Introduzione al film “UN EROE BORGHESE”

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Introduzione al film “UN EROE BORGHESE”
Giorgio Ambrosoli
Introduzione al film “UN EROE BORGHESE”
BANCO AMBROSIANO
La storia dell’istituto di credito in odore di
mafia
Le vicende di Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano di
Milano, prestigioso fiore all’occhiello della finanza cattolica, s’intrecciarono fin dall’inizio con quelle di Michele
Sindona.
Calvi conobbe Sindona nel 1968: all’epoca era vicedirettore del Banco Ambrosiano e con l’aiuto del finanziere
siciliano s’impadronì definitivamente dell’istituto, dove
molti anni prima aveva iniziato a lavorare come impiegato.
La costituzione del Banco Ambrosiano Holding in Lussemburgo inaugurò una serie di
investimenti con fondi creati illecitamente
all’estero.
La vorticosa ascesa di Calvi si concretizzò
quando divenne direttore centrale nell’autunno del 1970 e poi nel febbraio del 1971
direttore generale.
Nel marzo 1971 fu fondata a Nassau, nelle
Bahamas, la prima filiale estera del Banco,
la Cisalpine Overseas Bank. Discrezione,
abilità e spregiudicatezza furono le caratteristiche che spinsero molti investitori e non
tutti irreprensibili a utilizzare i servizi della
finanziaria, in seguito ribattezzata Banco
Ambrosiano Overseas Limited: tra i soci Michele Sindona e tra i clienti sicuramente gli
uomini di Cosa Nostra e della loggia massonica P2.
Nel consiglio di amministrazione sedeva un prelato americano di origine lituana, Paul Casimiro Marcinkus, consacrato vescovo nel 1969 e nominato presidente dello IOR
(Istituto per le Opere di Religione) nel 1971.
Anche il banchiere milanese si trovò quindi coinvolto in
una serie di speculazioni internazionali e sicuramente
operò sistematicamente per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dai traffici illeciti della mafia, come confermato dal collaboratore di giustizia Francesco Marino
Mannoia.
Dopo l’affiliazione alla P2 nell’agosto del 1975, nel novembre dello stesso anno Calvi diventò presidente ed
amministratore delegato del Banco Ambrosiano, controllato grazie alle molte filiali off shore e alle società panamensi, “scatole vuote” però utili a nascondere partecipazioni azionarie e a riciclare il denaro di Cosa Nostra.
Dopo un iniziale periodo in cui gli spericolati investimenti proiettarono il Banco Ambrosiano nel gotha della
finanza internazionale, una pericolosa emorragia prosciugò le casse dell’istituto.
Tra il 1977 e il 1979 Calvi fu tra coloro che subirono le
pressioni, i ricatti e le minacce di Sindona, disposto a tutto pur di salvare il suo impero.
Nel 1981 la già difficile situazione finanziaria dell’istituto
milanese precipitò del tutto rovinosamente.
Il 17 marzo 1981, scoppiò lo scandalo della P2: anche il
nome del banchiere milanese fu rinvenuto negli elenchi
della loggia massonica più potente d’Italia.
Il 23 maggio Calvi per reati valutari finì in carcere, a Lodi.
Inizialmente Calvi non sembrò preoccuparsi eccessivamente forse perché confidava nei poteri occulti che finora lo avevano
protetto, ma quando si rese conto di essere
stato “scaricato” fu ormai troppo tardi e dovette subire una condanna a quattro anni
di reclusione per esportazione illegale di
capitali all’estero.
Calvi, temendo che potesse venire alla
luce la disastrosa situazione finanziaria del
Banco e credendosi forte di alcune lettere
di patronage che attestavano come stesse
operando per conto del Vaticano, chiese
allo IOR di intervenire per porre rimedio
alla disastrosa situazione, ma ottenne solamente promesse.
Il capitale sociale del Banco nel giro di pochi anni fu quindi completamente dilapidato, a causa delle numerose operazioni di
segno speculativo compiute sui conti delle
filiali estere.
In giugno, in attesa del processo di appello, il banchiere
tornò in libertà e, messo alle strette dai suoi soci occulti e
più pericolosi, vale a dire gli uomini di Cosa Nostra, fuggì
a Londra, grazie all’aiuto del faccendiere Flavio Carboni.
Qui, il 18 giugno, il banchiere milanese trovò la morte,
sotto il Blackfriars Bridge (Ponte dei Frati Neri) e apparentemente per suicidio. In realtà fu ucciso dal boss di
Altofonte Francesco Di Carlo, su ordine di Pippo Calò,
il cassiere di Cosa Nostra, perché ritenuto colpevole di
aver perso il denaro della mafia a lui affidato perché lo
reinvestisse.
