M. Callari Galli L`antropologia e la ricerca di un soggetto.

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M. Callari Galli L`antropologia e la ricerca di un soggetto.
M. Callari Galli
L'antropologia e la ricerca di un soggetto.
1. La "scala evolutiva" della cultura umana
La nascita dell'antropologia come disciplina autonoma, distinta dalla filosofia, dalla geografia da un lato e dai
resoconti di viaggiatori ed esploratori dall'altro, si colloca a metà dello scorso secolo, in un clima intellettuale, molto
attivo ed effervescente soprattutto nell'Europa settentrionale, pieno di fiducia nei progressi tecnologici affermatisi e
diffusisi in questa area.
Sin dai suoi esordi l'antropologia dichiarò la sua ambizione ad essere lo studio scientifico dell'evoluzione culturale
dell'umanità modellando sul pensiero moderno con i suoi principi di unilinearità e di consequenzialità i suoi schemi
interpretativi, uniformandosi alle sue categorie conoscitive e cercando di formulare leggi generali che presiedano
all'evoluzione delle culture prima, all'organizzazione delle differenze, poi.
L'antropologia, al pari delle altre scienze sociali che insieme a lei inziarono il loro percorso autonomo, rispecchiò
profondamente il clima intellettuale della sua epoca, dominato dall'aspirazione ad assoggettare a leggi scientifiche
ogni campo della conoscenza, tutto teso a dimostrare, nella fisicità e nella storia della nostra specie, la presenza
costante di uno sviluppo evolutivo che inevitabilmente era destinato a produrre progresso. Così gli antropologi
evoluzionisti tentando di rispondere alle domande poste dall'illuminismo francese e tedesco sull'origine e lo sviluppo
di determinati tratti culturali furono tutti spinti a costruire in chiave evolutiva e "progressiva" una storia della cultura
umana soggetta alle stesse leggi che nell'opinione degli scienziati dell'epoca dominavano la natura. E le singole
culture, nelle loro molteplici variazioni articolate nello spazio e nel tempo, costituivano il materiale su cui costruire con
il metodo comparativo i diversi stadi dello sviluppo progressivo della nostra specie. Convinzione diffusa - sia pure
con alcune differenze non trascurabili passando da un autore all'altro, dallo studio di un aspetto della cultura all'altro
- è che in tuffi i tratti culturali esaminati e nel loro stesso insieme sia possibile individuare una successione di stadi di
sviluppo "tanto naturale quanto necessaria" che riunisce insieme l'intera umanità e che si organizza sul passaggio dalle
forme più elementari a quelle più complesse. E la "scala" costruita con il materiale raccolto dalle fonti più disparate –
dai resoconti di viaggio alle opere storiche, dalle osservazioni dirette ai "documenti" ufficiali - è semplice e
apparentemente convincente, con le culture più lontane dai nostri confini a costituire i primi stadi e con le culture
"storiche" delle grandi civiltà del passato ad occupare i gradi intermedi e con le nostre - nostre in quanto degli stati
nazionali europei contemporanei- a rappresentare l'espressione culturale più progredita, il modello che attraverso il
dominio politico ed economico si sarebbe diffuso in tutto il pianeta Charles Darwin negli stessi anni avrebbe
dimostrato i meccanismi evolutivi che avevano "prodotto" la nostra specie; gli antropologi evoluzionisti prendevano
l'uomo a quel punto della sua evoluzione biopsichica e di evoluzione in evoluzione lo portavano al colmo della sua
umanità, rappresentata dall'uomo europeo dell'epoca Vittoriano. Ma se era relativamente facile e notevolmente
produttivo da un punto di vista scientifico porre l'equus caballus su un gradino superiore a quello dell'hipparion,
un'ascia tecnologicamente meno evoluta non è l'antenata di un'ascia più evoluta se non in senso metaforico ed
approssimativo. Come dice Claude Lévi-Strauss "quel che vale per oggetti materiali la cui presenza fisica è attestata
nel suolo per epoche determinabili, vale ancor più per le istituzioni, le credenze, i gusti, il cui passato è totalmente
ignoto" (C. Lévi-Strauss, 1967, p. 108).
