Il giudizio si volgerà a giustizia
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Il giudizio si volgerà a giustizia
UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 1 Don Giuseppe Dell’Orto Giustizia, parola di largo consumo nella società contemporanea, è una nozione che si specifica in modo diverso a seconda del quadro ideologico e culturale in cui viene collocata. È presente nel linguaggio giuridico ed etico, con significati differenti, ma sempre più anche nel linguaggio comune: siamo sensibili all’importanza della giustizia nelle relazioni interpersonali, nei rapporti sociali, economici, di lavoro; la invochiamo in relazione alla drammatica situazione di miseria di molte popolazioni; ne sentiamo le pungenti istanze di fronte alla guerra, alla corruzione politica, alla pena di morte, ecc. Nel linguaggio quotidiano il nome e la questione della giustizia ricorrono sovente quali regole di comportamento tra gli uomini, e sempre più spesso sono limitate e circoscritte al regime sanzionatorio e all’auspicata afflittività della pena per colui che si sia macchiato di efferati e sconvolgenti delitti. D’altra parte, però, anche la Bibbia parla di giustizia, con il suo linguaggio e le sue problematiche, presentando aspetti che interessano il nostro mondo e altri che, a prima vista, invece, appaiono estranei alla nostra sensibilità. C’è quindi un incontro tra il comune parlare della giustizia e il messaggio biblico, ma c’è anche una divergenza di prospettive o, per lo meno, una non perfetta corrispondenza di concetti. Sul piano giuridico, infatti, la nozione di giustizia, corrente per lo più ancora oggi, è quella elaborata dal diritto romano antico (cf già Cicerone, Nat. deor. 3,38 «iustitia quae suum cuique distribuit») e formulata da Ulpiano: «Iustitia est constans et perpetua voluntas suum unicuique tribuendi» (Dig. I,1,10). Il “suum” che spetta a ciascuno è un Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 2 complesso di diritti umani determinato da pregiudiziali opzioni ideologiche, politiche e sociali. Anche s. Tommaso riprende sostanzialmente questa definizione di giustizia («habitus secundum quem aliquis constanti et perpetua voluntate ius suum unicuique tribuit» S. Th. II-II, q. 58, a.I), trasfondendola, così, nell’ambito etico-religioso. Da questa definizione, comunque, possono discendere, di fatto, modelli diversi di giustizia in relazione al valore che si attribuisce a suum. Così potremo avere, per esempio: la giustizia retributiva, là dove il suum è l’“attribuzione”di una serie di diritti umani; la giustizia punitiva, là dove il suum è il castigo da comminare al malvagio; la giustizia rieducativa, là dove il suum è un intervento, o una serie di interventi, finalizzato al recupero del “reo” e all’assimilazione, da parte sua, delle regole che permettono la convivenza (non è questa, però, la nozione comune!). La prospettiva biblica è diversa! Nello studio sul rapporto tra cristianesimo e pena, Eugen Wiesnet1 rileva come il termine ebraico tzedaqah abbia subito, attraverso la traduzione greca dei LXX - dikaiosyne - e quella latina della Vulgata - iustitia - un progressivo slittamento semantico verso una sempre più esplicita connotazione retributiva propria della cultura occidentale rappresentata dalla definizione di Ulpiano. In realtà, invece, il termine ebraico è carico di due significati fondamentali, dai quali poi derivano connotazioni differenti a seconda dei contesti in cui viene usato. Da un lato, indica non tanto obbedienza a una norma quanto un atteggiamento fedele, leale e costruttivo nei confronti della comunità. D’altro lato, la giustizia biblica indica anche una E. Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena, Giuffrè Editore, Milano, 1987, pp. 11-12. 1 Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 3 condizione ottimale della comunità, uno stato di salute comunitario, per cui il singolo si trova a vivere entro una rete di relazioni pubbliche armoniose e salutari. Ci sembra, quindi, che il termine tzedaqah possa essere reso in italiano - come già proposto da vari esegeti - con “fedeltà/lealtà con la comunità” o con “solidarietà con la comunità”. Si tratta perciò di un termine/concetto che è sempre connesso con l’idea di relazioni sociali armoniose che danno origine a un benessere, a un “ordine” comunitario. L’«essere-giusto» non è misurato da una norma astratta e assoluta, ma dalle concrete esigenze di relazioni di comunione con Dio e con gli uomini. Per dirla