Marco Onado Gli anni di piombo della finanza italiana. Ambrosoli

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Marco Onado Gli anni di piombo della finanza italiana. Ambrosoli
 Marco Onado Gli anni di piombo della finanza italiana. Ambrosoli, Baffi, Sarcinelli e la difesa della legalità 1. Premessa Trenta anni fa la finanza italiana ha vissuto una delle stagioni più buie della sua pur travagliata esistenza. Intorno all’ascesa e al crollo delle banche di Sindona si sono snodate vicende torbide che avevano come obiettivo centrale l’assalto alle istituzioni con ogni mezzo, in un’escalation di illegalità e criminalità culminata prima nell’attacco alla Banca d’Italia e in particolare a Paolo Baffi e Mario Sarcinelli e poi con il barbaro assassinio di Giorgio Ambrosoli. Quegli anni possono essere definiti a pieno titolo Gli “anni di piombo” della finanza italiana, per rievocare l’altro attacco alle istituzioni: quello del terrorismo, culminato nella primavera del 1978 con io rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Il contributo migliore che possiamo dare, nella nostra posizione di studiosi, è quello di ricostruire e ricordare quei fatti, soprattutto per i nostri studenti che sono nati dopo i tragici giorni che stiamo rievocando e far capire loro il grande debito di riconoscenza che abbiamo acquisito. Per capire la gravità di quei fatti ormai lontani, basta citare una frase della premessa della relazione di minoranza firmata da Giuseppe D’Alema, Gustavo Minervini e Luca Cafiero: “… emerge con grande nettezza in questo affare, il fatto che l’interesse pubblico è stato costantemente mortificato per far prevalere interessi di gruppi privati spregiudicati e avventuristici, che hanno piegato strutture portanti dello Stato ai loro progetti loschi e a volte criminali. […] Non è un caso che dai lavori della commissione sul ‘caso Sindona’ ha preso consistenza politica il caso della P2 […] e si è dovuto fare riferimento ad altri casi, come quello della mafia […] No, non è un caso perché i ‘poteri occulti’ sono dentro i ‘poteri legittimi’ o ad essi collegati e vi sono forze politiche che hanno menti che guidano gli uni e gli altri e spesso diventa difficile (ma non sempre) capire se gli atti compiuti dai ‘poteri legittimi’ sono fatti per lo Stato o contro lo Stato”. 1 1 Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Doc XXIII n.2‐sexies, Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, Roma, 1982. Relazione di minoranza (Giuseppe D’Alema, Gustavo Minervini, Luca Cafiero), p. 215. 1
Come avverte Umberto Ambrosoli nel suo bellissimo e struggente libro2 “qualunque tentativo di comprendere quegli anni – e in un certo senso anche dei decenni seguenti – deve fare i conti con la P2, con l’intrico di interessi che l’animava e con l’ampiezza della sua azione. [Nella storia di Giorgio Ambrosoli] ricorrono i nomi di alcuni affiliati alla Loggia P2, determinati nel tentativo di vanificare il lavoro suo e dei suoi collaboratori”. E ancora egli ricorda opportunamente una frase cruciale della relazione della commissione di inchiesta che definisce la P2 “metastasi delle istituzioni”, un fenomeno che “colpisce con indiscriminata perversa efficacia, non parti del sistema, ma il sistema stesso nella sua più intima ragione di essere: la sovranità dei cittadini, ultima e definitiva sede del potere che governa la Repubblica”. Ribadisce la relazione di minoranza:3 “non c’è dubbio che un punto di incontro dei ‘poteri occulti’ e dei ‘poteri legittimi’ sono pezzi del sistema finanziario. […] Sindona è un simbolo di questa realtà, ma non l’eccezione. La sua carriera non è eccezionale, perché è affidata alle sue indubbie capacità che si esprimono anche nell’allacciare rapporti para‐politici con uomini di governo in Italia e negli Stati Uniti. Sindona è figlio di un sistema di potere.” Parole che riecheggiano quelle di Ambrosoli in una intervista televisiva del 1978, pochi mesi prima dell’assassinio: “Di Sindona probabilmente c’è n’è qualcuno ancora in giro: cambi il nome, cambi la faccia, ma la sostanza rimane. L’errore è un sistema che consente la costruzione di imperi come quello di Sindona”. 4 Sindona quindi non fu un caso isolato nella storia finanziaria italiana, ma solo il primo caso clamoroso di una finanza deviata, che avrebbe avuto di lì a poco una seconda versione con la caduta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e poi una miriade di episodi di scandali e di crisi aziendali che avevano alla base un intreccio perverso tra finanza deviata, violazione sistematica delle regole, corruzione e complicità o connivenza politica. E come nella lotta al terrorismo, dal caso Sindona le istituzioni (nel nostro caso quelle finanziarie) hanno complessivamente resistito, anche se in questo caso la mancata identificazione delle responsabilità politiche (mi riferisco in particolare alla deludente relazione di maggioranza della commissione parlamentare d’inchiesta) ha lasciato in circolazione potenti fattori inquinanti nei decenni successivi. Rimane il fatto che il caso Sindona ebbe l’effetto di ricompattare una parte non trascurabile della società civile in difesa dei valori di legalità e di avviare qualche riforma significativa nell’antiquato panorama della legislazione societaria e finanziaria italiana. Questo saggio è così organizzato. Il primo paragrafo descrive brevemente le caratteristiche delle banche di Sindona e gli avvenimenti essenziali che hanno portato alla liquidazione del 27 settembre 1974 (par. 2), in seguito si analizzano i vari piani di “salvataggio” che presero corpo all’indomani del dissesto, con relative accuse penali tra cui la bancarotta fraudolenta e il falso in bilancio (par. 3); il paragrafo successivo descrive la continuità fra quei piani e i vari progetti di chiusura “indolore” della crisi che avevano visto protagonista il Banco di Roma nei mesi precedenti il dissesto; si esamina poi il nesso fra le 2 Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda, ed Sironi, Milano, 2009, p. 57. 3 Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit. p. 216. 4 Umberto Ambrosoli, cit. p. 215. 2
vicende del dissesto Sindona e l’assalto alla Banca d’Italia avvenuto nel 1979, lo stesso anno dell’assassinio di Ambrosoli; il paragrafo 6 esamina le debolezze del quadro normativo complessivo che hanno consentito l’ascesa di Sindona e le riforme, parziali forse ma significative, promosse dall’intera vicenda. 2. Sindona, le sue banche e la crisi del 1974 Sindona è uno dei tanti personaggi spericolati che hanno animato la scena finanziaria italiana del secondo dopoguerra. Gli schemi sono ben noti: opera con capitali di dubbia provenienza, è sospettato fin dagli anni Sessanta di complicità con servizi segreti americani e con la mafia, compie varie ed audaci scalate, che lo fanno passare per eroe della borsa, soprattutto a chi si giova di informazioni riservate da lui graziosamente elargite. All’inizio degli anni Settanta muove all’assalto di tre santuari del capitalismo italiano: Bastogi, Italcementi, Banca nazionale dell’agricoltura. In tutte le tre battaglie verrà respinto con perdite dalla reazione abbastanza compatta dell’establishment con il contributo fondamentale della Banca d’Italia di Guido Carli. Le alleanze di cui si varrà Sindona sono varie: dall’Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana a cui il finanziere si avvicina fin dalla fine degli anni Cinquanta, (suo socio in una delle sue due banche, Banca Unione) al mondo dell’impresa pubblica (che riceverà cospicui e continui finanziamenti occulti, documentati dalla Commissione Sindona), al mondo politico in generale. Il cuore dell’impero del finanziere rampante erano le due banche milanesi, Banca Unione e Banca Privata Finanziaria. Come ebbe a dichiarare lo stesso Sindona, “le aziende si comprano e si vendono, le banche si comprano e si tengono”.5 Come afferma la relazione di maggioranza6 “[l]e banche erano il centro motore dell’attività del gruppo, innanzitutto perché fornivano risorse sia in forma palese sia in forma occulta (i depositi fiduciari). La concentrazione dei rischi delle operazioni creditizie era quindi sempre elevatissima: è vero che i depositi fiduciari erano apparentemente depositi interbancari; ma erano pur sempre tutti, o quasi tutti, rapporti interni al gruppo. Le banche servivano inoltre a realizzare la strategia di borsa del gruppo, sostenendo le quotazioni, allargando la cerchia degli investitori e fornendo credito nella forma del riporto. Complessivamente quindi il gruppo riceveva un sostegno massiccio sotto forma di finanziamenti diretti o sotto forma di interventi di borsa.7 Si è quindi detto che le due banche 5 Commissione Sindona, Relazione minoranza, cit., p. 219. 