Dopo la morte di Calvi, la scoperta delle molteplici partecipazioni azionarie e delle altrettanto numerose operazioni finanziarie operate da Calvi per conto del Vaticano
fece scoppiare uno scandalo di vaste proporzioni: nella
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bufera finirono proprio lo IOR e Marcinkus, ispiratore delle speculazioni estere dell’Ambrosiano.
Lo scoperto dell’istituto di credito milanese fu calcolato
in quasi 1300 milioni di dollari.
Nel febbraio 1987 fu spiccato un mandato di cattura per
Marcinkus e altri dirigenti dello IOR ma l’annullamento
da parte della Corte di Cassazione dei mandati “per difetto di giurisdizione” sui prelati del Vaticano e la precedente transazione economica tra lo IOR e le duecento banche debitrici, avvenuta nel 1984 a titolo di “contributo
volontario”, chiusero per sempre lo scandalo, destinato
a ritornare alla ribalta solamente in occasione della celebrazione del processo per il crack dell’Ambrosiano.
MICHELE SINDONA
Cenni biografici
Michele Sindona nacque a Patti, in provincia di Messina,
l’8 maggio del 1920 da una famiglia di modeste condizioni economiche.
Conclusi i brillanti studi giovanili con la laurea in giurisprudenza, dopo un breve impiego presso
l’ufficio imposte di Messina, iniziò ad esercitare la professione forense.
L’attività di mercato nero con il boss Vito Genovese fu il trampolino di lancio per il rampante avvocato che, dopo lo sbarco in Sicilia
del luglio 1943, lavorò per gli uomini dei servizi segreti americani.
Dopo il matrimonio con Caterina (Rina) Cilio,
dalla quale ebbe tre figli, Sindona si trasferì
a Milano, dove iniziò la scalata nel mondo della finanza,
rilevando nel 1949 la Farmaeuropa e nel 1950 la Fasco.
Nel 1954 conobbe Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano poi divenuto Papa Paolo VI.
Nel 1960 incontrò Enrico Cuccia in occasione dell’acquisto della Banca Privata Finanziaria: dopo una iniziale collaborazione, i due si scontrarono, quando Mediobanca
tentò di controllare la Banca Privata Finanziaria, tramite
l’IFI, l’holding del gruppo Agnelli - Fiat.
Nel 1964 Sindona e Carlo Bordoni crearono la Moneyrex
S.p.A., una finanziaria che lavorò per circa 850 banche
in tutto il mondo, dando vita ad una serie di operazioni
speculative e di riciclaggio.
Nonostante le acquisizioni della Società Italiana per le
Condotte d’Acqua e della Società Generale Immobiliare
(SGI), i ripetuti tentativi di creare un istituto italiano in
grado di competere con Mediobanca fallirono per l’opposizione di Cuccia.
Tra il finire degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, il finanziere siciliano aiutò Roberto Calvi ad impa-
dronirsi definitivamente del Banco Ambrosiano.
Dopo il perfezionamento, nell’agosto 1971, dell’acquisto
della Centrale Finanziaria, Sindona lanciò l’offerta pubblica d’acquisto di azioni della finanziaria Bastogi, ma gli
ostacoli frapposti dalla Banca d’Italia, su sollecitazione di
Cuccia e del gruppo Agnelli, bloccarono l’operazione.
Nell’estate 1972 l’avvocato di Patti acquistò la Franklin
National Bank di Long Island.
Nel 1973, la Banca d’Italia autorizzò la nascita della Banca Privata Italiana, sorta dalla fusione tra la Banca Privata
Finanziaria e la Banca Unione, ma il mancato aumento di
capitale della Finambro diede il via alla fine delle speculazioni messe in atto da Sindona.
Nel 1974, tra settembre e ottobre, crollarono sotto il peso
dei debiti le due banche su cui si reggeva l’impero del finanziere, la Banca Privata Italiana e la Franklin Bank.
In ottobre la Procura della Repubblica di Roma emise i
due primi mandati di cattura contro Sindona, mentre nel
gennaio del 1975, fu richiesta l’estradizione dal giudice
istruttore Guido Viola di Milano.
Nel 1977 per il fallimento della Banca Privata, l’avvocato
fu condannato a tre anni e mezzo.
Nel 1978 arrivò il primo rinvio a giudizio di
Sindona da parte della magistratura americana.
