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 TESI DI BACHELOR DI GIULIANO FALCONI BACHELOR OF ARTS IN PRIMARY EDUCATION ANNO ACCADEMICO 2015/2016 LA DEVOLUZIONE E LE SUE IMPLICAZIONI PRATICHE D’INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO NELL’AMBITO DI SITUAZIONI DI PROBLEM SOLVING MATEMATICO RELATORE PIER CARLO BOCCHI
Ringraziamenti Ringrazio l’istituto della scuola elementare di Camorino e il direttore Mauro Valli per avermi dato l’opportunità di insegnare in questa sede e ringrazio i miei allievi della classe V B. Ringrazio il dottor Pier Carlo Bocchi per l’aiuto e il supporto datomi durante la stesura di questa importante ricerca. Ringrazio Sara Pegoraro e Elia Lagattolla, studenti del primo anno di formazione presso di Dipartimento Formazione Apprendimento, che hanno contribuito alla raccolta dati. Ringrazio la famiglia, gli amici e la mia compagna per il supporto datomi durante questi anni di studio. Sommario Introduzione ......................................................................................................................................... 1 1. 2. La risoluzione di un problema ..................................................................................................... 3 1.1. Che cos’è un problema? ....................................................................................................... 3 1.2. Il ruolo dell’errore ................................................................................................................ 4 1.3. Gli ostacoli ........................................................................................................................... 5 L’azione didattica ......................................................................................................................... 7 2.1. Le azioni macroscopiche dell’insegnante ............................................................................ 7 2.2. Il processo di devoluzione e le sue implicazioni .................................................................. 8 2.3. Il milieu e il contratto didattico .......................................................................................... 10 2.4. Mesogenesi, topogenesi e cronogenesi .............................................................................. 12 3. Ipotesi e domande di ricerca ...................................................................................................... 13 4. Approccio metodologico ............................................................................................................ 15 5. Le situazioni problema ............................................................................................................... 17 5.1. Presentazione e risoluzione della situazione problema A .................................................. 17 5.2. Presentazione e risoluzione della situazione problema B .................................................. 18 6. Risultati ...................................................................................................................................... 19 7. Conclusioni ................................................................................................................................ 31 8. Riferimenti bibliografici ............................................................................................................ 35 i Giuliano Falconi Introduzione Ritengo che una ricerca su questo tema, sia necessaria per soddisfare un bisogno di molti docenti, che si tratti di un insegnante alle prime armi o con diversi anni di esperienza. In effetti, in virtù della professione del docente, e di convesso, al ruolo che occupa all’interno della società, dobbiamo considerare l’azione dell’insegnante molto importante ai fini della crescita dei futuri cittadini. Credo che l’analisi dello sviluppo delle pratiche di insegnamento e apprendimento nel problem solving, sia un argomento che possa interessare più o meno tutti, anche perché la risoluzione di problemi e soprattutto la riflessione che porta al suo risolvimento, è una di quelle competenze da sviluppare nell’arco della scuola elementare e più in generale, nella vita. In effetti, nel nuovo Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, tra i traguardi di competenza al termine del 2° ciclo, si precisa che l’allievo 1 “comprende e risolve con fiducia e determinazione situazioni problema in tutti gli ambiti di contenuto previsti (…), legate al concreto o astratte ma partendo da situazioni reali, mantenendo il controllo critico sia sui processi risolutivi sia sui risultati, esplorando e provando diverse strade risolutive” (p.148). Anche nella vita pratica, molte volte al giorno siamo attorniati da problemi e dobbiamo prendere decisioni che spesso, scaturiscono da un ragionamento o da una riflessione. Risulta quindi fondamentale, sviluppare negli allievi l’attitudine al ragionamento e di conseguenza, all’utilizzo della strategia più adeguata per risolvere dubbi o incertezze. Inoltre, sapendo che non esiste solamente l’apprendimento informale, ma anche quello formale 2 , tale considerazione dovrebbe motivare ancor più l’insegnante a prendere consapevolezza del proprio agire, in modo da rendere l’atto educativo il più efficace possibile. La mia tesi di bachelor si sviluppa nel seguente modo: dopo il primo capitolo, dedicato alla presentazione dei riferimenti teorici, viene posto l’accento sul processo di devoluzione all’interno di situazioni a-­didattiche, e in seguito sull’importanza dell’istituzionalizzazione. In seguito alla presentazione delle ipotesi, viene esposta la domanda di ricerca e le diverse domande specifiche, poi viene presentato l’approccio metodologico utilizzato e vengono presentate le attività. In conclusione, viene affrontato il capitolo dedicato ai risultati e alle conclusioni della ricerca. 1
Piano di studio della scuola dell'obbligo ticinese, divisione della scuola, Bellinzona. 2
Informale: l’acquisizione inconsapevole di valori, abilità e conoscenze grazie all’esperienza e alle risorse educative presenti nell’ambiente circostante come la famiglia, gli amici e la televisione. Formale: l’acquisizione di conoscenze all’interno di un istituto nel sistema scolastico che vengono riconosciute da un diploma o da una qualifica (Brossard, 2002). 1 La devoluzione e le sue implicazioni 2 Giuliano Falconi 1. La risoluzione di un problema Innanzitutto, risulta opportuno definire cosa sia un problema in generale e in campo aritmetico. 1.1. Che cos’è un problema? Per molti matematici (ad esempio vedi Di Martino, 2015) 3, risolvere problemi è l’essenza della matematica. Anche Duncker (1935), che abbraccia le teorie psicologiche della Gestalt che celebrano i temi dell’esperienza e della percezione, ritiene che un problema si manifesti quando un soggetto si pone un obiettivo da raggiungere e non sa come raggiungerlo. Sulla stessa linea Kanizsa sostiene che (1973) “un problema sorge quando un essere vivente, motivato a raggiungere una meta, non può farlo in forma automatica o meccanica, cioè mediante un’attività istintiva o attraverso un comportamento appreso” (p.35). Chiaramente però, anche dal punto di vista emotivo i problemi assumono una valenza di un certo peso. Infatti (Sofri, 1998), afferma che “un bel problema, anche se non lo risolvi, ti fa compagnia se ci pensi ogni tanto” (p.322). L’essere umano deve quindi costantemente prendere delle decisioni: a volte con raziocinio, altre con l’istinto. A scuola risulta importante favorire la presa di coscienza che esistono diverse vie per risolvere i problemi, e che le strategie messe in atto, devono nascere da un ragionamento coerente con i dati a disposizione. Evidentemente quindi, il primo passo per risolvere un problema è riuscire ad elaborare una rappresentazione della situazione e avere in chiaro le variabili in gioco. In questo senso, affrontare un problema non significa unicamente trovare la soluzione, ma soprattutto individuare congetture e tentativi per risolverlo. Infatti, (Colombo, Bozzolo, Costa, & Alberti, 2006), considerando le tesi di Polya (1971), espongono l’idea per cui “(…) risolvere problemi significa trovare una strada per uscire da una difficoltà, una strada per aggirare un ostacolo, per raggiungere uno scopo che non sia immediatamente raggiungibile (…) è un’impresa specifica dell’intelligenza e l’intelligenza è il dono specifico del genere umano. Si può considerare il risolvere problemi come l’attività più caratteristica del genere umano” (p.22). In questa direzione, la situazione problema (De Vecchi, 2010) “(…) permet de donner du sens aux activités des apprenants, en les provoquant, en créant chez eux des conflits cognitifs qui, s’ils sont bien gérés par l’enseignant, sont porteurs d’une forte dynamique d’apprentissage” (p.163). 3