con E. Lévinas, la giustizia è un concetto etico, che definisce l’uomo in quanto capace di rapportarsi secondo verità a un altro soggetto spirituale. L’essere giusto (o ingiusto) si giudicherà non in base alla rispondenza (o meno) a una norma, ma in base alla capacità di riconoscere il volto dell’altro, di rispettarlo in conformità alla sua natura2. L’altro, nella tradizione biblica è innanzitutto «Dio»; per essere giusti è necessario infatti prestare attenzione all’alterità trascendente di Dio. Ma l’altro è anche il « fratello», il prossimo, l’altro uomo, che esige riconoscimento della sua presenza, il riconoscimento riverente della sua vita e di ciò che essa significa. Alla luce di questo, allora, la giustizia (secondo la Bibbia) qualifica la perfezione della persona in quanto essere di relazione, differenziandosi così dal concetto della giustizia retributiva o vendicativa. Ora, la Bibbia ci presenta l’uomo nelle sue «relazioni alterate», sia nei confronti di Dio (Gn 3) sia nei confronti dell’uomo/fratello (Gn 4). Se Adamo è 2 Cf. E. Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 19683. Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 4 colui che si fa ingannare da un discorso che nega la differenza radicale tra il Creatore e la creatura (Adamo è l’uomo che non vuole essere «originato» ma che vuole essere l’«Origine»), il «figlio di Adamo» è colui che è mosso dall’invidia verso il fratello e per gelosia nei suoi confronti «si alza contro di lui e lo uccide». Adattando il proverbio di Ezechiele, potremmo dire «quale il padre, tale il figlio...» (Ez 16,44): la ribellione contro Dio e la violenza del sangue sono l’eredità di ogni essere umano («tutti hanno traviato e si sono pervertiti ... tramano inganni con la lingua... i loro piedi corrono a versare sangue» cf. Rm 3,10-18). In questa luce, allora, cosa significa «fare giustizia?». La Bibbia risponde dicendo che è la vittoria del bene sull’impero del male, è il superamento della violenza, è la vittoria della giustizia sulla matrice di menzogna e di sopruso3. Essere giusti, in una parola, significa rapportarsi all’altro in modo da rispettarlo; ora l’altro che sta di fronte è un figlio di Adamo. Proprio perché ci assomiglia, egli viene percepito nella sua valenza di potenziale nemico. La violenza che c’è in ogni uomo e che ognuno sente nell’altro rende estremamente difficile l’esercizio della giustizia. È relativamente facile, infatti essere giusti con i giusti (almeno formalmente), tant’è che, dice il Vangelo, lo sanno fare anche «i peccatori» (Mt 5,20.43-48; Lc 6, 32-35); ma la Bibbia dice che la vera giustizia è quella che si esercita con i malvagi, con coloro che sono ingiusti, nella difficile relazione con l’uomo violento e colpevole. Essa non è una dimensione riservata ad organi Su questo tema si veda il volume di N. Lohfink, Il Dio della Bibbia e la violenza, Brescia 1985; inoltre La violenza nella Bibbia, Atti del Convegno Nazionale di «Biblia», Settimello 1990. 3 Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 5 specifici della società (magistrati, forze dell’ordine), non è un compito attuato esclusivamente nel rito giudiziario (nei tribunali), ma è l’appello etico di ogni essere umano nella totalità delle componenti della sua esistenza. Sono due, secondo la Bibbia, le procedure il cui utilizzo e articolazione consentono l’esercizio della giustizia, contro una situazione ingiusta e oppressiva: il mišpat, che è la procedura giudiziaria che tende alla condanna del colpevole, mediante un giudizio trilaterale; e il rîb o lite, ovvero il giudizio contraddittorio e bilaterale tra due parti, che tende, invece, al perdono e alla riconciliazione. Questi due procedimenti sono descritti con linguaggi e momenti simili (si tratta sempre di procedimenti giudiziari), ma sottintendono logiche, prospettive e categorie profondamente diverse, come pure diverse sono le dinamiche che in essi vengono generate. Non distinguere le due procedure o, peggio, proiettare nei testi della Scrittura l’odierna prassi giudiziaria senza aver chiare le differenze che separano l’oggi dai tempi biblici, crea un vero e proprio fraintendimento del messaggio biblico, nonché una pericolosa distorsione dell’immagine di Dio. Il Giudizio (mišpat) Il primo dispositivo per il ristabilimento della giustizia, che prendiamo in considerazione, si presenta con una sua specifica procedura penale ed è documentato nei Codici legali della Bibbia. Come presso quasi tutti i popoli antichi e