la chiesa della tenerezza e dell`audacia. da madre

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la chiesa della tenerezza e dell`audacia. da madre
ASSEMBLEA NAZIONALE DEI SOCI VIDES
Roma, 5 aprile 2014
LA CHIESA DELLA TENEREZZA E DELL’AUDACIA.
DA MADRE MAZZARELLO A PAPA FRANCESCO.
Relazione dott. Giampiero Forcesi
LA CHIESA DELLA TENEREZA E DELL’AUDACIA. DA MADRE MAZZARELLO A PAPA FRANCESCO. Mi è stato chiesto dal presidente del VIDES, Amedeo Piva, una riflessione sulla fondatrice, o cofondatrice, delle Figlie di Maria Ausiliatrice: per tenerne viva la memoria e per trarne riferimenti per questo nostro tempo, tempo della chiesa e tempo del mondo; tempo del VIDES. Naturalmente, la mia è una riflessione “dall’esterno” del mondo salesiano (non conosco Madre Mazzarello); ed è una riflessione solo un po’ più “interna” al mondo del volontariato internazionale (quando nasceva il VIDES, 26 anni fa, collaboravo già da qualche tempo con la FOCSIV e col MLAL). Ho pensato di proporvi una riflessione che provi a mettere “vicine” le due figure di Madre Mazzarello e di Jorge Mario Bergoglio, e poi vedere di trarne insieme qualche considerazione sul nostro oggi. Di Papa Bergoglio ho avuto modo di leggere con qualche attenzione la Sua esortazione “Evangelii gaudium” che costituisce il bagaglio di convinzioni e di propositi con cui egli intende assolvere al suo compito di guida della Chiesa. Questo testo ha, come lui stesso dice, “un significato programmatico”. Di Madre Mazzarello ho potuto leggere due bei libri, uno di sr. Maria Pia Giudici e sr. Mara Borsi (“Maria Domenica Mazzarello. Una vita semplice e piena di amore”, Editrice Elledici) e uno di Domenico Agasso (“Maria Mazzarello. Il comandamento della gioia”, SEI). Debbo dire che questa breve immersione che ho fatto nella vita di Maria Mazzarello mi ha procurato molta emozione e mi ha fatto bene allo spirito, mi ha “educato” come un breve corso di esercizi spirituali. Che cosa ho tratto da questo mio duplice – seppur certo non approfondito – accostamento a queste due figure, Maria Mazzarello e Jorge Bergoglio (con sullo sfondo la figura – prorompente – di Giovanni Bosco)? Ne ho tratto la forte impressione (ma che è più di un’impressione) che ci sia in effetti una “singolare affinità” tra queste due figure, tra questi due testimoni, e che sia proprio un’affinità speciale quella che unisce Maria Mazzarello e Jorge Bergoglio. Affinità che mi sembra non si ritrovi, con la stessa intensità, tra Jorge Bergoglio e don Giovanni Bosco. Ho riscontrato questa singolare affinità, su cinque tratti dello stile evangelico di questi due cristiani. Dapprima, in due tratti in particolare, da cui il titolo di questa mia comunicazione. Essi sono: ‐ la tenerezza ‐ l’audacia Ma poi, soffermandomi un po’ a fondo, mi è parso di cogliere altri tre tratti di singolare affinità ‐ l’umiltà ‐ la gioia o allegria 1 ‐ la povertà/lo spirito di povertà Dunque, cinque tratti comuni del loro stile evangelico, del loro modo di vivere da cristiani. Ma cominciamo da un “altro” elemento di affinità che ha a che vedere con la geografia e con la storia. Madre Mazzarello è nata – sappiamo – in Piemonte, a Mornese, un piccolo borgo della diocesi di Acqui, in provincia di Alessandria, nel Monferrato, quella bella terra di colline e di corsi d’acqua, di vigne, che si estende da poco più a Sud del Po e di Torino fino ai monti che separano il Piemonte dalla Liguria, e comprende buona parte della provincia di Asti ed Alessandria. Questa è la terra anche di Giovanni Bosco, nato a Castelnuovo d’Asti, e di non pochi santi di quella fecondissima stagione del cattolicesimo piemontese (e lombardo) di metà ‘800. Madre Mazzarello è nata nel 1837. Una generazione prima, nel 1815, era nato Giovanni Bosco. Ma nel Monferrato, nell’Astigiano, sono nati, nel 1816 e nel 1819, anche i trisavoli paterni di Jorge Bergoglio, Giuseppe Bergoglio e Maria Giacchino. Dunque, Maria Mazzarello e Jorge Bergoglio nascono a cent’anni di distanza, lei nel 1837 lui nel 1936 – da famiglie di origine contadina, le cui radici erano nella stessa terra: il Monferrato. Il piccolo borgo natio di Maria – Mornese – dista solo 60 km da Asti, dove nacquero e vissero i trisnonni e poi bisnonni e poi i nonni di papa Francesco. C‘è, in più, una “radice ligure” di entrambi: la nonna e la mamma di Bergoglio erano originarie della provincia di Genova; la mamma di Maria Mazzarello era originaria di un paesino che faceva parte della diocesi di Genova (che si estendeva ‐ come storicamente è stato per la Repubblica di Genova – fino al Monferrato). E forse è importante ricordare che nella diocesi di Genova si era sviluppato un ambiente spirituale particolarmente vivo, che reagiva in modo intelligente allo scontro in atto a metà 800 tra la Chiesa e lo Stato (prima quello del Piemonte e poi quello d’Italia, dopo il 1861). Uno scontro che ha attraversato tutto il Risorgimento ed è durato fino ai primi 20 anni del ‘900. Nella Chiesa, alcuni si limitavano e denunciare l’ateismo e l’anticlericalismo del movimento risorgimentale, di Garibaldi e di tante forze “rivoluzionarie” dell’epoca, e a difendere i beni ecclesiastici e il potere della Chiesa, mentre altri, pur schierati a difesa del Papa, cercavano di reagire approfondendo la spiritualità cattolica, valorizzando la catechesi e la liturgia, educando il popolo cattolico senza rigorismi, e, soprattutto, “uscendo” nelle strade e dando vita a grandi opere sociali. Maria Mazzarello fu fortunata: ebbe contatti con un centro di spiritualità molto vivo a Genova, quello di don Giuseppe Frassinetti, presso cui si era formato un sacerdote di Mornese, don Domenico Pestarino, che fu poi il suo confessore e direttore spirituale. (E fortunato, per altri versi, fu anche don Bosco, che studiò in un altro luogo di eccellenza spirituale, questa volta non in Liguria, ma a Torino, e cioè nel convitto ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi, con don Luigi Guala e don Giuseppe Cafasso). 