Di Martino, ricercatore in didattica della matematica presso l’università di Pisa, in un’intervista realizzata da Gouthier si esprime in questo senso. (P. Di Martino, intervista di D. Gouthier, 4 febbraio 2015, Sciencemagazine). 3 La devoluzione e le sue implicazioni 1.2. Il ruolo dell’errore In questa prospettiva, l’errore non deve essere considerato un sintomo di fallimento, ma piuttosto un punto di partenza per capire come mai è stato commesso. Quindi viene inteso come strumento di lavoro per rendere la conoscenza più solida nella mente degli allievi. Spesso e volentieri, quando gli alunni si trovano a dover affrontare un problema in campo algebrico, adottano dei comportamenti patologici tipici (Sowder, 1989). Ad esempio individuano i numeri e li sommano, oppure li prendono in considerazione per risalire alla “giusta” operazione, o ancora provano ad usare diverse operazioni, scegliendo quella ritenuta più confacente in base al risultato. In questo tipo di ragionamento, spesso fanno riferimento a parole-­chiave (come ad esempio “in tutto”) per individuare la giusta operazione, oppure procedono “a caso”. Ciò accade in quanto gli allievi, spesso faticano a sviluppare una rappresentazione adeguata del problema, cioè a mettere in relazione tra loro le informazioni per individuare una strategia risolutiva logica. Oggi, si vuole porre l’enfasi sui processi, piuttosto che sui prodotti, come tradizionalmente si è portati a ritenere. Infatti, in passato si riteneva che lavorare sul processo non fosse tempo ben speso, in realtà, Di Martino, nell’intervista sopraccitata, ritiene che agendo in questo modo l’insegnante possa effettuare “(…) interpretazioni più adeguate sulle eventuali difficoltà e quindi intervenire in maniera più mirata ed efficace” (p.28). Spesso, si osserva che la tipica domanda dell’insegnante è: “Perché hai fatto così?”. Tale domanda riduce la possibilità dell’allievo di descrivere i suoi processi, portandolo a modificare la sua risposta, invece di aiutarlo a spiegare il motivo per cui abbia agito in una certa maniera (ibidem). Questa situazione si verifica anche a seguito della tendenza di chiedere “perché” solamente a coloro che hanno commesso un errore, e non a chi ha risolto correttamente, alimentando inconsapevolmente negli allievi, l’idea che il risultato proposto, di conseguenza deve essere sbagliato. Per ribaltare questo approccio, spostando l’attenzione dai fini ai mezzi, e quindi dai prodotti ai processi, bisognerebbe chiedere “perché” a tutti, così da attribuire importanza al ragionamento. Purtroppo, come lo precisa Di Martino (ibidem) ci scontriamo con la realtà della nostra società, che tende a censurare l’errore, in effetti “gli errori disturbano in primis noi adulti. Si dice sempre «sbagliando si impara», però poi bastoniamo gli studenti quando sbagliano e cerchiamo di dare esercizi in cui “il rischio di errore” sia limitato” (p.28). Probabilmente, è l’insegnante stesso in quanto adulto, a non volere che i suoi allievi commettano errori, la stessa Zan (2007) espone l’idea per cui l’errore dell’allievo ci disturbi e ci infastidisca. Secondo questa autrice, mettere in guardia gli allievi dagli errori tipici, pur essendo una pratica piuttosto diffusa, non è particolarmente efficace ai fini dell’apprendimento, perché in questo modo si aggirano i nodi critici sui quali è invece opportuno che gli allievi riflettano. 4 Giuliano Falconi 1.3. Gli ostacoli Con “ostacolo” s’intende “(…) qualcosa che si frappone all'apprendimento trasmissivo insegnante-­
allievo atteso, qualunque ne sia la natura” (D'Amore, Fandino Pinilla, & Sbaragli, 2008, p. 42). La conoscenza non può avere una crescita lineare, ma è discontinua e si realizza grazie alla rottura della conoscenza pregressa (Bachelard, 1934). Ciò significa che per sviluppare una nuova conoscenza, occorre smontare la vecchia, che era efficace per affrontare problemi precedenti, ma fallimentare per superare le nuove situazioni. In tal senso, Guy Brousseau, fin dagli anni ’80, distingue fra tre tipologie di ostacoli che si differenziano per la loro origine: gli ostacoli ontogenetici, che hanno origine nell’allievo, quelli didattici, che hanno origine nelle scelte didattiche e quelli epistemologici che devono la loro esistenza a fatti intrinseci alla matematica stessa (Brousseau, 1986). L'ostacolo ontogenetico è legato allo sviluppo cognitivo dell’allievo e quindi alla maturazione psichica dell’individuo. Si tratta di schemi o modelli spontanei (di natura cognitiva e biologica), che appaiono o non appaiono "naturalmente" nel corso dell’evoluzione della persona. L'ostacolo è dovuto a limiti di schemi o modelli e la maturazione, dipende dallo sviluppo dell’individuo. L’ostacolo didattico è invece legato alla trasposizione didattica del docente. Riguarda quindi le scelte di contenuto e metodologiche del docente per insegnare un determinato concetto. Le conoscenze che determinano un ostacolo all’apprendimento, possono nascere da una scelta del docente o dall’istituzione scolastica precedente. Tuttavia, siccome non tutti gli individui apprendono allo stesso modo, può accadere che le scelte didattiche, risultino funzionali e utili per alcuni bambini, mentre potrebbero rivelarsi controproducenti per altri (D'Amore et al., 2008). Per questa categoria di allievi, l’ostacolo può e deve essere evitato agendo sulle condizioni dell’insegnamento. Infine, l'ostacolo epistemologico è quello legato allo sviluppo storico ed epistemologico delle conoscenze e dipende dalla natura stessa dell’argomento. Tale situazione si verifica in relazione al momento in cui “(…) nella storia dell’evoluzione di un concetto si individua una non continuità, una frattura, cambi radicali di concezione, allora si suppone che quel concetto abbia al suo interno ostacoli di carattere epistemologico” (ibidem, p.45). In questo senso, spesso possono manifestarsi errori ridondanti da parte degli allievi che persistono negli anni. Va precisato comunque, che un ostacolo epistemologico è costitutivo della conoscenza, nel senso che chi lo ha superato, gode di una coscienza diversa da colui che non vi si è mai imbattuto (Brousseau, 1998). Questi tre ostacoli sono da mettere in relazione tra di loro e influenzano l’apprendimento del sapere, di conseguenza, si constata che il ruolo del docente risulta essere evidentemente determinante ai fini del comportamento che gli allievi terranno di fronte alla risoluzione di un problema. 