n.195. 3 dicembre 2016

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n.195. 3 dicembre 2016
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www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
direttore
redazione
progetto grafico
simone siliani
gianni biagi, sara chiarello,
emiliano bacci
aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, sara nocentini,
barbara setti
Con la cultura
non si mangia
95
262
N° 1
Paolo Albani
Miele di dubbio
2015
tela con scritte su tavoletta nera
cm 15x15
Fondazione Benetton
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
di John
A
3
DICEMBRE
2016
pag. 2
Stammer
lberto Breschi ha, da
qualche tempo, smesso
di insegnare alla Facoltà
di Architettura di Firenze. Ma
non ha smesso di progettare.
Progettando, e realizzando le
sue opere, continua comunque ad insegnare. E a formare
architetti che si affermano per
il mondo come dimostrò la
mostra “Exit” che si tenne alcuni
anni fa. Una mostra, e una
pubblicazione, che raccoglieva
le opere di architetti formatisi
a Firenze e che lavorano in giro
per il mondo. Che in Breschi vi
sia una “intrinseca vocazione”
a fare delle sue architetture dei
testi dai quali apprendere il
mestiere di architetto lo si vede
con chiarezza nella sua ultima
opera: l’ampliamento della sede
del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze
nel complesso di Santa Teresa. Il
complesso dell’ex carcere di Santa Teresa occupa quasi un intero
isolato del quartiere di Santa
Croce in prossimità del mercato
di sant’Ambrogio. La parte più
antica fu realizzata nella prima
metà del XVII secolo (la data di
costruzione risale al 1628) dalla
nobildonna Francesca Guardi
che fece erigere un monastero
per le monache di Santa Teresa.
Ma già con l’avvento di Napoleone il convento venne soppresso
nel 1810, ripristinato nella sua
funzione nel 1816 e definitivamente soppresso nel 1865
dal nascente Regno d’Italia.
Da allora fu adibito a carcere
(subendo importanti interventi di ampliamento come i tre
nuovi padiglioni dei laboratori)
fino al 1985 quando il carcere fu
trasferito nel nuovo edificio di
Sollicciano. Dal 1990 parte del
complesso edilizio fu ceduto in
comodato d’uso all’Università
di Firenze per farne la sede della
Facoltà di Architettura. I primi
interventi, dettati anche da
urgenze per reperire spazi per la
didattica, furono progettati dalle
strutture tecniche dell’Università
per il riuso dei tre padiglioni
ottocenteschi dei laboratori. Il
primo progetto organico relativo
all’intera porzione ceduta in
comodato d’uso fu redatto da
Breschi nel 2006. Si trattava di
un progetto che, riutilizzando le
strutture esistenti già restaurate,
Santa Teresa
dell’
architettura
ipotizzava “l’inserimento” di
un nuovo corpo di fabbrica fra
questi padiglioni e la parte seicentesca del complesso, facendo
svolgere a questo “elemento di
intrusione” la funzione di cerniera dell’intero sistema funzionale. E con ciò ricongiungendo,
idealmente e praticamente, le
strutture ottocentesche e quelle
seicentesche che erano state sostanzialmente solo giustapposte.
Il progetto esecutivo del primo
stralcio è stato redatto nel 2008
al quale è seguito l’appalto del
2011 e l’esecuzione dei lavori
dal 2012 al 2016. L’intervento
ha sostanzialmente confermato
questa impostazione iniziale.
Un’impostazione che Alberto
Breschi così racconta: “Lo studio
attento della storia del complesso e le complesse articolazioni funzionali della Facoltà di
Architettura, costretta a nuovi
ordinamenti didattici imposti
dalla recente riforma universitaria, non permettevano un semplice riadattamento funzionale
basato sul mantenimento degli
spazi presenti, ma rendevano
indispensabile inserire un nuovo
corpo di fabbrica che introducesse nel complesso storico un
nuovo e riconoscibile impianto
distributivo e più che altro fornisse a questa formidabile stratificazione storica di parti diverse
il valore di una nuova spazialità,
cancellasse l’atmosfera carceraria
e arricchisse il luogo della vista
della città e quindi del senso di
appartenenza e di identità.
Ero quindi nelle migliori
condizioni in cui può trovarsi
un architetto quando inizia un
nuovo progetto.
La conoscenza del manufatto
era stata acquisita non solo con
la documentazione storica che
avevo raccolto in funzione della
presentazione agli organi competenti del progetto di recupero
dell’intero complesso, ma di
questo ne avevo una percezione diretta avendo insegnato in
quegli spazi durante molti anni
di attività didattica.
Era parso evidente non solo a
me, ma ai colleghi tutti e agli
studenti, che il recupero attuato
precedentemente (a cura degli
uffici tecnici dell’Università) se
da un lato aveva avuto l’indubbio merito di recuperare spazi
per la didattica non era pienamente riuscito a modificarne la
percezione ancora pesante della
sua funzione precedente: un
carcere.
L’impianto distributivo, poiché correttamente era stato
assunto un criterio di massima
conservazione , aveva risentito
dell’organizzazione estremamente vincolante del precedente carcere: corridoi e scale
non rispondevano a una chiara
espressione di comprensione
degli ambienti e le aule e gli altri
spazi di studio, compreso una
sequenza di celle riadattate ma
ancora perfettamente visibili,
avevano mantenuto quell’atmosfera claustrofobica caratteristica
Da non
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dei luoghi di pena.
Le aperture, alte ancora provviste di inferriate, si aprivano
su scorci di cielo senza che lo
sguardo potesse dirigersi verso
l’intorno del contesto urbano.
Un luogo di studio con spazi
compressi e chiuso ed estraneo
alla città.
Il nuovo progetto definitivo che
era finalizzato al pieno recupero
di tutto il complesso carcerario era l’occasione non solo di
rifunzionalizzare spazi dismessi
ma di attuare una vera e propria
metamorfosi che ne cambiasse
in primis l’atmosfera”.
L’opera realizzata conferma
appieno questo assunto progettuale. Alberto Breschi usa tutte
le arti e le conoscenze dell’architetto per evidenziare il ruolo di
questo nuovo corpo di fabbrica
come sistema di cerniera funzionale e di spazio di relazione e di
distribuzione. In primo luogo
gioca con le altezze e con i doppi
e i tripli volumi. Chi entra
dall’ingresso di via della Mattonaia si trova davanti uno spazio
in cui prevalgono verticalità e
chiarezza organizzativa. Si sa,
prima di salire i pochi gradini
per raggiungere il piano di calpestio originario del convento,
di entrare in uno spazio speciale.
Lo si percepisce dal fatto che,
da subito, si vede l’altezza e la
dimensione unitaria di questo
corpo di fabbrica alto oltre dieci
metri e profondo oltre trenta. Lo
si capisce perchè la nuova struttura non aderisce completamente alla vecchia ma vi si discosta
di alcune decine di centimetri e
per passare dalle scale, contenute
nel nuovo edificio, alle aule,
situate nel vecchio complesso, si
attraversano piccole passerelle.
Questo consente di percepire
immediatamente la dimensione
verticale come elemento centrale
dell’intervento e di comprendere
che siamo dentro al convento ma in uno spazio nuovo e
progettato ex novo. E in questo
rapporto fra il nuovo edificio
(riconoscibile anche dai colori
delle pareti che sono bianco e
fumo di Londra) e il vecchio
convento (un più classico beige)
si gioca l’intero progetto.
Progetto che contiene anche alcuni altri importanti elementi di
novità. Fra tutti un riconquistato rapporto con la città e con le
vedute delle città. È infatti que-
sto il secondo aspetto che coglie
immediatamente l’attenzione di
chi si addentra all’interno dell’edificio. La dimensione della trasparenza e della continua ricerca
della vista verso l’esterno. Verso
i cortili che sono interposti fra i
corpi di fabbrica ottocenteschi,
e che assumono nuovo valore e
nuova dimensione con la grande
parete vetrata del nuovo edificio,
e verso l’esterno, la città che sta
li a pochi metri e che prima era
invisibile. Ora invece gli studenti
del Dipartimento di Architettura
potranno (e aggiungo dovranno)
costantemente confrontarsi con
il contesto. Con la città di Firenze della quale si vedono con
chiarezza non solo i principali
elementi simbolici (come le due
cupole della Cattedrale e della
Sinagoga e la Torre di Arnolfo)
ma anche e soprattutto il suo
corpo denso e vitale. Alberto
Breschi gioca con attenzione e
sapienza su questo rapporto, e
sulla necessità di aprire l’edificio
al contesto, con pareti completamente vetrate verso il cortili
e con pareti ombreggiate da
parasole sulle parti alte dell’edificio quasi a voler costruire un
„non edificio“ che costituisca
un luogo da quale vedere senza
essere visti.
Un progetto che rappresenta con
chiarezza la capacità di concepire
il recupero e il restauro come
un vero nuovo progetto, capace
di dialogare con il passato senza
rinunciare ad un linguaggio
contemporaneo. Un intervento
di “architettura mediterranea”
potremmo definire questa sintesi
estrema, quasi una simbiosi, fra
il restauro filologico di alcune
parti del vecchio complesso
conventuale e l’introduzione
di un elemento architettonico
del tutto nuovo come quello
che ospita il sistema di distribuzione orizzontale e verticale.
Intendendo come architettura
mediterranea quella capacità di
leggere il contesto e di saperlo
trasformare, anche radicalmente
e con l’introduzione di nuovi
volumi, senza la perdita d’identità storica, simbolica, materica
del vecchio edificio.
