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Cesare A. Bellentani (Nessun problema) IBUC 2011 Cap8 continuazione Fra una pagina e l’altra del suo libro gettava l’occhio qui e là, per familiarizzare un po’ meglio con l’ambiente, con le persone, con l’Africa. Stranamente, aveva notato, la maggioranza degli ospiti del Simba Simba erano donne; non sapeva bene se questo fosse un caso, ma il particolare la colpì. Quasi si trovasse davanti allo schermo di un cinema, oppure dirimpetto a uno specchio, lasciò così perdere del tutto il suo libro per guardarsi attorno. Immobile dietro gli occhiali scuri seguiva curiosa ora uno ora l’altro, con rapidi movimenti dei bulbi oculari. Dai diversi colori di abbronzatura si poteva percepire il perdurare della vacanza di ogni singola persona, la sua propensione alla tintarella, il suo tipo di pelle; come pure dai movimenti degli specchietti o dei pettini poteva imparare molto circa la vanità degli ospiti del villaggio. Chi più, chi meno; e fra uno più vanitoso e uno meno vanitoso trovava quello che si collocava nel mezzo, come le aveva raccontato il professore. Davanti a lei, poco distante, sedeva una coppia sui quarantacinque; due persone dalla stazza notevole, di quelli che non passano inosservati. Sandra pensò, guardando l’uomo, che avrebbe potuto fare il macellaio; grande, grandissimo, immenso, forse pesava centocinquanta chili; lunghi baffi spioventi, capelli castani, lisci, folti, tagliati non troppo corti; mani robuste, spalle pelose, petto largo: uno che sapeva il fatto suo. Lui e sua moglie sembravano molto affiatati in ogni cosa, lo si percepiva al solo guardarli. Immaginò che lavorassero assieme; lei poteva essere la cassiera del suo negozio. Sembravano molto felici il macellaio e la moglie cassiera: grassissimi e felici. Sandra li immaginò immersi nel loro mondo, dietro ai freddi banchi di marmo, lui con il suo coltellaccio in mano a dare risposte alle clienti. Loro, le signore con i sacchetti della spesa, a fare commenti su di lui: “È bravo, sapesse signora,...” e poi “Io non vado da nessun altro, si figuri...” e così via, ad apprezzare questo grosso macellaio nerboruto, che raccoglieva lonze e filetti e con colpi secchi tagliava costate una identica all’altra. E lei, la moglie, seduta alla cassa. Lei ad ascoltare le signore, compiaciuta di quello che dicono del suo uomo. Lei sembra una dea dell’Olimpo. Forse perché ha il profilo greco, gli occhi chiari distanti e un poco strabici, i capelli neri raccolti all’insù. Anche lei grassa, con un seno abbondante, contenuto a fatica nella parte superiore del costume. La pancia grassa, e anche le gambe, ma un grasso sano, ricco, di quelli che si potevano trovare nei quadri dei pittori fiamminghi del seicento. Li trovò belli. Sfacciatamente belli. Consci, sicuri, quasi tronfi nella loro proterva bellezza. Noncuranti del mondo attorno a loro. Poco più in là tre donne sole. Due sui quarantacinque, una più giovane, l’altra leggermente più anziana, due cognate. Poi la ragazzina, sedici anni, diciotto forse. Età ingrata, pensò Sandra, né carne né pesce, vedi la madre ancora bella e i tuoi amici la guardano ammirati, perché è più bella di te. La ragazzina grassottella, le cosce abbondanti, ma di una grassezza acerba, non ricca come quella della cassiera - macellaia - dea greca. Quei due fili di trucco del tutto stonati che, anziché elevarla di rango, mettevano in risalto tutta la sua acerbità; quel costume intero che copriva le sue forme non ancora sbozzate e il suo seno pesante; quella camminata goffa, impacciata, inelegante; quegli occhi opachi e incolori, dall’espressione assonnata, come di chi ha visto la luce dopo settimane