6 Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona e sulle responsabilità politiche ed amministrative ad esso eventualmente connesse, Doc XXIII n.2‐sexies, Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, Roma, 1982. Relazione conclusiva (Relatore Azzaro), p. 13‐14. Il testo, tranne quanto indicato nelle due note seguenti è identico a quello della relazione di minoranza, pp. 219‐220. 7 Nella relazione di minoranza questa frase è sostituita dalla seguente (p.219): “Dal lato dell’attivo la caratteristica essenziale era quindi rappresentata dall’elevata concentrazione dei rischi. Quasi tutti i prestiti andavano a favore del gruppo e gli stessi fiduciari, pur mascherati 3
presentavano caratteristiche particolari: si è parlato di banca d’affari, di banca mista, società finanziaria e quant’altri. In realtà, tali configurazioni appaiono inadeguate, perché non necessariamente comportano l’estrema concentrazione dei rischi che era tipica delle banche in questione. Siamo piuttosto di fronte a ‘banche di gruppo’ nel senso peggiore del termine, a quelle cioè che gli anglosassoni chiamano captive banks, banche prigioniere”. 8 L’altra caratteristica fondamentale era la netta propensione verso operazioni speculative in cambi (le operazioni speculative su merci del gruppo venivano fatte passare attraverso altre società): una propensione accentuatasi nel periodo 1973‐74 in connessione con la maggiore instabilità dei cambi e con l’esigenza del gruppo di aumentare le entrate, anche con aumento del rischio. Si ricordi che una parte notevole delle operazioni in cambi non era contabilizzata: nel 1973 il totale degli acquisti di dollari Usa non registrati ammontava a 3.405 milioni di dollari […]. Dal lato della raccolta, le banche seguivano l’orientamento di accrescere quanto più possibile i mezzi amministrati: ciò significava non solo un costo medio di raccolta elevato, ma anche la necessità di ricorrere in misura notevole a depositi interbancari o adepositi di imprese, enti pubblici ecc. Con una rete di sportelli relativamente ridotta e concentrata in piazze importanti come Roma e Milano, l’obiettivo di massimizzazione poteva essere raggiunto solo con caratteristiche da ‘banca all’ingrosso’ (wholesale bank): ma questo comportava una massa amministrata costosa ed estremamente instabile. Un elemento estremamente rischioso rispetto ad un attivo così immobilizzato, soprattutto se si considera che il patrimonio è sempre stato estremamente esiguo. Ultima caratteristica da ricordare è la sistematica violazione delle regole amministrative e contabili, e quindi delle disposizioni del codice civile e della legge bancaria. Oltre alle operazioni in cambi non contabilizzate, di cui si è già parlato, verranno individuate contabilità ‘nere’ di rilevante importo – eufemisticamente definite ‘riservate’ – già conosciute per taluni aspetti dalla Banca d’Italia fin dalla prima ispezione [1971], irregolarità nelle segnalazioni alla Banca d’Italia, violazione delle norme sui fidi e sulla riserva obbligatoria, e questo solo per citare i fatti più gravi. Alto grado di rischio dell’attivo, alta propensione alla speculazione in presenza di una gestione personalistica dell’azienda, raccolta crescente ma onerosa e volatile, gravi irregolarità amministrative erano quindi dal punto di vista strettamente tecnico le caratteristiche fondamentali delle due banche”. Gli aspetti più gravi delle irregolarità contabili erano costituiti dai cosiddetti “depositi fiduciari”: crediti verso altre banche (quindi presentati come attività molto liquide e poco rischiose) ma in realtà indisponibili perché supportate da un’autorizzazione (non registrata da rapporti interbancari, erano pur sempre rapporti infragruppo. A questi vanno poi aggiunti i sostegni indiretti effettuati mediante le operazioni in borsa”. 8 Nella relazione di minoranza, la frae prosegue cosi: “cogliendo l’aspetto più preoccupante della pericolosa situazione che si verifica allorquando vi sono interessenze in banche in società e viceversa” 4
in contabilità) ad investire in nome e per conto della banca sindoniana quei fondi in operazioni sistematicamente a favore del gruppo. La debolezza delle banche di Sindona (anche se non i depositi fiduciari) era emersa nel corso di due ispezioni della Banca d’Italia, nel 1971 e 1972. In entrambi i casi, i rapporti avevano proposto soluzioni di rigore e in particolare l’applicazione dell’art. 67 della legge bancaria che prevedeva lo scioglimento degli organi amministrativi e la gestione straordinaria. La decisione finale dell’allora Governatore Guido Carli fu invece diversa: Sindona, pur contrastato come raider, fu in qualche modo assolto come banchiere. Queste due decisioni della Banca d’Italia guidata da Carli furono oggetto di lunghe indagini da parte della Commissione Sindona, ma le conclusioni non furono unanimi. Mentre la relazione di maggioranza si limita a riportare in modo notarile le motivazioni della deposizione di Carli (che considera sufficiente l’aver bloccato le scalate di Sindona e aver segnalato i reati alla magistratura) la relazione di minoranza è molto più critica e osserva che l’arretratezza della legislazione italiana fu la causa fondamentale per cui per fermare Sindona la Banca d’Italia fu un qualche modo costretta ad assumere ruoli che non le erano istituzionalmente propri e ritenne quindi di non adottare provvedimenti di rigore nei confronti delle due banche, anche per non porsi contro la vasta rete di complicità e di alleanze che si muoveva intorno allo spregiudicato finanziere. “Il paradosso – conclude la relazione di minoranza – è costituito dal fatto che la banca centrale sconfisse Sindona su terreni di scontro che erano estranei ai suoi compiti istituzionali e credette di (o fu costretta a) cedere sul terreno di propria stretta competenza […] Ciò significa che se Carli esce vittorioso dallo scontro con Sindona, la vigilanza bancaria viene in qualche modo sconfitta”.9 Sul piano politico, le vicende dei primi anni Settanta hanno effetti importanti. I protagonisti della vita economica e i commentatori tendono a polarizzarsi intorno a due fronti. Da un lato, Guido Carli viene addirittura accusato (soprattutto da ambienti che poi si riveleranno vicini a Sindona) di essere al servizio dei poteri che ruotano attorno a Cuccia e di porsi non come controllore al di fuori dei giochi, ma come il nemico di Sindona. Anche il Vaticano si unisce al coro.10 Ma fra i favorevoli, o comunque fra i non ostili a Sindona, vi sono non pochi, apparentemente neutrali che vedono con favore un po’ di ricambio in una finanza italiana fin troppo statica: la Bastogi in un libro di successo dell’epoca viene definita “la gallina dalle uova di pietra”.11 Nessuno (o quasi) rimarca il contrasto rispetto ad una legislazione finanziaria assolutamente arcaica: non esiste un’autorità di vigilanza sul mercato finanziaria e la Borsa è regolata da un regio decreto del 1913. Non sorprende che la scalata a Bastogi lanciata attraverso un’offerta pubblica di acquisto, venga salutata come una ventata di aria fresca. 9 Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit., p. 237. 10 Umberto Ambrosoli, cit., p.68. 11 Eugenio Scalfari – Giuseppe Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Feltrinelli, Milano, 1974. 5
