sintesi Aristotele

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sintesi Aristotele
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Aristotele e il Liceo
Aristotele sintesi
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La vita e le opere Aristotele nasce a Stagira nel 384 a.C., e trascorre gran parte della sua
vita ad Atene, dove è allievo di Platone e fonda il Liceo, presto soprannominato Peripato. Le
sue opere, redatte durante la lunga attività di insegnante e studioso, sono solitamente suddivise in scritti destinati alla pubblicazione (essoterici) e appunti per le lezioni, concepiti per un
uso interno alla scuola, per i quali si è parlato di “semi-pubblicazione” (acroamatici, o esoterici). Oggi possediamo solo le opere acroamatiche, in virtù dell’opera di raccolta e sistemazione che ne fece Andronico di Rodi nel I secolo a. C.: fino ad allora erano in circolazione
solo le essoteriche, oggi perdute. Gli scritti acroamatici vengono in genere suddivisi in cinque
gruppi: logica, fisica, metafisica, morale e politica, scienze poietiche.
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Tutti gli uomini per natura aspirano al conoscere Per Aristotele la filosofia è motivata
da un desiderio fine a se stesso che è connaturato all’uomo in quanto animale razionale. Il
miglior modo di vivere per l’uomo, quello che realizza al meglio la sua natura (dunque gli
assicura benessere e felicità), consiste nell’attività contemplativa. Aristotele ha così esteso le
sue ricerche in modo enciclopedico a quasi tutti i campi del sapere allora conosciuti e nelle
sue opere troviamo una trattazione minuziosa di un numero enorme di problemi che per lo
più hanno un significato esclusivamente teorico: le sue ricerche sono mosse dalla curiosità,
ed egli non si arresta fino a che non ha trovato una qualche risposta per tutte le domande che
gli vengono in mente.
� Paragrafi 4-5 �
La dottrina delle categorie
Le categorie La dottrina delle categorie rappresenta la più importante teoria elaborata
da Aristotele. Il punto di partenza di tale dottrina va ricercato nella dialettica platonica,
che Aristotele ebbe modo di studiare durante gli anni trascorsi nell’Accademia. L’interesse di Aristotele, tuttavia, si rivolge principalmente al piano linguistico implicato dalla
dialettica, nel tentativo di rispondere alla seguente domanda: come individuare i rapporti di predicazione corretti da quelli scorretti? Aristotele chiama categoria (traducibile
con il termine “predicato”) ogni termine detto senza connessione: ad esempio
“uomo”, “animale”, “cane”, “nero”, “in casa” ecc. Le categorie hanno valore universale
(non si riferiscono quindi a un preciso uomo o a una certa casa) e corrispondono sommariamente ai concetti universali di cui parlava Platone; sono al contempo i predicati più
universali. Aristotele individua dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, agire, patire. Ogni termine “semplice”, senza connessione, deve appartenere a una di queste categorie. A ciascuna categoria è associata
una precisa domanda: “che cosa?” (sostanza), “quanto?” (quantità), “come?” (qualità)
ecc. Sul piano linguistico, infatti, le dieci categorie corrispondono ai dieci tipi di predicazioni che si possono fare, cioè ai vari modi con cui è possibile attribuire un predicato a un
soggetto. Sul piano della realtà, invece, le categorie individuano quelle differenze originarie e irriducibili proprie del reale.
La categoria di sostanza Di tutte le categorie la più importante è la sostanza, in quanto presupposta da tutte le altre. Sul piano linguistico, infatti, una frase, per essere sensata, deve avere
un soggetto, e il soggetto è ciò che corrisponde alla sostanza; tutte le altre categorie corrispondono, invece, ai suoi predicati. Analogamente, sul piano della realtà, le sostanze indicano le
cose che esistono di per sé, mentre le altre categorie rappresentano gli attributi (o accidenti)
che esistono in relazione a un soggetto. La sostanza è definita sostrato (nel senso di “ciò che
sta sotto”) proprio perché è il fondamento che regge tutti i suoi attributi. Aristotele, tuttavia,
evidenzia la complessità di tale categoria distinguendo tra sostanza individuale (ad esempio
“Socrate”) e sostanza universale (ad esempio “uomo”). Mentre, dal punto di vista linguistico, la sostanza universale può fungere sia da soggetto sia da predicato, la sostanza individuale
può essere soltanto soggetto. Per questo Aristotele chiama la sostanza individuale anche
sostanza prima, e la sostanza universale sostanza seconda. Nello stesso modo, sul piano
della realtà, la sostanza individuale ha la priorità: per fare un esempio, se non esistesse Socrate,
non esisterebbero nemmeno i suoi attributi (uomo, animale, ecc).
