4 - Cassandra
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Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 1 Ti spiattello in faccia come vanno le cose: vanno male. Benchè abbia perso lo spirito e la lettera della fede in quella sfera che tu conosci, sono ancora inquieto. Non mi tornano i conti, le misure, il modo che ha il mondo di girare.(…) Bartolo Cattafi Guerra alla guerra el corso delle ultime settimane la situazione internazionale si è ulteriormente aggravata e sembra ora precipitare verso un punto di non ritorno. Incombe la minaccia, sempre più concreta, dell’attacco USA all’Iraq (e poi, magari, anche all’Iran). Israele vuole chiudere la questione palestinese, liquidando Arafat. L’economia americana (e non solo) è sull’orlo della recessione. N ’ superfluo sottolineare quali rischi tutto ciò comporti. Piuttosto, chiediamoci se sia ancora possibile ritenere funzionale alla conservazione e al consolidamento del sistema un capitalismo “civile”, di cui il centrosinistra e/o le socialdemocrazie sarebbero la naturale espressione a livello politico-istitu-zionale. In altri termini: perché il vento di destra, dopo la vittoria di Bush nelle elezioni presidenziali, ha investito quasi tutta l’Europa? Si è trattato di un riflesso, destinato a spegnersi in un arco di tempo relativamente breve, o ci sono delle ragioni di fondo, profonde, che E Sommario: Cassandra alcuni recenti segnali in controtendenza, come le vittorie socialdemocratica in Svezia e della SPD e dei Verdi in Germania, le crisi governative in Austria e in Olanda - e per quanto riguarda l’Italia il parziale successo dell’Ulivo nella tornata amministrativa del 22 maggio, ma soprattutto la ripresa del conflitto sociale e dei movimenti per la pace - non bastano a contraddire sostanzialmente? Insomma, ci sono oggi, nel contesto “globale” attuale, dei margini per una stabile (e non residuale) affermazione di un capitalismo “illuminato”? O i margini sono ormai divenuti del tutto ipotetici, illusori, e quindi anche l’esperienza “ri-formista” è da considerare definitivamente consumata? che siano le risposte a questi Q uali interrogativi, bisogna non rassegnarsi e reagire, contrastare la deriva cui stiamo assistendo. Su un punto cruciale, il no alla guerra, si profila una prospettiva nuova. Una parte importante dell’Europa, che pure aveva appoggiato pressochè incondizionatamente le aggressioni degli USA e della NATO nel Golfo Persico, nei Balcani e in Afghanistan, pare risvegliarsi e avvertire con preoccupazione che la pressione americana non è rivolta soltanto contro l’Iraq, il mondo arabo e gli “Stati canaglia”, ma tende anche (come in occasione della crisi del Kosovo e dell’attacco alla Jugoslavia) a soffocare la sua autonomia. Una contraddizione si è aperta fra la Germania e la Francia e l’Impero. Negli stessi USA e in Gran Bretagna (dove le Trade Unions e la Stop to War Coalition hanno promosso, alla vigilia del congresso del Labour Party, la forte manifestazione pacifista del 28 settembre) il partito della guerra preventiva incontra resistenze anche all’interno dei gruppi dirigenti. Questo è un dato di fatto positivo, che non va sottovalutato. Tuttavìa, la possibilità di inceppare il disegno “imperiale” di George Bush jr non è affidata alle borghesie francese e tedesca (e russa). ecisiva potrà essere l’opposizione di larghe masse popolari, dei movimenti contro la globalizzazione neoliberista imposta dal complesso militare-industriale dell’imperialismo. Il rifiuto attivo dell’aggressione potrà diventare la leva di una lotta anticapitalistica estesa su scala D Un messaggero riportò gli eventi: «Rottura al centro, ripiegano le ali». Non chiedemmo che centro, quali ali, gli eventi giungevano in ritardo. Da gran tempo fioriscono i commerci siamo in buoni rapporti col nemico. Talvolta ritorna il messaggero a ricordarci monotoni eventi. Daremo aiuto alle milizie in rotta? Forse muovere un dito, un solo filo per salvare l’impero. Noi pacificati, così lontani dal luogo della lotta … Bossi & Fini - I rifugiati palestinesi Perejil - Operai o classe operaia? - Dibattito (Andrea Catone e Maria Turchetto) - Libri - Film - Internet Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 2 Le legge razzista di Bossi & Fini La nuova legge Bossi-Fini sull’immigrazione, che non a