1 L`adolescente e l`uso di sostanze psicoattive. 1. Introduzione La

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1 L`adolescente e l`uso di sostanze psicoattive. 1. Introduzione La
L’adolescente e l’uso di sostanze psicoattive.
1. Introduzione
La ricerca sugli aspetti eziologici della dipendenza da sostanze psicoattive, si è
focalizzata fino ad oggi, prevalentemente sugli aspetti genetici, biochimici e sui meccanismi
fisiopatologici attivati dall’assunzione di tali sostanze oppure, discutibilmente, sugli antefatti
psicobiografici o su presunti dinamismi psicopatologici. L’interesse per altri fattori socioculturali e psicologico-comportamentali che, interagendo con questi aspetti, possono favorire i
comportamenti di abuso e determinandone i percorsi nella risoluzione o nel consolidamento,
sono sempre stati studiati separatamente. Questa frantumazione di prospettive, alcune lecite e
altre meno, ha portato a enfatizzare “ideologicamente” sul piano degli interventi o le soluzioni
del trattamento farmacologico coatto o quello pedagogico-moraleggiante di tipo comunitario
o le soluzioni psichiatrica e psicoterapeutica. Ciò ha prodotto un’inevitabile disarticolazione
degli interventi e la frequenza degli insuccessi di trattamento che hanno caratterizzato, in
questi ultimi anni, il panorama delle metodologie di prevenzione, valutazione e terapia delle
condotte d’abuso.
La prospettiva eziologica si fonda sulla ricerca di una “causa” che sia in grado di
creare un legame esplicativo fra un singolo fattore eziologico e un comportamento deviante,
per esempio psicopatologico o sociobiografico, trasponendo fiduciosamente ma non sempre in
modo pertinente, l’epistemologia del “modello medico” impropriamente applicato a “eventi”
o fattori non di natura biologica, come quando, ad esempio, si attribuisce alla mancata
formazione dell’Io, la causa del ricorso all’eroina come sedativo di tale carenza (Olievenstein,
1984). Al di là dell’accettabilità logica, teorica ed empirica di questa convinzione, è evidente
che in questo caso il comportamento deviante diventa il sintomo di una “malattia”, di cui
bisogna ricercarne l’eziopatogenesi e il soggetto che lo attua si configura come un “paziente”
da curare (Salvini, 1988). Il problema eziologico si è quindi configurato nella selezione di
singole variabili che fossero in grado di predire o spiegare l’insorgenza dei diversi “disturbi
del comportamento” nella logica della “causalità diretta” (Emiliani e Bastianoni, 1993). Ma la
recente attenzione sulla complessità di un’analisi dell’interazione persona-situazione, divenuta
una questione centrale per lo studio della personalità (Pervin, 1990), si riflette in una visione
del comportamento come il risultato dell’interazione fra molteplici processi e non di singole
variabili. Da ciò la necessità di un pluralismo teorico e metodologico che scalzi
l’enfatizzazione di una singola prospettiva di studio o della “causa rilevante” e che, creando
legami fra le diverse discipline, accresca la validità della ricerca empirica su questo fronte.
Il riconoscimento di una multifattorialità biologica, psicologica e socio-culturale
dell’eziologia delle condotte tossicofiliche, impone l’individuazione di una prospettiva che
integri i risultati a cui sono giunti i diversi settori di ricerca e che sappia offrire un punto di
contatto per l’unificazione dei programmi d’intervento.
Allo scopo di spiegare la suscettibilità individuale al rischio di intraprendere questo
tipo di comportamenti disadattivi, sono stati introdotti i concetti di vulnerabilità e di
resilience1 che, denotando il primo un aumento della suscettibilità al rischio, inteso come un
insieme di condizioni in grado di dar vita a delle condotte disadattive, e il secondo invece la
capacità di superare gli eventi stressanti (Rutter, 1985), costituiscono gli elementi
1
Letteralmente, capacità di essere flessibile e di resistere agli urti. Con il concetto di resilience si vuole far
riferimento sia alla capacità degli individui di far fronte allo stress, sia al risultato di un buon adattamento,
nonostante le difficoltà che possono insorgere in seguito ad eventi o condizioni stressanti (Emiliani, 1995).
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fondamentali per comprendere i meccanismi e i processi responsabili delle differenze
individuali nell’adattamento.
Il concetto di vulnerabilità, introdotto da Anthony (1980), fa riferimento alle capacità
di difesa passiva del bambino, come frutto di una condizione di particolare sensibilità che,
avendo un’origine multifattoriale, fa sì che di fronte alla medesima situazione di rischio non
tutti i bambini vadano incontro allo stesso disturbo. Secondo il modello di Kumpfer (1987)
sono i fattori biologici, quali l’apporto genetico dei genitori e l’ambiente prenatale, le variabili
neuropsicologiche e temperamentali che, interagendo con i fattori ambientali, quali la
famiglia, la comunità e il gruppo dei pari, influenzano la futura e “probabilistica” vulnerabilità
del bambino all’abuso di alcol e droga. Questo modello bio-psicosociale, adottando una
prospettiva di studio che individua, in un complesso sistema di influenza reciproca, la messa
in atto di comportamenti adattivi e disadattivi da parte della persona, valuta i diversi fattori di
rischio non in modo deterministico, ma all’interno di una concezione interazionista dello
sviluppo che li considera “transazionalmente” in relazione fra loro, rendendo così obsoleta la
tradizionale distinzione tra variabili dipendenti e indipendenti (Krahé, 1992; Emiliani, 1995).
A causa della molteplicità delle sfide ambientali/situazionali che, mano a mano che il
bambino cresce, cambiano e aumentano la loro influenza nelle diverse fasi di sviluppo
evolutivo, degli stati interni (motivazioni, bisogni ed emozioni) e delle caratteristiche
temperamentali, delle abilità percettive e cognitive, dei valori e degli atteggiamenti che
guidano le scelte e le esperienze, la ricerca sulla disposizione alla dipendenza e il suo
realizzarsi o meno, diventa complessa e articolata.
Prima di passare ad esaminare i diversi fattori di rischio che possono aumentare la
vulnerabilità dell’individuo all’abuso di sostanze psicotrope, cerchiamo di analizzare quali
siano le età maggiormente a rischio per l’iniziazione al consumo di sostanze psicoattive e
alcune altre caratteristiche che lo configurano.
2. Le età a rischio per l'iniziazione, la durata dei consumo, le differenze fra maschi e
femmine
L'età in cui ha inizio l'uso delle diverse sostanze psicoattive è piuttosto diversificato. Il
periodo di maggior rischio per gli inalanti è indicato fra i 12 ed i 13 anni, per l'alcool e il
tabacco fra i 10 e i 15. L'uso di queste ultime sostanze cresce in modo considerevole proprio
negli anni dell'adolescenza, raddoppiando addirittura fra le prime e le ultime classi delle
scuole superiori, ed ha la massima diffusione fra i 18 ed i 34 anni. A 14-15 anni il fumo di
sigarette costituisce un comportamento già sufficientemente stabilizzato, tanto che si ritiene
che da questo momento la probabilità di iniziare a fumare, da parte di chi non lo ha già fatto,
diminuisca progressivamente con l'aumentare dell'età.
Il vino rappresenta la prima sostanza che sia i bambini sia gli adolescenti iniziano ad
utilizzare, in famiglia, prevalentemente ai pasti. Con il progredire dell'età aumenta la
frequenza e l'entità delle assunzioni fuori pasto, e si amplia la tipologia delle bevande assunte
(Gibbons et al. 1986; Renga e Bena 1988). L'uso di alcolici da parte degli adolescenti è in
genere moderato, solo il 30% dei consumatori è definibile «problematico» e solo una
percentuale minima è etilista nel senso tradizionale del termine. Gli uomini bevono in genere
più delle donne a tutte le età (il rapporto è di 5 a 1), indipendentemente dal tipo di religione,
dal gruppo etnico e dalla classe sociale di appartenenza. I ragazzi rispetto alle ragazze iniziano
l'uso più precocemente, bevono con più frequenza ed in maggiore quantità, e passano dalla I
alla II assunzione in un lasso di tempo inferiore.
