MODULO 1 . Le basi biologiche ei processi cognitivi

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MODULO 1 . Le basi biologiche ei processi cognitivi
MODULO 1 n Le basi biologiche e i processi cognitivi
Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 1, Le basi biologiche e i processi cognitivi, in
particolare all’unità didattica 4, L’attenzione, la memoria e il linguaggio; tuttavia può collegarsi anche alle tematiche affrontate nel modulo 14, La psicologia del lavoro.
FINESTRA
LA CAFFETTIERA DEL MASOCHISTA
Donald Norman è uno dei maggiori studiosi americani di psicologia
cognitiva: ha svolto importanti ricerche sul funzionamento della memoria e dell’attenzione e ha lavorato
anche per la Apple. Attualmente, oltre che dei processi cognitivi, si occupa di disegno industriale e studia
gli oggetti e la loro ergonomia (cioè
le condizioni e l’ambiente di lavoro
perché si adattino alle esigenze psicofisiche del lavoratore). Nell’ambito di tali ricerche ha messo sotto accusa, in un libro che porta lo stesso
titolo di questa lettura, il cattivo design e il “perverso” funzionamento di
molti oggetti d’uso quotidiano.
“Ho parlato con molte persone che
non riuscivano a usare tutte le funzioni delle loro lavatrici o macchine fotografiche, che non sapevano far
funzionare un videoregistratore o la
macchina da cucire e che sistematicamente accendevano il fuoco sbagliato sul piano di cottura. Perché
non la facciamo finita con la frustrazione degli oggetti d’uso quotidiano, con apparecchi che non si riesce a capire come funzionano? […]
Ho raccolto tra migliaia di oggetti
con i quali abbiamo a che fare tutti i
giorni, esempi di buona e cattiva
progettazione, che illustrano perché
l’interazione tra l’uomo e le cose a
volte va bene ma più spesso va male. […] Prendiamo le maniglie di
una portiera di automobile, per
esempio. C’è una varietà di forme e
dimensioni che lascia stupefatti. Le
maniglie esterne, nella grande maggioranza delle auto moderne, sono
esempi di eccellente design: spesso
incassate nella portiera, indicano a
prima vista il da farsi, non essendoci
altro modo di usarle che introdurre
le dita nell’incavo e tirare. Abbastanza stranamente, le maniglie per
aprire la portiera dall’interno sono
tutta un’altra storia. Qui i problemi
che si presentavano ai progettisti
erano diversi, tant’è che la soluzione migliore non si è ancora trovata.
[…] Prima di passare alla costruzione di un oggetto d’uso il progettista
deve elaborarne un modello concettuale che sia alla portata degli utenti, che individui gli elementi importanti del funzionamento e sia chiaramente leggibile per chiunque. […] I
comandi degli apparecchi d’uso
quotidiano dovrebbero essere semplicissimi, richiedendo uno sforzo
mentale minimo. Quando le operazioni diventano inutilmente complicate, si può ricorrere alla tecnologia
per ristrutturare il dispositivo e semplificarne il funzionamento. Ma l’intervento della tecnologia può essere
una trappola. […] I telefoni, per
esempio, una volta erano di una
semplicità meravigliosa. Quello che
mi trovo oggi sulla scrivania, invece,
ha 24 funzioni, alcune delle quali
non ho mai imparato ad usare. Non
è solo questione di numero: la mia
automobile di funzioni ne ha circa
11, ma nessuna di queste mi ha mai
dato problemi. Perché il telefono è
tanto più difficile da imparare? La
ragione in parte sta nel rapporto fra
comandi (leve, pulsanti, quadranti
ecc.) e numero di funzioni. II mio apparecchio telefonico ha solo 15 pulsanti per 24 funzioni: ogni pulsante
può attivarne più di una. L’automobile, invece, salvo rare eccezioni, ha
un solo comando per ciascuna funzione. […] Non dimentichiamolo, le
difficoltà di questo genere ci riguardano tutti. Di recente, un collega
dell’università, che insegna scienza
dei computer, mi mostrava tutto fiero
il suo nuovo riproduttore di CD,
completo di telecomando. Il modulo
del telecomando aveva un piccolo
anello sporgente a un’estremità. Il
mio amico mi raccontò che da principio aveva preso questo anello per
un’antenna, e aveva sempre cercato
di puntarlo verso l’apparecchio. Purtroppo in quel modo il telecomando
funzionava a malapena. Solo più
tardi aveva scoperto che l’anello
non era altro che un anello per appendere l’oggetto quando non lo si
adoperava. Per settimane, aveva
continuato a puntare contro se stesso il telecomando, vittima inconsapevole della battaglia contro il cattivo design”.
(Tratto da: Donald Norman,
La caffettiera del masochista,
“Psicologia contemporanea”,
n. 102, nov.-dic. 1990,
pp. 58-63).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– A livello cognitivo, perché un cattivo design rende difficile l’esecuzione di compiti, tutto sommato, semplici? (Fai
riferimento in particolare a quanto studiato a proposito del funzionamento dell’attenzione e della memoria).
– Come incide, a livello ergonomico, l’uso di oggetti progettati secondo un “cattivo” design?
– Quali motivi spingono i progettisti a realizzare oggetti inutilmente complicati?
Esamina la funzionalità delle maniglie degli sportelli di alcune marche di automobili. Serviti anche di alcune interviste agli utenti. In base ai dati raccolti, stila poi una “classifica” della loro funzionalità (questa attività può essere svolta anche da più allievi, come lavoro di gruppo).
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MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare
all’unità didattica 1, Le “topiche” della teoria psicoanalitica.
CASO
LA PREISTORIA DELLA PSICOANALISI: IL CASO DI ANNA O.
Alla fine dell’Ottocento Sigmund
Freud e Joseph Breuer pubblicano insieme Studi sull’isteria (1893-1895).
Il testo contiene alcuni scritti teorici e
l’esposizione di cinque casi clinici,
quattro di Freud e uno di Breuer. Qui
prendiamo in considerazione il caso
di Anna O., trattato da Breuer.
Questo caso suscita in Freud una
profonda impressione, tanto che egli
ne parla in diverse occasioni e lo
considera come il punto di partenza
della psicoanalisi. Breuer cura la paziente con l’ipnosi, attraverso il metodo catartico. Il medico si accorge
che i sintomi della paziente insorgono in particolari situazioni in cui ella
è preda di forti emozioni che turbano
il suo stato di coscienza. Gli episodi
vengono dimenticati e al loro posto
insorge un sintomo. Il sintomo si ripete in diverse situazioni e, solo se si
riesce a rintracciare la situazione originaria, esso scompare. Rivivendo tali episodi, infatti, la ragazza riesce a
dare sfogo a sentimenti, a suo tempo
repressi, e tutto ciò ha su di lei un effetto liberatorio.
Nel dicembre del 1880 Anna O.,
una giovane donna, paziente di Joseph Breuer, si ammala di isteria mentre sta curando il padre gravemente
ammalato. Tale malattia, definita da
Freud isteria di conversione (in quanto il disagio psicologico, le emozioni
trattenute, di un paziente fisicamente
sano, si esprimono – si convertono –
in uno o più sintomi corporei simili a
quelli delle malattie organiche), si
manifesta con svariati sintomi come
dolore alla parte posteriore della testa, disturbi visivi, contratture agli arti.