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La divisione delle scienze Aristotele suddivide le scienze in tre gruppi: 1) le scienze teoretiche, cioè la fisica, la metafisica e la matematica, che hanno come fine la conoscenza; 2) le
scienze pratiche, cioè l’etica e la politica, che hanno come fine l’azione, 3) le scienze poietiche, tra cui la poetica, la retorica e le attività artigianali, che hanno come fine la produzione.
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La logica aristotelica
La logica Nella divisione aristotelica delle scienze non figura la logica, o meglio la disciplina che in seguito prenderà questo nome, dal momento che essa non ha come oggetto un
aspetto particolare della realtà, ma si occupa di studiare, preliminarmente, la metodologia e
gli strumenti utilizzati dalle altre scienze. Organon è, infatti, il termine greco (traducibile con
“strumento”) che dà il titolo agli scritti aristotelici di logica. La logica studia in primis le categorie, poi le proposizioni, che sono affermazioni in cui i termini semplici sono connessi tra
loro. La logica si occupa solamente delle proposizioni assertorie (o asserzioni), cioè le
proposizioni passibili di verità o falsità. Le asserzioni differiscono tra loro per qualità, possono essere cioè affermative o negative, e per quantità, possono essere universali o singolari
(e quindi estranee alla scienza, dal momento che non esiste scienza degli enti individuali).
Esistono quindi quattro tipi di proposizioni, tra cui intercorrono varie relazioni: universale
affermativa (“tutti gli uomini sono mortali”), universale negativa (“nessun uomo è mortale”); particolare affermativa (“qualche uomo è greco”); particolare negativa (“qualche uomo non è greco”).
Il sillogismo Aristotele è stato il primo a teorizzare il sillogismo, cioè quella forma di
argomentazione logica nella quale, a partire da due proposizioni, si trae necessariamente
una conclusione. Il sillogismo è composto da due premesse (una maggiore e una minore) e una conclusione, nelle quali entrano in gioco tre termini: soggetto, predicato e termine medio, il quale compare nelle due premesse ma non nella conclusione e consente di connettere fra loro gli altri due termini. Un esempio tipo di sillogismo potrebbe essere il seguente: “Tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “I greci sono uomini” (premessa
minore), “I greci sono mortali” (conclusione). Aristotele enuncia inoltre diverse forme di sillogismo in base alla posizione del termine medio nelle premesse.
La validità del sillogismo e i principi La verità di un sillogismo dipende dalla natura delle sue premesse. Se le premesse sono false, lo sarà anche la sua conclusione.
Del resto, il fatto che il sillogismo sia composto interamente da proposizioni vere non ne
garantisce la validità. Solo il carattere universale e necessario delle premesse consente di
raggiungere una conclusione universale e necessaria. Aristotele chiama questo tipo di
sillogismo scientifico (o deduttivo). Esso si basa su premesse vere e prime, cioè su
principi primi assolutamente evidenti, che sono anteriori alle conclusioni e anzi causa
di esse. Aristotele distingue due tipi di principi: 1) i principi propri di ogni singola scienza, cioè le ipotesi e le definizioni (ad esempio, per la geometria le definizioni degli enti
geometrici e per l’aritmetica le definizioni dei numeri); 2) i principi comuni alle varie
scienze, o assiomi.