L'uso di psicofarmaci su prescrizione medica non riguarda tanto gli adolescenti quanto
gli adulti, ed in particolare le donne che hanno più di 25 anni.
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Mentre l'uso delle droghe lecite tradizionalmente utilizzate nella nostra cultura
interessa tutte le fasi del ciclo di vita, quello delle illecite è un fenomeno che, almeno fino al
momento attuale, è soprattutto diffuso nell'adolescenza e nel periodo giovanile. L'età a rischio
per l'iniziazione all'hashish e alla marijuana è indicata fra i 15 ed i 17 anni. Le femmine
rappresentano circa un terzo dei consumatori, ma con livelli più bassi dei maschi sia per la
quantità che per la frequenza. C'è tuttavia da dire che tali differenze tendono per lo meno
negli Stati Uniti ad attenuarsi progressivamente. Non emergono differenze in base al sesso per
l'età in cui si verifica l'iniziazione, mentre se ne rilevano a proposito di chi induce alla prima
esperienza: nel caso dei ragazzi è soprattutto un amico o gli amici dello stesso sesso, in quello
delle ragazze è il partner (Rosenbaurn 1979). Gli anni fra i 18 ed i 25 sono quelli più a rischio
per intraprendere l'uso dell'eroina e di altre droghe pesanti.
Tra età e uso di droghe illecite risulta esservi una relazione curvilineare: il loro
consumo resta in genere estremamente basso e contenuto fino a 14 anni; aumenta poi con il
progredire dell'età fino a raggiungere il culmine nella prima fase dell'età adulta, indicato a
seconda dei diversi autori tra i 18 ed i 21 (Abelson, Fishburne e Cisin 1977), tra i 18 ed i 24
(Nyberg 1979) o a 25 (O'Donnel et al. 1976); diminuisce drasticamente in seguito, in
coincidenza con l'acquisizione dei ruoli sociali adulti. Esiste dunque una relazione
inversamente proporzionale tra l'acquisizione di questi ruoli e l'uso di droga; non è tuttavia
ancora del tutto chiarito se la prima segua o preceda il secondo, né è stato verificato se, come
e quanto un'esperienza di consumo che non conduca a dipendenza modifichi il modo in cui i
ruoli sono concretamente svolti. (Ravenna, 1997)
3. Le fasi e la sequenza nell'assunzione delle diverse droghe
L'uso di droga più che come un fenomeno può essere concettualizzato come un
processo (che ha un inizio, un andamento fatto di cambiamenti, oscillazioni, stabilizzazioni,
trasformazioni, e che prevede un epilogo). Esso può essere inquadrato in tre fasi cruciali
(avvicinamento, iniziazione, stabilizzazione) nel corso delle quali il soggetto attua le scelte
che determineranno le caratteristiche del rapporto fra lui e la droga.
La prima fase, detta preparatoria o di avvicinamento, è quella in cui il soggetto,
attraverso l'interazione con altri significativi (in questo caso i genitori, i fratelli ma soprattutto
i coetanei), struttura una sua posizione, fatta di credenze, aspettative, atteggiamenti, nei
confronti dell'eventualità di provare una droga. Essa può essere decisamente sfavorevole tanto
da escludere qualunque ipotesi di sperimentazione, può essere sfavorevole in quel momento
ma modificarsi successivamente, oppure può essere favorevole. In quest'ultimo caso il
soggetto, se si presenta l'occasione, può decidere di provare.
La seconda fase (contatto, iniziazione) riguarda la prima o le primissime esperienze
con una droga. Esse permettono al soggetto di valutare in modo concreto se gli effetti sono
negativi, positivi, più o meno congruenti con le sue aspettative, quale funzione e significato
essi hanno per lui, quali vantaggi e svantaggi in quel momento implicano. Sulla base di questa
valutazione egli può decidere di non fare più uso di quella sostanza o invece di continuare.
La terza fase è quella di sperimentazione e di stabilizzazione dell’uso: il consumatore
può decidere di adottare e stabilizzarsi su un particolare stile di consumo, che può essere
saltuario/episodico (e cioè moderato), regolare (in cui non sono evidenti problemi di
dipendenza) o dipendente, può decidere di passare dall'uno all'altro, intensificando o
diminuendo le assunzioni, o di interrompere temporaneamente o completamente.
L'evoluzione dall'astensione alla dipendenza, proprio perché presuppone che il
soggetto attui delle scelte fra possibili alternative, esclude che si tratti di un processo rigido,
continuo e irreversibile: i dati a disposizione sulla diffusione del consumo di droga, d'altra
3
parte, proprio dimostrando quanto pochi siano quelli che percorrono interamente il percorso
fino ad assumere gli stili di consumo più estremi, ne comprovano indirettamente la
flessibilità.
Pur non esistendo un nesso causale vero e proprio tra una fase e l'altra di consumo, il
fatto di avere strutturato un atteggiamento positivo nei confronti dell'uso di droga è
generalmente ritenuto un fattore che può aumentare la probabilità di una eventuale
sperimentazione; allo stesso modo l'avere provato concretamente una droga aumenta la
probabilità di instaurare un uso continuato e di passare da quest'ultimo ad uno dipendente.
Se l'uso di droga non è ricostruibile come una semplice sequenza di fasi, ma come un
processo, esso richiede di essere affrontato dalla ricerca in termini assai diversi da come lo è
stato fino ad ora: innanzi tutto è necessario che le fasi non siano più studiate separatamente e
che i percorsi di consumo delle diverse sostanze siano analizzati in modo differenziale (per
chiarire quanto e come i meccanismi implicati siano simili): infine, occorre che si tenga conto
in modo più serio delle differenze fra consumatori adolescenti e adulti, maschi e femmine.
Kandel (1980), esaminando i dati emersi da svariate ricerche compiute dalla Response
Analysis Corporation e dall'Università George Washington tra il 1971 ed il 1980 su campioni
estesi di popolazione giovanile, ha ipotizzato che esista una sequenza nell'uso delle diverse
sostanze che prevede 4 stadi: l'uso di birra e di vino (I) precede in genere quello del tabacco
e/o di superalcolici (II); questo a sua volta precede quello di marijuana (III) e l'uso di
marijuana quello dell'eroina (IV).
Le ricerche indicano, in particolare, che, fra tutti i giovani che hanno provato l'alcool
(il 93% circa), l'83% ha in seguito fumato sigarette e successivamente marijuana (68%).
Mentre l'uso di alcool nella maggior parte dei casi si protrae nel tempo, ciò non si è
dimostrato altrettanto vero per quello di tabacco e di,marijuana. La maggior parte di quelli che
hanno provato queste sostanze ne fa in genere un uso discontinuo ed episodico, e solo il 43%
di coloro che hanno provato a fumare sigarette ed il 38% dì quelli che hanno provato la
marijuana ne diventano consumatori regolari. Di questi ultimi solo una limitata percentuale
(indicata nei termini di un quarto della popolazione considerata) prova in seguito altre droghe
e una percentuale ancora più ridotta instaura con esse un rapporto abituale.
Kandel, oltre ad aver indicato il ruolo cruciale che droghe lecite quali l'alcool e il
tabacco svolgono nel facilitare l'uso di marijuana, ha anche rilevato che ogni fase coinvolge
un numero minore di soggetti rispetto alla precedente e che il fatto di essere in una certa
posizione della sequenza non implica necessariamente il progresso ad una ulteriore (in altre
parole l'uso di marijuana sembra essere un antecedente necessario ma non sufficiente a quello
di eroina). L'uso di una particolare droga rende semplicemente più probabile il passaggio alla
fase successiva, ma non esclude che ci si possa fermare in un qualsiasi punto della sequenza
senza progredire. I fattori che svolgono un ruolo determinante nella progressione sono la
precocità dell'iniziazione e il livello di coinvolgimento nel consumo.
Tutto questo ha permesso di confutare definitivamente tutte quelle microteorie
(stepping stone, escalation, progression theories) sviluppate negli Stati Uniti negli anni '60
durante il dibattito sulla liberalizzazione della marijuana, che ipotizzavano invece l'esistenza
di un rapporto causa-effetto tra l'uso di marijuana e quello dell'eroina.