Anna ha anche crisi di rabbia a cui
seguono delle “assenze” con vuoti di
memoria e stati di sonnolenza. Duran-
te tali stati, Anna, talvolta, borbotta
delle parole che Breuer si fa ripetere.
Il medico ha allora l’idea di condurre
in stato ipnotico la ragazza ripetendole tali parole. Anna, allora, riesce
a raccontare le fantasie avute nei periodi di assenza, storie tristi e poetiche in qualche modo collegate alla
sua situazione. Dopo la seduta ipnotica, la paziente sta meglio. Anna,
che è una ragazza intelligente, mostra di capire il senso di tale cura che
definisce con le espressioni inglesi
talking cure (cura parlata) e chimneysweeping (spazzare il camino).
Dopo la morte del padre, molto amato, la condizione della ragazza si aggrava. Quando il padre era malato,
ma vivo, la paziente appariva dissociata, come se in lei fossero presenti
due persone diverse: una gentile e
l’altra scorbutica, quasi malevola.
Ora che il padre è morto, la sua parte sana vive nel tempo presente e l’altra, che è la personalità malata, si
comporta come se vivesse un anno
prima rispetto al tempo reale. In entrambi i casi, Anna è consapevole
della morte del padre. Tra i sintomi
isterici compare un’inspiegabile forma
d’idrofobia; Anna non riesce a portare la minima quantità d’acqua alla
bocca e per dissetarsi (siamo nel periodo estivo) si nutre di frutta e di meloni. Solo dopo sei settimane riesce a ricordare, in una seduta ipnotica, di
aver visto nella stanza della sua odiata dama di compagnia inglese un cagnolino, una bestiola ripugnante di
proprietà della dama, bere in un bicchiere. Per educazione è stata zitta,
ma ora, dopo aver rivissuto l’evento,
Anna sfoga tutta la sua rabbia (tale
processo è denominato abreazione) e
beve finalmente la sua acqua.
Anna migliora, ma la sua terapia non
viene conclusa, in quanto la giovane
donna parte da Vienna per un viaggio e, comunque, passa del tempo
prima che ritrovi il suo pieno equilibrio. Breuer è convinto che l’isteria,
pur presentando delle dinamiche psicologiche, sia essenzialmente una
malattia nervosa. Freud considera più
importanti gli eventi traumatici di natura psicologica vissuti dalla paziente
e, in uno scritto del 1896, afferma
che l’isteria ha origini più profonde rispetto ai traumi evocati con il procedimento catartico. Ormai Freud abbandona il metodo ipnotico elaborando
un proprio metodo personale che gli
consente di ricostruire il passato del
paziente fino a riportare alla luce i vissuti traumatici di natura sessuale risalenti all’infanzia. Le emozioni provate
dal paziente sono spesso fatte risalire
a episodi ingigantiti, o addirittura inventati, dalla fantasia del nevrotico,
ma confermano che la malattia trova
la sua origine nei vissuti infantili.
Sappiamo dal biografo di Freud, lo
psicoanalista inglese Ernst Jones
(1879-1958), che la terapia è interrotta prima della guarigione perché Anna sviluppa una gravidanza isterica.
Breuer, a cui sono ignoti i meccanismi
del transfert, scoperti poi da Freud, decide di non insistere nella cura e affida
la paziente a un altro medico.
(Il caso di Anna O. si trova in:
J. Breuer, S. Freud, Casi clinici 1, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 13-41).
gravidanza isterica
un fenomeno isterico per cui il corpo
del soggetto presenta le manifestazioni di una gravidanza non reale
ma inconsciamente desiderata
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Perché il testo è “etichettato” come “la preistoria della psicoanalisi”? In cosa esso non è ancora psicoanalisi e,
invece, quali elementi anticipa di questa teoria?
– In che modo il transfert della paziente ostacola il procedere della terapia?
– In che modo poteva essere utilizzato dalla terapia tale processo transferale?
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MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare
all’unità didattica 3, La psicologia individuale, la psicologia analitica e la scoperta del corpo.
CASO
IL DIARIO DI CHIARA
Il diario di Chiara costituisce il primo
volume di un’opera rimasta incompleta. Questa prima parte s’intitola
“L’arte di leggere una vita e la storia
di una malattia” ed è pubblicata nel
1928. Adler viene in possesso del
diario di Chiara attraverso un amico
scrittore. Lo psicologo, dopo averlo
sintetizzato, lo arricchisce di un proprio commento e lo utilizza per una
serie di lezioni tenute durante il suo
soggiorno negli Stati Uniti. Di questo
diario non esiste nessuna documentazione, se non nell’opera di Adler.
Chiara è una giovane viennese, figlia di un sarto di modestissima condizione, precipitato in miseria durante la prima guerra mondiale. Dopo
alcuni tentativi letterari sul versante
del racconto amoroso a sfondo erotico, Chiara decide di scrivere un
diario autobiografico. Il diario inizia
con i primi, veri o presunti, ricordi infantili e arriva fino alla morte del padre, avvenuta poco prima che Chiara compia diciotto anni.
Il racconto è intercalato dai commenti di Adler. Non si tratta quindi
di un resoconto di una serie di sedute psicoanalitiche, bensì di un testo
commentato.
Attraverso la sua lettura si ha modo
di ricostruire lo sviluppo di una nevrosi ossessiva grave. Vi sono molti
elementi tipici che fanno parte dell’analisi individuale: la ragazza è di
salute cagionevole e presenta, quindi, una certa inferiorità organica.
Viene viziata dai genitori, in particolare dal padre e man mano che
cresce attira sempre più su di sé l’attenzione con sintomi sempre più
gravi, “tiranneggiando” con la sua
“volontà di potenza” l’intero gruppo
familiare. La strumentalizzazione
degli altri diviene il suo “stile di vita”
nevrotico. Le sue storie sentimentali
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sono prive di affettività e hanno solo
lo scopo di soddisfare il proprio narcisismo, di farsi bella con le amiche. Solo la morte del padre sembra adombrare in Chiara la prospettiva di un mutamento psicologico verso il “sentimento sociale”. Riportiamo alcuni brani del diario, avvertendo che la parte non in corsivo
è il commento di Adler.
“Mi ricordo che mio padre mi domandava spesso…”
Il padre, e perché non la madre? La
parola padre ha un significato particolare: questo bambino – una bambina – ragazza era molto più attaccata al padre che non alla madre.
“Stai bene? Hai male da qualche
parte?”
Certamente un padre molto tenero e
che viziava sua figlia. La nostra
esperienza dei vecchi ricordi d’infanzia ci fa pensare che questa ragazza abbia avuto un’infanzia molto viziata: sospettiamo che lei non
cercherà in seguito che di mantenere questo stato, che lei tenterà sempre di essere al centro dell’attenzione. Insorgeranno delle difficoltà ogni
volta che una simile bambina incontra delle altre persone…
“Per dir la verità io non mi sono
mai sentita bene”.