2 Ma, dunque, sembra di poter dire che, per via del ramo materno, sia Maria Mazzarello sia Jorge Mario Bergoglio, ebbero un qualche contatto con un filone, quello genovese, particolarmente vitale e fecondo della spiritualità cattolica del secolo diciannovesimo. C’è, infine, un altro elemento geografico e storico che avvicina Maria Mazzarello (ma in realtà tutti i salesiani) a Papa Francesco. Jorge Mario Bergoglio nasce a Buenos Aires, figlio di un contadino astigiano emigrato nel 1929 in Argentina. Già da 50 anni, a Buenos Aires, si era andata formando una comunità di immigrati italiani. Nel 1874 ce ne erano già circa 30.000. Ed è questo il motivo che spinse in quell’anno (1874) l’arcivescovo di Buenos Aires a rivolgersi al già famoso don Bosco per chiedergli di venirgli in aiuto nel prendersi cura di quei quartieri della città che erano popolati soprattutto dagli immigrati. Il clero locale era scarso, e il vescovo di Buenos Aires non sapeva come fare. Chiese a don Bosco un aiuto anche per evangelizzare la grande estensione della Patagonia. L’anno dopo, nel 19t5, partirono per l’Argentina i primi salesiani. E nel 1877 partirono anche le prime sei Suore Figlie di Maria Ausiliatrice; e nel 1979 altre dieci. E sarebbe partita anche Maria Mazzarello se la salute non gliel’avesse impedito … Dunque l’Argentina, e Buenos Aires in particolare, in quanto terra di immigrazione della famiglia Bergoglio e terra della prima missione delle suore di Maria Ausiliatrice, è un altro punto di contatto tra Maria Mazzarello e papa Bergoglio. Quando nasce Jorge Bergoglio, nel 1936, a battezzarlo sarà un prete salesiano, Enrique Pozzoli, di origine Italiana, che già da anni era il padre spirituale della famiglia Bergoglio. E di Buenos Aires, Bergoglio, diverrà vescovo 50 anni dopo… Insomma, volevo solo “registrare” che vi sono questi elementi ‐ di geografia e di “storia sociale” – che già legano i due personaggi; ma non sono che la cornice di quella affinità di cui parlavo. Veniamo ai cinque tratti dello stile evangelico, cristiano, che accomunano così tanto Maria Mazzarello e Papa Bergoglio. Vorrei partire dalla TENEREZZA. E partire da Papa Bergoglio. Scrive al n. 3 dell’Evangelii Gaudium: “Dio non si stanca mai di perdonare… Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che non ci delude e che sempre può restituirci la gioia”. La tenerezza di cui parla Bergoglio, qui, è la tenerezza di Dio. Una tenerezza da fare nostra… E’ quel prendersi cura dell’altro, lo stargli vicino con attenzione; persino, dice il Papa, “prenderlo in braccio”… 3 Scrive al n. 87: “Oggi sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la ‘mistica’ di vivere insieme, di mescolarsi, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità…”. E poco dopo dice: “L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza”. Una rivoluzione, dunque, che compie Dio … e che dobbiamo compiere noi… E proprio alla fine dell’esortazione (n. 288) dirà: “Ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In Lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli, ma dei forti, che non hanno bisogno maltrattare gli altri per sentirsi importanti…” La tenerezza – dunque – come una forza, addirittura una “forza rivoluzionaria”, che ha la sua essenza nell’avvicinare l’altro in qualunque condizione sia. “Gesù – dice al n. 270 – vuole che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal dramma umano affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forma della tenerezza. “Quando lo facciamo – prosegue, e qui ci stupisce ‐ la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, di appartenere a un popolo”. Entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri ci “complica la vita”, dice. Ma ce la complica “meravigliosamente”! Dunque Bergoglio richiama a questa tenerezza del condividere che, in certe situazioni, è coraggio dell’incontro, anche quando è difficile e, in altre, è attenzione, cura, rispetto… E che – lo abbiamo visto ‐ nasce dall’esempio del Cristo, del Suo incarnarsi, dal Suo farsi carne come noi. Nell’omelia della Messa di inizio del Suo ministero Petrino, il 19 marzo 2013, Bergoglio parla di Giuseppe (è la solennità di S. Giuseppe) e riflette sulla vocazione del “custodire”. Ad un certo punto dice: “Il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, San Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di vera apertura all’altro, capacità di amore.” E conclude: “Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza”. 4 “Ho paura – dirà ancora, in un’intervista al giornale di Torino, La Stampa – quando i cristiani perdono la capacità di abbracciare e accarezzare (…) Nella mia vita di prete ho sempre cercato di trasmettere questa tenerezza, soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e fa pensare alla tenerezza che Dio ha per noi”. Ora, questo filone del pensiero di Papa Francesco è davvero importante: la nostra fede è fede nel Dio che si fa carne, cioè che sta in mezzo a noi, ci accompagna, sostiene, tiene in braccio, ha tenerezza per noi. Questa è una rivoluzione… che dobbiamo imparare a vivere, condividere, sentendoci popolo insieme a tutti gli altri… Maria Mazzarello non ha scritto molto. Ha imparato materialmente a scrivere soltanto quando aveva 35 anni, nel 1872, ed era già la Superiora (anche se “vicaria”) del nuovo istituto religioso, che proprio quell’anno viene riconosciuto dal Vescovo di Acqui. Morirà appena 9 anni dopo nel 1881, all’età di 44 anni. Probabilmente (non ho potuto controllare bene) la parola “tenerezza” non l’ha usata nelle sue lettere, quelle che ha cominciato a scrivere alla sue “figlie” quando il nascente istituto iniziò ad aprire le sue prime nuove case… Ma l’ha vissuta giorno per giorno, intensamente. Le testimonianze su di lei, sulla sua tenerezza, sono