Le droghe maggiormente diffuse in una data società sono in genere, sempre secondo
Kandel, quelle utilizzate per prime nella sequenza e sono anche quelle il cui uso persiste di
più nel tempo, è quantitativamente più consistente ed è più frequente. E’ stato riscontrato
inoltre che quanto più il consumo di una determinata droga diventa un comportamento sociale
diffuso, tanto più diminuisce l'età media della prima assunzione. (Ravenna, 1997)
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4. I fattori di rischio che possono influenzare l’avvicinamento e il consolidamento
dell’uso di droga
4.1 I fattori biologici
4.1.1 I fattori genetico-familiari
L’aumentata suscettibilità alla dipendenza da alcol e altre droghe nei figli di alcol- e
tossicodipendenti costituisce un dato noto da tempo. Gli studi familiari2 (Amark, 1951;
Bleyler, 1955; Pitts e Winokur, 1966; Cook e Winokur, 1985; Canton et al., 1987), i dati
forniti dalle ricerche sui gemelli3 (Kaij, 1960; Partanen et al., 1966) e sui bambini adottati
(Schuckit et al., 1972; Goodwin et al., 1973, 1974; Bohman, 1978; Cadoret et al., 1987;
Cloninger et al., 1988)4, forniscono le prove su come l’ereditarietà abbia un ruolo importante
nella genesi della dipendenza: i figli di alcolisti sembrano avere una probabilità dalle due alle
nove volte maggiore dei figli di genitori non dipendenti. Questa diversa incidenza dipende dal
tipo di alcolismo ereditato: se si tratta di alcolismo di tipo I (circoscritto all’ambiente) che
colpisce sia i maschi che le femmine, il rischio di contrarlo è condizionato dall’azione di
fattori scatenanti ambientali; se è alcolismo di tipo II (circoscritto ai maschi), che è
determinato prevalentemente da fattori genetici, il rischio è 9 volte maggiore.
Una parte della ricerca più recente ha avuto come obiettivo l’individuazione di
indicatori (markers) biologici di predisposizione. Il marker di vulnerabilità genetica o fattore
di rischio genetico è rappresentato da una caratteristica che viene ereditata e che presenta un
legame con una certa malattia. Tale caratteristica può essere determinata da un gene a locus
singolo conosciuto, oppure può essere misurato quantitativamente e descritto qualitativamente
senza però che se ne conoscano le modalità di trasmissione genetica (Canton, 1988). Risulta
alquanto improbabile che la suscettibilità alla dipendenza da alcol e da droghe possa essere
trasmessa esclusivamente da fattori genetici, ed é quindi riconosciuta un’eziologia
multifattoriale in cui però le variabili biologiche influenzate geneticamente, contribuiscono in
modo significativo interagendo con quelle ambientali.
Numerosi studi biomedici hanno messo in luce infatti, delle differenze
neurofisiologiche fra i figli di alcolisti e tossicodipendenti e i figli di genitori che non
assumono questo tipo di sostanze. Queste differenze riguardano: a) il metabolismo e la
reazione all'alcol e alle altre droghe; b) le funzioni neurologiche; c) le funzioni
neurochimiche; d) le funzioni cognitive; e) fattori temperamentali.
a) Metabolismo e reazioni individuali all'alcol e alle droghe. Gli studi comparativi fra
figli di alcolisti e tossicodipendenti e figli di genitori non dipendenti da questo tipo di
sostanze, hanno colto due importanti elementi che suggeriscono l'esistenza di alcune
2
Gli studi familiari non permettono di comprendere l’entità della variazione genetica in quanto non consentono
di separare i fattori d’influenza genetici da quelli ambientali. Sono comunque importanti perché: a) permettono
una migliore comprensione dell’eterogeneità diagnostica in quanto, in assenza di una specifica lesione, l’utilizzo
dei dati relativi alla famiglia consente l’identificazione di sottogruppi diagnostici omogenei. Se in un sottogruppo
aumenta il rischio del disturbo nei familiari, si può dedurre che vi sia una potenziale validità del gruppo
diagnostico selezionato; b) forniscono informazioni sulla variazione dell’espressione di uno o più geni associati
con il tratto fenotipico; c) forniscono informazioni sulla trasmissione dei disturbi fra le diverse generazioni, sui
segni precoci o sulle forme “evolutive” del disturbo, sui fattori di rischio e quelli protettivi.
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Si studiano i gemelli separati precocemente e allevati in famiglie adottive differenti. Per quanto riguarda
l’abuso di alcol e altre droghe, è stata riscontrata un grado di concordanza del 71,4% fra gemelli monozigoti e
del 32,3% fra gemelli eterozigoti dello stesso sesso (Canton, 1988).
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Queste ricerche non hanno a che vedere con gli studi relativi alla cosiddetta “genetica del comportamento
deviante” che cerca di individuare delle relazioni tra patrimonio genetico e disposizioni al comportamento
deviante. Gnisci (1994), enunciando le ricerche in questo settore, ha dimostrato l’esistenza di errori e limiti sul
piano scientifico-metodologico di questa prospettiva.
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differenze biologiche. Il primo elemento riguarda la reazione all'assunzione di alcol e droga: i
figli di alcol - e tossicodipendenti sembrano avere reazioni più piacevoli e inoltre, come
secondo elemento, sembrano poter tollerare ingenti dosi di alcol e droga senza effetti
collaterali immediati e negativi evidenti (Kumpfer, 1987).
Questi studi, compiuti soprattutto su figli di alcolisti e non, hanno individuato delle
differenze a livello neurobiologico. Si ha, ad esempio, un effetto "normalizzante" dell'alcol
sulla reattività del sistema nervoso autonomo (SNA): se il soggetto ha una bassa reattività del
SNA, l'alcol agirà da stimolante, mentre se ha un'alta attività del sistema simpatico, agirà
come sedativo. Ulteriori effetti sono stati osservati dopo l'assunzione di alcol e, in generale,
sono stati riscontrati come un potenziamento delle prestazioni cognitive: una migliore
memoria, un miglior tempo di reazione, equilibrio e un’aumentata prestazione percettivomotoria. Questo aumento di effetti piacevoli, normalizzanti e di riduzione dello stress, causato
dall'assunzione di alcol o di altre sostanze psicotrope, costituiscono un potente rinforzo al
bere: tutti gli effetti negativi dell'assumere queste sostanze, nei figli di alcolisti e
tossicodipendenti sono infatti ridotti e compaiono invece dei miglioramenti in alcune
prestazioni (vedi tab.1)
1. livelli più alti della norma di acetaldeide nel sangue (aldeide acetica: si ottiene
per l’ossidazione dell’alcol etilico);
2. maggiore rilassamento dei muscoli scheletrici in risposta all’assunzione di
etanolo;
3. minori alterazioni psicomotorie;
4. aumento dell’attività di onde cerebrali ad alta frequenza registrate dall’EEG e
aumento della risposta alfa lenta all’alcol;
5. effetto normalizzante dell’alcol sulla reattività del sistema nervoso autonomo
(SNA): se l’alcolista ha una bassa reattività del SNA, l’alcol agirà da stimolante, mentre se
ha un’alta attività del sistema simpatico agirà come sedativo;
6. livelli più alti di prolattina serica (associati ad una diminuzione dello stress);
7. migliore memoria, tempo di reazione, equilibrio e prestazione percettivomotoria;
8. aumento del livello di serotonina (diminuzione della sensibilità al dolore)
TAB. 1 Effetti osservati a livello elettrofisiologico, endocrino ed enzimatico nei figli
di alcolisti in seguito ad assunzione di alcol. Si tratta di effetti che portano a sensazioni
piacevoli, normalizzanti e di riduzione dello stress.
b) Le funzioni neurologiche. Numerose sono le ricerche che hanno permesso di
rilevare delle specifiche differenze neurologiche fra i figli di alcol e tossicodipendenti e i figli
di genitori normali. Le più importanti possono essere ritrovate in una scarsa memoria
associata alla diminuzione dei potenziali evocati P3005 (Begleiter et al., 1984), in una scarsa
capacità di assegnare significati e di codificazione (Hegedus et al., 1984), e in una minore
durata del sonno (Schuckit e Bernstein, 1981).
c) Le funzioni neurochimiche. Gli individui vulnerabili alla dipendenza sembrano
presentare anche delle disfunzioni neurochimiche dovute soprattutto ad una carenza di
serotonina: l'alcol fa aumentare il livello ma subito dopo, durante la condizione di astinenza,
lo abbassa sotto il livello di norma causando il ciclo di dipendenza.
