto; oppure ci si
dedica anima e corpo per garantire il funzionamento di un
ambulatorio di montagna o di un consultorio familiare, perché
sono le uniche sedi dove le persone possono ricevere attenzione
e comprensione; o, ancora, si assume il ruolo di mediatore
civico, per rendere più umana la pubblica amministrazione
locale1. Volendo riassumere, questi volontari solitari agiscono
nel loro ambiente limitrofo; essi riparano guasti sociali,
contengono il danno o, se si preferisce, cercano dei rimedi per
tamponare questioni spinose dal punto di vista sociale e
individuale.
3.2 Una questione di riconoscimento
L’attivismo degli artefici della riparazione potrebbe, quindi,
essere concepito come una risposta adattiva ad uno scenario
circoscritto di crisi: una strategia minimalista volta a limitare
l’impatto di un fenomeno di segno negativo. In breve, un gesto
estemporaneo di aiuto di fronte all’ineluttabilità del bisogno,
espresso da una persona o da una collettività.
Sotto questo profilo, non è del tutto infondato il rilievo di Ota
de Leonardis, che attribuisce a tali professioni di solidarietà un
carattere pre-sociale, essendo queste ultime radicate nella
coscienza individuale del soggetto:
una disposizione morale verso l’altro […] la disponibilità a condividere le
proprie risorse con l’altro in condizioni di bisogno, un estraneo, ad ascoltare e
accettare in totale gratuità, senza che si costruisca su questa condivisione un
durevole legame. Dopo aver prestato il suo aiuto il buon samaritano se ne và.
Perciò l’ambito di espressione della solidarietà così intesa non sono i rapporti
– la società – ma il foro interiore della coscienza singola e, semmai, l’intera
umanità: essa non dà luogo a legame sociale (de Leonardis, 1998, p. 60)”.
La riparazione è, senza dubbio, un modo individualizzato di
“praticare” la solidarietà; tuttavia non è detto che essa sfoci
nell’abbandono prematuro della scena dell’altruismo, come nel
caso del Buon Samaritano. Di sicuro, l’impegno soggettivo non
68
3. La riparazione
converge in esperienze organizzate di volontariato; ma ciò non
implica che gli atti solidali degli intervistati siano transitori o
privi di effetti concreti, al punto da decretarne l’inutilità sociale.
Al contrario, i comportamenti pro-sociali di questi volontari
sono prolungati nel tempo2; e, molto spesso, contribuiscono ad
alleviare traumi o condizione disagevoli.
Accanto a ciò, è necessario soffermarsi su un aspetto molto
importante: questo genere di attivismo personale trae alimento
dalla gratitudine di chi riceve l’aiuto. Si tratta di un potente
corroborante che, in assenza di altre fonti di legittimazione
esterna3, fornisce la ragione per continuare a svolgere l’attività
informale di volontariato. In altri termini, gli intervistati sono
consci di essere apprezzati per il loro impegno: sono gli stessi
beneficiati dei loro gesti solidali a farli sentire utili.
Carla, l’indomita “crocerossina” di Pralungo, viene
circondata da un alone di insostituibilità, visto che i suoi pazienti
non possono fare a meno di lei, anche se defeziona solo per un
giorno dal servizio: “lunedì non ho potuto ricevere gli anziani
nell’ambulatorio; loro mi hanno subito lasciato un messaggio (ci
manchi, ma cosa è successo!). Di fronte a queste testimonianze
d’affetto io torno a casa come su “una nuvoletta”. Mi sento
gratificata perché è un riconoscimento tangibile del fatto che il
mio impegno viene da loro apprezzato, sino a preoccuparsi se
(per qualche motivo) mi debbo assentare dall’ambulatorio o se
non posso effettuare le visite a domicilio”.
Demetrio ha capito di essere utile quando il padre di Samuele
(vedi capitolo 1) gli ha espresso tutta la sua riconoscenza per
aver insegnato al figlio a non avere paura dell’acqua: “è
bellissimo quando un bambino che segui apprende qualcosa di
importante […] quando ha imparato a nuotare […] la
soddisfazione e anche la gratitudine del padre […] non posso
dimenticare”.
Angelo è più pragmatico, laddove nota che un numero
sempre maggiore di famiglie “precarie” gli richiede di
intercedere presso i funzionari comunali; il fatto di condurre in
porto queste pratiche è motivo di soddisfazione, tanto più che gli
stessi immigrati si aspettano che egli svolga la sua funzione di
difensore civico: “oggi ho sette richieste da presentare in
Comune, agendo in modo appropriato posso andare incontro alle
necessità delle famiglie immigrate […] quando comprendi di
69
3. La riparazione
aver corrisposto un bisogno reale ti senti utile, gratificato […]
Poi loro, ormai, si aspettano che io lo faccia”.
Infine Assunta, pur essendo poco avvezza ad accettare
lusinghe per l’opera da lei svolta, ha ricevuto un imprimatur dal
parroco di Casoria: “mi ha rincuorato dicendomi che le persone
si rivolgono a me perché provvedo a sbrogliare la matassa dei
loro problemi concreti […] ha detto che loro sono
profondamente grati per il mio aiuto perché nessun altro, al mio
posto, lo avrebbe fatto”.
Questi brani d’intervista rafforzano l’idea che la riparazione
sia depositaria di una dinamica di “rispecchiamento”. L’uomo
solidale vede la sua immagine riflessa nella considerazione
sociale acquisita presso le persone con cui stabilisce un contatto:
i beneficiari dei suoi atti d’aiuto e i testimoni che avvalorano il
suo operato. D’altronde, ogni processo di costruzione
dell’identità
poggia sulla volontà di essere riconosciuti
all’esterno, come ha osservato con la sua consueta lucidità
Alberto Melucci:
raccontiamo noi stessi, cioè investiamo una parte altrettanto importante delle
nostre risorse a chiedere riconoscimento, a domandare agli altri che
confermino la costruzione di noi […] identifichiamo degli interlocutori […]
non si tratta di altri generici, ma di altri significativi, sempre situati in un
campo specifico d’azione (Melucci, 2000, p. 41).
I volontari non fanno eccezione a questa regola generale:
narrano sé stessi nel corso delle interviste (ma anche nella vita
di tutti i giorni). Il racconto diventa così il veicolo fondamentale
con cui costruire il proprio sé. Ma come per altre sfere decisive
dell’esistenza (il lavoro, la famiglia, ecc.) non si può fare a
meno di interlocutori significativi per dare senso al proprio
“essere nel mondo”. Nel caso dell’altruismo “riparatorio”, lo
specchio dell’identificazione va ricercato nello sguardo
riconoscente di chi si è sentito spalleggiato da un atto sincero di
aiuto; oppure nella consapevolezza che la propria attività
volontaria ha contribuito ad eliminare uno stato di disagio. Con
queste tessere di riconoscimento gli intervistati compongono il
mosaico della loro identità solidale.
70
3. La riparazione
3.3 Figli di una solidarietà minore?
Il rispecchiamento nell’altro rende alquanto sbrigativa la tesi
secondo cui l’altruismo spontaneo sia destinato a rimanere un
“fatto della coscienza”: una professione di generosità custodita
gelosamente nell’animo benevolente del volontario; in altre
parole, un’abitudine autoreferenziale del cuore, che non
contribuirebbe a creare legami sociali duraturi (si veda il passo
citato da de Leonardis a pagina 67). Infatti, se l’attore adotta
come criterio di autovalutazione la gratitudine o il sollievo del
proprio interlocutore, è arduo immaginare che egli non intrecci
una qualche forma di relazione durevole con quest’ultimo.
Comunque, per aggirare questo argomento, bisogna aprire una
parentesi, tenendo conto del modo con cui gli scienziati sociali
trattano il concetto di solidarietà.
Il punto è che gli scienziati sociali, in particolare i sociologi,
considerano questo termine come sinonimo di tenuta d’insieme
della società: regole, valori, canali di partecipazione,
meccanismi di cooperazione che assicurano la coesione di un
determinato contesto societario4. Sennonché, la solidarietà così
intesa è tornata in auge dinnanzi ai processi di frammentazione
che si registrano nell’era della globalizzazione, sollecitando le
diagnosi allarmate di molti studiosi (Touraine 1997; Beck, 1997;
Bauman, 1999; Giddens, 2000; Zoll, 2000). Questi autori, a
prescindere dalle singole vedute, hanno tutti puntato l’indice
sulla decomposizione del “cemento” della società: in sostanza,
nella modernità avanzata la trama delle appartenenze
convenzionali si lacera, indebolendo di molto il comune sentire
dei cittadini; le istituzioni sociali entrano così in fibrillazione
(dalla famiglia, alle istituzioni della democrazia, fino a giungere
ai simboli suggestivi della nazione).
Sicché, si sfalda la trama di rapporti che consente alle
persone di vivere insieme. Di qui nasce la preoccupazione per
l’erosione delle solidarietà ad ampio raggio: in un passaggio
d’epoca sempre più incerto, quali cornici culturali e sociali
possono fungere da collante collettivo, facendo avvertire ai
cittadini un senso di comunanza rispetto ad un avvenire quanto
mai indecifrabile? L’alba del terzo millennio non è forse sorta
con il presagio sinistro di un’umanità funestata da scontri di
71
3. La riparazione
civiltà e dall’inanità delle diverse proposte messe in campo dagli
attori della politica?
L’impressione prevalente è quella di un senso di smarrimento
provocato da un vuoto sociale: l’assenza di un idem sentire, ad
ogni livello e settore della convivenza civile. Forse è per questo
che si fa largo una cultura del sospetto verso le solidarietà
particolaristiche; d’altronde queste ultime, in non poche
circostanze, scatenano conflitti simbolici per la difesa delle
identità (Wieviorka, 2001), rendendo ardua l’applicazione dei
principi dell’universalismo democratico: chi può garantire il
funzionamento del welfare e l’esercizio dei diritti fondamentali,
in una società disarticolata in gruppi autocentrati, la cui unica
“fedeltà” è verso la propria membership etnica o sociale?
La diffidenza diventa poi sottovalutazione quando si
considerano i sentimenti individuali di solidarietà. Il men che ci
si possa aspettare da una cultura del pessimismo (Bennett, 2001)
è la tendenza a sminuire la dedizione soggettiva verso il bene;
anche qui non mancano gli appigli per fustigare il “buonismo di
facciata”: le gare televisive della compassione; la “carità
monetaria” di chi mette mano al portafoglio una volta tanto, solo
per scacciare il senso di colpa, soprattutto quando si imbatte
nelle immagini “urticanti” della sofferenza; il narcisismo di chi
si improvvisa eroe-salvatore, non tanto per strappare dal
pericolo le “vittime”, quanto per esibire il proprio sé
taumaturgico; ecc.
D’altronde, il volontariato si presta a queste operazioni di
maquillage: dietro al suo innegabile appeal, si possono sempre
celare mistificazioni della moralità. Ciò non toglie che – come si
è già sottolineato – alcuni Buoni Samaritani non escano
facilmente dai binari del quotidiano solidale: essi, un giorno
dopo l’altro, spendono energie fisiche e mentali per andare
incontro alle esigenze di un “estraneo”. Lo fanno con assiduità e
senza tornaconto personale, venendo peraltro riconosciuti in
quanto soggetti-che-aiutano. Non è facile pertanto liquidare il
loro impegno, sostenendo che esso non migliora la salute della
società, perché tale rilievo assomiglia ad una tautologia: è
perfino ovvio ribadire che una “miniatura d’altruismo” non sia
sufficiente per emendare il fragile edificio della convivenza
nelle democrazie contemporanee.
72
3. La riparazione
Non saranno certo le azioni (per quanto lodevoli) di un
volontario, per di più “senza divisa”, a risolvere l’odierno deficit
di mutualismo e di compartecipazione, che si riscontra
nell’Occidente sviluppato. I grandi scenari epocali non vengono
influenzati, se non con gradualità, dalla microstoria ordita dal
basso; eppure quest’ultima ha un suo ruolo nel divenire della
società, specie quando concorre a strutturare l’agorà: lo spazio
dove si incontrano i cittadini, scambiando esperienze e risorse
intangibili.
Dalla notte dei tempi, il legame sociale si sviluppa a partire
dalla relazione fra un ego ed un alter, specialmente quando
questo rapporto è basato su un’apertura autentica (una
disponibilità reale a mettersi nei panni del proprio interlocutore).
Il volontariato ha proprio questa caratteristica: fondare un nesso
di prossimità non mediata fra due o più persone. Si può pensare
che il suo impegno sia pre-sociale, solo perché non riproduce in
modo automatico beni pubblici quali l’equità orizzontale, la
giustizia redistributiva o l’accesso generalizzato ai diritti sociali?
L’interrogativo è evidentemente retorico: è scontato che non
si possa chiedere ai volontari di sostituirsi al welfare state o allo
Stato di diritto. Ma è proprio questa l’obiezione che viene posta,
con una certa ricorrenza, allo spontaneismo dei cittadini solidali:
il terzo settore non è un modello alternativo per costruire un
benessere diffuso5. Da più parti si fa rilevare che esso è adatto
per ingrossare il fiume carsico dell’emotività: nelle occasioni
sporadiche in cui l’opinione pubblica vuole riscoprirsi
indulgente verso “i deboli”; o quando un amministratore locale
propaganda la sua visione illuminata di buon governo,
cooptando nei suoi programmi qualche sigla organizzativa del
non-profit, col fine malcelato di essere politicamente corretto.
Il privato sociale diventa, invece, inadeguato quando si tratta
di badare al sodo: gestire la cosa pubblica, riformare le
costituzioni, prendere decisioni essenziali di politica economica,
addomesticare i conflitti sociali. In tutte queste evenienze, il
mondo delle solidarietà primarie (organizzate e non) è alquanto
“insignificante”. Così il volontariato viene blandito quando c’è
bisogno di un antidoto all’indifferenza nei confronti degli
esclusi (o nel momento in cui si deve trovare un nobile ideale
per educare alla cittadinanza); mentre cade nel dimenticatoio
quando subentra la politica con la P maiuscola.
73
3. La riparazione
Questo discorso non è del tutto incoerente: la società civile,
per quanto vivace e animata da intenti meritori, non può
surrogare lo Stato. Peccato che, ragionando in questo modo, si
trascuri un aspetto di non poco conto: le compagini organizzate
del terzo settore sono ormai parte costitutiva del welfare mix,
avendo assunto un ruolo di primo piano nella produzione di beni
pubblici fondamentali, a livello comunale, regionale e nazionale
(si veda l’introduzione); inoltre, col trascorrere del tempo il
volontariato si è fatto largo nell’opinione pubblica; non solo
come fenomeno mediatico; ma anche come consuetudine che
coinvolge milioni di cittadini. Queste forme di partecipazione
solidale sono prive di una valenza sociale? Alla domanda non si
può che rispondere negativamente, esprimendo peraltro un
convincimento diffuso fra gli analisti che hanno studiato
l’evoluzione recente del volontariato e del terzo settore in Italia
(Ardigò, 2001; Fazzi, 1998; Ranci, 1999; Donati, 2000).
L’attivismo sociale delle persone crea legami “densi”,
contribuendo a rinsaldare la tenuta della nostra (come di altre)
società. Tuttavia, ciò avviene se si verificano certe condizioni
ambientali: unità politica sulle questioni fondamentali, riforme
efficaci, economie propulsive, ripresa della concertazione tra le
parti sociali, ecc. Purtroppo, su questo fronte il nostro paese
presenta carenze non trascurabili. E questo deficit rischia, per
certi versi, di vanificare il civismo spontaneo dei cittadini che si
mobilitano nel sociale. Nel frattempo, l’uomo comune continua
a cimentarsi nell’arte dell’altruismo, in attesa di tempi migliori.
E, allora, il problema di quanto sia coesiva (socialmente
rilevante) la sua solidarietà passa in secondo piano. Per questo è
opportuno chiudere la parentesi, tornando ad esaminare le
“biografie minime” degli intervistati.
3.4 Lo sconfinamento emotivo
Vedendo i volontari in azione, risulta del resto evidente la
loro attitudine a costruire relazioni sociali dotate di senso con i
beneficiari dei loro interventi. Assunta sostiene che, tra lei e gli
utenti del consultorio, si è stabilito un rapporto di mutua
comprensione, molto simile ad una relazione amicale:
74
3. La riparazione
“condividiamo le stesse scelte (che cuciniamo oggi?), questo per
dire che tra noi si è formato un piccolo gruppo”.
Demetrio pone l’accento sulla reciprocità instaurata con
Samuele, il bambino autistico che assiste da un anno: “il bel
rapporto che si stabilisce a un certo punto ti permette di aiutare,
ma è un aiuto reciproco […] ti accorgi che apprendi […] la sua
capacità di essere tollerante, di capire perché ti metti in ascolto
[…] è un’interazione vicendevole”.
Angelo viene ormai assimilato ad uno zio premuroso dal
figlio di una coppia di albanesi, avendo passato del tempo con il
bambino quando i genitori erano assenti per lavoro: “mi chiama
zio, del resto molte volte l’ho tenuto in braccio, colmando le sue
carenze affettive, visto che il padre e la madre sono costretti a
lasciarlo solo durante l’orario di lavoro”.
Carla scomoda addirittura la metafora della famiglia allargata
quando evoca il suo legame con gli anziani di Pralungo: “ti senti
parte di una comunità formata da persone bisognose, è come una
grande famiglia, con tutti i pregi e i difetti, sai che ti metti al
servizio in modo gratuito, loro non ti devono nulla per quello
che fai, però quasi sempre sai di essere stata accettata, di essere
considerata una di loro”.
Marta, infine, è conscia di aver acquisito una forte familiarità
con Renzo, malgrado le gravose condizioni di salute di
quest’ultimo. In certi casi, basta uno sguardo per intendersi: “mi
sembra che il nostro rapporto sia cresciuto. Certo è difficile
comunicare quando ha delle crisi respiratorie o altri sintomi
della sua malattia cronica […] ma quando c’è attenzione l’uno
per l’altro, è sufficiente uno sguardo di intesa […]”.
Dunque, i volontari si trovano immersi in rapporti sociali
stretti: il gruppo, la grande famiglia, la reciprocità dello scambio
interpersonale, la familiarità (l’intesa). Gli intervistati adottano
un registro linguistico poliedrico, evidenziando che il loro trait
d’union con i destinatari della pratica d’altruismo non è quello
che, di norma, si instaura tra un operatore e gli utenti di un
servizio sociale pubblico: non v’è nulla di anonimo, codificato,
prestabilito nella relazione d’aiuto. Quest’ultima non si
specializza, diventando una prassi ritualizzata. Beninteso, la
dinamica del sostegno concreto permea sempre l’azione
volontaria: Carla pratica iniezioni e dà preziosi consigli medici
agli anziani; Assunta e Angelo evadono con puntiglio un
75
3. La riparazione
congruo numero di pratiche assistenziali, pur di soddisfare le
esigenze primarie delle famiglie indigenti; Marta e Demetrio
fanno compagnia a Renzo e Samuele, perché sono consapevoli
che bisogna essere presenti per avere qualche speranza di fare
progressi con una malattia grave o con l’autismo; Aldo poi, ogni
fine settimana, si informa sulle vicissitudini dei suoi calciatori in
erba, confortandoli se hanno subito delle “angherie” dai loro
allenatori.
Questi gesti sono ricorrenti, essendo elementi costitutivi della
pratica della riparazione. Quest’ultima, però, non è soltanto una
prestazione socio-assistenziale a titolo gratuito. Piuttosto, col
trascorrere del tempo, tra il volontario e il suo interlocutore si
stabilisce una forma di comunicazione a due vie, con
un’evidente trasformazione della loro relazione. In sintesi, si
passa gradualmente dalla dinamica tipica della prossimità
solidale (offro/ricevo aiuto) a un rapporto che assume significati,
per certi aspetti, diversi rispetto alla logica stringente del
bisogno. In breve, si sviluppa un legame interpersonale.
Per spiegare questo processo di apertura relazionale si può
parlare, a ragione, di sconfinamento emotivo: i limiti (confini) di
un rapporto basato in principio solo sulla risoluzione di una
necessità impellente, vengono superati grazie all’intervento delle
emozioni. Tra ego (il volontario) e alter (il suo interlocutore)
subentra così l’empatia: una fusione di stati d’animo che fa leva
sulla condivisione di un problema. In proposito, si possono
citare alcuni passi delle interviste da cui emerge con chiarezza
questo processo socio-psicologico.
Marta manifesta non poche esitazioni di fronte alla lenta
agonia di Renzo. Spesso la sua determinazione di rimanere al
capezzale dell’uomo vacilla dinnanzi all’implacabilità della
malattia. Eppure, i suoi dubbi svaniscono quando pensa
all’intensa relazione emotiva che la lega al suo assistito: “è una
lenta agonia ; pur non essendo un accanimento terapeutico, lui è
collegato alle macchine […] viene mantenuto in vita in modo
artificiale […] alle volte mi chiedo che senso abbia assisterlo,
se deve subire questo travaglio […] poi penso però alla sua
emotività, alla sua reattività, lui ascolta tutto quello che avviene
intorno, interagisce, esprime sentimenti forti […] ride, piange, è
triste e, poi, riesce a leggere i tuoi stessi stati interiori […]
76
3. La riparazione
insomma è una relazione emotiva vigorosa che ti da la forza di
continuare ad aiutarlo”.
Demetrio insiste sull’importanza della comunicazione
emotiva; una chiave di volta instaurare un reale contatto (uno
scambio) con una persona colpita da un handicap mentale: “devi
capire come si esprime, devi metterti allo stesso livello di
comunicazione, non puoi comunicare solo sul piano verbale,
devi cogliere i segni non verbali e, se sai ascoltare, allora si crea
la fiducia, lo scambio di emozioni”.
Carla fa un bilancio dei quattro anni di impegno al fianco
degli anziani di Pralungo, sottolineando che i sentimenti recitano
la parte del leone nella sua attività volontaria : “oggi, come
all’inizio, quando ho deciso di impegnarmi con gli anziani
avevo l’esigenza di esprimere una parte di me […] avevo
qualcosa da dare con l’animo e ho ricevuto affetto, calore,
considerazione umana […] ti rendi conto della delicatezza dei
sentimenti di una persona che non è completamente
autosufficiente […] così fai le cose con amore e ricevi amore
[…] quando il problema è la solitudine con un abbraccio e un
bacio fai molto di più che con le medicine”.
Aldo, è convinto di aver arricchito il suo bagaglio di
esperienze umane, grazie al volontariato con i calciatori; difatti,
per comprendere le ansie e le attese dei giovanissimi, bisogna
affinare doti non comuni di sensibilità e di introspezione, senza
le quali non si intercettano i turbamenti di un età instabile come
l’adolescenza. In tale ottica, è significativo il ricorso ad una
espressione suggestiva come l’altalena delle emozioni: “grazie a
questi ragazzi ho fatto esperienza […] mi hanno insegnato
l’altalena delle emozioni […] l’entusiasmo e la depressione;
l’ansia e la spensieratezza; la paura di non farcela e la forza
d'animo che subentra quando si supera una prova […] ogni
ragazzo è un mondo a se stante, reagisce in base alla sua
sensibilità; quindi per entrare nella sua testa ci vuole una
capacità di introspezione, senza essere invadenti”.
Non è necessario procedere oltre con queste esemplificazioni.
Nonostante le variazioni sul tema, il registro è analogo:
l’emozione è un veicolo di comunicazione essenziale nella
prassi di riparazione. In effetti, il legame non mediato con i
portatori del bisogno si fonda sulla consonanza emotiva. Prima o
poi, i sentimenti diventano materia viva di questa forma di
77
3. La riparazione
volontariato informale. A partire da essi si ridefinisce il senso
dell’esperienza d’altruismo: non solo una risposta “al qui e
l’ora” di una esigenza improcrastinabile d’aiuto; ma anche
l’attivazione di un rapporto umano denso, vibrante, complesso.