Necessità del sillogismo dialettico Alla domanda “come individuare i principi alla
base delle scienze?” Aristotele risponde chiamando in causa la necessità del ricorso
all’esperienza e al procedimento induttivo (inteso come il passaggio dal particolare all’universale). All’atto pratico, dunque, è impossibile giungere a premesse assolutamente prime
e vere, perciò l’unica possibilità è quella di lavorare sull’esperienza utilizzando il metodo
induttivo, il quale, tuttavia, potrà pervenire soltanto a conclusioni altamente probabili e
mai assolutamente vere (l’induzione completa è infatti impossibile). Per questo, Aristotele
conclude che il metodo deduttivo, proprio del sillogismo scientifico, non è utile alla ricerca
scientifica, ma fungerà solo come strumento di controllo e insegnamento. Il metodo ordinario di quasi tutte le scienze è per Aristotele quello dialettico, proprio del sillogismo
dialettico, che è basato su premesse non vere ma solo probabili, chiamate èndoxa. Sono
èndoxa le opinioni espresse da uomini autorevoli e per le quali esiste un largo consenso. Pur
essendo più debole del metodo deduttivo proprio del sillogismo scientifico, il metodo dialettico perviene a un valore dimostrativo elevatissimo.
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La fisica
Principi teorici generali
Le quattro cause e il finalismo biologico La realtà per Aristotele è costituita da individui
provvisti di materia e movimento. L’esistenza del movimento non necessita di dimostrazione, ed è anzi l’ipotesi su cui si basa la scienza fisica. Nella sua fisica, Aristotele distingue
quattro cause: la causa materiale, la causa formale, la causa efficiente e la causa
finale. Per esemplificare questi concetti, prendiamo il caso di un artista che scolpisce una
statua: la pietra è la causa materiale; la figura nella mente dell’artista rappresenta la causa
formale; l’artista è la causa efficiente (o principio motore); mentre la causa finale si manifesta
nel fine, nello scopo che presiede alla realizzazione della statua. Nel caso degli esseri viventi,
afferma Aristotele, la causa finale si identifica con la piena realizzazione della propria forma.
La fisica aristotelica è infatti permeata dal finalismo biologico, in chiave antiplatonica: a differenza di Platone, che credeva in un unico fine per tutte le cose (identificato nel Bene), Aristotele individua invece il fine di ogni essere vivente nella realizzazione della sua forma naturale.
La spiegazione del mutamento Gli enti sensibili sono per Aristotele un’unione di forma
e materia. Tale binomio viene chiamato nella Metafisica sinolo. Per spiegare il mutamento, Aristotele introduce il concetto di privazione. Ogni mutamento è acquisizione di una
nuova forma (nell’esempio della statua, lo scultore introduce nel blocco di marmo una forma), quindi passaggio non dalla materia alla forma (perché il blocco di marmo ha una sua
forma anch’esso), ma dalla privazione alla forma. Un blocco di marmo può diventare una
statua proprio perché privo della forma della statua. D’altro canto, non tutto può diventare
una statua (ad esempio, un uomo non lo può fare). Un’ulteriore distinzione aristotelica è
quella tra atto e potenza. La potenza è la predisposizione della materia ad assumere una
certa forma; essa indica l’insieme di tutte le privazioni che ineriscono a un soggetto. L’atto è
invece la forma stessa realizzata. Il mutamento è quindi il passaggio dalla potenza all’atto.
Da sottolineare è il fatto che Aristotele sostiene l’anteriorità, sia dal punto di vista logico sia
da quello reale, dell’atto rispetto alla potenza: il blocco di marmo non potrebbe diventare
una statua se tale forma non esistesse già da qualche parte, ad esempio nella mente dello
scultore.