Non dobbiamo prendere alla lettera le affermazioni dei nostri pazienti… Questo ragguaglio significa
semplicemente: sono stata una
bambina malata.
“Mio padre mi aveva raccontato
che la mia vita era stata sospesa
a un filo… non avevo mai appetito, non riuscivo a inghiottire nulla.
Non trovando alcun gusto nei cibi
masticavo lungamente ogni boccone, come se si fosse trattato di
carta o erba… Nel nostro stabile
c’era un negozio di carbone appartenente a un’anziana coppia.
Ci andavo ad accatastare la legna e mi facevo servire un pasto.
Da loro mangiavo volentieri tutto
quello che a casa non avrei mai
accettato di assaggiare, come
crauti o canederli per esempio”.
Il rifiuto del cibo rappresenta un tentativo per attirare l’attenzione su di
sé, manifestando la propria opposizione in una funzione che sembra
importante.
“Il mercante di carbone mi chiedeva chi avrei sposato. Io rispondevo sempre: ’Mio papà’”.
Ci si potrebbe vedere un atteggiamento incestuoso; ma se si considera il modo in cui, per molti anni,
questa ragazza non ha saputo nulla
sui rapporti sessuali, non ne ha voluto sapere niente e se ne è difesa – e
questo poi in un ambiente in cui l’attenzione per l’uomo non era affatto
negativa –, si può dire che quest’idea del matrimonio è resa possibile
soltanto dal fatto che ci sono altre
cose, non sessuali, in questo rapporto con il padre.
“Quando ero cattiva la mamma mi
minacciava che avrebbe ordinato
un fratellino o una sorellina alla cicogna e io allora gridavo: ’Fallo
pure, lo scaraventerò fuori!’”.
Qui si manifesta in modo evidente
una gelosia scatenata dal desiderio
di potere.
Lo sviluppo psicosessuale di Chiara
è problematico perché ha grandi
difficoltà a identificarsi nel ruolo
femminile: la ragazza racconta di
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La scoperta dell’inconscio
un corteggiamento di cui è oggetto,
verso i sedici anni, che le provoca
una forma di grande disgusto verso
se stessa e una sorta di furore verso
il giovane corteggiatore. Nel diario
sono presenti anche fantasie sessuali di ogni tipo: una considerazione
narcisistica per il proprio corpo, delle fantasie omosessuali transitorie,
delle fantasie sadiche, e così via.
L’aspetto più preoccupante di Chiara è però l’atteggiamento sempre
più tirannico verso i genitori e la sorellastra Lina, la figlia di prime nozze della madre. Questi episodi di
prepotenze, accompagnati a volte
da collere incontenibili, nascono
spesso dalle infrazioni che i genitori
involontariamente compiono rispetto
a una sorta di rigidissimi rituali ossessivi a cui tutti si devono assoggettare. Questa situazione si protrae,
in una sorta di crescendo terrificante, fino ai diciassette anni, età in cui
Chiara si costruisce un mondo tutto
fatto di proibizioni, di persone infette da evitare, e così via.
“Un giorno mia madre fece il gulasch e, nonostante fosse di cavallo, ero molto contenta. Ma, mentre stava riempiendo il mio piatto,
sfiorò per caso la spalliera di una
sedia, dove si era seduta poco
tempo prima una persona proscritta. Montai allora terribilmente in
collera e rifiutai di toccare il gulasch, cosa che rese mia madre così furiosa che lanciò per terra la
pentola con tutto il suo contenuto.
Non toccai più i piatti, le tazze o
le posate che fossero state utilizzate da una di queste persone
che io temevo. Mamma doveva
sistemarli in un posto speciale, separati dagli altri, perché io potessi in ogni momento riconoscere
che mi erano interdetti […] Per
evitare qualsiasi contatto con le
persone che mi erano sospette, o
con quelli che temevo potessero
far parte di questa categoria, mi
ritiravo nella mia cameretta. Ma
avevo impressione che il malocchio che io loro attribuivo passasse attraverso la parete divisoria
per portarmi sfortuna, così mi mettevo a letto, sprofondandomi sotto
le coperte…”.
Lei appare ancora una volta superiore nella sua ossessione della stessa
pulizia: lei è l’unico essere puro del
suo mondo, tutto il resto è sporco.
Abbiamo anche qui il parallelo del
conscio e dell’inconscio. Nell’inconscio l’aspirazione alla superiorità a
buon mercato, come sempre nei
bambini viziati; nel conscio la semplice repulsione nei confronti della sporcizia degli altri. È proprio in questa
occasione che la paziente, anche
senza averci prestato attenzione, è
la sola a trovarsi pura e superiore.
“Talora, quando la paura mi aveva svegliata, mi veniva in mente
la mia età e pensavo: ’Ah! Quanto sarebbe bello essere appena
nata!’“.
I pensieri evocati qui concernono
chiaramente i problemi dell’amore,
per il quale lei non si sente preparata, in conseguenza dei suoi esagerati pensieri di dominio. Lei getta allora un colpo d’occhio indietro sui
tempi paradisiaci dei suoi primi anni
di bambina viziata, durante i quali
possedeva un potere assoluto e senza limiti e non si doveva confrontare
con nessun nuovo problema.
Finita la scuola Chiara trova un lavoro che però abbandona prestissimo,
continuando a vivere a carico dei
genitori oramai incapaci di smettere
di viziare la loro bambina divenuta
adulta. Solo alla fine del racconto la
giovane sembra aver recuperato, almeno in parte, un certo sentimento
sociale e considera le disgrazie e la
malattia del padre il problema più
importante anche per lei.
(Il diario di Chiara si trova in:
A. Adler, La tecnica della psicologia
individuale, Newton Compton,
Roma 2005, pp. 35-178).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Quali esperienze favoriscono un atteggiamento sempre più tirannico di Chiara verso i genitori e la sorellastra
Lina?
– Come possono essere spiegati i rituali ossessivi di Chiara?
– Perché la personalità di Chiara può essere definita narcisistica?
– Come riesce Chiara a superare parzialmente la sua nevrosi?
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MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare
all’unità didattica 3, La psicologia individuale, la psicologia analitica e la scoperta del corpo.
CASO
IL SOGNO DELLA CASA DI JUNG
Jung riporta questo sogno in Ricordi,
sogni, riflessioni, un’autobiografia
scritta dopo gli ottanta anni, poco
prima della morte. Lo psichiatra non
indica la data del sogno, ma esso è
da collocarsi, presumibilmente, in
un periodo in cui è già avvenuto il
suo distacco da Freud e Jung ha già
iniziato a esplorare il proprio inconscio venendo a contatto con le fantasie e le immagini simboliche dell’inconscio collettivo. Lo scienziato è
in una fase cruciale del proprio processo di “individuazione” ed è impegnato a scoprire come aiutare le
“anime” (dei pazienti), compito che
il padre protestante non è riuscito a
svolgere adeguatamente con le
“anime” dei propri fedeli. Per realizzare tale scopo Jung deve anche
emanciparsi dalla tutela di un padre
spiritualmente grande, ma oppressivo nei riguardi della sua creatività:
Sigmund Freud. Il sogno dell’esplorazione di una casa misteriosa e inquietante indica la strada di questo
processo di individuazione mediante immagini e atti che assumono un
elevato senso simbolico.
