MODULO 1 . Le basi biologiche ei processi cognitivi
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MODULO 1 . Le basi biologiche ei processi cognitivi
MODULO 1 n Le basi biologiche e i processi cognitivi Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 1, Le basi biologiche e i processi cognitivi, in particolare all’unità didattica 4, L’attenzione, la memoria e il linguaggio; tuttavia può collegarsi anche alle tematiche affrontate nel modulo 14, La psicologia del lavoro. FINESTRA LA CAFFETTIERA DEL MASOCHISTA Donald Norman è uno dei maggiori studiosi americani di psicologia cognitiva: ha svolto importanti ricerche sul funzionamento della memoria e dell’attenzione e ha lavorato anche per la Apple. Attualmente, oltre che dei processi cognitivi, si occupa di disegno industriale e studia gli oggetti e la loro ergonomia (cioè le condizioni e l’ambiente di lavoro perché si adattino alle esigenze psicofisiche del lavoratore). Nell’ambito di tali ricerche ha messo sotto accusa, in un libro che porta lo stesso titolo di questa lettura, il cattivo design e il “perverso” funzionamento di molti oggetti d’uso quotidiano. “Ho parlato con molte persone che non riuscivano a usare tutte le funzioni delle loro lavatrici o macchine fotografiche, che non sapevano far funzionare un videoregistratore o la macchina da cucire e che sistematicamente accendevano il fuoco sbagliato sul piano di cottura. Perché non la facciamo finita con la frustrazione degli oggetti d’uso quotidiano, con apparecchi che non si riesce a capire come funzionano? […] Ho raccolto tra migliaia di oggetti con i quali abbiamo a che fare tutti i giorni, esempi di buona e cattiva progettazione, che illustrano perché l’interazione tra l’uomo e le cose a volte va bene ma più spesso va male. […] Prendiamo le maniglie di una portiera di automobile, per esempio. C’è una varietà di forme e dimensioni che lascia stupefatti. Le maniglie esterne, nella grande maggioranza delle auto moderne, sono esempi di eccellente design: spesso incassate nella portiera, indicano a prima vista il da farsi, non essendoci altro modo di usarle che introdurre le dita nell’incavo e tirare. Abbastanza stranamente, le maniglie per aprire la portiera dall’interno sono tutta un’altra storia. Qui i problemi che si presentavano ai progettisti erano diversi, tant’è che la soluzione migliore non si è ancora trovata. […] Prima di passare alla costruzione di un oggetto d’uso il progettista deve elaborarne un modello concettuale che sia alla portata degli utenti, che individui gli elementi importanti del funzionamento e sia chiaramente leggibile per chiunque. […] I comandi degli apparecchi d’uso quotidiano dovrebbero essere semplicissimi, richiedendo uno sforzo mentale minimo. Quando le operazioni diventano inutilmente complicate, si può ricorrere alla tecnologia per ristrutturare il dispositivo e semplificarne il funzionamento. Ma l’intervento della tecnologia può essere una trappola. […] I telefoni, per esempio, una volta erano di una semplicità meravigliosa. Quello che mi trovo oggi sulla scrivania, invece, ha 24 funzioni, alcune delle quali non ho mai imparato ad usare. Non è solo questione di numero: la mia automobile di funzioni ne ha circa 11, ma nessuna di queste mi ha mai dato problemi. Perché il telefono è tanto più difficile da imparare? La ragione in parte sta nel rapporto fra comandi (leve, pulsanti, quadranti ecc.) e numero di funzioni. II mio apparecchio telefonico ha solo 15 pulsanti per 24 funzioni: ogni pulsante può attivarne più di una. L’automobile, invece, salvo rare eccezioni, ha un solo comando per ciascuna funzione. […] Non dimentichiamolo, le difficoltà di questo genere ci riguardano tutti. Di recente, un collega dell’università, che insegna scienza dei computer, mi mostrava tutto fiero il suo nuovo riproduttore di CD, completo di telecomando. Il modulo del telecomando aveva un piccolo anello sporgente a un’estremità. Il mio amico mi raccontò che da principio aveva preso questo anello per un’antenna, e aveva sempre cercato di puntarlo verso l’apparecchio. Purtroppo in quel modo il telecomando funzionava a malapena. Solo più tardi aveva scoperto che l’anello non era altro che un anello per appendere l’oggetto quando non lo si adoperava. Per settimane, aveva continuato a puntare contro se stesso il telecomando, vittima inconsapevole della battaglia contro il cattivo design”. (Tratto da: Donald Norman, La caffettiera del masochista, “Psicologia contemporanea”, n. 102, nov.-dic. 1990, pp. 58-63). ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – A livello cognitivo, perché un cattivo design rende difficile l’esecuzione di compiti, tutto sommato, semplici? (Fai riferimento in particolare a quanto studiato a proposito del funzionamento dell’attenzione e della memoria). – Come incide, a livello ergonomico, l’uso di oggetti progettati secondo un “cattivo” design? – Quali motivi spingono i progettisti a realizzare oggetti inutilmente complicati? Esamina la funzionalità delle maniglie degli sportelli di alcune marche di automobili. Serviti anche di alcune interviste agli utenti. In base ai dati raccolti, stila poi una “classifica” della loro funzionalità (questa attività può essere svolta anche da più allievi, come lavoro di gruppo). © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 1 MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare all’unità didattica 1, Le “topiche” della teoria psicoanalitica. CASO LA PREISTORIA DELLA PSICOANALISI: IL CASO DI ANNA O. Alla fine dell’Ottocento Sigmund Freud e Joseph Breuer pubblicano insieme Studi sull’isteria (1893-1895). Il testo contiene alcuni scritti teorici e l’esposizione di cinque casi clinici, quattro di Freud e uno di Breuer. Qui prendiamo in considerazione il caso di Anna O., trattato da Breuer. Questo caso suscita in Freud una profonda impressione, tanto che egli ne parla in diverse occasioni e lo considera come il punto di partenza della psicoanalisi. Breuer cura la paziente con l’ipnosi, attraverso il metodo catartico. Il medico si accorge che i sintomi della paziente insorgono in particolari situazioni in cui ella è preda di forti emozioni che turbano il suo stato di coscienza. Gli episodi vengono dimenticati e al loro posto insorge un sintomo. Il sintomo si ripete in diverse situazioni e, solo se si riesce a rintracciare la situazione originaria, esso scompare. Rivivendo tali episodi, infatti, la ragazza riesce a dare sfogo a sentimenti, a suo tempo repressi, e tutto ciò ha su di lei un effetto liberatorio. Nel dicembre del 1880 Anna O., una giovane donna, paziente di Joseph Breuer, si ammala di isteria mentre sta curando il padre gravemente ammalato. Tale malattia, definita da Freud isteria di conversione (in quanto il disagio psicologico, le emozioni trattenute, di un paziente fisicamente sano, si esprimono – si convertono – in uno o più sintomi corporei simili a quelli delle malattie