Dalle nuove aule ricavate con
questo primo stralcio (costo
dell’intervento circa 5 mln di
euro) nella parte est del vecchio
convento che si affaccia sul
chiostro si vedono le altre parti
dell’ex carcere che aspettano i
finanziamenti per poter essere
finalmente restituite alla nuova
funzione didattica. Il progetto
preliminare esiste già e quindi è
auspicabile che si trovino le risorse per completare un progetto
degno della grande tradizione
della Facoltà di Architettura
della città.
riunione
di
famiglia
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pag. 4
Le Sorelle Marx
Il tumulto dei Cionchi
Tumulto dei Cionchi ieri a
Palazzo Vecchio. Non dei Ciompi,
salariati lavoratori della lana che
nel Trecento dettero vita ad una
delle prime sollevazioni popolari
pseudo-sindacali della storia,
bensì dei Cionchi che il dizionario
etimologico riporta con la dizione
ottuso, mozzo. Infatti, il colto
direttore del museo “F.Stibbert” dove si trova una delle collezioni
più importanti al mondo di armi
antiche –si è ripreso armature e
spade antiche affidate nei decenni
addietro al corte del Calcio Storico
in quanto in parte sono sparite e
le rimanenti tenute e utilizzate in
maniera sciatta. Ciò ha scatenato
uno tumulto verbale fra il Presidente del Calcio Storico Fiorentino
Michele Pierguidi (fra le altre cose
anche presidente del Quartiere 2,
presidente toscano di Federbocce,
delegato provinciale delle Federbasket, ecc. piccoli Eugeni crescono...) e l’assessore alle tradizioni
popolari Andrea Vannucci, i due
cionchi della nostra storia. I due
si sono scaricati reciprocamente le
responsabilità, nel più classico stile
renziano (quali entrambi sono), e
poi sono venuti alle vie di fatto.
“Oh ciccino smilzo, ora tu glielo
dici te a ‘i Colla che le armature le
si rivogliono, sennò gli mando una
accurata selezione di calcianti delle
4 squadre in visita a ‘i su’ museino
dei miei...” ha inveito il Pierguidi,
noto per essere il più sanguigno.
Ma il Vannucci che, nonostante la
Massimo Cavezzali
[email protected]
Roberto Innocenti
Innocenti e colpevoli
linea filiforme non è certamente
uno tenero, ha replicato: “Caro ‘i
mi’ panzone, tu sei presidente di
quell’accozzaglia [notare, prego, la
fine citazione del Supremo ndr.] di
buzzurri che ogni anno si pigliano
a cazzotti in piazza S.Croce, sicché
tu te la vedi te e son c... tua!”.
“Sieeee, e avevo ricevuto appena
l’altro ieri 15.000 euro da ‘i Giani
con la su’ leggina per le tradizioni
storiche... ora con questo scherzetto
tuo e di’ Colla mi tocca tirarne fori
altrettanti per ripagare le armi che
son sparite”
E così via, son volate parole grosse
fino a che il Pierguidi, rosso paonazzo in viso, ha gettato il guanto
della sfida: “Ora, caro segaligno,
si va dietro in via della Ninna e ti
sfido a duello, con le spade di’ caro
Stibbert!”. “Ah, ma allora tu sei te
che tu le hai rubate... brutto porco!
Scegli il tuo secondo, io faccio venire i’ mi professore Carlo Fusaro,
se ‘un’è in giro a propagandare
‘ì verbo referendario”. “Va bene,
secchino, io scelgo la Titta Meucci,
mia predecessora alla presidenza
di’ Calcio Storico e si sta a vedere
come la va a finire!”
La mattina dopo si sono trovati
alle 6 davanti alla porta della Sovrintendenza di via della Ninna,
naturalmente senza i secondi vista
l’ora antelucana, ma pare che la
singolar tenzone sia finita nella
fiaschetteria di piazza del Grano.
E delle spade storiche... nessuna
traccia.
Scavezzacollo
di
disegno di
Il Rosso e il Nero
I Cugini Engels
Il direttore inascoltato
Sergio Staino è il direttore
dell’Unità. Così almeno ci e gli
hanno detto, ma evidentemente
le cose nel quotidiano fondato da
Gramsci e affondato da Bonifazi,
non devono andare così. Prima su
twitter si dissocia dalla brillante
firma del giornale Rondolino,
i cui editoriali scritti in punta
di manganello indignano gran
parte dei vecchi lettori. “Scrive
solo sull’online di cui non sono
direttore” si difende il padre di
Bobo per venire smentito dallo
stesso Rondolino nell’arco di un
tweet. Non pago di questo il
direttore presunto detta un titolo
sulla morte di Castro: “finisce
il secolo dei sogni” che il giorno
dopo in pagina si legge “finisce il
secolo delle illusioni”. Un cambio
di senso piuttosto importante del
quale Staino da conto (e chiede
scusa) ai lettori in una lettera
al suo giornale. Non fosse che si
tratta di un quotidiano per il
quale intere generazioni hanno
sospirato e pagato pure prezzi
importanti, sui luoghi di lavoro
e nella società civile, saremmo di
fronte al miglior situazionismo
immaginabile.
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DICEMBRE
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pag. 5
Danilo Cecchi
[email protected]
di
Paris a Berlino
F
ra le conseguenze della
caduta del muro di Berlino, e parlando in campo
strettamente fotografico, abbiamo
assistito da una parte all’esplosione
dei giovani talenti dell’Est, la cui
scrematura, passati i facili entusiasmi iniziali, è tuttora in corso, e
dall’altra alla scoperta dei fotografi
della generazione precedente,
quella che ha lavorato per venti
o trent’anni entro i confini della
DDR, in maniera autonoma, in
assenza di committenze pubbliche, assegnate solo ai “fedelissimi”,
ed anche in assenza di committenze private, per carenza di un
qualsiasi tipo di libero mercato.
Spesso i fotografi della DDR,
misconosciuti in patria negli anni
dai Sessanta agli Ottanta, sono
stati glorificati dopo la caduta
del muro, ma con motivazioni
essenzialmente politiche, in quanto voci “critiche” o comunque
“dissonanti” rispetto al regime,
e specchio del disagio dell’epoca
del “socialismo reale. Per altri
fotografi il riconoscimento tardivo
corrisponde invece ad effettive
capacità artistiche e professionali.
Fra questi ultimi merita attenzione
la personalità di Helga Paris, che
nasce nel 1938 in Polonia come
Helga Steffens, dal cognome della
madre, con la quale si rifugia nel
dopoguerra vicino a Berlino, si
diploma nel 1956 e si specializza
nel 1960 in “fashion design” a
Berlino. Nei primi anni Sessanta
Helga, con l’aiuto di alcune zie,
diventa una fotografa autodidatta,
inizia a fotografare con una Flexaret biottica cecoslovacca costruita
ad imitazione delle Rolleiflex e
sposa il pittore Ronald Paris. Nel
1966 si trasferisce a Berlino nel
quartiere di Prenzlauer Berg ed
inizia a lavorare in maniera professionale, avvicinandosi all’ambiente
culturale, frequentando pittori
ed artisti di teatro, e realizzando i suoi primi reportage sugli
ambienti di lavoro e sulla moda
per la rivista giovanile Leben. La
parte più interessante della sua
opera viene invece realizzata al di
fuori di ogni rapporto di lavoro,
come “free lance”, quando il suo
sguardo, affinato da anni di pratica, comincia a posarsi in maniera
acuta e sistematica sugli ambienti
urbani e sulle persone, isolandole
e quasi astraendole dal contesto
generale, ma con chiari riferimenti
alle problematiche sociali. Fotografa i pub di Berlino, gli uomini
della raccolta della spazzatura, i
giovanissimi di Berlino e la vita
della cittadina industriale di Halle.
Come per ogni artista degno di
questo nome, il lavoro di Helga
trascende la documentazione o la
cronaca di un particolare momento storico, e non si esaurisce nel
racconto di una Berlino dimessa
e trascurata, con file di Trabant
parcheggiate in strada, per rivelare
il volto di una umanità varia e
composita, senza tempo, persone
di cui viene esaltato innanzi tutto
l’aspetto individuale e soggettivo.
Fra i suoi maestri ideali si citano
August Sander, per la compostezza
e la potenza espressiva dei suoi
personaggi, Albert Renger-Patzsch
per il rigore delle inquadrature e
la pulizia formale, e perfino Henri
Cartier-Bresson per il suo interesse
verso la vita vissuta in strada,
anche se il suo modo di accostarsi ai suoi personaggi è diretto e
coinvolgente, e non è certamente
del tipo “à la sauvette”. Helga
viene osteggiata ed isolata a causa
del suo modo di operare, ritenuto
non troppo allineato rispetto alla
immagine “pubblica” della DDR,
ed una sua mostra del 1986 viene
addirittura annullata a pochi giorni dall’inaugurazione. Helga viene
riconosciuta come una delle più
significative fotografe tedesche solo
dopo il 1990, quando inizia di
nuovo ad esporre le sue immagini.
Alla fine del decennio pubblica
alcuni fotolibri monografici, fra
cui “Diva in Grigio” sulle case di
Halle, e viene accettata nel 1996
come membro dell’Accademia
delle Arti di Berlino.
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pag. 6
Laura Monaldi
[email protected]
di
I
l futurismo ha posto le basi
per una sperimentazione
sul linguaggio senza precedenti: suono, segno, significante,
significato e aspetto tipografico
vennero messi in discussione per
sottolineare l’esigenza di una rinnovata libertà comunicativa ed
espressiva. Il senso profondo che
legava gli aderenti al movimento
produsse una poetica priva di
limitazioni, ove la macchina, la
forza, l’energia, il progresso e
il futuro si qualificarono come
le basi fondanti di un nuovo
modo di intendere l’Arte e la
vita. Fortunato Depero sviluppò
una prassi dedita a fare dell’Arte
un’estetica della vita in senso
poliedrico e dissacrante, facendo
del manifesto futurista un inno
di ricostruzione moderna e svincolata dai dettami di un passato
che appariva irriconoscibile e
che denaturalizzava il nuovo
modo di sentire e percepire la
contemporaneità. Nelle sue
opere vennero convogliate tutte
le speranze pre e post belliche,
con la presa di coscienza che
qualcosa doveva cambiare e
che l’Arte doveva farsi carico
delle istanze di rinnovamento
culturale e sociale. Da qui la
sperimentazione a trecentosessanta gradi sui materiali e sui
linguaggi artistici, in virtù di un
dinamismo d’eccezione e di un
vitalismo che avrebbe dovuto risvegliare le coscienze dal torpore
ottocentesco. Fortunato Depero
si spinse oltre la tela e i limiti
contestuali dell’opera d’arte
per porsi nella condizione di
un intellettuale che ha solcato i
campi d’azione delle avanguardie
storiche costruendo una poetica
artistica personale e incline all’ironia. Gli automi, i complessi
plastici, i balli plastici, l’editoria,
la città meccanizzata, le poesie,
le tarsie in panno, il design, la
pubblicità, le esperienze americane, contraddistinsero l’artista
viaggiatore teso al progresso che,
esaltando se stesso e la propria
produzione, progettò una radicale trasformazione dell’ambiente umano, coinvolgendo tutti gli
ambienti della vita: dall’arredo
alla moda, dal cinema al teatro,
dalla musica alla danza , dal
manifesto pubblicitario all’oggetto d’uso quotidiano, sempre
in nome della libertà futurista
Il Futurista
che in Depero divenne l’apice
ideologico volto all’unificazione
di tutte le arti, a cui le generazioni successive guardarono per
consacrare lo stile di un’Arte
totale e totalizzante che dalla
parola all’immagine sperimentò
le infinite possibilità del pensiero
creativo.