“Sognai di nuovo che la mia casa
aveva una grande ala annessa, nella quale non ero ancora mai stato.
Mi risolvevo a andarci, e finalmente
vi entravo: giungevo a una grande
porta a due battenti, l’aprivo, e mi
trovavo in una stanza dove era installato un laboratorio. Di rimpetto
alla finestra vi era un tavolo pieno
di molti vasi di vetro e di tutte le dotazioni di un laboratorio zoologico.
Era la stanza da lavoro di mio padre, ma egli non c’era. Alle pareti vi
erano scaffali contenenti centinaia
di recipienti di vetro con dentro
ogni specie immaginabile di pesci.
Ero sbalordito: ’Così adesso mio
padre si occupa d’ittiologia!’.
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Stando lì, e guardandomi intorno,
notavo una tenda che di tanto in tanto ondeggiava. […] Allora andavo
io stesso e trovavo una porta che
conduceva nella camera di mia madre. Non c’era nessuno. L’atmosfera
era inquietante, la stanza era molto
grande e sospese al soffitto c’erano
due file di cinque casette ciascuna a
circa due piedi dal pavimento. Sembravano piccole casette da giardino
di circa due metri quadrati di superficie, e ognuna conteneva due letti.
Capivo che questa era la stanza
dove mia madre – che in realtà era
morta da molto tempo – era visitata
dagli spiriti, e che aveva preparato
questi letti perché essi vi dormissero.
Erano spiriti che giungevano a coppie, coppie di sposi spettrali, per
così dire, che vi trascorrevano la
notte, o anche il giorno.
Di fronte alla stanza di mia madre
c’era una porta; l’aprivo ed entravo
in una vasta sala che mi ricordava
la hall di un grande albergo, era arredata con poltrone, tavolini, colonne e tutto il fasto solito in un simile
luogo. Una banda di ottoni suonava rumorosamente; avevo sempre
sentito la musica sullo sfondo, ma
senza sapere da dove proveniva.
Nella hall non vi era nessuno, eccetto la banda, che suonava motivi di
danza e di marce.
La banda degli ottoni nella hall allude a un’ostentata gaiezza e mondanità. Nessuno avrebbe sospettato
che dietro questa chiassosa facciata ci fosse l’altro mondo, proprio
nello stesso edificio. La hall del sogno era, per così dire, una caricatura della mia bonomia, o giovialità
mondana. Ma questo era solo l’aspetto esteriore; dietro si nascondeva qualcosa di ben diverso, che
non poteva essere indagato con il
fragore della banda: il laboratorio
dei pesci e le casette sospese degli
spiriti. Erano entrambi dei posti impressionanti nei quali dominava un
misterioso silenzio. Avevo la sensazione che ivi fosse il regno della notte, mentre la hall rappresentava il
mondo della luce del giorno, con la
sua superficiale mondanità”.
A proposito delle casette sospese
nella stanza della madre, Jung si ricorda di aver visto in Kenia, e lo
mette in nota a questo sogno, delle
cosiddette trappole per gli spiriti,
che sono delle piccole casette in cui
la gente colloca dei piccoli letti e
mette cibo. In tale trappola, gli spiriti, secondo la credenza, trascorrono la notte, per tornare poi, prima
dell’alba, nel bosco di bambù, che
è la loro vera dimora.
“Le immagini più importanti nel sogno erano la stanza di soggiorno
degli spiriti e il laboratorio dei pesci.
La prima esprimeva, in un modo
piuttosto farsesco, la coniuctio. Il secondo indicava il mio pensiero rivolto al Cristo che è egli stesso il pesce, ’iktus’ (che, in greco antico, significa pesce).
Si trattava di due argomenti intorno
ai quali mi sarei affaticato per più
di un decennio. È da notare che
l’affaccendarsi con i pesci era attribuito a mio padre: nel sogno egli
era un curatore di anime cristiane
che, secondo un’ antica tradizione,
sono i pesci presi nella rete di Pietro. È anche degno di nota che nel
sogno mia madre apparisse come
custode di anime dei defunti. Così,
tutti e due, i miei genitori, apparivano incaricati della cura animarum
(= cura delle anime), che in effetti
era veramente compito mio.
Qualcosa era rimasto incompleto e
perciò si trovava ancora latente nel-
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La scoperta dell’inconscio
l’inconscio e quindi riservato per il
futuro. Infatti non avevo ancora assolto il compito principale dell’alchimia: la coniunctio. E così non avevo
risposto alla domanda che l’anima
cristiana mi poneva”.
Tutto nel sogno di Jung riguarda
Jung e rappresenta un suo aspetto:
la casa, o meglio la parte sconosciuta della propria casa, la hall fragorosa dell’albergo, la musica, lo
studio del padre, il silenzio che la
abita, la stanza della madre, le casette degli spiriti appese al soffitto
della stanza della madre, la loro coniunctio, cioè unione coniugale. La
coniunctio allude anche a un simbolo dell’alchimia, un’antica disciplina
non scientifica che anticipa la chimica. Jung studia l’alchimia perché in
essa scorge simboli affini alle pro-
duzioni dell’inconscio collettivo, come la religione e i miti.
Il sogno di Jung deve fare i conti
con il passato, deve comprendere il
doppio lascito paterno e materno.
“Il ricordo di mio padre è quello di
un uomo che soffre, colpito da una
ferita come Amfortas, un re pescatore, la cui ferita non voleva guarire.
La sofferenza cristiana per la quale
gli alchimisti cercavano la panacea. Io, come un folle Parsifal, ero il
testimone di questa malattia negli
anni dell’infanzia. E, come Parsifal,
mi mancava la parola: avevo solo
delle vaghe intuizioni”.
Il padre di Jung è un pastore protestante probabilmente tormentato dal
dubbio circa la propria fede religiosa. Egli non riesce a compiere una
sintesi, una coniunctio, tra la fede e il
dubbio e la sua anima è ferita. Questo spiega il riferimento simbolico del
sogno alla leggenda del Re pescatore (inteso come pescatore di anime)
Amfortas ferito da una lancia nel
ventre (il luogo degli istinti), ferita che
nessuno riesce a guarire. Solo l’eroe
Parsifal (nel sogno Jung stesso), il puro folle, cioè audace e privo di pregiudizi, riesce a guarirlo e a operare
un ricongiungimento, una coniunctio
come quella degli sposi spettrali presenti nella camera materna, tra sensualità e spiritualità. Allo stesso modo Jung deve mantenere unita l’esigenza di rimanere fedele a se stesso
e al padre spirituale, Freud.
(Il sogno della casa si trova in:
C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni,
Rizzoli, 1978, pp. 258-262).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Quale valore simbolico assume la casa per Jung?
– Individua i vari simboli presenti nel sogno e il loro possibile significato.
– Quale potrebbe essere il significato generale del sogno di Jung?
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MODULO 4 n Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 4, Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale,
in particolare l’unità didattica 2, Ciclo vitale e ambiente sociale.
