Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Gus Van Sant torna sul grande schermo con una pellicola prodotta da Hollywood: non un film sperimentale alla Elephant, ma un lavoro a tesi ambientalista, sceneggiato da Matt Damon e John Krasinsky, cui Van Sant presta però la sua abilissima e mai banale capacità registica. scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: scenografia: costumi: musica: distribuzione: 106 MINUTI USA 2012 GUS VAN SANT DAVE EGGERS MATT DAMON, JOHN KRASINSKI LINUS SANDGREN BILLY RICH DANIEL B. CLANCY JULIET POLCSA DANNY ELFMAN BIM interpreti: MATT DAMON (Steve Butler), JOHN KRASINSKI (Dustin Noble), FRANCES MCDORMAND (Sue Thomason), ROSEMARIE DEWITT (Alice), SCOOT MCNAIRY (Jeff Dennon), TITUS WELLIVER (Rob), HAL HOLBROOK (Frank Yates). Gus Van Sant Gus Van Sant è nato a Louisville, Kentucky, il 24 luglio 1952. Figlio di un commesso viaggiatore, passa un'infanzia da girovago insieme al genitore. Ai tempi del college scopre la vocazione alla pittura, ma si avvicina anche al cinema, attratto dalle infinite possibilità offerte dalla pellicola. Completa gli studi alla scuola d'arte d'avanguardia Rhode Island School of Design, dove matura un interesse verso le tecniche del cinema sperimentale. Dopo il diploma realizza diversi cortometraggi in 16mm, e successivamente si è trasferisce a Hollywood, dove ha collaborato ad un paio di non memorabili film diretti da Ken Shapiro. Durante la sua permanenza a Los Angeles, Gus Van Sant ha diretto Alice in Hollywood (1981), un mediometraggio in 16mm. In questo periodo inizia a diventare un punto di riferimento del cinema indipendente americano. Dagli anni Ottanta le produzioni indipendenti di Gus Van Sant, come The Discipline of DE (1978), tratto da un breve racconto di William Burroughs, o Five Ways to Kill Yourself (1986), cominciano a ottenere diversi riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 1985 esordisce alla regia di un lungometraggio con Mala Noche, e nel 1989 dirige Drugstore Cowboy , buon successo internazionale, seguito da Belli e dannati (1991), grande successo di critica e di pubblico considerato dai più il suo capolavoro (con protagonisti Keanu Reeves e River Phoenix). A quest'ultimo, morto giovanissimo, sarà dedicato il film successivo nella versione rimontata, Cowgirl - Il nuovo sesso (1993), tratto dal romanzo cult Il nuovo sesso: Cowgirl, di Tom Robbins, con una giovanissima Uma Thurman nel ruolo della protagonista. Il film fu però, rispetto ai precedenti, un insuccesso. Con Da morire (1995), Van Sant chiude temporaneamente la fase indipendente. Segue una fase 'hollywoodiana', in cui il regista si piega alle regole delle grandi major e dirige film mainstream che riscuotono ampi consensi: Will Hunting - Genio ribelle 1997, sceneggiato e interpretato da Matt Damon e Ben Affleck, per il quale riceverà una nomination all'Oscar come miglior regista, mentre i due giovani neosceneggiatori vincono l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale e Robin Williams quello per il miglior attore non protagonista. Nel 1999 vince il Razzie Award dedicato al peggior regista dell'anno per il remake di Psycho, un'opera nella quale Van Sant ricalca fotogramma per fotogramma il capolavoro di Hitchcock, e che per alcuni è invece insieme uno splendido omaggio e un lavoro di genio. Nel 2000 dirige Scoprendo Forrester, con Sean Connery: il film procura al regista il Gran premio della Giuria al Festival internazionale del cinema di Berlino. Nel 2000 Van Sant torna alle produzioni indipendenti con il film Gerry, poco noto ma molto apprezzato da una nicchia di estimatori. Il film, interpretato da Matt Damon e Casey Affleck, rappresenta un punto di svolta nello stile registico di Van Sant, che non nasconde di essersi ispirato al regista ungherese Bela Tarr. Gerry costituisce il primo capitolo di una trilogia dedicata alla giovinezza e alla morte (Elephant e Last Days i due successivi), nella quale, rinunciando al ritmo del montaggio, si fa portavoce di una concezione lenta e meditativa del tempo cinematografico e penetra nell'interiorità dei personaggi mantenendo nel contempo uno sguardo distaccato e quasi documentaristico. Con