5 La devoluzione e le sue implicazioni 6 Giuliano Falconi 2. L’azione didattica 2.1. Le azioni macroscopiche dell’insegnante In linea con il paradigma dell’attività congiunta sviluppato da Mercier & Sensevy (2007), le pratiche d’insegnamento e d’apprendimento sono inscindibili e vanno analizzate simultaneamente. È quindi necessario considerare l’azione dell’insegnante e degli allievi in parallelo, poiché il lavoro dell’insegnante è connesso alle risposte dell’allievo e viceversa. Fatta questa premessa, possiamo comunque affermare che in generale l’insegnante compie le seguenti azioni macroscopiche: Definire: si tratta di una fase in cui vengono date le consegne in relazione all’obiettivo e in cui viene definito il compito, vengono esposte le consegne, dettati i tempi e le modalità di lavoro. Si sviluppa soprattutto nella fase introduttiva. Devolvere: corrisponde alla fase in cui si chiede agli allievi di sviluppare le proprie congetture per risolvere una situazione. In questa fase risulta interessante osservare quanta responsabilità l’insegnante trasferisce e lascia agli allievi. Spesso, accade che la responsabilità lasciata agli allievi viene limitata dal docente che si sente di dover dire subito tutto “mettendo in guardia” gli allievi dalle difficoltà (cfr. 1.2.). Secondo Bocchi e Falcade 4 “(…) affinché il processo di costruzione della conoscenza si sviluppi, il rapporto insegnante-­allievo deve modificarsi, dando luogo a una situazione a-­didattica (…) l’insegnante si tiene “a distanza”: egli dissimula la sua volontà didattica per provocare l’assunzione di responsabilità dell’allievo. Tale atteggiamento è denominato devoluzione”. Regolare: si tratta della fase in cui il docente interviene con gli allievi durante l’attività per aiutarli a gestire l’incertezza agevolando la costruzione dei significati. Valutare: corrisponde alla fase in cui, grazie all’osservazione, il docente inizia a farsi un’idea delle principali difficoltà riscontrate dal gruppo classe e dal singolo. La valutazione, permette al docente di effettuare delle regolazioni più pertinenti, sia a livello individuale, che a grande gruppo. Istituzionalizzare: si tratta della fase in cui si definisce uno statuto culturale e “istituzionale” alle produzioni degli allievi. Siccome il sapere che emerge dalla situazione a-­didattica è contestuale e personale, avrebbe poco valore se non ci fosse il riconoscimento “istituzionale”. Il sapere a questo momento diventa quindi un patrimonio conoscitivo legittimo e di tutti. 4
Elementi di didattica (P.C. Bocchi & R. Falcade, presentazione, febbraio 2015). 7 La devoluzione e le sue implicazioni Grazie all’istituzionalizzazione, il docente promuove la progressione delle conoscenze della classe rendendole legittime e rievocabili dalla memoria della classe attraverso un linguaggio alla portata degli studenti. 2.2. Il processo di devoluzione e le sue implicazioni Con il termine “devoluzione” in ambito matematico (Zan, 2007), si intende indicare il “passaggio delicato dal problema dell’insegnante al problema dell’allievo” (p.139). È il processo attraverso il quale l’allievo può farsi carico del problema e condividere l’obiettivo dell’insegnante (Sensevy & Quilio, 2002). Tali ricercatori, riprendono le idee di Brousseau (1998) secondo cui la devoluzione è il processo attraverso cui il docente assegna agli alunni, per un determinato tempo, la responsabilità dell’apprendimento, e l’allievo deve accettare il fatto che l’insegnante non gli trasmetterà apertamente le conoscenze. Zan (2007), precisa che la devoluzione è un processo articolato in cui nascono due paradossi. -­ Il paradosso dell’insegnante che si manifesta nella dinamica seguente: “(…) più esplicita chiaramente quello che vuole, più cede alle richieste dell’allievo spiegandogli esattamente cosa deve fare, più cerca di far fare all’allievo quello che vorrebbe, e più impedisce all’allievo stesso di arrivare ad un’effettiva comprensione e quindi ad un apprendimento significativo” (ibidem, p.139). -­ Il paradosso dell’allievo che si manifesta invece in quest’altra dinamica: “(…) se accetta che sia l’insegnante a dargli le risposte, non le matura da sé e quindi non arriva ad un apprendimento significativo della matematica. D’altro canto se rifiuta tutte le informazioni date dall’insegnante, la relazione didattica allievo/insegnante si spezza” (ibidem, p.139). Zan, generalizzando le idee di Brousseau (1986), considera questi paradossi come propri a un qualsiasi processo educativo e sostiene che per un educatore (o un docente), sia indispensabile permettere ai discenti di assumersi le proprie responsabilità. In questa prospettiva si esprimono anche D’Amore & Fandino Pinilla (2002). Questi ultimi sostengono che l’assunzione di responsabilità di un allievo si concretizza in particolare nelle situazioni a-­didattiche, dove il docente promuove un’interazione totale tra l’allievo e il sapere, favorendo la costruzione della conoscenza a partire dal milieu. Tuttavia, il sapere che emerge dalla situazione a-­didattica è contestuale, personale. Di conseguenza, senza l’“istituzionalizzazione” vi è il rischio che questo apprendimento rimanga, agli occhi degli allievi, funzionale solo alle situazioni problema molto simili. Per generalizzare le loro scoperte occorre creare dei momenti di messa in comune efficaci. 8 Giuliano Falconi Infatti, solo dopo l’istituzionalizzazione il sapere è qualcosa di cui insegnante e allievo possono disporre come patrimonio conoscitivo e legittimo. In generale, un uso improprio dell’istituzionalizzazione può compromettere l’apprendimento. Se è prematura, rischia di impedire la costruzione di senso da parte dell’alunno, mentre se è tardiva, produce rallentamento rischiando di ostacolare l’uso delle acquisizioni (Bocchi, 2015). A partire dalla metà degli anni ’80, il processo di istituzionalizzazione diventa un oggetto di studio importante, Allard (1995) ritiene che comunicare la soluzione sia un momento fondamentale che permette all’allievo di comprendere grazie all’attività effettuata, quello che risulta pertinente per capire la soluzione stessa. In effetti, se ben curata, questa fase permette di riflettere criticamente sui processi attuati durante la risoluzione. Nella fase d’istituzionalizzazione, il docente deve tornare ad essere l’arbitro della situazione. Il suo compito risulta essere quello di confrontare il sapere sviluppato in classe con quello della comunità scientifica (Rossi, 2011). Sulla stessa linea si esprimono anche Santoni & Pontalti (2012), i quali ritengono che spetta all’insegnante incoraggiare gli allievi a riflettere sulla validità della soluzione ottenuta e precisarla in modo che il docente la possa ufficializzare. 9 La devoluzione e le sue implicazioni 2.3. Il milieu e il contratto didattico Secondo Bocchi e Falcade 5 “(…) il milieu rappresenta tutto ciò che entra nell’ambiente di apprendimento dell’allievo, tutto ciò con cui l’allievo si trova confrontato al momento dell’apprendimento. Il milieu è costituito da oggetti materiali, simbolici e linguistici. È l’elemento mediatore della relazione didattica”. In questo senso, il docente assume un ruolo fondamentale, perché deve cercare di organizzare al meglio la relazione tra l’allievo e il milieu allo scopo d’intervenire il meno possibile e fare in modo che siano i bambini a decidere come affrontare il problema. Il milieu non è altro che l’insieme degli strumenti che il docente predispone per permettere agli allievi di affrontare una determinata situazione come attori protagonisti dei loro apprendimenti. Il ruolo del milieu risulta quindi fondamentale per creare ed elaborare pensieri. In questa fase di lavoro, in cui l’allievo tenta di individuare delle strategie, l’insegnante deve assumere un ruolo marginale e mimetico: il suo compito deve essere quello di sostenere e rassicurare l’allievo, porre domande-­stimolo, aiutarlo a