Gli antropologi evoluzionisti a partire da Edward Barnett Tylor proposero di risolvere questa carenza di
documentazione storica con una fictio metodologica i popoli la cui tecnologia era la più primordiale dovevano
essersi fermati nell'evoluzione non solo tecnica ma anche culturale, per cui le loro istituzioni, le loro credenze, i loro
usi e costumi dei quali parlavano le relazioni dei missionari, dei viaggiatori, le cronache storiche dovevano essere le
stesse istituzioni, le stesse credenze e gli stessi gusti dell'alba dell'umanità, quando questa usava per cacciare, per
guerreggiare e per produrre, strumenti simili a quelli usati dai "primitivi contemporanei". Stabilite le regole, diventava
piuttosto facile situare i vari gruppi umani nei gradini differenziati dell'evoluzione storica della cultura ed affidare
all'antropologia il compito di spiegare l'ascesa de claritate in claritatem dal mondo dei selvaggi al mondo dei civili.
Questa concezione che oggi appare non solo grondante di ideologismi e di falsità ma anche estremamente
riduttiva e semplicistica era in realtà condivisa dalla maggior parte del pensiero "scientifico" della fine dello scorso
secolo: anzi dovrei dire che gli antropologi furono i primi tra gli studiosi dei meccanismi sociali e storici a denunciare
la falsità teorica ed ideologica di ogni concezione che veda la saldatura tra evoluzione e progresso. Gli antropologi
spinti dall'eterogeneità e dalla scarsa affidabilità di molte delle fonti inizialmente usate dovettero abbandonare la
propria cultura ed immergersi per mesi, per anni nella vita delle culture "altre": furono così costretti dai dati che
andavano raccogliendo, dalle difficoltà che incontravano nell'applicare ad essi categorie unilineari ed univoche ad
abbandonare facili interpretazioni di accadimenti, di tradizioni, di narrazioni con un'unica chiave di lettura che li
riferisca tutti e comunque ad un ordine gerarchico, dato, prestabilito ed immutabile.
2. Il soggetto svanisce nell'oggettività della ricerca empirica
Se nell'antropologia evoluzionista è possibile cogliere lo sforzo di definire un soggetto che attraverso i millenni,
attraverso infinite variazioni afferma la sua centralità rispetto alla storia e rispetto alla natura identificandosi totalmente
con l'uomo europeo appartenente alla élite del suo paese, dal crollo dello schema evoluzionista il soggetto
antropologico esce completamente mutato, si moltiplica in una miriade di sembianze ma al tempo stesso sembra
perdersi dietro la ricerca della oggettività della ricerca.
Certamente non è estraneo a questo sfiducia nella soggettività "forte" disegnata dall'evoluzionismo antropologico
il nuovo clima intellettuale europeo che man mano che avanza il XX secolo sembra perdere la sua fiducia nella
totalità. Come scrive Claudio Magris, "la totalità viene a mancare perché manca la connessione che dovrebbe
pervadere tutte le sue parti e stringerle in un tutto; la connessione viene a mancare anche e soprattutto all'interno del
soggetto, il quale dovrebbe ridurre il mondo ad unità ed invece viene a disgregarsi egli stesso nella sua unità,
individuale"(C. Magris, 1984, p 7).