caso ha come padrini i leaders della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, colpisce non in base ai reati effettivamente commessi, ma in base a “chi si è”. Ogni immigrato, in quanto tale, viene cioè considerato un delinquente potenziale. L’introduzione dell’obbligo di rilevare le impronte digitali a tutti gli extracomunitari che richiedano o intendano rinnovare il permesso di soggiorno è in questo senso “simbolica” e rivela la demagogia populistica dei leghisti e la vocazione poliziesca del “postfascismo”. Con la Bossi-Fini la normativa della legge Turco-Napolitano, varata nel 1998 durante il governo dell’Ulivo, viene inasprita, ma non si può dire che i suoi criteri ispiratori siano “rovesciati”. La Turco-Napolitano non era infatti una legge “morbida”, come fra l’altro dimostrano questi dati, forniti dal ministero dell’Interno: nel triennio 1998-2000 sono stati respinti dalle questure o alle frontiere 45.187 (nel ’98), 48.437 (nel ’99) e 42.221 (nel 2000) migranti irregolari; 8.978, 23.955 e 23.836 sono stati i provvedimenti di espulsione; le espulsioni intimate sono state 44.121, 40.489 e 64.734; il totale delle persone coinvolte è stato di 98.256, 112.881 e 130.791 (il numero di quelle effettivamente allontanate dall’Italia è stato, sempre nel triennio 1998-2000, di 54.135, 72.329 e 66.057). Sono numeri che non giustificano affatto le accuse di “permissivismo” e “lassismo”. Altrettanto infondata è la “psicosi da accerchiamento” che le destre xenofobe vogliono alimentare in ogni modo. L’Italia non è una fortezza assediata minacciata dai nuovi invasori. Alla fine del 2000 (31 dicembre) gli stranieri regolari (titolari cioè di permesso di soggiorno) erano 1.388.153, alla stessa data del 2001 erano scesi a 1.362.630 e si può calcolare in 1.600mila-1.900mila la loro presenza effettiva, considerando che oltre 200mila minori non sono in possesso del permesso di soggiorno a titolo personale e di circa 100mila permessi registrati in ritardo. L’incidenza sul complesso della popolazione, calcolando in via approssimativa anche 300mila irregolari privi del permesso di soggiorno, è tuttora del 2,8-3,5%, mentre negli altri paesi europei è in media del 5%. L’agitazione xenofoba ha coniato l’equazione immigrato=delinquente, naturalmente senza curarsi affatto di distinguere fra immigrati che, spesso gravati da un forte disagio sociale, talvolta delinquono e criminali abituali inseriti in organizzazioni dedite ad attività illegali. L’equazione non ha r i s c o n t r o n e l l a r e a l t à. I dati dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 luglio 2002 registrano un aumento della popolazione carceraria: i detenuti sono 56.002 (la capienza complessiva nei 205 istituti di pena sarebbe di 41.730). I detenuti stranieri sono 16.901, il 30%: il 60% di essi sono ancora in attesa di giudizio definitivo. Ai detenuti possiamo aggiungere fra le 95 e le 100mila persone nei confronti delle quali sono state sporte denunce e arriviamo a circa 110mila, poco più del 5% del numero complessivo degli immigrati. Il problema, dunque, c’è; ma le sue dimensioni non sono tali da suscitare isterìe da “allarme rosso”. Del resto gli stessi dati del ministero indicano che l’incidenza dei detenuti extracomunitari regolari sulla popolazione degli extracomunitari soggiornanti in Italia e l’incidenza dei detenuti italiani sul totale dei residenti sono quasi uguali - pari allo 0,7% - e che in alcune regioni (soprattutto del Mezzogiorno) l’incidenza dei detenuti stranieri è anzi minore di quella degli italiani. La legge della Casa delle Libertà, la Bossi-Fini, considera però l’immigrazione un fenomeno completamente negativo da blindare entro regole ferree, reprimendo ogni deviazione con estrema durezza. Tuttavia - come è noto - l’immigrazione è indispensabile a molte aziende che nelle regioni del nord e/o in certi perodi dell’anno, non potrebbero ormai farne a meno. Ebbene, la nuova normativa introduce di fatto una forma che non è azzardato definire di moderna semischiavitù: per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno (di durata variabile fino a due anni) occorre adesso essere in possesso di un contratto di lavoro. Il permesso di soggiorno è così diventato di fatto un contratto di soggiorno, legato al lavoro degli immigrati, la cui dipendenza