inequivocabili. In una pagina del libro di Maria Pia Giudici e Mara Borsi si racconta della assoluta povertà di vita in cui le giovani figlie di Maria vivevano a Mornese, e che probabilmente era la causa della eccessiva fragilità di molte di loro, e dunque un loro frequente ammalarsi e persino morire. Le autrici riferiscono della colazione che si faceva all’Istituto: solo polenta e castagne cotte, niente latte e caffè. Dopo la morte prematura di una di loro, che lavorava in cucina, si riuniscono tutte per discutere se non sia necessario migliorare un po’ il vitto e servire a tutte latte e caffè ogni mattina. Ma decidono di no, pur contro il parere del loro padre spirituale, don Domenico Pestarino, e della stessa Maria Mazzarello. Scrivono le autrici: “Don Pestarino s’arrese, e persuase suor Maria ad attendere. Ma il cuore di questa donna forte e tenerissima ad un tempo, restava sul chi va là”. E poi narrano un episodio raccontato da suor Enrichetta Sorbone. Dice questa suora: “Uscendo dalla cappella dopo la Messa, quel buon odore di polenta o di pan cotto o di castagne bollite è una vera tentazione. (…) Quando poi si va la refettorio, soprattutto se ci sono le castagne, si sente quasi il bisogno di farne a meno per mortificare la gola. Quando arriviamo a farla franca, qualche volta ce ne usciamo di là come siamo entrate. La vicaria (cioè suor Maria Mazzarello, ndr.) però ha due occhi…”. Un mattino infatti ferma proprio suor Enrichetta. “Richetta – le chiede familiarmente – erano buone le castagne?” 5 “Buone e belle”. “Tu ne hai mangiate?”. “Che premio saporito per le nostre birichine! (le ragazze ospitate, ndr.)”. “Ma tu, dico tu, ne hai assaggiate?”. “No”. “Bene: siccome la più birichina qui dentro sei tu, ora torni di filato in refettorio e … buona colazione!”. Commentano le due autrici: “Così era suor Maria: una tempra austera e forte con sé, ma d’una maternità viva e delicata nei confronti delle figlie. Ed è questa autenticità che stimola attorno a sé un clima inequivocabilmente evangelico”. (Maria Domenica Mazzarello. Una vita semplice e piena di amore, pag. 116). Simile è un altro episodio narrato nello stesso libro. Di nuovo è una suora che parla: “Nei giorni di digiuno non si andava a colazione al mattino ed era precisamente allora che sentivo una fame da non dirsi. La Madre mi aveva incaricata di ricevere il pane e di riporlo nel cassone, togliendovi le briciole del giorno precedente che erano destinate alle galline. Un mattino mi capitò di trovarmi a pensare: ma perché dare alle galline questo ben di Dio? Non sono io ben più di una gallina? E ingoiai avida tutto lo sbriciolato. Dopo però mi sentii a disagio e andai dalla Madre a confidarle quel che mi era capitato. M’aspettavo un rimprovero e invece la vidi farsi tenerissima e la sentii dirmi: ‘Ma povera figlia! Fa’ tutti i giorni come hai fatto, e se non ti bastano le briciole del cassone prendi anche quelle dei sacchi’” (pag. 151). Di questa tenerezza Maria Mazzarello ho dato una testimonianza costante. Ed è un tratto del suo stile di vita che emerge con ancora più intensità nell’avanzare degli anni. Annotano le due autrici: “E’ questa – siamo nel 1878, suor Maria ha 41 anni – per la Madre, la stagione dei frutti Più maturi. Matura – scrivono‐ con lei e attorno a lei, la tenerezza”. È la stagione in cui le suore si sono trasferite da Mornese a Nizza Monferrato; in cui le prime suore partono per l’America; in cui la Madre comincia a visitare le nuove case che via via si vanno aprendo…. Alla prima partenza, dal porto di Genova, di un drappello di suore per l’America, nel 1977, nella Cronistoria dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice si legge: “La Madre visita cabina per cabina, cuccetta per cuccetta, per accettarsi che non manchi nulla di quanto possa alleviare alle suore i disagi del viaggio. Poi, come se sentisse il bisogno di darsi 6 e darsi ancora a quelle figlie che pensa di non rivedere più, s’intrattiene con ciascuna di loro in particolare”. Annota Domenico Agasso, a proposito delle lettere di Maria alle sue figlie e della sua rassegnazione al fatto che non potrà mai partire per l’America: “La Madre prova una tenerezza infinita per quelle figlie che hanno varcato l’Oceano”. Viene presto la malattia, una pleurite. Maria viaggia lo stesso in questi ultimi mesi di vita. Durante una sua sosta nella casa di Saint Cyr in cui resta a letto ammalata, una delle suore dell’Istituto annota: “Le ragazze più grandi si alternavano con noi suore per qualsiasi servizio di giorno e di notte. Lei aveva una parola buona per tutte e tutte andavano a gara per avere un suo sguardo, un suo sorriso, provando ognuna la gioia che può gustare una figlia nel curare una madre tenerissima e cara”. Un’ultima osservazione su questo tratto. Maria Mazzarello esprimeva, con quella sua tenerezza così intensa, una maternità – potremmo anche dire una “sororità” data la sua giovane età ‐ che voleva profondamente il bene dell’altro, ma senza compiacerlo, cercando invece di suscitare nell’altro la fiducia di poter riuscire ad affrontare le sue difficoltà. Osservano le autrici: “È sintomatico che Maria Mazzarello, tenerissima con chi ha bisogno di comprensione e coraggio per affrontare la sequela di Gesù, non venga mai a patti con chi vorrebbe adattare alle proprie debolezze la vita religiosa”. È così. Lei capiva che era bene incoraggiare ad essere più forti, imprimendo fiducia in sé, e magari aspettando e andando per gradi…, piuttosto che assecondare atteggiamenti poco coraggiosi e poco fiduciosi che poi non aiutano a tirare fuori il meglio di sé. C’è una bella espressione di Papa Bergoglio al n. 86 di Evangelii Gaudium che bene può essere dedicata a suor Maria Mazzarello: “Siamo chiamati ad essere persone – anfore per dare da bere agli altri”. Fin qui la tenerezza. Secondo tratto dello stile cristiano che accomuna Bergoglio e suor Maria Mazzarello: l’audacia I segni di questo tratto, in Maria, sono molteplici:  Era la prima di 10 figli, e da ragazzina non poté andare a scuola (del resto a quel tempo le bambine di paese la scuola non ce l’avevano). Prima ebbe a badare ai fratelli più piccoli e poi andò a lavorare nei campi con il padre. “Lavorava – raccontano – come un uomo, per aiutare suo padre”. “Quella ragazza – secondo un’altra testimonianza dei contadini della zona ‐ aveva un braccio di ferro; ed era una fatica enorme starle alla pari”. 