CASO
LA SIGNORA ANTONIA
La signora Antonia ha 76 anni, è
vedova da sei mesi e ha solo un figlio sposato che abita in un quartiere popolare di una città abbastanza
grande, capoluogo di provincia,
dove la donna si è trasferita due
mesi dopo la morte per infarto del
marito. In precedenza la signora
abitava in un piccolo comune, a
una ventina di chilometri dal figlio,
in una casetta in campagna dove si
occupava insieme al marito, oltre
che dell’andamento familiare, di un
piccolo orto e di un pollaio. La signora soffre di artrosi, ma questo
non le impediva, quando il marito
era in vita, di aiutarlo nel lavoro e
di vivere serenamente.
Dopo la morte del marito, Antonia vive per qualche mese da sola, ma a
seguito di una brutta influenza che la
costringe per diverso tempo a stare
a letto, ha un deperimento organico
che le fa perdere parzialmente l’autonomia e accentua lo stato depressivo che si era cominciato a manifestare dopo la morte del coniuge. Il figlio decide allora di prenderla con
sé in modo definitivo, trasferendola
nella propria abitazione dove Antonia può usufruire di una stanza per
sé. Il figlio Carlo e la nuora Emilia
sono operai e lavorano dalla mattina presto fino a sera; solo Carlo, lavorando vicino casa, ha il tempo di
tornare a casa nella pausa pranzo. I
coniugi hanno un bambino di nove
anni che frequenta una scuola media a tempo prolungato e torna a
casa alle 16,30. Il fatto di stare sola
in casa per molto tempo non aiuta
Antonia a recuperare la propria autonomia, inoltre la donna vive una
condizione di disagio e di emarginazione in quanto non avendo nulla
da fare si sente inutile ed è convinta
di essere malata. In effetti, una sintomatologia non manca: Antonia ha
poco appetito, dorme poco e solo
con sedativi, soffre di stitichezza ed
evacua solo con purganti. Antonia
fa fatica a camminare e trascorre
molte ore a letto nella sua stanza,
esce solo per mangiare su insistenza
dei familiari. La signora richiede aiuto anche per andare in bagno e trascura la propria igiene personale;
inoltre è divenuta lamentosa, fa un
uso disordinato dei farmaci prescritti
dal vecchio medico di famiglia e richiede continuamente l’attenzione
dei familiari, quando sono in casa.
Preoccupato dalla situazione, Carlo
si rivolge ai servizi sociali.
Il primo colloquio avviene con l’assistente sociale a cui Carlo espone la
situazione. L’assistente ne parla con
un tecnico dei servizi, esperto nel lavoro con gli anziani, che acquisisce
una maggiore conoscenza della situazione con una visita domiciliare
nel corso della quale ha modo di
parlare anche con Antonia e gli altri
familiari. Il tecnico diviene il primo
referente del caso e viene formata
una équipe di lavoro, secondo la
tecnica della gestione integrata del
caso, composta dall’assistente sociale, da uno psichiatra e dal tecnico. In seguito, è contattato un operatore di un centro diurno per anziani.
La vedovanza, la perdita del proprio ambiente socio-familiare creano in Antonia una crisi affettiva e di
ruolo. In tale situazione psico-sociale gli inevitabili “acciacchi” della
vecchiaia divengono catalizzatori
di un vero e proprio declino fisico a
cui si associa la comparsa di molti
sintomi caratteristici di una probabile depressione reattiva. Dalla
mappa della rete, comprese quelle
secondarie informali, l’équipe individua in un centro diurno per anziani, presente in zona, l’ambiente dove Antonia può ritrovare uno spazio
di socializzazione e un nuovo ruolo. Nell’ambiente familiare Antonia
appare troppo isolata e le donne
del centro svolgono numerose attività, tra cui il ricamo, in cui Antonia
può inserirsi. L’anziana signora ha
per ora smesso di ricamare, ma è
molto abile in tale lavoro. Nel centro si svolgono anche attività di giardinaggio e orticoltura in cui Antonia
potrebbe essere inserita. Un ruolo
positivo possono averlo le attività
psicomotorie riabilitative presenti
nel centro, nonché le cure estetiche
(servizio di parrucchiera) che esso
offre. Lo psicologo con alcuni colloqui sensibilizza la famiglia di Antonia sulla necessità che l’anziana signora ritrovi motivazioni e ruoli anche all’interno di tale gruppo primario. Viene così valorizzato il rapporto con il nipote: in un certo senso, il
nipote deve occuparsi della nonna
e la nonna del nipote. Lo psichiatra
prescrive una cura di farmaci congrua allo stato di umore della donna e prescrive una dieta adeguata.
depressione reattiva
stato depressivo strettamente legato
agli avvenimenti esterni, ma con intensità e durata sproporzionate rispetto agli eventi
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Perché la coabitazione della signora Antonia con il figlio sposato porta a un peggioramento del suo stato di
salute?
– In che modo l’assistente sociale riesce a effettuare un intervento delle reti sociali?
– Perché tale intervento si rivela efficace?
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MODULO 5 n Il disagio mentale
Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 5, Il disagio mentale.
FINESTRA
LE KLIKUŠI RUSSE E LE TARANTATE SALENTINE
Dostoevskij, in questo brano del romanzo I fratelli Karamazov, descrive una guarigione rituale, a carattere religioso, che per certi aspetti
può considerarsi una forma primitiva di psichiatria dinamica. Le
klikuši, donne affette da una malattia nervosa caratterizzata da convulsioni e urla (il termine contiene la radice klick che significa “grido”),
vengono guarite dagli starec, padri
spirituali dei monasteri ortodossi.
“Lo starec stava in piedi sul gradino
superiore, indossò la stola e cominciò a benedire le donne che gli si
affollavano intorno. Protesero verso
di lui per entrambe le braccia una
klikuša. Quella non appena vide lo
starec, cominciò a singhiozzare e
strillare in maniera insensata, contorcendosi tutta come nelle doglie. Lo
starec le poggiò la stola sul capo e
recitò una breve preghiera: quella
ammutolì subito e si calmò. Non so
come sia adesso, ma quando ero
piccolo mi capitava spesso di vedere queste klikuši nei villaggi e nei monasteri. Le accompagnavano alla
messa, quelle strillavano e latravano
come cani per tutta la chiesa, ma
quando portavano fuori i sacramenti
ed esse vi venivano avvicinate, l’‘ossessione’ cessava. […] Alle domande che allora facevo in proposito, mi
sentivo rispondere da alcuni proprietari, e soprattutto dai miei insegnanti
di città, che quella era tutta una messa in scena per non lavorare. […]
Ma in seguito, con mia meraviglia,
appresi da medici specialisti che
non si tratta affatto di finzione, ma
che quella è una terribile malattia attestante, pare soprattutto da noi in
Russia, il pesante destino delle nostre
contadine […] dal dolore represso,
dalle percosse e da altre sofferenze
del genere che alcune nature femminili non riescono a sopportare, come
di solito accade. […] La strana e
istantanea guarigione della donna
invasata e in preda alle convulsioni
[…] avveniva anch’essa. Probabilmente, in modo naturale: sia le donne che conducevano la malata ai sacramenti sia, soprattutto, la malata
stessa, credevano fermamente, come una verità inconfutabile, che lo
spirito impuro che possedeva la malata non avrebbe resistito. […] Nella
donna malata di nervi e, pure, senza dubbio, malata psichicamente,
avveniva sempre […] un’improvvisa
commozione di tutto l’organismo nel
momento dell’inchino davanti ai sacramenti. […] La stessa cosa si verificò anche nel momento in cui lo starec coprì la malata con la stola”.