Elephant Van Sant trionfa a Cannes (Palma d'oro e migliore regia). Il film è una poetica e intensa ricostruzione della tragica vicenda accaduta nel Liceo di Columbine, nella quale lo stile visivo e la struttura del film riescono a esprimere in maniera compiuta il bisogno di indagarne le ragioni e insieme l'impossibilità, di fronte a un fatto simile, di esprimere un giudizio nei termini più consueti ai mass-media, cinema incluso. Con Last Days (2005), interpretato da Michael Pitt e Asia Argento, si ispira alle ultime ore del leader dei "Nirvana" Kurt Cobain. Con Paranoid Park (2007), il regista esplora il mondo degli skaters e della violenza giovanile nella società americana. Il film descrive il percorso interiore, il flusso di coscienza di un sedicenne in preda ai sensi di colpa per l'omicidio involontario di un inserviente ferroviario. Con questo lavoro Van Sant ottiene un ottimo successo di critica ma viene snobbato dal pubblico. Nel gennaio del 2009 viene candidato all'Oscar come miglior regista per un film nuovamente “hollywoodiano”, che ottiene un buon successo. Si tratta di Milk, film biografico sulla vita di Harvey Milk, primo consigliere comunale apertamente gay assassinato nel 1978: una figura che aveva colpito Van Sant al punto di spingerlo, poco tempo dopo la sua morte, a fare coming out dichiarando la propria omosessualità. Il film ottiene otto candidature all'Oscar e vince due statuette per il miglior attore protagonista (Sean Penn) e per la miglior sceneggiatura originale. Nel 2011 Van Sant dirige l'episodio pilota del serial televisivo Boss, partecipando al progetto anche come produttore esecutivo. Sempre nel 2011 torna al cinema con L'amore che resta, struggente love story interpretata da Mia Wasikowska e dall'esordiente Henry Hopper. Del 2012 è invece Promised Land, sceneggiato e interpretato da Matt Damon e John Krasinski; inizialmente il film doveva essere il debutto alla regia di Matt Damon, ma a causa di alcuni problemi di pianificazione dovette rinunciare. Nel febbraio del 2012 la regia del film venne quindi affidata a Gus Van Sant. La parola ai protagonisti Intervista a Matt Damon Come accade all'amico e socio Ben Affleck, che quest'anno vince tutto con il suo Argo, anche Matt Damon scalpita ad Hollywood. E non si accontenta di una carriera di attore solido e rispettato. E così ha scritto (insieme al co-protagonista John Kesinsky), interpretato, prodotto il nuovo film di Gus Van Sant, Promised Land. E - ci racconta a Berlino dove il film è stato presentato in concorso - “In un primo tempo dovevo dirigere io, ma quando i miei programmi di lavoro si sono complicati, ho pensato che mi potevo fidare solo di lui”. Con Van Sant a dirigerlo, aveva già vinto 15 anni fa un Oscar da sceneggiatore per Will Hunting Genio Ribelle. Il protagonista è un uomo che batte le campagne disastrate dalla crisi, proponendo guadagni milionari in cambio del permesso di estrarre gas naturale da quei campi, con il fracking, un sistema amato dalle compagnie del gas e anche dal presidente Obama, molto meno dagli ambientalisti. Come dimostrano anche le polemiche che in America hanno accompagnato il film. “Ma in realtà in Promised Land il tema ambientalista è secondario. Noi volevamo interrogarci sull'identità del Paese, da dove viene, dove sta andando...” Tu non sei esattamente un ragazzo di campagna, sei dell’east coast, quindi cosa ti ha attratto a tal punto da spingerti a scrivere questa storia? Quello che davvero volevamo era scrivere dell’America dei giorni nostri, del tipo dove siamo oggi. Stavamo parlando dell’identità americana, da dove venivamo da dove veniamo e dove siamo diretti. Sapevamo di volere un finale pieno di speranza e volevamo che il film fosse a favore della collettività e della democrazia. Inizialmente John aveva discusso un po’ delle sue idee con Dave Eggers (a cui si deve la paternità della storia originale) il quale però successivamente, iniziando a lavorare ad un nuovo libro, non ebbe più tanto tempo libero da dedicare al progetto ed è così che John [Kesinsky] portò tutto il materiale da me e decidemmo di iniziare a scrivere insieme. Durante la settimana di solito riguardavamo tutti gli appunti