da chi dà loro un’occupazione diviene pressoché assoluta, condizionando in modo sostanziale le già minime possibilità di contrattazione e di resistenza. L’impianto repressivo è perfezionato da altre norme, che prevedono il conferimento alla marina militare di maggiori poteri di intervento per fermare in mare le imbarcazioni che trasportano i clandestini sulle nostre coste (e già si sono viste le possibili tragiche conseguenze), l’accelerazione delle procedure per le espulsioni, la riduzione delle possibilità dei ricongiungimenti familiari, rigidi limiti per il riconoscimento del diritto di asilo, il “potenziamento” dei famigerati Cpt (centri di permanenza temporanea), etc. La legge Bossi-Fini s’inserisce in un preciso contesto internazionale che il vertice europeo del giugno scorso a Siviglia ha evidenziato e dove soltanto l’opposizione di Francia, Svezia e Lussemburgo è riuscita (parzialmente) ad evitare che venissero adottate le sanzioni economiche e politiche proposte dalla Spagna di Aznar e dall’Italia di Berlusconi (e inizialmente anche dalla Gran Bretagna di Blair) contro i paesi extracomunitari che non “collaborano” in modo adeguato nella lotta all’immigrazione clandestina. Quasi ovunque in Europa, infatti, è stata aggravata la legislazione precedente (valga per tutti l’esempio della Spagna, dove una nuova legge ha cancellato quella in vigore durante il governo del Psoe). Come fronteggiare, allora, questa situazione? Un movimento davvero globale non può A briglia sciolta «Sono così favorevole al sistema maggioritario che, fosse in me, la legge finanziaria non andrebbe emendata» Massimo D’Alema, Corriere della Sera, 4 settembre 2002 «È che rischiamo, in questa dialettica tra partiti e movimenti, di riprodurre una visione pre-maggioritaria» Massimo D’Alema, l’Unità, 6 settembre 2002 Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 3 Palestina Non so proprio fino a quando lo slogan sionista “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, accettato supinamente dal mondo occidentale, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e la nascita dello Stato d’Israele, continuerà a tormentare il popolo palestinese. L'esistenza di questo popolo, per i sionisti, è sempre stata, oggi come ieri, in discussione. Basta ricordare le affermazioni, nel 1972, di Golda Meir, allora primo ministro d’Israele, secondo la quale non esiste e non è mai esistito un popolo palestinese. Oggi il discorso è un po’ diverso, ma il messaggio resta. Prima e dopo la creazione dello Stato d’Israele nel 1948, prima e dopo l’occupazione dei territori palestinesi conquistati da Israele nel 1967, prima e dopo la guerra del Libano, prima e dopo la guerra del Golfo, c’è la negazione dell’esistenza fisica del popolo palestinese in quanto tale. Ci sono voluti gli accordi di Oslo, perché ci fosse un riconoscimento formale. Ma ora che quegli accordi sono saltati ... La ragione di tutto ciò è semplice. Nella genesi del diritto basata sulla realtà degli Stati, il popolo deriva dal territorio. Se il popolo non esiste, l’occupante vede il suo dominio del territorio automaticamente legittimato. Dunque popolo e territorio sono legati da un doppio filo, pratico e teorico, e ciascuno dipende dall'affermazione dell’altro. Una rottura radicale, totale tra questi due termini - popolo e territorio annuncia la fine dell’uno come dell’altro. Sta tutta qui l’importanza simbolica attribuita al territorio perduto presso i popoli de-territorializzati. Un popolo che cessasse di definirsi in rapporto a una forma di territorialità, vedrebbe la sua unità e la sua unicità, la sua essenza, sconfitta in partenza dalle molteplici identità che derivano dai territori “accidentali” dove la storia l’avrà confinato. Sta tutta qui anche la passione per la terra dei coloni, quando puntano al radicamento: pieds-noirs d’Algeria, farmers dell’Ovest americano, afrikaners e, ovviamente, israeliani. Paradossalmente, la lunga storia della rivendicazione sionista sulla Palestina passa attraverso la negazione del territorio palestinese: gli storici simpatizzanti del progetto sionista sostengono che la Palestina, in quanto territorio, non esisteva prima del Mandato britannico, e che di conseguenza non esiste un popolo palestinese, ma soltanto delle popolazioni arabe. Ovviamente aggiungono