riflettere, evitando di dare indicazioni su come risolvere il compito attribuito, altrimenti la devoluzione del problema nelle mani dell’allievo, sarebbe compromessa. Tuttavia, sarebbe poco appropriato supporre che l’interazione didattica si caratterizzi unicamente dall’attività dell’allievo nel milieu. Al contrario, affinché l’attività si sviluppi in modo efficace, occorre che l’insegnante non lasci l’allievo in assenza d’indicazioni, ovvero nell’incertezza assoluta. Ciò significa che l’insegnante, almeno in determinati momenti, deve far sentire le sue aspettative. Queste ultime si manifestano attraverso delle dinamiche del contratto didattico. Come è stato evidenziato da Brousseau (1988), le relazioni fra l’insegnante, gli allievi ed il sapere sono gestite da un contratto non ben esplicitato, ovvero dal contratto didattico. Esso regola “l’insieme dei comportamenti dell’insegnante che sono attesi dall’allievo e l’insieme dei comportamenti dell’allievo che sono attesi dall’insegnante” (ibidem, p. 309). Si tratta di un contratto generalmente non esplicitato ma non per questo meno importante, poiché influenza l’insegnamento e l’apprendimento. In effetti, attraverso il funzionamento del contratto l’insegnante può far sentire le sue intenzioni e incanalare l’attività cognitiva dell’allievo. 5
Nel cuore delle pratiche d'insegnamento (P.C. Bocchi & R. Falcade, presentazione, febbraio 2015) 10 Giuliano Falconi D’Amore (2006), riprende il pensiero di Brousseau (1986), e precisa che “(…) in una situazione d’insegnamento, preparata e realizzata da un insegnante, l’allievo ha generalmente come compito di risolvere un problema che gli è presentato, (…) attraverso un’interpretazione delle domande poste, delle informazioni fornite, degli obblighi imposti che sono costanti del modo di insegnare del maestro. Queste abitudini (specifiche) del maestro attese dall’allievo ed i comportamenti dell’allievo attesi dal docente costituiscono il contratto didattico” (p.8). Così, ad esempio, può succedere che gli allievi suppongano che il problema sia “un esercizio in cui bisogna decidere le operazioni da fare e poi farle”. Questo tipo di convinzioni, sono l’effetto dell’esperienza degli allievi a scuola e a volte, anche, di un contratto didattico innestato da pratiche d’insegnamento-­apprendimento non particolarmente adeguate. Chiaramente, in virtù del fatto che l’acquisizione della conoscenza è il frutto di ricorrenti esperienze, il contratto didattico deve essere considerato in continua evoluzione: il contratto esiste per essere oggetto di una rottura. Senza cambiamenti nel contratto, infatti, non si produrrebbero apprendimenti. Ciò significa che gli allievi devono continuamente decodificare le intenzioni dell’insegnante, cercando di capire quando devono riprodurre un comportamento noto (routine) e quando invece attivarsi diversamente a seguito del cambiamento dell’aspettativa (rottura dell’abitudine). Questa attività di decodifica può comportare dei problemi. Infatti se gli allievi non percepiscono bene o non del tutto il senso del compito con cui sono confrontati, avranno difficoltà a comprendere le aspettative dell’insegnante. 11 La devoluzione e le sue implicazioni 2.4. Mesogenesi, topogenesi e cronogenesi Nella descrizione dell’azione didattica, può essere importante considerare anche l’apporto delle tre genesi: mesogenesi, cronogenesi e topogenesi (Sensevy & Mercier, 2007). La mesogenesi riguarda l’insieme degli oggetti con cui l’allievo è confrontato nell’ottica di modificare le sue conoscenze. Tale concezione è stata avanzata anche da Brousseau (1990) e Chevallard (1992), che ritengono che l’allievo apprenda appoggiandosi a oggetti fisici, sociali e culturali. Infatti, questa genesi non comprende solo gli aspetti materiali, ma anche gli aspetti linguistici (consegne, feedback, considerazioni dell’insegnante) e simbolici (le rappresentazioni degli allievi rispetto all’uso degli oggetti materiali proposti). La mesogenesi è in continua evoluzione, perché gli oggetti subiscono delle modifiche in relazione alle reazioni degli allievi. La topogenesi invece, riguarda l’idea di topos, ovvero di “posizione” sociale che gli attori rivestono all’interno della relazione didattica. Questa genesi permette di rilevare le posizioni rispettive dell’insegnante e degli allievi rispetto agli oggetti di sapere e precisa le caratteristiche di asimmetria e simmetria della relazione d’insegnamento-­apprendimento. In particolare la topogenesi permette di cogliere la suddivisione dei compiti relativamente al lavoro effettuato in classe. Inoltre, secondo Bocchi (2015) “questa suddivisione è necessariamente evolutiva poiché gli oggetti di sapere, intorno ai quali gli insegnanti e allievi interagiscono, si sviluppano a partire da due modalità di pensiero: quella propria dell’insegnante e quella propria dell’allievo” 6 (p.66). Durante una lezione le posizioni dell’insegnante e degli allievi, possono chiaramente evolvere, in funzione delle possibili responsabilità che ciascun attore può assumersi. Le dinamiche topogenetiche sono fondamentali per poter sviluppare una devoluzione, perché questa non si potrebbe realizzare senza trasferire che una parte delle responsabilità agli allievi. La cronogenesi infine, si riferisce alla gestione dell’avanzamento del tempo didattico. In particolare, questa genesi permette di comprendere l’evoluzione delle conoscenze sull’arco di una certa temporalità. All’interno di un contratto didattico, la cronogenesi appartiene principalmente all’insegnante che è responsabile della gestione del tempo didattico, ma questa è egualmente determinata dagli allievi che partecipano all’avanzamento dell’insegnamento (Leutenegger, 2009). Questa genesi, pone dunque la questione dell’articolazione tra il tempo dell’insegnamento e quello dell’apprendimento. 6
Traduzione personale 12 Giuliano Falconi 3. Ipotesi e domande di ricerca Questa ricerca intente studiare le dinamiche d’insegnamento-­apprendimento che s’instaurano durante la fase di messa in comune. In questa prospettiva, l’attenzione sarà rivolta in particolare ai processi di devoluzione e istituzionalizzazione, poiché l’ipotesi di fondo è che le caratteristiche dell’azione didattica possono essere descritte analizzando l’articolazione tra questi due processi fondamentali. Tale articolazione potrà essere precisata grazie all’apporto dei concetti di contratto didattico e di milieu. Di conseguenza, l’ipotesi di ricerca si precisa nel modo seguente: l’efficacia delle pratiche d’insegnamento e di apprendimento è da mettere in relazione con lo sviluppo di un’azione didattica che si avvalga di un’opportuna articolazione tra i processi di devoluzione e istituzionalizzazione. Di conseguenza, vengono formulate le seguenti domande di ricerca: Come si caratterizza l’azione didattica nella fase di messa in comune? Più particolarmente: -­ Come sono gestiti i turni di parola durante la fase di messa in comune? -­ In che modo gli allievi (quali allievi) contribuiscono allo sviluppo della messa in comune? -­ Come si sviluppano le dinamiche topogenetiche? Ovvero come evolvono le posizioni dell’insegnante e degli allievi durante la fase di messa in comune? 13 La devoluzione e le sue implicazioni 14 Giuliano Falconi 4. Approccio metodologico La ricerca si sviluppa attraverso un approccio didattico con lo scopo di studiare i processi d’insegnamento-­apprendimento messi in atto nell’ambito della risoluzione di problemi. Evidentemente, occorre la presenza sul campo per poter indagare al meglio come un docente insegna e come gli allievi imparano. La metodologia fa capo ad a un’analisi di tipo qualitativo che s’ispira allo studio di casi di sistemi didattici (Bocchi, 2015). Tale analisi si completa con un’indagine di tipo quantitativo. La scelta di un approccio che fa capo a questi due tipi di analisi risponde all’esigenza di dotarsi dei mezzi necessari per studiare la complessità dei fenomeni d’insegnamento-­apprendimento (ibidem). Concretamente la raccolta dei dati è avvenuta attraverso la realizzazione di video di alcune lezioni, di cui sono protocollati e analizzati gli avvenimenti emersi. L’organizzazione ha previsto di avere una telecamera fissa sulla classe, mentre l’altra era mobile. Il contesto considerato è costituito dalla classe in cui lavoro regolarmente. Concretamente sono state esaminate quattro lezioni, precisamente due per ogni situazione problema, come si può osservare dalla figura 4.1.: • Situazione problema A -­ 19 novembre 2015