di buio, e ne prova un immediato, passivo, rassegnato fastidio. Le due cognate, così intime, eppure così diverse; i pochi anni di età anagrafica che le separavano sembravano anni luce; la prima, la mamma della ragazzina, dal corpo molto ben proporzionato, i capelli tagliati a caschetto, il nasino sottile, la collana di coralli, il costume due pezzi; asciutta, più per un nervosismo latente che per diete o palestra, i seni minuti che potevano essere racchiusi dalla classica coppa da champagne, la sigaretta sottile sempre accesa fra le dita inanellate, lunga, all’insù; un portamento distinto, ancora più elegante se confrontato alla goffaggine della figlia. L’altra, dalla pelle scura e bruciata dal sole, solcata da rughe profonde; gli occhiali neri con le bacchette larghe sul naso adunco, i capelli raccolti all’indietro, tenuti in un fazzoletto; un bikini così ridotto che faticava a contenere tutte le forme; una noncuranza manifesta per un corpo di cui non le interessava più tanto; un’espressione tesa, sempre, anche mentre scherzava o rideva, come si poteva vedere dalla perenne contrazione delle guance; una sigaretta classica, non di quelle sottili che fumava sua cognata, sempre tenuta stretta fra le labbra, mentre leggeva, come mentre scriveva o mentre giocava a carte, mentre parlava, e parlando si muoveva in su e in giù; fumata con sdegno e trascuratezza. Entrambe sembravano molto sicure di sé, nelle affermazioni che facevano, nei loro movimenti, nelle loro conversazioni. Anche se Sandra non udiva una sola parola di quel che dicevano percepiva nondimeno una sicurezza infallibile da ogni loro atteggiamento. La ragazzina le guardava, ora restando con mamma e con zia, ora andandosi a bagnare nella piscina, ora recandosi al bar per una bibita fresca. Le sentiva come un modello di risolutezza, confrontate con la sua fragile inesperienza. Mentre stava osservando le tre donne sole ne vide arrivare una quarta, assieme al suo compagno. Erano francesi, non poteva essere altrimenti; e Sandra ne ebbe l’immediata conferma sentendoli parlare, mentre passavano davanti al suo lettino. Lei era una bella donna, molto elegante, con il nasino schiacciato all’insù, le narici piatte, le labbra carnose, i capelli biondi lisci e lunghi, gli occhiali da sole firmati, un abitino bianco attillato che, tenuto fermo in vita da una vistosa cintura che sembrava una catena d’oro, metteva in mostra un fisico curato, un ventre piatto, una grande proporzione in tutte le sue misure. I sandali d’oro e il cappellino con la lunga visiera completavano la coreografia di un soggetto studiato nel dettaglio. Provò un’immediata antipatia per la donna: forse perché le ricordava colei che le aveva rubato il marito. Il suo uomo era massiccio, la testa grossa con una montagna di mossi capelli brizzolati che, un poco ondeggianti, sembravano la criniera di un leone; il suo naso era porcino, anche lui aveva due labbra carnose, eccessivamente carnose, e una barba scura, rasata da poche ore ma che già gli ombreggiava il viso; spalle robuste e torace grosso, ma brevilineo, cosa questa accentuata anche dalla camicia che l’uomo indossava fuori dai bermuda, dando quasi l’effetto di essere un grosso baobab semovente, in cui piccole gambe e piccole braccia portavano a spasso un tronco imponente. Sulla testa portava anche lui un cappellino sportivo. Si sedettero proprio di fianco a Sandra, che poté ammirare con una punta di invidia la ragazza. Sfilatasi l’abito di stretch bianco mostrava uno splendido costume intero fucsia, che donava tantissimo alla sua bella abbronzatura. La ragazza, dal viso imbronciato, sembrava perfetta. Di certo doveva essere rifatta da capo a piedi; anche