che il territorio della Palestina, sotto il nome di Eretz Israel, cioè la “Terra d’Israele”, con confini che variano secondo le scuole, costituisce, da millenni, un’entità unica, completa e indivisibile, legata da un “cordone ombelicale” al popolo ebraico. Del resto, per il testo della Dichiarazione Balfour, del 1917, con la quale il governo di Sua Maestà britannica chiedeva a lord Rothschild di portare a conoscenza dei dirigenti del movimento sionista che “considerava favorevolmente l'insediamento di un Focolare nazionale ebraico in Palestina”, non esiste un popolo in Palestina. Soltanto “comunità non ebraiche”, i diritti “civili e religiosi” delle quali sarà però opportuno rispettare. Il particolare che le comunità non ebraiche rappresentino più del 90% della popolazione è, per Lord Balfour, del tutto trascurabile! I trattati seguiti alla fine della Prima Guerra mondiale, mediante i quali il defunto Impero ottomano, divenuto la Turchia kemalista, affidava alla Società Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 4 delle Nazioni il mandato sulla Palestina in quanto entità indipendente, fanno però riferimento alla Palestina e al suo popolo, ma non si tratta ancora del popolo palestinese. Quando l’ONU, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, riconosce il carattere nazionale della popolazione palestinese, detto carattere è ancora arabo. Ancora oggi, il popolo palestinese, pur essendo detentore, agli occhi dell'Assemblea generale delle Nazioni unite, di diritti nazionali inalienabili, gode, nel linguaggio delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, soltanto di “diritti umani” (quando sono violati) e a s s a i p o c o d i “ diritti politici legittimi” (risoluzione 672 del 12 ottobre 1990). L’amministrazione americana, non parla mai di un popolo palestinese, ma soltanto di palestinesi, categoria indefinita nell’attesa di un riconoscimento più esplicito. La risoluzione 242, con la quale il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiara all’unanimità l’illegittimità della conquista di territori con le armi, parla soltanto di rifugiati, non fa alcun riferimento al popolo palestinese. Un esempio clamoroso: nel 1979, nel quadro della firma degli accordi di Camp David (relativi ad un trattato di pace tra Egitto e Israele), il governo israeliano si fece avallare dall’amministrazione americana, in un documento a parte, la traduzione in ebraico dei passaggi più delicati del trattato di pace: così, in ebraico, “diritti legittimi dei palestinesi” è tradotto come “diritti legittimi degli arabi della Terra d’Israele”. La frantumazione di un popolo Questo popolo, cui è negata la sua identità, si è trovato, nel corso degli anni, frantumato. A partire dal 1948 più della sua metà è finita in esilio in campi profughi nei paesi vicini, mentre una minoranza ancorata al suo spazio, aggrappata alla sua terra “con le unghie”, per riprendere un’espressione dei suoi poeti, ha subito la dura legge dei vincitori: governo militare (fino al 1966), con cittadinanza “non ebraica” nello Stato ebraico. Dopo la guerra del 1948, la Cisgiordania, con il suo 38% di profughi palestinesi, sarà annessa al regno hachemita di Giordania, mentre la Striscia di Gaza, con il suo 26% di profughi, verrà posta sotto amministrazione militare egiziana. Questi due territori, che ospitano un terzo del popolo palestinese, saranno assoggettati all'occupazione militare quando, nel 1967, lo Stato d’Israele estenderà il suo dominio sulla parte restante della Palestina del Mandato (quel 22% sul quale avrebbe dovuto nascere, secondo gli accordi di Oslo, lo Stato di Palestina). Tre insiemi di persone costituiscono perciò questo popolo: più di un milione di “arabi d’Israele”, essenzialmente concentrati in Galilea, nella regione detta “del Triangolo” e nel Negev, cittadini di serie B dello Stato ebraico; più di tre milioni di palestinesi che risiedono nei territori di Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme-Est, occupati dopo il 1967, dove sono di nuovo soggetti senza diritti alla mercé del governo militare, dopo l’offensiva d’aprile dell’esercito israeliano che ha rioccupato tutti i territori dell’Autorità palestinese; infine quasi tre milioni di palestinesi dell’esilio, dispersi principalmente nei paesi arabi vicini (dove la