organiche), si manifesta con svariati sintomi come dolore alla parte posteriore della testa, disturbi visivi, contratture agli arti. Anna ha anche crisi di rabbia a cui seguono delle “assenze” con vuoti di memoria e stati di sonnolenza. Duran- te tali stati, Anna, talvolta, borbotta delle parole che Breuer si fa ripetere. Il medico ha allora l’idea di condurre in stato ipnotico la ragazza ripetendole tali parole. Anna, allora, riesce a raccontare le fantasie avute nei periodi di assenza, storie tristi e poetiche in qualche modo collegate alla sua situazione. Dopo la seduta ipnotica, la paziente sta meglio. Anna, che è una ragazza intelligente, mostra di capire il senso di tale cura che definisce con le espressioni inglesi talking cure (cura parlata) e chimneysweeping (spazzare il camino). Dopo la morte del padre, molto amato, la condizione della ragazza si aggrava. Quando il padre era malato, ma vivo, la paziente appariva dissociata, come se in lei fossero presenti due persone diverse: una gentile e l’altra scorbutica, quasi malevola. Ora che il padre è morto, la sua parte sana vive nel tempo presente e l’altra, che è la personalità malata, si comporta come se vivesse un anno prima rispetto al tempo reale. In entrambi i casi, Anna è consapevole della morte del padre. Tra i sintomi isterici compare un’inspiegabile forma d’idrofobia; Anna non riesce a portare la minima quantità d’acqua alla bocca e per dissetarsi (siamo nel periodo estivo) si nutre di frutta e di meloni. Solo dopo sei settimane riesce a ricordare, in una seduta ipnotica, di aver visto nella stanza della sua odiata dama di compagnia inglese un cagnolino, una bestiola ripugnante di proprietà della dama, bere in un bicchiere. Per educazione è stata zitta, ma ora, dopo aver rivissuto l’evento, Anna sfoga tutta la sua rabbia (tale processo è denominato abreazione) e beve finalmente la sua acqua. Anna migliora, ma la sua terapia non viene conclusa, in quanto la giovane donna parte da Vienna per un viaggio e, comunque, passa del tempo prima che ritrovi il suo pieno equilibrio. Breuer è convinto che l’isteria, pur presentando delle dinamiche psicologiche, sia essenzialmente una malattia nervosa. Freud considera più importanti gli eventi traumatici di natura psicologica vissuti dalla paziente e, in uno scritto del 1896, afferma che l’isteria ha origini più profonde rispetto ai traumi evocati con il procedimento catartico. Ormai Freud abbandona il metodo ipnotico elaborando un proprio metodo personale che gli consente di ricostruire il passato del paziente fino a riportare alla luce i vissuti traumatici di natura sessuale risalenti all’infanzia. Le emozioni provate dal paziente sono spesso fatte risalire a episodi ingigantiti, o addirittura inventati, dalla fantasia del nevrotico, ma confermano che la malattia trova la sua origine nei vissuti infantili. Sappiamo dal biografo di Freud, lo psicoanalista inglese Ernst Jones (1879-1958), che la terapia è interrotta prima della guarigione perché Anna sviluppa una gravidanza isterica. Breuer, a cui sono ignoti i meccanismi del transfert, scoperti poi da Freud, decide di non insistere nella cura e affida la paziente a un altro medico. (Il caso di Anna O. si trova in: J. Breuer, S. Freud, Casi clinici 1, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 13-41). gravidanza isterica un fenomeno isterico per cui il corpo del soggetto presenta le manifestazioni di una gravidanza non reale ma inconsciamente desiderata ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Perché il testo è “etichettato” come “la preistoria della psicoanalisi”? In cosa esso non è ancora psicoanalisi e, invece, quali elementi anticipa di questa teoria? – In che modo il transfert della paziente ostacola il procedere della terapia? – In che modo poteva essere utilizzato dalla terapia tale processo transferale? 2 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare all’unità didattica 3, La psicologia individuale, la psicologia analitica e la scoperta del corpo. CASO IL DIARIO DI CHIARA Il diario di Chiara costituisce il primo volume di un’opera rimasta incompleta. Questa prima parte s’intitola “L’arte di leggere una vita e la storia di una malattia” ed è pubblicata nel 1928. Adler viene in possesso del diario di Chiara attraverso un amico scrittore. Lo psicologo, dopo averlo sintetizzato, lo arricchisce di un proprio commento e lo utilizza per una serie di lezioni tenute durante il suo soggiorno negli Stati Uniti. Di questo diario non esiste nessuna documentazione, se non nell’opera di Adler. Chiara è una giovane viennese, figlia di un sarto di modestissima condizione, precipitato in miseria durante la prima guerra mondiale. Dopo alcuni tentativi letterari sul versante del racconto amoroso a sfondo erotico, Chiara decide di scrivere un diario autobiografico. Il diario inizia con i primi, veri o presunti, ricordi infantili e arriva fino alla morte del padre, avvenuta poco prima che Chiara compia diciotto anni. Il racconto è intercalato dai commenti di Adler. Non si tratta quindi di un resoconto di una serie di sedute psicoanalitiche, bensì di un testo commentato. Attraverso la sua lettura si ha modo di ricostruire lo sviluppo di una nevrosi ossessiva grave. Vi sono molti elementi tipici che fanno parte dell’analisi individuale: la ragazza è di salute cagionevole e presenta, quindi, una certa inferiorità organica. Viene viziata dai genitori, in particolare dal padre e man mano che cresce attira sempre più su di sé l’attenzione con sintomi sempre più gravi, “tiranneggiando” con la sua “volontà di potenza” l’intero gruppo familiare. La strumentalizzazione degli altri diviene il suo “stile di vita” nevrotico. Le sue storie sentimentali © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. sono prive di affettività e hanno solo lo scopo di soddisfare il proprio narcisismo, di farsi bella con le amiche. Solo la morte del padre sembra adombrare in Chiara la prospettiva di un mutamento psicologico verso il “sentimento sociale”. Riportiamo alcuni brani del diario, avvertendo che la parte non in corsivo è il commento di Adler. “Mi ricordo che mio padre mi domandava spesso…” Il padre, e perché non la madre? La parola padre ha un significato particolare: questo bambino – una bambina – ragazza era molto più attaccata al padre che non alla madre. “Stai bene? Hai male da qualche parte?” Certamente un padre molto tenero e che viziava sua figlia. La nostra esperienza dei vecchi ricordi d’infanzia ci fa pensare che questa ragazza abbia avuto un’infanzia molto viziata: sospettiamo che lei non cercherà in seguito che di mantenere questo stato, che lei tenterà sempre di essere al centro dell’attenzione. Insorgeranno delle difficoltà ogni volta che una simile bambina incontra delle altre persone… “Per dir la verità io non mi sono mai sentita bene”. Non dobbiamo prendere alla lettera le affermazioni dei nostri pazienti… Questo