moderni, la procedura giudiziaria in Israele è una delle più importanti istituzioni della vita civile. Essa, per l’oggettività che le è propria, consente al diritto di imporsi anche con la forza e rappresenta l’elemento costrittivo che Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 6 rende possibile in una comunità umana l’esercizio ragionevole delle proprie potenzialità vitali. Il giudizio, infatti, è una istituzione della comunità, che è provvista di forza coercitiva ed è ordinato alla difesa della giustizia. La Scrittura, nel suo complesso, attesta che lo svolgimento di una azione processuale ripercorre, in modo semplificato, gli atti che sono familiari anche alla prassi giudiziaria contemporanea. Alla constatazione del reato (notitia criminis) fa seguito l’indagine conoscitiva che, oltre all’accertamento dei fatti, ha di mira l’imputazione del colpevole; il dibattimento, fondato sull’importanza decisiva delle prove testimoniali, conduce alla fase finale che ha nell’emissione della sentenza e nell’esecuzione (del condannato) il suo compimento. Non mancano casi nella Bibbia, in cui Dio si manifesta come Giudice, come colui che riporta il «diritto» sulla terra: da una parte salva l’innocente e dall’altra colpisce con giustizia l’autore dell’ingiustizia. Il libro dell’Esodo, ma più il fatto della liberazione, può essere letto come l’esecuzione della sentenza che salva il popolo degli oppressi e colpisce l’oppressore. Il governo del mondo, ad opera di Dio, comporta che l’Altissimo non trascuri di fare giustizia laddove gli uomini - a cui è demandato tale compito - vengono meno al loro dovere. Tuttavia, si dovrà notare, insieme a questa «necessità», l’imperfezione e l’ambiguità di una simile metafora, dal momento che il giudizio contempla necessariamente il dramma della condanna. Ora, se la qualità della giustizia è proporzionata alla qualità della relazione all’altro, come non ritenere imperfetta l’azione che porta alla condanna, all’esclusione e addirittura all’uccisione del colpevole? Non riuscendo a separare la violenza dall’uomo violento, si è costretti a estirpare il male sopprimendo l’uomo. Per amore della vita si Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 7 sopprime la vita4. Non solo. Mediante il verdetto, la giustizia è imposta con la forza, con una coercizione legittima, che però sembra rispondere alla violenza con la violenza. Il colpevole, condannato, “è vinto, ma non è convinto”; è punito, ma non redento, non raggiunto dalla verità e dalla pace. Il mišpat rivela quindi tutti i suoi limiti e la sua imperfezione; se la giustizia è un concetto relazionale e «fare la giustizia» significa restituire pienamente all’altro il suo volto, la sua verità, con la soppressione del reo viene negata per sempre la possibilità di ristabilire la relazione. È necessario, dunque, che per ristabilire pienamente la giustizia ci sia un’altra procedura all’interno della quale si parli anche di perdono. La Lite bilaterale (il rîb) Secondo la Bibbia, il giudizio non è la sola procedura che si possa e si debba attuare nei confronti del colpevole. Accanto all’ordinamento penale gestito dall’organo giudicante, c’è anche l’iter giuridico che si svolge nell’orizzonte del perdono, ed è in questo che si rivela in modo perfetto la giustizia di Dio e degli uomini. Che cosa è dunque il rîb, o lite, o controversia? È un’azione intrapresa da un soggetto contro un altro per questioni di diritto. La specificità di questa situazione è di essere totalmente affidata alle parti in conflitto: da loro e solo Cf. P. Bovati, L’esercizio della giustizia nella Bibbia, in La Rivista del Clero Italiano 75 (1994), pp. 487-498; 575-586, qui p. 497. Dello stesso Autore si veda Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell’Antico Testamento, in La Civiltà Cattolica quaderno 3537 (1997), pp. 225-239. 