maggioranza vive in campi profughi), negli Stati del Golfo, in America del Nord e del Sud. A lungo, per i mezzi d’informazione occidentali, i palestinesi si riducevano alla componente del popolo che viveva in esilio, principalmente in Libano, con le keffiah e i kalashnikov. Nei territori occupati non c’erano che arabi, soltanto abitanti arabi! Poi venne l’Intifada. Dopo la conquista di Beirut, nel 1982, da parte dell’esercito israeliano, culminata nella strage di Sabra e Chatila, nacque questo sollevamento popolare, di cui la "guerra delle pietre" costituisce la forma espressiva degli adolescenti, riavvicina progressivamente l’immagine e il nome dei palestinesi verso il territorio originale della Palestina, e più specificamente verso i territori occupati dal 1967, organizzando la resistenza creativa e multiforme della società occupata. Ora, per i dirigenti israeliani gli “unici” palestinesi sono quelli “dell'interno”. Non vogliono sentir parlare che di palestinesi cisgiordani o di Gaza, oppure di Gerusalemme, proiettando, in queste territorialità distinte, una popolazione e dei territori, negando così, ancora una volta l’esistenza di un popolo e di un paese. E così, di questo riavvicinamento dell'identità palestinese alla propria terra, sono i palestinesi dell’esilio che rischiano di pagare il prezzo. L’ostinazione dei dirigenti israeliani a indicare loro i nuovi dirigenti palestinesi, il veto sistematico opposto alla partecipazione dei palestinesi “dell'esterno” a qualsiasi negoziato, sono il riflesso speculare dell’insistenza dei palestinesi ad un’unica rappresentanza scelta autonomamente. Infatti è proprio la conferma e il riconoscimento di quest’unicità del popolo palestinese, istituzionalizzata nell’OLP, che contraddistingue un popolo da una popolazione, un paese da un territorio. Gli accordi di Oslo segneranno una svolta positiva con il riconoscimento dell’OLP e del popolo palestinese, ma resteranno in sostanza un guscio vuoto, soprattutto perché eludevano proprio il problema dei rifugiati e del loro diritto al ritorno. Ma perché i rifugiati costituiscono un nervo scoperto dello Stato d’Israele? Perché, di fronte a questo problema, intellettuali progressisti, come Grossmann ad esempio, perdono le staffe e non si distinguono in nulla dalle posizioni più estreme del fondamentalismo ebraico? Se la motivazione più ripetuta è quella che il ritorno dei rifugiati metterebbe in pericolo l’esistenza dello Stato d’Israele tout court, e il suo carattere ebraico, cosa che fa parte della persistente determinazione negli ebrei di presentarsi come vittime, in realtà riconoscere il diritto al ritorno significherebbe ammettere, per lo Stato d’Israele, che nel 1948 espulse con la violenza più di 700.000 palestinesi. Eppure, quando lo Stato d’Israele aspirava ad essere ammesso all’ONU, questo suo desiderio fu condizionato all’accettazione della risoluzione 194 del dicembre 1948, relativa al diritto dei rifugiati al ritorno o al loro indennizzo nel caso non volessero tornare. Israele accettò di buon grado, fu ammesso Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 5 Perejil Uno scoglio come pretesto Un reparto dell' esercito marocchino ha occupato l'11 luglio scorso l'isolotto (poco più di uno scoglio) di Perejil, territorio spagnolo a sei miglia marine dalla città costiera Ceuta, enclave spagnola, come la sua “gemella” Melilla, nell’Africa del nord. La bandiera della dinastia alawita ha sventolato per una settimana su una terra che Rabat considera ormai parte integrante del suo Stato, come già era accaduto per l' ex-Sahara spagnolo, mentre per Madrid la presenza spagnola nelle cittadine di Ceuta e Melilla e nelle piccole isole al largo di esse è giustificata e pienamente legittima. Poi, alle prime ore del 17 luglio, reparti scelti spagnoli hanno ripreso l' isolotto. L' operazione si è conclusa senza vittime, ma la tensione permane, se è vero che ancora alla fine di agosto Rabat ha inviato una fregata e La ribollita toscana «La Rabbia e l’Orgoglio di Oriana Fallaci è stato il più grande successo editoriale mai registrato da un saggio in Italia (…) Oggi il Corriere della Sera ripropone ai suoi lettori tre brani de La Rabbia e l’Orgoglio. Due, già presenti nel famoso articolo pubblicato su queste pagine il 29 settembre 2001. Uno appartenente