7  A 15 anni aveva da ridire sulle prediche troppo lunghe che ascoltava nella parrocchia di Mornese e neppure aveva molta voglia di confessarsi. Poi ‐ quando conobbe un prete in gamba, don Domenico Pestarino, che, come si diceva, introdusse a Mornese un clima di spiritualità autentica a cui si era coltivato a Genova frequentando don Frassinetti ‐ Maria sentì che voleva vivere una vita cristiana piena; e sembra abbia dichiarato di aver fatto fin da subito voto di castità, e non solo per un certo periodo di tempo, e poi da rinnovare di volta in volta , come si usava, ma “per sempre”. Fece quel voto subito e per sempre. Un bel carattere! Una bella audacia!  Prima ancora di compiere 18 anni, aveva preso a frequentare un gruppo di ragazze di Mornese, riunito da una giovane maestra, Angelina Maccagno, che aveva avuto l’idea di creare un’associazione di sole ragazze, impegnate a rendere gloria a Dio e ad essere lievito in mezzo alla gente, sensibilizzando le altre giovani del paese a vivere una vita virtuosa. Si trattava di ragazze disposte a far voto di castità e di obbedienza (di anno in anno – ma Maria, come abbiamo detto, il voto di castità si sentì subito di farlo per sempre), che vivevano però ciascuna a casa propria e vestivano abiti normali: un’associazione molto innovatrice, per quei tempi, che prese il nome di Pia Unione delle Figlie dell’Immacolata. Dopo qualche tempo, all’età di 22 anni, Maria compì un gesto di grande coraggio: accettò la richiesta di don Pestarino, che della Pia Unione delle Figlie dell’Immacolata era una sorta di direttore, di trasferirsi nella casa di lontani suoi parenti, dove s’erano tutti ammalati di tifo. Era il 1859; c’era appena stata la sanguinosa guerra dei Piemontesi e dei Francesi contro gli Austriaci, la seconda guerra d’indipendenza, questa volta vittoriosa (poi, nel ’61, si arrivò all’Unità d’Italia). Con la guerra era aumentata la povertà e si era diffuso il tifo. Maria ebbe timore, dubitò. Poi decise di accettare. E fu bravissima. Stette lì un mese. Fece da da donna di casa e da infermiera. Ma ‐ come ben aveva immaginato ‐ si prese lei stessa il tifo, e in forma grave; rimase due mesi a letto, rischiando la vita. E ne uscì con il fisico irrimediabilmente indebolito. Ma l’audacia di Maria Mazzarello non consistette solo nel temperamento deciso, nella forza di carattere, nel coraggio di affrontare situazioni difficili. Fu audace anche per le intuizioni che ebbe, per la sua creatività, e per la determinazione nello sfidare certe consuetudini. Dopo la convalescenza dalla malattia, non potendo più lavorare nei campi col padre e non bastandole più di svolgere le consuete attività delle altre Figlie dell’Immacolata, decise di andare con la sua amica Petronilla a imparare il mestiere di sarta per poi insegnare a cucire alle ragazze di Mornese, offrendo loro una nuova opportunità di stare insieme, di fare qualcosa di concreto e di impegnativo che le aiutasse a mettersi su una buona strada. Pe questa sua iniziativa fu considerata una “visionaria” dallo stesso don Pestarino. Maria aveva 23 anni. 8 Per evitare che, a Carnevale, le ragazze di Mornese frequentassero i balli pubblici, decise di organizzare dei balli nel laboratorio di sartoria che aveva messo su. Ebbe un grande successo tra le ragazze, ma così facendo si mise contro tanta gente del paese; ed ebbe la disapprovazione anche delle altre giovani della Pia Unione delle Figlie dell’Immacolata, che la considerarono una “testa calda” e l’accusarono di “non accontentarsi di fare il bene come l’abbiamo sempre fatto”. Aveva 26 anni. Era il 1863. Questa sua intraprendenza – questa audacia – nel cercare nuove vie per raggiungere le ragazze là dove erano e far vivere loro un’esperienza di vita più ricca e più piena fece sì che, tramite don Pestarino, nel 1864, di lei venne a conoscenza Don Bosco, il quale quello stesso anno andò a Mornese a conoscere le Figlie dell’Immacolata. Lui, già nel 1859, a Valdocco, nell’oratorio messo in piedi anni prima, aveva visto nascere “ufficialmente” la Pia società di San Francesco di Sales. Maria fu “audace” anche quando accettò di fare la superiora del suo Istituto (pur dicendo sempre che ne dovevano cercare un’altra, più capace…). Mostrò un grande discernimento, una sorte di “sapienza”, di “realismo”, che le consentirono di guidare l’Istituto, in situazioni spesso difficilissime, fino alla sua morte, dal 1872 al 1881. Gli episodi che testimoniano questo coraggio e questa sapienza nella guida dell’Istituto sono molti. Ad esempio, quando deve affrontare l’arrivo in comunità di una giovane (si disse poi inviata dalla massoneria per rovinare l’istituto, ma forse no...), che sembrava avesse delle specie di estasi e che creò tanto disagi e tante divisioni nella comunità. Ma suor Maria ne viene a capo. Scrivono Maria Pia Giudici e Mara Borsi: “Maria Mazzarello ha l’arte tanto difficile di cogliere l’aspetto conflittuale della realtà senza ansia né depressione (...). Lo spirito buono che anima e sostiene la prima comunità (il suo gruppo originario) la rinfranca nella speranza, nella pace e nell’audacia”. E in un altro testo (Da Gerusalemme a Mornese e a tutto il mondo, di Maria Ko, Piera Cavaglià e Josep Colomer) si legge della sua grandezza di cuore. A Mornese e poi a Nizza Monferrato “grande di cuore significa anche spiccata sensibilità