Sopra
Aaiii Tatapum-gran,
1932
China su carta
cm 27,8x21,7
Dizionario Depero lettera P, 1947
Matita su carta, 4 fogli:
pagina 2 di
4 della lettera P del
primo abbozzoindice
per il “Dizionario
Depero”,
già in progetto a New
York
cm 33x22
Courtesy Collezione
Carlo, Palli
Prato
D
e
p
e
r
o
3
DICEMBRE
2016
pag. 7
di
Luca Lanzoni
Q
uesta esposizione è fatta
per ricordare una caro
amico, Paolo Cammelli, Assessore alla Cultura del
Comune di Fiesole per 20 anni
e appassionato collezionista di
arte orientale e africana
Perché quindi una esposizione
sul buddhismo? Ed in particolare sull’arte buddhista? Perché
è questa la principale e la prima
forma di collezionismo a cui
proprio Paolo mi ha avvicinato.
Tentare di dare anche solo una
seppur vaghissima idea del
Buddhismo e dell’arte ad esso
legata in uno spazio limitato (ed
mata da oltre 130 pezzi si basa
fondamentalmente sull’interesse
per le forma del Buddha in
particolare sull’ espressione del
volto sulla posizione del corpo
su quella delle mani in molti
casi, insieme a mia moglie Mirella, che è stata contagiata da
questa passione, sull’espressione
del viso che quasi sempre emana una dolcezza ed una serenità
che in molti casi ci hanno destato emozioni e poi entusiasmo.
Poche parole sui pezzi esposti
e sul criterio con il quale sono
stati scelti: il buddhismo si
divide in 3 principali scuole
che si diffondono nei territori
dell’estremo oriente in momenti
Nel segno
di Buddha
(e di Paolo)
anche in uno spazio non limitato) è una impresa impossibile;
vi sono intere biblioteche e interi musei a questo dedicati. Con
questi pochi oggetti intendo
soltanto dare un’idea della mia
collezione e soprattutto della
passione che Paolo mi ha comunicato e della consapevolezza
che mi ha trasmesso, ovvero
che, anche con mezzi molto
modesti, è possibile raccogliere
oggetti che hanno innanzitutto
valore per noi stessi, che ci fanno sognare popoli terre culture
lontane.
La mia passione per la filosofia/
religione Buddhista (già questa
dizione potrebbe scatenare un
dibattito infinito) inizia circa 20
anni fa, mentre da dieci anni è
iniziata la raccolta di statue ed
oggetti legati al culto buddhista ed è iniziata proprio con
un regalo da parte di Paolo e
dalla frequentazione con lui di
mostre mercati negozi nascosti
insomma di tutti quegli angoli
dove si può trovare qualcosa di
interessante che possa soddisfare
la propria curiosità il proprio
interesse. La mia collezione for-
ed epoche diverse le tre principali correnti sono Mahaiana,
Vajrayana e Theravada e le
troviamo distribuite in tutto
l’oriente dal Viet Nam al Tibet
dalla Mongolia al Giappone, come si può vedere dalla
semplice cartina, ma durante i
secoli giunsero a toccare l’Iran,
l’Afghanistan, la Siberia. Oltre
ad esporre quindi i pezzi che,
con criterio del tutto personale,
ci sono sembrati i più belli e
più rappresentativi ho cercato
di dare anche un’idea seppur
vaga della diversità di forme che
si sono sviluppate nelle diverse
regioni; infine, poiché sono di
fondamentale importanza nel
Buddhismo la posizione del
corpo e delle mani (mudra) che
comunicano gli stati d’animo,
abbiamo cercato di fornire delle
semplicissime spiegazioni su tali
significati. I pezzi non sono facilmente databili appartengono
tutti al 20° secolo forse alcuni
al 19°, la cosa importante è che
nessuno di questi è un pezzo
“turistico” ovvero costruito per
il mercato sono comunque tutti
pezzi originali di culto.
Le terre del Budda
In ricordo di Paolo Cammelli
a Quadro 0,96
via del Cecilia, 4 Fiesole
3
DICEMBRE
2016
pag. 8
di
Francesco Milanesi
La Galleria il Ponte, ha inaugurato
una mostra di Renato Ranaldi
nella quale vengono presentati tre
nuclei di opere di periodi diversi.
Si parte cronologicamente dagli
“Angolari” (1973-74) installati al
piano interrato della galleria in
cui l’accostamento di due tele crea
un angolo che funziona da quinta
teatrale. Al primo piano le pareti
sono “tappezzate” di disegni in
nero china su carta, una selezione
fra i 32 “Scioperìi” raccolti nel
libro omonimo, insieme ad un
racconto dello stesso Ranaldi e ad
una postfazione di Bruno Corà,
pubblicato dalle edizioni Gli Ori
nel 2016. Ai margini del foglio
bianco l’artista ha articolato disegni o schizzi (denominati appunto
scioperìi). Questo, che potrebbe
apparirci come un bizzarro termine d’invenzione, è riportato-come
testimonia Corà- in un manuale di restauro ad indicare quei
disimpegni grafici, fatti per gioco,
a margine e commisti alla parte
progettuale della sinopia, nonchè ai margini di codici e scritti
notarili. Dall’ingresso della galleria
infine, sulla parete di fondo, si
impone allo sguardo una grande
opera creata appositamente per
questa esposizione: “Contenzioso”(2016). Due tele bianche di
uguale dimensione sono messe in
relazione e unite da un agglomerato policromo informe di colori
ad olio. Della mostra si apprezza
la felice specularità fra la parola
di
Remo Fattorini
Segnali
di fumo
Dice l’Istat: è la mobilità (traffico eccessivo, difficoltà di parcheggio, inquinamento dell’aria
e mezzi pubblici inefficienti)
la principale causa di insoddisfazione delle famiglie italiane.
Basta dare un occhio al traffico
nelle nostre città per capire che
hanno ragione. Eppure i costi
sociali sono alti: ogni anno in
Europa sono 467mila le vittime
da traffico. L’Italia con 84.400
decessi detiene il record europeo
di morti per inquinamento
dell’aria. Anche nel nostro
Pochi
e stentati
segni
e l’immagine che si riflettono
l’un l’altra senza fine toccando il
tema ontologico della rappresentazione e l’intrinseca comicità che
da essa scaturisce fino a divenire
contemplazione della condizione
del vivere, libera da qualsivoglia
sbavatura etica. E gli scioperìi ai
margini del foglio bianco sono allusivi, creati dalla mano dell’artista
che erra e ricorda mani delle quali
non è rimasta neppure la polvere.
Parafrasando Montale, pochi e
stentati segni.
piccolo, a Firenze - indagine del
Politecnico di Milano – l’88%
delle polveri sottili, quelle che
avvelenano l’aria che si respira
sono prodotte dal traffico; solo
il 10% dai riscaldamenti (responsabili invece del 75% delle
emissioni climalteranti, CO2),
e il 2% dalle attività produttive.
In sostanza Firenze è messa assai
peggio di Milano e Genova. Si
è scoperto l’acqua calda: basta
farci un giro per capirlo. Tutte le
direttrici sono sempre ingolfate.
Spostarsi da una parte all’altra
della città vuol dire perdere ore,
con assurdi sprechi di tempo.
Situazioni e segnali piuttosto
chiari per sindaci e amministratori locali: servirebbero da
subito piani radicali a favore
della mobilità sostenibile. Scelte
precise per facilitare gli sposta-
menti a piedi e in bici,
non inquinano, costano
meno alla collettività,
fanno meglio alla salute
oltre a rendere più
viva e bella la città; poi
ampie zone pedonali
ed estese fasce a traffico
limitato e, infine, un
trasporto pubblico affidabile.
Servirebbe tutto questo e altro
ancora, ma niente di tutto ciò è
all’orizzonte. Unica eccezione:
la tranvia.
Ci sono città, per esempio Copenhagen, dove nonostante un
clima assai più freddo e piovoso
del nostro, il numero delle bici
in circolazione ha superato
quelle della auto: 266mila bici
contro 252mila auto. Lì nel
2012 è stata inaugurata la prima
autostrada per sole bici, con tut-
ti i comfort per i biker
pendolari. Risultato: l’uso della bici è cresciuto
del 68%. L’idea ha fatto
strada: in Olanda 60 km
di autostrade, Francoforte 30 km, Monaco
15, un centinaio nella
Ruhr. Esistono persino
nella Corea del Sud.
Le piste ciclabili sono lo strumento più efficace per ridurre
traffico e inquinamento urbano.
Discorso analogo vale anche
per il trasporto pubblico, dove
funziona l’auto resta in garage. Domanda: perché non si
possono fare anche dalle nostre
parti? Così tanto per migliorare
sul serio l’aria che si respira nella
città del Rinascimento che, nelle
classifiche della qualità, scivola
sempre più in basso.
3
DICEMBRE
2016
pag. 9
Rinascimento inglese
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
I
l referendum che ha sancito
l’uscita del Regno Unito
dall’Unione Europea dovrebbe aver cancellato il pessimo
vizio di definire “Inghilterra”
quella che invece si chiama
“Gran Bretagna”. Mai come
stavolta, infatti, è apparsa chiara
la distinzione fra le regioni
inglesi e il resto del paese. Ma la
riscoperta di un’identità culturale inglese è un fenomeno più
ampio, che precede la Brexit e
va ben oltre la politica. Trattandosi di un fenomeno culturale
articolato non poteva mancare
la musica.