C • Intervento 1 -­ lavoro a coppie
O M • Situazione problema A -­ 26 novembre 2015
P • Intervento 2 -­ messa in comune
L E • Situazione problema B -­ 3 dicembre 2015
S • Intervento 1 -­ lavoro a coppie
S • Situazione problema B -­ 10 dicembre 2015
I • Intervento 2 -­ messa in comune
T À Figura 4.1.: dispositivo di ricerca Situazione problema A (figura 5.1.):  Durante l’intervento 1, gli allievi hanno lavorato a coppie per cercare di risolvere la situazione problema presentata nella figura 5.1.  L’intervento 2, legato alla messa in comune, è stato effettuato in maniera tale che fosse il docente a porsi al centro dell’attenzione. In questa fase, l’intento era quello di osservare se attraverso una modalità più “tradizionale” e cattedratica vi fosse una presa a carico (devoluzione) minima, per permettere un significativo apprendimento. 15 La devoluzione e le sue implicazioni Situazione problema B (figura 5.2.):  Durante l’intervento 1, gli allievi hanno lavorato a coppie per cercare di risolvere la situazione problema presentata nella figura 5.2.  L’intervento 2, legato alla messa in comune, è stato effettuato devolvendo la responsabilità agli allievi. Il docente ha formato tre gruppi di lavoro in cui discutere per risolvere nuovamente il problema e decidere come presentare la strategia risolutiva agli altri due. 16 Giuliano Falconi 5. Le situazioni problema Come esposto nel precedente capitolo, sono stati effettuati quattro interventi. Infatti, per ognuna delle due situazioni problema è stato adibito un momento per la risoluzione a coppie e un momento per la messa in comune che, come anticipato, è stata sviluppata con due modalità totalmente differenti. Due studenti del primo anno di formazione presso il DFA hanno assistito a queste lezioni, aiutandomi a riprendere i momenti salienti della lezione e permettendomi allo stesso tempo di muovermi con disinvoltura. 5.1. Presentazione e risoluzione della situazione problema A La situazione problema A è la seguente (figura 5.1.). Figura 5.1.: la situazione problema A Risoluzione Domanda 1 All’interno di una serie ci sono 12 perle in tutto, di cui 4 blu (2 + 2) e 4 rosse (3 + 1), quindi, se una collana è composta da 28 perle blu, ce ne saranno per forza anche 28 rosse. Il fatto che la collana finisca con 1 perla rossa, ci permette di dedurre che l’ultima perla della collana, corrisponderà all’ultima perla di una serie. La collana di Martina ha quindi 28 perle rosse. 17 La devoluzione e le sue implicazioni Domanda 2 Sapendo che la collana di Carlotta ha 72 perle in totale e che in ogni serie ci sono 12 perle, dividendo il numero di perle complessive per il numero di perle di una serie, sarà individuato il numero delle serie (cioè 72 : 12 = 6). Visto che in una serie ci sono 4 perle rosse, si otterrà: 6 x 4 = 24. La collana di Carlotta ha 24 perle rosse. 5.2. Presentazione e risoluzione della situazione problema B La situazione problema B è la seguente (figura 5.2.). Figura 5.2.: la situazione problema B Risoluzione Domanda 1 In una serie ci sono 24 perle blu, sapendo che in ogni serie ci sono 4 perle blu (2 + 2), si deduce che il numero di serie totali sarà 6 (24 : 4 = 6). A quel punto, sapendo che il numero di perle rosse all’interno di una serie è 7 (3 + 4), sarà sufficiente moltiplicare il numero di ripetizioni per il numero di perle rosse all’interno di una serie (6 x 7 = 42). La collana di Rossana ha 42 perle rosse. Domanda 2 Sapendo che la collana ha 234 perle totali e che in ogni serie ci sono 13 perle, dividendo il numero di perle totali per il numero di perle di una serie, sarà individuato il numero di ripetizioni di una serie, (quindi 234 : 13 = 18). A quel punto, sapendo che in una serie ci sono 7 perle rosse, facendo 18 x 7 otterrò il numero di perle rosse presenti nella collana. La collana di Piera ha 126 perle rosse. 18 Giuliano Falconi 6. Risultati Per caratterizzare l’azione didattica, propongo di analizzare alcuni estratti relativi ad entrambi i momenti di messa in comune. Procederò in questo modo: dapprima effettuerò un’analisi qualitativa e poi quantitativa di quanto emerso dalla messa in comune della situazione problema A. Analogamente procederò con la situazione problema B. Situazione problema A 7 Estratto 1 (minuti 24.49 – 28.48) Analizzando questo scambio, si constata che dal punto di vista topogenetico, la gestione della responsabilità dell’avanzamento della lezione è nelle mani del docente. Egli assume la maggior parte delle responsabilità per permettere alla lezione di avere il decorso nella maniera prevista. 7
Gli estratti completi sono presenti nel documento “Allegati”. 19 La devoluzione e le sue implicazioni In questa fase, il docente si aspetta che i bambini espongano che cosa rappresenti il numero 6 (ovvero il numero di volte che la serie si ripete). È l’insegnante a gestire i turni di comunicazione e la discussione. Alla risposta degli allievi, corrisponde un’altra domanda per proseguire la discussione oppure un commento per rilanciare la discussione. Come si può constatare da questa parte di protocollo, la lezione è stata caratterizzata da scambi tra docente e allievo;; saltuariamente c’è stato un rapporto tra allievo e allievo. Questo tipo di interazione caratterizza molte strutture conversazionali nelle interazioni in classe, che risultano essere caratterizzate dalla logica della “tripletta” domanda-­risposta-­commento (Fele & Paoletti, 2003). In questo senso, possiamo considerare che vi è stata una devoluzione ridotta agli allievi. Considerando il paradosso dell’insegnante (cfr. 2.2.), il docente tende a parlare molto e ad indirizzare l’azione dei bambini, ripetendo le loro risposte senza rilanciare ai compagni. Il docente vuole ottenere la buona risposta e quindi tende piuttosto a incanalare gli allievi attraverso domande chiuse o frasi in sospeso. Forzando il contratto didattico per ottenere la buona risposta che permetta di proseguire l’andamento della lezione, gli allievi sono messi quindi nella condizione di decodificare le aspettative dell’insegnante. Risulta interessante osservare il desiderio del docente (tdp 207) di far capire bene alla classe cosa rappresenta il numero 6 e in modo ridondante pone diverse volte la stessa domanda. Come si comprende è il docente a condurre lo sviluppo dell’attività. Non permettendo agli allievi di lavorare a contatto con il milieu, pochi seguono il docente nelle sue proposte. La lezione risulta così poco dinamica e lo spazio per gli allievi è ridotto. Osserviamo ora cosa succede in quest’altro momento. Estratto 2 (minuti 29.13 – 30.33) In questa piccola parte di protocollo, si può notare la frustrazione del docente che nonostante creda di aver costruito insieme alla classe una serie di informazioni utili per rispondere alla domanda, vede solo 6 mani alzate su 19. A quel punto, si appoggia ad un allievo che sembra dimostrare una buona attitudine seconda (nel senso di Bautier & Goigoux, 2004) per far precisare il ragionamento 20 Giuliano Falconi corretto alla classe. Chiaramente, questo approccio particolarmente trasmissivo e cattedratico, non è coinvolgente per gli allievi. Estratto 3 (minuti 30.41 – 33.01) Analizzando infine quest’altro scambio, si nota in modo lampante la logica della tripletta. Infatti la comunicazione è particolarmente verticale: quasi ad ogni constatazione di un allievo, corrisponde il commento o il rilancio dell’insegnante. Inoltre, l’azione degli allievi è influenzata da un preciso contratto didattico secondo cui tocca all’insegnante dare le risposte e proseguire la discussione. In effetti De (tdp 244) chiede all’insegnante se dev’essere lui a spiegare come ha fatto. L’insegnante lo invita a spiegare, salvo però intervenire e completare continuamente le spiegazioni dell’allievo. Questo fenomeno, prende il nome di effetto Jourdain. Si tratta di un fenomeno che si sviluppa quando gli allievi, dicono qualcosa che si avvicina alle aspettative del docente e il docente la prende come “buona” per poi completarla in maniera da soddisfare le sue intenzioni. 