Caratteristiche della realtà fisica
Il mondo sublunare Concretamente, la realtà naturale per Aristotele è composta da quattro elementi, gli stessi di Empedocle: terra, aria, acqua, fuoco. A tali elementi si associano
quattro qualità: il freddo, il caldo, il secco e l’umido. Aristotele ritiene tuttavia, a differenza
della tradizione presocratica, che questi elementi si possano trasformare l’uno nell’altro,
scambiandosi una delle qualità costitutive (ad esempio, se la terra secca diventa umida si
genera l’acqua). Ogni elemento ha una naturale tendenza a muoversi di moto rettilineo
verso il proprio luogo naturale: l’alto per i due elementi leggeri (fuoco e aria); il basso per
quelli pesanti (terra e acqua). In base a questa teoria, il mondo sublunare risulta divisibile in
quattro sfere: una più interna composta di terra, e poi progressivamente le altre tre, costituite rispettivamente di acqua, aria, fuoco, anche se Aristotele ammette continui scambi tra i
quattro elementi. Il peso degli oggetti deriva dalla tendenza dei quattro elementi a raggiungere il proprio luogo naturale.
I corpi celesti A differenza degli oggetti del mondo sublunare, i corpi celesti, incorruttibili, si
muovono di moto circolare e non rettilineo, e sono quindi composti da un altro elemento,
trasparente, che Aristotele chiama etere. Per spiegare il fatto che il moto apparente dei corpi
celesti non sia perfettamente circolare (dato di fatto, questo, già evidente nell’Antichità) Aristotele associa a ogni pianeta delle sfere, che si muovono di moto circolare uniforme insieme a esso.
Lo spazio e il tempo Aristotele chiama lo spazio luogo, e definendolo come il limite del
corpo contenente (nel caso di una tazza, lo spazio contenuto dai suoi contorni), lo associa
sempre ai corpi che lo occupano. Una delle conseguenze di tale teoria è la negazione del
vuoto, uno dei cardini della fisica aristotelica, dal carattere decisamente antidemocriteo. Se
Democrito aveva sostenuto che il vuoto fosse indispensabile per spiegare il movimento, Ari-
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stotele risponde invece che proprio ammettendo il vuoto, il movimento risulterebbe incomprensibile, poiché non sarebbe postulabile alcun ordine naturale.
Il concetto aristotelico del tempo è strettamente legato a quello di moto, a dimostrare nuovamente la credenza aristotelica nella priorità e nell’esistenza indipendente del moto. Il tempo è definito come uno dei modi con cui si misura il movimento, secondo il prima e il poi:
quindi il tempo è il misurante, il moto il misurato.
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L’anima e la conoscenza
L’anima e le sue funzioni Aristotele definisce l’anima – oggetto di studio di quella branca
della fisica che è la psicologia – il principio vitale degli esseri viventi e sostiene che ne
sono provvisti, oltre all’uomo, sia gli animali sia le piante. Applicando il consueto binomio
materia-forma, l’anima è la forma di cui il corpo è materia, mentre l’essere vivente è il sinolo, la sostanza che deriva dall’unione dei due. Secondo una celebre definizione aristotelica,
l’anima è l’entelechia (o atto) di un corpo organico che ha la vita in potenza. A differenza di Platone, che intendeva l’anima come sostanza diversa dal corpo e immortale, Aristotele non crede nell’inseparabilità dell’anima dal corpo di cui essa è forma, né, quindi, nella
sua immortalità. All’anima sono associate tre funzioni: vegetativa (che presiede alla riproduzione e al nutrimento), sensitiva (presente in tutti gli animali), razionale (propria solo degli
esseri umani).
La conoscenza sensibile Alla funzione sensitiva dell’anima è legata la conoscenza sensibile. Applicando la coppia potenza-atto, Aristotele spiega che la conoscenza sensibile avviene
quando, mediante il contatto tra organo di senso e cosa percepita, ciò che è conoscente in
potenza (organo di senso) e ciò che è conoscibile in potenza divengono rispettivamente
conoscente e conosciuto in atto. La conoscenza sensibile è infallibile quando l’organo di
senso si rivolge al suo sensibile proprio (ad es. l’occhio al colore). Gli errori avvengono quando si attribuisce una forma sensibile percepita correttamente al soggetto sbagliato. Aristotele
parla inoltre di sensibili comuni, che vengono colti da più sensi, come il movimento, la
quiete, il numero, la grandezza e la figura. Alla funzione sensitiva sono associate due
facoltà: quella appetitiva, che fa seguire il piacere e fuggire il dolore, e quella locomotoria, cioè la capacità di muoversi in funzione degli appetiti.