Il risultato è uno sconfinamento rispetto alla concretezza
dell’atto solidale. Il che non sorprende, almeno se si tiene conto
di quanto afferma Zygmunt Bauman sul nesso di prossimità
nella sfera dell’etica, riallacciandosi peraltro al pensiero del
filosofo Emmanuel Lévinas:
la prossimità del prossimo è ossessiva, il genere di immediatezza che brucia
la tappa della coscienza: non per difetto ma per eccesso, per l’eccedenza
dell’avvicinamento (Bauman, 1993, trad. it. p. 93).
Dunque, la prossimità (specie nel volontariato) è di per sé
connaturata ad un eccesso di vicinanza, ad un capovolgimento di
fronte nell’esperienza individuale: volenti o nolenti, si assume lo
sguardo altrui, i suoi problemi, se si vuole la sua angoscia per
una condizione variabile di deprivazione. Ciò presuppone,
tuttavia, una proiezione in una realtà inizialmente estranea al
soggetto-agente. Quindi, per accostarsi al mondo vitale
dell’altro, ci vuole un sovrappiù di immedesimazione.
L’immediatezza dell’atto altruistico non è sufficiente, poiché è
depositaria di “una ragionevole” volontà di risolvere una
criticità. Ma quando si comincia, si innesca la spirale del
bisogno: in genere, le esigenze del proprio interlocutore sono
innumerevoli, soprattutto se nella sua biografia serpeggia la
vulnerabilità sociale: una malattia terminale, la solitudine,
l’emarginazione, ecc. In tutti questi casi, il compito del
volontario non è agevole: non basta curare le ferite con un gesto
concreto di solidarietà; una buona azione per guarire “il male”.
Quest’ultima ha una sua utilità, è perfino ovvio ripeterlo; ma è
soltanto una panacea momentanea: le ferite del legame sociale
non si rimarginano con tanta facilità. Per questo non è facile
abbandonare la scena solidale. S’impone così una presenza
stabile. Nondimeno, ciò implica uno spostamento di prospettiva:
dal sé all’altro.
Una sorta di decostruzione della soggettività, per coltivare
una relazione sociale, per raggiungere uno stato di
coinvolgimento rispetto alla realtà problematica di colui che è
oggetto di attenzione. Di qui il ricorso al linguaggio delle
78
3. La riparazione
emozioni: il medium emozionale crea condivisione perché, dal
flusso dei sentimenti, sgorga la comunanza, la comunicazione
non alienata tra due persone. Il volontario e l’altro bisognoso:
senza sconfinamento emotivo è difficile “agire” la prossimità. A
ben vedere, la riparazione si avvale di una strategia dell’intimità:
l’empatia del bisogno. Il tale ottica, il dilemma etico che si
ripropone in ogni esperienza di responsabilità individuale, trova
qui un riscontro convincente: “sono forse io il custode di mio
fratello (Bauman, 1993)?” La risposta corale degli intervistati
potrebbe essere: “entro in sintonia con i problemi di mio fratello,
per questo lo custodisco”.
Note
1
Per non appesantire troppo il testo con un numero eccessivo di esempi,
non sono state menzionate le storie di altri intervistati, che sono assimilabili
nella pratica della riparazione. Di Aldo si è già detto (capitolo 1): ad un certo
punto, la sua passione sportiva non gli ha impedito di vedere i rischi a cui
vanno incontro gli aspiranti campioni del calcio; da allora, egli ha offerto un
rifugio accogliente ai calciatori in erba, occupandosi in particolare del loro
inserimento extracalcistico. Anche il caso di Demetrio è già stato esaminato
in precedenza (capitolo 1): durante il servizio civile, il giovane di Bergamo
ha scoperto quanto sia “assordante” il silenzio dell’autismo; da quel
momento, non ha lesinato sforzi ed energie per penetrare nel muro di
impenetrabilità di questo handicap psichico.
2
Marta, Carla, Assunta, Angelo, Aldo, Clemente e Demetrio svolgono la
loro attività di volontariato almeno una volta alla settimana, dedicandovi
svariate ore. Inoltre, il loro impegno nel sociale è ormai pluriennale, variando
da un minimo di tre anni ad un massimo di 13 anni.
3
In genere, le persone che operano nel volontariato “ufficiale” si sentono
riconosciute anche perché si identificano (almeno in parte)
nell’organizzazione di appartenenza. Cosa che evidentemente non avviene
laddove si professi il proprio altruismo senza aderire ad un ente di
volontariato.
4
Luciano Gallino definisce la solidarietà come “la capacità dei membri
d’una collettività di agire nei confronti di altri come un soggetto unitario”
(Gallino, 1993, p. 633).
5
Ad esempio, in un recente volume, Maurizio Ambrosini registra alcune
resistenze e timori di fronte al protagonismo del terzo settore nell’erogazione
di servizi assistenziali in precedenza affidati allo Stato sociale: “permane
infatti nel dibattito sul tema una preoccupazione di cedimento a forme di
discrezionalità, particolarismo, disuguaglianza, nel momento in cui una serie
di servizi alle persone vengono dispensati da soggetti privati” (Ambrosini,
2005, p. 65).
79
4. Il contrasto
4
Il contrasto
4.1 Una mobilitazione sottotraccia
L’idea del contrasto può essere presa a prestito per
analizzare un’azione di contrapposizione verso una situazione
problematica che interpella le coscienze, ponendo seri dilemmi
morali. In tal senso, il concetto sembra particolarmente adatto
per studiare l’evoluzione di quei movimenti collettivi che, a
partire dagli anni settanta del Novecento, hanno fatto irruzione
nel proscenio delle democrazie tardo-capitalistiche (Melucci,
1982; Neveu, 1996; Della Porta, Diani, 1997; Ceri 2002). In
effetti, le rivendicazioni di diversi attori sociali (studenti, donne,
minoranze etniche, ambientalisti, pacifisti e, più di recente, i
cosiddetti no-global) esprimono una carica di opposizione verso
“l’ordine esistente”, ispirandosi a criteri di giustizia ed equità.
Ma il contrasto può anche contribuire a decifrare esperienze
di attivismo che non raggiungono la stessa visibilità di questi
movimenti (e quindi la medesima forza d’urto). Certo,
l’antagonismo sociale richiede quasi sempre un coinvolgimento
ad ampio raggio sul tema controverso (in inglese issue) per cui
si innesca la protesta.
In quest’ottica, non v’è dubbio che ogni progetto di
palingenesi della società si fonda sulla mobilitazione di risorse
(materiali e simboliche) nient’affatto trascurabili (McCarthy,
Zald, 1977): prima di tutto una nutrita platea di militanti e
simpatizzanti disposti a sposare la “causa”; ma anche adeguati
spazi di controinformazione nei palinsesti dei media, il cui
potere di condizionamento sull’opinione pubblica è davvero
smisurato; per non sottacere, poi, l’importanza di variabili
strategiche quali i finanziamenti e la capacità di darsi una
qualche forma di organizzazione efficiente, in assenza delle
quali è difficile pensare di poter costruire un mondo diverso o
migliore.
Tuttavia, pur considerando questi fattori, le strategie di
contrasto possono anche radicarsi nel tessuto della società civile,
senza necessariamente assumere un profilo pubblico marcato.
D’altronde, contrastare vuol dire letteralmente entrare in
80
4. Il contrasto
conflitto (essere in disaccordo) con “qualcosa” giudicato
ingiusto o semplicemente nocivo nei suoi effetti sociali. Va da
sé che questo verbo (e l’omonimo sostantivo) possa, a certe
condizioni, rappresentare bene l’operato di un volontario in
incognito.
In definitiva, si può combattere per un ideale senza portare
una bandiera o ripetere slogan in un megafono. In tali
circostanze il cittadino esprime un dissenso silenzioso: una
mobilitazione sottotraccia il cui fine è quello di rimuovere le
concause della marginalità o di opporsi ad una situazione di
prevaricazione sociale.
Inoltre, è necessario tener conto anche di un altro elemento: il
volontariato informale può essere contiguo alla rete del
movimento no-global, come si avrà modo di vedere più avanti.
Alle volte, quindi, l’azione volontaria s’intreccia con la
contestazione a carattere planetario, che si è materializzata nelle
piazze di Seattle, Genova, Londra e New York; il che non vuol
dire che siano due prassi identiche: un volontario può
impegnarsi nella vita d’ogni giorno, avversando i responsabili
di un determinato problema sociale; e, allo stesso tempo, può
scendere in piazza, per protestare contro lo strapotere delle
multinazionali. Si tratta di forme di partecipazione civica
distinte, sebbene siano agite dalla stessa persona. Quindi non ha
senso porle sullo stesso piano; piuttosto, è necessario metterle in
relazione.
In ogni caso, la pratica del contrasto lascia intravedere
un’assunzione di responsabilità condivisa all’interno di un
gruppo spontaneo. Lontano dai riflettori dei mass media, si
forma così un piccolo sodalizio di individui pronti ad esporsi in
prima persona, conducendo una battaglia “senza quartiere”
contro i sintomi più palesi dell’iniquità sociale o del degrado
civile. A ben vedere, anche questi inediti attivisti sono mossi da
una aspettativa di cambiamento (rimuovere il male o la
sopraffazione); solo che la loro voce è flebile, poiché è priva di
una cassa di risonanza politica e sociale. Bisogna, allora,
ascoltarli con attenzione, tentando di decodificare le opinioni
che hanno rilasciato nel corso delle interviste.
In tale prospettiva, si deve innanzi tutto precisare che una
quota consistente dei protagonisti dell’indagine sono dediti alla
pratica del contrasto (10 intervistati su 31). Si è, quindi, in
81
4. Il contrasto
presenza, di un vasto campionario di storie solidali nelle quali la
tendenza di fondo è una conflittualità più o meno vigorosa. Sotto
questo profilo, si possono individuare almeno due processi
attraverso i quali i volontari sviluppano un’insofferenza nei
confronti di una realtà sociale controversa: la rivolta morale e la
resistenza attiva.
4.2 La rivolta morale
Anna, Rita, Mario, Manuela e Paolo; nel loro caso si può a
ragione parlare di rivolta morale. Questi intervistati hanno difatti
reagito con sdegno a situazioni sociali “estreme”, laddove la
decomposizione del tessuto civico si trasforma in una questione
etica impellente. Anna, da lungo tempo, rifiuta l’immagine
deteriore con cui viene etichettato il proprio quartiere di
residenza (San Paolo, Bari). Per lei questo stereotipo è come una
ferita aperta nell’animo: “fa male essere considerati cittadini di
serie B, soltanto perché si vive in un luogo dove violenza e
povertà sono la regola”; ma questo stigma non la scoraggia;
semmai è un motivo in più per opporsi ad una condizione
generale di emarginazione, tentando di restituire il sorriso ai
bambini nati in famiglie a rischio (si veda il capitolo 1).
Rita parla di turbamento e di ribellione costruttiva nei
confronti della mafia, quando spiega perché ha deciso di stare al
fianco dei minori dello Zen a Palermo: “agli inizi degli anni
novanta a Palermo sono ricominciate le stragi […] il territorio
(lo Zen – N.d.A.) era sempre occupato dalla mafia, ci voleva una
presenza nel quartiere […] io avevo una sensibilità […] non
potevo far finta di nulla […] la povertà, l’analfabetismo diffuso,
lo spaccio della droga, la criminalità […] tutto ciò mi turbava
profondamente; per questo, insieme ad altre persone
volenterose, mi sono ribellata in modo costruttivo, cercando di
testimoniare in modo attivo il mio impegno nel sociale”.
Anche Mario e Manuela si sono ribellati al dominio
incontrastato della mafia. Entrambi si sono trasferiti in due rioni
di Catania (rispettivamente S. Cristoforo e Antico Corso), dove
il controllo esercitato dalla criminalità organizzata è stringente.
La loro è un scelta di vita: una di quelle decisioni che mutano il
corso della propria esistenza e di quella dei propri familiari.
82
4. Il contrasto
Non si va, infatti, a vivere per caso nel territorio “governato”
dai mafiosi. Mario lo ha fatto per “abitare la scuola”; lavorando
a stretto contatto con altri animatori volontari, fa funzionare un
doposcuola in un edificio fatiscente del quartiere: un ex fabbrica
di porte d’alluminio, affacciata su un vicolo desolato. Lo stabile
è a tutti gli effetti un magazzino decrepito: un grande ambiente
unico, senza finestre, con un tetto precario in legno; le pareti non
sono neppure imbiancate e il pavimento è una vasta spianata di
cemento polveroso. Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare
dalle apparenze. Si tratta di un luogo dove si studia: nell’unico
angolo del locale dove filtra la luce, si distendono alcuni banchi
disposti con un certo ordine. E’ lì che, tre volte alla settimana, i
minori del luogo vengono impegnati nelle attività di sostegno
didattico. Lo scopo è quello di incoraggiarli a coltivare
l’istruzione. L’unica alternativa al lavoro nero o, peggio, al
reclutamento nelle fila della malavita.
Mario è un uomo mite di circa cinquant’anni, ma non riesce a
dissimulare la sua animosità quando si sofferma sulle ragioni
che lo inducono a fare l’insegnante volontario in una zona off
limits come S. Cristoforo: “io non accetto che gli abitanti di
questo quartiere vengano emarginati, che cadano nella spirale
dell’illegalità o dell’economia clandestina perché versano in uno
stato di bisogno […] i bambini hanno il padre in galera e spesso
sono costretti ad aiutare la famiglia lavorando e qui è facile
cadere preda della mafia per necessità […] la mafia ha interesse
che tutto resti uguale, perché in quartieri come questo può
sempre trovare la manovalanza […] provo rabbia per questo
stato di abbandono […] le istituzioni sono assenti […] non si
può sottostare a questo stato di cose. Qualcuno deve pur dare un
segnale forte: io ho deciso di fare il volontario nel doposcuola”.
Si deve aggiungere che Mario e gli altri volontari non si
limitano a far studiare i recalcitranti scolari di S. Cristoforo;
spesso scendono in campo, lanciando messaggi inequivocabili a
“cosa nostra”; di recente, hanno ospitato una riunione della
“carovana antimafia”: la scena era quasi surreale. La spianata di
cemento del doposcuola si è riempita di magistrati, giornalisti,
parlamentari, dirigenti di associazioni civiche. All’appello
mancavano soltanto gli abitanti del quartiere: solo uno sparuto
drappello di coraggiosi ha assistito al dibattito. Del resto, la
paura regna sovrana a S. Cristoforo; eppure, anche chi è rimasto
83
4. Il contrasto
a casa, ha avvertito per un momento la presenza delle istituzioni
e della società civile. Una presenza che d’altronde non è
occasionale; Mario conduce la sua battaglia civica con
ostinazione: con la sua ribellione personale si propone di
riscattare il destino di un quartiere tenuto in ostaggio dalla
mafia.
Una determinazione analoga è rintracciabile nelle riflessioni
di Manuela, anche lei impegnata nell’attività di supporto
scolastico, a qualche isolato di distanza da dove opera Mario,
nel quartiere dell’Antico Corso: “questo posto era conosciuto
essenzialmente come ricettacolo della malavita, un luogo
trascurato completamente anche dal punto di vista
amministrativo […] e poi il problema dell’indigenza e
dell’analfabetismo della popolazione […] ci sono delle
ingiustizie che lasciano un marchio sulla coscienza […] allora
bisogna reagire impedendo il malaffare, bloccando i soprusi,
lottando contro l’iniquità […] queste sono le ragioni
fondamentali che mi spingono ad agire qui […]”.
Come si vede, non si può stare fermi di fronte all’ingiustizia,
perché quest’ultima lascia una traccia indelebile. In tal senso,
Manuela sembra aver risposto ad un appello della coscienza: per
lei il sopruso è intollerabile, al punto da trasformarsi in un
avversario da sconfiggere giorno dopo giorno, con un
volontariato dai toni agguerriti.
Ancor più emblematica è la vicenda personale di Paolo. Con
tutta probabilità, questo quarantenne dinamico e ingegnoso non
avrebbe mai immaginato di dover dedicare gran parte del suo
tempo alla lotta contro il racket. Fino a cinque anni fa la sua
preoccupazione principale era quella di fare l’imprenditore.
Un’attività che peraltro gli riusciva piuttosto bene. Nell’aprile
del 2000 apre un pub nel centro di Siracusa che, nel giro di un
anno, diventa un locale alla moda, con un largo seguito di clienti
giovani. Ma poi la faccenda si complica. La mafia è sempre in
agguato, con i suoi innumerevoli tentacoli che avviluppano la
società civile siciliana; in particolare, l’industria del “pizzo” è
un modo efficace per estendere il controllo sul territorio: oltre ad
essere un affare assai remunerativo, è anche una strategia per
ricondurre all’ordine commercianti ed imprenditori, per
convincerli che bisogna essere supini di fronte all’egemonia
dilagante delle cosche e dei capi mandamento. Ben si capisce,
84
4. Il contrasto
allora, che un giovane intraprendente come Paolo sia stato preso
di mira dal racket: il suo pub andava a gonfie vele, riscuotendo il
gradimento dei giovani che la sera, nel centro cittadino di
Ortigia, si assiepavano dentro il locale, pur di ascoltare la
musica live, bevendo una birra con gli amici.
Questa visibilità attira un clan mafioso locale. Il primo
segnale è la visita di un esponente di una nota “famiglia
siracusana”; con toni perentori, l’uomo d’onore fa capire
all’intervistato che deve installare delle macchine per il
videopoker nel pub: un modo indiretto per finanziare “cosa
nostra”. Il malcapitato tenta di ribattere che il suo disco-bar non
si presta a questo genere di scommesse. Ma non c’è verso di
fargli cambiare idea. Le macchine vengono così sistemate nel
locale; dopo alcuni mesi, tuttavia, il clan si rende conto che il
videopoker fornisce introiti bassi, anche perché Paolo si era
inventato alcuni stratagemmi per boicottarlo: ad esempio,
comunicava alla clientela che le macchine da gioco erano guaste
(in realtà, le aveva semplicemente staccate dalla corrente).
Così, l’imprenditore riceve una seconda visita sgradita:
questa volta gli comunicano in modo esplicito che deve versare
alla cosca 1,500 euro al mese. Paolo reagisce con fermezza: “gli
dissi che non avevo i soldi per far fronte alla loro richiesta,
perché avevo messo su da poco l’attività del pub, quindi dovevo
pagare dei debiti […] ma ho aggiunto che, se anche avessi avuto
il denaro, non avrei in ogni caso dato alcuna somma a loro […]
anzi dissi che li avrei denunciati se non fossero scomparsi […]
Ma loro non hanno ceduto e io mi sono rivolto alle forze
dell’ordine e alla magistratura”.
La denuncia va peraltro a buon fine: dopo quattro mesi di
indagini serrate, vengono arrestate quattro persone appartenenti
al clan mafioso, di cui due risultano essere i mandanti del
tentativo di estorsione ai danni dell’intervistato. Passano circa
venti giorni (per l’esattezza il 25 febbraio del 2002) e Paolo
sente un odore strano di benzina nel pub: “avevano versato
all’interno del locale sessanta litri di benzina. Non erano riusciti
ad appiccare il fuoco soltanto perché era scattato l’allarme”.
L’incendio non è dunque divampato; ma ormai Paolo non
può più tornare indietro, essendo uscito allo scoperto: egli ha
denunciato i boss di un’importante famiglia mafiosa. Facendo
ciò ha spezzato la catena del silenzio, schierandosi decisamente
85
4. Il contrasto
dalla parte dello Stato. E queste forme di defezione non vengono
perdonate da “cosa nostra”; non sorprende che, da allora, il suo
destino sia stato sconvolto da una lunga scia di eventi
drammatici: il pub viene dato alle fiamme per ben due volte
nell’arco di tre anni1; allo stato attuale, il locale sarebbe anche
agibile, essendo stato ristrutturato con i fondi messi a
disposizione dalla legislazione antiracket2; ma, per evidenti
motivi di sicurezza, è stato praticamente blindato, con una
sorveglianza continua delle forze dell’ordine; l’intervistato è
stato, inoltre, messo sotto la protezione di una scorta, che vigila
su di lui di giorno e di notte.
Quindi, si è dinnanzi ad una coraggiosa scelta di campo:
Paolo ha optato per la legalità, rifiutando la sottomissione al
giogo mafioso; ma il costo personale che deve pagare è gravoso,
dovendo vivere sotto sorveglianza: “perdi la tua privacy: il
piacere di fare una passeggiata in bicicletta, io non lo posso fare
[…] cambia tutto, la tua vita viene stravolta e sconvolgi anche
l’esistenza dei tuoi familiari […] il primo giorno che mia madre
mi ha visto uscire con la scorta si è messa a piangere; un
genitore rimane traumatizzato quando vede il figlio in costante
pericolo […] ogni scelta ha un prezzo e il prezzo delle mie
scelte è questo”.
In queste condizioni, è difficile ritornare ad una esistenza
ordinaria, ad esempio riaprendo pub. Quest’ultimo assomiglia ad
un bunker: un’area presidiata ininterrottamente dalle forze
dell’ordine, per evitare che venga di nuovo devastata da un
incendio doloso. L’imprenditore siracusano però non si
rassegna; spera di farne, in futuro, un luogo di aggregazione; un
forum aperto dove si possano sensibilizzare i giovani: “un
giorno trasformerò il pub in un punto di riferimento per gli
eventi culturali organizzati a Siracusa […] faremo spettacoli,
proiezioni di film, convegni per promuovere la legalità […]
bisogna capire che, qui in Sicilia, il racket mafioso è un
problema con profonde radici culturali […] questo fenomeno va
combattuto nelle scuole, tra i giovani, facendo ragionare le
nuove generazioni”.
Sicché Paolo, malgrado tutto, non vuole gettare la spugna. In
lui non è mai subentrata l’idea di emigrare in una regione del
Nord Italia o all’estero, magari per aprire un nuovo pub; in fin
dei conti, in altri contesti potrebbe fare il suo lavoro senza dover
86
4. Il contrasto
sottostare alle vessazioni della criminalità organizzata. Forse
questa opportunità gli è balenata nella mente qualche volta. Ma
poi l’ha subito scartata, avendo deciso di portate avanti la sua
battaglia personale per la legalità. Perciò, nel mese di giugno
2004, ha assunto il coordinamento del Comitato Antiracket di
Siracusa: un organismo che raggruppa dodici associazioni
particolarmente attive nel territorio della provincia. Non potendo
riprendere la sua attività imprenditoriale, egli si dedica ormai a
tempo pieno alla lotta contro il racket: organizza campagne
pubblicitarie contro il “pizzo”; interviene nelle aule scolastiche,
per raccontare la sua esperienza agli studenti; si avvicina con
discrezione a quei commercianti e imprenditori che hanno
ricevuto la “visita” di un uomo d’onore, cercando di persuaderli
ad uscire allo scoperto, come ha fatto lui; talvolta gli capita
anche di essere assimilato ad un simbolo positivo della società
civile siciliana, specie da quando ha partecipato ad alcune
trasmissioni televisive popolari.
Insomma, Paolo è diventato un emblema della lotta al racket
mafioso. Tutto è cominciato quando ha opposto un diniego ad
un picciotto mandato in avanscoperta dai boss del siracusano.
Quel rifiuto iniziale ha modificato drasticamente il suo vissuto.
Ma non è il caso di dilungarsi oltre su questo aspetto. Rimane,
piuttosto, da stabilire perché egli abbia compiuto questo atto di
civismo. Da questo punto di vista, è lo stesso intervistato a
fornire una chiave di lettura assai convincente: “quando
venivano a chiedermi il pizzo ho provato la sensazione di essere
privato dei diritti elementari che portano l’uomo ad essere parte
della società civile. In quel momento ti senti defraudato della tua
libertà. Ecco questa è la cosa che non ho accettato e che non
accetterò mai”.