ragguaglio significa semplicemente: sono stata una bambina malata. “Mio padre mi aveva raccontato che la mia vita era stata sospesa a un filo… non avevo mai appetito, non riuscivo a inghiottire nulla. Non trovando alcun gusto nei cibi masticavo lungamente ogni boccone, come se si fosse trattato di carta o erba… Nel nostro stabile c’era un negozio di carbone appartenente a un’anziana coppia. Ci andavo ad accatastare la legna e mi facevo servire un pasto. Da loro mangiavo volentieri tutto quello che a casa non avrei mai accettato di assaggiare, come crauti o canederli per esempio”. Il rifiuto del cibo rappresenta un tentativo per attirare l’attenzione su di sé, manifestando la propria opposizione in una funzione che sembra importante. “Il mercante di carbone mi chiedeva chi avrei sposato. Io rispondevo sempre: ’Mio papà’”. Ci si potrebbe vedere un atteggiamento incestuoso; ma se si considera il modo in cui, per molti anni, questa ragazza non ha saputo nulla sui rapporti sessuali, non ne ha voluto sapere niente e se ne è difesa – e questo poi in un ambiente in cui l’attenzione per l’uomo non era affatto negativa –, si può dire che quest’idea del matrimonio è resa possibile soltanto dal fatto che ci sono altre cose, non sessuali, in questo rapporto con il padre. “Quando ero cattiva la mamma mi minacciava che avrebbe ordinato un fratellino o una sorellina alla cicogna e io allora gridavo: ’Fallo pure, lo scaraventerò fuori!’”. Qui si manifesta in modo evidente una gelosia scatenata dal desiderio di potere. Lo sviluppo psicosessuale di Chiara è problematico perché ha grandi difficoltà a identificarsi nel ruolo femminile: la ragazza racconta di Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 3 M O D U L O 3 La scoperta dell’inconscio un corteggiamento di cui è oggetto, verso i sedici anni, che le provoca una forma di grande disgusto verso se stessa e una sorta di furore verso il giovane corteggiatore. Nel diario sono presenti anche fantasie sessuali di ogni tipo: una considerazione narcisistica per il proprio corpo, delle fantasie omosessuali transitorie, delle fantasie sadiche, e così via. L’aspetto più preoccupante di Chiara è però l’atteggiamento sempre più tirannico verso i genitori e la sorellastra Lina, la figlia di prime nozze della madre. Questi episodi di prepotenze, accompagnati a volte da collere incontenibili, nascono spesso dalle infrazioni che i genitori involontariamente compiono rispetto a una sorta di rigidissimi rituali ossessivi a cui tutti si devono assoggettare. Questa situazione si protrae, in una sorta di crescendo terrificante, fino ai diciassette anni, età in cui Chiara si costruisce un mondo tutto fatto di proibizioni, di persone infette da evitare, e così via. “Un giorno mia madre fece il gulasch e, nonostante fosse di cavallo, ero molto contenta. Ma, mentre stava riempiendo il mio piatto, sfiorò per caso la spalliera di una sedia, dove si era seduta poco tempo prima una persona proscritta. Montai allora terribilmente in collera e rifiutai di toccare il gulasch, cosa che rese mia madre così furiosa che lanciò per terra la pentola con tutto il suo contenuto. Non toccai più i piatti, le tazze o le posate che fossero state utilizzate da una di queste persone che io temevo. Mamma doveva sistemarli in un posto speciale, separati dagli altri, perché io potessi in ogni momento riconoscere che mi erano interdetti […] Per evitare qualsiasi contatto con le persone che mi erano sospette, o con quelli che temevo potessero far parte di questa categoria, mi ritiravo nella mia cameretta. Ma avevo impressione che il malocchio che io loro attribuivo passasse attraverso la parete divisoria per portarmi sfortuna, così mi mettevo a letto, sprofondandomi sotto le coperte…”. Lei appare ancora una volta superiore nella sua ossessione della stessa pulizia: lei è l’unico essere puro del suo mondo, tutto il resto è sporco. Abbiamo anche qui il parallelo del conscio e dell’inconscio. Nell’inconscio l’aspirazione alla superiorità a buon mercato, come sempre nei bambini viziati; nel conscio la semplice repulsione nei confronti della sporcizia degli altri. È proprio in questa occasione che la paziente, anche senza averci prestato attenzione, è la sola a trovarsi pura e superiore. “Talora, quando la paura mi aveva svegliata, mi veniva in mente la mia età e pensavo: ’Ah! Quanto sarebbe bello essere appena nata!’“. I pensieri evocati qui concernono chiaramente i problemi dell’amore, per il quale lei non si sente preparata, in conseguenza dei suoi esagerati pensieri di dominio. Lei getta allora un colpo d’occhio indietro sui tempi paradisiaci dei suoi primi anni di bambina viziata, durante i quali possedeva un potere assoluto e senza limiti e non si doveva confrontare con nessun nuovo problema. Finita la scuola Chiara trova un lavoro che però abbandona prestissimo, continuando a vivere a carico dei genitori oramai incapaci di smettere di viziare la loro bambina divenuta adulta. Solo alla fine del racconto la giovane sembra aver recuperato, almeno in parte, un certo sentimento sociale e considera le disgrazie e la malattia del padre il problema più importante anche per lei. (Il diario di Chiara si trova in: A. Adler, La tecnica della psicologia individuale, Newton Compton, Roma 2005, pp. 35-178). ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Quali esperienze favoriscono un atteggiamento sempre più tirannico di Chiara verso i genitori e la sorellastra Lina? – Come possono essere spiegati i rituali ossessivi di Chiara? – Perché la personalità di Chiara può essere definita narcisistica? – Come riesce Chiara a superare parzialmente la sua nevrosi? 4 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 3 n La scoperta dell’inconscio Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 3, La scoperta dell’inconscio, in particolare all’unità didattica 3, La psicologia individuale, la psicologia analitica e la scoperta del corpo. CASO IL SOGNO DELLA CASA DI JUNG Jung riporta questo sogno in Ricordi, sogni, riflessioni, un’autobiografia scritta dopo gli ottanta anni, poco prima della morte. Lo psichiatra non indica la data del sogno, ma esso è da collocarsi, presumibilmente, in un periodo in cui è già avvenuto il suo distacco da Freud e Jung ha già iniziato a esplorare il proprio inconscio venendo a contatto con le fantasie e le immagini simboliche dell’inconscio collettivo. Lo scienziato è in una fase cruciale del proprio processo di “individuazione” ed è impegnato a scoprire come aiutare le “anime” (dei pazienti), compito che il padre protestante non è riuscito a svolgere adeguatamente con le “anime” dei propri fedeli. Per realizzare tale scopo Jung deve anche emanciparsi dalla tutela di un padre spiritualmente grande, ma oppressivo nei riguardi della sua creatività: Sigmund Freud. Il sogno dell’esplorazione di una casa misteriosa e inquietante indica la strada di questo processo di individuazione mediante immagini e atti che assumono un elevato senso simbolico. “Sognai di nuovo che la mia casa aveva una grande ala annessa, nella quale non ero ancora mai stato. Mi risolvevo a andarci, e finalmente vi entravo: giungevo a una grande porta a due battenti, l’aprivo, e mi trovavo in una stanza dove era installato un laboratorio. Di rimpetto alla finestra vi era un tavolo pieno di molti vasi di vetro e di tutte le dotazioni di un laboratorio zoologico. Era la stanza da lavoro di mio padre, ma egli non c’era. Alle pareti vi erano scaffali contenenti centinaia di recipienti di vetro con dentro ogni specie immaginabile di pesci. Ero sbalordito: ’Così adesso mio padre si occupa d’ittiologia!’. © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. Stando lì, e guardandomi intorno, notavo una tenda che di tanto in tanto ondeggiava. […] Allora andavo io stesso e trovavo una porta che conduceva nella camera di mia madre. Non c’era nessuno. L’atmosfera era inquietante, la stanza era molto grande e sospese al soffitto c’erano due file di cinque casette ciascuna a circa due piedi dal pavimento. Sembravano piccole casette da giardino di circa due metri quadrati di superficie, e ognuna conteneva due letti. Capivo che questa era la stanza dove mia madre – che in realtà era morta da molto tempo – era visitata dagli spiriti, e che aveva preparato questi letti perché essi vi dormissero. Erano spiriti che giungevano a coppie, coppie di sposi spettrali, per così dire, che vi trascorrevano la notte, o anche il giorno. Di fronte alla stanza di mia madre c’era una porta; l’aprivo ed entravo in una vasta sala che mi ricordava la hall di un grande albergo, era arredata con poltrone, tavolini, colonne e tutto il fasto solito in un simile luogo. Una banda di ottoni suonava rumorosamente; avevo sempre sentito la musica sullo sfondo, ma senza sapere da dove proveniva. Nella hall non vi era nessuno, eccetto la banda, che suonava motivi di danza e di marce. La banda degli ottoni nella hall allude a un’ostentata gaiezza e mondanità. Nessuno avrebbe sospettato che dietro questa chiassosa facciata ci fosse l’altro mondo, proprio nello stesso edificio. La hall del sogno era, per così dire, una caricatura della mia bonomia, o giovialità mondana. Ma questo era solo l’aspetto esteriore; dietro si nascondeva qualcosa di ben diverso, che non poteva essere indagato con il fragore della banda: il laboratorio dei pesci e le casette sospese degli spiriti. Erano entrambi dei posti impressionanti nei quali dominava un misterioso silenzio. Avevo la sensazione che ivi fosse il regno della notte, mentre la hall rappresentava il mondo della luce del giorno, con la sua superficiale mondanità”. A proposito delle casette sospese nella stanza della madre, Jung si ricorda di aver visto in Kenia, e lo mette in nota a questo sogno, delle cosiddette trappole per gli spiriti, che sono delle piccole casette in cui la gente colloca dei piccoli letti e mette cibo. In tale trappola, gli spiriti, secondo la credenza, trascorrono la notte, per tornare poi, prima dell’alba, nel bosco di bambù, che è la loro vera dimora. “Le immagini più importanti nel sogno erano la stanza di soggiorno degli spiriti e il laboratorio dei pesci. La prima esprimeva, in un modo piuttosto farsesco, la coniuctio. Il secondo indicava il mio pensiero rivolto al Cristo che è egli stesso il pesce, ’iktus’ (che, in greco antico, significa pesce). Si trattava di due argomenti intorno ai quali mi sarei affaticato per più di un decennio. È da notare che l’affaccendarsi con i pesci era attribuito a mio padre: nel sogno egli era un curatore di anime cristiane che, secondo un’ antica tradizione, sono i pesci presi nella rete di Pietro. È anche degno di nota che nel sogno mia madre apparisse come custode di anime dei defunti. Così, tutti e due, i miei genitori, apparivano incaricati della cura animarum (= cura delle anime), che in effetti era veramente compito mio. Qualcosa era rimasto incompleto e perciò si trovava ancora latente nel- Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 5 M O D U L O 3 La scoperta dell’inconscio l’inconscio e quindi riservato per il futuro. Infatti non avevo ancora assolto il compito principale dell’alchimia: la coniunctio. E così non avevo risposto alla domanda che l’anima cristiana mi poneva”. Tutto nel sogno di Jung riguarda Jung e rappresenta un suo aspetto: la casa, o meglio la parte sconosciuta della propria casa, la hall fragorosa dell’albergo, la musica, lo studio del padre, il silenzio che la abita, la stanza della madre, le casette degli spiriti appese al soffitto della stanza della madre, la loro coniunctio, cioè unione coniugale. La coniunctio allude anche a un simbolo dell’alchimia, un’antica disciplina non scientifica che anticipa la chimica. Jung studia l’alchimia perché in essa scorge simboli affini alle pro- duzioni dell’inconscio collettivo, come la religione e i miti. Il sogno di Jung deve fare i conti con il passato, deve comprendere il doppio lascito paterno e materno. “Il ricordo di mio padre è quello di un uomo che soffre, colpito da una ferita come Amfortas, un re pescatore, la cui ferita non voleva guarire. La sofferenza cristiana per la quale gli alchimisti cercavano la panacea. Io, come un folle Parsifal, ero il testimone di questa malattia negli anni dell’infanzia. E, come Parsifal, mi mancava la parola: avevo solo delle vaghe intuizioni”. Il padre di Jung è un pastore protestante probabilmente tormentato dal dubbio circa la propria fede religiosa. Egli non riesce a compiere una sintesi, una coniunctio, tra la fede e il dubbio e la sua anima è ferita. Questo spiega il riferimento simbolico del sogno alla leggenda del Re pescatore (inteso come pescatore di anime) Amfortas ferito da una lancia nel ventre (il luogo degli istinti), ferita che nessuno riesce a guarire. Solo l’eroe Parsifal (nel sogno Jung stesso), il puro folle, cioè audace e privo di pregiudizi, riesce a guarirlo e a operare un ricongiungimento, una coniunctio come quella degli sposi spettrali presenti nella camera materna, tra sensualità e spiritualità. Allo stesso modo Jung deve mantenere unita l’esigenza di rimanere fedele a se stesso e al padre spirituale, Freud. (Il sogno della casa si trova in: C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, 1978, pp. 258-262). ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Quale valore simbolico assume la casa per Jung? – Individua i vari simboli presenti nel sogno e il loro possibile significato. – Quale potrebbe essere il significato generale del sogno di Jung? 6 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 4 n Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 4, Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale, in particolare l’unità didattica 2, Ciclo vitale e ambiente sociale. CASO LA SIGNORA ANTONIA La signora Antonia ha 76 anni, è vedova da sei mesi e ha solo un figlio sposato che abita in un quartiere popolare di una città abbastanza grande, capoluogo di provincia, dove la donna si è trasferita due mesi dopo la morte per infarto del marito. In precedenza la signora abitava in un piccolo comune, a una ventina di chilometri dal figlio, in una casetta in campagna dove si occupava insieme al marito, oltre che dell’andamento familiare, di un piccolo orto e di un pollaio. La signora soffre di artrosi, ma questo non le impediva, quando il marito era in vita, di aiutarlo nel lavoro e di vivere serenamente. Dopo la morte del marito, Antonia vive per qualche mese da sola, ma a seguito di una brutta influenza che la costringe per diverso tempo a stare a letto, ha un deperimento organico che le fa perdere parzialmente l’autonomia e accentua lo stato depressivo che si era cominciato a manifestare dopo la morte del coniuge. Il figlio decide allora di prenderla con sé in modo definitivo, trasferendola nella propria abitazione dove Antonia può usufruire di una stanza per sé. Il figlio Carlo e la nuora Emilia sono operai e lavorano dalla mattina presto fino a sera; solo Carlo, lavorando vicino casa, ha il tempo di tornare a casa nella pausa pranzo. I coniugi hanno un bambino di nove anni che frequenta una scuola media a tempo prolungato e torna a casa alle 16,30. Il fatto di stare sola in casa per molto tempo non aiuta Antonia a recuperare la propria autonomia, inoltre la donna vive una condizione di disagio e di emarginazione in quanto non avendo nulla da fare si sente inutile ed è convinta di essere malata. In effetti, una sintomatologia non manca: Antonia ha poco appetito, dorme poco e solo con sedativi, soffre di stitichezza ed evacua solo con purganti. Antonia fa fatica a camminare e trascorre molte ore a letto nella sua stanza, esce solo per mangiare su insistenza dei familiari. La signora richiede aiuto anche per andare in bagno e trascura la propria igiene personale; inoltre è divenuta lamentosa, fa un uso disordinato dei farmaci prescritti dal vecchio medico di famiglia e richiede continuamente l’attenzione dei familiari, quando sono in casa. Preoccupato dalla situazione, Carlo si rivolge ai servizi sociali. Il primo colloquio avviene con l’assistente sociale a cui Carlo espone la situazione. L’assistente ne parla con un tecnico dei servizi, esperto nel lavoro con gli anziani, che acquisisce una maggiore conoscenza della situazione con una visita domiciliare nel corso della quale ha modo di parlare anche con Antonia e gli altri familiari. Il tecnico diviene il primo referente del caso e viene formata una équipe di lavoro, secondo la tecnica della gestione integrata del caso, composta dall’assistente sociale, da uno psichiatra e dal tecnico. In seguito, è contattato un operatore di un centro diurno per anziani. La vedovanza, la perdita del proprio ambiente socio-familiare creano in Antonia una crisi affettiva e di ruolo. In tale situazione psico-sociale gli inevitabili “acciacchi” della vecchiaia divengono catalizzatori di un vero e proprio declino fisico a cui si associa la comparsa di molti sintomi caratteristici di una probabile depressione reattiva. Dalla mappa della rete, comprese quelle secondarie informali, l’équipe individua in un centro diurno per anziani, presente in zona, l’ambiente dove Antonia può ritrovare uno spazio di socializzazione e un nuovo ruolo. Nell’ambiente familiare Antonia appare troppo isolata e le donne del centro svolgono numerose attività, tra cui il ricamo, in cui Antonia può inserirsi. L’anziana signora ha per ora smesso di ricamare, ma è molto abile in tale lavoro. Nel centro si svolgono anche attività di giardinaggio e orticoltura in cui Antonia potrebbe essere inserita. Un ruolo positivo possono averlo le attività psicomotorie riabilitative presenti nel centro, nonché le cure estetiche (servizio di parrucchiera) che esso offre. Lo psicologo con alcuni colloqui sensibilizza la famiglia di Antonia sulla necessità che l’anziana signora ritrovi motivazioni e ruoli anche all’interno di tale gruppo primario. Viene così valorizzato il rapporto con il nipote: in un certo senso, il nipote deve occuparsi della nonna e la nonna del nipote. Lo psichiatra prescrive una cura di farmaci congrua allo stato di umore della donna e prescrive una dieta adeguata. depressione reattiva stato depressivo strettamente legato agli avvenimenti esterni, ma con intensità e durata sproporzionate rispetto agli eventi ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Perché la coabitazione della signora Antonia con il figlio sposato porta a un peggioramento del suo stato di salute? – In che modo l’assistente sociale riesce a effettuare un intervento delle reti sociali? – Perché tale intervento si rivela efficace? © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 7 MODULO 5 n Il disagio mentale Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 5, Il disagio mentale. FINESTRA LE KLIKUŠI RUSSE E LE TARANTATE SALENTINE Dostoevskij, in questo brano del romanzo I fratelli Karamazov, descrive una guarigione rituale, a carattere religioso, che per certi aspetti può considerarsi una forma primitiva di psichiatria dinamica. Le klikuši, donne affette da una malattia nervosa caratterizzata da convulsioni e urla (il termine contiene la radice klick che significa “grido”), vengono guarite dagli starec, padri spirituali dei monasteri ortodossi. “Lo starec stava in piedi sul gradino superiore, indossò la stola e cominciò a benedire le donne che gli si affollavano intorno. Protesero verso di lui per entrambe le braccia una klikuša. Quella non appena vide lo starec, cominciò a singhiozzare e strillare in maniera insensata, contorcendosi tutta come nelle doglie. Lo starec le poggiò la stola sul capo e recitò una breve preghiera: quella ammutolì subito e si calmò. Non so come sia adesso, ma quando ero piccolo mi capitava spesso di vedere queste klikuši nei villaggi e nei monasteri. Le accompagnavano alla messa, quelle strillavano e latravano come cani per tutta la chiesa, ma quando portavano fuori i sacramenti ed esse vi venivano avvicinate, l’‘ossessione’ cessava. […] Alle domande che allora facevo in proposito, mi sentivo rispondere da alcuni proprietari, e soprattutto dai miei insegnanti di città, che quella era tutta una messa in scena per non lavorare. […] Ma in seguito, con mia meraviglia, appresi da medici specialisti che non si tratta affatto di finzione, ma che quella è una terribile malattia attestante, pare soprattutto da noi in Russia, il pesante destino delle nostre contadine […] dal dolore represso, dalle percosse e da altre sofferenze del genere che alcune nature femminili non riescono a sopportare, come di solito accade. […] La strana e istantanea guarigione della donna invasata e in preda alle convulsioni […] avveniva anch’essa. Probabilmente, in modo naturale: sia le donne che conducevano la malata ai sacramenti sia, soprattutto, la malata stessa, credevano