ognuno per sé facendo alcune note a margine e poi nel fine settimana ci riunivamo per discuterne ricominciando tutto daccapo. Dopo un paio di settimane ci fu chiaro che stavamo effettivamente facendo qualche progresso e che tutto quello che avevamo scritto era davvero buono. Così iniziammo a dire frasi del tipo ‘Beh, penso che stiamo davvero creando un film qui. Sta davvero succedendo’ Eravate già tanto esperti di ‘fracking’ [trivellazione del suolo per l’estrazione di gas naturale] o avete dovuto fare delle ricerche? Abbiamo fatto un sacco di ricerche. Ho visto e letto storie a riguardo ma nessuna di queste faceva particolare attenzione a questa attività. In passato avrei potuto cercare online e informarmi ma con quattro figli non avrei avuto il tempo di leggere articoli perché poi in effetti non è che fossi preso dalla faccenda più di tanto avendo altre cose per la testa. Ma poi è diventata la cosiddetta cornice del nostro film e abbiamo iniziato davvero con le ricerche. E così più cercavamo e più pensavamo ‘Wow, è davvero perfetto perché le persone sono così divise’. I problemi erano così complessi e per alcune persone questa attività era per la vita. C’erano tante varianti da considerare e tante responsabilità da parte dell’industria energetica. In questo momento è un argomento molto dibattuto, anche nello stato di New York, dove vivo. C'è una battaglia continua tra le persone che vorrebbero affittare le proprie terre e chi non vuole le compagnie del gas. Puoi parlarci un po' di com’è stato riunirsi con Gus Van Sant a distanza di 15 anni da Good Will Hunting? Ti sei preso del tempo per pensare a dove sei arrivato oggi? La mia vita è molto diversa rispetto a 15 anni fa ma l’amore per quello che faccio non è cambiato per niente, ma adesso ho acquisito molta più conoscenza. Ho molta più esperienza rispetto a 15 anni fa. Ho apprezzato di più Gus adesso perché, sai, lui è uno di quei registi che risulta sempre calmo e rilassato. E se non lo si conosce si potrebbe anche pensare che non stia facendo effettivamente un gran che cosa che è esattamente l’opposto. E siccome mi ero preparato ad affrontare Promised Land da regista [Matt Damon ha rinunciato alla regia del film tempo fa per star più vicino alla sua famiglia], sono riuscito a vedere molte più cose e ad apprezzare di più l’immane lavoro di Gus; ho visto molte cose che lui ha fatto alle quali io stesso avevo pensato e molte altre che sono scaturite dal suo incredibile estro creativo. È stata dura decidere di abbandonare la regia del film? È stata molto dura per me rinunciare. Ma a rendere il tutto meno pensante per me è che alla fine il film è stato diretto da Gus. Non avrei potuto farlo a causa dei miei impegni, personali e non. Sarei dovuto stare lontano dalla mia famiglia troppo a lungo e questa sarebbe stata un’enorme distrazione per me e sono sicuro che non avrei fatto un buon lavoro per questo motivo. Allora, com’è stato, quando eri ‘imprigionato’ nel tuo personaggio, sentire gli altri attori pronunciare le battute scritte da te, è stata una distrazione o un piacere aggiunto? Si sente di più. È come se sentissi di non stare lavorando. È come se, se io e te stessimo girando una scena e facendo una conversazione, e una battuta non funzionasse e non fosse lavoro per nessuno dei due e tu lo avvertissi, lo sentirei anche io perché vorrebbe dire che qualcosa nella nostra interazione non funziona. Recitare e scrivere sono legati nella maggior parte dei casi e quando c’è qualche problema si risolve solo se riesci a sentirlo veramente entrando in sintonia con la storia e il tuo personaggio. È come se fosse tutto un trucco magico. È un’abilità che acquisisci con l’esperienza. Adesso che sei un attore ‘stagionato’, scegli i tuoi ruoli in maniera differente? Oh, grazie! Beh nonostante tutto lavorare con Gus mi lascia sempre abbastanza stordito, in senso buono ovviamente. Mi sento incredibilmente fortunato a lavorare con persone come lui ancora una volta – o come Soderbergh, Clint, Paul Greengrass…dopo 15 anni sono arrivato alla conclusione che un attore è un tramite e che la scelta più importante, quella che fa il film, è quella del regista. Prima pensavo che la riuscita