Nel 1904 lo scrittore tedesco
Oskar Schmitz aveva pubblicato un saggio intitolato Das
Land ohne Musik (La terra senza
musica). La terra in questione
era appunto la Gran Bretagna. Secondo Schmitz il paese
nordico somigliava a un deserto:
come un paese arido dove non
piove mai, così la Gran Bretagna
era rimasta estranea a qualunque
fermento musicale. Parole ingiuste. È vero che fra il Settecento
e l’Ottocento la Gran Bretagna
aveva avuto un rilievo inferiore
rispetto ad altri paesi come la
Francia, l’Italia, la Russia e quelli dell’area germanofona. Ma è
altrettanto vero che all’inizio del
Novecento erano già emersi Ralph Vaughan Williams e Gustav
Holst. Poi ne sarebbero arrivati
altri, fra i quali un gigante come
Benjamin Britten.
Negli ultimi anni del secolo scorso questo patrimonio
dimenticato è stato oggetto di
una riscoperta attenta documentata da dischi, libri e festival.
Il BBC Music Magazine ha
cominciato a dedicare ampio
spazio ai compositori autoctoni.
Questa tendenza è stata favorita
da alcuni anniversari, come
il cinquantenario della morte
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Molti di loro traggono linfa
vitale dall’influenza delle culture
celtiche. Philip Heseltine (Peter
Warlock) scrive alcuni brani corali ispirati alla tradizione cornica. Percy Grainger, australiano,
si trasferisce in Gran Bretagna
nel 1901. Viaggia a lungo in
Inghilterra e nei paesi scandinavi, raccogliendo e trascrivendo
oltre 500 canti popolari. Gustav
Holst, nato in una famiglia di
origine svedese, manifesta un
forte interesse per la cultura
indiana. Questo gli ispira numerose composizioni, fra le quali
l’opera Savitri (1908) e la suite
Beni Mora (1909-1910). L’unico
limite del libro è l’assenza di
figure femminili: una compositrice come Rebecca Clarke,
tanto per fare un nome, avrebbe
meritato un capitolo.
Per finire, una riflessione: la
globalizzazione ci ha insegnato a
guardare lontano, permettendoci di conoscere scrittori africani,
musicisti siberiani, scultori
cinesi. Si tratta di un fenomeno positivo che ci arricchisce,
a patto che non generi un
disinteresse verso le espressioni
culturali europee come quella di
cui abbiamo parlato.
Susanna
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di Ralph Vaughan Williams
(2008) e il centenario della
nascita di Benjamin Britten
(2013). In questo panorama si
inserisce il libro A New English Music: Composers and Folk
Traditions in England’s Musical
Renaissance from the Late 19th to
the Mid-20th Century (McFarland, 2016). L’autore è Tim
Rayborn, un eccellente musicista americano specializzato nel
repertorio medievale e barocco.
La prefazione è firmata da Em
Marshall-Luck, fondatrice
dell’English Music Festival. Questa giornalista di vaglia è anche
l’autrice di Music in the Landscape: How the British Countryside
Inspired Our Greatest Composers
(Hale, 2011), per molti versi
analogo al libro di Rayborn, ma
ancora più ampio e dettagliato.
A New English Music analizza
l’opera di sette musicisti attivi
fra la fine del diciannovesimo
secolo e la metà del secolo
successivo.
Legati alla propria terra, questi
compositori trovano ispirazione
nell’ambiente naturale: boschi,
colline, fiumi, laghi, monti. Ma
questo non li confina in un
ambito locale.
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3
DICEMBRE
2016
pag. 10
Maurizio Berlincioni
[email protected]
di
Q
uando ho saputo che
Angela Davis sarebbe
arrivata a Firenze per una
conferenza a villa “La Pietra”,
residenza storica di Sir Harold Acton, attualmente sede
della NY University, ho fatto un
grande salto di gioia. L’evento
aveva un titolo molto suggestivo “The Industry of Social
Rejection” (L’industria del
rifiuto sociale). E’ ovviamente
un testo che è tutto un programma e non ha certo bisogno
di spiegazioni.
L’argomento rientrava appieno nei miei interessi culturali
e professionali, ma il motivo
vero della mia gioia per questa
notizia è stato il fatto che, a ben
44 anni di distanza, avrei potuto
incontrare di nuovo una persona splendida che avevo avuto il
piacere e l’onore di conoscere
nel lontano 1972. Mi trovavo
da qualche mese in California
per motivi familiari e proprio in
quei giorni, nel tribunale della
Contea di Santa Clara, si stava
celebrando il processo a questa
giovane intellettuale e attivista
nera, nota simpatizzante del
Partito Comunista USA, allieva
di Herbert Marcuse a Francoforte.in una intervista televisiva
del 2007 Angela dichiarò che fu
appunto lui a dirle che “era possibile essere docenti universitari,
attivisti, intellettuali e rivoluzionari al tempo stesso”.
Attualmente Angela insegna “Storia della Coscienza”
nell’Università della California
A Santa Cruz, dove dirige anche
il “Women Institute”. in questo
periodo è a giro per l’Europa
assieme alla collega Gina Dent,
anche lei docente nella stessa
università dove tiene lezioni
sulla cultura e la letteratura africana. Recentemente ha pubblicato un libro dall’emblematico
titolo “Prison as Border”.
Seguire le relazioni di queste
due donne di notevole talento
e caratura e il dibattito che ne
è scaturito è stato un grande
piacere. Purtroppo, dato ii
grande affollamento di studenti
e docenti siamo stati costretti assieme a un sacco di altre
persone, a seguire l’evento da
un’altra sala collegata con schermo e altoparlanti al locale in cui
si stava svolgendo l’incontro.
Angela Davis
44 anni dopo
Alla fine siamo scesi anche noi
nel grande salone dove si era
svolta la conferenza/dibattito e
finalmente sono riuscito ad avvicinare Angela e scambiare con
lei quattro parole in mezzo alla
confusione del caso. Senza avere
la pretesa che lei si ricordasse di
me le ho parlato del mio ultimo
libro, il mio primo in forma
digitale, realizzato recentemente assieme all’amico Sandro
Pintus, dal titolo “My Seventies
in California - I primi anni
Settanta visti da un fotografo
italiano”. Credo che il colloquio
sia durato al massimo 5 minuti
poiché lei era assolutamente
assediata da tutti gli studenti e i
docenti presenti. Non c’erano le
condizioni per una conversazione come avrei voluto io, ma mi
sono reso perfettamente conto
che in quella situazione non era
possibile sperare in qualcosa di
diverso. Angela mi ha comunque confermato di aver ricevuto
dalla Dott.sa Toscano, direttrice
della NY University, l’unica
copia attualmente esistente in
versione cartacea del nostro
libro “My Seventies in California”. Ovviamente averle potuto
donare questo volume, in cui le
prime 23 pagine sono dedicate
proprio a lei ed al suo processo,
ha fatto molto piacere sia a me
che a Sandro Pintus.
E come si dice a questo punto?
… e siamo rientrati tutti a casa
“felici e contenti”.
3
DICEMBRE
2016
pag. 11
Labirinti di poesia
Mariangela Arnavas
I
l Labirinto a Volterra è un
insieme di viuzze che dalla famosa Porta all’Arco arrivano
fino ad una parte delle Mura, da
cui in lontananza si vede il mare; è
un intrico carico di storia; contiene un piccolissimo vicolo, giusto
pochi scalini sotto un pesante
arco formato dalle case, chiamato
“Degli abbandonati”, dove si rifugiavano quelli che non avevano
più nulla, per chiedere soccorso
alle Suore Vincenziane e c’è una
strada, appunto Via de’ Laberinti,
ritrovo di artisti, che ha ispirato il
volume di poesie di Roberto Veracini. Roberto è un poeta, che riesce con equilibrio funambolesco a
rimanere legato alle proprie radici,
a Volterra, sempre fonte d’ispirazione, “città - nave arenata sul
poggio a guardare il mare”, come
ricorda nella postfazione Bernard
Vanel, un luogo dove, di regola, ci
si chiude o si scappa, essendo però
davvero cittadino del mondo,
capace di scovare nell’ultimo caffè
operaio di Parigi un enorme jukebox con tutte le migliori canzoni
degli storici cantautori francesi da
Georges Brassens a Jacques Brel a
Léo Ferré, del resto suoi ispiratori.
Non è un caso, infatti, che Veracini, nato a Volterra nel 1956 dove
vive, sia uno dei pochissimi autori
italiani pubblicati da Gallimard
nel 2010 in un’antologia dal titolo
“Le Poetes de la Mediterranee”.
Fra le sue preziose abitudini c’è
quella di dialogare costantemente
con altri artisti, spesso appunto
in Via de’ Laberinti, dove molti
hanno il loro studio. Così la presentazione del suo libro a Livorno,
pochi giorni fa, è diventata quasi
una collettiva cui fa da sfondo un
pannello dell’artista Ivo Lombardi
su cui risulta lievemente incisa
una delle poesie nel testo, che si
può vedere in foto. Nel 2014, lo
sbocco sulla vista del mare dalle
mura di Volterra, apertura del
Labirinto, sprofonda sotto le forti
piogge:
“E non
sembrava vero,
quel silenzio,
li’ davanti,
Il vuoto
nero, dopo la pioggia
e la pioggia
che restava
prigioniera
sulla soglia”.
Le Mura sono state da poco rico-
struite, ma la ferita resta nell’aria
come le presenze che “A volte si
sentono nella stanza,
segnano i passi, si allontanano,
leggere e poi ritornano.....
Sono presenze mobili, aeriformi,
non codificabili. Così vicine, a
volte
sembra proprio che vogliano
farsi riconoscere.”
Anche qui Veracini coglie pienamente lo spirito della sua città,
della città’/nave in secca nelle
rocce da cui si può guardare il
mondo, dove tutte le stratificazio-
ni dalla preistoria agli Etruschi,
dal Medioevo alle installazioni del
2000 sembrano contemporanee,
in una sorta di globalizzazione
temporale e spirituale, in cui
la materia e le aeree presenze
coesistono, passando per la pietra
e la roccia e per le mani degli
alabastrai:
“Fra lui e la pietra
uno sguardo, un’intesa
un riguardo gentile
e mani grandi,smisurate
per capire “;
e ancora passando per le vicende
Lido Contemori
[email protected]
di
Il migliore dei Lidi possibili
Disegno di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
dei ribelli e dei briganti del primo
Novecento:
“A quei nomi,
Oscar, Tito
Ida, Ines,
arcaici nomi
di famiglia povera
ma ideali grandi,
anarchici,
di rivolta e giustizia
vera, negli anni Venti
la gente povera
rendeva omaggio,
pur essendo i maschi
briganti, ricercati in tutta
la Valdelsa e il Volterrano,loro
che nati erano
a Certaldo
e contro i fascisti
si erano fatti un nome, eroico
(come si diceva allora,
nella foga popolana)
e disperato...”