fermamente, come una verità inconfutabile, che lo spirito impuro che possedeva la malata non avrebbe resistito. […] Nella donna malata di nervi e, pure, senza dubbio, malata psichicamente, avveniva sempre […] un’improvvisa commozione di tutto l’organismo nel momento dell’inchino davanti ai sacramenti. […] La stessa cosa si verificò anche nel momento in cui lo starec coprì la malata con la stola”. (Tratto da: Fëdor Michaijlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 2003, pp. 66-67). Non bisogna credere che si tratti di un semplice fenomeno di suggestio- ne. Il rituale di guarigione trova la propria sostanza culturale nelle credenze e nei valori dei contadini russi e la propria sostanza sociale e psicologica nelle condizioni di vita durissime di queste popolazioni, in particolare delle donne. Un fenomeno, per alcuni aspetti simile, ma più complesso e ricco di elementi,è quello delle tarantate del Salento (l’estrema regione meridionale della Puglia). Fino a non molti decenni fa, alla fine del mese di giugno, dopo la raccolta del grano, alcune contadine di questa località credevano di essere morse dalla “taranta” (un ragno “immaginario”) e cadevano in un’agitazione nervosa, simile a quella descritta da Dostoevskij per le contadine russe. La guarigione avveniva attraverso una danza sfrenata in cui la donna “mimava” la taranta, al ritmo di tamburelli, violini e canti fino a cadere a terra sfinita. Il sacerdote non aveva un ruolo diretto nella cerimonia (anzi, negli ultimi tempi, essa è stata apertamente sconfessata, come estranea al culto cattolico) e interveniva solo a guarigione avvenuta, con la celebrazione di una messa. Sulle tarantate l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965) ha compiuto, insieme a collaboratori specializzati in varie discipline scientifiche, una ricerca molto ampia e documentata, pubblicata nel 1961 con il titolo La terra del rimorso. ESERCITAZIONE Questa lettura può costituire lo spunto per una ricerca di tipo antropologico sulle guarigioni rituali. Per analizzare il fenomeno delle “tarantate” salentine, si veda il testo classico di Ernesto De Martino, La terra del rimorso, che il Saggiatore ha ripubblicato nel 2008, corredandolo di un DVD. Si consulti anche: Gabriele Mina, Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo 1945-2006, Besa Editrice, Nardò (LE), 2006. Tra i siti Internet: www.taranta.it e www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php 8 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 10 n La psicologia sociale Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 10, La psicologia sociale, in particolare all’unità didattica 3, Le impressioni, il conformismo, le attribuzioni, l’equilibrio e le rappresentazioni sociali. FINESTRA GIOCARE A CARTE CON AVVERSARIO LA “NATURA” OPPURE IL “CASO” Serge Moscovici e i suoi collaboratori basano le proprie tesi sulle rappresentazioni sociali soprattutto su dati storici e su osservazioni ed esperimenti svolti nell’ambiente naturale, ricorrendo raramente a esperimenti di laboratorio. In questo testo, però, si espone uno di tali esperimenti. “Nel 1968 Claude Faucheux e io cercammo di provare che le rappresentazioni modellano i nostri comportamenti nell’ambito di un gioco competitivo. Basammo il nostro esperimento su un normale gioco di carte. La sola variante che introducemmo fu che ad alcuni dei soggetti fu detto che stavano giocando contro la ’natura’, mentre ad altri fu detto che il loro avversario era il ’caso’. Il primo termine evoca un’immagine del mondo più rassicurante, comprensibile e controllabile, mentre l’idea del caso, qui sottolineata dalla presenza di un mazzo di carte, richiama alla mente avversità e irrevocabilità. Come ci aspettavamo, la scelta dei soggetti, e soprattutto il loro comportamento, differì a seconda della rappresentazione che essi avevano del loro avversario. Così la maggior parte dei soggetti posti a confronto con la ’natura’ dedicò tempo a studiare le regole ed elaborare un qualche tipo di strategia, mentre quei soggetti che fronteggiavano il ’caso’ concentravano tutta la loro attenzione sul mazzo di carte, cercando di indovinare quale carta sarebbe stata data, e non preoccupandosi delle regole del gioco. Le cifre parlano da sole: 38 su 40 di quelli che giocarono contro la ’natura’ furono in grado di spiegare le regole, mentre solo 12 su 40 degli altri furono in grado di farlo. [...] Dunque le nostre rappresentazioni interne, che abbiamo ereditato dalla società o fabbricato noi stessi, possono modificare il nostro atteggiamento verso qualcosa al di fuori di noi stessi”. (Tratto da: Serge Moscovici, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 94-95). ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Individua nell’esperimento in questione la variabile indipendente, la variabile dipendente e l’ipotesi. – Quali risultati confermano l’ipotesi? Raccogli tra i compagni una serie di descrizioni (sia con parole che con immagini) delle rappresentazioni della “natura” e del “caso”. Partendo dai tratti comuni di tali descrizioni, prova quindi a realizzare una sintesi della rappresentazione della “natura” e di quella del “caso”. © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 9 MODULO 12 n Gli anziani Il presente testo fa riferimento a quanto esposto nel modulo 12, Gli anziani, in particolare all’unità didattica 1, Aspetti e problemi della condizione degli anziani. FINESTRA LE CAPACITÀ DEI CENTENARI Il gerontologo americano Thomas T. Perls, in uno scritto del 2004, distingue tre profili di centenari: i “sopravvissuti” (survivors), cioè gli anziani ai quali viene diagnosticata una demenza prima degli 80 anni; i “ritardatari” (delayers), cioè gli anziani ai quali il disturbo viene diagnosticato a 80 anni o dopo; i “fuggitivi” (escapers), cioè gli anziani che hanno compiuto 100 anni sfuggendo alle trappole dell’invecchiamento, ovvero senza diagnosi di demenza o di disturbo cognitivo. Alcuni studi americani, ma anche italiani e giapponesi, cominciano a evidenziare il quadro tipico dei “fuggitivi”, che è di grande interesse per la psicologia. Il loro numero è modesto (tra il 15 e il 20% del totale dei centenari) e la loro “fuga” è il risultato di un’interazione molto rara tra variabili genetiche e ambientali; inoltre i centenari “fuggitivi” uomini sono più numerosi delle donne. Vari studi sui centenari hanno dimostrato che il loro declino sensoriale non è molto distante da quello degli ottantenni e dei novantenni. Per esempio, alcuni studiosi americani hanno chiesto a 15 anziani centenari, che non presentavano deterioramento cognitivo, di raccontare liberamente gli eventi più importanti della loro vita. Ad altri 22, sempre privi di deterioramento cognitivo, sono state presentate delle liste di parole (fuoco, amido, soldi ecc.) con il compito di associare a ogni singola parola un ricordo autobiografico preciso e databile. I due studi hanno