Il brano appena citato esprime con schiettezza le ragioni
dell’intervistato: in estrema sintesi, egli non ha accettato di
essere privato dei suoi diritti fondamentali, in primis la libertà.
Di qui nasce ribellione interiore di Paolo. Egli reagisce, come gli
altri intervistati, ad un’ingiustizia. Una prevaricazione lo spinge
a rigettare il codice arcaico della subordinazione al potere
mafioso, scegliendo la via della legalità e dell’impegno civile.
Per questo non è infondato il ricorso al concetto di rivolta
morale. E’ perfino scontato aggiungere che la storia
dell’imprenditore di Siracusa non possa essere facilmente
87
4. Il contrasto
paragonata all’esperienza degli altri intervistati: in definitiva, lui
è stato toccato in prima persona dal sopruso; mentre Anna, Rita,
Mario e Manuela non sono delle vittime “designate”
dell’iniquità sociale. Piuttosto, hanno conosciuto l’ingiustizia
vedendola scolpita nei volti emaciati dei bambini di Bari,
Catania e Palermo. E, da quel momento, non hanno potuto (e
voluto) voltare le spalle all’umanità afflitta dal malaffare e dalla
povertà; pertanto, anche questi volontari hanno a più riprese
manifestato un sentimento di intolleranza verso l’emarginazione
e la criminalità. Così, il loro senso di indignazione morale li
sorregge nelle loro battaglie quotidiane contro la sopraffazione
dei più deboli. Forse non sono mai stati minacciati da un
“picciotto”, ma si sentono comunque parte in causa nelle
travagliate vicende degli abitanti di San Paolo, S. Cristoforo,
Antico Corso e dello Zen.
4.3 La resistenza attiva
La rivolta morale non è l’unico processo che alimenta la
pratica del contrasto. Non di rado, quest’ultima si sviluppa
attraverso dinamiche più complesse; talvolta la reazione al
contesto problematico è portatrice di atteggiamenti non
riducibili al solo sentimento di indignazione. L’iniquità suscita
sempre un dissenso; ma il volontario non si lascia guidare
soltanto dal tumulto della coscienza; piuttosto, subentrano altre
componenti che orientano la sua azione.
La resistenza attiva è una di queste forme di reazione. Questo
genere di dinamica socio-psicologica emerge con chiarezza dai
racconti di alcuni volontari che, come si è anticipato, gravitano
attorno al multiforme movimento dei “no-global”. In proposito,
è sintomatica la testimonianza di Fausto. Questo ventenne è un
attivista di Spinta dal Basso: un comitato popolare che si oppone
alla costruzione della ferrovia ad alta velocità lungo la tratta
Torino-Lione. Si tratta di una mobilitazione legata ad un
questione ambientale spinosa: il potenziamento della linea
ferroviaria altererebbe i connotati della Val di Susa, destando
allarme per le persone che vivono in quest’area; infatti, per far
viaggiare in modo più spedito i treni è necessario scavare
diverse gallerie. Il punto è che le montagne sono ricolme di
88
4. Il contrasto
amianto; una fibra minerale particolarmente nociva per la salute
delle persone. In particolare, preoccupa lo stoccaggio di questo
materiale tossico. Fausto cita un rapporto preparato di recente da
un équipe di esperti secondo il quale “ci sarebbero un migliaio
di morti nel caso in cui questa grande opera pubblica venisse
realizzata”.
In definitiva è questa la ragione per cui l’intervistato
combatte la sua battaglia dal 2001. Il teatro della sua azione è
suggestivo: Avigliana, un piccolo borgo medioevale immerso in
un paesaggio montuoso incantevole, proprio all’imbocco della
Val di Susa. E’ da qui che partono le iniziative di Spinta dal
Basso. Il giovane fa opera di proselitismo presso la popolazione
locale; organizza e partecipa ai cortei di protesta; suona il
violino in occasione di cene sociali ed altri eventi, raccogliendo
fondi da destinare alle molteplici attività del comitato. In breve,
si rende artefice di un impegno intenso e polivalente. A prima
vista, il suo scopo è molto concreto: bloccare un progetto
ferroviario che, oltre a mettere a repentaglio la vita dei residenti,
può sconvolgere gli equilibri di una zona a forte vocazione
naturalistica. La posta in gioco è, perciò, l’avvenire della Valle;
un luogo con cui Fausto si identifica pienamente,
condividendone ansie e speranze: “vorrei vivere ancora a lungo
qui […] non mi piacerebbe assistere alla distruzione del
paesaggio e non vorrei morire di cancro […] dobbiamo prendere
coscienza che è in gioco l’avvenire della nostra Valle”.
Dietro alle aspirazioni di questo volontario, non è peraltro
difficile scorgere una forte carica idealistica: “siamo dei
donchisciotte […] lottiamo per impedire che le persone muoiano
a causa di un’opera faraonica di trasporto […] è una lotta contro
i giganti”. Un idealismo che si salda con molte delle istanze
maturate nell’alveo del movimento “no-global”: “i treni ad alta
velocità sono solo un esempio di come la globalizzazione
anteponga gli interessi economici (le merci) alla qualità della
vita delle persone […] è il modello di sviluppo capitalistico che
non funziona […]”. Del resto, Fausto rende esplicito questo
legame in un altro passo dell’intervista: “ci siamo conosciuti
durante la manifestazione di Genova e lì che abbiamo deciso di
costituire il comitato Spinta dal Basso […] l’estrazione della
mia associazione è quella […] proveniamo dal movimento noglobal”.
89
4. Il contrasto
Sembra quindi emergere una sorta di imprinting: il volontario
di Avigliana si è forgiato nelle giornate convulse di Genova;
nella città ligure si è difatti compiuto il suo “battesimo del
fuoco”, mentre imperversava la protesta contro la Nike e il G8.
In tale ottica, non v’è dubbio che Fausto abbia assimilato i valori
portanti della controcultura globale: la critica serrata al
neoliberismo; l’antiamericanismo; il pacifismo; la solidarietà nei
confronti del Sud del mondo; la difesa planetaria
dell’ecosistema; e quant’altro. In sostanza, egli ha abbracciato
una visione del mondo antagonistica: una contestazione che
mette all’indice le contraddizioni più palesi del tardocapitalismo, proponendosi di superare il modello attuale di
sviluppo. Insomma l’ideale del cambiamento radicale si
sedimenta nell’immaginario di un giovane militante.
Nonostante ciò, sarebbe fuorviante liquidare l’esperienza nel
sociale dell’intervistato, sostenendo che essa è frutto di
un’utopia visionaria: Fausto ha letto Marx, vedrebbe di buon
occhio una trasformazione dei rapporti di forza nel mercato
globale, a tutto vantaggio delle fasce deboli della popolazione
mondiale; tuttavia, è anche realista; egli sa bene che la sua non è
un’epoca di grandi narrazioni ideologiche; un cambiamento
s’impone, ma non avverrà per mano di una rivoluzione, per di
più a carattere planetario. Semmai bisogna puntare su una
strategia lillipuziana: “quello che cerchiamo di fare non è di
trasformare il mondo in senso oggettivo; basti pensare che il
commercio equo e solidale rappresenta solo l’1% del commercio
mondiale3; nella battaglia contro i treni ad alta velocità partiamo
da una situazione ancora più svantaggiata […] Siamo dei
lillipuziani […] possiamo sperare tutt’al più in un mutamento
culturale […] oggi la sfida è quella di sensibilizzare le persone,
facendogli capire che una linea ferroviaria è pericolosa per il
loro futuro […] senza un coinvolgimento popolare ogni causa,
per quanto nobile, è destinata a fallire”. Ciò non toglie che la
contrapposizione si farà aspra quando arriverà il momento della
resa dei conti: “quando riapriranno i cantieri (per ora siamo solo
riusciti a bloccarli temporaneamente), spireranno venti di
contestazione più radicali; faremo delle azioni dimostrative,
siamo disposti ad incatenarci ai binari pur di arrestare i lavori
[…] ovviamente agiremo in modo pacifico, siamo contro la
violenza in ogni sua forma”.
90
4. Il contrasto
Volendo riassumere, si è di fronte ad un attivismo molto
fattivo: il ragazzo è pronto a fare le barricate contro uno dei tanti
progetti di trasporto industriale che possono deturpare
l’ambiente, oltre a pregiudicare la salute dei cittadini.
Apparentemente egli lotta per un dettaglio nello scacchiere del
capitalismo globale. Ciononostante, Fausto non lesina energie e
tempo per realizzare un’utopia molto concreta: salvaguardare gli
abitanti di Avigliana e dei comuni limitrofi, preservando un
paesaggio di indubbio interesse artistico e naturalistico. In tale
ottica, la sua è una resistenza attiva nei confronti di un problema
circoscritto: “ qui i treni ad alta velocità sono dannosi per tutta la
comunità […] quindi continueremo ad agire finché il progetto
non verrà ritirato […] io ho scelto questo tipo di lotta perché si
cerca sempre di partire da una piccola realtà per cambiare fra
virgolette il mondo”. Sicché, il mondo può essere cambiato, ma
solo mettendo il proprio impeto antagonistico tra virgolette; ci
vuole, in breve, una buona dose di pragmatismo (di aderenza
alla realtà) per sperare - un domani - di veder realizzato l’ideale
della giustizia sociale.
La resistenza attiva non contraddistingue soltanto l’operato di
Fausto; un simile orientamento è rintracciabile anche in altri
intervistati che si impegnano nei centri sociali4. Sonia, da dieci
anni, presta la sua attività volontaria nel Centro Magazzino 47 di
Brescia. Tutto è cominciato con l’autogestione di un edificio
comunale abbandonato; un gruppo di giovani occupano un
fabbricato dismesso, trasformandolo in uno spazio di
aggregazione: un luogo dove si tengono concerti di band
alternative, assemblee interminabili sulla fame nel mondo,
mostre di artisti anticonformisti. Una realtà sociale magmatica,
nella quale convergono le poliedriche istanze del mondo
giovanile, senza dimenticare i militanti “duri e puri” di una
volta. In breve, un’esperienza collettiva analoga a tante altre,
dove l’anarchia può sfociare in iniziative solidali creative.
Capita, così, che nasca qualcosa di nuovo e di utile.
Brescia è un polo propulsivo del nord industrioso; tuttavia,
anche in questa città alligna la precarietà sociale: i lavoratori
espulsi dal ciclo produttivo, a causa dei processi di
ristrutturazione aziendale; gli “atipici” che non riescono ad
inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro; gli immigrati che
lavorano nei capannoni delle imprese familiari, senza essere
91
4. Il contrasto
messi in regola; i rom che vivono ai margini del tessuto urbano,
in campi che assomigliano a ghetti.
Gli attivisti del centro sociale di Brescia si sono mobilitati
contro queste nuove forme di esclusione sociale: “abbiamo
individuato nella frammentazione dei lavoratori l’elemento di
ricattabilità maggiore”. Per rispondere a questo dilemma
pressante, Sonia e gli altri volontari hanno deciso di stare dalla
parte dei lavoratori precari; il loro scopo è quello di tutelare i
“senza diritti”, appoggiandosi ai servizi istituzionali e sindacali
già esistenti: “noi in qualche modo cerchiamo di fare da
mediatori con le istituzioni […] offriamo consulenza e
informazione ai lavoratori precari, orientandoli verso i sindacati
quando serve […] non vogliamo sostituirci alle strutture di
servizio già esistenti sul territorio […] semplicemente tentiamo
di facilitare l’inserimento lavorativo e sociale delle persone in
difficoltà, indirizzandole dove possono essere aiutate”.
Il taglio dell’iniziativa sembra quindi alquanto pratico. I
militanti del centro agiscono come degli operatori di un servizio
per l’impiego, pur di offrire soluzioni concrete a coloro che
versano in condizioni di disagio: l’assegnazione degli alloggi
popolari, gli assegni familiari, i corsi di formazione
professionale, il permesso di soggiorno, l’assistenza sanitaria di
base, la difesa contrattuale. Il welfare mix locale assicura un
minimo di copertura rispetto a questi fabbisogni. Dunque, in
prima battuta, Sonia e gli altri “compagni” si rivolgono ai servizi
socio-assistenziali e agli sportelli sindacali, almeno per far
fronte alle necessità più immediate dei soggetti emarginati.
Malgrado ciò, l’intervistata è consapevole che oggi “i precari”
sono tagliati fuori dai diritti canonici della cittadinanza : “gli
immigrati, i lavoratori atipici non riescono ad uscire da una
condizione di privazione dei diritti sindacali fondamentali”.
C’è quindi un deficit di rappresentanza e di tutela. Un vuoto
che non può essere colmato con la strategia “morbida” della
mediazione istituzionale. Così, la giovane bresciana abbandona
l’aplomb utilizzato in precedenza, tornando a vestire i panni di
un attivista radicale: “bisogna protestare, denunciare le
omissioni e le iniquità […] creare dei momenti di contestazione
nei centri commerciali o nei call center, dove di solito i
lavoratori a progetto subiscono abusi da parte dei datori di
lavoro”. In alcuni casi, lo scontro frontale è l’unica via
92
4. Il contrasto
percorribile, anche perché i cosiddetti “flessibili” sono incerti
sul da farsi quando si tratta di difendere i propri diritti; perciò la
protesta può scuoterli dal loro stato di torpore: “una volta
abbiamo fatto un’azione dimostrativa in un cinema multisala di
Brescia, dove c’era una situazione di sfruttamento […] i
lavoratori volevano muoversi, ma erano ancora indecisi […] la
nostra protesta ha incoraggiato queste persone, gli ha dato quasi
una scossa”.
Sonia si propone, pertanto, di dare una sponda ai “nuovi
esclusi”, scendendo in campo al loro fianco quando vengono
sottoposti a prevaricazioni di varia natura. Le forme della
protesta sono mutevoli: marce, boicottaggi, sit-in, ecc; molto
dipende dal tipo di vessazione e dall’interlocutore (il datore di
lavoro); bisogna, soprattutto, evitare che il lavoratore si esponga
troppo durante la rivendicazione, perché quest’ultimo potrebbe
perdere l’impiego, non potendo contare sulle tutele di un
contratto a tempo indeterminato: “è necessario intervenire senza
mettere a rischio una posizione lavorativa di per sé instabile”.
Non si possono, perciò, utilizzare gli usuali strumenti di
pressione sindacale: le vertenze, la contrattazione, gli scioperi
autorizzati. Si è quasi costretti a far di necessità virtù, se si vuole
difendere l’underclass urbana. Di qui il ricorso ad una ampia
gamma di lotte fluide, decentrate, per sopperire alle privazioni a
cui vanno incontro i lavoratori più vulnerabili.
Nel mirino di Sonia non finiscono solo quei contesti
lavorativi che penalizzano le persone; anche i responsabili dei
servizi socio-assistenziali possono essere contestati, specie se
contribuiscono a peggiorare il destino dei meno abbienti,
ponendo ostacoli alla loro integrazione sociale: “di fronte agli
sfratti dei poveri dalle case popolari o alla ghettizzazione dei
bambini rom, che di fatto non accedono alla scolarizzazione, noi
non ci limitiamo a tamponare il problema, denunciamo
pubblicamente le responsabilità dei funzionari e dei dirigenti dei
servizi sociali; andiamo alla radice del male”. La protesta non
risparmia nessuno quando è in gioco la travagliata esistenza dei
“senza diritto”.
La volontaria di Brescia è in uno stato di tensione
permanente: intercetta i bisogni sul territorio; cerca anche il
compromesso con le istituzioni locali, se questo può contribuire
alla causa; tuttavia, la strategia felpata (la collaborazione con il
93
4. Il contrasto
mondo politico e sindacale) spesso si dimostra fallimentare,
soprattutto quando si difendono i “diritti negati” degli outsider.
Allora (quando non si può andare tanto per il sottile) subentra il
contrasto sociale, attingendo da un registro versatile di
atteggiamenti e comportamenti (idealismo, pragmatismo ed
antagonismo). La resistenza attiva è, in ultima analisi,
proteiforme, perché nella modernità avanzata anche il disagio
estremo diventa cangiante. Se si vuole combattere in prima
linea, accanto ai “nuovi paria” del proletariato urbano o al fianco
di una comunità assediata dal pericolo dell’amianto, si deve
necessariamente apprendere l’arte dell’equilibrismo: le lotte si
sono trasferite nella dimensione impalpabile del quotidiano, per
questo bisogna saper dosare immaginazione, concretezza e
conflittualità.
In linea generale Sonia e Fausto (come gli altri intervistati –
si veda la nota 4) applicano una delle ricette più in voga nel
movimento no-global: “agire nel locale, pensando in modo
globale”. Il punto è che questo pensiero lascia ampi margini di
libertà; non si tratta, infatti, di un’impalcatura ideologica; ma di
un copione culturale aperto, dove ciascuno può scrivere la sua
storia di attivista, non cedendo mai alla tentazione di accettare
l’ordine esistente. Anche per questo si afferma una visione poco
ortodossa della militanza: una resistenza praticata nelle desolanti
periferie della società globale, perché è lì che riappare
l’ingiustizia planetaria, tra i volti sommessi di un’umanità che
non ha voce né diritti.
4.4 Uniti per che cosa?
Finora si è compreso che anche l’impegno nel sociale può
assumere toni vigorosi; in genere questo avviene quando il
volontario si confronta con situazioni “estreme”: ambiti e
contesti dove i sintomi del disagio si inaspriscono al punto tale
da richiedere una risposta risoluta e combattiva (una re-azione di
contrasto appunto). La mobilitazione però rimane sottotraccia
perché si opera in quei “territori di frontiera” che, solo di rado,
filtrano nell’immaginario collettivo o entrano a far parte
dell’agenda della politica. Da questo punto di vista, non è
agevole praticare la resistenza attiva o dar seguito ad una rivolta
94
4. Il contrasto
morale: si rischia sempre di lottare contro i mulini a vento,
qualora si voglia sfidare l’ordine esistente, addentrandosi negli
interstizi dell’emarginazione. Il motivo per cui ci si attiva può
essere giusto e condivisibile; ma non si dispone degli strumenti
necessari per influenzare l’opinione pubblica e i decisori politici.
Dunque, l’unica strategia percorribile è quella di rinserrare le
fila, cementando il legame con chi condivide la stessa causa.
In tale prospettiva, il contrasto è di per sé una pratica di
gruppo. In effetti, gli intervistati sembrano assai propensi a
riconoscere questo aspetto. I giovani dei centri sociali (e lo
stesso Fausto) sentono ormai di appartenere ad un sodalizio fra
giovani impegnati: “in questi due anni siamo riusciti a fare tutti
insieme un’esperienza avvincente di socialità; abbiamo
condiviso molto (l’occupazione, lo sgombero, le assemblee, la
volontà di rifare la politica e la società dal basso) […] e oggi ci
sentiamo delle persone accomunate dallo stesso impegno sociale
(Tiziano)”; “quando ti mobiliti è fondamentale l’aggregazione
che si crea con persone che senti vicine nel modo di pensare e di
agire […] con loro poi allacci dei rapporti di amicizia (Fausto)”;
“il nostro gruppo ha una sensibilità collettiva e questo ci aiuta
nei momenti critici […] quando, ad esempio, ricevi una
denuncia penale per un atto di disobbedienza civile (Alex)”;
“questo è un centro dove si costruiscono insieme le iniziative
[…] facciamo le assemblee e definiamo obiettivi comuni […]
alle volte ci dividiamo sul da farsi, ma poi sulle questioni
importanti troviamo sempre una sintonia di fondo (Sonia)”.
Il gruppo quindi vuol dire molte cose: reciprocità (il mutuo
sostegno); socialità (la possibilità di aggregarsi e di tessere
legami amicali); comunanza (la sintonia sugli obiettivi
dell’azione di contrasto); e via discorrendo. In sostanza si agisce
insieme, percependosi come un collettivo solidale. In tal modo,
l’attivismo viene declinato al plurale: “condividiamo;
combattiamo; costruiamo”. I verbi della resistenza attiva hanno
un soggetto definito: il “noi”. Senza di esso sarebbe difficile fare
i lillipuziani o dissentire in modo aspro con gli interlocutori
politici ed istituzionali.
Nel caso della rivolta morale, la dimensione di gruppo
assume una valenza differente, sebbene rivesta sempre
un’importanza decisiva. Mario ritiene che essere in trenta è
essenziale, soprattutto se si vuole dar corpo ad una presenza
95
4. Il contrasto
visibile nel quartiere: “A S. Cristoforo siamo trenta operatori
volontari […] è importante svolgere questa attività in gruppo
perché, senza questa presenza collettiva, non si riuscirebbe ad
abitare il quartiere, a dare l’impressione che noi i residenti di
questo luogo martoriato non li abbandoniamo al loro destino”;
Rita esprime un concetto simile quando dice che “ è basilare
avere un gruppo di volontari come noi in una realtà come lo Zen
[…] così diamo un segno tangibile della lotta contro
l’occupazione mafiosa”. Manuela pensa che sia fondamentale
agire in un comitato popolare, perché questa formula associativa
stimola la partecipazione dei cittadini nel territorio: “il mio
comitato, come altri, ha una funzione positiva in quanto sprona
le persone ad intraprendere un’attività sociale e politica
partecipata […]”. Anna sottolinea che, sin dal principio, la sua
associazione informale si è basata su un principio semplice
(l’unione fa la forza): “abbiamo deciso di chiamare
l’associazione Sinergia, che significa unione, forza, perché solo
stando uniti (e collaborando) si può riuscire a fare qualcosa di
utile in un quartiere come S. Paolo”. Paolo, infine, considera la
rete antiracket come l’unica sponda a cui possono aggrapparsi i
commercianti: “le associazioni antiracket sono importantissime
perché servono a non far sentir soli quegli esercenti che
subiscono l’intimidazione dei mafiosi”.
Al di là delle differenze, per questi intervistati il gruppo è
principalmente uno strumento: un fattore di visibilità sul
territorio (Rita e Mario); un veicolo di partecipazione
democratica (Manuela); un’ancora di salvezza per evitare una
condizione di isolamento ambientale (Paolo); l’unione per
raggiungere un risultato (Anna).
Si delinea, pertanto, una distinzione significativa tra la rivolta
morale e la resistenza attiva; entrambe sono pratiche che fanno
leva sul gruppo, salvo attribuire ad esso due significati non
sovrapponibili: nel primo caso il sodalizio assume una funzione
strumentale (un mezzo per raggiungere un fine); nel secondo
diventa, invece, una fonte di espressività e di socialità.
Tale difformità potrebbe essere spiegata con un argomento
abbastanza persuasivo; in ultima analisi, i “resistenti” sono tutti
giovanissimi o giovani-adulti; è risaputo che, in questa fase della
biografia individuale, l’impegno tenda a collimare con il
bisogno di socializzazione: la transizione verso i ruoli adulti è
96
4. Il contrasto
d’altronde costellata dalla ricerca del legame sociale, in primis
nel gruppo dei pari. A ben vedere, anche le forme più
“militanti” di partecipazione civica sono percorse da
motivazioni quali la volontà di aggregazione, il desiderio di
intessere relazioni amicali, la necessità di costruire una
comunione d’intenti con i propri coetanei. In breve, il gruppo
diventa una chiave di volta per schiudersi un orizzonte di
possibilità partecipative.
Questo tipo di coinvolgimento si indebolisce col passare
degli anni. Di qui il maggiore pragmatismo dei volontari dediti
alla rivolta morale: essi sono adulti e, quindi, meno inclini a
lasciarsi trasportare dall’onda della socialità, se non altro perché
hanno vissuto qualcosa di simile durante la loro gioventù,
ritenendola ormai una vicenda conclusa, verso la quale si può
nutrire tutt’al più un sentimento di nostalgia; oppure perché non
hanno partecipato alla stagione partecipativa dei movimenti,
quando frequentavano le scuole superiori o l’università.