Il 1979 fu l’anno dell’omicidio Ambrosoli e
della fuga del finanziere in Sicilia.
Sottoposto a giudizio in America, nel marzo
1980, Sindona fu condannato sia per il fallimento della Frankiln Bank che per il falso rapimento inscenato per sottrarsi alla giustizia.
Anche in Italia il bancarottiere ebbe altri guai
con la giustizia: prima con l’incriminazione per l’omicidio
di Giorgio Ambrosoli (luglio 1981) e poi con le accuse di
traffico di droga (gennaio 1982).
Estradato in Italia nel 1984, Sindona presenziò allo svolgimento del processo per il fallimento della Banca Privata Italiana, che terminò nel marzo 1985, con la condanna
a quindici anni di reclusione.
Una condanna all’ergastolo in qualità di mandante chiuse invece il 18 marzo 1986 il processo per l’omicidio Ambrosoli.
Michele Sindona morì il 20 marzo 1986 nel carcere di Voghera, dopo aver bevuto un caffè al cianuro.
IL CASO SINDONA
Crollo di un impero finanziario nato
all’ombra di mafia e P2
La misteriosa vicenda del banchiere Michele Sindona rivelò un inquietante scenario d’oscuri interessi ed attività
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criminose, sviluppatesi prima all’ombra di Cosa Nostra
e della loggia massonica P2 e prosperate poi grazie alle
connivenze politiche.
I rapporti con gli esponenti mafiosi e con i servizi segreti americani, stretti fin dal termine della seconda guerra
mondiale, permisero all’avvocato siciliano una rapida e
trionfale affermazione nel panorama finanziario internazionale.
1967: la prima segnalazione ufficiale dei rapporti
con la mafia
Il prestigio e la fortuna accumulati nel corso degli anni
Cinquanta e Sessanta e le relazioni d’affari con la curia
vaticana, tramite lo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, tornarono utili a Sindona quando si trovò ad affrontare le critiche e i sospetti sull’origine delle sue fortune.
Infatti, già a partire dal 1967 le autorità americane segnalarono la possibile partecipazione del banchiere siciliano
ai traffici di valuta e di stupefacenti con esponenti della mafia americana e siciliana. L’accusa cadde nel vuoto
perché la Questura di Milano non diede seguito al rapporto statunitense.
1974: il crollo dell’impero; Ambrosoli commissario liquidatore della Banca Privata Italiana
I travolgenti successi, le influenti amicizie e i segreti conosciuti però non evitarono a Michele Sindona l’onta del fallimento, causato dalle stesse
vorticose operazioni speculative che lo avevano proiettato ai vertici della finanza internazionale.
Il 24 settembre del 1974, la Banca Privata Italiana del finanziere di Patti fu messa in stato di
liquidazione coatta amministrativa: le perdite
ammontarono a circa 500 miliardi di lire. Fu
l’inizio della fine per l’avvocato siciliano che
era stato definito da Giulio Andreotti “salvatore della lira” per il ruolo svolto nell’ambito di
un presunto “complotto” speculativo, in realtà orchestrato dallo stesso Sindona.
Dopo appena un mese, negli Stati Uniti si verificò lo spaventoso tracollo della Franklin National Bank di Long
Island, coinvolta anch’essa nella caduta dell’impero del
finanziere.
Intanto in Italia fu dichiarata la bancarotta per Sindona e
conseguentemente furono ordinate la confisca e la liquidazione dei beni. Il 27 settembre 1974, con Decreto del
Ministro del Tesoro, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana venne nominato l’avvocato milanese
Giorgio Ambrosoli.
In ottobre la Procura della Repubblica di Roma emise
due mandati di cattura contro l’avvocato di Patti.
1976-1979: i progetti di salvataggio, i ricatti ai politici e le minacce ai “nemici”
Nel settembre del 1976 il bancarottiere si costituì a Manhattan e, pagata la cauzione, venne rilasciato.
In dicembre furono depositati presso la cancelleria del
tribunale i cosiddetti “affidavit”, dichiarazioni giurate con
cui, accreditando la tesi del complotto comunista contro
il banchiere, si chiedeva il rigetto della domanda di estradizione proveniente dall’Italia: si prestarono a deporre
Licio Gelli, Carmelo Spagnuolo, Edgardo Sogno, John
Mac Caffery, Anna Bonomi, Philip Guarino.