21 La devoluzione e le sue implicazioni Se però l’effetto Jourdain (come del resto l’effetto Topazio8) è particolarmente sollecitato, si crea una doppia illusione: il docente può credere di aver svolto il suo compito e quindi di aver “insegnato”, mentre l’allievo può supporre di aver “appreso”, quando invece nulla di tutto ciò è successo. Per completare questo genere di ragionamenti propongo ora un’analisi di tipo quantitativo. In questa prospettiva, consideriamo quale indicatore il numero di parole utilizzate dal docente durante la prima messa in comune. Complessivamente, emerge che su un totale di circa 5153 parole, il docente ne ha pronunciate 3375, mentre i bambini 1778. Di conseguenza, il docente ha parlato per il 65,5 % del tempo della lezione. Turni di parola messa in comune 1
Parole docente: 65,5 %
Parole allievi: 34,5 %
Figura 6.1.: distribuzione dei turni di parola Grazie a questa figura, si nota quindi la “ripartizione” delle responsabilità all’interno della lezione. Chiaramente, emerge immediatamente la differente presa a carico delle responsabilità: durante l’attività il docente parla quasi il doppio rispetto agli allievi. 8
L’effetto Topazio viene messo in atto quando un docente, per evitare che l’allievo compia ripetutamente degli errori, negozia verso al ribasso le condizioni del compito. Il docente esplicita molto le sue aspettative per cercare di aiutare l’allievo. Di fatto però, tende a modificare il compito stesso (Brousseau, 1986). 22 Giuliano Falconi Un altro indicatore considerato invece, riguarda l’ampiezza della partecipazione degli allievi. Osservando il grafico sottostante si rileva che si autorizzano a prendere la parola regolarmente solo una piccola porzione degli allievi. Numero di interventi -­ messa in comune 1
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
Gio De La Na
Li
Mt So Mi En Se Ma Sa
Al Aly Ali Je Sab Au Giu
Grafico 6.1: numero degli interventi degli allievi nella prima messa in comune Durante la prima messa in comune emerge che su un totale di 171 interventi, vi sono cinque allievi che più di altri, tendono a prendere la parola. Infatti, Gio, De, La, Na e Li da soli, intervengono ben 103 volte. I loro interventi rappresentano circa il 60 % degli interventi complessivi. Da notare che molti interventi, sono stati frutto dell’azione del docente che interpellava direttamente gli allievi;; saltuariamente si è trattato di interventi liberi. In sintesi, possiamo quindi affermare che un approccio simile porta l’allievo a pensare che sia il docente ad assumersi l’onere della gestione delle responsabilità (componente topogenetica) e dell’avanzamento del tempo didattico (componente cronogenetica). 23 La devoluzione e le sue implicazioni Situazione problema B Analizziamo ora cosa succede nell’ambito della seconda messa in comune. Dapprima consideriamo le dinamiche venutesi a creare all’interno dei gruppi di lavoro, che aveva lo scopo di preparare una comunicazione per la classe che spiegasse la miglior strategia. Gli allievi sono quindi informati che saranno loro ad essere i protagonisti della lezione e che questa proseguirà grazie al loro contributo. Estratto 4 (minuti 5.39 – 6.56) Diversamente da quanto è emerso in precedenza, il docente assume in questo caso una postura mimetica (Bocchi, 2015). Gli allievi si confrontano tra loro e discutono ai fini di trovare la soluzione più adeguata. Sono strettamente confrontati con il milieu e si possono osservare maggiormente le personalità degli allievi: c’è chi ascolta e parla di meno, c’è chi parla di più e che sembra abbia le redini della discussione in mano. C’è sicuramente un coinvolgimento maggiore rispetto alla prima messa in comune (tdp 22-­26) e il docente non deve intervenire per favorire l’avanzamento dell’attività. C’è un grado di devoluzione molto alto. In ognuno dei tre gruppi vi è qualche allievo che più di altri, sin da subito, ha preso in mano la situazione, ponendosi nella posizione di leader. Si noti ad esempio nell’estratto successivo come un allievo, si trovi a gestire il lavoro all’interno del gruppo. 24 Giuliano Falconi Estratto 5 (minuti 4.05 – 5.07) Evidentemente, il bambino che si assume l’onere della gestione della situazione è De e in questo senso, risulta interessante osservare il ruolo del docente che ascolta gli allievi. L’insegnante nota che De ha preso in mano le redini della discussione, ma che non tutti i compagni riescono a seguirlo con facilità. Tuttavia il docente interviene solamente due volte attraverso forme di regolazione non particolarmente rigide. Infatti, permette ai compagni di De (tdp 13) di inquadrare meglio la situazione riformulando e precisando leggermente ciò che stato detto da De. In questo modo, Mt interviene proponendo il calcolo 7 x 6. Ciò è sicuramente un aspetto molto positivo. Nei gruppi di lavoro gli allievi sembra siano in grado di organizzarsi attribuendosi o attribuendo compiti differenziati tra loro, poiché loro i punti di forza e le loro difficoltà sono conosciute. Un bambino come De, abile e senza difficoltà scolastiche particolari, tende ad affrontare il problema, e ciò lo pone ad assumere la posizione di leader all’interno del gruppo. Altri bambini invece, si ritagliano un ruolo meno partecipativo. 25 La devoluzione e le sue implicazioni Estratto 6 (minuti 8.04 – 11.10) In questo gruppo c’è un importante intervento del docente in quanto un’allieva fa fatica a farsi ascoltare da compagni. All’inizio l’insegnante ha osservato la situazione;; non è intervenuto in alcun modo, ma ha lasciato che la situazione proseguisse in maniera naturale. Poi però, valutando ciò che stava accadendo, decide di intervenire per cercare di dare credito alle idee di Mi (tdp 61-­66). Ma anche in questa occasione assume piuttosto un profilo basso. In questo senso, lasciando che siano i ragazzi a confrontarsi tra di loro in relazione al sapere, il docente crea delle condizioni di apprendimento più favorevoli. In effetti possiamo proprio constatare, che Li ed En, modificano il loro comportamento ascoltando il suggerimento di Mi e avvicinandosi a lei mentre spiega. 26 Giuliano Falconi In questo gruppo non si verifica una dipendenza da un allievo in particolare. Ciò, probabilmente permette a Mi di esporre il suo punto di vista. Inoltre, durante la presentazione della strategia risolutiva, sarà soprattutto lei, con l’aiuto di Li, a spiegare alla classe il ragionamento messo in atto. Questo è un esempio è emblematico dell’importanza che ricopre il ruolo dell’insegnante. Se si dimostra disponibile ad assumere, in determinati momenti, una posizione mimetica, crea le condizioni per un miglior coinvolgimento degli allievi.