In ogni caso, è a partire da quegli anni che Sindona intensifica la sua rete di alleanze politiche, i finanziamenti occulti ai partiti (in particolare la Democrazia cristiana), i favori a numerosi politici. Anche i rapporti con la mafia siciliana e americana , di cui si sospetta fin dagli anni sessanta, vengono intensificati. La situazione finanziaria del gruppo comincia a diventare drammatica nel 1973. Inizia allora il disperato tentativo di raccogliere capitali attraverso la finanziaria Finambro che vedrà ancora una volta un fronte compatto muoversi a favore di Sindona.12 Mentre proseguono le pressioni per ottenere l’autorizzazione all’aumento di capitale Finambro, Banca Unione lancia un aumento di capitale, accompagnato da una sorprendente (ovviamente manipolata) esplosione dei corsi di borsa, che passano da 6.700 lire ad un massimo di 32.890 il 26 gennaio 197413. Il titolo svolge un ruolo strategico nella gestione finanziaria di Sindona, puntualmente documentato nella relazione Ambrosoli, ma non dalla Banca d’Italia che autorizza l’aumento di capitale e sottovaluta l’importanza cruciale della clausola di gradimento al fine di limitare gravemente i diritti degli azionisti di minoranza.14 Come avverte la relazione di minoranza, l’aumento di capitale si tradurrà nell’esproprio di ben sei miliardi di lire ai danni dei piccoli azionisti. 15Ancora una volta, una debolezza del quadro normativo e di vigilanza viene sfruttato senza scrupoli: lo schema sarà ripetuto altre volte impunemente, ad esempio, nella ristrutturazione del gruppo Tanzi all’inizio degli anni Ottanta. Ma la situazione è sempre più grave. A maggio, la Sec sospende la banca americana controllata da Sindona, la Franklin National Bank dalla quotazione di borsa. A giugno entra in scena in modo massiccio il Banco di Roma con un finanziamento di 100 milioni di dollari, discutibile sul piano giuridico ed estremamente rischioso su quello economico perché erogato in fretta e furia nei confronti di una società del gruppo Sindona la cui solidità patrimoniale non era conosciuta e senza preoccuparsi di conoscere la composizione del suo azionariato.16 Ma il pur cospicuo finanziamento si rivela ben presto inadeguato rispetto alla gravità della situazione. Il 28 giugno, il direttore della sede di Milano della Banca d’Italia segnala ai suoi superiori di Roma le sempre più diffuse voci di difficoltà delle due banche di Sindona e aggiunge una frase significativa: “chiedo immediati accertamenti ispettivi presso Banca Unione. Ho considerato eventuali effetti opinione pubblica nostro intervento. A mio avviso, dovrebbero essere tranquillizzanti, tuttavia ritengo che eventuale nostra inerzia potrebbe 12 Come dirà Ugo La Malfa: “Mezza Italia si sta muovendo per questa operazione, il che mi rende ancora più diffidente”. Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit. p.290. 13 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p.37. 14 Ibidem, p.40. 15 Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit. p.241. 16 Sul punto si veda la precisa ricostruzione in Commissione Sindona, Relazione di minoranza, pp. 295‐305. 6
domani costituire elemento di accusa nei confronti della Banca d’Italia per carente azione di vigilanza”. 17 Ormai la fine è inevitabile: l’aumento di capitale Finambro tramonta definitivamente nonostante le molteplici pressioni perché l’aumento avrebbe avuto bisogno dell’approvazione del Cicr che Ugo La Malfa, Ministro del Tesoro, si rifiuta di convocare, forse nel timore di essere messo in minoranza dai suoi colleghi di governo. Il 5 luglio Sindona comunica a Carli che la banca ha subito gravi perdite in cambi (non contabilizzate, il che implica anche il falso in bilancio); il 19 luglio un dirigente appena nominato dal Banco di Roma, comunica il risultato drammatico delle prime indagini e svela finalmente cosa si nasconde dietro i depositi fiduciari (“il 99 per cento dei nostri depositi sono fittizi”). Il 22 luglio gli ispettori della Banca d’Italia da poco arrivati nelle due banche (anche al seguito della richiesta del direttore della sede di Milano) spediscono al Governatore l’avvertimento cruciale: “i sottoscritti informano di essere in grado di rassegnare entro la fine della settimana una relazione dalla quale emergeranno i fatti gravi, sicuramente rilevanti sotto il profilo della vigente legislazione ordinaria e speciali, idonei per l’adozione di adeguati provvedimenti di rigore (disposizione della liquidazione coatta amministrativa delle due aziende di credito e inoltro delle relazioni stesse all’autorità giudiziaria”.18 Una settimana dopo, gli ispettori redigono un rapporto preliminare (e questa procedura insolita la dice lunga sulla gravità della situazione), in cui indicano irregolarità gravissime: “le tecniche e i metodi operativi seguiti dalla Banca Unione travalicavano ogni limite consentito da una sana e corretta gestione aziendale… L’attività [della banca] si appalesa censurabile sotto ogni aspetto in quanto realizzata in costante violazione di ogni norma di legge. [E’ quindi necessario procedere ad un] asseveramento delle effettive posizioni debitorie e creditorie di tutte le contropartite estere ed italiane, asseveramento che, naturalmente, esula dai compiti connessi ad un’indagine ispettiva, anche se di natura straordinaria”.19 Questa grandinata di notizie sempre più gravi sulle condizioni patrimoniali delle due banche, che si stanno nel frattempo fondendo, con l’autorizzazione della Banca d’Italia per dare vita a Banca Privata Finanziaria, non modifica la strategia di Guido Carli, che è quella di trovare una soluzione interna al sistema bancario, usando il Banco di Roma come braccio operativo. Solo dopo due lunghi mesi, Banca Privata Italiana viene posta in liquidazione coatta amministrativa il 27 settembre del 1974. E’ bene ricordare che quando la liquidazione cotta appare ormai improcrastinabile, ci si accorge che l’ordinamento italiano è privo di un adeguato meccanismo legislativo che serva a tutelare i creditori e in particolare i depositanti (l’assicurazione dei depositi arriverà 17 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 19. 18 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 19. 19 Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit. p.262. 7