La risposta a questa crisi, a questa incertezza che sembra segnare la storia del secolo XX tutta in bilico tra
affermazioni di senso assoluto ( e di regimi che con il loro totalitarismo tentano di penetrare sin nei pensieri e nei
desideri dei loro sudditi) e disgregazione di ogni senso nella rete dei rapporti sociali sempre più anonimi è data da
gran parte dell'antropologia nei termini di una ricerca che nell'oggettività più assoluta cerca la sua validità e la sua
scientificità. Un'ingenua fiducia nell'osservazione empirica trasformò per alcuni decenni la maggior parte degli
antropologi in creature prive di volto, senza connotazioni di carattere sessuale, senza età, tutte tese nello sforzo di
registrare, quanto più fedelmente e obiettivamente potessero la realtà culturale. Schiere di ricercatori soprattutto
negli Stati Uniti, seguendo i dettami di Franz Boas, svilupparono un'immagine di se stessi e della disciplina che
appare retrospettivamente quasi una rozza imitazione della cieca fiducia nell'oggettività dell'osservazione tipica delle
scienze naturali dei secoli passati. John Watkins, riferendosi soprattutto alle scienze naturali, così scrive:
"Parafrasando Descartes, possiamo dire che un metodo consiste nel conquistare la fiducia del lettore, spiegandogli
come siete giunti alla vostra scoperta; l'altro è costringerlo ad accettare una conclusione ostentando una serie di
proposizioni che egli deve accettare e che lo inducono a farlo. Il primo metodo permette al lettore di ripercorrere
l'iter dei vostri pensieri nel loro ordine naturale. E' uno stile autobiografico. Scrivendo in questo stile voi includete non
quello che avete mangiato a colazione o il giorno della vostra scoperta ma ogni considerazione significante che vi ha
aiutato a pervenire alla vostra scoperta. In particolare esponete quali erano i vostri scopi, quali problemi stavate
tentando di risolvere e cosa speravate dalla loro soluzione. L'altro stile elimina tutto ciò. E' didattico e intimidatorio"
(J.W.N. Watkins, 1963, pp. 667-68)".
Le sue parole bene si adattano al campo della ricerca sociale, dove la partecipazione dell'osservatore scegli e
filtra fra i settori del comportamento includendone inevitabilmente alcuni ed eliminandone altri. Eppure i percorsi
individuali, i rapporti con la comunità, le reazioni degli "indigeni" e le proprie di fronte allo svolgimento della ricerca,
nei primi anni del '9OO entrano faticosamente nella prospettiva ufficiale della più personale delle scienze sociali.
Anche laddove è messa in discussione, per maggior sofisticazione intellettuale o per diversa eredità culturale, la cieca
fiducia nell'ingenuo empirismo imperante in quegli anni nelle scienze sociali, il resoconto personale è escluso dalla
produzione ufficiale, dal lavoro "scientifico": è confinato agli appunti che solo zelanti esegeti raccoglieranno e
pubblicheranno postumi o è tradotto dall'antropologo stesso, in forma letteraria, quasi per divertimento o per
dimostrare al grande pubblico la propria versatilità. Così il livello "personale" della ricerca, le reazioni ad usi e
costumi diversi, lo choc davanti a pratiche sessuali inattese (siano esse il "dormir nudi" degli asiatici e degli indigeni
americani, scelto da Lewis Henry morgan come un criterio per sostenere l'origine comune degli aborigeni dei due
continenti, o sia l'insaziabile sete di orgasmi delle donne melanesiane che sorprende il professor Malinowski), le
stanchezze della solitudine e dell'isolamento culturale, le difficoltà ad entrare in rapporto con alcuni individui della
"propria tribù", la conflittualità a volte dirompente tra il proprio mondo di valori e quello che si sta osservando, sono
tutti aspetti presenti negli IndianJournals, scritti durante i suoi viaggi fra gli indiani degli Stati Uniti d'America dal
1859 al 1862 da Lewis Morgan e pubblicati da Leslie A. White nel 1959 o nel diario di Bronislaw M~linowski che
solo nel 1967 è dato alla lettura del grande pubblico dai spot eredi. E l'antropologo statunitense Laura Bohannan
scrive il suo romanzo antropologico Return to Laughter sotto lo pseudonimo di Eleanor Smith Bowen, quasi a
ribadire la sua scissione tra la sua attività scientifica e le sue reazioni personali su cui tale attività si fonda e di cui si
nutre. E' un "romanzo" che inizia con una precisazione che è di rito in malti titoli di testa dei fé "ali the characters in
tris book, exept myself, are fictitious in the fullest meaning of the word"; in esso Laura Bohannan ci racconta
dall'interno, come ha scritto David Riesman nell'introduzione al libro, cosa significhi "essere un antropologo sul
campo'', con le sue paure, le sue vigliaccherie di fronte ad un mondo di valori tanto diverso da mettere in crisi le
sicurezze occidentali, la sua solitudine. Avendo tuttavia escluso dalla sua riflessione "scientifica" questo patrimonio
personale anch'essa sembra affermare che tutto ciò non abbia interferito, determinato, influenzato anche la sua
ricostruzione della strutture di parentela, la sua individuazione di modelli comportamentali e linguistici, l'intera raccolta
dei suoi dati. (E. Bowen, 1954)
E questa esemplificazione della scissione tra livello personale e livello scientifico, scelta come rifugio per reagire
alle implicazioni che la crisi del soggetto con la sua frantumazione ampiamente denunciata dalla la produzione
artistica del XX secolo, può qui terminare con un riferimento illustre e notissimo: Claude Lévi-Strauss, così teso a
ricercare essenzialmente il carattere strutturale dei "fatti sociali" nelle sue opere, scientifiche, affida a Tristi Tropici,
vero e porprio romanzo filosofico, il compito di raccogliere i motivi personali delle sue peregrinazioni antropologiche.