Ma se avesse ragione Roberto
Saviano quando dice che, nell’era
digitale, la fortuna dei poeti non
è più legata alla loro opera, nemmeno alla loro poesia, ma solo ad
un verso, io direi che in questo
caso sarebbe la chiave di lettura di
questo libro, ovvero:
“Solo un’ultima fede
fra le macerie bruciata
offesa, la poesia,
come fosse oggi
l ‘ultima impresa
o l’unica,necessaria,
follia....”
Nuova tecnologia
per la distribuzione
automatica della
ricchezza
3
DICEMBRE
2016
pag. 12
Il Monastero Macarenko
Sulla Transiberiana 3
a
di
Rossella Seniori e Marco Zappa
A
Nizhnij Novgorod abbiamo dedicato un giorno
intero a una gita sul Volga
con l’obiettivo di riposarsi un
po’ e di visitare il monastero di
Makarevo (di Macario). Non
si poteva tornare dalla Russia
senza essere stati sul Volga!
Makarevo è un monastero
fortificato costruito a metà del
XVII in una zona strategica per
il commercio sul fiume. Oltre
a luogo di culto è stato anche
un vivace centro economico e
culturale.
12 ore di battello in compagnia
di gitanti del posto (nessun
“straniero” oltre a noi). “E’
una delle mete favorite degli
abitanti di Novgorod” ci dice
Andreij, un fisico-matematico
riciclatosi a traduttore di libri
per bambini, che incontriamo
sul battello con cui parliamo
a lungo. Era molto contento
di incontrare degli italiani
(“amici della Russia” dato che
l’Italia contrasta le sanzioni
e l’embargo commerciale). I
russi hanno molto in comune
con gli italiani, ci dice. Anche
se la qualità del cibo non è
paragonabile alla nostra, non
c’è dubbio che stare a tavola ai
russi piace molto. Sul battello
erano disponibili solo bevande,
ma i tavoli erano stracolmi di
ogni tipo di vivande portate da
casa. Sul ponte del battello una
fisarmonica e un impianto stereo mandano musica continuamente. La gente interrompe il
mangiare per andare a guardare
alcune coppie, spesso di donne,
che distrattamente ballano.
Il battello va lento, scorrere
sull’acqua è piacevole. Dal
fiume si intravedono le cupole
di qualche chiesa. Poi, lontano
da Novgorod, non ci sono più
tracce di abitati. Sulle sponde
vediamo qualche tenda da campeggio e qualche motocicletta.
Alcuni prendono il sole sulla
riva. Ma l’acqua è marrone e fa
impressione l’idea che ci si possa
fare il bagno.
Il fiume via via si allarga, si
insinua nelle sponde formando
mille insenature e isolotti. In
vista di Makarevo l’atmosfera
è rarefatta, la quiete totale. Il
monastero ci appare da lontano, una meraviglia, con le sue
cupole verde e oro. E’ tenuto
da giovani suore che coltivano
anche un orto e un bel giardino
e che ci fanno da guida. Non
comprendiamo nulla naturalmente, ma Andrej ci traduce e
così riusciamo a capire qualcosa
di questo luogo.
A Novgorod, Kazan e a Ekaterinburg eravamo arrivati
facendo tratte di treno relativamente brevi. Poi viaggiamo per
2 giorni e 2 notti da Ekaterinburg a Irkutsk. Ed è proprio
in questo ultimo tratto di oltre
3000 chilometri che assaporiamo davvero la Transiberiana.
Avevamo preso diversi libri e un
e-book pensando che avremmo
avuto molto tempo per leggere
(forse ci annoieremo a vedere
solo betulle, pensavamo, meglio
attrezzarci). Ci allettava però
l’idea che sul treno avremmo
potuto parlare con altri passeggeri, magari in un confortevole
vagone ristorante ove prendere
il thè e gustare qualche piatto
di cucina russa. Invece né l’una
cosa né l’altra.
Viaggiare ore e ore attraverso il
fluire infinito di betulle, abeti,
prati, corsi d’acqua non è stato
per niente noioso, anzi, un piacere per gli occhi. Il verde non
stanca e la monotonia non leva
nulla alla bellezza del paesaggio,
che sta proprio nel suo ripetersi.
Ma le aspettative erano maggiori per quanto riguarda la vita
sul treno. Innanzi tutto non
si poteva andare da un vagone
all’altro. Motivi di sicurezza?
Probabilmente sì. Peraltro per
salire sul treno bisognava esibire
parte
i documenti al capo carrozza
che aveva la lista dei passeggeri.
Il vagone ristorante è stato una
delusione, pochi piatti serviti
senza garbo. Quasi sempre vuoto. Vi incontriamo un giovane
russo desideroso di parlare. Ma
il suo inglese è troppo scarso
e soprattutto le birre bevute
troppe perché si possa intavolare
una conversazione fatta di qualcosa di più che di sorrisi.
Tra Ekaterinburg e Irkutsk il
treno fa molte fermate. Sui
binari è possibile rifornirsi di
pane, frutta, focacce, bibite e
altro, venduti in piccoli chioschi o su carrettini come da
noi non si vedono da anni. In
alcune stazioni ci si ferma per
una mezz’ora e ciò permette di
scendere e camminare lungo i
marciapiedi ove ai pochi provenienti dall’Europa e dagli USA
si mescolano i molti viaggiatori
“locali”.
Al procedere verso Est si nota
il cambiare della fisionomia dei
passeggeri via via più orientali.
La Russia è un mondo. Anche
a Mosca si percepisce questa
mescolanza di Europa ed Asia,
ma viaggiare sulla Transiberiana ti dà la sensazione quasi di
entrare in questo mondo. A
Irkutsk siamo ai confini con la
Mongolia….
3
DICEMBRE
2016
pag. 13
Giacomo Aloigi
[email protected]
di
E
ccoci qua, l’evento della
settimana è il quarantesimo
anniversario di Controradio
e il trentacinquesimo del Tenax.
Non rimetto piede nel locale da
vent’anni e l’ultima volta è stato
per suonarci io stesso. Faccio la fila
per entrare, come ai vecchi tempi.
Il deja-vu è forte, come il freddo
che ci attanaglia. Non ci vuole
molto a capire che il pubblico
della serata è agée. Di giovanotti
e giovanotte quasi non se ne vedono. Ho tirato su i capelli con il
gel, indosso un completo nero con
cravattino rosso fuoco. Ma sì, dai,
siamo un po’ come le comparse di
un film in costume. Dentro noto
subito cambiamenti ed era inevitabile. Soprattutto mi accorgo che
il mitico ballatoio è stato ridotto
a un solo lato, quello sinistro. Io
andavo sempre a destra e non per
scelta politica. Incrocio volti conosciuti, la frase più in voga è “ero
sicuro di trovarti qui”. Il terrore
di ognuno è di fare la figura del
Fabris di “Compagni di scuola”,
ricordate? “Tu c’hai avuto un crollo, ma dell’ottavo grado della scala
Mercalli”. Va beh, pazienza. Alla
consolle del dj, Nicola Vannini
rinverdisce i fasti della Rokkoteca Brighton. Jimmy Tranquillo
come sempre sorride sornione ed
è quello più a suo agio. La sala si
va riempiendo, c’è davvero tante
gente, ma me lo aspettavo. Suoneranno i Tuxedomoon, che furono
tra i primi a calcare il palco del
Tenax e non a caso ho raccontato
di un loro meraviglioso concerto
del 1983 nel mio libro “Gotico
Fiorentino”. Sono tra i più longevi
e originali esponenti della new
wave, un’etichetta che comunque
gli ho sempre trovato stretta. Si sa
che eseguiranno per intero “Hal
Mute” il loro album del 1980, una
delle punte della loro produzione.
Mi isso su un gradone davanti al
banco del mixer e la cosa che più
mi colpisce sono i crani maschili,
per la stragrande maggioranza
glabri. I più compensano con la
peluria meridionale, infatti c’è un
gan proliferare di barbe bianche. Salgono sul palco Jimmy e
Romero per un saluto. Romero
esordisce subito con una gaffe. “E’
bello vedere che ci siamo ancora
tutti” urla nel microfono mentre
alle sue spalle sul maxischermo
campeggia la scritta “In loving
memory of our friend Bruce Ge-
Auguri Controradio
Auguri Tenax
di
Giovanni Pianosi
Ve la ricordate la “rododaktulos
Eos” – l’Aurora dalle rosee dita
– dei lontani anni di liceo? Da
Omero in poi, in tutta la poesia
greca dell’antichità, l’Aurora fu
sempre e comunque “rododaktulos”, come se fosse stato stipulato
un contratto la cui clausola centrale prevedesse: hai detto “Aurora”? e
allora devi dire “rododaktulos”.
Lo scrittore italiano che di questi
tempi leggo più volentieri, e con
maggior profitto, forse perché,
nonostante le apparenze, per motivi che mi sono ancora misteriosi
trovo in lui qualcosa di Proust –
sto parlando di Paolo Nori – si è
divertito a elencare un bel numero
di “aurore dalle rosee dita” che
ogni giorno impreziosiscono, si fa
per dire, i nostri discorsi.
“...se c’è un quadro, è allarmante,
se c’è uno stupore, è infantile, se c’è
uno sciopero, è generale, se c’è una
folla, è oceanica, se c’è un lupo, è
solitario, se c’è un cavallo, è di Troia,
se c’è una botte, è di ferro, se c’è un
terrorista, è islamico, se c’è un porto,
è delle nebbie, se c’è un silenzio, è di
tomba, se c’è un’ombra, è di dubbio,
se c’è una morsa, è del gelo, se c’è una
resa, è dei conti, se c’è una verità,
è sacrosanta, se c’è una salute, è di
duldig (1953-2016)”. Sì, ci siamo
ancora tutti. Eccetto quelli che
mancano. Poi arrivano i Tuxedo, i quattro rimasti, Reininger,
Brown, Principle e Van Lieshout.