o meno di un film fosse da attribuire alla sceneggiatura o al ruolo e in effetti io in primis guardo al personaggio per vedere se ho qualcosa da offrire a livello recitativo ma tutto viene definito dal rapporto lavorativo con il regista. Una sceneggiatura mediocre può essere trasformata in qualcosa di buono da un grande regista ma un regista mediocre potrebbe trasformare una sceneggiatura in qualcosa di assai mediocre. In che modo la cittadina della provincia che racconti rappresenta l'America? Noi siamo arrivati a questo punto, dopo decadi di cupidigia e aggressività, siamo stati pronti a venderci tutto, anche il diritto alla salute e a salvare la nostra terra. E la politica ci ha incentivato a soluzioni solo temporanee. Questo perchè in America votiamo ogni due anni, e nessuno al Congresso è interessato a soluzioni che siano a termine più lungo...Per questo ho scritto e voluto il film. Dobbiamo pensare ai nostri figli. Chi deve prendere le decisioni che ci riguardano? Non puoi avere la testa nella sabbia, altrimenti qualcun altro decide per noi. La recessione ha cambiato il cinema americano? Non so se è la recessione che ha cambiato le cose. Forse più l'avvento dei dvd e del digitale. I ragazzi sotto i 18 anni ormai non vanno più al cinema, passano il tempo a mandarsi messaggini, non hanno più bisogno di incontrarsi al cinema. Magari preferiscono You Tube. E anche a noi vengono proposte cose diverse. Recensioni Paolo D'Agostini. La Repubblica Forse a qualcuno verrà da chiedersi come sarebbe stato un film come Promised land (ammesso che si possano proiettare i suoi contenuti nel passato) ai tempi delle commedie anni 30 e 40 di Frank Capra o pure del cinema “impegnato” e di denuncia dei decenni a noi più prossimi. Molto diverso. Intanto quello che fa Gus Van Sant, il discontinuo regista di Elephant e Milk, confermando la sua preferenza per ambientazioni decentrate e non metropolitane, è di proporre una varietà di punti di vista e di opzioni che - almeno fino a poco prima di arrivare al finale che vede prevalere i buoni sentimenti - impone tanto ai suoi personaggi che allo spettatore un certo sforzo. Insomma non facilita loro il compito di scegliere da che parte stare. (…) Il compito di Steve, allettare con la prospettiva del guadagno privato e di un nuovo benessere per la comunità, sembra inizialmente facile: gente cordiale e ben disposta a credere alla bontà della proposta, e un sindaco che si lascia facilmente persuadere da una mazzetta. Ma l’assemblea dei cittadini, che si rivela inevitabile, imprime alla faccenda una nuova piega. L’anziano e autorevole Frank Yates, farmer a sua volta e prof di liceo per diletto da quando è in pensione ma con un passato di qualificatissimo ingegnere, insinua il dubbio parlando dei danni ambientali provocati in molti casi dalle brutali trivellazioni, e impone il voto. Il film si snoda lungo i giorni che separano da questo risolutivo momento del pronunciamento collettivo. Nel frattempo sorgono alcuni diversivi personali e sentimentali (tanto Steve che Sue, che diversamente dal collega maschio vive il proprio ruolo separando nettamente le convinzioni personali da quello che «è solo un lavoro» per rendere migliore il futuro di suo figlio, fanno degli incontri) ma soprattutto arriva Dustin Noble, un attivista “verde” che conquista rapidamente consensi esibendo una scioccante documentazione relativa a un precedente caso. In realtà la figura di Dustin è la fonte di un fondamentale colpo di scena che non si può anticipare. Diciamo che Steve sarà costretto a rendersi conto, con un effetto umiliante ma al tempo stesso liberatorio, di essere la miserabile pedina di una partita molto ma molto più grande di lui. Il tema è forte. Da una parte ci sono le ragioni dell’approvvigionamento energetico, le ragioni di una fonte energetica pulita e naturale. Dall’altra quelle dei timori per i rischi di turbamento e alterazione dell’ambiente che la sua estrazione può comportare, e quelle dell’orgoglio e della dignità chiamata in campo dalla svendita di un patrimonio identitario. Un bel nodo. Che quasi tutto il film evita di scegliere con semplicismo mantenendo viva la tensione dialettica. (...) Gianluca