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Onde positive che si registrano a circa 300 millisecondi dallo stimolo.
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d) Le funzioni cognitive. Sono state individuati dei problemi cognitivi che alcuni studi
fanno dipendere da un'insufficiente dominanza dell'emisfero sinistro: 1) QI più basso nei
bambini dai 3 ai 7 anni (riscontrato nei figli di madri tossicodipendenti; 2) minori capacità
verbali; 3) minore capacità di astrazione e di soluzione dei problemi. Tali problemi possono
essere considerati fra alcuni fattori determinanti dell'insuccesso scolastico.
e) I fattori temperamentali6. Gli studi di Tarter (1985) hanno rilevato dei fattori
temperamentali di vulnerabilità alla dipendenza quali l’iperattività, la scarsa capacità attentiva
(rilevata anche da test neuropsicologici), la minore omeostasi emotiva (ovvero la minore
capacità di ritornare ad uno stato di normalità dopo un'intensa reazione emotiva), l’umore
variabile, una minore inibizione.
4.1.2 I fattori legati allo sviluppo intrauterino
Fra i fattori di rischio biologici, devono essere annoverati gli effetti sul feto legati
all’esposizione intrauterina all’alcol e alle droghe (Behnk e Davis Eyler, 1995). Le anomalie
neurobiologiche, cognitive e comportamentali precedentemente descritte nei figli di alcolisti e
tossicodipendenti, oltre che alla trasmissione genetica, possono essere dovuti alla sindrome
fetale alcolica (FAS) e all’effetto fetale alcolico (FAE) che si riscontrano nei figli di madri
che hanno abusato durante la gravidanza, di alcol ed in quelli di madri in mantenimento col
metadone o tossicodipendenti da eroina o da altre droghe. Trasmessi in modo diretto (la
placenta viene attraversata con facilità da queste sostanze tossiche) o in modo indiretto tramite
l’organismo materno, alcol e droga sono responsabili di complicazioni ostetriche7 e di
problemi del neonato quali un deficit staturo-ponderale, alterazioni morfogenetiche, deficit
maturativi del sistema nervoso centrale (ad es. microcefalia e idrocefalia, ipoacusia),
iperattività, disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento (Abel, 1981, 1982; Stimmel et al.,
1982, 1983; D’Avolio et al., 1992). Il feto è infatti particolarmente sensibile a questa
aggressione chimica in quanto non ha ancora sviluppato delle difese metaboliche che gli
permetterebbero di trasformare e neutralizzare farmaci, alcol e altre sostanze tossiche. Queste
sostanze rimangono quindi più a lungo nel feto che non nell’organismo materno causandogli
danni alla struttura e alle funzioni del cervello, anche in assenza di modificazioni
morfologiche o di crescita come nei casi più gravi (Clarren et al., 1985; Streissguth e LaDue,
1985).
La ricerca sugli effetti che l’uso di droghe in gravidanza provocano sul feto, ha
presentato, fino ad ora, numerosi problemi metodologici. Innanzitutto la raccolta dei dati: per
capire gli effetti derivanti dall’assunzione di una certa sostanza ci deve essere un controllo
adeguato di tutte quelle variabili che possono direttamente o indirettamente influenzare
l’interpretazione. L’alimentazione materna, l’assunzione concomitante di altri tipi di droga o
alcol (politossicodipendenza), i dosaggi, la frequenza e la durata del consumo, il periodo di
gestazione durante il quale si è verificata l’esposizione alla sostanza, costituiscono delle
informazioni importanti per studiare gli effetti di una sostanza, ma molto spesso gli studi
compiuti fanno riferimento all’anamnesi della madre, metodo considerato inaffidabile
soprattutto nel caso di un campione così particolare.
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Per temperamento si intende l’insieme delle caratteristiche individuali ascrivibili ai fattori costituzionali della
personalità. Sono le determinanti genetiche e i meccanismi biologici a cui vengono imputate le differenze
individuali che rendono osservabili e relativamente stabili quelle caratteristiche del comportamento umano
presenti fin dall’infanzia.
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Sono attribuibili all’effetto dell’abuso di alcol e droghe sull’utero e/o sulla vascolarizzazione placentare:
distacchi placentari; aborti; parti prematuri; infarti miocardici (azione vasocostrittrice della cocaina). Si
presentano come effetti dell’assunzione (come nel caso della cocaina) o della sospensione (sindrome di astinenza
per gli oppiacei). Al momento del parto, il neonato può presentare dei problemi respiratori (anossia dovuta a
sostanze che deprimono il SNC (oppiacei, benzodiazepine, barbiturici) o la sindrome di astinenza che comporta
un’ipereccitabilità (trattata con morfina o metadone se dovuta ad oppiacei).
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Con questo tipo di popolazione clinica, le interviste cliniche risultano spesso poco
attendibili a causa della reticenza e dell’imprecisione delle risposte che si ottengono e i test di
laboratorio (ad es. l’esame tossicologico delle urine) non sempre sono tecnicamente
realizzabili (Tempesta, Pozzi, 1993; Behnke, Davis Eyler, 1993) (vedi tab.2).
1. alla sostanza assunta:
a) tipo
b) quantità
c) frequenza
d) associazione con altre sostanze (potenziamento dei singoli effetti lesivi)
2. alle caratteristiche dell'individuo:
a) malnutrizione
b) stati infettivi
c) suscettibilità individuo-specifica ai diversi tipi di sostanze
3. fase embrio-fetale in cui la donna assume determinanti sostanze o ne interrompe
l'uso.
TAB. 2 Fattori a cui sono correlati i danni derivanti dall’abuso di alcol e droga
4.2 I fattori psicosociali di rischio e i fattori protettivi
I danni causati dalle variabili genetico-familiari e dai fattori legati all’esposizione del
feto alle sostanze tossiche, possono spiegare solo una parte della probabilità che il bambino
sviluppi dei comportamenti problematici quali l’uso di droga e di alcol. In accordo con una
prospettiva interazionista che coinvolge funzionalmente nella descrizione dei costrutti
esplicativi del comportamento sociale la persona e il contesto socio-situazionale, è importante
analizzare “i meccanismi e i processi” (Rutter, 1990) che dinamicamente regolano i percorsi
evolutivi nell’intreccio fra condizioni di rischio e fattori protettivi. “Non esistono nessi causali
diretti, ma gli esiti evolutivi sono la risultante di tutte le forze in gioco a un momento dato:
una psicopatologia o un comportamento deviante saranno il risultato dell’azione concomitante
di più fattori di rischio in una situazione in cui non esistono o risultano deboli i fattori
protettivi capaci di contrastarne l’azione o ridurne l’impatto” (Emiliani, 1995).
L’identificazione di specifici fattori protettivi e dei meccanismi attraverso cui essi mediano o
moderano gli effetti di quegli elementi di rischio che minacciano un esito evolutivo
“positivo”, diventa di fondamentale importanza se si vogliono mettere a fuoco gli obiettivi di
un lavoro di prevenzione. Lavoro che deve essere finalizzato all’eliminazione o perlomeno,
alla riduzione di tali elementi e al potenziamento invece dei fattori che possono attutirne gli
effetti negativi.
Numerose ricerche empiriche hanno dimostrato unanimemente l’enorme importanza
del ruolo esercitato dai familiari e dai coetanei, nel determinare la vulnerabilità del bambino
all’abuso di alcol e di droga. Abbiamo già considerato come un genitore dipendente da queste
sostanze psicotrope generi un figlio che, per cause genetiche e, nel caso in cui si tratti di una
madre, anche per l’esposizione intrauterina del feto a tali sostanze, avrà maggiori probabilità
della media di avere problemi di vario genere (iperattività, difficoltà di apprendimento,
8
temperamento difficile8) (Tarter, et al., 1985). E’ facile quindi che questi bambini suscitino
intense reazioni di ostilità e di irritabilità da parte di genitori che, per la loro dipendenza,
hanno già troppi problemi da gestire: i conflitti coniugali; le assenze del partner dovute a
separazione, malattia o detenzione; l’organizzazione della vita familiare che in genere è
sempre molto difficile per la mancanza di regole e abitudini consolidate, e per l’isolamento
sociale a cui molto spesso sono soggetti (Kumpfer, 1987). Ecco che un temperamento facile,
ben adattabile, in questo caso diventa un fattore protettivo9.