Probabilmente gli spunti di Mi non erano sufficientemente considerati. Grazie all’intervento di sintesi dell’insegnante e senza tono d’imposizione, il gruppo accoglie la sua strategia. L’allieva si è sentita valorizzata e l’intero gruppo ne tratto beneficio. Esaminiamo ora alcuni altri estratti in relazione alla messa in comune. Estratto 7 (minuti 26.43 – 28.45) Mentre il secondo gruppo presenta la sua strategia risolutiva ai compagni, il docente (tdp 186) chiede come mai è stato effettuato un certo calcolo. Tuttavia non conduce la discussione. L’attività degli allievi nel milieu è incoraggiata, poiché la domanda posta è aperta e non condiziona gli allievi a decodificare le sue aspettative. In altre parole, l’insegnante non fa sentire le sue aspettative attraverso un effetto del contratto didattico. Infatti l’allievo deve reperire cercare i dati nelle note stese, per poter rispondere alla domanda. Chiaramente, per capire quante volte una serie si ripeteva, sarebbe stato molto più economico scrivere 234 : 13 = 18. Diversi allievi hanno invece optato per effettuare dei tentativi utilizzando la moltiplicazione, chiedendosi quante volte il numero 13 stava nel 234. Strategia del resto più che comprensibile. 27 La devoluzione e le sue implicazioni In quest’altro estratto osserviamo come ci sia un confronto tra pari. Il docente non interviene in alcun modo e Mi, forse anche grazie all’intervento precedente del docente (cfr. estratto 6) è stata in un certo senso rivalutata da Li, che solitamente assume il ruolo di leader carismatico. Estratto 8 (minuti 25.07 – 26.04) Gli allievi sono strettamente confrontati con il milieu e vi è una devoluzione del problema che permette l’instaurarsi di un’interazione fra pari. Li sta presentando alla classe la strategia risolutiva e chiede a Mi (tdp 176) un consiglio per poter proseguire la spiegazione. Mi e Li collaborano quindi tra di loro per poter offrire le migliori spiegazioni ai compagni. Un analogo atteggiamento del docente lo possiamo osservare in quest’ultimo estratto. Estratto 9 (minuti 30.14 – 31.45) Nell’ambito di questo scambio il docente interviene solo due volte (tdp 207-­209), limitandosi a rilanciare e a chiedere maggiori spiegazioni alla classe, senza nessuna intenzione di spiegare o di prendere in mano la situazione. Il ruolo del docente in questa circostanza è di porre agli allievi delle domande che permettono di generare dei conflitti cognitivi in relazione alla dimensione mesogenetica, senza assumere un ruolo decisivo. In conclusione, in base a quanto osservato, si può affermare che il docente ha avuto un ruolo di regista, limitandosi a offrire alcuni input durante la discussione tra i vari componenti dei gruppi o ponendo delle domande durante le diverse 28 Giuliano Falconi presentazioni. Dal punto di vista dell’analisi quantitativa, durante questa seconda messa in comune, emerge che su un totale di circa 3765 parole, il docente ne ha usate 1173, mentre i bambini 2592. Di conseguenza, percentualmente il docente parla per il 31,1 % del tempo della lezione. Turni di parola messa in comune 2
Parole docente: 31,1 %
Parole allievi: 68,9 %
Figura 6.2.: distribuzione dei turni di parola Nella seconda messa in comune, constatiamo che sia all’interno del lavoro di gruppo, che durante le presentazioni, ci sono quattro allievi che prendono in mano le redini della messa in comune. Ciò nonostante, rispetto alla prima messa in comune, vi è una grossa differenza. Infatti, quasi tutti gli allievi hanno partecipato sia durante la discussione di gruppo, che durante la presentazione, ciascuno portando uno specifico contributo. Numero di interventi -­ messa in comune 2
45
40
35
30
25
20
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10
5
0
Li De Gio Mi En Sab La Ma Mt Al Au Na Ali So
Sa Aly Je Giu Se
Grafico 6.2.: numero degli interventi degli allievi nella seconda messa in comune Durante la seconda messa in comune, emerge che il numero totale di 198 interventi o azioni salienti, vi sono quattro allievi che più di altri, tendono ad assumere la parola, con la differenza che non vi è 29 La devoluzione e le sue implicazioni un’imposizione da parte dell’insegnante, che invece interviene saltuariamente, come si può anche constatare dalla figura 6.2. Qui di seguito vengono accostati i due grafici per operare un confronto. Numero di interventi -­
messa in comune 1
40
30
Numero di interventi -­
messa in comune 2
30
20
20
10
0
0
Gio
De
La
Na
Li
Mt
So
Mi
En
Se
Ma
Sa
Al
Aly
Ali
Je
Sab
Au
Giu
10
Li
De
Gio
Mi
En
Sab
La
Ma
Mt
Al
Au
Na
Ali
So
Sa
Aly
Je
Giu
Se
40
Come si osserva confrontando i grafici delle due messe in comune, durante la seconda il coinvolgimento degli allievi è più allargato. Durante la prima messa in comune, il numero totale di interventi è pari a 171, mentre nella seconda è pari a 198. Bisogna però considerare che durante la messa in comune 2, e soprattutto nella fase di lavoro a gruppi, i bambini sono stati filmati solo saltuariamente e per qualche minuto, non per tutta la durata della lezione, come invece è avvenuto durante la messa in comune 1. Di conseguenza si può dedurre che il numero di interventi sull’arco dell’intera lezione sarà sicuramente maggiore rispetto al dato rilevato. Ciò detto, in entrambe le messe in comune, gli allievi che parlano maggiormente sono Li, De e Gio. Confrontando i due approcci delle messe in comune, grazie all’assunzione di una posizione mimetica dell’insegnante, si nota che gli allievi siano stati responsabilizzati di più nella seconda messa in comune, rispetto alla prima. Inoltre, se durante la prima messa in comune, gli interventi degli allievi sono stati incoraggiati continuamente dall’insegnante, nella seconda messa in comune, gli interventi degli allievi sono stati incoraggiati anche, se non soprattutto, dai compagni e dal continuo riferimento al milieu. 30 Giuliano Falconi 7. Conclusioni La ricerca aveva come obiettivo di rispondere a diverse domande. Di seguito prenderò in esame ciascuna domanda per formulare alcune considerazioni conclusive. 1) Come sono gestiti i turni di parola durante la fase di messa in comune? Durante la prima messa in comune il docente interviene per il 65,5 % della lezione, mentre nella seconda per il 31,1 %. Chiaramente, gli allievi sono più attivi durante la seconda messa in comune, durante la quale sono attori dei propri apprendimenti. Durante la prima messa in comune il docente ha gestito i turni di parola e ha interpellato gli allievi che aveva intenzione di ascoltare, dando luogo a una modalità di conduzione che risponde piuttosto alla logica della tripletta. Evidentemente, in quest’occasione la sua azione è stata caratterizzata da una bassa devoluzione, conducendo la lezione in modo determinante. Per quanto concerne la seconda messa in comune, si nota invece che gli allievi sono stati molto più liberi nel prendere parola. Il docente non ha mai richiesto a nessuno di parlare, ma ha attribuito una grande parte delle responsabilità agli allievi, favorendo nel contempo la loro azione nel milieu. In questo senso, si può sicuramente evidenziare la possibilità di mettere in atto una messa in comune devolvendo una maggiore responsabilità agli allievi. Chiaramente però, i rischi che si corrono sono due: i) le redini dell’attività vengono prese dagli allievi più