(Tratto da: Fëdor Michaijlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 2003, pp. 66-67).
Non bisogna credere che si tratti di
un semplice fenomeno di suggestio-
ne. Il rituale di guarigione trova la
propria sostanza culturale nelle credenze e nei valori dei contadini russi
e la propria sostanza sociale e psicologica nelle condizioni di vita durissime di queste popolazioni, in
particolare delle donne. Un fenomeno, per alcuni aspetti simile, ma più
complesso e ricco di elementi,è
quello delle tarantate del Salento
(l’estrema regione meridionale della
Puglia). Fino a non molti decenni fa,
alla fine del mese di giugno, dopo
la raccolta del grano, alcune contadine di questa località credevano di
essere morse dalla “taranta” (un ragno “immaginario”) e cadevano in
un’agitazione nervosa, simile a quella descritta da Dostoevskij per le
contadine russe. La guarigione avveniva attraverso una danza sfrenata
in cui la donna “mimava” la taranta,
al ritmo di tamburelli, violini e canti
fino a cadere a terra sfinita. Il sacerdote non aveva un ruolo diretto nella
cerimonia (anzi, negli ultimi tempi,
essa è stata apertamente sconfessata, come estranea al culto cattolico)
e interveniva solo a guarigione avvenuta, con la celebrazione di una
messa. Sulle tarantate l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965) ha
compiuto, insieme a collaboratori
specializzati in varie discipline scientifiche, una ricerca molto ampia e
documentata, pubblicata nel 1961
con il titolo La terra del rimorso.
ESERCITAZIONE
Questa lettura può costituire lo spunto per una ricerca di tipo antropologico sulle guarigioni rituali. Per analizzare
il fenomeno delle “tarantate” salentine, si veda il testo classico di Ernesto De Martino, La terra del rimorso, che il
Saggiatore ha ripubblicato nel 2008, corredandolo di un DVD. Si consulti anche: Gabriele Mina, Sergio Torsello,
La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo 1945-2006, Besa Editrice, Nardò (LE), 2006.
Tra i siti Internet: www.taranta.it e www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php
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MODULO 10 n La psicologia sociale
Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 10, La psicologia sociale, in particolare all’unità didattica 3, Le impressioni, il conformismo, le attribuzioni, l’equilibrio e le rappresentazioni sociali.
FINESTRA
GIOCARE A CARTE CON AVVERSARIO LA “NATURA” OPPURE IL “CASO”
Serge Moscovici e i suoi collaboratori basano le proprie tesi sulle rappresentazioni sociali soprattutto su dati
storici e su osservazioni ed esperimenti svolti nell’ambiente naturale, ricorrendo raramente a esperimenti di
laboratorio. In questo testo, però, si
espone uno di tali esperimenti.
“Nel 1968 Claude Faucheux e io
cercammo di provare che le rappresentazioni modellano i nostri comportamenti nell’ambito di un gioco
competitivo. Basammo il nostro
esperimento su un normale gioco di
carte. La sola variante che introducemmo fu che ad alcuni dei soggetti fu detto che stavano giocando
contro la ’natura’, mentre ad altri fu
detto che il loro avversario era il
’caso’. Il primo termine evoca un’immagine del mondo più rassicurante,
comprensibile e controllabile, mentre l’idea del caso, qui sottolineata
dalla presenza di un mazzo di carte, richiama alla mente avversità e
irrevocabilità. Come ci aspettavamo, la scelta dei soggetti, e soprattutto il loro comportamento, differì a
seconda della rappresentazione
che essi avevano del loro avversario. Così la maggior parte dei soggetti posti a confronto con la ’natura’ dedicò tempo a studiare le regole ed elaborare un qualche tipo di
strategia, mentre quei soggetti che
fronteggiavano il ’caso’ concentravano tutta la loro attenzione sul
mazzo di carte, cercando di indovinare quale carta sarebbe stata data, e non preoccupandosi delle regole del gioco. Le cifre parlano da
sole: 38 su 40 di quelli che giocarono contro la ’natura’ furono in grado di spiegare le regole, mentre solo 12 su 40 degli altri furono in grado di farlo. [...] Dunque le nostre
rappresentazioni interne, che abbiamo ereditato dalla società o fabbricato noi stessi, possono modificare il nostro atteggiamento verso
qualcosa al di fuori di noi stessi”.
(Tratto da: Serge Moscovici,
Le rappresentazioni sociali,
Il Mulino, Bologna, 2005,
pp. 94-95).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Individua nell’esperimento in questione la variabile indipendente, la variabile dipendente e l’ipotesi.
– Quali risultati confermano l’ipotesi?
Raccogli tra i compagni una serie di descrizioni (sia con parole che con immagini) delle rappresentazioni della
“natura” e del “caso”. Partendo dai tratti comuni di tali descrizioni, prova quindi a realizzare una sintesi della
rappresentazione della “natura” e di quella del “caso”.
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MODULO 12 n Gli anziani
Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 12, Gli anziani, in particolare all’unità didattica 1, Aspetti e problemi della condizione degli anziani.
FINESTRA
LE CAPACITÀ DEI CENTENARI
Il gerontologo americano Thomas T.
Perls, in uno scritto del 2004, distingue tre profili di centenari: i “sopravvissuti” (survivors), cioè gli anziani ai quali viene diagnosticata
una demenza prima degli 80 anni;
i “ritardatari” (delayers), cioè gli anziani ai quali il disturbo viene diagnosticato a 80 anni o dopo; i “fuggitivi” (escapers), cioè gli anziani
che hanno compiuto 100 anni sfuggendo alle trappole dell’invecchiamento, ovvero senza diagnosi di
demenza o di disturbo cognitivo. Alcuni studi americani, ma anche italiani e giapponesi, cominciano a
evidenziare il quadro tipico dei
“fuggitivi”, che è di grande interesse per la psicologia. Il loro numero
è modesto (tra il 15 e il 20% del totale dei centenari) e la loro “fuga” è
il risultato di un’interazione molto rara tra variabili genetiche e ambientali; inoltre i centenari “fuggitivi” uomini sono più numerosi delle donne.
Vari studi sui centenari hanno dimostrato che il loro declino sensoriale
non è molto distante da quello degli
ottantenni e dei novantenni. Per
esempio, alcuni studiosi americani
hanno chiesto a 15 anziani centenari, che non presentavano deterioramento cognitivo, di raccontare liberamente gli eventi più importanti
della loro vita. Ad altri 22, sempre
privi di deterioramento cognitivo,
sono state presentate delle liste di
parole (fuoco, amido, soldi ecc.)
con il compito di associare a ogni
singola parola un ricordo autobiografico preciso e databile. I due studi hanno dimostrato che i centenari
hanno una memoria simile a quella
degli ottantenni: ricordano pochissimo dei primi tre anni di vita e riportano soprattutto i ricordi delle prime
fasi dell’età giovane (tra i 15 e i 30
anni) e degli ultimi anni della propria vita. Il lavoro è importante soprattutto perché dimostra che perfino i centenari non presentano necessariamente deficit per gli eventi
più recenti. Anche la capacità di
dare il nome giusto a oggetti rappresentati con disegni è simile tra
gli ottantenni e i centenari della ricerca e altrettanto può dirsi per l’attenzione e il ragionamento.