dimostrato che i centenari hanno una memoria simile a quella degli ottantenni: ricordano pochissimo dei primi tre anni di vita e riportano soprattutto i ricordi delle prime fasi dell’età giovane (tra i 15 e i 30 anni) e degli ultimi anni della propria vita. Il lavoro è importante soprattutto perché dimostra che perfino i centenari non presentano necessariamente deficit per gli eventi più recenti. Anche la capacità di dare il nome giusto a oggetti rappresentati con disegni è simile tra gli ottantenni e i centenari della ricerca e altrettanto può dirsi per l’attenzione e il ragionamento. Per ciò che riguarda lo stile di vita, dalle interviste risulta che tali centenari hanno diete prevalentemente vegetariane; assumono l’alcol in quantità moderate; non fumano; amano stare in compagnia, soprattutto di familiari e amici, e fanno lunghe passeggiate. Il ruolo dei fattori fisico-ambientali ci è ormai largamente noto, ma che cosa favorisce la longevità della mente? L’esercizio e la pratica risultano certamente utili, ma il fattore più importante è la disponibilità a iniziare a imparare cose nuove e a sviluppare nuovi interessi. Risulta altresì importante avere atteggiamenti positivi verso la vita e ricercare l’autonomia personale e decisionale. I fuggitivi, dunque, sono anziani che riescono meglio degli altri a vivere la vita come una sfida e a modificare il loro comportamento in base alle richieste fisiche e ambientali. (Sintesi di: Nicola Mammarella, La carica dei 101, in “Psicologia contemporanea”, n. 191, sett.-ott. 2005, pp. 52-58). ESERCITAZIONE Dopo aver letto attentamente il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Quali caratteristiche dei centenari “fuggitivi” sono simili a quelle dei soggetti sani di ottanta anni? – Quali caratteristiche dello stile di vita facilitano il raggiungimento di tale condizione? Ispirandoti a quanto esposto nel brano, realizza un questionario per intervistare un soggetto “sano” vicino ai cento anni. Se ti presenta l’occasione, effettua una o più interviste. 10 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 13 n La famiglia multiproblematica Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 13, La famiglia multiproblematica, in particolare, all’unità didattica 1, Famiglie e disagio familiare. CASO MADRI LESBICHE E PADRI OMOSESSUALI I nuclei omosessuali con prole sono ormai una realtà in molti paesi del mondo occidentale. Anna Oliverio Ferraris e Alessandro Rusticelli hanno condotto un’indagine esplorativa mirata allo studio delle dinamiche familiari e dello sviluppo infantile nelle famiglie lesbiche, raccogliendo le testimonianze di 11 coppie femminili di età compresa tra i 23 e i 55 anni e dei loro figli. Le situazioni familiari sono di vario tipo: per esempio, ci sono donne con figli nati da relazioni eterosessuali precedenti, donne con figli avuti mediante fecondazione assistita, con donatore anonimo oppure conosciuto. Il clima riscontrato in queste famiglie è risultato sereno, con un’attenzione talvolta superiore alla media nei confronti dei figli e un notevole impegno a educarli alla tolleranza di tutte le diversità. Sono, però, emersi anche diversi punti di fragilità; infatti non è sempre facile per un figlio accettare l’omosessualità di un genitore. Significative sono le parole di Mara (35 anni, nata da un’unione eterosessuale e inserita appena adolescente nella coppia lesbica): “Sono sempre stata protettiva con lei [la madre], quasi fossi io la madre. Le persone che mi portava a casa, fossero maschi o femmine, non mi andavano mai bene, pensavo sempre che lei meritasse di più, forse facevo il confronto con il papà idealizzato. […] La gelosia più grande l’ho vissuta per la prima donna di cui mia madre si è innamorata. Avevo 14 anni e […] sentivo tra loro un’attrazione che non riuscivo a definire, a cui non ero assolutamente preparata e mia madre non mi ha mai detto di avere una relazione con un’altra donna”. C’è poi il confronto con il mondo © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. esterno, non ancora preparato a questo tipo di famiglie. Monica (13 anni): “Una volta il nostro professore tirò fuori l’argomento in classe e tutti i miei compagni si misero a ridere solo a sentire la parola ’omosessualità’. […] Mi stava venendo da piangere. Ho provato vergogna per l’omosessualità di mia madre. […] Questo perché la mia è una mamma diversa dalle altre. In un certo senso meno male che è diversa, però non ’diversa’ in questo modo!”. Un altro problema è quello dei ruoli, perché è abbastanza controverso il fatto che i ruoli, materno e paterno, siano del tutto interscambiabili. Dice Marco (figlio, 30 anni): “Ho scoperto l’omosessualità di mia madre quando ero già grande […] non mi ha disturbato […] e non me ne vergogno affatto. Anche con la sua compagna mi trovo bene, la considero parte della famiglia. Quello che mi ha pesato è stata la mancanza di un padre. Ho sempre cercato, negli amici che frequentavano il gruppo di mia madre, una figura paterna. Mi ricordo di almeno sei di questi amici che, un po’ a turno, sceglievo come padre. Mi sentivo accettato da loro e ho imparato tanto […]”. Le analisi dei disegni dei bambini nati mediante fecondazione assistita, e la letteratura esistente sull’argomento, suggeriscono che attorno ai 6-7 anni i bambini iniziano a porsi delle domande e a divenire consapevoli della diversità, rispetto alla situazione dei coetanei. Marco di 6 anni chiede, per esempio, di ricevere per Natale un papà “alto, magro e biondo” come lui. Gli autori ci ricordano che, per lo più, gli studi sull’argomento riguardano coppie con figli ancora piccoli, per cui ancora non si può sapere con certezza quali significati e quali aspettative i figli attribuiranno in futuro alla figura del donatore e, sicuramente, le problematiche saranno diverse se si tratta di un donatore ignoto, oppure identificabile ma lontano, o facilmente raggiungibile, quasi uno “zio”. Gli autori affermano che se è innegabile che il vero genitore è colui che educa il figlio, è inevitabile che una persona cerchi di ricostruire tutti i tasselli della propria esistenza. Sempre gli stessi autori hanno svolto un’altra ricerca esplorativa, intervistando otto omosessuali maschi di età compresa tra i 44 e i 63 anni. Tutti sono sposati e, in sette casi su otto, il matrimonio si è concluso, diversi anni dopo la nascita di figli, con la separazione o con il divorzio. Il percorso che ha portato ciascun intervistato alla scoperta della propria omosessualità non è stato facile, ma qui ci interessa l’aspetto relativo alla loro paternità. Flavio (61 anni), padre di un figlio di 35 anni, dice: “Mio figlio sa tutto. Ho iniziato a parlargliene indirettamente quando era adolescente. […] Poi un giorno, dopo la rottura con mia moglie, decisi di invitarlo a cena con la sua fidanzata e di presentargli il mio compagno. […] Devo dire che Giovanni reagì con qualche riserva nei