Come da programma eseguono
tutto Half Mute. Nonostante
siano passati trentasei anni il loro
suono rimane attuale, non sa di
revival come tutto il resto intorno
a noi. Come noi. Regalano anche
qualche estratto da Desire per poi
chiudere, nell’unico bis, con The
Waltz, forse il mio pezzo preferito
(anche questo guarda caso lo cito
nel libro). Lo considero un regalo
personale. Anche se non lo è. Tanti applausi, meritati. Poi Nicola
Vannini riparte con Blue Monday
dei New Order e decine di splendidi cinquantenni si danno alle
danze. La serata volge al termine,
me ne vado stretto nel cappotto
perché il freddo morde ancora di
più. Il freddo della gioventù che
non ritorna.
Appunti sulla scrittura
di Proust
ferro, se c’è una svolta, è epocale, se
c’è un genio, è incompreso, se c’è un
ok, è del senato, se c’è uno sciame, è
sismico, se c’è un consenso, è informato, se c’è un secolo, è scorso, se c’è
una dirittura, è d’arrivo, se c’è un
pallone, è gonfiato, se c’è un cervello,
è in fuga, se c’è una repubblica,
è Ceca, se c’è un battesimo, è del
fuoco, se c’è un dispiacere, è vivo, se
c’è un carattere, è cubitale.”
Di segno completamente opposto
è l’uso che Proust fa degli aggettivi. Intanto, spesso, non si limita
a impiegarne uno solo ma ne
mette in fila parecchi in relazione
allo stesso sostantivo. Inoltre, ed
è la cosa più interessante, capita
di far fatica a cogliere il nesso
tra certi aggettivi e il sostantivo
cui si riferiscono e Proust non si
preoccupa se mette, uno vicino
all’altro, aggettivi che, a prima
vista, sembrano al lettore, oltre
che strani, anche contraddittori,
persino incompatibili. Per fare
un solo sintetico esempio, nel
descrivere l’atmosfera delle stanze
in cui viveva reclusa zia Léonie,
Proust scrive:
“...tornavo sempre con inconfessata
bramosia a invischiarmi nell’odore
mediano, appiccicoso, insipido,
indigesto e fruttato del copriletto a
fiori.”
Se l’Aurora è scontatamente
“dalle rosee dita”, gli aggettivi di
Proust molto spesso ci sorprendono fino a sembrare, talora,
strampalati. Si può escludere con
assoluta certezza che il suo scopo
fosse quello di épater les bourgeois. Piuttosto c’è da ricordare che
ai suoi tempi, al tramonto della
Belle Époque, il mondo perde
compattezza, regolarità, prevedibilità: Freud da una parte, Einstein
dall’altra, ci conducono verso
nuovi mondi, insospettati e insospettabili, fin dentro di noi. C’è
qualcosa di assolutamente nuovo
nell’aria, che Freud suggerisce coi
suoi casi clinici, Einstein con le
sue equazioni, Proust, forse non
meno cripticamente degli altri
due, coi suoi aggettivi.
È l’aurora di un tempo nuovo
ma, almeno nei cieli d’Europa, di
Aurore dalle rosee dita non se ne
vedranno più.
Bizzaria
degli
oggetti
3
DICEMBRE
2016
pag. 14
Cristina Pucci
[email protected]
a cura di
Barbisio
che tal GioBatta Bonessio,
nel 1755, chiese ed ottenne di
“tenere aperta la sua bottega alle
autorità dell’Università dei Maestri cappellai”, giurando sulle
sacre reliquie di tener segretato
il percorso produttivo. Questa
ditta fu incaricata della prima
fornitura di cappelli da alpino
per gli ufficiali del Regio Esercito Sabaudo. Nel 1897 i maestri
Cappellai si riunirono in una
C
alendario perpetuo
Roy Vercelli 1952 che
pubblicizza la fabbrica
di cappelli Barbisio...e qui si
aprono strade in salita direi. Di
questo nome, Roy Vercelli, non
si trova nulla, solo Roy, piccolo paese con 24 abitanti, nel
comune di Fobello e in provincia di Vercelli, con il quale
manca comunque qualsivoglia
collegamento, nemmeno il più
grande collezionista di questi
calendari, molto molto ambiti
e carissimi, malgrado la sua
enorme competenza, è riuscito
a svelare il mistero di questo
nome. La sua “conoscenza” è
avvenuta attraverso Facebook, miracolo comunicativo
contemporaneo. Il coniglio è
opera di tal Giovanni Mingozzi,
disegnatore e grafico, fondatore negli anni ‘20 del ‘900
di una agenzia pubblicitaria,
Atla, cui si devono manifesti
di prodotti vari e tutti quelli
dei cappelli Barbisio. Trattasi
di una azienda italiana, nota
per la produzione di cappelli di
feltro di pelo, leggerissimi, che
si trova nel Biellese, in una zona
detta Valle Cervo, dal nome del
fiume che la definisce, divenuta
culla dell’arte del cappello dopo
cooperativa il cui marchio è
oggi stato assorbito dal Cappellificio Cervo che ingloba anche
il marchio Bantam. È proprio la
forza della tradizione dei mastri
artigiani biellesi a fare di questo
Cappellificio una delle più
prestigiose aziende del settore
a livello mondiale, il feltro,
ottenuto da peli sceltissimi,
viene lavorato con gli originali
macchinari via via modificati ed
adeguati ai progressi della tecni-
L’intrusa a Rifredi
In scena al Teatro di Rifredi,
da mercoledì 7 a domenica 11
dicembre, due toccanti racconti
di Eric-Emmanuel Schmitt per
la signora della scena italiana
Lucia Poli, impegnata ne L’intrusa preceduto da È una bella
giornata di pioggia; la regia è di
Angelo Savelli e lo spettacolo è
prodotto da Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi.
“Lezioni di felicità”, così è stato
opportunamente tradotto in
italiano il film di Eric-Emmanuel Schmitt “Odette Toulemonde” da cui il regista stesso
ha poi scritto, una volta tanto al
contrario, il suo omonimo libro
di racconti da cui sono tratte
L’intrusa e È una bella giornata
di pioggia. Unite da una sorta
di fil rouge le due storie vedono
protagoniste due donne diverse
anche se entrambe eleganti,
sofisticate, sempre sorridenti;
probabilmente unite dal mal
di vivere, da una quotidianità
che sembra in bilico sull’orlo
della notte, da un avvenire che è
tutto dietro le spalle.
dalla collezione
di Rossano
ca moderna. Mi fa piacere parlare di una Ditta tuttora viva e
vegeta e non sparita o venduta a
stranieri come spesso è capitato
parlando delle grafiche pubblicitarie di Rossano. Tra i fatti
storici e di costume più curiosi
dell’azienda vanno certamente
ricordati l’incremento di capitale del 1924 a cui contribuirono
,con il proprio salario, gli stessi
dipendenti, le esportazioni, che
già negli anni ‘30 raggiungevano la Turchia e il Sudamerica e i
1300 cappelli al giorno prodotti
negli anni ‘50. Rossano possiede della Barbisio un espositore
da banco, piccolo cartoncino
pubblicitario, verosimilmente
opera sempre di Mingozzi che
aveva come l‘esclusiva della
pubblicità di questa Ditta ed un
grande medaglione di ottone
decorato, una specie di stemma
o insegna, in cui compare in
basso la data di fondazione. I
cappelli e il grandissimo stabilimento Barbisio Cervo, situato
a Sagliano Micca, Biella, sono
stati utilizzati in almeno due
fiction televisive, una , il “Signore della truffa” aveva come
interprete Gigi Proietti, l’altra ,
“Il sogno del maratoneta” , girata in gran parte all’interno dello
stabilimento, Laura Chiatti e
Luigi Lo Cascio.
La Galleria Tornabuoni
festeggia 60 anni
Si inaugura il prossimo 15
dicembre a Firenze alla Galleria
Tornabuoni, nella ricorrenza
dei sessant’anni dalla sua nascita
(1956-2016) e in ricordo del suo
fondatore, la mostra Artisti Italiani
dal secondo dopoguerra agli anni
Sessanta alla Galleria Tornabuoni,
per Piero Fornaciai gallerista fiorentino a cura di Mirella Branca.
La Galleria ha iniziato l’attività
il 15 dicembre 1956 al n. 74 di
Via Tornabuoni, in quegli anni
considerata la strada dell’eleganza
fiorentina e del turismo d’élite, a
fianco della storica libreria Seeber.
Dal 2007 ha lasciato la sua sede
storica per trasferirsi in Borgo San
Jacopo, nel cuore dell’ Oltrarno..
La mostra, promossa dal figlio
Fabio, che dal 1980 è responsabile
della Galleria, è un omaggio alla
figura del fondatore Piero, ma
anche il primo evento che vede l’
Gino Severini – Composition, 1955
ingresso nell’attività di Gregorio,
figlio di Fabio e terza generazione,
al suo fianco nel proseguimento
della mission della Galleria
Per
3
DICEMBRE
2016
pag. 15
Lara Vinca Masini
Tante, veramente tante persone
hanno aderito al nostro appello
al Presidente del Consiglio dei
Ministri affinché riconsiderasse
la decisione dei suoi uffici di non
concedere a Lara Vinca Masini i
benefici della Legge “Bacchelli”.
Architetti, storici dell’arte, operatori della cultura, cittadini; una
pluralità di persone con backgroung culturali così diversi che te-
stimoniano la vastità degli interessi
e del contributo che Lara ha dato
alla cultura umanistica italiana. Lo
potete verificare voi stessi scorrendo l’elenco delle prime 85 adesioni
che pubblichiamo qui di seguito.