se rifatta davvero bene. Il naso era troppo dritto, troppo esattamente all’insù; le labbra e il seno erano siliconati; per non parlare delle gambe e del ventre, dove oggi, con una buona liposuzione, si può tutto. Cercava un difetto con accanimento, come il segugio cerca la preda; ma non sembrava trovarne. Si chiese che rapporto potesse esserci fra di loro, fra lei e il suo uomo, e automaticamente escluse il matrimonio. Amanti, pensò Sandra; amanti non rassegnati al tempo che passa. Forse amanti istituzionalizzati, però amanti. Una coppia del genere non è fatta per il matrimonio, continuava a riflettere: il matrimonio li ucciderebbe. Però, riprendeva, non è il solo tipo di amore esistente, il matrimonio; forse era lei che l’aveva sempre visto così; forse la maledetta educazione che le avevano impartito le faceva considerare l’argomento in modo univoco. È vero che l’educazione ricevuta non le impediva di pensare a un’avventura come qualche cosa da escludere, tutt’altro, a maggior ragione ora che era sola; ma mai sarebbe riuscita a configurarla come amore. Sesso, non amore: il primo era soltanto una parte, bellissimo, però parziale. Ce ne potevano essere altri? Sempre ritornava al fastidioso nodo. Mentre continuava a fare le sue riflessioni sull’amore, se fosse amore senza un matrimonio, o almeno senza una storia che al matrimonio fosse finalizzata, se per lei potesse ancora esserci amore ora che il matrimonio era finito, se, se, se, l’occhio instancabile continuava a esplorare la francesina alla ricerca del capo di imputazione che rendesse giustizia ai suoi sospetti e tacitasse la sua invidia. All’improvviso la perfida consolazione sopraggiunse: la ragazza si era chinata verso di lei, chiedendole se poteva prendere il tavolino vuoto che stava alla sua destra, e le aveva visto il collo: che, onestissimo come al solito, tradiva la vera età della donna. Poi ancora un gruppetto strano, tre donne e un uomo. Lui sulla cinquantina, o forse un po’ meno, e le donne di un’età imprecisata, qualche anno più vecchie. Le donne erano grassissime, e ostentavano un ripugnante topless. Una portava un grande cerotto sulla schiena, forse un intervento chirurgico effettuato da poco. Guardò meglio le donne. A un primo sguardo superficiale aveva sbagliato la loro età anagrafica, ingannata dalla massa adiposa e dai capelli ossigenati comuni a tutte e tre; mentre due, a ben vedere, erano più giovani dell’uomo, la terza sembrava prossima ai settanta, e doveva essere la madre. Il malcapitato era di certo il marito o il compagno di una delle sorelle, e stava vivendo una situazione assai pesante, di quelle nelle quali ci si viene a trovare contro i propri desideri, le proprie aspirazioni, la propria volontà; ma che, nonostante ciò, si finiscono per accettare, come si deve fare con il proprio destino. L’uomo poteva essere un ex sessantottino, un figlio dei fiori, un hippy del tempo che fu; la barba incolta, i capelli lunghi, l’orecchino d’oro erano per Sandra segni indubbi di un passato da libertario. Perché ora era lì? Sandra ripercorse in un attimo tutti i volti delle persone che come lei stavano godendosi la piscina, e ancora una volta, come poche ore prima, al momento di prendere l’aereo, ebbe la sensazione che dietro ognuno ci fosse una storia, e che parte di ogni storia coinvolgesse anche lei, si intrecciasse alla sua propria storia, avesse qualcosa in comune, frammenti, attimi, sensazioni, pensieri; nel destino comune che li legava e li aveva fatti incontrare qui in Kenya per poi scaraventarli di nuovo nel loro mondo, in questa grande pulsazione universale ci fosse tanto da scoprire, al di là dei volti, che altro non erano se non facciate