Contemporaneamente Sindona attivò l’avvocato Rodolfo Guzzi, il genero Piersandro Magnoni e Luigi Cavallo,
da un lato per intensificare le minacce di stampo mafioso verso l’inflessibile Ambrosoli e gli alleati di un tempo,
Cuccia e Calvi, e dall’altro lato per ricattare i politici italiani perché approvassero i progetti di salvataggio delle sue banche e scongiurassero un esito negativo delle
vicende giudiziarie.
Nonostante ciò, il 25 giugno 1977 arrivò la condanna in
contumacia a tre anni mezzo di carcere per il fallimento
della Banca Privata Italiana.
Durante la latitanza di Sindona, Giulio Andreotti ricevette i suoi avvocati e il suo luogotenente Franco Evangelisti s’incontrò con il banchiere a New York. Il ministro per
il commercio estero Gaetano Stammati, piduista, fu incaricato invece di occuparsi dei piani
di salvataggio delle banche di Sindona.
1979: l’omicidio Ambrosoli
Il 19 marzo la magistratura americana rinviò a
giudizio Sindona con novantanove capi di imputazione, tra i quali truffa, falsa testimonianza e appropriazione indebita di fondi bancari.
Il 24 marzo, per presunte irregolarità nella
gestione della Banca d’Italia, il vicedirettore
Mario Sarcinelli venne arrestato mentre il direttore Paolo Baffi fu incriminato: il successivo proscioglimento con formula piena evidenziò che l’inchiesta
scattò per rappresaglia all’inflessibilità dimostrata dai
due nel respingere con forza tutti i compromessi proposti per salvare le banche sindoniane.
L’escalation di violenze e minacce raggiunse il culmine
nella notte tra l’11 e il 12 luglio, a Milano, quando il killer italoamericano William Arico uccise a colpi di pistola
l’avvocato Ambrosoli, divenuto ormai troppo pericoloso
per Sindona.
1979: la fuga in Sicilia
Il 2 agosto il finanziere scomparve da New York, fingendosi vittima di un rapimento attuato da un fantomatico
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“Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore”.
In realtà Sindona, dopo aver fatto scalo in diverse città
europee, arrivò in Sicilia, sotto falsa identità.
Qui soggiornò per alcuni mesi, protetto dagli uomini
delle famiglie mafiose Bontade, Spatola e Gambino ed
aiutato nelle sue trame da esponenti della massoneria.
Gli scopi del suo rientro in Italia erano diversi ma complementari: costruire una rete di ricatti verso la classe
politica, utilizzando un tabulato segreto di “500” esportatori di valuta, porre rimedio alle proprie pendenze giudiziarie, ma soprattutto dimostrare a Cosa Nostra di poter
recuperare i soldi a lui affidati perché li riciclasse e investisse. Vanificati tali obiettivi, in ottobre Sindona venne
riaccompagnato dagli “amici degli amici” negli Stati Uniti
e al suo arrivo a New York fu arrestato.
1980-1981: gli ultimi tentativi di difesa e le prime
condanne in America
Nel corso degli interrogatori, crollarono una dopo l’altra
le giustificazioni addotte da Sindona per la sua scomparsa: dal rapimento al tentativo di unificare la massoneria
italiana e per finire anche alla presunta organizzazione di una rivolta separatista.
Finito in carcere, con una nuova imputazione di sessantanove capi d’accusa, nonostante l’estremo tentativo
di scaricare le colpe sul socio Carlo
Bordoni, nel marzo 1980 il bancarottiere fu condannato a tre pene detentive di venticinque anni e a una di
ventiquattro.
Il 7 ottobre il gran giurì federale di
New York, in relazione al falso rapimento, lo condannò per associazione a delinquere, violazione delle norme sulla libertà di cauzione e falsa testimonianza.
In dicembre le condanne per la Franklin National Bank
furono confermate in appello e il ricorso alla Corte Suprema viene respinto nell’aprile del 1981.
In Italia nel maggio 1980 venne costituita una commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona.
Nel luglio 1981 dalla Procura della Repubblica di Milano
partì la formale incriminazione per l’omicidio di Giorgio
Ambrosoli.
1981: lo scandalo P2
Indagando su Joseph Miceli Crimi, il medico massone
che aveva ferito Sindona per rendere verosimile il rapimento, i magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo
Colombo ordinarono una perquisizione a Castiglion Fibocchi, presso la sede della ditta di un rappresentante
della Permaflex: Licio Gelli.