Nella prima metà del secolo, dunque, pochi sono gli antropologi che pur considerando i loro lavori sul campo
come un intreccio tra il culturale e il vissuto, tra la cultura e il proprio vissuto e la cultura e il vissuto proprio dei nativi,
esprimono questo intreccio nelle loro opere "ufficiali".. Spicca fra essi per la dedizione dedicata a questo compito e
per la straordinaria efficacia raggiunta, Michel Letris, con la sua coazione a dirsi, a mescolare dati etnografici e
letture di poeti e romanzieri, sogni, reveries personali e descrizioni di oggetti raccolti per il Musée de l'Homme.
Michel Leiris che sin dai lontani anni '30 così qualificava la sua produzione: "le due facce di una ricerca antropologica
nel senso più completo del termine: accrescere la nostra conoscenza dell'uomo sia con i mezzi soggettivi
dell'introspezione e dell'esperienza poetica, sia con i mezzi meno personali dell'etnologia" (M. Leiris, 1998, p.231 e
sgg.).
E' il coinvolgimento con i suoi "informatori" e le sue "informatrici" che gli domandano se in Francia esista l'amore e
la canzone d'amore, che spinge Letris a mettere in discussione, quasi con ferocia, la separ~lone che sotto il velo del
metodo scientifico si attuava tra elementi "oggetivi" ed elementi "soggettivi". E per Leiris le relazioni personali, i suoi
timori, le sue emozioni, i suoi sogni, le sue delusioni, le sue stesse reazioni fisiche, divengono dati da analizzare e
valutare con la stessa accuratezza dedicata ai dati provenienti dall'osservazione dei membri dem gruppo studiato.
Meglio ancora, le une e gli altri, contribuiscono insieme ad allontanare il radicamento dell'antropologo dai propri
modelli culturali, dalle proprie inveterate e profonde convinzioni e dovrebbero costituire un tessuto comune su cui
elaborare gli strumenti della comprensione reciproca E in tutta la sua opera Michel leiris anticipa di molti anni
quell"'inquietudine diffusa e tangibile che mette oggi in discussione, alla radice, la pretesa di spiegare gli altri e la loro
enigmatica alterità sulla base del fatto che siamo stati a contatto con loro nel loro habitat originario o di aver passato
al setaccio gli scritti di coloro che ci sono stati' (C. Geertz, 1990, p. 140).
E Michel Leiris nella storia di Khadigia che conclude il secondo libro delle sue confessioni si allontana
profondamente da ogni biograf~smo e da ogni esotismo riverberando la "complessità sulla coscienza del lettore che,
impegnato nell'apprensione e nel controllo della "fusione" fra modalità spesso ritenute antagonistiche ma
qui~sinergetiche, si apre a sua volta a una lettura della compresenza che attiva in lui le dimensioni considerate,
distinte o opposte del pensiero analitico e distanziante e dell'identificazione emotiva" (I. Margoni, 1998, p. LXXVI)
3. I nuovi soggetti della ricerca antropologica
E' negli anni cinquanta che appare con sempre maggior evidenza, direi quasi con prepotenza, il peso che le
notizie sul ricercatore e sulle sue esperienze di campo devono assumere come elementi fondamentali della sua
produzione scientifica..