La qualità della relazione genitori-figli ha un’influenza che, seppur indiretta, può
essere determinante nel favorire l’uso di droga: il clima intrafamiliare, lo stile educativo
adottato, i modelli proposti e le modalità di sostegno attuate dai genitori, concorrono nella
costruzione dei valori e degli atteggiamenti rispetto a certi tipi di comportamenti e nel favorire
lo sviluppo di quelle abilità e competenze sociali che consentono al bambino prima e
all’adolescente poi, di resistere e far fronte efficacemente alle difficoltà (Ravenna, 1993).
La disfunzionalità familiare. I risultati di numerose ricerche atte a verificare il tipo di
rapporto esistente fra la qualità e le caratteristiche della relazione intrafamiliare e l’uso di
droga, sono stati concordi nell’evidenziare che i consumatori hanno avuto relazioni povere,
inadeguate e conflittuali e hanno vissuto un clima emozionale negativo all’interno della
famiglia (Streit e Oliver, 1972; Barnes, 1977; Tec, 1974; Tolane e Dermott, 1975; Tudor et
al., 1980; Jurich et al., 1985; in Ravenna, 1993). Delle cure parentali stabili e adeguate, o
perlomeno una relazione positiva con un adulto, costituiscono una fonte unica per quelle
risorse socioemotive che sono alla base dello sviluppo di un buon livello di autostima e di
modelli di comportamento adeguati (Brook et al., 1986; Jessor & Jessor, 1977). La possibilità
di promuovere e rendere stabile un buon adattamento si fonda soprattutto sulla funzione
regolatrice e stabilizzatrice svolta dagli adulti sugli aspetti valorizzati all’interno della cultura
del gruppo (Emiliani, 1993).
Una cattiva gestione delle regole e dei riti familiari, delle inadeguate capacità
educative (ad. esempio, un incoerente e scarso senso della disciplina), un’insufficiente
osservazione e guida dei figli o un monitoraggio inefficace, una carenza nel sostegno affettivo
e nelle risposte di rinforzo nei loro riguardi, sono i fattori che possono favorire il primo
contatto con l’alcol e altre sostanze stupefacenti.
Uso e atteggiamenti dei familiari sull’uso di droga e alcol. L’utilizzo dei genitori e/o
di altri familiari di alcol e droga ne favorisce il consumo da parte dell’adolescente (Brook et
al., 1990). E’ stato dimostrato come i ragazzi acquisiscano in famiglia che ci sono molti modi
per superare eventi traumatici o genericamente stressanti, fra cui assumere farmaci, bere o
drogarsi: “la percezione che l’assunzione di una qualche sostanza possa aiutare a ridurre la
tensione, a ripristinare condizioni più accettabili, a rinforzare la propria immagine sociale, a
favorire l’accesso a quei gruppi da cui ci si sente più attratti, aumenta la probabilità che certi
adolescenti possano provare una droga” (Chassin et al., 1981; in Ravenna, 1993). I risultati di
alcune ricerche empiriche finalizzate ad indagare la percezione da parte di adolescenti degli
atteggiamenti dei propri genitori sull’uso di queste sostanze, hanno messo in luce come siano
quelli che li reputano particolarmente permissivi e quelli che hanno i genitori che non ne
8
I bambini con temperamento difficile vengono così definiti sulla base di alcune caratteristiche che li rendono
poco adattabili, quali un umore prevalentemente negativo, un’aritmicità psicofisiologica, una lentezza nel
rispondere agli stimoli nuovi (Attili, 1993).
9
Uno studio di J.V.Lerner (1983) sulla relazione fra studenti ed insegnanti ha dimostrato che quanto più le
caratteristiche temperamentali e di personalità corrispondevano alle richieste comportamentali imposte loro dagli
insegnanti e dalla relazione con i compagni di classe, tanto più favorevoli erano i giudizi degli insegnanti sulle
loro capacità e prestazioni scolastiche. Questi studenti ottenevano anche voti migliori, intrecciavano relazioni più
positive con i loro coetanei ed avevano livelli più alti di autostima e un senso di autoefficacia personale
maggiore rispetto agli studenti che avevano ottenuto un minor grado di corrispondenza fra le caratteristiche
personali e le richieste situazionali.
9
contrastano l’uso, che hanno più probabilità di intraprendere o consolidare tali comportamenti
(McDermott, 1984; Alexander e Campbell, 1967).
Le abilità di coping e l’interazione con altri consumatori. Il termine “coping” (che
letteralmente significa “far fronte”) viene utilizzato per denotare la capacità dell’individuo di
rispondere in maniera efficace all’ambiente facendo fronte a situazioni di stress emozionale.
In una prospettiva psicosociale, viene vista come la competenza nel percepire e valutare tutti
quegli elementi situazionali che consentono alla persona di acquisire nuove conoscenze e di
modificare così il proprio repertorio cognitivo e comportamentale in vista delle nuove sfide da
affrontare. Sarason e Sarason (1983) ritengono che tale competenza sia data dall’accuratezza
con cui la persona percepisce gli elementi centrali della situazione. Per questi studiosi, una
percezione che devia dall’interpretazione consensuale data dal gruppo di riferimento
pertinente, origina un comportamento disadattivo. “Nell'iniziazione giocano un ruolo
considerevole anche gli stili, le competenze sociali che l'adolescente ha a disposizione ed
utilizza (abbiamo più sopra considerato l'influenza dei genitori) non solo nell'affrontare gli
eventi, le situazioni che gli si presentano nella quotidianità, o i suoi rapporti interpersonali (ad
esempio, mostrandosi in grado di iniziare e portare avanti una conversazione, di esprimere il
proprio accordo-disaccordo, di far valere il proprio punto di vista) ma anche i compiti
specifici della sua fase di sviluppo.
Gli autori che si rifanno alla teoria del «coping» (a questo proposito vedere il
contributo di Shiffman e Wills (1985) sostengono che i bambini ed i ragazzi che non hanno
avuto l'opportunità di apprendere delle abilità sociali appropriate, che sono stati poco o per
nulla sostenuti e valorizzati nelle loro esperienze di far fronte o che sono stati esposti ad
eventi particolarmente distruttivi, hanno minori probabilità di acquisire abilità adattive e sono
perciò in condizione di maggior rischio in rapporto a tutta una serie di comportamenti non
convenzionali.
Le abilità di far fronte alla droga sono soprattutto due: quelle che consentono di
affrontare gli stress e quelle che permettono di affrontare le tentazioni. Nel primo caso il
modo in cui l'adolescente risponde a eventi di vita particolarmente difficili influenza il livello
di disagio che egli avverte a lungo termine e questo, a sua volta, lo rende più o meno propenso
ad utilizzare la droga nel tentativo di ridurlo. Nel secondo, invece, le sue abilità diventano
rilevanti nel trattare quelle situazioni specifiche in cui gli è concretamente offerta della droga”
(Ravenna, 1997).
Nello sforzo che l’adolescente compie nel cercare di differenziarsi dalle figure adulte
significative e per ricercare una propria specificità, gli è particolarmente necessario avere dei
coetanei a cui sentirsi simile, con cui sperimentare scelte e comportamenti autonomi, con i
quali condividere difficoltà e conflitti. E’ perciò possibile che l'adolescente per sentirsi ben
integrato e valorizzato in un gruppo di amici che sono già dei consumatori o che condividono
atteggiamenti favorevoli nei confronti della droga diventi disponibile a provare egli stesso.
Quanto più la prospettiva condivisa dal gruppo gli appare rilevante, tanto più egli sarà attratto
dalla possibilità di adottare in prima persona le condotte che in quel contesto appaiono
maggiormente valorizzate dimostrando con ciò la propria diversità da chi non si cimenta in
questo genere di esperienze.