Arnone. Cinematografo.it Pur essendo stata fondata da un quacchero inglese, i motivi per cui la Pennsylvania viene ribattezzata "Terra promessa" nel nuovo film di Gus Van Sant non sono di natura messianica. Ci troviamo nella contea di Armstrong, in una piccola cittadina rurale dal nome fittizio (McKinley), che sembra nascere da una tela di Thomas Benton, con le sue strade dissestate che passano in mezzo a un mare di verde. E nonostante il paesaggio sia punteggiato da vacche e steccati, cavalli e soggetti in camicia di flanella, non ci troviamo in un episodio lungo della Casa nella prateria. Lo sguardo di Van Sant è sicuramente disteso e la fotografia di Linus Sandgren lo aiuta, conferendogli sfumature inedite e classicheggianti. A supporto anche una tracklist smaccatamente folk: Hank Williams, Bruce Springsteen, Sammy Smith. La storia scritta da John Krasinski (da un soggetto di Dave Eggers) però non ha nulla di bucolico. E' esemplare invece dei conflitti da epoca liberista e globalizzata, dove la composizione degli interessi - ecosistema locale vs. sfruttamento transnazionale, tradizione vs.innovazione, comunità vs. individuo - è appena meno complicata della quadratura del cerchio. Il fatto è che l'incantato bio-mondo rurale è assai fragile ed economicamente svantaggioso. E questa intrinseca debolezza è come la mantellina rossa per le corna delle multinazionali. Nel film la Global Crosspower Solutions, società che vende gas naturale, spedisce i mastini Steve (Matt Damon) e Sue (Frances McDormand) a McKinley, al fine di ottenere i diritti di trivellazione sui terreni. La missione parrebbe facile: molti degli agricoltori aspettano gli emissari della compagnia come messia venuti a liberarli dalla povertà e dalla vergogna. Ma, si chiede qualcuno, che cosa succederebbe se il processo di trivellazione dei campi finisse per contaminare le falde acquifere? E' una eventualità remota, ma non impossibile. Senza contare che sulla strada di Steve e Sue si ci mette anche un ecologista dai modi ammalianti (John Krasinski), che sostiene di avere le prove delle malefatte della Global. La cosa interessante di Promised Land - in gara a Berlino e dal 14 febbraio in sala con la BIM - è la sua terzietà rispetto alla querelle: in fondo Van Sant non vuole dirci da che parte stare, non si professa né liberista né ecologista, ma mostra allo spettatore l'intero perimetro del problema, lasciando a ciascuno libertà e responsabilità di scegliere per quale dei suoi lati propendere. Lo fa con una leggerezza d'approccio sorprendente, concedendo a ogni personaggio una chance e allo spettatore una visione in relax. A forza di sfumare troppo i contrasti però, rischia di annacquare le questioni sul tavolo, equiparando le parti in gioco e inviando al pubblico un messaggio incerto e confuso. Eloquente in tal senso la lunga e contorta arringa finale di Damon. (...) Fabio Ferzetti. Il Messaggero La crisi vista dall’America profonda in una commedia politica così nitida e ben scritta che sembra venire dagli anni 30 (è un complimento, oltre che una coincidenza fra le due epoche). Più che a Gus Van Sant, per la regia finissima ma tutta di servizio, Promised Land appartiene infatti ai protagonisti e sceneggiatori Matt Damon e John Krasinski, impegnati a contendersi i favori degli abitanti di un paesino della Pennsylvania dove il tempo sembra essersi fermato. Anche se la crisi morde e Damon, agente di una multinazionale, fa leva sui bisogni più elementari per convincere quei campagnoli che sembrano disegnati da Norman Rockwell a vendere i terreni sotto cui giacciono immense riserve di gas naturale. L’alba di una nuova epoca o l’inizio della fine? Spalleggiato dalla cameratesca collega Frances McDormand (sempre straordinaria), Damon è un gran venditore (…) quel lavoretto facile diventa un’impresa sfibrante, con rivalità (e rivelazioni) a catena, e un contorno di personaggi ben incisi fra cui spiccano il sindaco possibilista (anche in fatto di bustarelle), il vecchio insegnante che la sa lunga (Hal Holbrook), la maestrina tornata in campagna (deliziosa Rosemarie DeWitt, e non era un ruolo facile); mentre il titolare dell’emporio locale (insegna geniale: «Alimentari, Fucili, Benzina, Chitarre»), si gode la sfida fra i due stranieri e dedica alla matura McDormand un mezzo corteggiamento tutto ironia e disillusione. Altro che anni Trenta insomma: la morale del film, in questo molto contemporaneo, è che nulla e nessuno è ciò che sembra: tanto che la minaccia al paesaggio diventa metafora di una mutazione ancora più profonda, che investe gli americani insieme al loro paese. Il grande pubblico Usa non ha gradito il ritratto. Quello europeo potrebbe apprezzarne la sottigliezza. E un’amarezza che non esclude affatto il sentimento, anzi. Paola Di Giuseppe. Indie-eye Democratizzare l’energia può diventare la terza rivoluzione industriale, due secoli dopo la prima e mentre la seconda, Internet, l’open source a costo zero, è ancora in corso? Stando a Matt Damon, John Krasinski e Gus Van Sant le prospettive perché ciò accada sono discrete, a patto che circolino ancora bravi ragazzi dalla faccia pulita, disposti a farsi licenziare da un lavoro sicuro come Steve Butler. E’ questa la terra promessa verso cui marciare: definire gli obiettivi, comunicarli con efficacia e riuscire ancora a pensare ad un mondo migliore. Steve (Matt Damon), è rappresentante aziendale della Global Solutions Crosspower (Global Energy per farla breve), società di estrazione del gas dal sottosuolo con un giro di affari di 9.000 milioni di dollari. Con la tecnica del fracking, “fratturazione idraulica” consistente nel trivellare pozzi tra i 1500 ed i 6mila metri di profondità, immettere acqua, solventi chimici e sabbia, quindi spingere in superficie gas naturale o petrolio sfruttando la pressione esercitata nel terreno, la Global non ha fatto che ottimizzare una pratica ultra decennale degli States, iniziata nel dopoguerra, secondo alcuni anche molto prima, e consistente nello sforacchiare il terreno per estrarne risorse energetiche. Ma, poiché la natura si vendica, le fratture innescate hanno prodotto crolli, la micro-sismicità indotta e localizzata è diventata realtà e l’impatto sulle risorse idriche è ormai incalcolabile, a causa della contaminazione chimica delle falde acquifere. Estrarre gas naturale anche da sorgenti non convenzionali – come le rocce di scisto o i depositi profondi di carbone – può rivelarsi un ottimo affare, purchè si viva a Manhattan e non si vedano mucche morte in cortile nè putridi pantani al posto delle vecchie, buone zolle girate dall’aratro e pronte per la semina (...). Damon e Krasinski, con l’idea e la sceneggiatura in mano, hanno allora detto a Van Sant:“Pensaci tu”, e lui l’ha fatto. Non sappiamo se poteva farlo meglio, come sostengono alcuni, se il soggetto non suo l’abbia un po’ frenato, se i vertici di Will Hunting, Milk, Paranoid Park e quant’altro svettano in lontananza. Quel che conta è che ha fatto bene. “La cosa migliore che ho fatto, come produttore di Promised land, è stata licenziarmi e affidare la regia a Gus Van Sant…- dichiarato Matt Damon - Non volevo giudicare, ma innescare una discussione su un argomento complicato. In America c’è gente che sta perdendo tutto e all’improvviso si ritrova con la prospettiva di diventare milionaria solo cedendo i diritti per la trivellazione del proprio terreno”. La profonda provincia americana, qui la Pensylvania, quella di Van Sant, l’Oregon, quell’America povera e agricola dove tornano i veterani dall’Irak, dall’Afghanistan, una volta dal Vietnam, quando riescono a tornare, e fanno fatica a saldare il mutuo, far studiare i figli, pagare il dentista, è il posto migliore per comprare a suon di dollari i diritti sulle terre di proprietà e cominciare a perforarle. Sotto il pavimento della cantina c’è un tesoro, perché non sfruttarlo? Questo è il leit motiv che Steve, un passato da venditore di strada, recita ai suoi “clienti”, poveracci esclusi dal sogno americano, a cui è fin troppo facile vendere perline e farle sembrare la soluzione giusta della loro vita sfigata. Capita, però, che non sempre certe operazioni vadano a buon fine, magari in favole un po’ alla Frank Capra, certo, ma se non è quella macchina dei sogni che il cinema è a coniarli, chi può ancora farlo, oggi? (…) Steve e Sue stanno perdendo la partita, ma un