educativa, intuizione, intraprendenza e audacia nel rispondere alle sfide della promozione della donna (...), cioè ‘il non deludere’ ‐ in un tempo che era fortemente separato dalla discriminazione – le domande di cultura, di libertà, di emancipazione delle ragazze, soprattutto quelle dei ceti popolari”. “Duttile e audace” – annotano nello stesso testo – si mostra anche nel “coraggio della mobilità”: la prima comunità si apre, infatti, alla logica scomoda del cambiamento e dell’esodo, assecondando il desiderio di Don Bosco di far nascere nuove comunità, in Piemonte e poi anche in Francia, e intraprendere nuove strade, qualificandosi meglio sul piano pedagogico e didattico. Quello che è stato chiamato “lo spirito di Mornese”, lo spirito di Maria Mazzarello, è stato espresso bene nel libro di Domenico Agasso che ne evidenzia proprio la disponibilità e l’intraprendenza nell’avventurarsi su strade nuove: 9 Lo spirito di Mornese – scrive Agasso – “racchiude tanto sacrificio paziente e allegro, e insieme tanta tenacissima e coraggiosa sperimentazione, tanta creatività e fantasia difronte a problemi con scarso o nullo retroterra di procedure e di tecniche”. L’amore che ebbe per le ragazze che cercavano emancipazione e crescita, la tenerezza che nutrì per loro, suscitò in Maria Mazzarello una grande forza, cioè audacia e creatività, per sperimentare vie nuove..... “Audacia” è una parola‐chiave anche di papa Bergoglio e dell’Evangelii Gaudium. Lo è nel senso di schiettezza, di franchezza, di parresia. Lo è nel senso di coraggio, di prendere l’iniziativa senza paura. Lo è nel senso di creatività. L’Evangelii Gaudium è un appello a una “Chiesa in uscita”, cioè una Chiesa che “sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi”. (n. 24) Scrive Bergoglio: “Osiamo un pò di più di prendere l’iniziativa!” Si tratta – dice – di “avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria che non può lasciare le cose come stanno” “Sogno – dice – una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa”. Ed elenca i soggetti che nella Chiesa debbono prendere l’iniziativa per trasformare le cose.... compreso lui stesso, il papa: “devo anche – dice – pensare a una conversione del Papato” per essere “più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione”. E dunque, nella Chiesa, si deve “essere audaci e creativi”. Dice proprio così, nella prima parte del testo dedicata alla “trasformazione missionaria della Chiesa”: “Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”. (n.33) E ancora: “Se consentiamo ai dubbi e ai timori di soffocare qualsiasi audacia, può accadere che, al posto di essere creativi, semplicemente noi restiamo comodi, senza provocare alcun avanzamento e, in tal caso, non saremo partecipi di processi storici con la nostra cooperazione, ma semplicemente spettatori di una sterile stagnazione della Chiesa” (129). Fino a dire, verso la fine dell’esortazione: 10 “Come vorrei trovare le parole per incoraggiare una stagione evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, audace, piena di amore fino in fondo (…). Invoco lo Spirito Santo che venga a rinnovare, a scuotere, a dare impulso alla Chiesa in un’audace uscita fuori di sé per evangelizzare tutti i popoli”. (261). Viene in mente la piccola Maria Mazzarello (Maìn, come la chiamavano a Mornese), così audace nel cercare la via di un’elevazione delle ragazze di Mornese, con mezzi così poveri, senza neppur saper scrivere, e poi pronta a spingersi fino in America, (nell’Argentina di Papa Bergoglio) se la salute l’avesse sorretta…. La tenerezza, l’audacia… ma certo, in Maria Mazzarello, forse c’è soprattutto l’umiltà. Il terzo tratto dell’affinità con Papa Bergoglio. L’audacia di Maria Mazzarello nel buttarsi su nuove strade, per l’amore delle sue ragazze, fu sempre accompagnata da una straordinaria umiltà. -
Umiltà che non era nel suo carattere di ragazzina. Maria era – così dicono – abbastanza vanitosa e dotata di un notevole amor proprio. “Una bula”, in dialetto piemontese. Una ragazza spavalda. Ma ben presto scoprirà che l’amor proprio guasta la vita, la propria e quella di chi ci è vicino, e che non è la via che ci porta a Dio. -
Umiltà che, certo, noi comprendiamo come “necessaria”, in un certo senso come “dovuta” in lei, visto che si tratta di una giovane senza scuola, a cui aveva insegnato a leggere il padre contadino, e che imparerà a scrivere (e malamente) solo a 34 anni, quando diviene cofondatrice e madre superiore di una congregazione che è parte viva della sfolgorante Società di San Francesco di Sales, fondata da Don Bosco. Ma, in Maria Mazzarello, l’umiltà fu specialissima… -
fin da quando imparò a fare la sarta per poter insegnare poi alle sue ragazze e attrarle a sé. (“sbrigava le commissioni di lavoro – scrivono – con premura, umiltà e decisione”) -
fin da quando don Bosco, che pure era in contatto con molte altre “opere” per le ragazze, nate in Piemonte in quegli anni, dopo averla conosciuta nel 1864 a Mornese, lei aveva solo 27 anni, aveva già pensato in cuor suo (senza dirlo) che avrebbe scelto “l’umile e povera Madre Mazzarello” per farne “la pietra angolare” dell’Istituto che egli voleva fondare. -