“Quanto più l'adolescente è infatti orientato verso coetanei favorevoli alla droga o che
ne sono già consumatori (trascorre la maggior parte del tempo e svolge un gran numero di
attività con loro, li assume come punto di riferimento privilegiato ed esclusivo per le scelte di
vita che intende compiere), tanto più aumenta la probabilità che egli possa sperimentare una
droga. Il fatto d'interagire maggiormente con i pari che non con i familiari non ci sembra
tuttavia una spiegazione del tutto accettabile del perché un adolescente decide di provare una
droga. Assai più convincente (anche se non suffragata da verifiche sistematiche) ci sembra
piuttosto la tesi proposta da Becker (1953) nella sua famosa ricerca sui consumatori di
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marijuana. L'autore interpreta l'iniziazione come il frutto di una successione complessa di
esperienze psicologiche e sociali che consentono al soggetto di attribuire certi significati a uno
specifico comportamento, di prefigurare la funzione che esso può avere per lui, di valutarne i
rischi e le conseguenze e di considerarlo come desiderabile. Sia che il soggetto abbia già
strutturato una certa disponibilità, un'accettazione ancora del tutto astratta della possibilità di
sperimentare delle droghe, sia invece che abbia un atteggiamento negativo o neutro, è
comunque nel contesto dell'interazione con altri consumatori che può rafforzare o modificare
l'immagine della droga. Il gruppo rappresenta, da questo punto di vista, il contesto privilegiato
in cui il soggetto riconsidera se stesso nel rapporto possibile o irreale con la droga. Il
momento e le condizioni in cui ciò si verifica è particolarmente importante perché è proprio a
quel punto che può concretizzarsi, o meno, il passaggio dalla semplice disponibilità alla
sperimentazione diretta di una sostanza.
Il soggetto all'interno del gruppo dei pari ha l'opportunità di acquisire informazioni
assai diverse da quelle che gli sono state fornite dagli adulti e dai mass media. I suoi
interlocutori sono persone amiche che propongono modelli credibili e rassicuranti derivati
dall'esperienza vissuta; non hanno in genere niente a che vedere con la condizione di massimo
degrado della tossicodipendenza. A differenza degli adulti che puntano sulla paura, sulla
demonizzazione, su immagini stereotipate e monolitiche della droga, i consumatori elaborano
distinzioni raffinate fra le sostanze e fanno riferimento esplicito alle esperienze di piacere che
esse possono consentire.” (Ravenna, 1997)
Fra le aspettative, le motivazioni e i significati positivi che i membri del gruppo
attribuiscono alla droga, Ravenna (1993) indica:
a) la ricerca di forti sensazioni e di effetti piacevoli;
b) la definizione-rafforzamento dell’identità (la condivisione di uno stesso spazio
normativo-simbolico, aumenta la propria integrazione e valorizzazione nel
gruppo);
c) la neutralizzazione di esperienze di disagio e di stress.
Numerose ricerche hanno ormai dimostrato che un forte bisogno di stimolazioni e di
esperienze che siano in grado di soddisfare forti desideri di provare forti emozioni,
costituisce un fattore predittivo dell’alcolismo (Cloninger et al., 1988) e dell’uso di droghe
(Shelder e Block, 1990). L'adolescenza è il periodo in cui s'intensificano il bisogno di
ampliare i confini del proprio spazio di vita e la curiosità di sperimentare nuovi stili di
comportamento anche ricercando esperienze avventurose e inusuali ed è anche la fase in cui
sono maggiormente intraprese condotte che implicano un certo grado di rischio. L'esperienza
con una droga, per la sua illegalità e potenziale dannosità, costituisce una risposta efficace a
tali bisogni.
Zuckerman (1987) ha ipotizzato che la ricerca di forti sensazioni sia legata anche a dei
processi biochimici che coinvolgono l’attività delle monoamminossidasi (MAO) nella
regolazione dell’attivazione psicofisiologica (arousal). I risultati delle ricerche riportate
precedentemente, hanno dimostrato come vengano trasmessi geneticamente quei fattori
neurologici e biochimici responsabili degli effetti piacevoli in seguito all’assunzione di alcol
nei figli di alcolisti. E la ricerca di forti sensazioni diventa una caratteristica ancor più
evidente nei ragazzi che assumono le nuove droghe di sintesi come l’ecstasy. La ricerca dello
“sballo” e di tutte quegli effetti psichedelici che l’assunzione di queste sostanze procura, è
favorita da una sottovalutazione del rischio e della gravità delle conseguenze dovuta alle
particolari caratteristiche di queste ultime: non ci sono siringhe e il rischio AIDS non esiste,
l’uso è contestualmente limitato (il fine settimana in discoteca) e il rischio di dipendenza
fisica o di danni cerebrali irreversibili non è visibile.
L’uso di queste sostanze è esemplificativo per la messa a fuoco dell’aspetto più
rilevante del consumo di droghe: la ricerca di un’identità. I diversi linguaggi, le norme e i
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valori che dominano il contesto di assunzione di queste nuove droghe, disegnano uno spazio
simbolico attraverso cui i ragazzi costruiscono l’immagine di sé, ovvero il sistema di
rappresentazioni attraverso cui l’individuo si declina sulla scena sociale e di cui cerca
conferma. Quanto più l'esigenza di definire la propria identità o di sperimentare ruoli e
modelli diversificati assume centralità psicologica nell'esperienza dì vita di un adolescente,
tanto maggiore è la probabilità che egli possa identificare il fumare, l'assumere degli alcolici o
delle droghe illecite come un modo per migliorare l'immagine di sé e per fornire agli altri una
serie di informazioni su di sé che gli consentano di farsi considerare e trattare secondo le sue
aspettative. Attraverso la ricerca di pertinenti rappresentazioni e convalide dell’immagine di
sé, e l’assunzione di nuovi ruoli, gli adolescenti “costruiscono” il senso della propria identità
che viene così affidata alla “comunicazione sociale, ovvero alla possibilità di convalidarla
agendo ora sul pedale dell’identificazione conformista e ora su quello della differenziazione”.
Far parte di un gruppo significa quindi riconoscersi e la ritualità legata al contesto, alla
musica, al luogo in cui la sostanza viene consumata consente al giovane di “condividere tutte
le rappresentazioni che accentuano sia le somiglianze interne (identificazione/integrazione),
che le differenze esterne (differenziazione/opposizione)” (Salvini, 1988).
In una prospettiva psicosociale, l’incapacità di affrontare degli eventi di vita o
esperienze che comportano stress e disagio emotivo, il senso di impotenza nell’eliminare o nel
modificare le proprie condizioni di vita diventa un fattore predisponente l’uso e l’abuso di
alcol e altre droghe. Secondo tale prospettiva, l’esperienza stressante è il prodotto della
“particolare relazione che esiste tra la persona e le condizioni ambientali, valutate
soggettivamente come fattori che gravano sulle sue risorse (di riadattamento), fino a
superarle, mettendo in pericolo lo stato di benessere” (Lazarus e Folkman, 1984; in
Bringhenti, 1994). Ecco che gli eventi assumono un significato stressante in relazione al
proprio senso di efficacia personale nella valutazione e nel controllo delle proprie risorse
cognitive ed emotive per affrontarli. Nel caso in cui il ragazzo intraveda nell’assunzione di
droga un modo efficace di alleviare la situazione di disagio, perché lo ha già sperimentato o lo
ha fatto qualche persona per lui significativa, un genitore o un coetaneo, si avrà un aumento
considerevole delle probabilità che egli instauri un rapporto di dipendenza. L’effetto
immediato e sicuro che la droga può fornire nel rispondere ad uno stato di vulnerabilità
percepita, costituisce un sicuro rinforzo per la riduzione o il contenimento del disagio
attraverso tale strategia.
5. Il consolidarsi del consumo
A differenza della letteratura assai vasta sull'iniziazione, gli studi volti a ricostruire ciò
che induce a strutturare un rapporto continuativo con la droga sono invece assai scarsi e
frammentari, e si rivolgono più a soggetti adulti o già dipendenti che ad adolescenti.