L’atteggiamento verso il gruppo è comunque più
disincantato: il comitato o l’associazione informale diventano
dei veicoli per rinforzare una reazione personale. Sotto questo
profilo, la dinamica della rivolta ha una sequenza ben definita:
prima ci si lascia guidare dal tumulto della propria coscienza
(l’indignazione morale); poi, una volta usciti allo scoperto come
individui, si cerca una consonanza con altre persone animate da
un’analoga professione di civismo. Dunque, il sodalizio non può
che essere funzionale a tale ribellione intima; è per questo che
nasce: per rinvigorire il rifiuto soggettivo nei confronti di una
prevaricazione sociale; per alimentare una speranza di riscatto
che non può essere coltivata operando in modo solitario. Uniti si
può vincere una battaglia o, quanto meno, si combatte meglio.
Note
1
Senza contare gli altri tentativi di incendio che sono stati sventati grazie
ad un sistema di allarme particolarmente efficace.
2
La legge n. 44/1999 prevede un fondo a favore delle vittime del racket,
delle estorsioni e dell’usura che decidono di rompere il muro dell’omertà,
denunciando alle autorità giudiziarie i loro aggressori.
3
Fausto svolge il servizio civile in una bottega del commercio equo e
solidale di Torino. Di qui il suo riferimento al fair trade nel passo citato
dell’intervista.
97
4. Il contrasto
4
Nel corso dell’indagine si è avuto modo di intervistare quattro volontari
che operano all’interno di centri sociali; di Sonia si parlerà diffusamente più
avanti nel testo, sorvolando sull’esperienza degli altri tre intervistati. Peraltro,
le vicende di Alex, Tiziano e Carola sono molto simili a quella di Sonia.
Anche loro sono dei resistenti attivi con accenti che, talora, appaiono ancor
più radicali.
Alex, ad esempio, studia sociologia nell’Università di Trento, ma dedica
gran parte del suo tempo a difendere i diritti degli immigrati senza casa. Egli
li affianca nell’occupazione di alloggi abbandonati ed è in prima fila quando
si tratta di compiere delle azioni dimostrative (boicottaggi e altre forme di
disobbedienza civile) per spingere le autorità comunali ad adottare una
politica più “accogliente” nei confronti di questi stranieri. Parlando del suo
impegno, si definisce “un operatore di strada” che vuole combattere contro la
segregazione sociale degli immigrati. Le denunce penali, che già gli sono
state comminate, non lo fanno esitare più di tanto. Un resistente come lui non
arretra di fronte allo spauracchio del carcere, perché è convinto di combattere
per una causa giusta e condivisa: “la repressione della protesta non ferma le
nostre iniziative sociali, che raccolgono un consenso popolare crescente,
essendo sacrosante; tutt’al più le denunce possono bloccare i singoli attivisti,
ma questo è un rischio da mettere in conto”.
Tiziano, anch’egli attivo a Trento, mostra un atteggiamento analogo,
quando descrive le sue lotte quotidiane contro le ricadute della legge “BossiFini”. Così, un provvedimento da lui considerato intollerante (se non
razzista), lo induce a superare la soglia della legalità: “il contrasto nasce da
una legge che ha evidenti accenti razzisti (la Bossi-Fini) […] abbiamo fatto
un patto fra noi attivisti del centro […] abbiamo nascosto persone che non
avevano il permesso di soggiorno […] abbiamo boicottato con tutte le nostre
forze i Centri di Permanenza Temporanea presenti sul territorio”. Il tutto per
aiutare persone e famiglie che versano in uno stato di indigenza.
Carola sottolinea che lei non fa attività di volontariato socio-assistenziale:
“quando arriva lo straniero impoverito non gli do solo le coperte e un pezzo
di pane […] non lo tratto come il povero migrante […] certo lo assisto se
serve, ma gli offro anche gli strumenti per emanciparsi dalla sua condizione
di svantaggio […] i corsi di lingua italiana servono a questo […] dopo spero
che in lui si accenda la scintilla […] la capacità di comprendere la sua
ingiusta collocazione nella società e di reagire, rivendicando i suoi diritti”. In
sintesi, per Carola bisogna fuoriuscire da un modello caritativo del
volontariato; il suo attivismo vuole sì creare un legame con i soggetti del
disagio; ma tale relazione deve essere incisiva dal punto di vista sociale,
perché deve comunque contribuire ad un cambiamento (ad una rottura)
dell’ordine esistente.
98
5. L’iniziazione
5
L’iniziazione
5.1 Esploratori o missionari?
La pratica dell’iniziazione è tutt’altro che lineare; in questa
forma embrionale di volontariato si possono, infatti, intravedere
diverse motivazioni individuali che, tra l’altro, sono per loro
natura mutevoli nel tempo e, perciò, provvisorie. Diventa così
arduo stabilire chi siano (e cosa vogliano realmente) coloro che
si cimentano in questo genere di attività volontaria: si tratta di
indomiti esploratori, che desiderano solo andare alla scoperta di
culture e persone a loro ignote? Oppure, si è in presenza di
“aspiranti missionari”, che si spostano laddove il bisogno si
incrudisce, per portare conforto e aiuto all’umanità sofferente?
Non è semplice sciogliere il dilemma. Forse, tutto dipende
dal fatto che l’impegno di questi giovani intervistati si compie
nella sfera “catartica” del viaggio; una dimensione esistenziale
di per sé fluida, che mal si presta a spiegazioni univoche:
il viaggio è un’esperienza variegata, polisemica, colorata nelle emozioni,
foriera di innovazioni come di tradizione, profondamente personale e mai
assolutamente individuale […] la scelta di un luogo, come l’emozione di un
mezzo; il rifugio dalle difficoltà ma anche la scoperta dell’avventura; il
miglior sinonimo di conoscenza e istruzione, ma anche la dimensione
principale del pellegrinaggio e della missione spirituale. Insomma, capire
cos’è il viaggio è un po’ come viaggiare (Iannone, 2005, p. 110).
Conviene allora raccogliere questo invito a fare un viaggio
nel viaggio: seguire le tracce dei protagonisti dell’iniziazione
senza ipotesi di lavoro precostituite; accompagnarli nella
circolarità di un’esperienza che rimane sempre in bilico tra
solidarietà e apprendimento, tra la spontaneità del gesto d’aiuto
e la necessità di acquisire informazioni di prima mano sul
mondo circostante. Quindi è opportuno assumere il punto di
vista di questi volontari “itineranti”, evitando accuratamente di
anticipare alcunché sul loro modo di operare e di pensare. Si può
solo prendere le mosse da un’evidenza preliminare: questi
giovani non si lasciano attrarre più di tanto dalle mete esotiche
del turismo di massa, o dalle cattedrali del divertimento che
99
5. L’iniziazione
affollano le coste della nostra Penisola; piuttosto, nei periodi di
vacanza (in prevalenza l’estate), essi decidono di soggiornare in
campi di lavoro volontario, peraltro senza avere particolari
legami con le associazioni che li organizzano; non comprano un
last minute per Ibiza o per Sharm el Sheik; preferiscono andare
in Africa, per partecipare ad un programma di educazione
sessuale, rivolto alle popolazioni locali falcidiate dal virus
dell’Aids; o scelgono di trattenersi in una comunità di recupero
per tossicodipendenti, dislocata in una piccolo centro montano
piemontese. Insomma, contesti sociali e territori dove è arduo
crogiolarsi in qualche passatempo frivolo.
Prima di accodarsi a questi inediti itinerari nei luoghi del
disagio e della speranza, è necessario fornire qualche notizia
sommaria su chi se ne rende artefice. I viaggiatori sono quattro e
nient’affatto simili. L’unica cosa che li unisce è la comune
condizione studentesca; il che è un indizio non trascurabile: in
effetti, l’iniziazione si sviluppa in una fase biografica
antecedente all’assunzione dei ruoli adulti. Ma su questo aspetto
si avrà modo di tornare più avanti. Per ora è sufficiente limitarsi
ad un breve presentazione degli intervistati.
Consuelo è una ragazza di 22 anni che vive a Caserta,
assieme ai genitori; si appresta a tagliare il traguardo della
laurea, avendo seguito un indirizzo di studi molto originale:
lingue e culture comparate presso l’Università Orientale di
Napoli, con una predilezione particolare per la civiltà swahili.
Oltre ad essere particolarmente attiva sul piano culturale, la
giovane campana è un tipo “solare”, con una cerchia molto larga
di amici e conoscenti. Consuelo ha, inoltre, la valigia sempre
pronta; sostiene di essere “figlia del mondo”, non disdegnando
le capitali della globalizzazione (New York e Londra); ma il suo
chiodo fisso è l’Africa Sub-Sahariana.
Anche Giovanni ha 22 anni; questo giovane vive a Roma,
dove frequenta la facoltà di giurisprudenza. Nonostante i modi
garbati (a tratti quasi impacciati), egli è una persona piuttosto
determinata: passa la maggior parte del tempo chino sui tomi di
diritto, per fare (un domani) l’avvocato; tuttavia, appena può,
scambia dei servizi gratuiti avvalendosi della “banca del tempo”
comunale: talvolta insegna la lingua italiana ad una ragazza di
Bonn che, a sua volta, lo erudisce nell’idioma tedesco. Per il
100
5. L’iniziazione
resto, Giovanni si divide fra le amicizie e una passione alquanto
spiccata per la narrativa.
Alberto non è più un giovanissimo (29 anni); malgrado ciò
non ha ancora raggiunto la laurea. Del resto, diventare biologo
non è semplice; bisogna prima passare per le “forche caudine”
di alcuni esami estenuanti, tra cui embriologia, fisiologia
comparata e microbiologia cellulare. Insomma, materie ostiche
che richiedono uno sforzo prolungato per tentare di impadronirsi
dei codici astrusi delle scienze della vita; il che aumenta la
probabilità di rimanere a lungo nei corridoi dell’Università. Ad
Alberto manca comunque solo un esame. Nel frattempo, si dà da
fare, svolgendo dei lavori stagionali nel ramo delle vendite. Nel
tempo che gli rimane suona con una band nei locali della
provincia di Arezzo. Non da ultimo – come tanti altri coetanei
che vivono nelle “regioni rosse” – partecipa alle attività di
un’associazione civica che si occupa, in particolare, di rifugiati
politici e profughi di guerra.
Infine, Caterina ha 25 anni. Anche lei è sul punto di
concludere gli studi universitari a Roma, dove vive con il nucleo
familiare d’origine: le mancano pochi esami per laurearsi in
filosofia. Vorrebbe scrivere una tesi sui teologi eretici, forse
perché la sue profonde convinzioni religiose non si conciliano
completamente con la dottrina ufficiale della Chiesa. In ogni
caso, frequenta con assiduità gli incontri della preghiera
organizzati dal movimento dei focolari. La sensibilità di questa
ragazza taciturna non si esaurisce, tuttavia, nella spiritualità e
nel trascendente; nel privato, custodisce gelosamente un
interesse per la pittura, al punto che si è iscritta ad un corso
d’arte che la tiene impegnata per circa nove ore alla settimana.
Dunque, questo è un profilo assai succinto degli stili di vita
di Consuelo, Giovanni, Alberto e Caterina. Non resta che
“pedinarli” mentre si avvicinano al “continente poliedrico del
bisogno”. In definitiva, si deve soltanto rimanere fedeli ai loro
racconti; difatti, tali narrazioni offrono un quadro minuzioso di
un’esperienza che, agli occhi degli intervistati, è stata
estremamente formativa. E’ necessario, tuttavia, procedere con
ordine: spesso i loro discorsi si confondono, giacché non è facile
ricostruire un processo complesso come l’iniziazione, essendo
quest’ultimo depositario di una vicenda personale intricata. In
tal senso, può essere proficuo utilizzare la scansione tipica di un
101
5. L’iniziazione
viaggio: gli eventi preparatori e la partenza; l’arrivo e la
permanenza nella meta di destinazione; il rientro a casa.
5.2 Verso un “altrove” sconosciuto
I campi di volontariato internazionale non sono una novità;
da svariati decenni, diversi enti (partiti, sindacati, associazioni
civiche) svolgono un’azione di facilitazione nei confronti delle
aree depresse del mondo. Nel passato recente queste
organizzazioni hanno mobilitato i loro militanti o simpatizzanti
per realizzare attività umanitarie in una molteplicità di paesi
poveri; ad esempio, la Cgil e l’ex Pci hanno inviato i loro
tesserati a Cuba, in Nicaragua, in Angola o ancora in Palestina,
per aiutare le popolazioni locali nella coltivazione agricola e
nella costruzione di infrastrutture di base. Ma anche sul fronte
cattolico si predisponevano iniziative analoghe, grazie al
protagonismo delle associazioni e dei movimenti di ispirazione
cristiana. Capitava, così, che una persona vicina alla subcultura
“rossa” o “bianca” svolgesse una sorta di tirocinio volontario
all’estero, partecipando a progetti di solidarietà in loco,
sviluppati perlopiù nella stagione estiva. Si deve aggiungere che
tale periodo di formazione, sebbene fosse basato su impegni
molto concreti (costruire una scuola o seminare il grano), era
anche un modo per riconoscersi in una visione del mondo
distinta: i valori di un attivista di sinistra o l’etica di un credente
impegnato nel sociale.
Più di recente, dagli anni ottanta in poi, un nuovo soggetto ha
occupato stabilmente la scena degli aiuti internazionali: la filiera
composita di Organizzazioni Non Governative (ONG) e
associazioni che operano nel settore della cooperazione allo
sviluppo. Questi attori della società civile hanno acquisito un
ruolo di primo piano nell’ambito dei più importanti programmi
di lotta contro la malnutrizione o contro la mortalità infantile.
Col trascorrere del tempo, le ONG hanno accumulato
competenze invidiabili, facendo maturare nel proprio alveo una
nuova generazione di cooperatori. Oggi, questi intraprendenti
“pontieri” fra il Nord e il Sud del mondo, vengono da più parti
considerati una risorsa insostituibile per combattere la povertà
globale.
102
5. L’iniziazione
In fin dei conti, la rete delle ONG si è specializzata nel ramo
degli interventi umanitari. Le sigle di Amref, Focsiv ed
Emergency (solo per citare alcuni esempi noti) sono ormai
diventate un punto di riferimento per una parte consistente
dell’opinione pubblica. Non sorprende, dunque, che chi vuole
sperimentarsi in un’attività socialmente utile in Africa,
nell’Europa dell’Est o in America latina si rivolga a questi enti.
Consuelo, Giovanni e Alberto hanno optato per questo
canale organizzativo, volendo inseguire un sogno alquanto
ardito: mettersi alla prova in un campo di volontariato
internazionale. Il punto è che essi non assomigliano ai loro
predecessori: gli attivisti di sinistra e i credenti impegnati, che
sacrificavano le loro vacanze mettendole al servizio degli ideali
di una subcultura d’appartenenza. Questi giovani non si
identificano, difatti, nelle ONG che promuovono il campo; al
contrario, le concepiscono come un mezzo per raggiungere un
fine: andare all’estero per saggiare una realtà nuova e
problematica.
Questo aspetto emerge con chiarezza quando gli intervistati
descrivono il loro legame con tali associazioni: “i miei rapporti
con Lunaria sono marginali […] ricevo periodicamente le loro email, dove riassumono idee e programmi […] ma la mia vita è
dedicata ad altre cose […] studio, suono e faccio qualche
lavoretto occasionale […] è ovvio che non si creino molti punti
di contatto tra me e l’associazione (Alberto)”; “non ho relazioni
particolari con l’Oikos […] in effetti quando sono andata in
Tanzania l’ho fatto da sola (Consuelo)”; “ i miei legami con
l’ONG sono molto limitati, consulto la loro banca dati per
vedere se c’è un posto disponibile nel campo estivo e, nel caso,
li sento telefonicamente per dare la mia adesione. Tutto qui
(Giovanni)”.
Per comprendere questo atteggiamento di apparente distacco
(se non di indifferenza) bisogna fare un passo indietro, tornando
al momento nel quale gli intervistati hanno deciso di
intraprendere l’esperienza di volontariato internazionale. In quel
frangente, essi hanno di sicuro compiuto una scelta autonoma,
concependo il loro futuro impegno come un’avventura solitaria.
Non diversamente dai turisti che hanno in tasca la guida della
Lonely Planet o che viaggiano con “Avventure nel mondo”, i
nostri volontari hanno preparato la loro partenza con uno spirito
103
5. L’iniziazione
assolutamente libero, mettendo in conto le insidie di
un’esperienza di cui (in principio) conoscevano poco o nulla.
Certo, quando un turista progetta un’incursione nel deserto o
nella giungla tropicale, può sempre attingere dalla copiosa
letteratura da viaggio in vendita nelle librerie, emulando le gesta
di qualche spericolato esploratore che si è già arrischiato nei
luoghi più impervi del globo. Invece, nel caso del volontariato,
tali testimonianze (qualora esistano) circolano al massimo fra gli
addetti ai lavori, il più delle volte attraverso racconti orali.
Quindi, per preparare un “viaggio della solidarietà”, si è quasi
costretti ad arrangiarsi, esibendo una buona dose di iniziativa e
di creatività.
E’ quanto hanno fatto i giovani intervistati, quando hanno
deciso di partire per la prima volta. Caterina voleva imprimere
una svolta alla sua vita, per fugare una depressione incipiente:
“da qualche mese mi sentivo depressa, così un giorno,
all'improvviso, mi sono detta che valeva la pena di spendere
un’estate in modo diverso; invece di stare sola, a passare dei
pomeriggi interminabili sul divano, ho pensato di fare qualcosa
di utile per gli altri”. A dispetto di quel pensiero fulmineo, la
ragazza non è stata avventata; prima di scegliere una soluzione
adatta alla sue esigenze, ha passato al setaccio diverse
alternative: “ho navigato a lungo su Internet cercando varie
associazioni che facessero al mio caso […] detto sinceramente i
siti telematici di molte ONG non mi sembravano molto seri […]
poi mi sono imbattuta nell’associazione Emmaus; nella home
page ho letto un comunicato che mi ha colpito molto: noi
recuperiamo materiale usato e vite usate; se non sai che fare
della tua vita dona un po’ del tuo tempo a noi, impegnandoti in
un’attività utile per gli altri. Quelle parole sembravano fatte
apposta per una persona come me, che cercava in quel momento
di mettere ordine nella sua vita facendo qualcosa di positivo”.
Caterina è dunque entrata in sintonia con un messaggio di
speranza, per gli Altri e per sé stessa; la metafora del recupero
delle vite usate ha destato una forte impressione nel suo animo
malinconico: cercava una via d’uscita e, alla fine, l’ha trovata.
Ma non si è trattato della prima scappatoia a portata di mano,
avendo vagliato e scartato diversi programmi di volontariato
all’estero. Dopo questo screening preliminare, ha ritenuto (a
torto o a ragione), che un mese di vita comunitaria a Boves
104
5. L’iniziazione
(Cuneo) potesse giovarle. Così ha alzato la cornetta del telefono,
comunicando al responsabile dell’associazione che avrebbe
preso volentieri parte al campo di lavoro. Quest’ultimo ha
assentito e, in men che non si dica, la studentessa romana si è
proiettata in una realtà che ignorava quasi del tutto: dieci ex
alcolisti che vivevano insieme in una casa-famiglia, riciclando
faticosamente gli oggetti usati, oltre che se stessi. Sul treno, a
pochi chilometri da Cuneo, Caterina ancora non sapeva nulla
della comunità di Boves. Tuttavia, di lì a poco, l’avrebbe
scoperto.
Anche Consuelo ha passato diverse ore davanti allo schermo
del computer, sperando di scovare un programma di volontariato
che potesse soddisfarla. Alla fine si è rivolta all’associazione
Oikos di Roma, che aveva messo in cantiere alcune attività
sociali a Bagamoyo, in Tanzania. L’idea l’allettava, poiché le
consentiva di realizzare un progetto coltivato a lungo:
addentrarsi nel cono sud del continente africano, laddove
dimorano le tribù swahili; in sostanza, l’intervistata voleva
raggiungere quella civiltà lontana, di cui aveva sentito parlare
solo nei testi universitari. Non le bastavano più le analisi dotte
dei cattedratici; intendeva recarsi sul posto, per conoscere
direttamente i volti e le vicende dell’Africa profonda. Eppure
l’itinerario non era fissato una volta per tutte nella sua mente:
“mi sono avvicinata a questa esperienza in modo aperto e libero;
per me era come leggere un nuovo libro, ben diverso da un
saggio storico o letterario: non sapevo cosa mi aspettava […]”.
In questo brano d’intervista, ritorna dunque il tema
dell’incognita: anche la giovane di Caserta è partita senza sapere
bene dove sarebbe approdata, come un esploratore che si
accinge a varcare le colonne d’Ercole, non senza essere munito
di una buona dose di incoscienza; senza dubbio, tale
atteggiamento disinvolto l’ha aiutata nelle tappe successive del
viaggio; infatti, una volta giunta in Tanzania, ha dovuto
affrontare molti imprevisti, sin dall’arrivo nell’aeroporto di Dar
es Salaam: ad attenderla non c’era nessuno, malgrado le
rassicurazioni che le erano state date dai dirigenti dell’Oikos.
Ma Consuelo, dopo una comprensibile sensazione di
smarrimento per quello spiacevole disguido organizzativo, non
si è scomposta più di tanto, proseguendo il suo viaggio alla
105
5. L’iniziazione
stregua di un viaggiatore ottocentesco (si veda il prossimo
paragrafo).
Il discorso non cambia di molto se si analizzano le partenze
di Alberto e Giovanni; anch’essi si sono attivati
individualmente, facendo una cernita tra differenti campi di
volontariato all’estero. Lo studente aretino, ad esempio, si è
interrogato per settimane tentando di capire quale fosse la
soluzione migliore; poi si è ricordato che un suo amico aveva
partecipato ad esperienze analoghe; perciò, si è consultato con
lui prima di arrivare alla risoluzione finale: un soggiorno in
Spagna, in un paesino alquanto isolato a circa settanta chilometri
da Madrid; il tutto per ristrutturare dei vagoni ferroviari,
adibendoli a parco divertimento per quei bambini spagnoli che
provengono da famiglie del ceto sociale medio-basso. Giovanni,
invece, si è recato presso gli uffici dell’Informagiovani del
Comune di Roma, ottenendo una lista di associazioni papabili;
in seguito, attraverso una serie di controlli incrociati su Internet,
è addivenuto alla sua scelta: tre settimane di attività di
animazione ludica, vicino a Stoccarda, in una colonia estiva per
i figli della classe operaia.
Molte sono, inoltre, le analogie nel modo di concepire la
partenza. Alberto e Giovanni – come le altre due volontarie –
hanno avvertito l’alea dell’incertezza nell’imminenza del
viaggio all’estero; nondimeno, ad un certo punto hanno rotto gli
indugi, pensando che era giunto il momento di sperimentarsi in
un’esperienza del tutto inedita: “non nascondo che all’inizio ero
abbastanza timoroso, ignoravo a cosa andavo incontro in
Spagna; ma alla fine ho deciso di lasciarmi trascinare da
un’esperienza che per me era del tutto nuova (Alberto)”;
all’inizio avevo molti dubbi […] non sapevo bene cosa sarebbe
accaduto a Stoccarda, poi mi sono detto che era giusto provare
(Giovanni)”.