fin da quando, nominata la prima volta madre superiora del nuovo Istituto, nel 1872, chiede di essere appellata solo come “vicaria” e “pregava sempre le compagne di avvisarla quando mancava”. Un’umiltà che significa anche far posto al contributo degli altri e accettarne le critiche. 11 Nel 1874, quasi esasperata, scrive a don Cagliero, che don Bosco aveva nominato direttore spirituale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, per chiedere di essere sostituita come superiora: “Sono proprio un’ignorante contadina (…). Dica a don Bosco che non sono nemmeno capace di dirigere me stessa e tanto meno gli altri”. Alle sue figlie, alle più timide, capita che scriva: “Ti spaventi di questo difetto che non riesci mai a sconfiggere? Oh, come ti capisco! Perché anch’io ce l’ho e mi fa sudare (…)”. Ma poi aggiunge: “Fatti coraggio! Combatterlo è quel che conta; poi, che ci sia o no la riuscita, il Signore è così buono che ci spalancherà ugualmente il Paradiso”. Diede grande prova di umiltà anche quando Don Bosco mandò a Mornese due religiose della Congregazione di Sant’Anna per insegnare a lei e alle giovani mornesine come essere delle brave religiose (l’ordine, la disciplina, tenere i conti, i rapporti con le famiglie delle educande…). Maria è contenta. Dice che si tratta, ora, di “diventare suore davvero”. Quando andranno via, le due suore diranno a Don Bosco: “La Mazzarello ormai può fare tutto da sé. Crede, Don Bosco, nella sua umiltà è una santa”. Dell’umiltà, molto parla lei stessa nelle sue lettere. In una lettera scritta nel 1976 alle suore, ormai già sparse in altre nuove case, così scrive: “Non state ad invidiare quelle che in Chiesa mandano sospiri e spargono lacrime e poi non sanno fare un piccolo sacrificio, né adattarsi a un lavoro umile. Sapete, invece, chi dovete invidiare? Quelle che, con vera umiltà, si adattano a tutto e sono contente di essere la scopa della casa”. Il senso profondo di questo invito all’umiltà ‐ “essere la scopa della casa” ‐ è chiaro in altri frammenti delle sue lettere, come quando scrive: “Pensate solo ad adempiere bene il vostro dovere per amore di Gesù e non pensate ad altro. Se sarete umili e avrete confidenza in lui, Egli farà il resto”. L’umiltà, dunque, come avvicinamento a Gesù, abbandono a lui, confidenza in lui. La stessa obbedienza alle superiori, che consiglierà sempre, è intesa come affidamento fiducioso in Gesù e via maestra per aprire nuovi orizzonti… Ha scritto un’altra volta: “Umiliatevi senza scoraggiamento, e poi con coraggio, senza paura, andate avanti” In una delle sue ultime lettere, il 10 aprile 1881, inviata alle suore che sono in Patagonia, scrive ancora una volta: “Mi raccomando tanto l’umiltà e la carità (…) Giù quella voglia di comandare”. 12 Domenico Agasso, nel suo libro, parla di Maria come “docente di umiltà”. La sua vita – scrive – fu una “cattedra di umiltà”. Di Papa Bergoglio, l’umiltà, è nota. L’abbiamo visto, e lo vediamo, da mille piccoli gesti: l’abitare al pensionato di Santa Marta come gli altri monsignori, il portarsi la borsa da solo quando viaggia, il sedersi a volte tra i banchi …, gli abiti, l’automobile …, le telefonate fatte di persona a qualche amico o a chi lo cerca. E quando era vescovo a Buenos Aires, questo stile semplice era ancora più marcato. In aereo, nel viaggio di ritorno dal Brasile, a quel giornalista che gli poneva domande sugli omosessuali ha risposto: “Se sono persone di buona volontà, chi sono io per giudicare?”. Nell’intervista a padre Antonio Spadaro, direttore della rivista Civiltà Cattolica, alla domanda “Chi è Jorge Mario Bergoglio?” Ha risposto: “Non so quale possa essere la definizione più giusta …Io sono un peccatore. E non è un modo di dire. Io sono un peccatore”. In una intervista più recente, al direttore del Corriere della Sera, dice: “Il papa è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo, e ha amici come tutti”. E più volte ha riconosciuto suoi difetti ed errori nella vita passata. Nella Evangelii Gaudium, al n. 76, scrive: “Sento una gratitudine immensa per l’impegno di tutti coloro che lavorano nella chiesa” (e qui il Papa pensa certo anche al volontariato internazionale del VIDES…). Dice poi che il dolore e la vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa non devono però far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore. E poi aggiunge questa breve annotazione: “Questa testimonianza mi fa tanto bene e mi sostiene nella mia personale esperienza a superare l’egoismo per spendermi di più”. Tenerezza, audacia, umiltà … E poi gioia, allegrezza: il quarto tratto. Si è detto che Maria Mazzarello ‐ prima di incontrare don Bosco, cioè intorno ai 25‐26 anni, e senza sapere nulla di lui ‐ nella sua opera educativa fosse già “misteriosamente salesiana”. In effetti percorreva già la sua stessa via: il laboratorio di sartoria, l’oratorio festivo, l’ospitare ragazze povere, il suo saperle attrarre, il suo saperle spronare, e il far esprimere il meglio di loro… E, certo, molto, di don Bosco, aveva anticipato da sola. Quello che don Bosco scriverà nel primo regolamento darà a Maria e alle sue compagne nel 1969, quando erano ancora Figlie dell’Immacolata, era proprio quello che Maria già faceva: “Farsi amare più che temere dalle ragazze” – scrive don Bosco ‐, e vigilare su di loro in un modo “non pesante, non diffidente”. 13 Ma, forse, è nell’allegrezza di Maria, nel suo inesausto dare vita ad un clima gioioso e raccomandare sempre e a ciascuna di “stare allegra”, che c’è un’impronta salesiana ancora più evidente. Nella “Cronistoria” leggiamo testimonianze che risalgono agli anni 1856‐57. Maria ha solo 20 anni. Partecipava al gruppo delle Figlie dell’Immacolata, ma non aveva ancora aperto il laboratorio. Viveva in casa con i suoi. Durante la settimana cercava di fare amicizia con le ragazzine più giovani e poi le portava con sé a pregare un po’ in chiesa. “Eravamo felici di stare con lei, era sempre allegra, spiritosa, affabile – riferiscono alcune testimonianze – “. “Attirava le ragazze come la calamita attira il ferro”. “Non voleva vedere fronti impensierite ‐ si legge in un’altra testimonianza ‐; aveva il dono di far sorgere il sole anche nei giorni nuvolosi e di mutare in piacere non solo le parole sgradevoli e le occupazioni più monotone, ma anche i lavori più gravosi (…). Con il carattere vivo, amabile e pacato teneva allegre le compagne. Anche quando, dopo aver faticato l’intera giornata, dovevano sfamarsi con un po’ di polenta”. Nelle sue letture la raccomandazione dell’allegria è fra le più frequenti. Un’allegria che ha origine