Qui, il 17 marzo 1981, la Guardia di Finanza trovò gli elenchi della loggia massonica Propaganda Due, o loggia P2,
in cui erano contenuti numerosi ed importanti nominativi dell’establishment italiano: tra i tanti, tre ministri, due
ex ministri, un segretario di partito governativo, trentotto deputati, undici questori, cinque prefetti, cinquantadue ufficiali dei Carabinieri, trentasette della Guardia di
Finanza, cinquanta dell’Esercito, ventinove della Marina,
quattordici magistrati, dieci presidenti di banca, avvocati, giornalisti e imprenditori, oltre, naturalmente, a Michele Sindona e Roberto Calvi.
Scoppiò lo scandalo che fece tremare i palazzi romani:
oltre ai rapporti con mafia e servizi segreti e al coinvolgimento della loggia in alcuni delle vicende politiche ed
economiche più delicate degli ultimi anni, i magistrati
scoprirono il “Piano di rinascita democratica”, un vero e
proprio progetto politico teso al cambiamento eversivo
delle strutture democratiche del nostro paese.
La Commissione di inchiesta definì la P2 un’associazione
politica, la cui finalità non era il governo delle istituzioni,
bensì il rigido controllo delle stesse.
1982: l’incriminazione per traffico di droga; Calvi impiccato a
Londra
Nel gennaio, Sindona fu incriminato
da Giovanni Falcone per traffico di
valuta in connessione con il commercio di stupefacenti organizzato dalla
famiglie Gambino, Spatola, Inzerillo:
questo procedimento inaugurò la
stagione dei processi istruiti dai magistrati che poi avrebbero fatto parte
del pool antimafia dell’Ufficio Istruzione del Tribunale
di Palermo. L’incriminazione fu in seguito revocata per
mancanza di riscontri relativi alla partecipazione al traffico e non alla comunanza di rapporti con la mafia.
Nello stesso anno si chiuse anche la vicenda umana e
professionale di Roberto Calvi, custode al pari di Sindona,
di ingombranti segreti. Finito in carcere per il fallimento
del Banco Ambrosiano, depauperato di circa mille miliardi di lire dalle fughe di capitali all’estero, il banchiere fu
condannato a quattro anni.
In giugno Calvi tornò libero e prima dell’appello fuggì dall’Italia, con l’aiuto dal faccendiere piduista Flavio
Carboni. La sua disperata corsa terminò a Londra sotto
il Blackfriars Bridge, dove fu trovato impiccato il 18 giugno. Anche per lui si parlò di suicidio, ma le troppe anomalie che emersero dalle indagini trovarono conferma
nelle dichiarazioni di collaboratori quali Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta che rivelarono come il
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banchiere venne ucciso per ordine della Cupola mafiosa,
che lo giudicò responsabile della perdita di alcune decine di miliardi a lui affidate .
1984-1985: l’estradizione e l’inizio del processo
Ambrosoli
Nel febbraio del 1984, William Arico, il killer di Ambrosoli,
morì misteriosamente nel corso di un’evasione dal carcere di New York.
Il 17 luglio del 1984 i giudici istruttori di Milano Giuliano
Turone e Gherardo Colombo chiesero il rinvio a giudizio
di Sindona e altri 25 imputati: nell’ordinanza furono ricostruite le vicende penalmente rilevanti, dal crollo delle
banche fino all’omicidio Ambrosoli e chiariti i motivi della fuga in Sicilia.
Il 25 settembre dello stesso anno, il bancarottiere fu
estradato dagli Stati Uniti in Italia per presenziare all’inizio del processo per il crack della Banca Privata Italiana,
che si chiuse nel marzo del 1985 con una condanna a
quindici anni di reclusione.
Il processo per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli si aprì invece il 4 giugno del 1985.
1986: la condanna per l’omicidio Ambrosoli e
la morte nel carcere di Voghera
Il 18 marzo del 1986 la Corte d’Assise di Milano condannò Sindona all’ergastolo come
mandante dell’omicidio dell’avvocato Giorgio
Ambrosoli, il commissario liquidatore della
Banca Privata Italiana, resosi “colpevole” agli
occhi del finanziere siciliano di non aver ceduto ai tentativi di corruzione e alle pesanti
intimidazioni.
La mattina del 20 marzo Sindona morì nel carcere di Voghera, avvelenato da un caffè al cianuro, così come Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano.
La versione delle autorità propese per il suicidio, ma ancora oggi persistono forti dubbi sul fatto che Sindona si
sia tolto la vita spontaneamente.
I segreti e le trame del caso Sindona sono oggi parte integrante del procedimento penale aperto dalla Procura
della Repubblica di Palermo a carico del senatore a vita
Giulio Andreotti.