La conoscenza intellettiva Alla funzione razionale dell’anima è legata la conoscenza
intellettiva. Nella spiegazione delle dinamiche che generano tale forma di conoscenza, Aristotele procede nel medesimo modo della conoscenza sensibile: esistono delle forme intelligibili e un intelletto in potenza, capace di accogliere tali forme. La conoscenza si genera
con il passaggio all’atto di questa doppia potenzialità. Tuttavia, nel caso della conoscenza
intellettiva, il discorso si complica, in quanto Aristotele introduce un secondo intelletto,
tradizionalmente definito attivo (o produttivo), che è responsabile dell’intero processo;
infatti, solo qualcosa che è già in atto può realizzare un passaggio dalla potenza all’atto. La
funzione di questo intelletto è paragonata da Aristotele a quella della luce, che è ciò che fa sì
che i colori – potenzialmente visibili – siano effettivamente visti. Con buona probabilità, è
qui rintracciabile un ulteriore elemento platonico; tale tesi è corroborata anche dal fatto che
Aristotele definisce l’intelletto attivo, separato dalla materia, immortale ed eterno.
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La biologia aristotelica
Composizione degli esseri viventi Anche gli esseri viventi sono composti per Aristotele
dai quattro elementi, che esistono in natura allo stato puro o in forma di composti. Quando
gli elementi si fondono tra loro compiutamente, danno origine a una nuova sostanza; Aristotele chiama tali composti omeomeri (parti uguali) in quanto risultano costituiti, anche una
volta divisi, da parti che conservano le stesse caratteristiche di partenza. Negli esseri viventi,
le parti omeomere sono i tessuti, che unendosi generano gli organi. L’essere vivente è dunque costituito da parti omeomere e da parti non omeomere.
Ordine finalistico della natura Aristotele concepisce la natura ordinata in senso
gerarchico-finalistico, dai gradi di perfezione più bassi (insetti e molluschi), a cui corrispondono organi e funzioni relativamente semplici, fino al vertice, rappresentato dall’essere
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umano. Tale finalismo spiega anche il rapporto tra gli organi e le rispettive funzioni: l’uomo
ha le mani in quanto è un essere intelligente, e non viceversa, come sosteneva Anassagora.
Dal momento che Aristotele identifica il fine di ogni essere vivente nella realizzazione della
propria forma, nel modo più perfetto possibile, esclude ogni ipotesi evoluzionistica, e sostiene la fissità della specie.
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La metafisica (o scienza prima)
Il motore immobile Nel suo risalire alle cause prime del mondo fisico – si ricordi che per
Aristotele spiegare significa, appunto, risalire alle cause – Aristotele giunge alla necessità
concettuale di postulare una causa non fisica del mondo fisico. Poiché il moto, per Aristotele, è eterno, senza inizio né fine, deve esistere una sostanza che si muove eternamente: tale
sostanza sono i corpi celesti, composti di etere, che realizzano costantemente la loro potenzialità di muoversi di moto circolare uniforme. Poiché, tuttavia, niente vieta che in un dato
momento la loro potenzialità cessi di trasformarsi in atto, per Aristotele deve necessariamente esistere una sostanza che è atto puro, che è priva di materia e di potenza, e che è
immutabile. Tale sostanza perfetta, che esiste necessariamente, ha il nome di motore
immobile ed è la causa necessaria che sola può spiegare l’eternità del moto. Essendo immateriale ma sempre in atto, il motore immobile non può che essere puro pensiero, o meglio,
pensiero di pensiero. Aristotele attribuisce a esso la beatitudine tradizionalmente associata a un dio.