4 Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 8 da loro - non quindi dall’intervento di un terzo soggetto che farebbe da arbitro dipende l’esito della controversia e l’attuazione o meno della giustizia. Per giungere alla controversia è necessario che le due parti siano in precedenza relazionate tra loro da un vincolo, che può essere esplicito o implicito; da una relazione di alleanza, che comporti un comune riferimento ad un insieme normativo di diritti e doveri (anche semplicemente il cosiddetto diritto naturale, per cui la relazione diventa l’“essere uomini”). Questo comune diritto, che fonda la relazione, determina anche lo svolgimento della controversia, che richiederà una soluzione conforme al diritto stesso. Anzi, possiamo dire che da uno stadio di relativo accordo tra le due parti, si verifica in un secondo momento un episodio che turba il rapporto di pacifica intesa perché mette in questione un elemento su cui era fondata l’intesa tra i due. La parte offesa, allora si muove per contestare l’altra parte, per accusarla di infedeltà e ingiustizia e riportarla a una relazione che sia rispettosa della natura di entrambi. Se il rîb ottiene il suo effetto, le due parti potranno riallacciare il loro rapporto secondo verità e giustizia, talora rendendolo più intenso e strutturato in modo nuovo in un accordo di pace. Se il rîb non ottiene il suo effetto, non vi sarà altra soluzione che percorrere altre vie, che non portano alla riconciliazione ma alla soppressione di una delle parti. La procedura del rîb prevede tre momenti: l’accusa, la risposta dell’accusato e la riconciliazione. Per rendere un po’ più concreto il discorso, ci rifaremo alla storia di Giuseppe e dei suoi fratelli; questo racconto del libro della Genesi (cf. Gn 3750) illustra in modo programmatico la natura della lite, nei suoi diversi momenti e nell’intento di bene che lo anima. Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) Il punto di partenza della lite è sempre l’azione pag. delittuosa, 9 il comportamento contrario al diritto e al bene oggettivo. Nella storia di Giuseppe, i suoi fratelli commettono per gelosia un delitto gravissimo; infatti tramano di uccidere il fratello (minore) e poi lo vendono come schiavo a degli stranieri. Di fronte alla colpa, colui che è responsabile del bene della famiglia deve intervenire. Il suo primo dovere è un’iniziativa di parola che ha la forma dell’accusa. Non è tuttavia una denuncia portata all’attenzione dell’organo giudicante, ma un rimprovero fatto al colpevole stesso. La qualità di questo intervento si misura in funzione del risultato che deve ottenere. Ora, il risultato perseguito non è per nulla quello di (far) condannare il reo, ma è quello di convincere il colpevole ad ammettere il suo sbaglio, a «confessare» apertamente la sua colpa, a mostrare i segni del dispiacere per ciò che ha fatto, a esprimere concretamente il desiderio di cambiare modo di agire. Ci sembra particolarmente importante rilevare che chi accusa viene a trovarsi in una situazione difficile, in una condizione certamente più complessa di quella dell’accusatore in un tribunale, il quale assume chiaramente la veste della parte «avversa». Nella lite invece chi accusa parla contro l’altro, perché non tollera l’atteggiamento sbagliato, sapendo che esso è distruttore della persona e della comunità; ma, al tempo stesso, è a favore del colpevole, perché non cerca affatto di rispondere al male con il male, ma vuole solamente fare del bene a colui che rischia di perdersi nel suo male. Vediamo così apparire una decisiva differenza strutturale tra la procedura giudiziaria e quella della lite. Mentre nella prima la pena conclude il processo e pone fine a tutta la dinamica giuridica, nel rîb la punizione sta all’inizio del Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 10 procedimento, non come strumento espiatorio, ma piuttosto come mezzo per «parlare» al colpevole, per farsi ascoltare e, in ultra istanza, per suscitare una risposta giusta da parte del colpevole. L’intenzionalità ultima del promotore del rîb è infatti di perdonare. Se colui che ha sbagliato dice che è dispiaciuto del male commesso, se pone alcuni segni che manifestano concretamente il suo proposito di cambiamento, diventa possibile cancellare il passato e ritrovare la perfetta intesa, nella verità della riconciliazione. L’offeso - la vittima - ha il potere sublime di far incominciare una nuova vita. È appunto quanto avviene nella storia di Giuseppe. Di fronte alla dichiarazione di Giuda (che parla anche a nome dei fratelli), di fronte al suo proposito di dare, in un certo senso, la vita per il fratello minore, ecco che Giuseppe, dice il testo biblico, «non poté più contenersi [...] e si fece riconoscere dai suoi fratelli: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che avete venduto per l’Egitto. Ma non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita [...] e per salvare in voi la vita di molta gente”» (Gn 45,1-7). Ecco la conclusione del rîb, opposta a quella del giudizio. Invece della pena di morte si ottiene di conservare in vita il reo, perché si riesce a liberare il