Idea condivisa è che le variabili che favoriscono lo stabilizzarsi del consumo siano
assai diverse da quelle responsabili dell'iniziazione. Se in quest'ultimo caso si dimostrano
determinanti l'influenza di altri significativi (i genitori, i fratelli, i coetanei che forniscono
come abbiamo visto il contesto in cui il soggetto struttura atteggiamenti positivi verso la
droga) oppure tratti di personalità orientati al non conformismo e abilità sociali inadeguate,
ciò che conta in seguito è soprattutto il tipo di rapporto che si crea tra il soggetto e la sostanza.
Ciò significa che solo dopo le prime esperienze con una droga egli può valutare
concretamente la qualità e la funzione degli effetti sperimentati ed elabora quindi credenze
che non si fondano più sull'esperienza riportata da altri ma su quella personale (Ravenna e
Nicoli, 1991).
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I fattori cognitivo-motivazionali assumono in questa fase un ruolo cruciale. Si
continua a far uso di droga quanto più si percepiscono gli effetti rinforzanti della sostanza
assunta, sia positivi (quando offre piacere e rilassamento) sia negativi (quando elimina
sensazioni o esperienze di disagio). L'uso continuato dipende in larga parte dal fatto che il
consumatore ottiene gli effetti cognitivi, affettivi e farmacologici che si aspetta; continua
perciò ad assumere una certa sostanza quanto più essa è in grado di garantirgli esperienze di
benessere e di convincerlo che solo attraverso tale uso egli può esercitare un reale controllo su
vari eventi della sua vita quotidiana (Gold, 1980). Quanto più il soggetto valuta i benefici
associati a questo tipo di comportamento più elevati dei costi, tanto più aumenta la probabilità
che egli possa continuare (Smith, 1980).
Anche il fatto di non aver conseguito gli effetti desiderati (cosa che, ad esempio, si
verifica spesso dopo le prime assunzioni di eroina) può spingere il soggetto a riprovare nella
speranza di riuscire ad ottenere quello stato di benessere e di rilassamento che generalmente
osserva nei consumatori più esperti (Chein, 1980). La sottovalutazione dei rischi, insieme ad
un'estrema fiducia nelle proprie capacità di controllo, il sentirsi in qualche modo invulnerabili
all'addiction, possono determinare delle modalità di consumo tanto rilassate da favorire
l'innescarsi della dipendenza (Lindesmith, 1980).
Becker (1953), nella sua già citata ricerca ha riscontrato che il consolidarsi dell'uso
deriva esclusivamente da processi di apprendimento e di sperimentazione attraverso i quali il
soggetto modifica e ridefinisce la sua immagine della sostanza sviluppando nuove
motivazioni, assai diverse da quelle che hanno indotto l'iniziazione. Le condizioni
indispensabili che questo autore indica perché il soggetto diventi un consumatore sono: che
egli «impari a fumare la droga in modo che essa provochi effetti reali», che egli «impari a
riconoscere gli effetti e ad attribuirli all'uso della droga» e che «impari a trarre piacere dalle
sensazioni che prova».
Il continuare è anche strettamente in relazione al fatto di identificare la sostanza come
un mezzo efficace per affrontare particolari situazioni di stress e di disagio e come un mezzo
per proteggere e lo rinforzare il sé. Ciò che può indurre a continuare è la tendenza a ricercare
delle soluzioni esterne per risolvere problemi eminentemente interni. Si continua proprio
perché si scopre che la droga non ha solo l'effetto di aumentare il benessere psicologico ma è
anche in grado di rinforzare quei meccanismi di difesa che precedentemente si sono dimostrati
fragili e inadeguati (Khantzian, 1980).
Anche i sentimenti di scarsa autostima possono facilitare lo stabilizzarsi del consumo.
Le persone con forti sentimenti d'inferiorità e rapporti disfunzionali sono più esposte all'uso
continuato proprio perché vedono in esso un mezzo per mettersi in rapporto con gli altri e per
creare un legame di cameratismo e di solidarietà. Un comportamento di questo genere annulla
ad un certo punto il reale proposito per cui era stato attivato indebolendo ancor di più la già
precaria percezione della realtà (Steffenhagen, 1980). Oltre a quelli già indicati vi sono altri
fattori ritenuti altamente facilitanti la continuazione dell'uso: l'età in cui si è verificata
l'iniziazione (quanto più essa è stata precoce, tanto maggiore è il rischio di diventare un
consumatore) o l'associazione fra sperimentazione di una droga ed altri comportamenti
problematici.
Allorché la decisione di continuare è presa e l'uso si stabilizza, assumono notevole
importanza sia i rinforzi sociali che il comportamento di consumo ottiene nel contesto in cui è
messo in atto, sia la facilità/ difficoltà di procurarsi la sostanza. Gli studi compiuti su gruppi
di consumatori (Johnson, 1980; Jessor e Jessor, 1980) evidenziano che il gruppo incoraggia il
soggetto ad interpretare positivamente la propria esperienza, lo aiuta a ridimensionare
eventuali effetti negativi ma si aspetta anche una certa disponibilità non solo ad assumere la
droga quando vi sono le circostanze adatte ma anche a partecipare alla sua ricerca,
comprandola, vendendola od offrendola, ad imparare il gergo appropriato, i rituali e i simboli
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condivisi dagli altri. Più il soggetto si coinvolge e risponde positivamente alle aspettative del
gruppo, uniformandosi alle sue norme di comportamento, più modificherà l'immagine che ha
della sostanza e dei mezzi necessari per procurarsela, al punto di considerare normale ciò che
prima riteneva rischioso e di sviluppare un'identità personale e sociale di consumatore.
Successivamente il soggetto, per poter condividere con altri la sua esperienza e per aver
maggior facilità di accesso al mercato, tende a diradare i rapporti con gli amici che aveva
precedentemente e a crearne di nuovi con dei consumatori.
A questo punto il soggetto può adottare stili diversi di consumo (saltuario, regolare,
dipendente), può passare dall'uno all'altro o interrompere più o meno definitivamente il suo
rapporto con la droga. La nostra analisi si conclude qui proprio perché abbiamo scelto di
trattare e di ricostruire le caratteristiche e le dinamiche dell'uso di droga nell'adolescenza in
termini del tutto generali e non in rapporto ai casi estremi (la tossicodipendenza) che pure
esistono ma che sono particolarmente rari in questa fase dello sviluppo. (Ravenna, 1997)
6. Le strategie di prevenzione
Sembra ormai definitivamente tramontata l'idea che un'efficace lotta al traffico
mondiale delle droghe illecite e al potere economico da esso prodotto consenta di eliminarle,
almeno in tempi brevi, dallo scenario sociale; occorre piuttosto attrezzarsi in modo serio e
consapevole per affrontare una lunga convivenza con il fenomeno.
Occorre ricordare inoltre che, sebbene in proporzioni diverse rispetto al passato, l'uso
di droga e di alcool costituisce una delle risposte (anche se non l'unica) a quel bisogno di
alterare gli stati di coscienza che gli individui hanno manifestato in tutte le epoche storiche e
in tutte le culture; un tale fenomeno, proprio perché ha origine nell'interazione fra l'individuo
ed il suo ambiente sociale e non in una sostanza dalle caratteristiche particolari è assai
difficile da eliminare.
Proprio perché l'adolescenza rappresenta un periodo in cui sono particolarmente
intensi la curiosità di sperimentare nuovi stili di comportamento, al limite della trasgressione,
e il bisogno di sentirsi adulti e indipendenti, l'uso di droga è entrato di fatto a far parte dello
stile di vita di molti ragazzi e ragazze.
Queste diverse considerazioni ci inducono a ritenere che occorra un impegno a lungo
termine volto a:
a) evitare o almeno a ritardare quanto più possibile il primo contatto di un soggetto in
via di sviluppo con una droga (al fine di consentirgli di giungere ad una più adeguata
strutturazione delle sue abilità e risorse);
b) ridurre e contenere gli stili di consumo più pericolosi (uso regolare di più droghe
contemporaneamente, abuso).