Dunque, vi è un filo conduttore nelle narrazioni degli artefici
dell’iniziazione; ovvero l’aver scelto in modo indipendente la
meta di destinazione, selezionando un percorso di volontariato
che fosse adatto alle esigenze del momento: il bisogno di
rendersi utili (Caterina); uno scambio autentico con una
popolazione conosciuta solo nei libri (Consuelo); o,
semplicemente, la voglia di mettersi alla prova facendo qualcosa
di nuovo (Alberto e Giovanni). Queste erano le motivazioni
106
5. L’iniziazione
degli intervistati mentre si accingevano a partire, senza
nascondere la loro volontà di misurarsi con l’ignoto. Si tratta ora
di continuare il viaggio, osservandoli in azione nei rispettivi
campi di volontariato.
5.3 Cronache di viaggio
L’avventura dei giovani comincia quando questi ultimi
giungono sul posto, immergendosi nelle situazioni sociali in cui
dovranno prestare aiuto. In tal senso, l’arrivo sancisce una sorta
di rituale di passaggio: non si è più dinnanzi ad una proiezione
del desiderio di scoperta o del bisogno di sentirsi utili. La realtà
supera l’immaginazione; adesso il campo di volontariato è a
portata di mano; si entra così a far parte di un gruppo di lavoro
che deve comunque raggiungere degli obiettivi concreti.
Per la verità, in alcuni casi, molto viene lasciato alla capacità
di improvvisazione dei partecipanti: “la prima settimana
abbiamo predisposto da soli i giochi, ci siamo divisi in gruppi
[…] ciascuno dei volontari ha scelto il tipo di attività che
avrebbe svolto con i bambini le due settimane successive […]
sport, arte, teatro, giardinaggio, ecc. (Giovanni)”; “quando sono
arrivata a Bagamoyo ho incontrato, a mia insaputa, cinque
volontari italiani […] il campo non era pronto, non c’erano
neppure i letti dove noi avremmo dovuto dormire […] quindi
abbiamo dovuto autogestirci, siamo andati da soli a parlare con i
presidi delle scuole elementari, medie e superiori […] abbiamo
concordato con loro il programma di educazione sessuale e, poi,
sono iniziati gli incontri con gli allievi, nel corso dei quali
abbiamo spiegato loro l’importanza dei metodi contraccettivi in
un paese dove la mortalità infantile per Aids è elevatissima
(Consuelo)”.
In altre circostanze, tuttavia, le regole sono più rigide e i
compiti maggiormente definiti: “a Cuneo ho trovato tre
volontarie […] ci hanno subito inserite nella vita comunitaria:
otto ore di lavoro giornaliero, assieme alle persone che vivono in
pianta stabile nella comunità (Costanza)”; “nel campo vicino a
Madrid ci hanno impartito delle istruzioni precise su cosa
avremmo fatto […] la nostra mansione era quella di ristrutturare
dei vecchi vagoni ferroviari, facendoli diventare degli ambienti
107
5. L’iniziazione
agibili; i responsabili del campo ci hanno detto che il nostro
lavoro era diviso in tre fasi: scartavetrare le pareti interne dei
vagoni; togliere il catrame sul tetto; e, solo alla fine, dipingerli
(Alberto)”.
Ad ogni modo, l’iniziazione è qualcosa in più
dell’assolvimento di uno specifico compito nell’ambito di un
programma prestabilito di volontariato; difatti, a prescindere dal
grado di definizione dei ruoli e delle funzioni, i volontari si
muovono con ampi margini di libertà. A ben vedere, il loro
periodo di tirocinio volontario è frammentato e denso, essendo
contraddistinto da tre processi complementari: la scoperta del
contesto in cui si agisce; la sperimentazione di un modo nuovo
di operare, ossia il coinvolgimento nell’attività volontaria, non
senza avergli attribuito un significato particolare; la
condivisione di legami con gli altri volontari o con i destinatari
dei propri interventi sociali.
Queste tre dimensioni s’intrecciano nel vissuto degli
intervistati; per rendersene conto basta ascoltarli mentre
richiamano alla mente gli episodi salienti della loro esperienza
volontaria. Consuelo racconta del pellegrinaggio spontaneo che
ha deciso di compiere in Tanzania, dopo aver terminato il lavoro
di sensibilizzazione nelle scuole di Bagamoyo. Il suo taccuino
da viaggio è gremito di ricordi1: “appena abbiamo finito
l’attività nelle scuole, ci siamo inoltrati da soli nel paese,
camminando a piedi per chilometri, sotto un sole infernale, o
spostandoci con mezzi di trasporto dove si accalcano donne,
vecchi e bambini […] siamo stati in un villaggio dell’entroterra
tanzaniano, dove un missionario accoglie gli orfani e le famiglie
senza tetto; abbiamo dato una mano per una settimana
scoprendo cosa voglia dire soccorrere delle persone che vivono
in modo gramo […] a Dar es Salaam ho osservato le donne e
perfino i Masai prostituirsi, con una schiera nutrita di occidentali
anziani che gli stavano attorno come degli avvoltoi; c’è inoltre
molta criminalità e violenza nella capitale; la sera, quando si
esce si prova una certa angoscia, perché spengono i lampioni,
per risparmiare, anche questo particolare mi ha fatto riflettere
[…] e poi, ad Arusha, l’impatto è stato veramente forte,
avevamo paura perché gli indigeni hanno un modo di
relazionarsi apparentemente aggressivo, poi capisci che nella
maggior parte dei casi sono ospitali; le popolazioni locali sono
108
5. L’iniziazione
accoglienti; quel poco che hanno lo mettono a tua disposizione
(metà è mio e metà e tuo). Insomma ho visto l’Africa da vicino
[…] le immagini delle persone che soffrono, ma anche la loro
fierezza, la dignità, la ricca cultura e le tradizioni, la loro
splendida lingua […] per fare volontariato è sufficiente
trasferirsi da una località all’altra […] arrivi in un nuovo
villaggio e incontri qualcuno che ha dei bisogni materiali
inappagati, così ti rimbocchi le maniche […] ”.
Il brano è significativo, sembra quasi di trovarsi di fronte ad
un flusso inarrestabile della coscienza; fuori dal campo di
Bagamoyo, Consuelo è stata investita da una molteplicità di
stimoli che hanno esercitato un forte impatto sul suo
immaginario giovanile: la povertà cronica dei villaggi
dell’interno, la prostituzione e la violenza nella città; ma anche
gli usi e i costumi di un popolo accogliente e generoso, benché
le persone comuni possano apparire talvolta burbere o
aggressive. In breve, proprio quello che la ragazza cercava: un
contatto ravvicinato con l’Africa profonda per rendere più
autentiche le sue cognizioni limitate (scolastiche) sulla civiltà
swahili. Nondimeno, l’intervistata non ha soltanto “visto da
vicino” un mondo che, in precedenza, non le apparteneva;
mentre procedeva di luogo in luogo, ha preso parte alla vita
locale, senza mai smettere di offrire un sostegno spontaneo alle
persone bisognose che incontrava lungo il cammino.
Sicché, nell’apprendistato itinerante di Consuelo (come per
certi versi in quello di Giovanni e Alberto2) si può sicuramente
leggere una dilatazione dell’esperienza soggettiva: un percorso
di apprendimento sul campo, che non si risolve soltanto nella
accumulazione di informazioni di prima mano su una realtà
sociale assai lontana; difatti, la conoscenza dell’ignoto si salda
con la ricerca di legami sociali e con la necessità di misurarsi
con forme immediate di solidarietà.
Caterina non è mai fuoriuscita dagli schemi ordinati della
comunità di Boves; nel corso di questa prima attività volontaria,
come in quelle successive3, si è conformata alla vita del campo:
ha smontato i motori e gli involucri degli elettrodomestici usati,
estraendo il ferro e l’alluminio; ha suddiviso con pazienza
cumuli di carta, dando così avvio all’attività di riciclaggio; ha
anche fatto il rigattiere, rastrellando qua è là mobili e oggetti
vecchi. Sapeva che queste operazioni onerose e ripetitive
109
5. L’iniziazione
servivano al sostentamento economico della comunità, oltre che
a raccogliere dei fondi da inviare nei paesi in via di sviluppo.
Tanto le bastava; ha offerto un sostegno fattivo a queste attività
meritorie, adattandosi ai ritmi e alle consuetudini della vita
comunitaria: un’alternanza scrupolosa fra il lavoro e i momenti
di socializzazione; il rispetto di alcune norme basilari
(discrezione, puntualità, gestione consensuale degli spazi, ecc.),
che assicurano la convivenza in un ambiente difficile.
Non è tuttavia agevole muoversi in una struttura di recupero
terapeutico, specie per una giovane di vent’anni. Di solito, gli ex
alcolisti svolgono diligentemente i loro compiti, accettando un
regime di convenzioni e precetti, pur di spezzare la catena della
dipendenza psicologica4. Il volontario che soggiorna
temporaneamente in un ambito sociale del genere deve esibire
una capacità non comune di adattamento; in fin dei conti, deve
entrare in sintonia con l’esistenza sobria e predeterminata dei
“comunitari”. Quindi, a differenza di Consuelo, Caterina ha
agito in un contesto alquanto “ingessato”: l’attività di
volontariato si inseriva in un ordine sociale praticamente
impermeabile alle influenze esterne. Eppure, anche nel suo caso,
emerge un’esperienza ad ampio spettro, dove le diverse
componenti costitutive dell’iniziazione riaffiorano ancora una
volta. E’ sufficiente prestar fede a quanto dice l’intervistata,
quando accenna al periodo passato a Boves : “è stato un
momento molto formativo per me […] si trattava di inserirsi
nella vita di dieci uomini che vivono in modo frugale, tentando
faticosamente di risolvere i loro problemi […] abbiamo lavorato
a stretto contatto con loro […] ho imparato a coltivare dei
rapporti umani con persone che versano in una situazione di
disagio, rispettando i loro silenzi: molto spesso non avevano
voglia di raccontare la propria storia; ho capito che, alle volte,
bisogna saper attendere e, nel caso, ascoltare se e quando arriva
il momento del dialogo spontaneo […] ho anche cominciato ad
apprezzare il valore degli oggetti che vengono disprezzati da
tutti, superando la logica consumistica del mercato, per cui un
elettrodomestico o un complemento d’arredo non serve più a
nulla quando invecchia o quando non è più di moda […] noi
recuperavamo anche i fili di rame dei congegni elettrici […] poi
mi sono abituata ad un altro modo di vivere: abitare insieme,
condividendo quasi tutto, a partire dagli spazi ristretti […]
110
5. L’iniziazione
sicuramente ho scoperto l’altro […] le persone possono avere
delle situazioni terribili dietro alle spalle, ma non per questo
sono così diverse da noi […] si può solo condividere a livello
emotivo la loro sofferenza, mettendosi nei loro panni,
assumendo il loro punto di vista […] una bella lezione di vita
[…]”.
Come si vede, anche in uno spazio sociale “segregato”, si
possono cogliere molte novità; nel breve volgere di un mese,
Caterina ha esplorato nuove possibilità, confrontandosi con le
dinamiche complesse del legame sociale: il coinvolgimento in
un’attività di
utilità collettiva (dare valore agli oggetti
deprezzati, praticando una cultura della sobrietà); la
condivisione di un ideale di comunione; l’attivazione di
relazioni fondate su uno spirito collaborativo, senza escludere le
tensioni derivanti dal fatto di dover coabitare sotto lo stesso tetto
fra “diversi”. Ma, più di tutto, la ragazza ha scoperto l’altro: il
disagio stampigliato nei volti corrugati delle persone che, per
varie ragioni, sono cadute nella spirale dell’alcolismo. Oggi
come oggi, la studentessa romana non arretrerebbe di fronte ai
silenzi di un uomo che sta male, perché a Boves ha capito che
non bisogna giudicare o cedere agli eccessi del pietismo.
Ciascuno ha la sua storia e si deve ascoltarla attentamente prima
di poter pensare di aiutare o soccorrere. Farsi carico della
fragilità altrui vuol dire spartire l’emotività con il proprio
interlocutore, immedesimandosi nella sua condizione personale.
Caterina è consapevole di aver assimilato “una bella lezione di
vita”. Qualcosa che non si apprende nelle aule universitarie o
negli incontri di preghiera di un movimento religioso. A
rivelarle l’arcano è stato un “viaggio sacrificato” nel perimetro
chiuso di una comunità dove, oltre agli oggetti, si recuperano
anche gli esseri umani.
5.4 Il rientro (o meglio) una transizione biografica
Il ritorno a casa non è quasi mai un atto neutro. Per i
viaggiatori di ogni epoca e condizione sociale il rientro nei
ranghi della quotidianità è comunque foriero di conseguenze
ambivalenti: da una parte, si interrompe lo stato di eccezionalità
del viaggio5, dovendosi così riadattare al tran tran della vita di
111
5. L’iniziazione
tutti i giorni; dall’altra, si integra il viaggio nel proprio vissuto,
cercando di non disperdere i “momenti topici” di un’esperienza
che può senza dubbio modificare gli atteggiamenti e i
comportamenti di chi l’ha compiuta. In tale ottica, è proprio
quest’ultimo aspetto del rientro a destare interesse, soprattutto se
si intende esaminare gli effetti di una pratica informale come
l’iniziazione. Più in particolare, occorre chiedersi se (e in che
modo) la permanenza nei campi di volontariato abbia lasciato
una scia tangibile nell’immaginario dei giovani intervistati.
E’ perfino scontato sottolineare che tale questione possa
essere affrontata da molteplici punti di vista: il cambiamento
negli stili di vita; l’acquisizione di nuovi valori; l’attribuzione di
significati complementari alla propria identità e quant’altro.
Sennonché, volendo sondare queste dimensioni pur importanti
del mutamento individuale, si rischia di scadere in letture
oltremodo generiche e, quindi, fuorvianti. In sostanza, si è
portati ad assegnare un “senso ultimo” all’immediatezza
dell’esperienza
soggettiva,
dimenticando
spesso
che
quest’ultima è situata in un contesto biografico specifico.
Nel caso del volontariato giovanile questo genere di
operazione può davvero essere controproducente. Non è mai
sopita, ad esempio, la tentazione di spiegare il comportamento
pro-sociale dei giovani, rispolverando discorsi alquanto effimeri
sull’etica delle generazioni che si avvicendano nella società. Ci
si abbandona così a confronti (a volte impietosi) con il passato
recente. In tal modo, l’impegno degli studenti che hanno
partecipato alla rivoluzione dei costumi del ’68 viene assunto
come metro di giudizio per capire se le nuove leve della società
siano altrettanto partecipative e idealiste. Il paragone è quasi
sempre penalizzante per chi raccoglie il testimone di quella
stagione turbolenta e creativa. I giovani di oggi vengono
considerati a più riprese passivi, narcisisti, scettici, strumentali;
insomma incapaci di (o poco propensi a) lottare per un mondo
migliore; salvo poi enfatizzare (sopravvalutare) il civismo o
l’altruismo di quella sparuta minoranza di loro che si impegna
nel sociale.
E’ bene quindi tenersi a debita distanza da queste
generalizzazioni che sfociano, non di rado, in sterili esercizi di
retorica sociologica. Si tratta di “volare basso”, ossia di rimanere
aderenti al vissuto di Consuelo, Caterina, Giovanni e Alberto.
112
5. L’iniziazione
Cosa è cambiato nella loro esistenza quando sono tornati dai
campi di volontariato? Sono loro stessi ad offrire alcuni spunti
significativi per rispondere a questa domanda, soprattutto
laddove si soffermano sui loro progetti futuri.
Consuelo dice di volersi spendere in prima persona per
modificare lo stereotipo negativo secondo cui in Africa c’è
soltanto miseria: “nella nostra società l’Africa filtra solo
attraverso immagini di povertà e oppressione; eppure i paesi
sub-sahariani sono la culla della civiltà dalla quale proveniamo
anche noi […] la loro lingua, le loro tradizioni sono un
patrimonio ricchissimo di conoscenze […] da noi quasi nessuno
è al corrente della letteratura di quelle nazioni […] mi
piacerebbe fare qualcosa per diffondere questo patrimonio
culturale in Italia”. Ciò non esclude che la ragazza voglia tornare
in Tanzania, per partecipare ad un programma di istruzione a
favore di donne e bambini.
Giovanni è pronto a rifare le valigie nuovamente, magari per
partecipare ad un campo di volontariato più impegnativo,
occupandosi di disabili o della salvaguardia dell’ambiente:
“vorrei sicuramente ripetere l’esperienza facendo qualcosa di
ancora più coinvolgente dal punto di vista sociale […] lavorare
con i disabili o recuperare zone e territori particolarmente
degradati sotto il profilo ambientale”.
Alberto pensa di essere maturo per un salto di qualità; finora
si è impegnato in attività di routine nei campi di lavoro europei
(ristrutturazioni edili, manutenzione di boschi, ecc.), dove tutto
sommato non ci si confronta con le emergenze umanitarie;
nondimeno, un domani non tanto lontano, vedrebbe di buon
occhio un suo coinvolgimento in progetti di sviluppo in Africa:
“non nascondo che in futuro penso al volontariato come ad
un’importante scelta di vita, magari in zone dove c’è veramente
bisogno […] in Africa potrei aiutare a smistare i viveri e i
medicinali alle popolazioni tormentate dalle carestie […] vorrei
confrontarmi con realtà sociali più difficili di quelle che ho
affrontato fino ad oggi”.
Infine, anche Caterina immagina il suo avvenire nel
volontariato, proiettandosi con la mente in Brasile, dove pensa
di dar corpo a quella che già considera una vocazione: “vorrei
riuscire ad andare all’estero; penso ad un’attività volontaria in
Brasile, anche se è complicato; per fare un’esperienza del
113
5. L’iniziazione
genere, si deve comunque aderire ad un’associazione; non si può
andare come un outsider in America Latina […] in ogni caso
sono convinta che il sociale sia la prospettiva della mia vita […]
la possibilità di vivere accanto all’altro che sta peggio […] per
me è diventata ormai una vocazione: datemi da mangiare,
lasciatemi sopravvivere e io darò il mio amore”.
Dunque, l’iniziazione lascia dei segni nei suoi artefici. Una
volta tornati a casa gli intervistati non rimuovono quanto hanno
visto e realizzato nei campi di volontariato internazionale. Anzi,
sembrano intenzionati a dare continuità al loro impegno
volontario. Naturalmente si tratta di aspirazioni giovanili;
essendo affrancati da obblighi pressanti (famiglia, lavoro, ecc.),
questi giovani liberano la loro fantasia, immaginando nuove
avventure in Africa, in Brasile o in altre zone del mondo, dove i
bisogni dell’umanità sono più impellenti. Si potrebbe pertanto
concludere che questi progetti siano destinati ad essere
sopraffatti dall’avanzare dell’età: l’inserimento in una
occupazione stabile; la costituzione di una famiglia propria;
l’arrivo dei figli; insomma, quei riti di passaggio alla vita adulta
che stemperano inevitabilmente gli ardori giovanili. Ma,
ragionando in questi termini, non si va molto lontano. In ogni
fase della sua esistenza, l’individuo si spinge in avanti,
esprimendo sogni e desideri per l’avvenire. Queste proiezioni
mentali plasmano il presente, anche se un giorno (alla riprova
dei fatti) dovessero dimostrarsi illusorie. Quindi, non è utile fare
professione di scetticismo, sminuendo i proponimenti dei nostri
quattro viaggiatori; è più proficuo prenderli sul serio,
considerandoli come degli scenari verosimili, all’interno di una
transizione biografica ancora aperta a diversi adattamenti ed
esiti. Del resto, nella ricerca sociale, non si può vaticinare il
futuro; ci si può solo commisurare con l’attualità della
condizione umana.
In tal senso, non si può negare che Consuelo, Alberto,
Caterina e Giovanni vogliano continuare ad esplorare la
solidarietà. La loro iniziazione non è terminata; nuovi viaggi
solidali si prospettano all’orizzonte, per scoprire, sperimentarsi,
lasciarsi coinvolgere in altri legami sociali. E’ arduo dire dove
andranno a parare queste incursioni nei mondi vitali dei meno
abbienti; ma già da ora si intravede una sollecitudine verso
l’altro che in principio non c’era.
114
5. L’iniziazione
Note
1
La studentessa napoletana ha lavorato nel campo di Bagamoyo per due
settimane; in seguito, si è trattenuta per un mese in Tanzania. Il suo racconto
si riferisce alla seconda parte del viaggio in Africa.
2
Giovanni ritiene di essersi arricchito di molto da quando ha partecipato
ai campi di volontariato in Germania e nel Regno Unito: “è un’esperienza
unica nel suo genere, che mi arricchisce ogni anno con qualcosa di nuovo, mi
permette di scoprire un paese, di misurarmi con un’attività socialmente utile,
di stabilire un legame con una comunità (un territorio) al quale sento di
appartenere durante tutta il periodo di volontariato e anche dopo”. Alberto
mette invece l’accento sulla socialità: “nei campi di volontariato ho allacciato
legami di amicizia che resistono nel tempo e a distanza, oltre a fare qualcosa
di utile per gli altri e ad avere l’opportunità di familiarizzare con una cultura
e un paese straniero”.
3
Dopo il primo soggiorno estivo nella comunità di Boves, Caterina vi ha
fatto ritorno una seconda volta (durante le vacanze di natale dello stesso
anno). Inoltre, nel 2003, ha passato il mese di luglio a Bologna,
impegnandosi nella costruzione di una struttura per l’ippoterapia, destinata ai
bambini portatori di handicap. Infine, ha partecipato ad un altro campo
organizzato dalla Comunità Emmaus di Arezzo nell’estate del 2005.
4
E’ la stessa comunità di Cuneo a chiarire quali siano le regole basilari
per garantire il buon funzionamento dell’attività di recupero: “rispetto di
ciascuno soprattutto dei più deboli o di quelli che sono in maggiore difficoltà;
adattamento allo stile di vita semplice (sobrietà – ndr.); rispetto degli orari e
delle mansioni e del regolamento interno; astinenza assoluta da bevande
alcoliche e da ogni tipo di droga; nonviolenza nei rapporti interpersonali. I
componenti della comunità si ritrovano settimanalmente per programmare
l'attività e affrontare le difficoltà che si possano venire a creare (si veda il
sito www.emmauscuneo.it)”.
5
L’eccezionalità del viaggio è intuibile: chiunque parta, a prescindere dai
suoi scopi reconditi, rompe con gli schemi della quotidianità, proiettandosi
oltre confine, ossia immergendosi in una dimensione temporale e
prasseologica avulsa dalla vita di tutti i giorni. In tal senso, è condivisibile la
riflessione di Gasparini: “il viaggio interrompe […] la situazione e la
condizione di un attore che vive nell’ambito di una residenza e di un
territorio definito, ivi esplicando l’insieme delle proprie esperienze e attività
socialmente rilevanti […] l’attore può addirittura entrare in un nuovo ruolo,
al limite sospendendo quello abituale di cittadino appartenente a una
determinata comunità territoriale o nazionale (Gasparini, 1998, pp. 20- 21)”.
115
6. L’interconnessione
6
L’interconnessione
6.1 Superare la distanza
Allacciare un legame tra l’occidente sviluppato e le
innumerevoli “periferie” del mondo; in ultima analisi, è questa
l’aspirazione dei volontari che si impegnano nella pratica
dell’interconnessione. Si deve aggiungere che non si tratta di
un’operazione semplice; bisogna, infatti, superare una distanza
abissale se si vuole agire nei luoghi della “penuria cronica”,
portando soccorso alle popolazioni locali. Difatti, pur essendo
animati da buoni intenti, non si può non provare un senso di
inadeguatezza (per non dire di impotenza) di fronte ai molti
drammi che affliggono i villaggi dell’Africa Sub-Sahariana o le
baraccopoli del Sud America: la malnutrizione, la carenza di
acqua, le guerre civili, la mortalità infantile, le catastrofi
ambientali, le epidemie devastanti. Queste ed altre emergenze
umanitarie, almeno in principio, non fanno parte della vita
quotidiana dell’uomo solidale; anzi, per certi versi, la
sovvertono con una semplice evidenza: all’alba del ventunesimo
secolo una moltitudine di esseri umani non hanno ancora diritto
ad un’esistenza decente.