prefinale inaspettato, da non rivelare, un vero colpo di genio della sceneggiatura, rimette tutto in gioco. E, infine, il finale, quello sì, abbastanza prevedibile, visti i toni da favola che Van Sant ha giustamente confezionato per una storia che non è fatta di bianchi e neri, ma di un’ampia gamma di toni medi. C’è la realtà di un mondo globalizzato in cui sembra non ci sia scampo, non ci sono buoni e cattivi ma individui chiamati, prima o poi, a far i conti con sé stessi. C’è un Paese che guarda dentro i suoi miti e le sue miserie, non sapendo ancora bene cosa fare. L’uomo medio è Steve, intorno a lui una piccola comunità silenziosa in cui si scontrano, dolorosamente, le contraddizioni della contemporaneità. Miseria e miraggio di soldi facili, attaccamento ancestrale alla terra e pedaggi pesanti da pagare per non tradirla. Van Sant va al cuore di un problema, lo fa disseminando segnali (centrale, quello dell’acqua, onnipresente) ma coprendoli abilmente nel semitono cromatico del quotidiano, così da non tingersi da apologo o parabola. Questo è lo stato delle cose, ci dice, parliamone, e se c’è spazio ancora, nel cinema, per un residuo di speranza, diamolo, può essere la nuova terra promessa. Roy Menarini. Mymovies Prescindiamo per un attimo dalla stanca riflessione intorno all'autorialità di Van Sant, che ad ogni pellicola sembra dover essere giudicato in base a quanto sono ostici e personali i suoi film. Si tratta di un problema che abita esclusivamente nella testa dei critici e che non aiuta a far luce su Promised Land il quale, pur con tutti i suoi difetti, rinverdisce senza sfigurare la lunga tradizione del cinema liberal militante. Il cinema hollywoodiano, specialmente nella sua ala più progressista, non ha mai smesso di criticare le degenerazioni del capitalismo. Anzi, divenuto un vero e proprio genere (che da noi in Italia viene definito "cinema di denuncia", in mancanza di categorie più efficaci), è tra i pochi ad essere sopravvissuto indenne al traumatico passaggio tra New Hollywood e Hollywood contemporanea. Da Silkwood a Michael Clayton, da Sindrome cinese a Erin Brokovich, il sottofilone dedicato ai problemi dell'ambiente e al cinismo delle multinazionali segue poi da tempo codici assai riconoscibili. Di solito, reso molesto da un messaggio non di rado esplicato in maniera fastidiosamente pedagogica (e Promised Land in questo senso non fa molto per distaccarsi dall'intento), questo cinema rischia di oscurare ciò per cui più intriga: l'analisi dei luoghi molecolari degli Stati Uniti d'America. La provincia, la piccola industria, il mondo agrario, sono considerati spesso - e qui soprattutto - i nuclei basilari della nazione, lo stato allentato, liquido della civiltà individuale americana che circonda e protegge idealmente le grandi metropoli (lo stato solido). I farmers statunitensi, strozzati dalla crisi più dei colletti bianchi da ufficio urbano, ridiventano narrativamente spina dorsale della nazione, esattamente come nelle campagne elettorali, dove stati come l'Ohio (ad altissima densità agricola) diventano decisivi per il risultato finale. Visto che spesso i politici riducono a stereotipo l'elettore potenziale, il cinema si incarica di ridare corpo e paesaggio a questa terra promessa e talvolta mantenuta, che non vive di solo country e di birre bevute in veranda. Ecco, se film come Promised Land sembrano tutti uguali tra di loro (pur continuando fieramente a far imbestialire le lobby della grande industria), si potrebbe consigliare una modalità di visione alternativa. Non preoccuparsi più di tanto della storia e dei colpi di scena, ma concentrarsi sulla sensibilità - e qui Van Sant torna in primo piano - nel mostrare un tessuto sociale e geopolitico: le case con il granaio, gli alti silos, il pub del paese, i negozi commerciali e i minimarket, i motel con parcheggio, e poi ancora i volti proletari, le camicie a quadri, gli sguardi fieri e le logiche (non sempre emancipative) della piccola comunità... Una sorta di film nel film, una ritrattistica e una paesaggistica che chi ama l'America profonda e la sua originalità storica non può che apprezzare, indipendentemente dai cliché nascosti in sceneggiatura.