imperscrutabili. Che cosa ci poteva essere a ben vedere dietro la francesina rifatta a puntino e il suo amante brevilineo? Che cosa dietro le due cognate che fumavano sigarette diverse in maniera diversa e alla loro acerba ragazzina? O dietro al figlio dei fiori con il suo ponderoso seguito? Oppure dietro il macellaio stimato e soddisfatto con la sua moglie cassiera dea greca? Era divertente pensare di ricreare situazioni, ambienti, storie, partendo da pochi, piccoli indizi: una smorfia, un atteggiamento. Il libertario cinquantenne, per esempio, era di certo rimasto legato per anni alla sua compagna; forse vent’anni fa leggevano assieme il libretto di Mao in una comune, progettando la rivoluzione. Non si erano sposati, ma soltanto perché sposarsi è borghese e convenzionale, però erano rimasti fedeli uno all’altra. Egli le era rimasto fedele anche quando lei era ingrassata tanto che sembrava una bomba, e avrebbe dovuto capirlo, quando era giovane e magra, vedendo dov’era arrivata sua madre. Poi gli anni erano passati, erano passate le comuni, il libretto rosso era diventato archeologia al punto che non lo si trovava più in nessuna libreria; c’era da lavorare, anche se a fare figli non s’era più pensato. Gli amici di una volta, quelli che non erano finiti in galera avevano trovato una strada diversa. Unico affetto rimasto la sua famiglia, d’accordo, non legalizzata, ma famiglia di fatto. Vivono assieme, non nello stesso appartamento ma nello stesso stabile; lui e lei in un appartamento, madre e sorella in uno attiguo, forse al piano di sopra. Poi la cognata si ammala. La madre è invecchiata e da sola non ce la fa a curarla; allora la sua compagna accorre, dedica il suo tempo alla sorella, alla madre, ed è del tutto assorbita da loro. E lui che fa? Anche lui è del tutto assorbito da loro, non potrebbe certo tirarsi indietro. Non è un vigliacco, non è un borghese egoista lui. La cognata deve essere operata alla schiena. Brutta faccenda. Per la convalescenza sarebbe opportuno un clima secco, caldo se possibile. Kenya, dottore? potrebbe andare? Perché no! È proprio l’ideale! Ma non andateci da sole, c’è qualcuno con voi? Certo, certo, non si preoccupi. Per la prima volta Sandra percepì un distinto distacco dalla realtà: il mondo raccontato accanto a quello vissuto. Perché no? Già il giorno prima, durante il trasferimento da Mombasa a Malindi, quando il professore le aveva parlato di quel libro che stava scrivendo... quel saggio... Scrivere un libro. Le sarebbe sempre piaciuto... non un saggio, certo no. Un racconto, una novella, un romanzo. L’idea la stuzzicava. Gli ingredienti c’erano tutti: l’ambiente, il tempo, lo stato d’animo; poi il professore le avrebbe potuto dare qualche dritta buona. Sandra aveva sempre amato leggere libri: e più ci pensava, più l’idea di scriverne uno tutto da sé l’allettava. Stava facendosi caldo e sentì desiderio di un po’ di refrigerio. Si alzò dal suo lettino e si sedette sul bordo della piscina, immergendo i piedi in acqua. La maggior parte della gente, alla spicciolata, si era alzata per recarsi a mangiare. Lei, che aveva fatto colazione tardi, decise di aspettare ancora, godendosi la pace dell’ora più calda. Tutto taceva; il vento taceva, gli uccelli tacevano. Gli unici suoni che Sandra poteva udire erano dolci rumori d’acqua: il flusso fresco di ricambio nella piscina e l’irrigatore che con un ritmo monotono, spezzato da due palme contro le quali il fiotto si andava ciclicamente a schiantare, testimoniavano l’assoluta assenza di altri rumori, accompagnando rispettosa il silenzio che regnava tutt’intorno. Franco aveva smesso di nuotare, ormai stanco, e si era disteso, dopo averla