La filosofia prima o «scienza dell’essere in quanto essere» In base a quanto Aristotele
dice nel VI libro della Metafisica, lo studio del motore immobile compete alla filosofia prima, o meglio a quella parte della filosofia prima definibile come teologia. Tuttavia, la filosofia prima non si esaurisce con tale studio. Aristotele definisce la filosofia prima (in contrapposizione alla fisica che è la filosofia seconda) come la «scienza dell’essere in quanto
essere» (che corrisponde alla moderna ontologia). L’espressione “essere in quanto essere”
individua lo studio di quelle caratteristiche della realtà che appartengono alle cose per il solo
fatto che “sono”, e dunque sono anche in assoluto le più generali. Ma se l’essere non è un
genere unico, come è possibile che sia studiato da una sola scienza? Aristotele risolve il problema sostenendo che tutti i vari significati dell’essere si riferiscono al suo significato fondamentale, che è quello di “sostanza”. Pertanto la scienza dell’essere in quanto essere viene in
ultima analisi a coincidere con la scienza della sostanza e delle sue cause. Nei libri
centrali della Metafisica Aristotele giunge alla conclusione che la sostanza in senso primario, ovvero la causa per cui una sostanza è tale, è la forma; essa corrisponde all’essenza
di ogni singola cosa e rappresenta la via media tra l’individuo e l’universale.
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L’etica
La vita buona Nell’Etica nicomachea, il suo scritto di etica più completo, Aristotele identifica
il bene con la vita buona o felicità (in accordo con l’eudemonismo greco). A differenza
di Platone, tuttavia, Aristotele nega che sia in qualche modo utile indagare e definire astrattamente il bene in sé (l’idea platonica del Bene) ma ritiene che il metodo da seguire sia,
ancora una volta, quello dialettico e il punto di partenza più appropriato siano gli èndoxa, le
opinioni umane più autorevoli su che cosa sia la vita buona. Poiché, secondo Aristotele, la
felicità di qualsiasi cosa consiste nel realizzare al massimo grado le proprie potenzialità naturali, e poiché la natura dell’uomo si identifica con la razionalità, la vita buona viene a coincidere con l’esercizio della ragione sviluppata al massimo grado, cioè secondo virtù. La vita
più felice è quindi quella di chi si dedica a conseguire il più alto grado possibile di sapere (da
qui il primato della vita contemplativa). Dalla felicità l’indagine si sposta quindi alla virtù.
Aristotele opera un’importante distinzione tra le virtù dianoetiche, che riguardano la conoscenza in quanto tale e sono proprie della parte intellettuale dell’anima, e le virtù etiche (ad
esempio, il coraggio, la temperanza, la generosità), che riguardano la vita di relazione e corrispondono alla facoltà appetitiva dell’anima, in quanto guidata dalla ragione.
Il giusto mezzo e la necessità del ricorso all’esperienza Alla domanda su come sia possibile capire qual è in ogni circostanza il comportamento etico eccellente, Aristotele risponde
con il criterio del giusto mezzo: ogni virtù etica è, infatti, considerata il punto medio tra
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i due estremi cattivi. Tuttavia, ancora in polemica con Platone, Aristotele non crede che sia
possibile definire in termini matematici e quindi esatti tale punto medio e sostiene la necessità di ricorrere, di volta in volta, all’esperienza. In sostanza, una volta definito il bene con
l’esercizio della razionalità secondo virtù, l’indagine teorica si arresta e al suo posto subentra
il rinvio all’esperienza, e a quei modelli di virtù che la comunità unanimemente riconosce
come tali.
L’acquisizione della virtù Aristotele esclude che la virtù etica sia una qualità naturale o
che sia insegnabile come una vera scienza; essa è piuttosto una disposizione permanente (abitudine) a compiere certe azioni. Ne deriva che, per Aristotele, si diventa virtuosi
abituandosi a compiere azioni virtuose: una volta che l’abitudine si è formata, non si può
tornare indietro, e la scelta di ciò che è bene avviene automaticamente. A differenza di
Socrate, che riteneva che la conoscenza del bene fosse condizione necessaria e sufficiente per
diventare virtuosi, Aristotele privilegia invece la consapevolezza pratica del bene sviluppata
tramite l’esercizio della virtù.