La fame, la sete, i segni trasfiguranti del contagio da AIDS,
gli eccidi etnici, la riduzione in schiavitù di bambini e donne,
ecc. Insomma la sofferenza che deforma i volti e i corpi di
quell’umanità che vive al di sotto dei livelli di sussistenza.
Chiunque voglia fare qualcosa per curare “queste ferite”, è quasi
costretto a confrontarsi con un sensazione iniziale di
disorientamento: il volontario proviene comunque dall’emisfero
opulento del mondo; ha le sue sicurezze; è abituato a vivere in
un habitat sociale nel quale il problema della sopravvivenza
tocca soltanto quote marginali della popolazione. Dunque, il
distacco che lo separa dalle “enclave della disperazione” è
impressionante, al punto da spiazzarlo.
D’altronde, gli intervistati non sono dei “professionisti” degli
aiuti umanitari: non hanno mai lavorato nelle grandi
organizzazioni internazionali che si occupano di programmi di
assistenza al terzo o quarto mondo (prima di tutto la FAO); e
116
6. L’interconnessione
non hanno neppure partecipato ai progetti di quelle ONG che
vantano un’esperienza consolidata nel settore della cooperazione
allo sviluppo. Quindi si sono avventurati come dei neofiti lungo
il sentiero impervio della solidarietà internazionale. L’incontro
con “il pianeta dei vinti” (Latouche, 1991) è stato tutt’altro che
indolore, perché ha fatto affiorare una differenza costitutiva: da
una parte, la visione del mondo di un cittadino occidentale,
assuefatto ad una condizione relativa di agio; dall’altra, la realtà
di stenti di chi è escluso per definizione dai consumi primari,
oltre a perdere il controllo sulla propria esistenza.
Questo contrasto stridente traspare dai racconti dei volontari,
soprattutto quando rievocano i loro viaggi nelle “terre di
nessuno”. Laura quasi non riusciva a credere ai suoi occhi
vedendo la desolazione nei villaggi del Mozambico :“ho visto di
tutto […] schiere di bambini smagriti, capanne di fango e paglia
esposte alle temperie […] donne e anziani costretti a bere
insieme alle mucche e alle capre, perché lì le fonti d’acqua
naturali sono scarsissime […] all’inizio, quasi non riesci a
capacitarti della realtà che sfila davanti ai tuoi occhi ”.
Serena si è perfino sentita “in difetto” per aver raggiunto la
soglia dei 35 anni; tale privilegio è infatti concesso solo a pochi
contadini chapaneki: “nei villaggi del Chiapas non esiste l’acqua
potabile […] quasi tutti gli indios contraggono gravi infezioni
intestinali […] e anche l’alimentazione dei bambini è deleteria,
la maggior parte soffre di dissenteria cronica […] in queste
condizioni d’igiene gravissime si muore presto […] io, che
avevo già 35 anni, non trovavo il coraggio di dirlo […] le
persone della mia età dimostravano infatti il doppio degli anni,
venivano portati a braccia dai figli e dai nipoti, sembravano
degli anziani”.
Clara è rimasta attonita di fronte alla miseria delle famiglie
palestinesi, che vivono recluse in un campo profughi vicino a
Hebron, nel sud della Cisgiordania: “abitano in scantinati privi
di aria e di luce, in povertà estrema, in una condizione davvero
allucinante […] ci sono situazioni di marginalità che ti lasciano
quasi esterrefatta quando le vedi per la prima volta”;
Alessia, infine, non può dimenticare la sua prima visita nelle
favelas di Jandira (un sobborgo di San Paolo del Brasile),
durante la quale ha preso coscienza della situazione dei “senza
dimora” brasiliani: “ho visitato le favelas assieme ai miei figli
117
6. L’interconnessione
piccoli […] mi ricordo che dentro una baracca di legno e
plastica c’era un bimbo di appena un anno […] i miei bambini
hanno giocato per tutto il tempo con lui […] la sera siamo
tornati nella missione […] i miei figli erano pieni di zecche, li
ho dovuti lavare e disinfettare […] poi ho pensato che quel
bambino viveva in una baraccopoli, non aveva acqua, luce, nulla
[…] le zecche gli sarebbero rimaste addosso chissà per quanto
tempo ancora […] ecco, per rendersi conto, bisogna vedere e
vivere questa distanza enorme […]”.
Una distanza enorme appunto. Il viaggio nelle favelas o in un
campo profughi mette a nudo una disparità antropologica
apparentemente insuperabile: i marcatori dell’indigenza
tracciano un confine netto tra il volontario e le persone che egli
vorrebbe aiutare. Lo squilibrio è talmente vistoso da creare una
congerie di sentimenti contrastanti: smarrimento, incredulità,
senso di colpa.
Eppure, il fatto di recarsi sul posto non è solo fonte di disagio
cognitivo ed emozionale. Da questo punto di vista, l’incontro
(scontro) con le vittime predestinate della società globale, oltre a
marcare una distanza, è motivo di un più forte coinvolgimento
personale. Laura lo dice apertamente: “per me è stato
importantissimo visitare il Mozambico, perché quando decidi di
fare il volontario per l’Africa sei conscio di operare per una
causa giusta, però non hai ancora un legame reale con le
popolazioni locali. Invece lì ti trovi di fronte ai bambini denutriti
[…] è chiaro che il tuo coinvolgimento aumenta”.
Clara sostiene qualcosa di simile mentre riflette a voce alta
sul suo soggiorno nel campo profughi in Palestina: “finché non
ti confronti con certe situazioni di emarginazione non riesci ad
interpretarle in modo corretto […] prima non sei abituata a
decodificare l’altro mondo […] dopo entri in possesso dei codici
giusti per capire cos’è la povertà illimitata e questo ti spinge a
prodigarti ancor più per un bambino o per una famiglia che vive
in condizioni di indigenza”.
Aurelio parla della sua esperienza in Bielorussia, nella zona
di Chernobyl, dove i superstiti del disastro nucleare gli hanno
insegnato che si può vivere nella ristrettezza materiale
mantenendo un decoro personale; da quel momento non li ha più
abbandonati: “il viaggio a Chernobyl mi ha arricchito come
persona […] ho osservato come le famiglie vivono nelle
118
6. L’interconnessione
campagne, in case di legno modeste […] faticano a tirare avanti
fino alla fine del mese e poi c’è il problema della leucemia che
colpisce i bambini […] malgrado ciò mi hanno accolto con
dignità […] cercano di darti tutto quello che hanno, alle volte si
privano anche del pane pur di essere ospitali […] la loro umiltà
e i loro bisogni si sono impressi nella mia mente […] da allora
ho scelto di aiutarli come potevo”.
Alessia, dopo essere stata tre volte a Jandira, si sente ormai
legata ai “senza dimora”; anche dall’Italia, non può fare a meno
di pensare alla vita disagevole degli abitanti delle favelas, non
senza mostrare un forte attaccamento emotivo nei loro confronti:
“molto spesso ho la sensazione di essere con loro […] ormai,
dopo essere stata lì per tre volte, mi sento coinvolta
emotivamente nella loro difficile realtà”.
Non v’è dubbio, quindi, che l’esperienza in loco segni un
passaggio decisivo nella vita degli intervistati: Jandira, Hebron,
Chernobyl, il Chiapas, il Mozambico non sono più delle località
indistinte nel panorama mondiale del sottosviluppo. Il viaggio in
questi luoghi ha consentito di dare un “nome” alla povertà:
difatti, dopo aver visto di persona, subentra una
compenetrazione nel vissuto di coloro che lottano per la
sussistenza; si prende atto della divario esistente con le
popolazioni locali, ma si stabilisce con loro un legame di
prossimità.
In genere, il contatto immediato con questa realtà di
“deprivazione assoluta” diventa un’esortazione ad agire. Il
volontario ritorna in patria con maggiore determinazione1:
l’urgenza dei bisogni è tale da sgombrare il campo dalle
esitazioni dettate dalla propria posizione di privilegio o da un
senso di inadeguatezza di fronte all’entità dei problemi
umanitari.
Si apre così un nuovo capitolo nella storia di questi “altruisti
globali”; essi ricominciano da dove sono partiti: dall’esistenza
confortevole nell’emisfero ricco del pianeta, dove non si muore
per denutrizione o soltanto perché si appartiene ad una
minoranza etnica. Sicché, una volta tornati in Italia, gli artefici
della pratica dell’interconnessione riprendono a tessere la tela
della solidarietà internazionale, instaurando tuttavia un rapporto
più intenso con le aree depresse del mondo.
119
6. L’interconnessione
6.2 L’arte di costruire i ponti (umanitari)
Vi sono naturalmente diversi modi per soccorrere le
popolazioni escluse dal “banchetto dei consumi” ordito dal
capitalismo globale (Latouche, 1991). Del resto, la pratica
dell’interconnessione è per definizione poliedrica, essendo agita
al di fuori dei canali ufficiali della cooperazione allo sviluppo.
In sostanza, gli intervistati si cimentano nell’arte di costruire
“piccoli” ponti umanitari; il loro impegno, infatti, confluisce
all’interno di gruppi spontanei, grazie ai quali essi riescono a
mettere in cantiere iniziative solidali di natura prevalentemente
informale; nascono così progetti decentrati e flessibili, che
lasciano ampi margini di libertà a chi li predispone. Gli stili di
intervento e gli stessi obiettivi sono mutevoli; molto dipende,
inoltre, dai bisogni dei destinatari dell’azione di sostegno, senza
dimenticare il retroterra culturale e sociale dei volontari.
Laura, ad esempio, opera in un’associazione non
riconosciuta, che si propone di agire laddove non arrivano le
ONG più rinomate; in effetti, i principali programmi umanitari
lasciano scoperte alcune zone particolarmente immiserite.
Makeleni (in Mozambico) è una di queste aree abbandonate al
loro infausto destino; di qui l’esigenza di agire con prontezza,
affrontando innanzi tutto l’emergenza dell’acqua; ma anche
cercando di rispondere ai fabbisogni dei bambini che, oltre a
versare in condizioni di salute precarie, rischiano di restare
analfabeti. Lo scopo di questa volontaria è quindi assai concreto:
raccogliere finanziamenti per realizzare alcune infrastrutture di
base (pozzi per l’acqua e asili nido) nei villaggi degli Zulu. Non
è tuttavia agevole improvvisarsi fund raiser; ci vuole, infatti,
una dedizione costante (e una buona dose di versatilità) per
sollecitare le donazioni dei cittadini italiani. L’intervistata non si
tira certo indietro di fronte a questo arduo compito: organizza
collette per inviare generi alimentari in Africa; cura gli opuscoli
informativi dell’associazione; cerca di convincere gli
imprenditori e i commercianti a sponsorizzare la costruzione di
un pozzo o di un asilo nido; non diserta neanche i banchetti in
strada e nei supermercati, quando si tratta di sensibilizzare i
passanti e i consumatori.
Come si vede, Laura è alquanto fattiva. Non si pone mete
troppo ambiziose; sa bene che “mille euro possono salvare più
120
6. L’interconnessione
di una vita”. Per questo fa opera di proselitismo presso i suoi
connazionali: anche una libera elargizione di un “filantropo
distratto” può contribuire a cambiare le cose, specie se si deve
portare l’acqua potabile nell’arida terra degli Zulù. Di fronte
all’urgenza del momento (la ferrea logica di un catastrofe
umanitaria sempre incombente), non si può andare troppo per il
sottile: “penso che se l’umanità non arriva ad una svolta epocale
si andrà presto verso uno stato di decadenza; un mondo dove i
ricchi saranno una minoranza rispetto alla massa di diseredati
che popolano il nostro pianeta […] persone veramente povere, a
cui manca il necessario dal mangiare al bere, ad un minimo di
istruzione”. Dunque, l’intervistata vive il suo attivismo in modo
pragmatico: per impedire la moria degli Zulù bisogna prima di
tutto scavare pozzi, distribuire generi alimentari e medicinali,
alfabetizzare i bambini. In breve, occorre essere realisti, fare un
passo alla volta, trovando le risorse economiche per dare le ali
ad un progetto di sviluppo che si impone ormai come una
necessità impellente.
In passato (si veda il capitolo 1), Laura non avrebbe ragionato
in questi termini: da studente ha attraversato la stagione calda
delle contestazioni e degli anni di piombo; inoltre, ha militato a
lungo anche nei sindacati. Allora, con tutta probabilità, avrebbe
messo al primo posto gli ideali universali (la giustizia, l’equità e
la solidarietà), ripetendoli come dei “mantra” nei cortei e negli
scioperi. Oggi è diverso: sotto l’equatore c’è un villaggio di
capanne in fango e paglia, dove si muore in silenzio, per una
carestia atavica che continua a far strage di innocenti. E’ questo
il volto più insopportabile dell’ingiustizia globale: venir al
mondo senza avere il diritto di esistere2. La donna sente ormai il
richiamo di questa sfida disperata: mettere in salvo i bambini
africani. Così si fa carico di un ruolo che non le si addice affatto;
un ex sindacalista costretta ad imbarcarsi in una snervante
attività di persuasione, al cospetto dei suoi “avversari” di un
tempo: imprenditori, commercianti, cittadini facoltosi,
consumatori assiepati nei supermercati, col carrello pieno del
“superfluo”. In realtà, non v’é nulla di singolare nel suo
comportamento; per un’elargizione in più si può anche
“blandire” la neoborghesia, se questo serve a restituire la
speranza all’infanzia rinnegata.
121
6. L’interconnessione
La storia di Alessia è molto differente da quella di Laura; fin
da giovane ha sempre aderito alle attività della parrocchia,
testimoniando nel “sociale” la sua sensibilità di credente: “il
messaggio cristiano è semplice […] essere prossimi, vicini,
solidali verso chi ha bisogno […] sono in piena sintonia con tale
messaggio religioso”. Come tanti altri italiani, l’intervistata ha
partecipato ai gruppi giovanili dell’oratorio, aiutando di tanto in
tanto le persone bisognose; nel 1989, però, ha incontrato un
missionario di Reggio Emilia che operava in America Latina.
Quest’ultimo l’ha introdotta nel convulso mondo della favelas,
destando in lei una spiccata sollecitudine verso i problemi dei
“senza dimora” brasiliani.
In oltre un decennio, Alessia ha raccolto fondi per migliorare
la condizione degli abitanti di Jandira. A prima vista, la sua
attività non differisce di molto da quella di Laura: raccogliere
donazioni in Italia per far fronte alle esigenze di una comunità
vulnerabile, che vive al di là dell’oceano atlantico. Tuttavia, i
sobborghi di San Paolo non sono uguali ai villaggi dell’Africa
sub-sahariana; difatti, nella metropoli carioca la miseria è un
fenomeno tangibile, ma non raggiunge il baratro dell’assenza
completa di risorse alimentari ed idriche. Piuttosto, la
megalopoli brasiliana è afflitta dall’annosa questione della
criminalità minorile. In particolare, i meninos de rua sono
l’emblema di una situazione davvero allarmante; questi bambini
ed adolescenti provengono da famiglie disgregate ed impoverite;
per loro la strada è una scelta quasi obbligata, con la
conseguenza di cadere (presto o tardi) nella spirale della
delinquenza: furti, prostituzione, consumo di droghe sintetiche,
omicidi; oltretutto, essi rimangono spesso vittime degli
“squadroni della morte”, che si aggirano minacciosi nelle
periferie della città, utilizzando talvolta metodi di repressione
spietati per ripristinare l’ordine pubblico.
La devianza minorile è un’emergenza al pari delle carestie in
Africa. Nondimeno, la ricetta per curare “il male” non sono
soltanto gli aiuti umanitari; beninteso, anche a Jandira c’è una
carenza di asili nido e di scuole; come, del resto, è acuta la
scarsità di generi alimentari e medicinali fra le famiglie che
abitano nelle favelas; eppure non sfugge un altro elemento
critico: i meninos de rua vengono risucchiati nel circolo vizioso
della violenza perché non hanno alternative. Sin dalla tenera età,
122
6. L’interconnessione
i genitori li spingono a portare a casa i soldi, con ogni espediente
possibile. In breve, per questi bambini la scuola è una chimera.
Ebbene Alessia, assieme ad altri sette volontari, ha puntato
sul bene istruzione per offrire un futuro ai minori brasiliani. Il
gruppo si avvale di uno strumento efficace e parsimonioso per
avviarli agli studi: l’adozione a distanza. In breve, chi vuole può
farsi carico della scolarizzazione di un bambino, inviando
periodicamente del denaro presso la missione religiosa di
Jandira che, da alcuni anni, si è gemellata con la parrocchia
frequentata dall’intervistata. Il che non guasta perché, almeno in
principio, gran parte dei donatori erano fedeli della Chiesa di
San Roberto Bellarmino di Roma. Anche se la volontaria tiene a
precisare che la sua associazione informale ha sempre operato in
piena autonomia: “siamo un gruppo che è nato in una
parrocchia, ma siamo totalmente indipendenti dalla diocesi
romana […]”. Prova ne è che il bacino dei donatori si è col
tempo allargato a macchia d’olio, coinvolgendo persone che
provengono da ambiti non propriamente religiosi e da altre città
(Milano e Reggio Emilia).
Allo stato attuale, grazie alle somme raccolte dal gruppo di
Alessia, circa 600 minori frequentano gli asili nido o le scuole
materne ed elementari di San Paolo. Un risultato non
trascurabile: un domani, questi allievi potranno infatti accedere
all’istruzione secondaria3. Ma ciò implica che si instauri un
legame più stretto fra i benefattori italiani e la comunità
brasiliana. Non basta la corrispondenza epistolare con il
bambino che ha beneficiato dell’adozione: le lettere episodiche
con cui egli esprime riconoscenza ai suoi “genitori putativi”; o,
magari, le fotografie che lo ritraggono sorridente fra i banchi di
scuola. Ci vuole molto di più per coltivare una relazione
duratura, soprattutto quando questa si sviluppa da un capo
all’altro del pianeta; anzitutto, un’informazione capillare su
quello che avviene oltreoceano, nel caleidoscopio della
metropoli sanpaulista.
In tale ottica, i volontari di S. Bellarmino usano Internet per
diffondere una newsletter a tutte le persone che hanno compiuto
le adozioni a distanza: “si tratta di un bollettino informativo sul
quale non vengono pubblicate solo notizie di cronaca da Jandira
e lettere di ringraziamento dei bambini; l’idea è anche quella di
ampliare un po’ la prospettiva, fornendo degli approfondimenti
123
6. L’interconnessione
sulla politica e l’economia brasiliana”. Anche perché l’interesse
dei donatori si è intensificato, soprattutto da quando Alessia e gli
altri volontari hanno organizzato dei seminari su Jandira. Il fine
di questi incontri informali è quello di preparare un eventuale
viaggio in Brasile: “abbiamo sempre sostenuto coloro che
volevano andare a Jandira […] ora realizziamo cicli di incontri
per far capire qual è la condizione sociale e la cultura di questo
grande paese del Sudamerica”. L’iniziativa ha riscosso un certo
successo, se si considera che negli ultimi cinque anni
l’intervistata ha già accompagnato nel sobborgo di San Paolo tre
gruppi di visitatori.
Col trascorrere del tempo, quindi, il progetto ha innescato un
processo a cascata; uno sparuto gruppo di giovani religiosi
impegnati nel sociale ha promosso il gemellaggio tra due
parrocchie; i primi a partire (tra cui Alessia) si sono resi conto
che la priorità era quella di togliere dalla strada i minori
brasiliani, trovando in Italia le risorse per mandarli a scuola; il
veicolo utilizzato (le adozioni a distanza) si è dimostrato
particolarmente valido. Oggi circa 800 persone si fanno carico
dell’istruzione di un bambino; accanto a ciò, è aumentato il
coinvolgimento dei sostenitori di questa iniziativa spontanea:
una quota significativa dei donatori si informa e frequenta i corsi
di formazione, recandosi non di rado nelle favelas. A ben
vedere, il principale risultato di questa esperienza associativa è
una dinamica di community building: l’attivazione di una rete di
“amici e sostenitori di Jandira”; un network di cittadini italiani
che si sentono vicini agli abitanti di una fra le megalopoli più
indecifrabili del mondo; per loro San Paolo non è più lontana e
“illeggibile”, essendo diventata un luogo familiare: il suburbio
dove anche un menino de rua può avere l’opportunità di
investire nel suo avvenire, a patto che qualcuno (dall’Italia) lo
sostenga economicamente. In tal senso, si è venuta a
determinare una forma di interdipendenza tra due comunità in
precedenza disunite. Il ponte fra l’Italia e il Brasile si è pertanto
irrobustito4.
L’attività volontaria di Stefano non è legata ad un luogo
specifico nella geografia mondiale della povertà. Egli si limita a
costruire case, scuole e ospedali in giro per il pianeta. Lo fa in
modo del tutto disinteressato, mettendo la sua professionalità al
servizio dell’Unione dei missionari di Vicenza. In effetti, la sua
124
6. L’interconnessione
esperienza nel settore edile è realmente utile; in Angola,
Ruanda, Brasile, Romania c’è un estremo bisogno di persone
capaci di realizzare opere civili; si tratta di contesti dove è
peraltro estremamente gravoso far partire i cantieri: “nelle zone
depresse, in genere, c’è una carenza di attrezzature […] non ci
sono le gru, gli argani […] la sabbia viene ancora portata sul
dorso dei muli e le betoniere sono una rarità […] quindi bisogna
darsi molto da fare […] ci vuole molto estro”.
Stefano, tuttavia, non si lascia scoraggiare dalle difficoltà.
D’altronde, conosce bene il “mestiere”: per anni ha fatto il capo
mastro presso alcune imprese edili venete; poi si è messo in
proprio. Oggi ristruttura appartamenti e costruisce villette per il
ceto medio vicentino. Il lavoro è abbastanza remunerativo e
pressante. Ma egli non si dimentica di coloro che non hanno le
risorse per innalzare edifici in muratura, pur avendone grande
necessità; così, si riunisce periodicamente con altri “carpentieri
volontari”, quando le missioni hanno raccolto sufficienti fondi
per edificare una nuova scuola o una struttura ospedaliera: “ci
riuniamo con altri volontari che tornano da un viaggio, facciamo
nuovi progetti, sempre con l’obiettivo di far partire nuovi
cantieri […] e quando si sono raccolti i soldi necessari si parte:
l’Africa, l’Europa dell’est, l’America latina […]”.
Il cantiere rimane aperto fintanto che non si ultima l’opera
civile: due settimane o quaranta giorni, dipende dalla
complessità dell’edificio e dalle condizioni ambientali. La
permanenza sul luogo è comunque disagevole, perché i volontari
rischiano sempre di contrarre malattie, dovendo lavorare a
stretto contatto con le popolazioni locali; è difficile mantenere
condizioni sicure d’igiene: “ ci sono quasi sempre problemi di
salute […] mi capita spesso di prendere la dissenteria […]
alcuni volontari si sono anche ammalati di malaria […] è molto
pericoloso soggiornare in paesi dove l’acqua non è potabile e il
cibo non viene controllato […]”. Stefano non si nasconde questi
problemi, ma sa bene che il suo apporto è fondamentale per
completare i fabbricati: “sarebbe molto più comodo rimanere a
casa […] mostrare la propria solidarietà tirando fuori il
portafoglio […] che so io con una donazione […] ma non basta
mandare il denaro […] per erigere un edificio ci vuole
esperienza […] molto spesso le popolazioni vanno aiutate,
125
6. L’interconnessione
almeno all’inizio, poi quando hanno acquisito il mestiere
possono fare da sole”.