non solo nel suo carattere positivo, ma anche nella sua umiltà e soprattutto nella sua fede autentica. Scrive nel 1880 a una suora missionaria in Patagonia: “Suor Caterina, siete allegra? Oh io lo spero, perché guai se ci lasciamo prendere dalla malinconia! Essa è una peste, perché è figlia dell’amor proprio e finisce per condurci alla tiepidezza nel servizio di Dio.” E a suor Angela Vallese, direttrice delle FMA in Argentina, raccomanda di tenere le suore sempre allegre e di esserlo lei stessa: “State allegra, non tante paure nei vostri difetti di non potervi emendare tutto in una volta: ma, a poco a poco, con buona volontà di combatterli non facendo mai pace con essi (...). Voi fate le vostre parti per emendarvi e vedrete che, una volta o l’altra, vincerete tutto”. L’allegria di cui Madre Mazzarello parla, come scrive ad un’altra suora, è “l’allegria che vuole il Signore”. Così anche pensa e dice Papa Bergoglio. Il documento–cardine del suo programma di guida della Chiesa si chiama, appunto, “il Vangelo della gioia”, Evangelii Gaudium. E si inizia con queste parole: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.” E la nuova tappa di evangelizzazione a cui Bergoglio ci invita è – dice – “marcata da questa gioia”. 14 Tenerezza, audacia, umiltà, e gioia dunque. Infine la povertà. In Madre Mazzarello la povertà fu certo, in primo luogo, una necessità, un limite reale. La povertà divenne una questione seria, per Maria, soprattutto quando lasciò definitivamente la casa del padre, a 31 anni, nel 1867, e scelse di vivere appieno la vita comunitaria. Mancava tutto. La legna, la farina... Un’allieva del laboratorio‐ospizio racconta: “Mi ricordo che Maria e le sue compagne per lo più si nutrivano di una fetta di polenta con insalata oppure di minestra e pane. Ma quel poco, ed era questo che mi meravigliava – aggiunge l’allieva – era sempre condito con l’allegria che Maria sapeva tener viva.” Allegria e povertà insieme… E povertà vi sarà anche nelle prime nuove case che si cominceranno ad aprire dopo la fondazione del nuovo istituto nel 1972. Le suore accettavano di accogliere ragazze nella scuola anche con meno delle venti lire mensili stabilite, e si toglievano il pane di bocca per mantenerle. Eppure in qualche casa, col tempo, ci sarà qualche piccolo miglioramento. E sentite cosa dice Maria! Siamo nel 1880, 13 anni dopo. Maria ha 43 anni. Morirà l’anno seguente. In un discorso rivolto alle sue “Figlie” dice: “Fin qui siamo state povere e abbiamo sentito molte volte le conseguenze della povertà. Il pane stesso ci è stato scarso.” E poi aggiunge: “In tutte noi è sempre vivo lo spirito di povertà di Gesù. Ma ora – osserva – l’opera nostra si allarga (...) anzi prenderà sempre più vaste proporzioni (...). Tutto ciò porterà, a poco a poco, dei grandi cambiamenti nella vita delle figlie di Maria (...)”. E allora dice: “Per carità, Figlie mie! Anche in mezzo a maggiori comodità continuate ad amare realmente e concretamente la povertà di cui fu maestro Gesù Redentore.” Questa annotazione di Maria Mazzarello ci porta a Papa Bergoglio. Essa coglie un punto centrale dell’esperienza di prete di Jorge Mario Bergoglio e, ora , del suo documento Evangelii Gaudium, che, come abbiamo detto, è il suo programma per la Chiesa e per i credenti in Gesù, oggi. Di che “povertà” fu “maestro” Gesù redentore (come dice Maria Mazzarello)? Papa Bergoglio mette al centro della Evangelii Gaudium (ma anche della sua vita) proprio una riflessione profonda sul mistero di Gesù venuto a portare il lieto annuncio ai poveri e fattosi povero lui stesso. 15 Papa Bergoglio, al n. 198 dell’Evangelii Gaudium, dice: “ Per questo motivo desidero una Chiesa povera per i poveri”‐ Perché dice “per questo”? Per quale motivo desidera non solo una “Chiesa per i poveri”, ma una “Chiesa povera”? Lo desidera perché (e qui cita il discorso di Benedetto XVI tenuto nel 2007ad Aparecida, per la V Conferenza generale dell’Episcopato latino‐americano) la nostra fede è fede “in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà”. E’ qui ‐ dice Bergoglio – “la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”, cioè attraverso i più poveri, i più abbandonati, i più indifesi, i più sofferenti . E, dice: “Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente”. E allora? “E’ necessario che tutti si lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa”. E, se si prosegue nella lettura di questo passo, vediamo come si vengono a collegare tra loro gli altri tratti dello stile evangelico che accomuna così tanto Maria Mazzarello e Jorge Bergoglio. “Siamo chiamati – dice Bergoglio ‐ a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere amici, ad ascoltarli, a comprenderli ( … )” E più avanti: “Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale, possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione”. E si chiede: “Non sarebbe, questo stile, la più grande e efficace presentazione della buona novella del Regno?” Questo stile… Cioè questa “vicinanza reale”, questo ascolto, questa attenzione ai più piccoli, ai più emarginati… Uno “stile” che implica, per la chiesa, di conservare, o di ritrovare, una povertà di vita e di mezzi, una sobrietà; così come implica di “uscire” da tante chiusure e sicurezze … Dice Bergoglio: “Preferisco una chiesa accidentata, ferita e sporca, per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di appoggiarsi alle proprie sicurezze” (n. 49). Il tema della povertà è delicato e cruciale. Nel suo messaggio per questa Quaresima, Bergoglio torna sul senso della povertà. Si chiede: “Che cos’è questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi?”. 