� Paragrafo 12 �
La politica
L’uomo: animale politico La celebre affermazione di Aristotele «l’uomo è un animale
politico» si comprende in relazione al categorico rifiuto che lo Stagirita nutriva nei confronti
della prospettiva convenzionalistica e individualistica sostenuta da alcuni sofisti, che postulavano la natura convenzionale delle leggi fino ad ammettere l’esistenza di un conflitto insanabile tra gli individui e la società. Il punto di partenza di Aristotele è invece l’idea che l’uomo
possa promuovere la vita buona solo all’interno di una comunità.
L’òikos Fedele all’idea che la vita buona sia perseguibile solo operando in armonia con i
dettami della natura, Aristotele individua la forma basilare e naturale di comunità politica
nell’òikos (traducibile con il termine “famiglia”), una sorta di azienda agricola familiare composta da genitori, figli, schiavi domestici, servi rurali e animali da lavoro. Anche i rapporti
interni tra i vari membri dell’òikos seguono quelle che Aristotele considera inclinazioni naturali: l’uomo adulto e libero detiene tutti i diritti, incluso quello di comandare, mentre la
donna, a cui è estranea l’attitudine al comando, pur avendo la medesima libertà del marito è
tenuta a obbedirgli e non può partecipare alla vita pubblica. La situazione servile si confà
invece agli schiavi, che sono tali per natura in quanto non sono in grado di scegliere autonomamente i propri fini. L’òikos, nella concezione aristotelica, rappresenta anche il nucleo
dell’attività economica.
La politèia Aristotele nella Politica espone le possibili forme di governo, elencando sei costituzioni possibili, in base al numero di governanti e alla forma negativa o positiva in cui queste si presentano, a seconda che i governanti operino a beneficio loro o della comunità:
regno e tirannia (governo di uno, rispettivamente buona e cattiva), aristocrazia e oligarchia (governo di pochi, rispettivamente buona e cattiva), politèia e democrazia
(governo di molti, rispettivamente buona e cattiva). Di queste costituzioni, la migliore per
Aristotele è la politèia. Se formalmente nella politèia tutti i cittadini maschi, liberi e maggiorenni possono avere accesso alle cariche politiche, all’atto pratico egli ammette che abbiano
più diritto di governare coloro che godono di una posizione sociale e di qualità intellettuali
più elevate, in accordo con il principio della giustizia distributiva secondo cui è giusto
che chi vale di più abbia anche di più. Per questo la critica concorda nel ritenere che la forma migliore di governo sia per Aristotele una singolare mescolanza di democrazia e aristocrazia: per lo più il potere di governare sarà in mano ai migliori (in greco àristoi).
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Poetica e retorica Poetica e retorica, in quanto scienze che producono un determinato
oggetto, sono scienze “poietiche”. Della riflessione aristotelica sulla poetica si è conservato
solo lo scritto sulla tragedia, che ha goduto di una straordinaria fortuna fino al Romanticismo. Secondo Aristotele la poesia è imitazione della natura, e quindi come la natura è soggetta a finalismo: le forme poetiche si sviluppano verso la perfezione del proprio genere (nel
caso specifico la tragedia attica del V secolo). La poesia tragica ha un ruolo importante nella
comprensione della realtà, perché, a differenza della storia, che enumera fatti contingenti, si
sforza, come la filosofia, di assumere un’ottica universale, mostrando le strutture paradigma-
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tiche dei comportamenti e delle vicende umane. Dal punto di vista etico, inoltre, la poesia
tragica agisce sullo spettatore come catarsi, ossia come una “purificazione” che avviene
mediante il coinvolgimento emotivo suscitato dalla scena. L’interesse di Aristotele per la
retorica risale invece al periodo giovanile, in cui se ne occupò in relazione alla dialettica: se
questa persuade attraverso dimostrazioni, la retorica lo fa utilizzando strumenti razionalmente più deboli e a volte capziosi (l’entimema al posto del sillogismo, l’esempio al posto
dell’induzione). I tre grandi generi retorici sono il deliberativo, il giudiziario e l’epidittico.
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