Dunque, l’intento non tanto recondito del volontario
vicentino è quello di insegnare i “trucchi” del lavoro edile agli
abitanti dei paesi poveri: impastare le malte; mettere in sesto
porte e finestre; dare l’intonaco alle pareti; il tutto per far sì che
essi possano, in un non lontano futuro, rendersi autonomi,
dotandosi di quelle strutture abitative e civili di cui hanno
necessità. Per spiegare la sua “vocazione pedagogica”,
l’intervistato ricorre ai dettami dell’etica cristiana, che egli
applica con profonda convinzione: “dietro al mio impegno ci
sono i valori cristiani […] ho dei talenti (la maestria in campo
edile –ndr.) e li metto a disposizione degli altri […] un buon
credente non è tale perché osserva i sacramenti, ma se non
rimane indifferente ai bisogni delle persone meno abbienti […]
saremo giudicati per quanto aiuto abbiamo dato a chi versa in
una condizione peggiore della nostra”. Per questo Stefano si
sposta da un cantiere all’altro, sottoponendosi ad un tour de
force per certi versi estenuante; egli è certo che, nel suo caso, la
carità si erge su fondamenta solide: la solidarietà si costruisce un
mattone dopo l’altro, assieme ad una squadra di operai
impacciati che non conoscono il mestiere; tuttavia, dopo aver
completato il tetto di un edificio, qualcuno di loro sarà in grado
di elevare una nuova casa da solo; e, forse, si ricorderà degli
insegnamenti di un volontario venuto da Vicenza.
6.3 Sentirsi interdipendenti
Laura, Alessia e Stefano. Questi volontari rispondono alle
emergenze umanitarie con inventiva e determinazione, agendo
all’interno di circuiti sociali informali. I “loro ponti”
assomigliano ad opere minute di altruismo che oltrepassano le
frontiere delle nazioni5. Grazie a questi infaticabili tessitori di
legami di aiuto e mutua comprensione, si apre una prospettiva
inedita: talvolta, il mondo dei ricchi e quello dei poveri possono
interagire, senza più procedere come universi slegati e paralleli.
In tal senso, è lecito chiedersi se questi attivisti abbiano
maturato una nuova visione della realtà: un orientamento
culturale che fa leva sull’interdipendenza fra i destini dei popoli
126
6. L’interconnessione
divisi dal divario dello sviluppo. Il tema è complesso e non può
essere certo esaurito analizzando un numero limitato di storie di
volontariato informale. Malgrado ciò, nelle biografie dei
protagonisti dell’interconnessione si possono rintracciare alcuni
elementi significativi per cominciare se non altro a riflettere su
tale questione.
Quando si pensa al concetto di interdipendenza viene quasi
spontaneo riferirsi al suo significato economico: gli effetti di
retroazione (le influenze vicendevoli) che si determinano fra i
sistemi produttivi e finanziari nell’era del capitalismo globale. In
altre parole, soprattutto oggi, si assiste ad un’integrazione
pressoché completa fra i mercati, al punto che una repentina
crisi di borsa nel sud-est asiatico si riverbera velocemente
dall’altra parte dell’emisfero abitato; il vento sinistro di questo
movimento tellurico può squassare il quieto vivere nelle “fragili
cittadelle” dell’Occidente; difatti, le economie nazionali sono
ormai sincronizzate, all’insegna di una competizione spietata,
che può travolgere interi comparti industriali o del terziario,
mettendo a repentaglio i posti di lavoro di migliaia di persone.
In breve, quello che avviene in estremo oriente ha dei riflessi
repentini e tangibili in Europa o negli Stati Uniti.
Ma vi è anche un altro modo di concepire l’interdipendenza,
tenendo conto delle sue componenti extraeconomiche; da questo
punto di vista, si può attingere dalle riflessioni del politologo
americano Benjamin Barber (Barber, 2004). Secondo questo
studioso, gli stati nazionali non sono più in grado di garantire la
libertà, la sicurezza e il benessere all’interno dei propri confini.
Occorre, pertanto, passare da un contesto di indipendenza
geopolitica fra paesi ad un quadro di maggiore cooperazione
transnazionale, nel quale si lavori con alacrità per integrare
culture e popoli. Nondimeno, per raggiungere questo obiettivo
non è sufficiente puntare sul multilateralismo politico dei
governi6; è urgente che gli stessi cittadini si rendano artefici di
un processo di apertura culturale, per stemperare i “conflitti fra
civiltà” ed evitare di cadere nelle pastoie di un capitalismo senza
regole ed etica. In sintesi, tale concezione dell’interdipendenza
poggia su un progetto sociale alquanto ambizioso: l’idea che un
giorno non troppo lontano possa costituirsi una società civile
transnazionale. Per certi versi, il destino del mondo è affidato
127
6. L’interconnessione
alla sensibilità dei singoli, che dovrebbero esibire un civismo
planetario, guardando oltre i confini del “qui ed ora” nazionale.
Il carattere globale di molti rischi che incombono sui paesi
ricchi e poveri (epidemie, terrorismo, shock economici,
catastrofi naturali, ecc.) sembrerebbe spingere in tale direzione,
rendendo quanto mai opportuno un approccio cosmopolita ai
problemi contemporanei che investono l’umanità (Beck, 2003).
Viene, tuttavia, da chiedersi se tale disegno culturale e politico
possa incentrarsi soltanto sulla dimensione planetaria del
pericolo. L’impressione è che la comune esposizione a minacce
di ordine economico, politico e ambientale non sia sufficiente
per creare un idem sentire a livello mondiale; anzi, in alcuni
casi, l’insicurezza dei cittadini può mettere al repentaglio i
processi di integrazione sopranazionale, come è avvenuto di
recente in Europa7.
Una società cosmopolita non può che reggersi su una qualche
forma di reciprocità fra persone che appartengono, comunque, a
nazioni diverse: una comunanza fra estranei, che sono per di più
separati da barriere geografiche e sociali. Lo scenario è
suggestivo, ma assai vago: su cosa si può basare questa
solidarietà a distanza? In che modo può entrare a far parte
dell’immaginario individuale?
I volontari hanno molto da dire su questo fronte. A
prescindere dai loro atti di altruismo globale, essi sono infatti dei
produttori di senso: dietro ai loro gesti solidali, vi è un processo
di immedesimazione nella condizione dell’altro (lo straniero che
abita nelle zone marginali del mondo capitalistico). Questo
aspetto è emerso in precedenza, esaminando le dinamiche con
cui gli intervistati superano la distanza dai beneficiari della loro
attività di aiuto internazionale. Ora si tratta di precisare meglio
la natura di questo “sentimento di fratellanza”, decifrando le sue
dimensioni costitutive.
Alessia sostiene di essere profondamente unita agli abitanti di
Jandira: “per me, il prossimo sono i baraccati di San Paolo […]
è una vicinanza con persone che vivono molto lontane”. Quando
spiega i motivi di questa prossimità sottolinea che, col passare
del tempo, si è instaurato uno scambio paritetico tra lei e i
“senza dimora” brasiliani: “è un rapporto alla pari, tu offri un
sostegno concreto e loro ti mostrano una realtà che non conosci
[…] è come un’università di vita […] mi hanno insegnato quali
128
6. L’interconnessione
sono le logiche che creano l’ingiustizia, ma anche che è più
dignitoso vivere senza beni di consumo superflui, perché le
ristrettezze materiali passano in secondo piano se c’è il calore
umano, l’allegria e l’amicizia spontanea […]”. Il brano è
eloquente: in Brasile, la donna romana non ha scoperto soltanto
l’implacabile legge dell’emarginazione sociale; girando per le
favelas, è rimasta sedotta anche da stili di vita sobri e socievoli.
Oggi, l’intervistata si rispecchia nei tratti tipici della cultura
sudamericana: una miscela di prassi e valori (frugalità, socialità,
simpatia umana, mutualismo spontaneo) che rendono più
autentica l’esistenza. Per questo la volontaria si sente legata a
doppio filo con il pueblo di Jandira, sino ad immaginare un
futuro in America latina: “sebbene mi senta italiana, molto
spesso penso che potrei trasferirmi laggiù, per far crescere i miei
figli in un contesto dove si dà ancora importanza ai valori che
noi italiani abbiamo perso”.
Anche Serena si compenetra nella realtà dei contadini
chapaneki. Tale forma di compartecipazione nasce, senza alcun
dubbio, da una militanza vissuta con passione. L’intervistata
appoggia con convinzione l’insurrezione zapatista. Per questo ha
partecipato ai campi di volontariato internazionale, a fianco
degli indios oppressi dal governo messicano. Del resto, dopo la
caduta del muro di Berlino, la speranza di cambiare i rapporti di
forza nella società si è scontrata con il fallimento del socialismo
reale. Da allora, l’ideale della giustizia sociale può essere
inseguito solo in ambiti circoscritti. Il Chiapas è uno di quei
luoghi dove si sperimenta l’autogestione popolare e la
democrazia partecipativa; in tal senso, esso offre uno spiraglio a
chi continua a coltivare (nel suo intimo) il sogno
dell’egualitarismo. E’ la stessa volontaria a ricondurre la sua
attività ad una precisa opzione politica: “stare accanto agli
zapatisti è una scelta di campo. Ed è sempre lo stesso campo: il
pacifismo, essere contro la guerra, combattere ogni forma di
violenza e sfruttamento economico, soprattutto schierarsi contro
la repressione di un popolo. Il mio rapporto con la politica è
organico. Mi considero comunista a tutti gli effetti. In tutto
quello che faccio”.
Dunque, l’impegno nelle comunità chapaneke viene sorretto
da una specifica subcultura politica, che farebbe pensare ad un
impeto ideologico fine a se stesso. Ma questa è solo una faccia
129
6. L’interconnessione
della medaglia: è ben difficile crogiolarsi nell’utopia quando si è
stati nelle valli che circondano San Cristobal, in quel fitto
intreccio di foresta e selva, dove si annidano gli indios alle prese
con problemi di sussistenza. Non sorprende, perciò, che la
donna si sia trovata a fare opera di proselitismo in Italia, non
tanto per esaltare la figura mitica del sub-comandante Marcos;
quanto piuttosto per dar voce ai bisogni delle popolazioni
indigene: “quando sono tornata a casa sono intervenuta in
diverse manifestazioni pubbliche per spiegare cosa stava
accadendo nel Chiapas […] ho detto che in Messico non c’è
soltanto un uomo mascherato (Marcos), ma un’infinità di
bambini che muoiono di dissenteria perché non hanno
l’aspirina”. Alla volontaria tremavano le gambe quando
prendeva parola nei cortei e in altri dibattiti politici. E questo per
una ragione semplice; si sentiva investita di una responsabilità
onerosa: “in Chiapas i contadini mi hanno rivolto un invito;
volevano che li aiutassi a far capire agli italiani la loro precaria
condizione sociale”.
L’interdipendenza si fonda anche su queste basi: parlare a
nome (identificarsi nel destino) di un popolo che sopravvive in
una situazione di clandestinità. Mentre si compie l’epopea della
ribellione chapaneka, Serena si improvvisa portavoce della
causa indigena, sebbene non somigli per nulla agli algidi
speaker della politica, che allignano anche nella sinistra radicale.
Lei sa di parlare per conto di un popolo soggiogato da strategie
di dominio post-coloniale; in Chiapas, ha lasciato una parte di
sé: durante i suoi soggiorni nei campi di volontariato, ha
partecipato ad un movimento di liberazione popolare che non è
sostenuto soltanto dai guerriglieri; nella regione messicana ha
visto soprattutto le donne, gli anziani e i bambini lottare per la
terra, il benessere materiale, la libertà di culto, la lingua,
l’identità culturale; si rispecchia pertanto in questa risoluta
ribellione dei “deboli”. Non può dimenticare la loro battaglia per
i diritti inalienabili della persona.
Gli atteggiamenti di Serena e Alessia tendono a convergere;
infatti, fra la militante di sinistra e la cattolica impegnata sono
molte le analogie: ai loro occhi i contadini chapaneki e i senza
dimora brasiliani sono dei “vicini”, non soltanto dei portatori di
bisogni irrinunciabili. Per queste due intervistate – ma anche per
Laura, Stefano, Aurelio e Clara – il legame a distanza con il
130
6. L’interconnessione
“pianeta dei vinti” non si esaurisce in una professione
d’altruismo. Beninteso, la concretezza dell’attività di
volontariato è un elemento basilare di questa relazione; tuttavia,
sarebbe fuorviante ritenere che si risolva tutto in una sequenza
di gesti solidali che viaggiano da un capo all’altro del mondo.
Per ravvivare la pratica dell’interconnessione ci vuole ben altro.
Il volontario non si limita ad aiutare; egli incorpora nel suo
immaginario un “mondo vitale” che non gli appartiene; assieme
ai volti emaciati della povertà, egli assimila condotte di vita che,
in principio, gli apparivano estranee: la socialità che imperversa
nelle favelas brasiliane, alleviando il fardello della criminalità
urbana; la fiera determinazione con cui le donne del Chiapas si
oppongono agli eredi della sopraffazione coloniale; il decoroso
contegno con cui i superstiti di Chernobyl affrontano i postumi
del disastro nucleare; l’esistenza segregata nei campi profughi
dei palestinesi, dove non si è mai persa la speranza di diventare
cittadini di uno Stato libero; l’ostinata laboriosità con cui gli
agricoltori africani coltivano le loro terre inaridite.
Un viaggiatore disattento (o un telespettatore annoiato) non si
lascerebbe coinvolgere più di tanto da queste manifestazioni di
esistenza grama, considerandole tutt’al più delle semplici
tattiche di sopravvivenza; ma, per chi si è immerso nei contesti
della penuria cronica, condividendone i drammi e le attese, il
discorso è radicalmente diverso: sotto la superficie degli stati di
privazione materiale, scorre la vita quotidiana di popoli che
combattono per schiudersi un orizzonte futuro migliore. E’ con
questa lotta che solidarizzano gli intervistati.
In ultima analisi, l’interdipendenza si sviluppa grazie ad un
mutamento radicale di prospettiva. Il volontario non si sofferma
più sui segni palpabili della deprivazione, poiché ha gettato lo
sguardo in avanti: vede un’umanità, tutt’altro che rassegnata,
avventurarsi faticosamente verso un sentiero di sviluppo
endogeno. Così, il premuroso uomo occidentale scopre di non
essere più un semplice prestatore di soccorso: anch’egli ha
intrapreso un percorso di emancipazione sociale, camminando
assieme alla moltitudine dei meno abbienti.
131
6. L’interconnessione
Note
1
In tale prospettiva, si delinea una distinzione netta rispetto ai volontari
dediti alla pratica dell’iniziazione (capitolo 5): anch’essi transitano nelle
periferie della società globale; ma la loro esperienza di mobilità assume un
significato diverso rispetto a quella degli artefici dell’interconnessione; come
si è visto, i giovani vanno alla scoperta del disagio senza uno scopo
predefinito. Ai loro occhi, il viaggio è un mezzo per trasformare la propria
identità; un rito di passaggio che prevede ulteriori tappe: altri luoghi dove
continuare l’esplorazione dei bisogni e delle culture locali. Laura Alessia,
Aurelio, Serena e Clara avevano, invece, in mente un percorso prestabilito
quando si sono avventurati all’estero: essi avevano ormai deciso di
impegnarsi “per qualcuno e per qualche cosa”. Il viaggio non è dunque fonte
di autodeterminazione (o lo è solo in parte); piuttosto, sin dalla partenza,
viene concepito come un modo per cementare i rapporti con i destinatari di
un progetto umanitario già esistente.
2
Il Mozambico primeggia nella triste classifica dei paesi con i più alti
tassi di mortalità infantile. Secondo stime recenti dell’Unicef, in questa
nazione ogni anno muoiono circa 170.000 bambini in età compresa tra zero e
cinque anni (fonte: Unicef, The Official Summary of The State of the World’s
Children, 2005); per maggiori approfondimenti sul tema può essere utile
consultare il sito ufficiale dell’Unicef (www.unicef.org).
3
Il gruppo parrocchiale già sostiene economicamente alcuni studenti
universitari di Jandira.
4
Anche le istituzioni brasiliane si sono accorte dell’importanza degli
amici italiani di Jandira; nel 2003 il Sindaco del sobborgo ha interpellato
Alessia e gli altri volontari affinché essi collaborino ad un progetto
municipale che si propone di incentivare la scolarizzazione nelle favelas.
5
Nel testo non si è accennato alle attività svolte dagli altri tre volontari
impegnati nella pratica dell’interconnessione. Aurelio partecipa ad un
comitato di cittadini che sostengono gli abitanti di Chernobyl; questo
falegname di Sermoneta aiuta in diversi modi i reduci del disastro nucleare:
ospita in casa i bambini malati di leucemia, durante i loro soggiorni curativi
in Italia; organizza eventi per raccogliere sottoscrizioni in favore dei villaggi
bielorussi più impoveriti. Serena non ha mai smesso di portare il suo
soccorso ai contadini chapaneki e cubani. Clara, oltre ad aver svolto attività
di animazione sociale nei campi profughi palestinesi, è stata anche in
Nicaruaga, dove ha fornito un supporto al personale ospedaliero, per
migliorare le attività diagnostiche. Oggi continua ad occuparsi di adozioni a
distanza in varie zone del mondo.
6
E’ del tutto evidente che, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New
York, il multilateralismo abbia subito una battuta d’arresto.
7
Si pensi ai dilemmi con cui si confronta l’Unione Europea nel suo
tortuoso cammino verso il completamento del progetto comunitario; in
particolare, il “no” francese e olandese alla ratifica della Carta costituzionale
dell’Unione suona come una sconfessione di una certa visione (ingenua)
dell’europeismo: l’idea che basti creare una moneta unica e un’integrazione
132
6. L’interconnessione
(peraltro incompleta) dei mercati, per infondere un comune sentire nei popoli
europei. Non sfugge inoltre un altro fatto: il diniego dei francesi e olandesi
nasce da un sentimento di incertezza verso l’allargamento ad Est della UE,
oltre che da problemi di natura interna: prima di tutto, la bassa crescita
economica nelle rispettive nazioni e i paventati tagli allo Stato sociale. Il che
la dice lunga su quanto sia arduo costruire un legame di cittadinanza fra
popolazioni che continuano ad anteporre l’interesse nazionale a quello della
UE.
133
Conclusioni. Il richiamo dell’altro
Conclusioni
Il richiamo dell’altro
In genere il ricercatore prova un senso di inadeguatezza
quando si appresta a mettere la parola fine ad un percorso di
analisi. Egli passa in rassegna i risultati dello studio appena
terminato affannandosi davanti al suo scrittoio, dove ha sparso
in modo più o meno disordinato gli appunti di lavoro; in fin dei
conti, cerca soltanto di raccogliere le idee, per mettere ordine nel
caos; ma non può che avvertire una sensazione strisciante di
disagio; non è agevole, infatti, afferrare l’esito complessivo
della propria attività intellettuale. Il sipario si chiude, l’indagine
è già dietro le spalle e l’analista rischia di rimanere con un
pugno di mosche in mano. Immergendosi nel laboratorio della
società, ha raccolto solo dei frammenti limitati di conoscenza.
Un barlume di luce che non aiuta certo a rischiarare la sua mente
ormai esausta. Molte sono le curiosità inappagate, senza contare
i dubbi che continuano a vorticare nel cervello.
Del resto, questo stato di fibrillazione è parte integrante del
lavoro di ricerca: i risultati di un’indagine empirica non
rappresentano quasi mai un punto d’arrivo; semmai pongono
sempre nuovi interrogativi, innescando un gioco pressoché
infinito di rimandi fra ciò che è noto e ciò che rimane ancora da
scoprire. Non sorprende che per lenire quest’ansia cognitiva si
ricorra spesso ad un registro generale di spiegazione: invece di
soffermarsi sul “qui e l’ora” del fenomeno esaminato, si compie
un deciso balzo in avanti, congetturando sulle possibili
implicazioni che si celano dietro ad un particolare oggetto di
studio. In sostanza, si tenta di estrapolare dei “significati ultimi”
dall’immediatezza dell’esperienza umana, non senza compiere
delle forzature che stridono con quanto si è trovato “sul
campo”, osservando gli individui nel loro habitat sociale.
Così, volendo tirare le somme della presente analisi, si deve
agire con circospezione e pazienza, evitando accuratamente le
chiavi di lettura ad ampio raggio, specie di fronte ad una realtà
inedita come il volontariato informale: una pratica che è di per
sé situata in un contesto d’azione specifico.
In tal senso, bisogna assolutamente liberarsi dal “tormentone”
sui valori. Da più parti ci si interroga sui motivi reconditi che
134
Conclusioni. Il richiamo dell’altro
spingerebbero gli individui a mettersi nei panni del Buon
Samaritano: lo spirito caritativo o la benevolenza laica; la voglia
di comunità (il bisogno di instaurare relazioni autentiche); il
mutualismo o la reciprocità (la volontà di identificarsi e
mobilitarsi in un gruppo). Sennonché, molto spesso, dietro ai
gesti lodevoli dei volontari si celano finalità meno nobili: la
richiesta di considerazione sociale; la necessità di muoversi in
ambiti dove non vigono regole prefissate, lasciando ampio
spazio alla propria libertà ed inventiva (espressività); o
semplicemente la ricerca di opportunità di lavoro nel settore dei
servizi alla persona.
Comunque, in non pochi casi, questi moventi si possono
sovrapporre. In altre parole, le motivazioni dei volontari quasi
mai confluiscono in un senso morale organico, con sommo
dispiacere degli studiosi. Per cavarsi d’impaccio, si è soliti
attingere dalla tesi sulla polifonia dei valori - un tratto tipico
della tanto invocata (e vituperata) condizione postmoderna.
Anche la sensibilità delle persone dedite all’altruismo sarebbe
polifonica, poiché seguirebbe uno spartito valoriale poliedrico,
riproducendo in tal modo lo “spirito dei tempi”: il relativismo
culturale delle società contemporanee.
Ben si capisce che tale tesi è sommaria e, perciò, può risultare
fuorviante. Invece di sconfinare nel campo dei grandi scenari
epocali, basterebbe limitarsi ad una considerazione di buon
senso: in ultima analisi, il volontariato è un’attività circoscritta
nello spazio e nel tempo; chi la svolge, con tutta probabilità, è
animato da diverse aspirazioni e sollecitazioni, non
necessariamente legate all’appello della solidarietà. Si deve,
inoltre, aggiungere un altro fattore significativo: come ogni altra
sfera d’azione, l’impegno volontario è destinato a modificarsi
con l’avanzare dell’età, sull’onda delle transizioni biografiche
vissute da ogni persona.
Del resto, l’altruismo si presenta in forma spuria quando
viene calato nella vita di tutti i giorni; sicché, è alquanto
inverosimile ritenere di potersi imbattere in una personalità
solidale idealtipica, salvo che nei casi estremi di esistenze
sacrificate sull’altare di qualche ideale utopico (sulle quali
peraltro è sempre lecito dubitare).
Dietro al volontario, c’è un uomo in carne ed ossa, che
esprime sentimenti e desideri assai “terreni”: dalla brama di
135
Conclusioni. Il richiamo dell’altro
riconoscimento alle ambizioni sottaciute nell’intimità. Non si
tratta – come si è avuto modo di sottolineare in precedenza (si
veda l’introduzione) – di proporre una distinzione “manichea”
tra prodigalità ed egoismo, tra una non meglio precisata
generosità e un altrettanto indefinibile narcisismo o amor
proprio. L’individuo è materia troppo complessa per essere
ridotta agli schematismi di queste antinomie del pensiero. Tali
opposizioni possono funzionare quando vengono traslate
sull’asse normativo delle dottrine (religiose e laiche); ma
risultano quanto mai fallaci se si rimane agganciati all’ordinario
fluire dei rapporti interpersonali.