salutata con una strizzata d’occhi, sul suo lettino. Sembrava davvero che tutta l’Africa dormisse. Poi uno sciabordio si aggiunse a quelli preesistenti. Un uomo nella piscina stava nuotando. Con uno stile perfetto non spruzzava, non faceva rumore; sarebbe più giusto dire che scivolava sull’acqua. Si sedette sul bordo. Combattuta fra due differenti sentimenti contemplava l’eleganza sublime dell’uomo, ancora più mirabile se confrontata con il movimento scomposto che Franco aveva mostrato poc’anzi; ma contemporaneamente provava un irrazionale disagio. E già, le diceva una vocina, non è consueto vedere un nero nella piscina. Ma siamo in Africa, rispondeva la voce della ragione; non è forse normale vedere degli Africani? È normale, è normale, riprendeva la prima; è normale vedere camerieri neri, taxisti neri, commercianti neri, scolari neri... ma turisti neri? Hai forse paura che sporchi l’acqua? ribatteva la seconda. È questa l’idea che ti molesta? Sandra stava ancora cercando di cacciare lo stupido pensiero da sé, quando udì una voce da dietro le spalle: “Sta pensando anche lei a quello che penso io, vero? È strano vedere un africano che se la spassa come stiamo facendo noi” bisbigliò il professore, sedendosi di fianco a lei “Non so se lei ha pensato la stessa cosa, ma ammetto che a me il pensiero è arrivato spontaneo. In maniera subdola e imprevista, automatica, meccanica. Purtroppo devo ammettere che in noi c’è ancora parecchio razzismo”. Sandra scoppiò a ridere. “Che fa, adesso, legge nel pensiero?” gli disse con tono confidenziale “Come faceva a sapere che stavo pensando la stessa cosa?” Prese a muovere le gambe dentro l’acqua, a destra e a sinistra. Poi rimasero in silenzio, non sapendo che dire al proposito, a contemplare la scena. L’occhio di Sandra cadde su una giovane donna inglese seduta poco distante, sul lato della piscina ortogonale a quello dove loro erano seduti. La donna, una ragazza dai capelli rossi e dalla pelle chiara, coperta di lentiggini (da ciò Sandra aveva concluso che era inglese), non aveva staccato per un solo istante gli occhi da quel corpo che in maniera così fluida solcava l’acqua, e si capiva benissimo che provava per lui tutto tolto il razzismo. Il nero aveva frattanto finito le sue vasche, e due camerieri ossequiosi si erano affrettati verso la scaletta, con una larga spugna rossa e un accappatoio in mano. Mentre lui saliva la scaletta Sandra alternava lo sguardo fra il corpo di lui e gli sguardi concupiscenti della inglese. La muscolatura perfetta, atletica, come forse solo gli uomini di colore hanno, la pelle tirata, le goccioline d’acqua sulla epidermide vellutata. Si era portato una mano alla fronte, e l’aveva fatta scorrere lungo i crespi capelli corti, per spazzolare via l’acqua. Poi, infilandosi l’accappatoio bianco, aveva continuato a frizionarsi la cute della testa con l’asciugamano rosso. L’inglesina era rimasta con lo sguardo incollato all’uomo e la testa protesa quasi si allungava verso di lui nel tentativo di raggiungerlo. I suoi occhi, magneticamente attratti, non avevano perso un solo attimo i suoi movimenti; e aveva tratto un visibile sospiro nel momento in cui aveva indossato l’accappatoio, togliendole la paradisiaca visione di quel corpo. Un terzo cameriere era sopraggiunto, quando l’uomo si era seduto sulla poltrona, portando con sé un vassoio con frutta e un grande bicchiere pieno di succo di papaya. “Chi è?” chiese Sandra incuriosita. “Il Simba” rispose da dietro le loro spalle Franco, che era sopraggiunto dal suo lettino “il re del villaggio. Il marito della signora Iaia, la proprietaria. Ma ora è meglio andare a mangiare. Sono quasi le due: fra un po’ sparecchiano”.