La molteplicità delle variabili che entrano in gioco nell'iniziazione ed i risultati per lo
più sconfortanti ottenuti da programmi di prevenzione volti semplicemente a informare sugli
effetti nocivi delle sostanze o ad utilizzare la paura e la demonizzazione come ipotetici
deterrenti (effetti positivi per un numero molto esiguo di adolescenti, ma controproducenti per
l'aumento della curiosità e dell'interesse nel caso della maggior parte) hanno contribuito a
sfatare l'idea che l'uso di droga fosse da attribuire soltanto alla mancanza di conoscenze
adeguate circa i rischi sociali, legali e per la salute che porta con sé.
Gli studiosi sono attualmente convinti della necessità di affrontare il problema della
prevenzione in una prospettiva ecologica di ampio respiro (Rhodes e Jason, 1988;
Hurrelmann, 1990; Kumpfer e Turner, 1991). Idea condivisa è che occorrano degli interventi
non esplicitamente rivolti a scoraggiare i comportamenti di droga ma prevalentemente
orientati a incrementare l'insieme delle risorse personali (abilità, competenze, aspetti del sé) e
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sociali (opportunità, ruoli) dell'adolescente, in modo che egli sia in grado di evitare le
suggestioni proposte dalla cultura della droga (così come da quella concernente altri
comportamenti a rischio).
Per quanto riguarda le risorse personali si ritiene che, con il sostegno di adulti
competenti, l'adolescente sia soprattutto da aiutare e stimolare a rafforzare il suo livello di
autostima, le capacità di autocontrollo e le abilità a riconoscere ed affrontare le pressioni
culturali verso l'uso delle diverse sostanze psicoattive (identificando correttamente i messaggi
persuasivi espliciti ed impliciti proposti dalla pubblicità e dai mass media, producendo
controargomentazioni e risposte alternative). Si ritiene inoltre indispensabile che egli giunga
ad elaborare delle strategie cognitive e comportamentali che lo aiutino ad alleviare eventuali
stati d'ansia e di disagio, e ad aumentare le sue capacità di farvi fronte in modo costruttivo;
che egli incrementi il più possibile le abilità e le competenze interpersonali (la capacità di
iniziare e di portare avanti una conversazione, di comunicare con efficacia esprimendo il
proprio accordo o disaccordo su certi eventi o sulle posizioni assunte da altri, proponendo
punti di vista diversi da quelli degli interlocutori, facendo domande, esprimendo le proprie
emozioni) e quelle necessarie ad affrontare e superare con successo i compiti di sviluppo che
sono specifici di questa fase di vita.
L'ipotesi sottostante a questo modello è che quanto più l'adolescente raggiunge elevati
livelli di autostima e di fiducia in se stesso, tanto più sarà in grado di affrontare in modo attivo
e consapevole emozioni ed eventi; quanto più dispone delle competenze necessarie per
comunicare produttivamente con gli altri, tanto minore sarà il rischio che egli possa scegliere
compagnie problematiche o devianti, che si distacchi dalla famiglia o dalla scuola, tutti fattori,
come abbiamo visto, in grado di favorire una scelta di droga.
Ci sembrano altresì da tenere particolarmente in conto le indicazioni emerse dagli
studi di Robins e McEvoy (1990) a proposito della necessità di intervenire precocemente di
fronte all'insorgere di eventuali comportamenti problematici (visto il ruolo che essi hanno nel
favorire successivamente l'uso di droga) ed evitare, nel caso essi siano già manifesti, che si
possano ulteriormente strutturare. E’ evidente che «il come fare», in questo specifico caso, è
un problema ancora del tutto aperto, che richiede strategie mirate, probabilmente ancora
inedite.
Nonostante i dati sull'iniziazione diano molto rilievo al ruolo dei fattori interpersonali
(ed in particolare all'interazione con i familiari e con i coetanei), per l'influenza specifica che
essi esercitano sui comportamenti di consumo, e per quella aspecifica sui processi di sviluppo,
le ipotesi di prevenzione avanzate in letteratura risultano di fatto piuttosto generiche specie
nel caso della famiglia; piuttosto articolate invece quelle relative alla scuola in cui i livelli
d'intervento proposti sono assai diversificati.
Si tratta in questo caso di iniziative volte soprattutto a migliorare l'interazione fra gli
studenti così come fra questi e gli insegnanti, e a rendere più gratificante l'ambiente
scolastico. Il presupposto su cui esse si fondano è che incrementare il coinvolgimento degli
studenti verso obiettivi stimolanti e costruttivi diminuisca il rischio che essi possano
intraprendere dei comportamenti disfunzionali e/o possano abbandonare la scuola. Lo scopo,
in altre parole, è di rafforzare il grado di attaccamento dell'adolescente nei confronti della
scuola.
Una conferma indiretta del ruolo rilevante che può svolgere la scuola nella
prevenzione dell'uso di droga ci proviene dai dati relativi al livello di scolarità dei
tossicodipendenti italiani che si attesta prevalentemente a livello dell'obbligo. Due sono le
considerazioni che si possono fare: la prima è che quanto più i giovani intraprendono un
percorso educativo a lungo respiro, tanto più sembra diminuire il rischio che essi adottino
forme estreme e pericolose di consumo; la seconda è che, se fossero compiuti degli sforzi seri
per qualificare maggiormente le proposte educative della scuola (e la professionalità di chi vi
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opera), ciò avrebbe come conseguenza non solo un'assunzione piena del suo compito
educativo, ma ne incrementerebbe anche il ruolo protettivo.
C'è però da aggiungere che il fatto di prefigurare gli interventi di prevenzione
esclusivamente nel contesto scolastico, così come accade nella maggior parte dei programmi,
appare una scelta riduttiva. L'identificare come destinatari dei programmi di prevenzione solo
i giovani che studiano esclude infatti forzatamente chi è già entrato nel mondo del lavoro e chi
non lavora né studia (disoccupati, casalinghe, immigrati, ecc.). Inoltre, pur non sottovalutando
il fatto che si è giunti a prefigurare la prevenzione in termini più precisi, articolati e complessi
di quanto non accadesse nei primi anni '70, non sembra metodologicamente corretto
affrontare questo tipo di problematiche con approcci «individuali» o al massimo
«interindividuali» che non tengono conto degli effetti che l'appartenenza a determinati gruppi
sociali può avere sul comportamento del singolo. Poiché è evidente che le aggregazioni di
adolescenti in cui sono condivise posizioni favorevoli al consumo, possono favorire un primo
contatto con la droga, è urgente che nei confronti di esse siano orientati interventi sociali
particolarmente consapevoli. (Ravenna, 1997)
7. Conclusioni
A fronte della diversità dei fattori individuali e delle sfide ambientali che vengono
coinvolti nel processo di sviluppo, la questione se sia possibile o no prevedere e quindi
prevenire i comportamenti di abuso di sostanze psicotrope rimane aperta. L’analisi delle
variabili che vanno a configurare funzionalmente l’equilibrio fra l’individuo e il contesto
sociale con cui interagisce, costituisce solamente un punto di partenza. Con questo lavoro
abbiamo spostato l’attenzione su quegli elementi (vulnerabilità, fattori di rischio e fattori
protettivi) che, all’interno di un modello di prevenzione e cura tradizionalmente inteso, non
hanno quasi mai trovato una giusta collocazione. Lontani dal credere che isolando il ruolo e la
specificità dei fattori genetico-biologici e ambientali che sottendono i comportamenti di uso
ed abuso delle sostanze psicotrope, si possa in qualche modo spiegarli e quindi prevenirli, si è
voluto integrare ed ampliare la configurazione degli eventi che influiscono in modo
probabilistico nel processo multifattoriale che porta un individuo all’abuso di sostanze
psicotrope. Il costrutto di vulnerabilità e i concetti di fattori di rischio e fattori protettivi
rendono conto, in questa prospettiva, di come sia rilevante non tanto la condotta di per sé ma
il ruolo che essa svolge nella costellazione delle relazioni dell’individuo con l’ambiente (Van
Heck, Caprara, 1994). E cognizioni, emozioni, motivazioni e rappresentazioni sociali
modulano le azioni e le relazioni dell’individuo rendendo difficile una generalizzabilità delle
ipotesi che si possono fare per cercare di “spiegare” il fenomeno della tossicodipendenza.
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