E’ bene, dunque, tenersi alla larga dai panegirici sull’etica,
perché si rischia sempre di propinare una versione caricaturale
del volontariato, accreditando una retorica dei buoni sentimenti;
o, per converso, insinuando il sospetto che dietro al velo di ogni
gesto disinteressato, si annidi il tornaconto personale.
Certo gli intervistati hanno a più riprese espresso le ragioni
per cui si impegnano nel sociale; nondimeno, le motivazioni che
hanno addotto sono inevitabilmente situate in una trama di senso
delimitata. La dimensione valoriale esiste, ma è incastonata
nella pratica del volontariato informale.
In effetti, la riparazione, il contrasto, l’iniziazione e
l’interconnessione non sono etichette astratte; piuttosto, sono
concetti che sembrano adattarsi bene al vissuto dei protagonisti
di questa indagine: seguendo diversi percorsi e approcci, i
volontari si impegnano per una “causa sociale”, sviluppando
atteggiamenti e forme di coinvolgimento personale piuttosto
coerenti.
Riparare un danno (rimediare ad una criticità sociale che
colpisce i cittadini vulnerabili); contrastare un’ingiustizia;
avventurarsi alla scoperta del disagio; allacciare un legame con
le periferie del mondo. Questi non sono slogan (o principi ideali)
sganciati dalle vite degli intervistati. Al contrario, sono
espressioni di un attivismo che risponde ad un problema
concreto; la matassa del volontariato informale comincia a
dipanarsi laddove si esamina il suo nucleo fondante:
un’emergenza sociale percepita dal soggetto-agente.
Gli altruisti senza divisa affrontano istanze problematiche
che, per differenti ragioni, filtrano nella loro quotidianità,
trasformandosi in un imperativo morale della coscienza. La
136
Conclusioni. Il richiamo dell’altro
professione d’altruismo si integra così in una storia individuale.
In definitiva, in questo libro non si è fatto altro che riannodare il
filo di alcune vicende personali che riflettono questo modo di
atteggiarsi e di comportarsi, senza accampare pretese più
ambiziose; prima fra tutte, dire alcunché di conclusivo sul
volontariato spontaneo.
Dunque, volendosi congedare dal lettore, si può svolgere
un’ultima considerazione minimalista. L’unico tratto che
accomuna gli intervistati è la loro attitudine a lasciarsi attrarre
da un elemento avulso dal loro dominio privato di vita. Il che
spinge a riproporre una definizione di senso comune
dell’altruismo: il fatto di prodigarsi per “qualcosa o qualcuno”,
senza ricavarne un vantaggio personale immediato. Non
interessa qui stabilire se il movente di questa azione sia la
gratificazione morale o altre ragioni imperscrutabili.
Piuttosto, le donne e gli uomini che hanno raccontato di sé in
questo volume hanno subito (volenti o nolenti) una mutazione
antropologica; i loro gesti (simbolici e materiali) esprimono un
coinvolgimento crescente nella condizione altrui. L’estraneo (un
malato terminale ma anche un villaggio dove si muore per
denutrizione) entra gradualmente a far parte del loro vissuto. Si
assiste così ad un processo di immedesimazione nel “diverso” da
sé: perché altrimenti ci si interesserebbe dei destini di un
bambino ossuto che vive in Africa o degli immigrati che vivono
ai margini del tessuto urbano? E’ come se cambiasse il centro di
gravità attorno al quale ruota un’esistenza: ad un certo punto,
l’orbita biografica tracciata dall’uomo moderno devia dal suo
asse naturale. Le passioni acquisitive vengono per un momento
accantonate. Un pensiero fulmineo s’insinua nella mente di un
cittadino qualunque: c’è qualcuno dall’altra parte dell’emisfero
abitato, o a pochi passi da casa, che ha bisogno d’aiuto; si va
così in suo soccorso, rimanendo al suo fianco. E, poco a poco, si
condividono le inquietudini e le speranze di quell’interlocutore
che non è un parente e neppure un vicino, sino a delineare un
impegno costante che si affianca alla cura del sé.
Per spiegare questa dinamica socio-psicologica, non è
necessario scomodare il lessico aulico con cui si è soliti
qualificare il volontariato: la gratuità; la carità; l’egualitarismo;
il senso di giustizia; l’etica e via discorrendo. Basta seguire un
volontario ordinario che recita a soggetto nella vita quotidiana:
137
Conclusioni. Il richiamo dell’altro
costui comincia a soffermarsi sui sintomi palpabili del malessere
o dell’iniquità sociale. Ma, a differenza di molti suoi
concittadini, non guarda dall’altra parte o si limita a versare una
somma in beneficenza. In sostanza, egli decide di farsi carico di
un problema che non lo toccherebbe in prima persona; da quel
momento la sua vita cambia perché è costretto a muoversi sul
doppio binario della ragione e dei sentimenti. E’ la logica
stringente del bisogno, infatti, che invita a pensare con il cuore,
emozionandosi con la mente: per rispondere alle necessità
impellenti dei più deboli ci vuole un sano pragmatismo, ma
anche la non comune capacità di riconoscersi nelle proprie e
altrui emozioni, facendole diventare una componente costitutiva
del legame sociale. Senza questo quid aggiuntivo l’esperienza
volontaria franerebbe prima o poi sotto i colpi del realismo e
della razionalità. D’altronde, la generosità è simile ad un “vuoto
a perdere”: si porta qualcosa in dono oggi, senza sapere cosa si
riceverà domani. Ma gli altruisti senza divisa non possono (né
vogliono) più ritirarsi da questo scambio ineguale: un giorno
hanno incontrato l’altro e ne hanno saputo ascoltare il richiamo
inappellabile.
138
Appendice. Cronistoria di una ricerca
Appendice
Cronistoria di una ricerca
Ogni indagine si inquadra a pieno titolo nella biografia di chi
la compie; di solito si sorvola sui motivi, più o meno fondati,
che inducono un ricercatore ad interessarsi di un particolare
ambito sociale. In questa sede si preferisce, invece, accennare
alle ragioni che hanno spinto l’autore ad occuparsi del
volontariato informale. Per questo abbandono volentieri la
forma impersonale, mentre mi accingo a raccontare il “dietro le
quinte” di questo libro.
Da anni cerco di capire perché i cittadini si impegnano in una
molteplicità di attività meritorie (dal volontariato al consumo
responsabile), avendo lavorato alle ultime edizioni del Rapporto
sull’Associazionismo Sociale; ho avuto, perciò, la possibilità di
osservare l’evoluzione della partecipazione civica nella nostra
società, seguendone da vicino le trasformazioni più significative.
Ebbene, uno dei cambiamenti che mi ha colpito di più è stato
l’aumento costante del volontariato informale nel corso degli
anni novanta: un numero sempre maggiore di italiani dichiarano
di prodigarsi per “qualcuno o per qualcosa”, operando da soli o
in piccoli gruppi che nascono spontaneamente sul territorio. La
mia curiosità verso questo fenomeno è cresciuta di anno in anno,
sollecitandomi ad approfondire un tema che (se non altro in
Italia) è ancora scarsamente studiato e dibattuto. Per dare corpo
a questa idea, assieme all’équipe dell’Iref, ho elaborato una
proposta articolata di ricerca, inserendola nelle attività
preparatorie del nuovo Rapporto sull’Associazionismo sociale
(nona edizione). La Fondazione Cariplo - alla quale va il mio
sentito ringraziamento - ha creduto nella validità di questo
progetto scientifico, concedendo un finanziamento per
realizzarlo. E, così, è cominciata l’avventura…
Per circa tre mesi (novembre2004/gennaio2005) mi sono
cimentato in quella che in gergo tecnico viene definita analisi di
sfondo: in pratica, ho messo a punto gli strumenti per poter
svolgere l’indagine. Prima ho letto letteratura specialistica
sull’argomento, per approfondire il contesto entro il quale si
sarebbe sviluppato lo studio. Gran parte dei volumi, delle riviste
scientifiche e del materiale “grigio” che ho potuto consultare
139
Appendice. Cronistoria di una ricerca
sono citati nella bibliografia. Posso aggiungere che questo
esame preliminare mi ha offerto molte suggestioni per
proseguire nel lavoro di ricerca; in particolare, mi sento in
debito verso quegli studiosi che, prima di me, hanno tentato di
ricostruire l’esperienza volontaria con un approccio biografico:
ossia, analizzando la vita quotidiana di coloro che compiono
gesti disinteressati di solidarietà. Comunque, dopo aver passato
al setaccio molti volumi e articoli scientifici, è giunto il
momento di far partire la ricerca. Due operazioni fondamentali
mi hanno tenuto impegnato per circa un mese (febbraio 2005):
la stesura di una traccia d’intervista; e la costruzione del panel
degli intervistati.
Sul primo aspetto mi sono soffermato nell’introduzione,
quando mi sono dilungato sui pregi della tecnica d’intervista in
profondità. In questa sede mi limito, pertanto, a riportare in
forma schematica i temi di discussione e alcuni esempi degli
stimoli verbali che ho utilizzato per far esprimere liberamente
gli intervistati; salvo ribadire che mi sono concesso ampia
facoltà di invertire, eliminare o aggiungere le domande, a
seconda dell’andamento dei singoli colloqui con i volontari.
Prospetto A - Schema dell’intervista in profondità
Temi
Esempi di stimoli verbali
L’esperienza
volontaria
obiettivo:
far ricostruire
all’intervistato la
propria attività di
volontariato
- mi puoi raccontare della tua esperienza da
volontario? quando, dove e come hai
cominciato…? perché? quanto tempo gli
dedichi? che tipo di attività svolgi?
- c’è un episodio che descrive meglio il tuo
impegno da volontario?
- cosa è cambiato nella tua vita da quando fai
questa attività?
- quale è il tuo rapporto con la politica? E con
La cornice
obiettivo:
la religione?
far esprimere
- quali aspetti sono più importanti per te nella
opinioni su
vita: il lavoro, la famiglia, ecc.
questioni sociali
- che cos’è per te la solidarietà? e la libertà?
dirimenti; sondare - che cosa pensi della globalizzazione? e
altre sfere di
dell’immigrazione in Italia?
partecipazione
civica
- mi puoi raccontare della tua esperienza nel
Il profilo
lavoro? ci sono stati dei momenti di difficoltà?
biografico
e delle svolte positive?
obiettivo:
- quale è la tua situazione familiare?
inquadrare la
- cosa fai nel tempo libero?
situazione
- quali sono i tuoi progetti futuri?
familiare e
lavorativa
dell’intervistato
140
Fuochi di riflessione
- tappe dell’esperienza
volontaria;
- significato attribuito;
all’attività svolta
- motivazioni e pratiche
di aiuto;
- i progetti nel
volontariato
- visioni del mondo
- altri ambiti di
coinvolgimento personale
- opinioni sulla società
- passaggi chiave della
biografia: transizioni
positive e criticità;
aspirazioni personali
Appendice. Cronistoria di una ricerca
Sul modo con cui ho selezionato gli intervistati è invece
opportuno spendere qualche parola in più. Già nell’introduzione
ho anticipato che è stato molto difficile entrare in contatto con i
protagonisti di questo volume: gli italiani impegnati nel
volontariato informale sono infatti particolarmente dinamici, ma
purtroppo si rendono invisibili ai sensori delle statistiche
ufficiali; il motivo è semplice: non prestano aiuto all’interno di
ambiti organizzativi definiti; sicché, non possono essere
rintracciati attraverso gli archivi delle associazioni di
volontariato o di altri enti del terzo settore.
Per fortuna lavoro in un istituto di ricerche che realizza
numerose indagini campionarie; così ho potuto superare il
problema, chiedendo direttamente ai cittadini italiani se
svolgevano attività di volontariato, e nel caso, se questo
impegno fosse a titolo personale o in gruppi informali1. In
particolare, l’operazione di selezione dei volontari è stata
ripetuta due volte, agli inizi del 2005: nel corso di un sondaggio
telefonico sulle opinioni degli italiani nei confronti del sistema
fiscale2; e nell’ambito di un’indagine a carattere nazionale sul
consumo responsabile3.
Una volta terminate queste due ricerche, ho raccolto circa
ottanta nominativi di potenziali candidati a cui rivolgermi per le
successive interviste in profondità. In realtà, per poter accedere
alle liste di questi volontari, mi sono dovuto recare nei due
istituti che avevano condotto le rilevazioni campionarie. I
responsabili di Codres e Pragma erano infatti tenuti a tutelare la
privacy di questi intervistati. Quindi, per aggirare l’ostacolo,
abbiamo stabilito che li avrei contatti nelle loro sedi, evitando
così di far circolare all’esterno informazioni comunque
riservate.
Ben presto mi sono tuttavia accorto che la lista si sarebbe
assottigliata di molto: trenta volontari informali, durante i
sondaggi preliminari, avevano detto di non essere disponibili a
rilasciare nuove interviste, volendo con ciò rimanere
nell’anonimato; altri venti sono risultati irreperibili dopo
numerose telefonate andate a vuoto.
Quindi (volente o nolente) mi sono dovuto abituare all’idea di
poter contare su una lista effettiva di circa trenta intervistati4.
Peraltro, i colloqui iniziali con queste persone mi hanno
rassicurato sulla reale consistenza del loro impegno sociale: solo
141
Appendice. Cronistoria di una ricerca
cinque volte mi sono imbattuto in persone che si limitavano ad
aiutare occasionalmente un vicino o un parente. Nei restanti
casi si trattava di esperienze prolungate di volontariato
informale.
A quel punto, il panel degli intervistati era quasi completo;
in modo quasi casuale, avevo selezionato trentuno volontari
distribuiti su tutto il territorio nazionale. Il passo successivo è
stato quello di fissare un appuntamento per svolgere il colloquio
d’intervista.
Prospetto B - Il panel degli intervistati
Età
Condizione
occupazionale
Luogo di
residenza
Area
geografica
Alessia
Aurelio
Assunta
Anna
Consuelo
Alberto
Angelo
Giovanni
Clemente
Aldo
Carla
37
55
47
38
22
29
44
22
71
52
55
20
45
40
50
37
77
Roma
Sermoneta
Casoria (Napoli)
Bari
Caserta
Arezzo
Forlì
Roma
Roma
Brescia
Pralungo S. Eurosia
(Biella)
Avigliana (Torino)
Roma
Catania
Catania
Siracusa
Palermo
Centro
Centro
Sud e Isole
Sud e Isole
Sud e Isole
Centro
Nord Est
Centro
Sud e Isole
Nord Ovest
Nord Ovest
Fausto
Laura
Manuela
Mario
Paolo
Rita
Nord Ovest
Centro
Sud e Isole
Sud e Isole
Sud e Isole
Sud e Isole
Marta
Clara
40
40
Bologna
Bergamo
Nord Est
Nord Ovest
Demetrio
Serena
Sonia
Liliana
Valentino
30
40
28
52
30
29
Bergamo
Bologna
Brescia
Bologna
Casalecchio
(Bologna)
Trento
Nord Ovest
Nord Est
Nord Ovest
Nord Est
Nord Est
Tiziano
Stefano
Goffredo
Alex
Piero
Carola
Caterina
57
41
23
70
27
25
Contratti a progetto
Falegname
Medico
Casalinga
Studente
Studente
Coltivatore diretto
Studente
Pensionato
Dirigente
Proprietaria (bed&break
feast)
Studente-lavoratore
Impiegata (biblioteca)
Insegnante
Impiegato (ditta edile)
Proprietario di un Pub
Pensionata (ex assistente
sociale)
Funzionaria (ente pubblico)
Analista in un laboratorio
sanitario
Insegnante
Sindacalista
Contratti a progetto
Insegnante
Quadro in una società
d’ingegneria
Cameriere in una tavola
calda
Imprenditore edile
Informatico
Studente
Pensionato
Disoccupata
Studente
Vicenza
Vicenza
Trento
Cagliari
Brescia
Roma
Nord Est
Nord Est
Nord Est
Sud e Isole
Nord Ovest
Centro
Pseudonimo
142
Nord Est
Appendice. Cronistoria di una ricerca
Da allora ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per
l’Italia, raccogliendo le storie dei protagonisti dell’indagine. Ho
effettuato la prima intervista a Sermoneta, un piccolo centro nei
pressi di Latina. Era il 26 febbraio 2005; Aurelio mi ha accolto
nel soggiorno della sua abitazione; per circa due ore mi ha
raccontato del suo volontariato a favore dei bambini di
Chernobyl, senza tralasciare nulla: questo falegname di
cinquantacinque anni, mi ha aperto lo scrigno dei suoi pensieri
mentre ricostruiva la sua esperienza personale. Oltre a
descrivere in modo minuzioso il suo impegno a favore dei
reduci del disastro nucleare, l’intervistato ha espresso
compiutamente le motivazioni e il significato che egli attribuisce
alla sua attività volontaria, dando prova di sapersi rispecchiare
in quello che fa.
Questa capacità di autoanalisi l’ho ritrovata in tutti i volontari
che ho incontrato successivamente; in tal senso, il mio itinerario
di ricerca è stato suggestivo ed istruttivo, grazie alle
testimonianze vivide degli intervistati. Percorrendo il Belpaese,
ho conosciuto un vasto campionario di italiani dediti
all’altruismo. In questo viaggio, mi sono avvalso della
collaborazione di Marta Simoni che, con la sua professionalità e
competenza, mi ha aiutato nel lavoro di intervista, oltre a
fornirmi spunti e consigli preziosissimi. A lei va la mia
riconoscenza: senza il suo apporto decisivo, non sarei riuscito a
portare a termine la ricerca empirica.
L’indagine sul campo è finita il dieci ottobre 2005, quando ho
posto l’ultima domanda a Caterina, una giovane studentessa di
Roma. Gli ho chiesto se pensava di continuare ad impegnarsi in
futuro nel volontariato; lei ci ha pensato su per qualche attimo e
poi mi ha detto: “vorrei proseguire quest’esperienza; non è
volontariato, né lavoro: è una vocazione”. Riascoltando le sue
parole vibranti, ho ripensato a tutti i volti degli intervistati che
l’avevano preceduta, alla loro volontà di mettersi al servizio
degli altri.
Come si può vedere dal prospetto B, si tratta di un gruppo
composito di persone. Innanzi tutto, il dato
sull’età è
estremamente variegato; si và dai venti anni di Fausto ai
settantantasette anni di Rita; in sostanza, fra gli “altruisti senza
divisa” si ritrovano tutte le leve anagrafiche presenti nella nostra
società: giovanissimi, giovani-adulti, adulti e anziani. Anche sul
143
Appendice. Cronistoria di una ricerca
piano occupazionale, questi cittadini versano in condizioni assai
diverse: studenti, pensionati, casalinghe;
disoccupati e
lavoratori a contratto; insegnanti e impiegati pubblici;
imprenditori, artigiani, quadri in imprese private; ecc. Allo
stesso modo, è alquanto bilanciato il rapporto di genere: 15
donne e 16 uomini.
Al lettore smaliziato non sarà sfuggito che il panel dei
volontari è ben proporzionato anche a livello territoriale: gli
intervistati sono dislocati in modo abbastanza uniforme nelle
differenti ripartizioni geografiche del paese (7 Nord-Ovest; 9
Nord-Est; 6 Centro; 9 Sud e Isole); inoltre, i contesti in cui
risiedono sono molto diversificati: alcune grandi metropoli
(Roma, Bologna, Napoli, Bari, Cagliari e Palermo); le città
medie del nord industrioso (Brescia, Bergamo e Vicenza); le
realtà provinciali del Meridione (Caserta, Catania e Siracusa); le
aree municipali delle regioni rosse (Arezzo e Forlì); le piccole
comunità isolate (Avigliana, Pralungo S. Eurosia, Sermoneta).
Insomma, mi sembra di poter concludere la foto di gruppo
degli intervistati rappresenti in miniatura uno spaccato
significativo della nostra società. D’altronde, come ho ripetuto
più volte nel testo, non era mia intenzione costruire un campione
probabilistico della popolazione. Non mi interessava estendere i
risultati della ricerca a tutta la collettività degli italiani.
Piuttosto, volevo condurre uno studio esplorativo sul
volontariato informale, decifrando le sue componenti
biografiche. In tal senso, mi pare che il profilo sociale delle
persone che hanno partecipato a questo studio sia
sufficientemente articolato. In effetti, la ricerca ha portato allo
scoperto un ampio ventaglio di “tipi umani” che si dedicano
all’altruismo spontaneo.
Ma, al di là dei ragionamenti sulla “tenuta” del metodo
qualitativo, mi preme sottolineare che forse il contributo di
questa indagine va rintracciato nelle storie che ha fatto
emergere. Dopo aver ultimato le interviste, ho passato molto
tempo a leggerle (e rileggerle). I resoconti dei volontari sono
stati per me una fonte inesauribile di riflessione e conoscenza;
senza queste narrazioni autentiche non avrei mai potuto
comprendere le dinamiche dell’esperienza volontaria; per questo
ho cercato di rimanere il più possibile aderente al loro vissuto.
Spero di esserci riuscito con questo libro5.
144
Appendice. Cronistoria di una ricerca
Note
1
In particolare, la domanda era così formulata: “Lei svolge attualmente
attività di volontariato, cioè un’attività non retribuita con una finalità sociale
(escluso il servizio civile)?”. Chi rispondeva in modo affermativo, poteva
indicare se svolgeva questa attività da solo o in un gruppo spontaneo, oltre
che in diverse organizzazioni strutturate (associazioni del terzo settore, locali
o nazionali; cooperative sociali; parrocchie; partiti e sindacati, ecc.).
2
Il sondaggio è stato svolto dalla società di ricerche Pragma di Roma, per
conto dell’Iref e della Presidenza nazionale Acli, raggiungendo un campione
casuale di 1003 individui maggiorenni. Le interviste sono state realizzate
materialmente dal 20 Gennaio al 2 Febbraio 2005, utilizzando la procedura
CATI (Computer Assisted Telephone Interview); una tecnica che consente di
controllare al meglio le operazioni di raccolta dei dati, eliminando possibili
errori di codifica degli stessi.
3
La ricerca è stata condotta su un campione rappresentativo della
popolazione italiana di 1.000 cittadini in età maggiorenne. Le interviste sono
state realizzate “faccia a faccia”, nel mese di gennaio 2005. L’indagine sul
campo è stata realizzata dalla Società di ricerche Codres di Roma, per conto
dell’Iref.
4
Durante il processo di selezione telefonica degli intervistati, mi sono
reso conto che sarebbe stato estremamente difficile contattare i giovanissimi.
Difatti, risulta arduo reperire in casa gli studenti durante gli orari diurni.
Dopo vari tentativi andati a vuoto, ho deciso di rivolgermi ad alcune
associazioni che organizzano campi di lavoro volontario nei periodi estivi.
Sapevo infatti che questa attività viene svolta su basi autonome da molti
giovani: in sostanza questi ultimi scelgono di anno in anno di partecipare ad
un’iniziativa di solidarietà (principalmente nei paesi in via di sviluppo), senza
essere iscritti all’ente che la promuove. Alcune di queste organizzazioni mi
hanno consentito di spedire una e-mail in cui spiegavo gli scopi della ricerca,
oltre a richiedere la disponibilità a sottoporsi ad un’intervista libera. Quattro
giovani hanno risposto al mio messaggio; così ho potuto intervistarli.
5
Massimo Lori e Gianfranco Zucca hanno letto una versione preliminare
del manoscritto, fornendo alcuni suggerimenti e spunti critici fondamentali.
Grazie a loro ho potuto eliminare molte sviste, omissioni ed esagerazioni
presenti nel testo. Dei difetti rimasti sono ovviamente l’unico responsabile.
145
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