nel 1987. Si è quindi costretti a varare in tutta fretta un decreto ministeriale (che verrà infatti chiamato “Decreto Sindona”) per compensare i costi subiti dalle banche disposte a subentrare nelle passività di una banca posta in liquidazione coatta amministrativa. Il meccanismo è semplice e tradizionale in queste circostanze: concedere alle banche che rilevano attività e passività della banca fallita, finanziamenti a tasso di favore (in questo caso l’1 per cento) per l’acquisto di titoli di stato al tasso di mercato, in modo da consentire loro di incassare la differenza netta come “compenso” dei costi sostenuti. 20 Pochi giorni dopo, la Banca d’Italia nomina Giorgio Ambrosoli commissario liquidatore. Per cinque lunghi anni, mentre Ambrosoli lavora da solo a ricostruire pazientemente la ragnatela dell’impero Sindona. le molteplici irregolarità e i numerosi reati che avevano scandito la sua avventurosa ascesa, iniziano i piani eufemisticamente definiti “di salvataggio” che mirano a revocare la dichiarazione di insolvenza della banca e a cui Ambrosoli si oppone con assoluta fermezza. 3. I sedicenti piani di salvataggio Le verifiche che Ambrosoli e i suoi collaboratori compiono nelle prime settimane arrivano a individuare una perdita di oltre 207 miliardi che rivalutati oggi sarebbero oltre un miliardo di euro. 21 Vengono anche alla luce tutti gli aspetti illegali della gestione di Sindona, che viene incriminato dai magistrati milanesi per bancarotta fraudolenta, falso in bilancio ed altri reati e da quelli americani, sempre per reati finanziari, per il fallimento della Franklin National Bank. Sidona verrà arrestato negli Stati Uniti nel 1976, rilasciato su cauzione e poi condannato a 25 anni di reclusione, prima di essere estradato in Italia nel 1980. Nonostante tutto questo, dall’inizio del 1976 il banchiere ha iniziato a far studiare ai suoi legali un “piano di salvataggio” della BPI, meglio definito come “progetto operativo per una sistemazione della Società Generale Immobiliare e della Banca Privata Italiana in fasi interdipendenti”. I tentativi di “risolvere la liquidazione coatta amministrativa”, come li definisce la relazione di maggioranza della Commissione Sindona, iniziano infatti a poche settimane dalle drammatiche vicende di settembre. La storia delle pressioni per il “salvataggio” è assai lunga e ha coinvolto i vertici del governo, politici, persone di prestigio della finanza. Come afferma il presidente De Martino 22 nel corso della deposizione di Enrico Cuccia (che si oppose ai progetti) “quello che colpisce in tutta questa vicenda è la lunghezza del tempo. Infatti, i primi contatti furono tenuti nel 1977. Poi, lungo tutto il 1977, il 1978 e il 1979, fino a giungere all’inizio del 1980 questi contatti sono continuati”. 20 Sull’argomento sul problema collegato dell’assicurazione dei depositi si veda Gustavo Minervini, Note sull’assicurazione dei depositi bancari in Banche in crisi. 1960­1985, a cura di F. Belli ‐ G. Minervini – A. Patroni Griffi – M. Porzio, Laterza, Bari‐Roma, 1987. 21 Umberto Ambrosoli, cit. p. 84. 22 Commissione Sindona, Vol V 2‐septies/5 p.260 (deposizione di Enrico Cuccia). 8
In ordine temporale il primo progetto è quello presentato dall’avv. Mariani in data 3 febbraio 1975 per la tutela dei piccoli azionisti. I progetti di salvataggio vero e proprio – cioè quelli che si proponevano esplicitamente la chiusura della liquidazione coatta amministrativa e l’annullamento della dichiarazione di insolvenza e quindi la rivitalizzazione della Banca Privata Italiana sono contenuti in quattro documenti che si sono succeduti nel corso del tempo e tutti riconducibili all’entourage di Sindona. Anche per questi progetti si mobiliterà “mezza Italia” e come avverte la relazione di maggioranza, dal luglio 1977 questa azione verrà portata avanti parallelamente a quella per impedire l’estradizione.23 I piani di salvataggio sono in qualche modo la naturale prosecuzione del tentativo di evitare la liquidazione coatta amministrativa con l’intervento del Banco di Roma. Enrico Cuccia nella sua deposizione si dichiara più volte convinto dell’esistenza di un accordo per consentire alla banca guidata da Ferdinando Ventriglia di subentrare in quella di Sindona. 24 E infatti, come vedremo fra poco, i piani di salvataggio prevedevano anche di transigere la causa intentata da Sindona per dimostrare l’esistenza di un patto in tal senso. La ferma opposizione ai piani di salvataggio è costata la vita a Giorgio Ambrosoli e dunque è opportuno ricordare i presupposti tecnici di questi progetti. La loro assoluta inconsistenza tecnica è la prova migliore dei reali moventi di Sindona e dei suoi alleati. I piani erano infatti basati su tre elementi, ciascuno dei quali era tecnicamente inaccettabile e profondamente in contrasto con i principi di legalità e correttezza istituzionale. Il primo elemento, quello forse più importante, era costituito dall’acquisizione alle banche del “profitto” del consorzio costituito in seguito al l’acquisizione dal consorzio alla Banca Privata Italiana dei 142 miliardi di lire25 di utili originati dall’impiego in buoni ordinari del tesoro delle somme ottenute con le famose anticipazioni all’1 per cento previste dal già citato decreto ministeriale del 27 settembre 1974. Chiosa la relazione conclusiva: “L’avvocato Guzzi ha affermato che si trattava di un ‘problema di interpretazione di certe norme del decreto ministeriale’: in realtà si trattava di far accettare il principio del ‘che ha avuto ha avuto’ che non è precisamente un alto concetto giuridico”.26 Quel profitto compensava la perdita subita dalle banche ed era il costo a carico del bilancio della Banca d’Italia e dunque della collettività. Trasferirlo alle banche di Sindona significava trasformare quello che avrebbe dovuto essere un debito della liquidazione verso la Banca d’Italia in un asset: un insulto alla ragioneria, prima ancora che alla morale. Eppure, per dare veste contrattuale e voce politica a questo obbrobrio si sono impegnate fior (si fa per dire) di menti giuridiche e si sono mosse schiere compatte di uomini politici italiani. Senza il minimo pudore si affermava che si poteva considerare la perdita a monte (cioè quella originata dal dissesto) come esaurita le operazioni che erano state fatte tra Banca 23 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 101. 24 Commissione Sindona, Vol V 2‐septies/5 cit. p.263. 25 Nella relazione conclusiva (p.105‐106) si ricorda che secondo Sarcinelli, si tratterebbe di 250 miliardi. 26 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 106. 9
d’Italia, il Ministero del tesoro ed il consorzio delle tre banche di interesse nazionale nell’epoca immediatamente successiva alla costituzione del consorzio stesso. 27 Il secondo passaggio cruciale dei piani di salvataggio era il cosiddetto “giroconto Capisec”, vale a dire un complesso giro di transazioni dirette a costituire liquidità aggiuntiva alla Banca Privata Italiana per consentirle di raggiungere le percentuali per il pagamento dei creditori chirografari. Capisec, una società facente capo alla costellazione di Sindona, doveva essere ceduta per la simbolica cifra di una lira da Sindona al Banco di Roma, il quale, una volta venuto in possesso dell’intero pacchetto azionario, avrebbe provveduto a transigere le cause promosse dalla Capisec contro il Banco di Roma stesso con il versamento di una somma che veniva quantificata in 40 miliardi di lire. La liquidità ottenuta con tale somma avrebbe consentito alla Capisec di transigere a sua volta la propria esposizione debitoria nei confronti della liquidazione della Banca Privata Finanziaria per un importo pari a quello ricevuto a transazione delle proprie pretese giudiziarie. 28 Anche questa componente del piano di salvataggio era tecnicamente inconsistente. Basti pensare che si intendeva cedere per una lira una partecipazione totalitaria in una società, cui in un momento immediatamente successivo era riconosciuto un credito di circa 40 miliardi di lire, derivante dalla transazione di una serie di giudizi. Come se ciò non bastasse, la somma che doveva essere pagata dal Banco di Roma non poteva ritornare per intero allo stesso a titolo di restituzione dei crediti vantati nei confronti della liquidazione della BPI, in quanto il Banco di Roma partecipava al consorzio insieme alle altre due banche di interesse nazionale. 