Manteniamo aperto l’appello
per le adesioni che porteremo
all’attenzione del Presidente Renzi
e del Presidente della Regione
Toscana Enrico Rossi (da cui era
Signor Presidente, signor Ministro
siamo assolutamente certi che i vostri uffici
sono incorsi in un errore, in un equivoco
quando hanno rifiutato i benefici della Legge “Bacchelli” alla nota studiosa Lara Vinca
Masini per assenza dei requisiti di “chiara
fama”. È l’unica spiegazione plausibile
perché gli uffici e la Commissione Consultiva
che istruisce queste pratiche non possono non
comprendere quale decisivo apporto gli studi
critici, il lavoro di organizzazione culturale
e la valorizzazione delle arti contemporanee di Lara Vinca Masini hanno dato alla
cultura, e a quella italiana in particolare,
nel mondo. Infatti, Lara Vinca Masini ha
ottenuto il Premio dei Lincei per la critica
1986; è membro effettivo dell’Associazione
Internazionale Critici d’Arte dal 1967; è
stata membro della Commissione italiana
per le arti visive e per la sezione architettura
alla Biennale di Venezia 1978; ha fatto
parte della Giuria Internazionale della
Biennale Architettura 2000 insieme ai
maggiori critici e direttori di musei di arte
contemporanea del mondo; e soprattutto
parlano per lei le centinaia di pubblicazioni
sulla storia dell’arte contemporanea e di
critica, come quelle nate dalla collaborazione con G.C.Argan, o i due volumi “Arte
Contemporanea. La linea dell’unicità”
(Firenze, 1989), “Art nouveau” (Firenze,
1975), così come le centinaia di manifestazioni e mostre che Lara ha curato, quali la
“Prima Triennale Itinerante di Architettura
Contemporanea” (1966-67) o “Umanesimo,
Disumanesimo nell’Arte Europea 18901980” (Firenze 1980).
Per questo ci permettiamo di fare appello a
Voi, affinché questa incomprensibile equivoco e questa ingiustizia prima di tutto morale
vengano riparati, riconsiderando la vostra
decisione e rimettendo l’onore a Lara Vinca
Masini riconoscendone la “chiara fama”,
perché Lara ha certamente “illustrato la
Patria attraverso meriti acquisiti nei campi
delle scienze, delle lettere, delle arti” come
prevede la Legge “Bacchelli”.
Fiduciosi nell’accoglimento di questo nostro
appello, formuliamo i nostri più calorosi
saluti.
partita l’iniziativa) non appena
sarà passata la vicenda referendaria.
Certamente altre importanti firme
si aggiungeranno all’appello che,
ovviamente, confidiamo possa avere un riscontro positivo. Ma questa
stessa mobilitazione dimostra che
la cultura, quella vera e profonda
non quella che si pretende tale
manifestandosi in eventi, epifenomeni superficiali. Lara Vinca
Albani, Paolo, Scrittore
Alberti, Rosella, Docente di
storia dell’arte Accademia di
belle arti di Firenze
Alibrandi, Andrea, Gallerista
Allegri, Giuliano, Gallerista
Allegrini, Giosuè, Critica
d’arte
Amendola, Aurelio, Fotografo
Andreani, Giuseppe, Già direttore dell’Accademia di belle
arti di Firenze
Bacci, Andrea, Ingegnere
Bagnoli, Paolo, Storico
dell’arte
Banchi, Eleonora, Restauratrice
Baraldi, Bona, Pittrice
Barlozzetti, Ugo, Storico
dell’arte
Bempord, Pier Luigi, Commerciante
Berlincioni, Maurizio, Fotografo
Bertolani, Lorenzo, Poeta
Bimbi, Adriano, Scultore
Borsetti Venier, Alessandra,
Artista
Bove, Antonino, Artista
Bramanti, Vanni, Critica
d’arte
Branca, Mirella, Storica
dell’arte
Branzi, Andrea, Architetto
Brizzi, Marco, Docente universitario
Brugellis, Pino, Architetto
Cangioli, Silvia, Critica d’arte
Castagno, Laura, Architetto
Cauteruccio, Giancarlo,
Regista
Celle, Lucia, Architetto
Centauro, Giuseppe Alberto,
Docente universitario
Chiarantini, Andrea, Artista
Cini, Silvia, Artista
Contemori, Lido, Disegnatore
Conti, Anna, Architetto
Cosma, Claudio, Collezionista
Cuppini, Carlo, Editore
De Alexandris, Sandro,
Artista
De Poli, Fabio, Pittore
Della Bella, Paolo, Artista
Di Cocco, Giampaolo, Artista
Di Franco, Elio, Architetto
Faccenda Luca, Architetto
Falletti, Franca, Storica
dell’arte
Filardo, Daria, Critico d’arte
Fornaciai, Fabio, Gallerista
Franceschi, Kiki, Artista
Francini, Carlo, Storico
dell’arte
Frittelli, Carlo, Gallerista
Fusi, Danilo, Artista
Gaglianò, Pietro, Critico
d’arte
Giacinti, Roberto, Docente
universitario
Godoli, Ezio, Docente universitario
Granchi, Andrea, Artista
Guarneri, Riccardo
Guasti, Marcello, Scultore
Guerrini, Fabrizio, Storico
arte
Gurrieri, Francesco, Docente
universitario
Heimler, Daniela, Docente
universitario
Innocenti, Raimondo, Architetto
Levo Rosemberg, Margherita,
Artista
Liscia, Dora, Docente universitario
Lohr, Christiane
Manghetti, Gloria, Direttrice
Gab. Viesseux
Marcetti, Corrado, Coordinatore F.ne Michelucci
Marini, Paolo
Maschietto, Federico, Editore
Maschietto, Titti, Architetto
Maschietto Vittoria, Editore
Masi, Paolo, Pittore
Mazza, Salvatore
Menichetti Marta, Editore
Merz, Francesca, Storica
Masini, nei suoi novanta indomiti
e tempestosi anni, ci regala anche
questa ultima, estrema speranza:
che la cultura conta, ha un valore
di permanenza e di continuità
proprio nella più innovativa delle
sue frontiere, quella del momento
presente, e che ad essa possiamo
ancora affidare un messaggio forte
per il futuro. Così come Lara ha
fatto durante tutta la sua vita.
dell’arte
Michelizzi, Achille, Architetto
Monaldi, Laura, Storica
dell’arte
Montanari, Tomaso, Storico
dell’arte
Mosso, Leonardo, Architetto
Nardi, Claudio, Architetto
Natali, Antonio, Storica
dell’arte
Natalini, Arabella, Critica
d’arte
Noferi, Andrea, Architetto
Oreglia D’Isola, Aimaro
Paba, Giancarlo, Docente
universitario
Palli, Carlo
Palterer, David, Architetto
Panichi, Virginia, Artista
Parri Marco
Piccardo, Emanuele, Direttore di archphoto.it
Pierallini, Beatrice, Architetto
Pierallini Salvini Elena,
Pittrice
Ponsi, Andrea, Architetto
Porcinai, Anna
Pozzi, Gianni, Storico e critico d’arte
Pucci, Cristina, Psichiatra
Rescio, Michele, Esperto di
cucina
Ricci, Aldo
Risaliti, Sergio, Critico d’arte
Romitti, Ines, Architetto
Salmoni, Vittorio, Architetto
Staccioli, Paolo, Ceramista
Terpolilli, Carlo, Architetto
Tesi, Rossella
Torres, Elda
Ulivieri, Luigi, Architetto
Vannicola, Andrea, Storico
della chiesa
Vanzi, Daniela, Impiegata
pubblica
Virdis, Davide, Fotografo
Viscoli, Artemisa, Scultrice
Visconti, Federica, Docente
universitario
Zangheri, Luigi, Architetto
3
DICEMBRE
2016
pag. 16
di
Laura Morelli
I
chierici regolari di S.
Paolo, più conosciuti come
Barnabiti, s’insediarono
nel 1629 in via Sant’Agostino, a
due passi dalla basilica di Santo
Spirito, e presto cercarono di
ampliare il piccolo oratorio,
sorto sulla casa donata alla
congregazione da un sacerdote
fiorentino, affidando il progetto
a Gherardo Silvani. La peste di
manzoniana memoria rinvia i
lavori al 1640 che, realizzati,
presentava un’unica e semplice
aula rettangolare, la cui severa
facciata corrispondeva al pragmatismo teologico di un ordine
nato in seno alla Controriforma
unitamente ai principi diffusi da
san Carlo Borromeo di ‘gravibus ac modestis ornamentis’.
Precettori e teologi nelle corti
europee, i Barnabiti entrarono
nelle grazie di Ferdinando II
che li scelse per l’educazione del
futuro Cosimo III, facendoli
diventare l’ordine di riferimento
per l’istruzione e formazione
religiosa della miglior nobiltà
d’Oltrarno. Per la frequenza
della famiglia granducale e della
nobiltà fiorentina, la chiesa
si arricchì di nuovi altari e
decorazioni parietali, rinnovati
e sostituiti nel corso del ‘700.
Auliche lesene corinzie cadenzano lo spazio parietale della
navata, arredato da altari ‘marmorizzati’ e da nicchie illusorie
per finte statue monocrome, e
s’innalzano fino al cornicione
dal quale esplodono le quadrature prospettiche di Domenico
Stagi (1757/1758) che, avide
di metri quadri di superficie,
si inerpicano in un susseguirsi
di mensole a volute, balconate
con balaustri marmorei dipinti,
finti parapetti aggettanti, fino
a raggiungere e contornare la
grande Gloria della Vergine che
contempla la Trinità alla presenza di San Paolo e San Carlo
Borromeo, affrescata nel 1721
da un fresco e brioso S. Betti.
Rilievi reali si alternano a quelli
dipinti in un gioco di sapiente
illusionismo ottico che sfrutta
le naturali pieghe delle superfici
per amplificarne le dimensioni
e dilatare gli spazi. Con artifici
scenografici la raffigurazione
pittorica del Betti prosegue
senza soluzione di continuità
oltre i bordi assegnatele svilup-
La Sempre Avanti
Juventus ai Barnabiti
pandosi tridimensionalmente
negli stucchi. Ecco che la cupoletta virtuale dipinta dallo Stagi
nella volta della navata anticipa
quella reale della tribuna nata
dal più ampio ammodernamento strutturale di Bernardino
Ciurini (1741-1743) e dipinta
nel 1747 da Giuseppe Zocchi,
il vedutista che qui si cimenta
in uno dei suoi primi affreschi.