Per ciò che riguarda lo stile di vita,
dalle interviste risulta che tali centenari hanno diete prevalentemente
vegetariane; assumono l’alcol in
quantità moderate; non fumano;
amano stare in compagnia, soprattutto di familiari e amici, e fanno lunghe passeggiate.
Il ruolo dei fattori fisico-ambientali ci
è ormai largamente noto, ma che
cosa favorisce la longevità della
mente? L’esercizio e la pratica risultano certamente utili, ma il fattore
più importante è la disponibilità a
iniziare a imparare cose nuove e a
sviluppare nuovi interessi. Risulta altresì importante avere atteggiamenti
positivi verso la vita e ricercare l’autonomia personale e decisionale. I
fuggitivi, dunque, sono anziani che
riescono meglio degli altri a vivere
la vita come una sfida e a modificare il loro comportamento in base alle richieste fisiche e ambientali.
(Sintesi di: Nicola Mammarella,
La carica dei 101, in “Psicologia
contemporanea”, n. 191,
sett.-ott. 2005, pp. 52-58).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Quali caratteristiche dei centenari “fuggitivi” sono simili a quelle dei soggetti sani di ottanta anni?
– Quali caratteristiche dello stile di vita facilitano il raggiungimento di tale condizione?
Ispirandoti a quanto esposto nel brano, realizza un questionario per intervistare un soggetto “sano” vicino ai cento anni. Se ti presenta l’occasione, effettua una o più interviste.
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MODULO 13 n La famiglia multiproblematica
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 13, La famiglia multiproblematica, in particolare, all’unità didattica 1, Famiglie e disagio familiare.
CASO
MADRI LESBICHE E PADRI OMOSESSUALI
I nuclei omosessuali con prole sono
ormai una realtà in molti paesi del
mondo occidentale. Anna Oliverio
Ferraris e Alessandro Rusticelli hanno condotto un’indagine esplorativa
mirata allo studio delle dinamiche
familiari e dello sviluppo infantile
nelle famiglie lesbiche, raccogliendo le testimonianze di 11 coppie
femminili di età compresa tra i 23 e
i 55 anni e dei loro figli. Le situazioni familiari sono di vario tipo: per
esempio, ci sono donne con figli
nati da relazioni eterosessuali precedenti, donne con figli avuti mediante fecondazione assistita, con
donatore anonimo oppure conosciuto. Il clima riscontrato in queste famiglie è risultato sereno, con un’attenzione talvolta superiore alla media
nei confronti dei figli e un notevole
impegno a educarli alla tolleranza
di tutte le diversità. Sono, però,
emersi anche diversi punti di fragilità; infatti non è sempre facile per
un figlio accettare l’omosessualità di
un genitore. Significative sono le
parole di Mara (35 anni, nata da
un’unione eterosessuale e inserita
appena adolescente nella coppia
lesbica): “Sono sempre stata protettiva con lei [la madre], quasi fossi io
la madre. Le persone che mi portava a casa, fossero maschi o femmine, non mi andavano mai bene,
pensavo sempre che lei meritasse di
più, forse facevo il confronto con il
papà idealizzato. […] La gelosia
più grande l’ho vissuta per la prima
donna di cui mia madre si è innamorata. Avevo 14 anni e […] sentivo tra loro un’attrazione che non riuscivo a definire, a cui non ero assolutamente preparata e mia madre
non mi ha mai detto di avere una relazione con un’altra donna”.
C’è poi il confronto con il mondo
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esterno, non ancora preparato a
questo tipo di famiglie. Monica (13
anni): “Una volta il nostro professore
tirò fuori l’argomento in classe e tutti
i miei compagni si misero a ridere
solo a sentire la parola ’omosessualità’. […] Mi stava venendo da piangere. Ho provato vergogna per l’omosessualità di mia madre. […]
Questo perché la mia è una mamma
diversa dalle altre. In un certo senso
meno male che è diversa, però non
’diversa’ in questo modo!”.
Un altro problema è quello dei ruoli,
perché è abbastanza controverso il
fatto che i ruoli, materno e paterno,
siano del tutto interscambiabili. Dice
Marco (figlio, 30 anni): “Ho scoperto l’omosessualità di mia madre
quando ero già grande […] non mi
ha disturbato […] e non me ne vergogno affatto. Anche con la sua
compagna mi trovo bene, la considero parte della famiglia. Quello che
mi ha pesato è stata la mancanza di
un padre. Ho sempre cercato, negli
amici che frequentavano il gruppo di
mia madre, una figura paterna. Mi ricordo di almeno sei di questi amici
che, un po’ a turno, sceglievo come
padre. Mi sentivo accettato da loro e
ho imparato tanto […]”.
Le analisi dei disegni dei bambini
nati mediante fecondazione assistita, e la letteratura esistente sull’argomento, suggeriscono che attorno ai
6-7 anni i bambini iniziano a porsi
delle domande e a divenire consapevoli della diversità, rispetto alla situazione dei coetanei. Marco di 6
anni chiede, per esempio, di ricevere per Natale un papà “alto, magro
e biondo” come lui.
Gli autori ci ricordano che, per lo
più, gli studi sull’argomento riguardano coppie con figli ancora piccoli, per cui ancora non si può sapere
con certezza quali significati e quali
aspettative i figli attribuiranno in futuro alla figura del donatore e, sicuramente, le problematiche saranno diverse se si tratta di un donatore
ignoto, oppure identificabile ma lontano, o facilmente raggiungibile,
quasi uno “zio”. Gli autori affermano che se è innegabile che il vero
genitore è colui che educa il figlio,
è inevitabile che una persona cerchi
di ricostruire tutti i tasselli della propria esistenza.
Sempre gli stessi autori hanno svolto
un’altra ricerca esplorativa, intervistando otto omosessuali maschi di
età compresa tra i 44 e i 63 anni.
Tutti sono sposati e, in sette casi su
otto, il matrimonio si è concluso, diversi anni dopo la nascita di figli,
con la separazione o con il divorzio. Il percorso che ha portato ciascun intervistato alla scoperta della
propria omosessualità non è stato facile, ma qui ci interessa l’aspetto relativo alla loro paternità. Flavio (61
anni), padre di un figlio di 35 anni,
dice: “Mio figlio sa tutto. Ho iniziato
a parlargliene indirettamente quando era adolescente. […] Poi un giorno, dopo la rottura con mia moglie,
decisi di invitarlo a cena con la sua
fidanzata e di presentargli il mio
compagno. […] Devo dire che Giovanni reagì con qualche riserva nei
primi tempi, poi presto superata,
perché è stato educato a una mentalità aperta”.