27 Osserva la Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 110: rmag110 che si intendeva “considerare acquisita all’azienda di credito la liquidità dalla stessa ottenuta in conseguenza del decreto ministeriale emanato il 27 settembre 1974 dall’allora ministro del Tesoro Colombo. Con questo decreto si disponeva che il Ministro del tesoro poteva consentire anticipazioni a 24 mesi su buoni ordinari del tesoro a lunga scadenza, all’interesse dell’1 per cento, a favore di aziende di credito che, surrogatesi ai depositanti di altre aziende in liquidazione coatta, si trovavano a dover ammortizzare le conseguenti perdite; la Banca d’Italia avrebbe regolato l’ammontare del ricorso a tali anticipazioni in rapporto all’entità della perdita e alle esigenze dei piani di ammortamento”. […] Con l’acquisizione da parte del consorzio del ricavato dell’anticipazione effettuata dalla Banca d’Italia si era sostanzialmente creato un fondo di 127 miliardi di lire; fondo che però non costituiva un finanziamento, bensì un’anticipazione. Nondimeno si considerava come acquisito dal consorzio il ricavato dell’anticipazione, che veniva quindi portato in detrazione del debito della Banca privata italiana, in quanto anche se con fondi messi a disposizione per altro titolo, il consorzio doveva ritenersi rientrato , da questa parte, del suo credito. E’ evidente che questa impostazione non teneva conto del fatto che l’anticipazione costituiva per la banca d’Italia un onere”. 28 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 109: “le azioni giudiziarie che si intendevano transigere (in particolare qualla promossa dalla FAsco Europa SA nei confronti del Banco di Roma e della Finambro) tendevano a fare accertare l’esistenza di un accordo verbale raggiunto dal Banco di Roma con Sindona per la sistemazione della posizione del gruppo, nonché il non rispetto di tale accordo da parte del Banco di Roma, il quale in tal modo avrebbe determinato la liquidazione coatta amministrativa della banca facente capo al gruppo o almeno avrebbe aggravato considerevolmente la sua situazione patrimoniale”. 10
Pertanto, l’eventuale maggiore introito derivante alla BPI dalla restituzione da parte della Capisec della somma da questa ricevuta a seguito della transazione andava suddiviso fra tutti gli aderenti al consorzio. Infine, l’erario avrebbe dovuto dare un ulteriore generoso contributo, riducendo le multe valutarie per le molteplici e gravissime infrazioni valutarie da 85 miliardi a 10‐15 circa.29 Dunque il contribuente, già colpito avrebbe dovuto compiere un’altra significativa rinuncia. L’aspetto paradossale è che neppure questi tre attentati alla legalità sarebbero stati sufficienti a far venire meno il presupposto dell’insolvenza: per arrivare a questo era necessario far emergere un valore di avviamento positivo nelle banche, che era l’obiettivo indiretto e finale di tutta questa manovra. Come avverte la relazione conclusiva della commissione parlamentare30 per arrivare a questo paradossale risultato si affermava l’esistenza di un valore positivo della banca di Sindona per effetto di un valore positivo di avviamento che, tenuto conto dell’ammontare dei depositi all’epoca (1000 miliardi di lire) ed in considerazione dei valori attribuiti ad istituti di credito della stessa dimensione veniva stimato intorno a 140‐180 miliardi di lire. Grazie a tutte queste manipolazioni, la banca sarebbe stata messa in condizioni di funzionare autonomamente. Ma a questo punto si sarebbero aperte una serie di conseguenze gravissime sul piano del rispetto della legalità. In primo luogo, si sarebbe negata nei fatti l’esistenza dei presupposti della dichiarazione di insolvenza. Oltre che un colossale colpo di spugna per i reati fallimentari, ciò avrebbe significato anche un sostegno alla tesi, da sempre sostenuta da Sindona, secondo cui la crisi del gruppo era stata facilitata o addirittura determinata esclusivamente dall’opposizione nei confronti del gruppo stesso di alcuni ambienti politici. Opposizione il cui più evidente e clamoroso esempio era stato dato dalla vicenda dell’aumento del capitale della Finambro, che avrebbe dovuto costituire il polmone finanziario del gruppo. Come afferma la relazione di maggioranza:31 “[q]uesta posizione è emersa chiaramente attraverso l’audizione dell’avvocato Gambino, il quale ha precisato che il progetto di sistemazione della BPI tendeva alla ‘ricostituzione dell’organizzazione aziendale, al recupero dell’avviamento attraverso la revoca del decreto di liquidazione coatta amministrativa’ per cui si doveva puntare ad una revoca di tale decreto ‘per fatti sopravvenuti’. In conseguenza della revoca del decreto si sarebbe dovuto sostenere che il fatto sopravvenuto indicava ‘che già all’origine l’insolvenza non c’era e questo avrebbe costituito un notevole aiuto per la tesi dello stato di insolvenza’. […] [L’altro avvocato di Sindona Guzzi dichiara] ‘la tesi di Sindona, cioè essere stata l’operazione del 1974 un’operazione voluta da certi gruppi politico‐finanziari in suo danno, mentre in realtà, se si fosse tenuto presente l’avviamento di una banca aperta e non chiusa (come avvenne per i provvedimenti del 1974) i valori vi sarebbero stati”. 29 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 107 e 110. 30 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 111. 31 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 111. 11
Non basta. Vi era un’altra conseguenza ancora più grave. Il “salvataggio” avrebbe alla fine ridato a Sindona pezzi consistenti del suo impero societario. Come avverte la relazione della commissione parlamentare: “[a]lla luce di quanto si è detto, appare chiaro che la sistemazione della liquidazione coatta della Banca Privata Italiana non dipendeva solamente dalla transazione dei giudizi promossi dalle società facenti capo al gruppo Sindona nei confronti del Banco di Roma – strumento per creare la liquidità necessaria per raggiungere una percentuale di pagamento della massa debitoria tale da giustificare la revoca della liquidazione – nonché dalla riduzione delle multe valutarie. Essa, invece, si fondava altresì su una serie di altre condizioni che, anche se potevano sembrare marginali, denotavano le finalità collaterali che si intendevano perseguire con questo progetto di “salvataggio” (l’espressione utilizzata costituisce un indice particolarmente significativo al fine di percepire l’effettiva consistenza dell’intera operazione) che, nonostante le affermazioni contrarie, tendeva a conservare la vecchio gruppo la titolarità di alcune partecipazioni. Di dette partecipazioni non si conosce il valore patrimoniale ma – in considerazione del fatto che venivano inserite in un progetto di accordo di natura economica, non sembra dubbio che ad esse il gruppo Sindona attribuisse un certo valore.” 32 Sotto il profilo bancario, vi era un altro problema, ancora più delicato. Non vi era infatti nessun interesse pubblico che imponesse di rimettere in vita l’azienda di credito, una volta che erano stati rimborsati subito e al cento per cento i depositanti, che erano stati tutelati i lavoratori ed era stata assicurata la credibilità del sistema bancario nei confronti dell’estero. Al contrario, dal punto di vista generale, la chiusura della liquidazione e la rivitalizzazione della banca avrebbero avuto conseguenze sicuramente negative, perché avrebbero fatto venir meno il significato esemplare del provvedimento di liquidazione; avrebbero cioè fatto perdere largamente di efficacia e di rigore e avrebbero quindi indebolito in generale la capacità della Banca d’Italia di assicurare la correttezza e la regolarità della gestione delle banche. In altre parole, se questi progetti avessero avuto successo, si sarebbe posto nel nulla un atto delle autorità monetarie importante come la liquidazione coatta amministrativa di una banca in cui si erano riscontrate gravissime irregolarità e gravi perdite patrimoniali e, per di più, ciò avrebbe comportato un onere a carico della collettività, mascherato – neanche troppo bene – da ‘profitto’ del consorzio. In questo caso, davvero sarebbe stato legittimo chiedersi nei confronti di quale fattispecie si sarebbe mai dovuto applicare la procedura sanzionatoria prevista dall’art. 67 della legge bancaria e quindi se non ci fosse in realtà una sorta di totale impunità per i banchieri italiani. Era questo, invero, il terreno sul quale si rischiava di compromettere la credibilità delle autorità monetarie e del nostro sistema bancario nei confronti dell’estero. In definitiva, i progetti erano gravemente pericolosi sul piano dell’interesse collettivo ed erano basati su presupposti tecnici estremamente fragili. Nonostante tutti questi profili di criticità e di illegalità, i piani di salvataggio accolgono vasti e continui favori. Così sintetizza Umberto Ambrosoli: “Nell’ambiente politico 32 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 114. 12