PROCESSO ANDREOTTI
Le principali accuse contro il senatore
a vita
In data 27 marzo 1993, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo inoltrò al Senato della Repubblica la richiesta di autorizzazione a procedere contro il
senatore a vita Giulio Andreotti, contestandogli il reato
di concorso esterno in associazione mafiosa.
Referente politico della mafia?
Nato a Roma il 14 gennaio 1919, l’influente esponente
della Democrazia Cristiana fu un indiscusso protagonista della vita politica italiana dal dopo guerra ad oggi,
avendo ricoperto per sette volte la carica di Presidente
del Consiglio e per innumerevoli altre quella di ministro
e di sottosegretario.
Già in passato, il navigato uomo politico era stato coinvolto in alcuni dei più loschi intrighi della vita repubblicana, uscendone peraltro sempre incolume; questa volta
però l’imputazione era ben più pesante.
Andreotti, infatti, fu accusato dai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di essere stato, per più di venti
anni, il principale referente politico per tutte le necessità
e le richieste di Cosa Nostra.
Nonostante le infuocate polemiche scoppiate all’epoca
e le accuse di strumentalizzazione politica rivolte ai magistrati palermitani, il 13 maggio 1993, il Senato accordò
l’autorizzazione a procedere e le indagini poterono proseguire.
Il 26 settembre 1995 ebbe così inizio il processo Andreotti, definito “l’evento giudiziario del
secolo”, a ragione del rilievo internazionale attribuitogli e testimoniato, tra l’altro, dal gran
numero di giornalisti accorsi a Palermo da tutto il mondo, in occasione della sua apertura.
Nel frattempo, l’iniziale accusa di concorso esterno in associazione mafiosa era stata sostituita dalla più grave contestazione
dell’art.416 bis C.P., vale a dire dall’accusa di partecipazione vera e propria al sodalizio mafioso.
I rapporti con Salvo Lima, i cugini Salvo e Corrado Carnevale
Nella voluminosa memoria depositata dai giudici di Palermo fu ricostruito il complesso contesto politico che
avrebbe visto la nascita e lo sviluppo delle relazioni tra
il senatore e Cosa Nostra, a partire dalla fine degli anni
Sessanta e fino al 1992.
La data d’inizio di tali rapporti fu individuata nel 1968,
l’anno della cosiddetta “confluenza” di Salvo Lima e dei
suoi uomini nella corrente andreottiana della Democrazia Cristiana: avrebbe preso corpo allora il “patto scellerato” tra i massimi esponenti di quella corrente e gli uomini
delle cosche per lo scambio di reciproci favori.
Le minuziose indagini riguardanti la storia di questo accordo criminale trovarono un sostanziale riscontro nelle
dichiarazioni rese da numerosi collaboratori di giustizia
(Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Leonar-
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do Messina, Antonino Calderone, Gaspare Mutolo, Balduccio Di Maggio, per citare solo i più conosciuti), l’attendibilità di alcuni dei quali era già stata sancita dalla
Corte di Cassazione negli anni precedenti, al termine di
altri procedimenti.
Al più recente lavoro investigativo di verifica delle dichiarazioni dei collaboratori, si affiancarono anche le
testimonianze di pubblici ufficiali, uomini
politici, giornalisti, imprenditori e altri esponenti della società civile sull’esistenza dei
solidi rapporti che Andreotti avrebbe avuto
con Lima, con i potenti esattori di Salemi, i
cugini Nino e Ignazio Salvo, e anche con
Corrado Carnevale, presidente della prima
sezione penale della Corte di Cassazione.
Dalla descrizione fatta nella memoria dei
giudici palermitani, emerse così una intricata rete di contatti, amicizie, favori, ricatti in
grado di costituire un complesso sistema di
potere, funzionale agli interessi personali dei
principali attori delle vicende in questione e
alla creazione delle condizioni favorevoli alla
crescita esponenziale della mafia, in Sicilia e
nel resto del paese.
Il senatore democristiano confutò sempre
l’esistenza di un simile groviglio di relazioni
di carattere politico, affaristico e criminale,
da un lato difendendo l’onorabilità dell’amico Salvo Lima
e dall’altro negando la conoscenza dei cugini Salvo ed
ogni ipotesi di accordo con Carnevale per la manipolazione dei processi in Corte di Cassazione.