16 E risponde che “non è la povertà in se stessa” “lo scopo del farsi povero di Gesù”; ma è – come dice san paolo – “…perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. Questa povertà “è proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi …”. E spiega: “Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione. La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio”. Dirà più avanti: “Potremo pensare che questa via della povertà sia stata quella di Gesù, mentre noi, che veniamo dopo di lui, possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani. Non è così. In ogni epoca e in ogni luogo, Dio continua a salvare gli uomini e il mondo mediante la povertà di Cristo, il quale si fa povero nei Sacramenti, nella Parola e nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri”. “La ricchezza di Dio” – dice Bergoglio, e Maria Mazzarello questo lo aveva ben capito e testimoniato – non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, personale e comunitaria, animata dallo Spirito di Cristo”. Possiamo annunciare, testimoniare, comunicare il Dio di Gesù Cristo “sempre e soltanto” “attraverso la nostra povertà” – dice Bergoglio – “personale e comunitaria”, “povertà animata dallo Spirito Santo”, cioè, come diceva Maria Mazzarello, “la povertà di cui fu maestro Gesù Redentore”, cioè la povertà come prossimità ai più poveri, ai più sofferenti, il fatto di amarli, di star loro vicino… Prendo un ultimo frammento dell’esperienza di suor Maria. La Cronistoria della sua vita ci racconta che una sera ella ebbe a fare un rimprovero alle sue consorelle, nel corso del suo abituale breve pensiero serale, rivolto a tutte: “Oggi – dice – abbiamo incontrato una povera bambina. Era sporca da far pietà. Eppure nessuna di noi ha mostrato di accorgersene e la ragazzina se n’è andata tutta sola per la sua strada. Lasciatemi dire che provo dolore. Se sono queste bambine povere e lacere quelle affidate particolarmente alle nostre cure, come possiamo incontrarle senza rivolgere loro neppure una buona parola?”. Papa Francesco – in quella che potremo chiamare la sua “regola” per la Chiesa di oggi (e dunque per tutti noi), nell’Evangelii Gaudium – ci dice che dobbiamo vivere e comunicare il Vangelo – come faceva Gesù ‐ attraverso mezzi poveri, ascoltando, accompagnando, condividendo, abbracciando … 17 E poi ci dice anche che c’è “un cammino di liberazione da percorrere”: per quella bimba “sporca da far pietà”, incontrata da Maria Mazzarello e dalle sue consorelle, e per tutte le altre bambine come lei, in ogni parte del mondo. Perché si tratta di “rendere presente nel mondo il Regno di Dio” (n. 186). Questo è “evangelizzare”, cioè “rendere presente il regno di DIO” (“Venga il Tuo Regno!”…). Evangelizzare significa “cambiare il mondo”. Dice proprio così Francesco: “Una fede autentica, che non è mai comoda e individualista, implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio”. Questa è la “dimensione sociale della fede”. “Confessare un Padre che ama infinitamente ciascun essere umano” – dice Papa Francesco ‐ significa scoprire che “ogni essere umano ha una dignità infinita” e capire che “Dio desidera la felicità dei suoi figli anche sui questa terra” (n. 182). La vera speranza cristiana, che cerca il Regno, genera sempre storia (n. 181), cioè incide nella vita del mondo. Lo cambia. Di qui i “no” di Francesco (da tradursi per noi nella ricerca di come meglio tenerne conto nel nostro impegno…): no all’economia dell’esclusione; no alla teoria della ricaduta favorevole (che ci rende passivi e acritici di fronte a uno sviluppo economico che presume di portare benessere a tutti mentre, se non corretto, aumenta solo le disuguaglianze); no alla nuova idolatria del denaro; no all’autonomia assoluta dei mercati; no a un denaro che governa invece di servire. E le due grandi sfide : l’inclusione sociale dei poveri, e delle nuove forme di povertà e di fragilità; e il dialogo e la pace sociale. Ma qui si aprirebbe un altro tema di approfondimento … CONCLUSIONE Che cosa trarre, oggi, per noi, per il VIDES, da questa molto sommaria “memoria” di Madre Maria Mazzarello e da questo accostamento, che ho proposto pure assai sommariamente con Papa Francesco? Lo lascio a voi dire, naturalmente. Sono passati tanti anni – più di 150 –, tante generazioni, dall’esistenza di Madre Maria Mazzarello ad oggi. Ma a me sembra che quella sorta di “rivoluzione” che Papa Francesco sta annunciando oggi, testimoniandola con molti gesti e già con alcune decisioni significative, nella Chiesa e per la Chiesa, contenga l’essenziale di quella che è stata la testimonianza di Madre Maria Mazzarello, della ragazza di Mornese: 18 -
quella tenerezza, che è la tenerezza stessa di Dio, del Signore, la sua misericordia senza fine, il suo andare incontro a tutti -
quella audacia, di osare di prendere iniziative, di cercare strade nuove per vivere fino in fondo l’amore di Dio, e per seguire le orme di Gesù, con la disponibilità a rinnovare il linguaggio, le attività, le abitudini… E poi anche -
quella umiltà, quel non darsi importanza, quella semplicità, che significa far posto all’altro, rinuncia all’amor proprio, sapere di poter sbagliare, sapersi umiliare, aspettare dal Padre e solo da Lui ogni ricompensa; e che dunque anche significa dare credito ai carismi di tutti e -
quella gioia, che vuol dire far vivere Gesù dentro di noi e infine -
quella povertà, che è di nuovo seguire Gesù, quel Gesù fattosi povero che con la sua povertà ci rende ricchi; e che dunque è opzione per una Chiesa che non si fa forte delle sue strutture (non le mette al primo posto, anche se le usa), ma che, anzi, vuole essere “una Chiesa povera”; e, al tempo stesso, è opzione per i poveri, i soli, gli abbandonati, gli esclusi… nel senso di accompagnarli nel loro riscatto, nel loro cammino di liberazione, ascoltandoli e al tempo stesso educandoli, educandoli e al tempo stesso facendosi ‐ come dice Bergoglio ‐ “evangelizzare da loro”. Mi pare stia qui la comune testimonianza di Maria Domenica Mazzarello e di Papa Francesco. Due stili di vita cristiana singolarmente affini. Giampiero Forcesi 19