In un suo intervento in Anthropology Today, Benjamin Paul parlando delle tecniche di intervista, sostiene che il
ruolo sociale assunto da un antropologo durante la sua ricerca è un fattore determinante per porlo in contatto con
una serie di informazioni e per impedirgli di raccoglierne altre. (B. Paul, 1953) Nel 1960, poi, Adams e Preiss
raccolgono una serie di articoli apparsi a partire dal 1950 su Human organization in un'antologia, tutta centrata sulle
relazioni interpersonali che caratterizzano il lavoro sul campo. E William F. Whyte, nel 1964, così scriveva: "esistono
numerosi e utili studi sulle metodologie di ricerca ma, a parte poche eccezioni, essi pone ~o la discussione
interamente su una base logico-intellettuale. Non hanno capito che il ricercatore, come il suo informatore, è un
animale sociale: deve rivestire un ruolo, ha dei bisogni connessi con la struttura della sua personalità, che devono in
qualche misura essere soddisfatti, se egli deve operare sul campo con successo"
(W. F. Whyte, 1964, p. 3).
Sempre più negli anni '60 e '70 l'osservazione partecipante viene posta come l'unica metodologia che può
rispondere ai quesiti antropologici e se su un piano pratico la lunga permanenza fra le comunità studiate propria del
"credo" malinowskiano sembra cedere il passo ad una raccolta che si estende nel numero dei soggetti e delle fonti
consultate quasi a ribadire anche su questo piano la crisi di soggetti dominanti il campo dell'analisi, sul piano teorico
si intensifica l'elaborazione del principio di identificazione prima con i soggetti della ricerca poi con gli stessi contesti
che vengono da essa coinvolti. Il principio di identificazione del resto è sempre presente anche se con molte
contraddizioni nei cento e più anni di storia della disciplina; può essere ben rappresentato da alcuni esempi illustri,
quasi eponimi del trasporto che etnografi e antropologi, nella maggioranza dei casi, hanno in silenziovissuto per le
"loro tribù", le "loro comunità". Mi riferisco a Curt Nimuendajù che prese il suo nome da un gruppo amazzonico fra il
quale visse, per decenni, con il quale si identificò quasi totalmente (e il "quasi" è dovuto all'aneddotica raccolta su di
lui che ci informa che egli continuò a radersi, secondo la moda europea, ogni giorno, nella selva). E a Frank Cushing
che condivise a tal punto la visione del mondo e il modo di vivere degh indiani Zuni che rifiutò di continuare a
pubblicare dati su di loro.
Dalla metà del XX secolo si verificano una serie di cambiamenti rapidi e pervasivi che disintegrano la plausibilità
di alcune categorie antropologiche. Esaminerò ora, a mò di esemplificazione, due fattori di questa disintegrazione: il
fenomeno del neocolonialismo e la sparizione del "selvaggio".
Se, come vuole Louis Althusser, "l'ideologia concerne il rapporto vissuto dagli uomini con loro mondo, ossia
l'unità (surdeterminata) del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario con le loro reali condizioni di
esistenza"(L. Althusser, 1967, p. 209), possiamo ipotizzare che gli agenti dell'espansione colonialista europea
abbiano teso a sviluppare una concezione dei popoli colonizzati coerente alla "missione" che, a livello ideologico,
erano convinti di svolgere nei lontani continenti extraeuropei. Non intendo sostenre che tutte le forma di colonialismo
siano state analoghe nello svolgimento e negli e' ti, né~sollevare questa moltitudini di europei - soldati, ufficiali,
amministratori, commercianti, missionari, esploratori, insegnanti, economisti, urbanisti, antropologi, sociologi - dalle
responsabilità nel processo di sfruttamento economico, sociale e culturale cui i popoli colonizzati sono stati
sottoposti. Quello che intendo dire è che il rapporto tra l'ideologia colonialista (the white man's burden) e i
colonizzatori non è, per citare ancora Althusser, "un rapporto esteriore e lucido di pura utilità ed astuzia" (L.
Althusser, 1967, p. 211) e che, qualunque fosse la visione dei colonizzati elaborata dai colonizzatori, essa fu, per
lunghi decenni, accettata, subitsa, vissuta come reale dagli stessi colonizzati, fossero stati soggiogati con la
persuasione o con la violenza. E così per anni la rappresentazione dei colonizzati (le vittime) elaborata dai
colonizzatori (i vincitori), acquista e mantiene il carattere della realtà oggettiva.