I casi Sindona e Moro e gli omicidi Pecorelli e Dalla Chiesa
Ad ulteriore supporto dell’impianto accusatorio, tutto
incentrato sulla comunanza di interessi tra Andreotti e
Cosa Nostra, la Procura di Palermo, inoltre, rievocò alcuni
degli episodi più bui della storia repubblicana, utilizzando ampiamente gli atti della Commissione Parlamentare
d’inchiesta sul fenomeno della mafia e il materiale istruttorio dei procedimenti riguardanti le vicende del bancarottiere Michele Sindona, il rapimento e l’uccisione dello
statista democristiano Aldo Moro, gli omicidi, cosiddetti
politici, di Piersanti Mattarella, Michele Reina, Pio La Torre.
Rileggendo il caso Sindona, i giudici di Palermo colsero,
nei ripetuti interventi di Andreotti per il salvataggio delle banche dello spregiudicato bancarottiere di Patti, la
prova del comune interesse del politico romano e della
cupola mafiosa alla sopravvivenza dell’uomo garante di
un sistema finanziario, servito, nel corso di molti anni,
alle oscure mire di potenti e criminali.
Come in passato, anche questa volta Andreotti minimiz-
zò il suo ruolo nelle vicende legate a Sindona, affermando la propria estraneità alla condotta criminale messa
in atto dal banchiere e dal suo entourage e riducendo il
suo impegno alla normale attività di controllo spettante
all’autorità governativa nei confronti del sistema bancario.
Venne anche attribuito un nuovo movente anche gli omicidi del giornalista Mino Pecorelli e del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Con questi due omicidi, Andreotti avrebbe
evitato che venisse alla luce il famoso “memoriale Moro”, cioè il testo completo degli
interrogatori dello statista durante la prigionia, rinvenuto dai carabinieri di Dalla Chiesa
nell’ottobre 1978, nel covo delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso a Milano.
Il giornalista e il prefetto, a conoscenza dei
contenuti del documento, sarebbero stati uccisi dalla mafia per fare un favore allo stesso
Andreotti, che avrebbe temuto la rivelazione dei segreti del caso Moro, compresi l’esistenza di “Stay Behind” o “Gladio”, la struttura
segreta costituita dalla Nato per prevenire le
sommosse e poi utilizzata in modo strumentale contro i cambiamenti politici nel nostro
paese, i retroscena di molti scandali della Repubblica ma soprattutto i pesanti giudizi di
Moro sul suo operato.
Per l’assassinio del direttore di “OP”, l’uomo politico fu
rinviato a giudizio, in qualità di mandante, davanti all’autorità giudiziaria di Perugia.
Andreotti respinse con forza il suo coinvolgimento in
questi due omicidi come in quelli consumati ai danni di
Mattarella, Reina e La Torre, omicidi che, secondo gli inquirenti, segnarono il mutamento dei rapporti di forza
tra politica e mafia, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio
degli anni Ottanta.
Gli incontri con i capi mafia
Lo sconvolgente quadro ricostruito dalla D.D.A. di Palermo vorrebbe provare i continui rapporti che il politico
ebbe con la mafia, documentando anche gli incontri
che, in alcune circostanze il senatore a vita ebbe personalmente con capi mafia come Stefano Bontate e Totò
Riina o con i loro emissari, principalmente Lima e i cugini
Salvo.
L’uomo politico si difese dichiarando l’impossibilità di un
suo qualsiasi spostamento all’insaputa degli uomini della scorta ma, nel corso del processo, emersero ripetute
falle nel sistema di sicurezza, tali da rendere possibili i
viaggi e gli incontri documentati dalla Procura.
Il maxi processo e la stagione delle stragi
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Proteggendone gli interessi economici, pilotando la concessione di appalti miliardari, promettendo di intervenire per “aggiustare” alcuni procedimenti, come il processo
Rimi o il primo maxi processo e lavorando per garantire
così l’impunità ai boss mafiosi, Andreotti avrebbe guadagnato in cambio voti e sostegni alla sua lunga carriera
politica.
A sancire la fine di questo patto scellerato, sarebbe stata la conferma da parte della Corte di Cassazione, il 30
gennaio 1992, dell’impianto accusatorio del primo maxi
processo alle cosche, faticosamente istruito dagli uomini
del pool antimafia dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di
Palermo, guidati da Antonino Caponnetto e tra i quali vi
furono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Un simile esito del maxi processo, del tutto inatteso per
i mafiosi, viste le promesse di annullamento fatte dai
politici, in primis Andreotti e Lima, avrebbe dato il via
ad una terribile stagione di sangue, nel corso della quale i Corleonesi di Totò Riina colpirono senza pietà i loro
nemici storici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli
alleati di un tempo Salvo Lima e Ignazio Salvo, oramai
divenuti inaffidabili e del tutto inutili per le strategie di
Cosa Nostra.