primi tempi, poi presto superata, perché è stato educato a una mentalità aperta”. Gli autori affermano che i figli più piccoli sembrano avere meno problemi ad accettare l’omosessualità dei padri. Probabilmente più il padre aspetta a rivelare al figlio le proprie inclinazioni, più tempo ha quest’ultimo di interiorizzare i pregiudizi della società. Gli autori sostengono anche che quando i figli hanno diffi- Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 11 coltà ad accettare l’omosessualità del genitore, ciò che rifiutano non è il rapporto con lui e il ruolo paterno, ma l’identità gay, con tutto il carico di valutazioni e stereotipi sociali che comporta. Dice Laura (18 anni): “Capisco che lui faccia di tutto per- ché io lo accetti per quello che è, lo so che mi vuole bene e che tiene al mio giudizio, ma è veramente difficile per me mandare giù il fatto che sia gay. Questa è la vita e il mondo che lui ha scelto, d’accordo, ma io non voglio esserne coinvolta”. (Da: A. Oliverio Ferraris, A. Rusticelli, Donne al timone, in “Psicologia contemporanea”, n. 195, maggio-giugno 2006, pp. 6-12; I padri gay, in “Psicologia contemporanea”, n. 197, settembre-ottobre 2006, pp. 40-47). ESERCITAZIONE Con un gruppo di compagni affronta l’argomento del caso esposto esprimendo un parere sull’opportunità di: a) regolamentare le unioni civili in modo che alcuni diritti e doveri dei coniugi sposati siano estesi anche a tali coppie; b) consentire a tali coppie di pattuire tra loro privatamente degli accordi; c) consentire il matrimonio civile e, eventualmente, l’adozione di bambini, anche alle coppie omosessuali. La discussione deve seguire la seguente regola: ogni allievo svolge un breve discorso (massimo di tre o quattro minuti) portando argomenti favorevoli a una tesi diversa rispetto a quella in cui si riconosce e il suo discorso deve ricevere l’approvazione della maggioranza delle persone che invece si riconoscono in tale tesi. Ognuno di tali discorsi, se approvati, verrà sinteticamente verbalizzato da un segretario. 12 Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. MODULO 13 n La famiglia multiproblematica Il presente caso fa riferimento a quanto esposto nel modulo 13, La famiglia multiproblematica, in particolare, all’unità didattica 2, Famiglie multiproblematiche e modalità d’intervento. Importante è anche la lettura dell’unità didattica 2, Ciclo vitale e ambiente sociale del modulo 4, Sviluppo, ciclo vitale e ambiente sociale. CASO MARIA E L’AIUTO ECONOMICO DEI SERVIZI SOCIALI Il caso di Maria evidenzia come l’aiuto economico può assumere un significato diverso in base alle modalità con cui viene erogato dai servizi e ottenere effetti differenti sulla vita e l’organizzazione delle famiglie in difficoltà. Siamo nel 1974 e Maria, una donna piccola e magrissima, ha tre figli: il maggiore di 22 anni lavora in una falegnameria ed è nato da una relazione con un uomo che si è dileguato appena la donna è rimasta incinta. Gli altri due, Marco di 9 anni e Roberto di 7, sono nati dall’unione con un altro uomo, disoccupato e spesso ubriaco, che voleva che la madre non li riconoscesse e li abbandonasse. L’assistente sociale all’inizio ha aiutato Maria suggerendo la coabitazione di lei e dei due bambini piccoli con il figlio maggiore, sposato con una ragazza di appena 16 anni, e il fratello celibe di Maria, in una casa di quattro/cinque stanze. Roberto frequenta regolarmente la prima elementare senza particolari problemi, mentre Marco, che frequenta la seconda con scarsi risultati, è definito un bambino “caratteriale” e presenta i seguenti disturbi: enuresi, encopresi, mutacismo, per cui è seguito dal Centro di Igiene Mentale. I due bambini ricevono anche un piccolo sussidio economico da un ente assistenziale per l’infanzia. Maria è una signora timida e insicura e ha molta paura quando deve incontrare persone “autorevoli” come il direttore e gli insegnanti della scuola del figlio, il parroco o altre figure delle istituzioni; non riesce nemmeno a protestare quando il sussidio dei figli non arriva puntuale ed è costretta a svolgere qualche lavoretto a ore per vivere. Nel 1979 un terapeuta a orientamento relazionale inizia a occuparsi del caso di Marco (che continua da essere un soggetto problematico) e, leggendo la relazione degli operatori che lo hanno preceduto, si accorge come in loro fosse presente la convinzione che la madre non fosse capace di seguire i loro consigli su come comportarsi rispetto ai problemi di Marco. Inoltre l’incolpavano di essere incapace di utilizzare i servizi e le istituzioni pubbliche. Il terapeuta ha degli incontri con la madre e i due figli e, nel corso dei colloqui con tale “sottosistema” familiare, agisce in modo da rivalutare e rafforzare il ruolo della donna. Afferma che è da ammirare perché riesce a conciliare il suo ruolo casalinga con il lavoro esterno, assumendo su di sé anche i compiti di entrambi i genitori. Il terapeuta quindi modifica l’idea che i due adolescenti si erano fatti della madre. Il terapeuta è convinto che i disturbi di Marco in qualche modo sono di aiuto e soste- gno anche a una madre così sottomessa che, a causa del figlio, può consultarsi continuamente con operatori i quali pensano sì al figlio, ma prestano aiuto anche a lei. Per cambiare tale situazione lo psicologo ha un lungo colloquio con tutti e tre, in cui evidenzia come Maria, assumendo su di sé la responsabilità dei figli, abbia fatto risparmiare ai servizi sociali molti soldi. In un incontro successivo viene spiegato ai ragazzi che non avrebbero ricevuto più alcuna forma di sussidio, ma sarebbe stato dato alla madre uno “stipendio” per il lavoro che aveva svolto finora e che continuava a svolgere. Il rapporto così impostato, in modo da correggere la situazione gerarchica e ridare alla madre quel potere (compreso l’aiuto economico) che tutti avevano contribuito a sminuire, porta ad affrontare, con la stessa strategia, anche gli altri problemi. Tre anni più tardi il figlio Marco, seguendo i consigli della madre, ha cominciato a lavorare come apprendista in una bottega di restauratore, è alto e abbastanza robusto; anche l’altro figlio Roberto sta crescendo bene e la madre stessa mostra una salute decisamente migliore. (Tratto da: M. Malagoli Togliatti, L. Rocchietta Tofani, Famiglie multiproblematiche, NIS, Roma, 1987, pp. 166-170). ESERCITAZIONE Dopo aver letto il testo, rispondi ai seguenti quesiti. – Quali dinamiche psicologiche potrebbero essere alla base dei disturbi di Marco? – Quali dinamiche psicologiche sono alla base dell’insicurezza di Maria? – Perché, nel 1974, i consigli e gli interventi dell’assistente non raggiungono gli effetti sperati? – Come, nel 1979, lo psicoterapeuta cambia i ruoli all’interno della famiglia di Maria? – Perché tali cambiamenti risultano efficaci? © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. Luigi D’Isa - Psicologia generale, evolutiva e sociale 13