Gli autori affermano che i figli più
piccoli sembrano avere meno problemi ad accettare l’omosessualità
dei padri. Probabilmente più il padre aspetta a rivelare al figlio le proprie inclinazioni, più tempo ha quest’ultimo di interiorizzare i pregiudizi
della società. Gli autori sostengono
anche che quando i figli hanno diffi-
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coltà ad accettare l’omosessualità
del genitore, ciò che rifiutano non è
il rapporto con lui e il ruolo paterno,
ma l’identità gay, con tutto il carico
di valutazioni e stereotipi sociali che
comporta. Dice Laura (18 anni):
“Capisco che lui faccia di tutto per-
ché io lo accetti per quello che è, lo
so che mi vuole bene e che tiene al
mio giudizio, ma è veramente difficile per me mandare giù il fatto che
sia gay. Questa è la vita e il mondo
che lui ha scelto, d’accordo, ma io
non voglio esserne coinvolta”.
(Da: A. Oliverio Ferraris, A. Rusticelli, Donne al timone, in “Psicologia contemporanea”, n. 195, maggio-giugno 2006, pp. 6-12; I padri gay, in “Psicologia contemporanea”, n. 197, settembre-ottobre
2006, pp. 40-47).
ESERCITAZIONE
Con un gruppo di compagni affronta l’argomento del caso esposto esprimendo un parere sull’opportunità di:
a) regolamentare le unioni civili in modo che alcuni diritti e doveri dei coniugi sposati siano estesi anche a tali
coppie;
b) consentire a tali coppie di pattuire tra loro privatamente degli accordi;
c) consentire il matrimonio civile e, eventualmente, l’adozione di bambini, anche alle coppie omosessuali.
La discussione deve seguire la seguente regola: ogni allievo svolge un breve discorso (massimo di tre o quattro minuti) portando argomenti favorevoli a una tesi diversa rispetto a quella in cui si riconosce e il suo discorso deve ricevere l’approvazione della maggioranza delle persone che invece si riconoscono in tale tesi. Ognuno di tali discorsi, se approvati, verrà sinteticamente verbalizzato da un segretario.
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MODULO 13 n La famiglia multiproblematica
Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 13, La famiglia multiproblematica, in particolare, all’unità didattica 2, Famiglie multiproblematiche e modalità d’intervento. Importante è anche la
lettura dell’unità didattica 2, Ciclo vitale e ambiente sociale del modulo 4, Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale.
CASO
MARIA E L’AIUTO ECONOMICO DEI SERVIZI SOCIALI
Il caso di Maria evidenzia come
l’aiuto economico può assumere un
significato diverso in base alle modalità con cui viene erogato dai servizi e ottenere effetti differenti sulla
vita e l’organizzazione delle famiglie in difficoltà.
Siamo nel 1974 e Maria, una donna piccola e magrissima, ha tre figli:
il maggiore di 22 anni lavora in una
falegnameria ed è nato da una relazione con un uomo che si è dileguato appena la donna è rimasta incinta. Gli altri due, Marco di 9 anni e
Roberto di 7, sono nati dall’unione
con un altro uomo, disoccupato e
spesso ubriaco, che voleva che la
madre non li riconoscesse e li abbandonasse. L’assistente sociale all’inizio ha aiutato Maria suggerendo
la coabitazione di lei e dei due
bambini piccoli con il figlio maggiore, sposato con una ragazza di appena 16 anni, e il fratello celibe di
Maria, in una casa di quattro/cinque stanze. Roberto frequenta regolarmente la prima elementare senza
particolari problemi, mentre Marco,
che frequenta la seconda con scarsi
risultati, è definito un bambino “caratteriale” e presenta i seguenti disturbi: enuresi, encopresi, mutacismo, per cui è seguito dal Centro di
Igiene Mentale. I due bambini ricevono anche un piccolo sussidio economico da un ente assistenziale per
l’infanzia. Maria è una signora timida e insicura e ha molta paura
quando deve incontrare persone
“autorevoli” come il direttore e gli insegnanti della scuola del figlio, il
parroco o altre figure delle istituzioni; non riesce nemmeno a protestare
quando il sussidio dei figli non arriva
puntuale ed è costretta a svolgere
qualche lavoretto a ore per vivere.
Nel 1979 un terapeuta a orientamento relazionale inizia a occuparsi
del caso di Marco (che continua da
essere un soggetto problematico) e,
leggendo la relazione degli operatori che lo hanno preceduto, si accorge come in loro fosse presente la
convinzione che la madre non fosse
capace di seguire i loro consigli su
come comportarsi rispetto ai problemi di Marco. Inoltre l’incolpavano di
essere incapace di utilizzare i servizi
e le istituzioni pubbliche.
Il terapeuta ha degli incontri con la
madre e i due figli e, nel corso dei
colloqui con tale “sottosistema” familiare, agisce in modo da rivalutare e
rafforzare il ruolo della donna. Afferma che è da ammirare perché riesce a conciliare il suo ruolo casalinga con il lavoro esterno, assumendo
su di sé anche i compiti di entrambi
i genitori. Il terapeuta quindi modifica l’idea che i due adolescenti si
erano fatti della madre. Il terapeuta
è convinto che i disturbi di Marco in
qualche modo sono di aiuto e soste-
gno anche a una madre così sottomessa che, a causa del figlio, può
consultarsi continuamente con operatori i quali pensano sì al figlio, ma
prestano aiuto anche a lei.
Per cambiare tale situazione lo psicologo ha un lungo colloquio con tutti e
tre, in cui evidenzia come Maria, assumendo su di sé la responsabilità
dei figli, abbia fatto risparmiare ai
servizi sociali molti soldi. In un incontro successivo viene spiegato ai ragazzi che non avrebbero ricevuto
più alcuna forma di sussidio, ma sarebbe stato dato alla madre uno “stipendio” per il lavoro che aveva svolto finora e che continuava a svolgere. Il rapporto così impostato, in modo da correggere la situazione gerarchica e ridare alla madre quel potere (compreso l’aiuto economico)
che tutti avevano contribuito a sminuire, porta ad affrontare, con la stessa
strategia, anche gli altri problemi.
Tre anni più tardi il figlio Marco, seguendo i consigli della madre, ha
cominciato a lavorare come apprendista in una bottega di restauratore,
è alto e abbastanza robusto; anche
l’altro figlio Roberto sta crescendo
bene e la madre stessa mostra una
salute decisamente migliore.
(Tratto da: M. Malagoli Togliatti,
L. Rocchietta Tofani, Famiglie
multiproblematiche, NIS, Roma,
1987, pp. 166-170).
ESERCITAZIONE
Dopo aver letto il testo, rispondi ai seguenti quesiti.
– Quali dinamiche psicologiche potrebbero essere alla base dei disturbi di Marco?
– Quali dinamiche psicologiche sono alla base dell’insicurezza di Maria?
– Perché, nel 1974, i consigli e gli interventi dell’assistente non raggiungono gli effetti sperati?
– Come, nel 1979, lo psicoterapeuta cambia i ruoli all’interno della famiglia di Maria?
– Perché tali cambiamenti risultano efficaci?
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