avanzati, creando quindi una devoluzione delle responsabilità all’interno degli stessi gruppi di lavoro. ii) gli allievi permangono in una situazione d’incertezza che non permette loro di evolvere. Di conseguenza, ci si può chiedere fino a che punto è stato davvero opportuno lasciare la responsabilità agli allievi di portare avanti la lezione. Non bisogna dimenticare che il processo di devoluzione deve articolarsi con il processo di istituzionalizzazione. Ciò significa che il docente in certi momenti deve prendere maggiormente in mano le redini della lezione, diminuire l’incertezza degli allievi e condurli verso la scelta della giusta strategia. Malgrado ogni docente abbia una sua personalità e una sua percezione quando lavora sul campo, malgrado ognuno possa scegliere di agire diversamente, di dire qualcosa in più o qualcosa di meno, i risultato dimostrano che in questa delicata fase, è possibile devolvere buona parte delle responsabilità agli allievi. Detto altrimenti, benché non esista una ricetta precisa, si può sostenere che coinvolgere gli allievi in modo più robusto, li aiuti a costruire apprendimenti che possono integrarsi con le vecchie conoscenze. Di conseguenza si può ritenere che il processo di istituzionalizzazione più efficace è quello in cui vi è maggiore devoluzione delle responsabilità agli allievi. 31 La devoluzione e le sue implicazioni 2) In che modo gli allievi (quali allievi) contribuiscono allo sviluppo della messa in comune? Durante entrambe le messe in comune gli allievi contribuiscono a far avanzare queste fasi, ma con modalità diversa. Nella prima messa in comune gli allievi sono messi nella condizione di rispondere a domande piuttosto chiuse, definite illegittime (Von Foerster, 1987). In questo modo, questi ultimi sono incoraggiati a decodificare le aspettative dell’insegnante, in virtù del contratto didattico che viene forzato in modo eccessivo. Ciò non permette loro di effettuare un lavoro specifico nel milieu. Diversamente, nella seconda fase di messa in comune, l’insegnante devolve la maggior parte delle sue responsabilità agli allievi, effettuando pochi interventi e soprattutto ponendo domande aperte (legittime) che inducono a riflettere. In questo senso, gli allievi contribuiscono maggiormente all’avanzamento della lezione. In particolare sviluppano la loro azione nel milieu, che grazie all’interazione con i compagni, evolve continuamente. Benché in entrambi i casi gli allievi permettono il prosieguo della lezione, ciò che cambia è lo “stimolo” che li porta a dare il proprio apporto: da una parte le domande incalzanti del docente che devono continuamente essere decodificate, dall’altra il milieu e l’interazione tra pari che ha come scopo quello di presentare ai compagni degli altri gruppi la strategia risolutiva. Evidentemente, le condizioni che caratterizzano la seconda situazione didattica, risultano essere più interessanti. In effetti, benché gli allievi cronogenetici, cioè quelli che fanno avanzare il tempo didattico, siano sostanzialmente gli stessi, si assiste a un allargamento della partecipazione. Ciò significa che anche alcuni allievi che non avevano contribuito allo sviluppo della prima messa in comune, nell’ambito della seconda si autorizzano a prendere la parola e danno il loro contributo alla definizione delle strategie di risoluzione del problema. 3) Come si sviluppano le dinamiche topogenetiche? Ovvero come evolvono le posizioni dell’insegnante e degli allievi durante la fase di messa in comune. In base alle precedenti riflessioni, è evidente che durante la prima messa in comune, le posizioni degli attori non cambiano praticamente mai, a parte in quei pochi casi in cui il docente invita gli allievi alla lavagna. Il docente è al centro dell’attenzione e gli allievi assumono un ruolo poco partecipativo. Considerato che pochi allievi seguono i suoi ragionamenti, l’azione del docente diventa molto ridondante. In questo senso, il docente riduce le possibilità per gli allievi di elaborare le conoscenze e trasformarle. Durante la seconda messa in comune vi è un ribaltamento dell’approccio che consente di passare da un modello trasmissivo a uno trasformativo. Ciò porta gli allievi ad essere strettamente confrontati con il milieu, all’interno di una situazione a-­didattica, che 32 Giuliano Falconi permette loro di “trasformarsi”. Tuttavia, solo una parte degli allievi riesce ad assumere un ruolo piuttosto attivo. Una parte degli allievi “resiste” alla possibilità di assumere delle iniziative. Grazie a certi interventi dell’insegnante, tendenti a valorizzare le idee di qualche allievo meno avanzato, questa situazione viene però almeno in parte contrastata. Come si vede, il docente, pur attraverso un atteggiamento decentrato (postura mimetica), mantiene un ruolo ancora fondamentale, ovvero quello di mediare il confronto tra alcuni allievi e di intervenire laddove ve ne fosse la necessità, valorizzando i bambini e assumendo un atteggiamento più attento alla dimensione relazionale tra gli allievi stessi. Non a caso Giorgio Blandino (2002) afferma che il docente deve saper effettuare un lavoro psicologico, un lavoro di “gestione delle relazioni”. Concludendo, posso affermare che è stato molto interessante condurre una ricerca di questo tipo, soprattutto in relazione ad un bisogno formativo del sottoscritto. Personalmente, non credevo che attraverso un’analisi fine, avrei potuto cogliere le informazioni che ho ricavato. Dopo questa ricerca mi sento molto più conscio delle ripercussioni che ogni nostra frase, parola, gesto o movimento può avere verso i nostri allievi. Diverse teorie sostengono che la fase di messa in comune, essendo particolarmente delicata, debba perlopiù essere gestita dall’insegnante. Ebbene, credo di poter affermare con sicurezza, che questo dipenda dal tema in questione, dagli allievi stessi e soprattutto dall’agire dell’insegnante. Per quanto concerne il lavoro effettuato, sono consapevole che si tratti prevalentemente di un’indagine di tipo qualitativo comprendente uno studio di un caso. Effettuare delle conclusioni assolute da questo lavoro non è possibile. Tuttavia, le dinamiche che ho descritto mostrano una tendenza che dovrebbe incoraggiare gli insegnanti a interrogarsi sulle modalità con cui sviluppare le messe in comune. Personalmente, credo sarebbe utile proporre un seguito a questa ricerca allo scopo di irrobustire i risultati qui evidenziati. La questione dell’articolazione dei processi di devoluzione/istituzionalizzazione nell’ambito della messa in comune rimane di stretta attualità. In particolare, sarebbe interessante riflettere sulla possibilità di creare le condizioni affinché tutti gli allievi esprimano un proprio punto di vista, evitando che qualcuno non si esponga completamente e che qualcun altro si sobbarchi l’intero compito. Come ben si comprende il ruolo del docente assume tutta la sua importanza nella gestione di questi equilibri. 33 La devoluzione e le sue implicazioni 34 Giuliano Falconi 8. Riferimenti bibliografici Allard, J. (1995). Resolution de problèmes, une valse a trois temps. Math-­Ecole,170, 11-­15. Bachelard, G. (1934). Le nouvel esprit scientifique. Paris: Les Presses Universitaires de France. Bautier, E. & Goigoux, R. (2004). 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