democristiano, il piano ha l’appoggio o almeno l’interessamento di Andreotti, Fanfani […] De Carolis, Stammati ed Evangelisti; per quanto concerne il mondo finanziario, il mondo finanziario è schierato con Sindona […]; Cuccia cerca di mantenersi neutrale, evidenziando problemi tecnici che possono rallentare la faccenda (ritiene sia troppo evidente la disutilità per le casse dello Stato); Calvi (lui pure vittima di ricatti da parte di Sindona) in ogni caso non può fare molto, dato che il Banco Ambrosiano è al centro di gravi sospetti e sono in corso indagini sia della Banca d’Italia sia della Procura della Repubblica di Milano”.33 4. I tentativi di evitare la liquidazione coatta amministrativa attraverso il Banco di Roma I piani cosiddetti di salvataggio erano quindi del tutto inconsistenti sul piano tecnico, prima ancora che sul piano politico. Ma c’è un filo sottile che li lega alla strategia perseguita da Carli negli ultimi anni della parabola di Sindona, che era sì quella di estromettere il pericoloso finanziere, ma mantenendo in vita le banche, anche quando queste erano ormai in condizioni di drammatica insolvenza, “premiando” la banca disposta ad assumere il ruolo di “cavaliere bianco”, in particolare il Banco di Roma guidato da Ferdinando Ventriglia. E’ quindi opportuno fare un passo indietro per ricordare gli aspetti principali di questa parte della vicenda. Il Banco di Roma era già intervenuto a giugno con il finanziamento da 100 milioni di dollari già richiamato e dai molti profili di criticità. Dai primi di luglio, si delinea definitivamente un tentativo di soluzione per così dire indolore, nel corso del quale il Banco di Roma e in particolare il suo presidente Ventriglia si presenta come braccio esecutivo della volontà della banca centrale (in una lettera a Carli dichiarerà di considerarsi “braccio operativo della Banca d’Italia” 34 e cerca di massimizzare il rendiconto economico per il suo istituto e quello politico per sé stesso. Lo stesso Carli avalla questa posizione e in un verbale della Banca d’Italia dichiara che “Il Governatore considera il lavoro svolto dal Banco di Roma, come una fase, sia pure informale, di gestione straordinaria dell’azienda in dissesto”.35 Tre ipotesi diverse vengono via via messe a punto per questo tentativo estremo di evitare la crisi conclamata. a) intervento pilotato del Banco di Roma. dal 3 luglio alla fine di agosto, anche dopo l’arrivo delle notizie sempre più allarmanti che vengono dagli ispettori. Per due lunghi mesi, nonostante l’incalzare di notizie sempre più gravi sulla situazione delle due banche, proseguono infatti i tentativi di evitare la liquidazione. Con risultati clamorosi e anche grotteschi: come avverte la relazione di maggioranza, quando il 1° agosto si procede alla 33 Umberto Ambrosoli, cit., p. 208. 34 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 18‐19. 35 Commissione Sindona, Relazione di minoranza, cit., p.253. 13
fusione fra Banca Unione e Banca Privata Finanziaria, il patrimonio di entrambe le società era completamente inesistente.36 b) cessione per una lira al Banco di Roma. A partire dalla prima decade di settembre, persa ogni speranza di attribuire un valore positivo alla nuova banca, matura il disperato tentativo di trasferire il pacchetto azionario di Banca Privata Italiana per una lira. Il progetto sfuma per l’opposizione di Sindona, che vuole evitare un patto che equivale ad una dichiarazione di responsabilità penale nel corso di una convulsa riunione presso il Banco di Roma dell’11 settembre e per il parere negativo dell’Iri che venne comunicato l’indomani. c) costituzione di una nuova banca. Tramontata anche questa estrema soluzione, si punta alla creazione di una nuova banca, che avrebbe dovuto essere acquisita da un consorzio cui avrebbero dovuto partecipare, oltre al Banco di Roma, anche le altre due banche di interesse nazionale e l’Imi. Anche questa soluzione non riusce però ad essere realizzata, soprattutto perché emerge sempre più chiaramente la situazione di crisi insanabile della Banca Privata Italiana. Solo a quel punto, la liquidazione coatta amministrativa appare come l’unica soluzione praticabile. Si badi che tutti questi tentativi sono stati perseguiti in alternativa ad altri, come la gestione straordinaria ex art. 57 che pure era stata richiesta dagli ispettori che già il 29 luglio nel loro rapporto preliminare avvertivano di irregolarità gravissime. Come vedremo, la mancata applicazione di provvedimenti di rigore e il ruolo improprio attribuito al Banco di Roma hanno indebolito l’azione di vigilanza della Banca d’Italia, ma anche dello stesso commissario liquidatore. 5. L’attacco alla Banca d’Italia Il 24 marzo 1979, solo quattro mesi prima che Ambrosoli venga assassinato, inizia l’attacco di due magistrati romani alla Banca d’Italia. 37 Nello stesso giorno, con una tragica coincidenza, Ugo La Malfa è colpito dall’ictus che lo porterà alla tomba in un paio di giorni. La stampa soprattutto di destra (il Borghese, il Fiorino, il Secolo d’Italia) si schiera con i magistrati; gran parte del mondo politico sta a guardare. Il Governo, presieduto da Giulio Andreotti, tace. Solo una ferma reazione politica, soprattutto di una parte minoritaria della Democrazia cristiana, delle sinistre e dei partiti che allora si chiamavano “laici” riesce ad evitare che l’iniziativa giudiziaria degeneri in crisi istituzionale. Un appello degli economisti dl 2 aprile (che evidentemente qualche volta fanno bene a parlare) guida la partecipazione attiva della società civile. Le accuse sono pretestuose e si riferiscono al ruolo degli esponenti della Banca d’Italia nel consiglio di amministrazione dell’Imi, ma per togliere ogni dubbio sulla valenza politica 36 Commissione Sindona, Relazione conclusiva, cit., p. 43. 37 Marco Onado, L’attacco alla Banca d’Italia e la politica di vigilanza, in “Politica ed Economia, 1979, n. 3, pagg. 9‐21. 14
della mossa, i giornali riportano una dichiarazione (mai smentita) del giudice Alibrandi che accusa Baffi e Sarcinelli di aver rivolto l’azione di vigilanza solo nei confronti di banche vicine al partito di maggioranza relativa. Nel luglio 1986. Francesco Pazienza dichiara alla magistratura che l’incriminazione dei vertici della Banca d’Italia era stata decisa nell’ambito della Loggia P2, cioè la stessa che ha avuto un ruolo particolarmente attivo nel sostenere i piani di salvataggio e allontare l’estradizione di Sindona. 