colpevole dal suo male e a riammetterlo nella comunione dei fratelli. Riflessioni conclusive La lite bilaterale o controversia ha la sua collocazione tipica nell’ambito familiare. Ma la sua dinamica è punto di riferimento anche per individui o Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 11 gruppi che, pur non avendo tra loro rapporti di consanguineità o affinità, intendono comportarsi reciprocamente come fossero membri della stessa famiglia. È interessante infatti notare che, in tutto il Vicino Oriente antico, il vocabolario delle relazioni familiari viene utilizzato per definire anche l’alleanza di natura politica; mediante un trattato, mediante quindi uno strumento giuridico, due sovrani o due popoli si definiscono come padre e figlio, oppure come fratelli. Ma questo insieme metaforico è servito, inoltre, agli scrittori biblici per parlare di Dio. L’alleanza infatti, cioè la comunione originaria tra il Signore e il suo popolo, viene espressa attraverso il complesso simbolico della paternità o, in certi casi, attraverso la metafora del legame coniugale; ne consegue che tutte le procedure, accusatorie e punitive, di YHWH nei confronti di Israele devono essere interpretate come il primo momento della lite, volta essenzialmente al perdono, anche se strutturalmente essa deve assumere la fase della correzione. Di più, se il Signore agisce così verso i suoi figli perfezione della giustizia), (perché questa è la il rîb dovrà essere anche la procedura che questi figli assumono nel rapporto fraterno. C’è un appello infatti che attraversa l’intera Scrittura, ed è che colui che è creato a immagine e somiglianza di Dio e ha quindi ricevuto il titolo di «figlio» agisca come agisce il Padre, con la perfezione e la santità del suo comportamento. E questa non è solo una prospettiva etica o religiosa, da applicarsi esclusivamente nel privato e/o all’interno di un rituale religioso specifico. Nella misura del possibile, e quale costante orizzonte da perseguire, essa deve diventare struttura giuridica, sostanza concreta delle dinamiche sociali. Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 12 Siamo abituati a considerare il passaggio dalla lite (privata) al giudizio (pubblico) come un progresso civile. È forse opportuno chiedersi se non sia altrettanto significativo rovesciare la prospettiva, e considerare la decisione giudiziaria come il primo momento della lite. Ciò significa che la prigione (risultato tipico del processo penale) non va vista come un atto conclusivo di giustizia, ma solo come la prima tappa, forse necessaria, ma comunque propedeutica a una procedura che cerca la riabilitazione del colpevole e la sua riammissione nella società. La nostra civiltà viene giudicata in base alla speranza che è in grado di dare al carcerato5. «Il giudizio si volgerà a giustizia» (Sal 94,15), allora, è sogno e speranza di una giustizia che diventi luogo di ricomposizione delle lacerazioni e non della rottura del dialogo. Non può esserci giustizia là dove la logica soggiacente è quella della ritorsione del male; non può esserci giustizia là dove l’unico modo per opporsi al male è quello di infliggere un altro male, non può esserci giustizia là dove la verità è bandita. Il giudizio «si volge» (il verbo che la CEI traduce con «volgersi» è šwb, che significa letteralmente «ritornare», da cui anche «convertirsi») a giustizia là dove la modalità di risposta al male rimanda al valore positivo violato; là dove alla violazione della vita segue una promessa di vita; là dove la giustizia comprende anche il perdono, ovvero là dove la dinamica adottata è quella della procedura del rîb. La modalità relazionale introdotta dal rîb, infatti, è veramente rispettosa della dignità di ciascuno, anche del reo che può affermarsi come autentico soggetto al di là del suo 5 Cf. P. Bovati, Pena e perdono, Art.cit., pp. 237-239. Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella UNIONE GIURISTI CATTOLICI di MILANO 20122 MILANO VIA S. ANTONIO N. 5 (PALAZZO SCHUSTER) IL GIUDIZIO SI VOLGERA’ A GIUSTIZIA (Sl 94,15) pag. 13 misfatto; il rîb è un procedimento che porta al superamento del male stesso, apre al futuro e invita alla lode. Il diritto si volge a giustizia là dove si realizza la chiamata ad essere perfetti come il Padre celeste (Mt 5,48). DALLA RIVISTA “THEMIS” ANNO 1 N. 3 pag. 97 Pubblicato: 10 giugno 2010 L’autore Docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano ©2005/2009 – UGCI Milano - Realizzazione: Anselmina Cerella