Dopo la secondsa guerramondiale, in tempi e con modalità diverse, i colonizzati - portatori, secondo la definizione
di Jean-Paul Salme, dell"'indigenato", cioè "la nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con loro
consenso" - esplodono e intraprendono le lotte per affermare il loro diritto all'indipendenza e all'autogoverno. E
l'antropologo ha a che fare da un lato con amministratori e coloni europei sempre più incerti e spaventati, dall'altro
con indigeni sempre più aggressivi, sempre più agguerriti politicamente, il cui comportamento è sempre più lontano
da quello di individui da osservare con la tecnica delle scienze naturali.La ricerca sul campo non può più essere
considerata dall'antropologo come un momento esterno alle sue scelte esistenziali e politiche; poter compiere una
ricerca non dipende più dalla volontà dell'aruministrazione coloniale ma coinvolge nella decisione le persone stesse
che saranno oggetto della ricerca e che con sempre maggior frequenza rifiutano di essere "oggettivizzate" a
qualunque livello. E' forse marginale rispetto al mio discorso e ha solo un valore analogico, ma è interessante
ricordare che urlo dei meriti che con maggior frequenza è attribuito a Franz Fanon - il più interessante dei teorici
della rivoluzione dei popoli colonizzati, di quegli anni è proprio quello di aver sviluppato "la teoria marxista del
soggetto rivoluzionario"
(G. jerv-is, 1971, p. 7).
Il processo di soggettivizzazione non poteva non travolgere il tradizionale modo di fare ricerca dell'antropologo, il
cui compito diventa quello di farsi interprete delle diverse voci che durante la sua permanenza sul campo viene
raccogliendo. E sono voci spesso discordò, di presa di coscienza dei soprusi sofferti, piene di odio e di rabbia: tanto
drammatiche da rendere gli antropologi pienamente consapevoli c'elle "distonie insanabili esistenti tra la nostra
disciplina e il regime coloniale` (J. Maquet, 1964, p. 51).
Inoltre contemporaneamente scompare la "selva" e il "selvaggio" l'abbandona per accorrere nei centri urbani
d'Africa e d'Asia e del Sudamerica, ma anche d'Europa e degli Stati IJniti; e il selvaggio è africano e asiatico ma è
anche turco e croato. Nel giro di pochi anni, sotto il peso di queste immigrazioni "selvagge", cioè caotiche e casuali,
le strutture della città, della "società civile" si stravolgono, perdono anche a livello di modello ideale la loro unità e la
loro coerenza, e sempre più difficile appare tracciare linee di demarcazione e confini. Oltre a moltiplicare i suoi
"soggetti", l'antropologia è costretta ad "occidentalizzarsi": anche se qualche antrpologo si affretta a studiare le poche
popolazioni pre-letterate ancora presenti nel pianeta, dagli anni sessanta in poi, con sempre maggior frequenza gli
antropologi rivolgono la loro attenzione allo studio dei modelli di comportamento presenti fra noi, nelle strade e nei
quartieri delle nostre città, rivisitano metodologicamente i due poli della ricerca tradizionale, i dominati e i dominatori,
riempiendoli di nuovi contenuti, di nuove aspirazioni; si prodigano a cercare le "diversità" tra noi, a documentare in
Europa, negli Stati Uniyti, nelle città dell'Asia e, dell'Africa la contestazione dei giovani, la rivolta degli emarginati e
dei disederati, a collegare le tecniche della ricerca sul campo all'uso e alla diffusione dei nuovi media.
E forse in questo sforzo può intravedersi l'unica possibilità di adempiere al mandato di Sartre per il quale
"l'antropologia meriteràil suo nome soltanto se sostituirà allo studio degli oggetti umani quello dei diversi processi
del divenir-oggetto".
4. La scomparsa del soggetto nella contemporaneità
Molti sono gli autori che in questi ultimi anni del secondo millennio, di fronte all'emergere e al dilagare della nuova
cultura della comunicazione planetaria, hanno sottolineato con argomenti efficaci ed intelligenti la disintegrazione
progressiva anche delle categorie analitiche che si sono affermate nel pensiero occidentale del XX secolo e che
tentavano di descrivere e in un certo senso di ricomporre la crisi del soggetto moderno.