Preziosi decori eseguiti per
indurre i fedeli a una maggiore
devozione tramite la contemplazione della bellezza; ma
il periodo aureo volgeva alla
catastrofe. Le soppressioni
leopoldine, che allontanarono
i Barnabiti dalla Toscana nel
1783, la vendita dell’immobile a
privati, il passaggio agli Scolopi, defenestrati anch’essi dalle
leggi sulle espropriazioni della
Firenze capitale, il definitivo
passaggio al Comune nel 1870
e la perizia di assenza di valore
artistico dell’ispettore Guido
Carocci sigla la distruzione della
Chiesa che, smantellati gli altari
e scippate le pale d’altare, dal
1904 fino al 1995 divenne una
palestra, in cui, per il piacere
dei fiorentini, si riuniva anche
l’associazione sportiva Sempre Avanti Juventus. Tolta la
palestra si auspicava un ripristino completo e organico della
prestigiosa sede di S. Carlo dei
Barnabiti, mai avvenuto, e che
la presentazione del progetto di
restauro della parte strutturale
dell’edificio presentato dagli
architetti Claudio Mastrodicasa
e Simone Montecchi al recente
Salone dell’Arte e del Restauro
di Firenze, fa sperare di rivederla
risorgere nel suo antico splendore.
3
DICEMBRE
2016
pag. 17
Paolo Marini
[email protected]
di
A
Torino è stata inaugurata lo
scorso 19 novembre “RoccaVintage”, galleria dedicata
alla fotografia d’epoca che muove
i primi passi con “Vedute del
Grand Tour: l’Italia fra Ottocento e Novecento nella fotografie
degli Archivi Alinari”, in mostra
fino al 24 dicembre 2016 (www.
roccavintage.it e www.alinari.it).
Antesignano del Grand Tour fu
probabilmente il filosofo Michel
de Montaigne, nel XVI secolo, poi
la moda – inizialmente aristocratica – si diffuse nei secoli successivi
grazie ad artisti, filosofi e scrittori
come Montesquieu, Goethe, Stendhal, Byron, Heine, Corot.
In mostra si espongono fotografie delle città d’arte e dei luoghi
monumentali, ‘ritratti’ sul finire
dell’Ottocento e agli inizi del
Novecento, quando le fortune
del Grand Tour erano già in fase
discendente. Nel complesso, per
secoli si era sviluppato un vero
e proprio movimento, una sorta
di pellegrinaggio alla ricerca di
esperienze d’arte, di cultura, di
educazione e di vita.
Intervistiamo l’architetto Federico
Bollarino, ideatore del progetto
“RoccaVintage”.
Grand Tour: che cosa attraeva tanta
bella gente nella nostra penisola?
Il Grand Tour era un fenomeno
culturale che rispondeva ad un
atteggiamento di grande modernità: la necessità di apprendere la
conoscenza attraverso l’esperienza
diretta. Oggi i guru della realtà
virtuale hanno coniato il termine
Roberto Giacinti
[email protected]
di
L
a Compagnia di Babbo Natale
ha avviato il programma di
Natale 2016 con tante iniziative benefiche ed un portafoglio
di donazioni direttamente a favore
dei bambini delle famiglie e solo
in parte ad enti che sostengono
comunque giovani bisognosi.
L’associazione, fondata nel 2007,
cresce nelle adesioni che hanno
superato le centocinquanta unità;
sono Amici che ogni anno si autotassano da destinare a chi si trova in
stato di sofferenza, in un peroro gioioso che unisce “solidarietà e gioco”.
Per il Natale 2016 la Compagnia
promuove la raccolta dei fondi pubblicando un volume, da collezione,
arricchito dalle filastrocche originali
di Renato Conti, dal titolo ”Cotti
Un Grand Tour
per immagini
di “esperienza immersiva” per
intendere una modalità di percezione in grado di coinvolgere tutti
i sensi. All’epoca del Grand Tour
l’Italia era il territorio dove questa
“esperienza immersiva” poteva essere più efficace, per il concentrato
di memorie storiche di epoche
diverse e per la varietà di paesaggi
e fenomeni naturali. L’invenzione della fotografia si collocava
perfettamente in questa logica.
Uno strumento che consegnava
ai viaggiatori la memoria di quei
luoghi, con un’intensità molto
simile all’esperienza diretta.
Considerato che oggi la promozione
si costruisce a suon di campagne e
di slogan, con impiego di risorse in
numerose agenzie spesso in competizione tra loro, talora contraddetta
da scempi e inefficienze nei territori,
qual è – se per lei c’è – la ‘lezione’ del
Grand Tour?
I giovani intellettuali che potevano
permettersi lunghi soggiorni nella
nostra penisola, non si limitavano
a visitare i monumenti, ma cercavano di aggiungere alla conoscenza
del passato quella della società
italiana a loro contemporanea. Da
Stendhal, a Goethe a Nietsche il
soggiorno in Italia era occasione
di confronto con altri intellettuali
o artisti locali. Ecco qui la lezione
per noi contemporanei: l’offerta
turistica dell’Italia deve poter
coniugare le meraviglie del passato
con la realtà del presente. Un sito
archeologico, un monumento, un
borgo antico devono poter essere
vissuti come spazi di modernità.
Alcune immagini della mostra
colpiscono per la loro ‘lontananza’,
Biscotti di Natale
e Biscotti”. Un simpatico libro di
ricette speciali che ci ricordano la
nostra infanzia, che potrà essere
richiesto a [email protected]. La Compagnia
si materializzerà a dicembre “in
carne ed ossa”, in varie iniziative
che saranno rese note sul sito: www.
compagniadibabbonatale.com È
confermato l’evento dell’8 dicembre ovvero la partenza del trenino
elettrico di Babbo Natale da Piazza
Signoria per Piazza Duomo per
l’accensione dell’albero di Natale e
ai giardini della Gherardesca eccezionalmente aperti per i bambini
domenica 18 dicembre.
La Compagnia si è costituita in
ONLUS per consentire ai donatori
di beneficiare delle agevolazioni
quasi mitica. I luoghi/
monumenti di allora
sono in buona parte
quelli di oggi, eppure
nell’era di internet e
della comunicazione
digitale sembrano
finiti dietro le quinte,
sono diventati sfondo.
E’ vero, secondo lei?
Credo che la fotografia, dal
momento della sua invenzione ad
oggi, abbia modificato sensibilmente la nostra percezione di
realtà. Siamo ormai abituati a
riconoscere nel singolo attimo
ritratto nella fotografia un’azione,
un processo, un’evoluzione. Piazza
San Marco ritratta da Brogi in
quel dì del 1890 è molto più che
veduta monumentale. C’è una
naturale relazione tra lo spazio e
i personaggi che lo animano, che
rende quel momento autentico,
poetico e rivelatore.
Le fotografie esposte sono analogiche
e sono arte. Nella fotografia digitale
c’è spazio per l’arte?
Così come non è la penna che
fa il romanzo, altrettanto sono
convinto che ci sia spazio per l’arte
nella fotografia digitale. Le nuove
tecnologie offrono strumenti che i
pionieri della fotografia avrebbero
utilizzato senza indugio. L’arte visiva è intuizione e ritengo che ogni
strumento sia lecito per dare forma
all’idea: anche l’attività di postproduzione di una fotografia. Poi
ciascuno di noi può essere attratto
più o meno dalla genialità dell’artista rispetto ai limiti che possiede o
che liberamente si impone.
Se c’è un valore aggiunto nella
fotografia analogica, è nel processo o
nel prodotto?
Appartengo ad una generazione
che per anni ha scattato fotografie
con l’ansia di commettere qualche
errore che avrebbe vanificato
l’intenzione di fissare un preciso
attimo. Questo sentimento, provato soprattutto nelle circostanze
di un evento irripetibile, consegna
alla fotografia analogica un valore
che oggi le nuove generazioni di
fotografi digitalizzati, vivono con
minore intensità. Nella fotografia analogica il processo influiva
inevitabilmente sul prodotto: il
rischio di fallimento, o quanto
meno di insoddisfazione, era insito
nel sistema.
Qual è la missione di “RoccaVintage”?
Mi piace pensare che RoccaVintage possa essere un luogo in
cui ripercorrere l’evoluzione del
linguaggio fotografico, esaminando di volta in volta un tema o un
autore. L’ambizione è condurre
gli appassionati di fotografia che
frequenteranno RoccaVintage
alla consapevolezza del significato
artistico di un’opera fotografica
oltre al mero valore collezionistico. Vorrei che la passione per la
fotografia diventasse anche per noi
italiani non solo una moda ma
una forma di cultura.
inerenti la detraibilità dal reddito
e per il 5 per mille è iscritta tra le
associazioni di volontariato con
il C. F. 94242500489 Donazioni
su Banca di Credito Cooperativo
di Cambiano Filiale 3 – Agenzia
17 Viale Gramsci, Firenze, sul c/c:
IBAN: IT 58 R 08425 02804 0000
31146640 intestato a La Compagnia di Babbo Natale ONLUS.
Un biscotto speciale
di Renato Conti
Ecco arriva anche quest’anno un
libretto prestigioso
Che sarà certo apprezzato da un
lettore un po’ goloso
O da chi ha per passione di far dolci
a profusione
Sento già, mentre qui scrivo, un
profumo molto vivo
Di un biscotto ch’e’ speciale
E vien fatto per Natale.
A Natale, per magia, ogni giorno è
una scoperta
Per svegliare i tuoi ricordi ogni porta
adesso è aperta
Giri l’angolo ed un suono, un’immagine, un odore
Fa svegliare all’improvviso un ricordo
nel tuo cuore
Se leggendo una ricetta la memoria si
risveglia
Corri subito in cucina e prepara la
tua teglia
O se invece vuoi lasciare un ricordo
nella mente
Di chi guida ormai ti vede o ti segue
inconsciamente
Metti in forno, alza il profumo,
Resterà poi per degl’anni nella mente
di ciascuno.
L
immagine
ultima
3
DICEMBRE
2016
pag. 18
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
U
n’amica portoricana, Yvonne Bastide Miranda, assieme al suo cugino Mario. Se la memoria non mi tradisce Mario era molto più
giovane di lei. Era una famiglia molto disponibile e simpatica che mi ha ospitato per un paio di settimane. Anche il figlio più grande
viveva assieme alla madre nello stesso appartamento. Nello stesso palazzo dei “Projects” viveva, in un altro appartamento, anche la sua
sorella maggiore con i suoi figli. Queste persone sono sempre state molto gentil con me. Non ne sono sicuro ma credo che fossero ambedue
delle ragazze madri, cosa abbastanza comune in quell’ambiente. A 47 anni di distanza ho ancora dei bellissimi ricordi del loro calore e della
loro ospitalità.
NY City, agosto 1969