38 La vicenda Sindona aveva avuto un peso determinante modificare l’atteggiamento della Banca d’Italia, anche come conseguenza del ricambio al vertice fra Guido Carli e Paolo Baffi a pochi mesi di distanza dal crollo delle banche. Non si tratta però solo di un aspetto personale; c’è anche un dato oggettivo derivante dal fatto che con la crisi petrolifera del 1973 finisce la fase di stabilità di cui aveva beneficiato l’economia mondiale nel dopoguerra. L’Italia, come si nota in un importante studio firmato dallo stesso Carli e da due giovani economisti39 è considerata “candidato di prima linea all’instabilità finanziaria” e dunque richiede politiche di vigilanza diverse e più oggettive. Fino ad allora, la Banca d’Italia aveva imperniato la sua azione sulla politica monetaria e sul peso politico che ne derivava. La vigilanza, in questo quadro, diventava una sorta di appendice rispetto a quella che consentiva alla banca centrale di guidare l’impetuoso processo di crescita di allora e di porsi come interlocutore diretto dell’azione di governo. Basti considerare che fino al 1963 nelle relazioni della Banca d’Italia compariva un commento di alcune pagine sui vari aspetti attinenti alla vigilanza; successivamente questo commento sparisce e la relazione si limita a dare alcune scarne informazioni (per lo più sul numero di ispezioni compiute) in un capitolo assai meno conosciuto, quello relativo agli aspetti amministrativi e contabili dell’attività della Banca d’Italia. Solo dal 1976 la vigilanza torna ad avere un posto di riguardo nelle considerazioni finali del Governatore. La crisi di metà degli anni Settanta costringe la Banca d’Italia a scelte precise sul piano della vigilanza. Ci sono interi gruppi industriali che appaiono sull’orlo del dissesto; in alcune aree del sistema bancario si aprono crepe profonde determinate dalle connessioni troppo strette fra banche e politica. Paolo Baffi (coadiuvato da Mario Sarcinelli, vicedirettore generale con responsabilità sulla vigilanza) non si sottrae alle sue responsabilità e compie quelle scelte con grande rigore evitando ogni facile accomodamento. Basti pensare alla fermezza con cui sbarra la strada a qualsiasi soluzione della crisi delle imprese che non salvaguardasse la separazione fra banca e industria. Basti pensare all’uso stesso dei poteri ispettivi. Occorre infatti accertare la situazione effettiva di tutti gli strati del mondo bancario; occorre cioè coinvolgere nelle ispezioni anche le grandi banche e i grandi istituti di credito speciale. E infatti nel giro di pochi anni gli ispettori della Banca d’Italia varcano portoni di istituti che fino a quel momento non erano mai stati oggetto di indagini approfondite. Basti 38 Su entrambi questi punti, si veda Umberto Ambrosoli, cit. p. 255. 39 G. Carli – Monti‐ Padoa Schioppa, Sviluppo e stabilità delle strutture finanziarie: la recente esperienza internazionale e il caso italiano in “Bancaria”, 1976. 15
pensare proposito alla decisione di non tollerare più, dal condono fiscale in poi, l’esistenza di riserve occulte nei bilanci bancari. La reazione contro questa politica della Banca d’Italia incontra inevitabilmente l’ostilità delle sacche di inefficienza e clientelismo del mondo bancario e dei loro referenti politici. Si coagula così intorno all’istituto di via Nazionale e ai suoi vertici la stessa “mezza Italia” che si era mossa per sostenere prima e salvare poi Michele Sindona. Vi è un legame stretto fra la squallida vicenda dei “piani di salvataggio”, sostenuti da legioni di politici e in particolare da Giulio Andreotti e avversati esplicitamente solo da Giorgio Ambrosoli e dai vertici della Banca d’Italia. Il punto è chiaramente dimostrato nella sentenza del Tribunale di Palermo che ha assolto Giulio Andreotti dalle accuse di collusione con la mafia e che ha affermato esplicitamente il rapporto fra il finanziere e la criminalità organizzata. 40 L’avvocato Guzzi dichiara infatti che il suo ex‐cliente aveva posto un termine nel 1978 per “arrivare a comporre la sua posizione nell’ambito della Banca Privata Finanziaria” oltre il quale, essendo naufragato l’incontro [con] il dottor Sarcinelli che doveva essere prodromico di una eventuale considerazione da parte di Banca d’Italia del progetto di sistemazione.. Sindona abbia dovuto in qualche modo rispondere […] a cosa nostra”. 41 Ancora una volta, sono in conflitto due concezioni del potere e delle istituzioni. Da una parte quello del rispetto della legalità, della res publica e del corretto rapporto fra controllori e controllati. Dall’altro, come ha affermato la sentenza sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, “una radicata concezione del potere, secondo la quale il potere, meramente formale ed apparente, che si fonda sulle leggi e si esercita attraverso le istituzioni pubbliche è destinato fatalmente in caso di conflitto a soccombere di fronte a quello, effettivo e reale, che promana da certe condizioni di fatto, quali le amicizie influenti, la complicità, gli appoggi intimidazione”.42 Quanto quest’ultima concezione del potere sia andata vicina alla vittoria completa è dimostrato dal fatto che l’attacco della magistratura a Baffi e Sarcinelli è preceduto da voci insistenti di insoddisfazione dell’esecutivo nei confronti della Banca d’Italia; pochi giorni prima del clamoroso provvedimento dei magistrati romani “Repubblica” riferisce che il ministro Stammati (uno dei politici che avevano appoggiato i piani di salvataggio) intende sostituire i vertici della Banca. Altri riferiscono che Ventriglia, cioè colui che aveva pazientemente tessuto per acquisire le banche di Sindona e stendere quindi un velo sul 40 “Le dichiarazioni di una pluralità di collaboratori di giustizia convergono nell’affermare che Michele Sindona svolgeva attività di riciclaggio nell’interesse dei massimi esponenti dello schieramento ‘moderato’ di ‘Cosa Nostra’, facente capo a Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo”. Tribunale di Palermo, N. 3538/94 R.G., N. 505/95 R.G.T., Palermo 23 ottobre 1999, p. 594. 41 Tribunale di Palermo, cit. p.610. 42 Giorgio Ambrosoli, cit. p. 309. 16
dissesto e sulle sue cause, in quei giorni brinda alla sua nomina a Governatore, ormai data per imminente.43 La fermezza di Giorgio Ambrosoli, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli è stata determinante. Ma è bene mettere in evidenza che il loro contributo fondamentale è stato anche quello di evitare le facili soluzioni di compromesso che sono sempre facilissime in situazioni come quelle descritte. Come bene ricorda il figlio Umberto, si aprivano infinite strade per “chiudere un occhio”. Bastava limitarsi ad un ruolo puramente passivo della liquidazione, cioè alla semplice distribuzione del denaro rimasto. Bastava cullarsi nel pensiero consolatorio che di crisi ce ne erano state tante e che quella non era la prima né l’ultima volta che al contribuente sarebbe stato imposto un conto salato. Bastava trovare uno dei tanti cavilli che consentono di presentare certe scelte come “atti dovuti” o semplicemente volgere gli occhi da un’altra parte al momento opportuno, come accade frequentemente nel nostro paese. 44 Allo stesso modo, la Banca d’Italia avrebbe potuto limitarsi ad un ruolo passivo rispetto ad una serie di progetti che avevano avuto l’assenso di soggetti economici privati e a favore del quale esisteva un ampio consenso politico. Ma nessuno dei protagonisti della vicenda scese a simili compromessi e grazie a loro possiamo oggi raccontare quelle vicende come uno degli esempi più alti di virtù civili e di difesa della legalità. 6. Le debolezze del quadro normativo La vicenda Sindona ha dimostrato anche quanto il quadro delle regole fosse inadeguato rispetto alla realtà di un moderno sistema capitalistico. La Borsa era aperta a tutte le scorrerie, in mancanza di un’autorità di regolamentazione e i raider come Sindona non solo avevano vita facile e potevano manovrare i prezzi a loro piacimento, ma erano anche molto popolari, perché alimentavano la rapida ascesa dei titoli e consentivano facili guadagni agli alleati o anche a solo chi veniva gratificato di qualche benevola “soffiata”. 43 Giorgio Ambrosoli, cit. p. 253. 44 Umberto Ambrosoli, cit. p. 312 ricorda le parole di Gherardo Colombo secondo cui “sarebbe bastato un sì talmente piccolo che nessuno se ne sarebbe accorto; e se qualcuno lo avesse notato non avrebbe potuto opporre argomenti al fatto che si era trattato di un atto dovuto. Lo stesso se si fosse semplicemente rimesso alle autorità competenti per le valutazioni dei piani di salvataggio; c’era una volontà poltica (e anche una astratta giustificazione di politica bancaria) di utilizzare risorse pubbliche per restituire a Sindona le sue società? La scelta poteva essere rimessa al mondo politico, non al commissario liquidatore. e forse ancora meno: sarebbero stati sufficienti anche solo silenzi, qualche piccola omissione, il non prendere posizione […] Non avrebbe dovuto scendere a patti gravosi con la propria coscienza, non si trattava di accettare una vera corruzione o di commettere atti contrari alla lettera del dovere d’ufficio; bastava semplicmente essere meno più curioso, più ‘sensibile’ a interessi estranei che di volta in volta gli venivano evidenziati. [..] E ancora sarebbe rimasta una via d’uscita: con un qualsiasi pretesto avrebbe potuto dimettersi, magari anche con clamore polemico verso chi lo aveva ostacolato tanto a lungo.” 17