Per questo filone di pensiero, il modello freudiano che oppone i significati latenti e i significati lanifesti, il modello
esistenzialista che prefigura un'ansia costante tra autenticità e inautenticità, l'ermeneutica marxista con il modello
bipolare che si articola tra essenza/apparenza, ideologia/verità, il modello semiotica che si focalizza sulla distinzione
tra significato e significante, si dimostrano tutti egualmente inefficaci nel descrivere l'attuale società che sembra
immergere il soggetto in un "busso di euforica intensità", costituito da frammenti e schegge: un soggetto che nella sua
quotidianità é assai lontano dal raggiungere quella profondità di pensiero e quella coerenza di azione che costituivano
il modello ideale dell'uomo moderno, apparso sulla scena della società occidentale sin dal Rinascimento e
faticosamente ma arrogantemente affermatosi con la modernità.
Non c'è traccia di questo modello nella celebrazione di Deleuze e Guattari (1977) delle dispersioni, nomadiche
e "schizoidi", del desiderio e della soggettività; né nell'individuo rappresentato da Baudrillard ( 1996) come il
"termine di un terminale", immerso com'è nella società dell'informazione e che per Kroker e Cook (1986) è un
risultato cibernetica di "fantastici sistemi di controllo". I testi prodotti dalla post-modernità televisivi, filmici,
elettronici, letterari che siano - tendono ad essere privi delle energie espressive proprie della modernità, perduti
nell'intensità del frammento, nell'immediatezza temporale e spaziale, nell'opacità dei significati (Jameson F., 1983,
1984).
Pur riconoscendo grande efficacia e produttività in queste intepretazioni, e non rinunciando completamente
alla loro utilizzazione per avvicinarci alla nostra contemporaneità, forse è opportuno affiancare ad esse, proprio in
nome della complessa articolazione della nostra società, qualche valutazione critica
Se le proposizioni teoriche di questa corrente di pensiero, affermatasi nella seconda metà del nostro secolo,
hanno il vantaggio di aver posto in discussione il modello della modernità e aver dimostrato, dopo le molte
innovazioni e i molti cambiamenti che ha prodotto, i suoi limiti teorici e la sua inadeguatezza di mediazione politica in
un mondo trasformato proprio dalla diffusione dei suoi principi di integrazione, di autodeterminazione dei diversi
gruppi umani, di uguaglianza nei diritti, mi sembra che sia necessario continuare a cercare le modalità attraverso le
quali ancora oggi si formano e si articolano i processi identitari dei diversi gruppi umani. Nonostante le molte e
brillanti dimostrazioni che i teorici della postmodernità ci hanno offerto della scomparsa dell'identità, nonostante che
dalle loro pagine essa appaia un mito, un'illusione, dobbiamo ricordare con Augé che la storia continua a giocarsi
"negli strati più profondi di una sociologia in cui si accavallano elementi premoderni,modernie sovra-moderni" (Augé
M., L995). La circolazione dei "flussi culturali globali" rappresenta una tendenza, un orientamento dominante ma il
mondo contemporaneo presenta una coesistenza di tendenze e di orientamenti assai complessa, in cui coesistono più
modelli, più codici, più linguaggi.
Anche se è possibile ipotizzare che l'umanità si sia avviata da tempo ad "esteriorizzare" le sue capacità tecniche,
mnemoniche e simboliche, attraverso l'utensile, la macchina, l'oralità, la scrittura " (Leroi-Gourhan N, 1977), è senza
dubbio vero che nel mondo contemporaneo le nuove tecnologie comunicative hanno di molto potenziato questo
processo di esteriorizzazione sino ad offrirci tali e tanti materiali sui quali costruire le nostre identità, da far temere la
distruzione della stessa nozione di identità Ma questo processo non è certo univoco né unilineare, si articola con
innumerevoli differenzazioni, in esso coesistono tensioni contraddittorie, le sue dinamiche sono instancabili e poco
prevedibili.