Processo di mafia o processo politico?
La Procura della Repubblica di Palermo ha sempre respinto con forza l’accusa di avere istruito un processo
politico agli ultimi quarant’anni della vita repubblicana
e ha sottolineato invece il gran numero di documenti e
testimonianze portate a supporto della tesi accusatoria.
Dal canto suo Andreotti ha richiamato l’impegno antimafia dei governi da lui guidati e ha sempre negato ogni
addebito, proclamandosi innocente e vittima di una ricostruzione giudiziaria, viziata da pregiudizi fortemente
politici.
Il processo è tuttora in corso di svolgimento e continua a
riservare numerosi colpi di scena.
IL CASO SINDONA
Elenco Documenti da inserire
1967: la prima segnalazione ufficiale dei rapporti
con la mafia
Lettera delle autorità americane sui rapporti tra Sindona
e Porco
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pagg. 163, 164)
1974: il crollo dell’impero; Ambrosoli commissario liquidatore della Banca Privata Italiana
I rapporti con la mafia americana (Commissione Parla-
mentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pag. 164 - 165)
Le caratteristiche delle banche sindoniane
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pag. 12 - 14)
1976-1979: i progetti di salvataggio, i ricatti ai politici e le minacce ai “nemici”
Gli “affidavit”
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione Teodori, pagg. 575 - 577)
Minacce mafiose a Cuccia
(Ufficio Istruzione, Tribunale di Milano in Sindona. Gli atti
d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, 1986, pagg.
27 - 29)
Il ruolo di Giulio Andreotti
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione Teodori, pagg. 566 - 567)
1979: l’omicidio Ambrosoli
Ritorsione contro Baffi e Sarcinelli
(Ufficio Istruzione, Tribunale di Milano in Sindona. Gli atti
d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, 1986, pag. 51)
Confessione William Arico
(Ufficio Istruzione, Tribunale di Milano in Sindona. Gli atti
d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, 1986, pag. 148)
Audio originale della telefonata di minaccia ad Ambrosoli con citazione di Andreotti
(dal film “Un eroe borghese” di Michele Placido)
1979: la fuga in Sicilia
Il ruolo di mafia e massoneria e i motivi del viaggio
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pag. 171 - 178)
I dati dell’avventura siciliana e Sindona prigioniero della
mafia
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione Teodori, pag. 590 -592)
I rapporti delle cosche con Sindona e Calvi: interrogatori
di Francesco Marino Mannoia (15.07.1991, 04.02.1993 e
29.01.1994) e di Gaspare Mutolo (04.03.1993)
(Memoria Pubblico Ministero Processo Andreotti in La
vera storia d’Italia, Pironti,1995, pag. 459, 462)
1980-1981: gli ultimi tentativi di difesa e le prime
condanne in America
L’intervento della massoneria
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione Teodori, pag. 592 - 593)
1981: lo scandalo P2
Joseph Miceli Crimi
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Giorgio Ambrosoli
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pag. 165 - 168)
Piano di rinascita democratica della Loggia P2
(in AA.VV., LAVORI IN CORSO, Logos, 1995, pagg. I - XIII)
1982: l’incriminazione per traffico di droga; Calvi
impiccato a Londra
Incriminazione per traffico di valuta e droga
(Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, Relazione di maggioranza, pag. 164)
Ruolo di Sindona e Calvi: interrogatorio di Francesco Marino Mannoia (15.07.1991)
(Memoria Pubblico Ministero Processo Andreotti in La
vera storia d’Italia, Pironti, 1995, pag. 47 - 48)
1984-1985: l’estradizione e l’inizio del processo
Ambrosoli
Il viaggio in Sicilia: motivi e contesto
(Ufficio Istruzione, Tribunale di Milano in Sindona. Gli atti
d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, 1986, pagg.
195 - 200; 203 - 205; 205 - 209)
1986: la condanna per l’omicidio Ambrosoli e la
morte nel carcere di Voghera
Lettera - testamento di Ambrosoli alla moglie
(Ufficio Istruzione, Tribunale di Milano in Sindona. Gli atti
d’accusa dei giudici di Milano, Editori Riuniti, 1986, pagg.
33 - 34)
Conclusioni su rapporti Sindona - Andreotti e mafia
(Memoria Pubblico Ministero Processo Andreotti in La
vera storia d’Italia, Pironti, 1995, pagg. 462 - 464)
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