Sul fronte del sistema bancario si dovette constatare la totale inadeguatezza delle procedure di gestione delle crisi bancarie. Mancava infatti una sistema di assicurazione dei depositi che consentisse di proteggere la categoria più debole dei creditori di una banca, così come mancava un meccanismo per risarcire le perdite ad una banca disposta a subentrare nelle passività di una banca posta in liquidazione coatta amministrativa. Questa lacuna fu sanata in tutta fretta contemporaneamente alla dichiarazione di insolvenza, mentre per l’assicurazione dei depositi si dovette aspettare ancora dodici anni e soprattutto un’altra grave crisi come quella del Banco Ambrosiano. Ma anche il quadro del diritto societario e della regolazione dei rapporti economici appariva gravemente inadeguato. Le norme del codice civile sul bilancio venivano interpretate in modo da tollerare un’informazione societaria assolutamente inadeguata, che in troppi casi sfociava in contabilità eufemisticamente definite “riservate” anche in alcune banche: Sindona non certo l’unico ad avere fondi neri. I controlli endosocietari, esercitati dal consiglio di amministrazione e dal collegio sindacale si risolvevano quasi sempre in pure formalità. Mancava inoltre una regolamentazione di tutela di concorrenza. Si badi che Carli giustificherà i suoi interventi irrituali per bloccare le tre scalate di Sindona con la necessità di evitare “una concentrazione di potere esorbitante”. Non va infine dimenticato che la battaglia sull’aumento di capitale Finambro che segnò il tramonto definitivo di Sindona si svolse intorno ad una norma non degna di un sistema finanziario moderno. In nome di una non meglio identificata “programmazione dei flussi finanziari”, le società che volevano effettuare aumenti di capitale superiori ai 500 milioni di lire, dovevano chiedere l’autorizzazione nientemeno che ad un comitato interministeriale, il CICR. Il fatto che sia stato questo il dettaglio che consentì ad Ugo LaMalfa di fermare Sindona non toglie nulla al giudizio sull’incongruenza della norma. E comunque Sindona cadde perché il CICR non venne mai convocato, probabilmente procrastinando altre decisioni importanti. La vicenda Sindona ebbe almeno l’effetto di rompere il fronte contrario alla riforma verso la trasparenza e il controllo del mercato finanziario. Iniziò così, sia pure tra mille difficoltà e con molte contraddizioni, il processo di miglioramento dell’ordinamento societario e finanziario che può essere considerato uno dei pochi successi del riformismo italiano. 45 La legge 216 del 1974 getta le basi per una disciplina delle società e in particolare di quelle quotate più attenta alle esigenze degli investitori e soprattutto istituisce la Consob. La lunga rincorsa. La costruzione del sistema finanziario, in Storia Economica
d’Italia, a cura di P. Ciocca e G. Toniolo, vol. 3.2, Industrie, mercati, istituzioni. I vincoli e le
opportunità, Roma-Bari, Laterza, 2003.
45 Marco Onado,
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Due grandi passi in avanti che fanno considerare ingiusto, come è stato notato46 il termine di “mini‐riforma” con cui la legge veniva allora definita. Certamente, la composita alleanza che si era formata intorno a Sindona continuò a ricompattarsi intorno a molti episodi oscuri che hanno caratterizzato la vita economica del paese: negli anni immediatamente successivi, basti ricordare le vicende della P2 e del Banco Ambrosiano, che a loro volta proiettano oscure ombre su stragi, terrorismo e criminalità organizzata. E’ però indubitabile che il paese abbia avuto un sussulto di fermezza che consentì una riforma significativa e pochi anni più tardi sostenne senza esitazioni Baffi e Sarcinelli e impedì il completamento dell’assalto alla Banca d’Italia. Non solo. La stessa vicenda giudiziaria che aveva coinvolto i vertici della Banca d’Italia ha avuto un peso non secondario nell’accelerare il processo di superamento del modello di proprietà pubblica delle banche italiane. L’appiglio giuridico dei magistrati romani era dato dal ruolo svolto dai vertici della Banca stessa, nelle decisioni (in particolare quelle relative al salvataggio della SIR da parte dell’IMI) che essi prendevano all’interno di uno schema che in un certo senso rappresentava la sintesi dello schema amministrativista cui si ispirava la legge bancaria di allora e dell’azione interventista e programmatoria degli anni Sessanta. Questa tragica vicenda costituisce così il primo segnale importante che l’intero paradigma italiano dell’economia mista non poteva più resistere. Essa, oltre che essere a base delle dimissioni di Baffi annunciate in una nobile relazione letta nel maggio1980, porta ad una svolta graduale ma continua e senza tentennamenti sotto l’azione del Governatore Ciampi negli anni Novanta. 7. Conclusioni La fermezza di Baffi e Sarcinelli nell’appoggiare la resistenza di Ambrosoli ai “piani di salvataggio” della banca in liquidazione è stata fra le cause, anche se non l’unica dell’attacco sferrato dalla magistratura nel marzo del 1979. Esiste quindi un nesso strettissimo fra le tragiche vicende che vanno dall’azione dei magistrati romani nel marzo 1979 al barbaro assassinio di Giorgio Ambrosoli quattro mesi più tardi. Quasi tutti coloro che appartenevano al largo fronte che si era mosso e si stava muovendo in favore di Sindona, furono vergognosamente assenti o farisaicamente tiepidi quando si svolgeva la campagna di sostegno a Baffi e Sarcinelli. Il sostegno della politica e della società civile fu fortissimo, ma tutt’altro che compatto. E la presenza del solo Baffi ai funerali di Ambrosoli è un segno tristissimo della drammatica debolezza delle istituzioni in quei giorni. Ricordare quelle vicende è doppiamente doveroso. Per rendere omaggio a chi ha difeso la legalità e le istituzioni e ha contribuito a dare vigore ad un processo di riforma importante. Ma anche perché le forze che hanno tramato contro di loro non sono affatto 46 P. Marchetti, Diritto societario e disciplina della concorrenza, in F. Barca (a cura), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma, 1997. 19
sconfitte e continuano ad inquinare la vita economica e politica nazionali. Come osserva Umberto Ambrosoli, le vicende di oltre trenta anni fa sono terribilmente attuali: “[q]uanto è accaduto a papà è una storia attuale, in ogni momento e anche oggi potrebbe ripetersi. Poiché per quanto la società affini le proprie regole per contrastare i soprusi, come in una sorta di evoluzione darwiniana anche chi queste regole vuole aggirare si affina creando sistemi sempre più articolati per affermare sé stesso e i propri interessi. Senza la coscienza dei singoli che scelgono di rispettare le norme e con esse la convivenza civile, le leggi da sole non bastano a salvare una società.”47 In altre parole, le vicende di allora sono un importante monito per la società italiana, qui ed ora. 48 47 Umberto Ambrosoli, cit. p. 309‐310. 48 Andrea Resti, Giorgio Ambrosoli, qui e ora, in “Bancaria”, 2009, n.7‐8. 20