Applicare su questo panorama- ripeto, instabile e mobile - i principi di analisi elaborati dall'antropologia, mi
sembra utile e forse necessario perché essi sembrano offrire la possibilità di introdurre un certo distacco e una certa
ragionevolezza empirica, indispensabile se si vuole intervenire di fronte ad uno scenario catastrofico, quasi,
apocalittico e tutto sommato, se assunto nei suoi aspetti estremi, non sempre fondato. Da un punto di vista teorico,
poi, l'antropologia - e particolarmente quelle correnti che hanno sottolineato il peso che la dimensione culturale ha
nella storia del gruppo e nell'esperienza quotidiana dei suoi membri - ha da molti anni individuato la necessità di
abbandonare il sogno di costruire orientamenti assoluti e dominanti, cercando piuttosto di seguire il variegato
articolarsi di stili di vita, di norme, di valori, di costumi e di abitudini che caratterizza la produzione culturale umana E
questo orientamento, se sovente l'ha vista essere accusata di "leggerezza teorica", di scarsa affidabilità e coerenza, se
ha prodotto più "traduzioni di testi culturali" che non sistematizzazioni generali, oggi sembra poter offrire tracce e
percorsi per dar voce alle contraddizioni e alle antinomie che appaiono dominare la contemporaneità.
Anche se è in aumento nel mondo il numero degli individui in grado di fruire delle nuove tecnologie
comunicative, va ricordato che essi, al pari dell'intera umanità, continuano ad usare quotidianamente, in mezzo ad
una grande varietà di codici e di linguaggi, soprattutto quello orale e quello scritto e che per tutti la dimensione locale
dei rapporti interpersonali e comunitari continua a funzionare come produttrice di rappresentazioni e di immaginari.
Così come vanno ricordati i vincoli che l'indistinta massa a cui sono diretti i messaggi delle nuove tecnologie, pone ai
loro produttori; né va sottovalutato che questi sono legati fortemente, durante la loro educazione e la loro istruzione,
al linguaggio alfabetico. Si abbandona, in questa prospettiva di complessità, l'ipotesi di un "grande fratello" che
oscuramente ma in modo finalizzato e unilineare sovraintenda alla manipolazione delle informazioni e alla loro
organizzazione per conquistare il dominio politico ed economico e si tenta invece di seguire i mille complessi rivoli- in
cui si incanala oggi l'organizzazione del consenso.
Applicare una lettura antropologica a questi aspetti della trasmissione culturale, significa recuperare strumenti
elaborati in più di un secolo di riflessioni e di ricerche delle discipline antropologiche, per sottrarre
all'indeterminatezza e alla confusione il carnpo dell'analisi culturale, individuando, nella contemporaneità, la
coesistenza di più modelli, di molti codici, di molti orientamenti. Adottare questo orientamento significa proporsi di
seguire dinamiche e flussi, riconoscere la policentricità dell'elaborazione culturale propria della contemporaneità,
intravedere la possibilità di analizzare le identità molteplici che attraversano oggi la vita di un soggetto sottoposto ad
una continua azione di decostruzione. Solo in base ad orientamenti metodologici generali e ad un tempo
estremamente circostanziati, riferiti a conoscenze e competenze sulle dinamiche culturali in gioco, è possibile sperare
di poter costruire categorie interpretative fondate, che ci permettano di descrivere e comprendere il farsi delle
identità e delle culture all'incrocio tra locale e globale (Kilani M., 1994), di intervenire durante i processi inculturativi
e di progettare percorsi educativi adatti alla società del presente. Soprattutto questa operazione mi sembra
necessaria per sottrarre l'analisi culturale, e quiundi la gestione delle differenze, alle incursioni
rapide, frettolose e spesso dannose - di discipline che hanno fondato i loro statuti epistemologici su principi teorici,
analisi metodologiche e obiettivi scientifici che non ponevano attenzione alcuna al "farsi e disfarsi" della cultura, che
per decenni hanno elaborato le loro proposte teoriche ignorando il mondo "altro da se", interpretandolo come
pallide sopravvivenze o come aberranti deformazioni del se: nei casi migliori tentando di cancellare la sua
"scandalosa" alterità riducendolo al sì.
Bibliografia
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