alla prefazione del libro (…)» diverse pattuglie della marina militare al largo di Melilla. Preoccupano anche il rafforzarsi delle posizioni militari marocchine nelle vicinanze delle acque territoriali spagnole e la notizia dell' ingente acquisto di forniture militari da parte del paese nordafricano: 30 elicotteri, 2 navi e più di 500 mezzi terrestri che, ufficialmente, servono per difendere i confini da eventuali rivendicazioni dell' Algeria. La Spagna continua a mantnere un presidio navale straordinario nella zona. Un interessante articolo di Daniele Zaccaria (vedi Liberazione, 19 luglio, "La rinascita del nazionalismo spagnolo") ha sostanzialmente riproposto una chiave di lettura di questi avvenimenti - in apparenza grotteschi - basata su alcuni elementi per così dire "classici" di interpretazione marxista: - il nazionalismo come valvola di sfogo al malcontento interno delle masse popolari (valvola di sfogo tanto più necessaria nell' era della globalizzazione, degli organismi sovranazionali e delle privatizzazioni selvagge, quando le forze armate rimangono una delle pochissime i s t i t u z i o n i d i r i c o n o s c i mento comunitario); - le nostalgie coloniali degli Stati europei (in questo caso la Spagna); - la volontà di riscatto dei Paesi del Terzo Mondo. Questa analisi, però, non tiene sufficientemente conto delle scelte geopolitiche degli USA. In realtà, la "con-quista" e la successiva "reconquista" dell' isolotto desertico di Perejil rappresentano un preoccupante salto qualitativo nell' escalation di tensione che il regime del Marocco sta portando avanti da due anni contro la Spagna e - indirettamente - contro l' Unione Europea. La strategia della dinastia alawita cerca senza dubbio di trovare una valvola di sfogo per il malcontento sociale in Marocco, ma contemporaneamente va incontro agli interessi che stanno dietro la politica bellicista degli Stati Uniti, per i quali il Marocco è l'alleato privilegiato nell' area del Maghreb, dove svolge il medesimo ruolo che l'Arabia Saudita svolge nell'area del Golfo. Poco note sono infatti le implicazioni del contenzioso ispano-maroc-chino, ma bisogna conoscerle per evitare un’interpretazione riduttiva del conflitto, che utilizza categorie in questo caso solo parzialmente esaurienti. La dinastia alawita adesso appoggiando la visione ultranazionalistica del "Grande Marocco"- rivendica anche la sovranità delle Isole Canarie, il maggior avamposto dell'Unione Europea nell'Atlantico, e riceve, con il pieno avallo degli Usa, finanziamenti dall'Arabia Saudita e dagli Emirati per il potenziamento della sua aviazione militare (un potenziamento diretto chiaramente contro le Canarie e la Spagna in generale). Altri lauti finanziamenti fluiscono verso "centri culturali" di musulmani in Spagna, che sostengono l' immigrazione in massa di marocchini. Già alla fine del 1995, in un incontro tra due delegazioni governative, un importante dirigente della polizia marocchina aveva lasciato intendere che la soluzione dl problema aveva… un prezzo, ma Madrid non aveva ceduto alla richiesta di "foraggiare" i funzionari della dinastia alawita per frenare l' entrata in massa dei migranti. Oggi più di mezzo Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 6 milione di marocchini risiedono in Spagna, la metà in forma illegale. Si calcola che tre milioni, quasi il 10% della popolazione totale, abbiano abbandonato il loro paese per le più diverse destinazioni. La ridicola invasione di Perejil è stata preceduta, dunque, da altri momenti di tensione. Agli inizi del 2001 è saltato l'accordo sulla pesca al largo delle coste marocchine perché il governo di Rabat aveva chiesto alla Spagna di ridurre i suoi pescherecci ad un terzo di quelli allora operanti, di ricevere dall'UE il doppio degli aiuti e di limitare a due anni la durata dell'accordo stesso. Nell'ottobre sempre del 2001, il re Maometto VI ha deciso personalmente di ritirare l'ambasciatore in Spagna. La vera ragione di questo atto è stata la posizione assunta dalla Spagna in seno all’UE in merito alla questione del S a h a r a o c c i d e n t a l e ( e x - Sahara spagnolo). La Spagna infatti rifiuta di riconoscere l'annessione di questo territorio avvenuta nel 1976 (province di Boujdour, La-ayoune e Es-Semara) e nel 1979 (pro-vincia di Oued-Eddahah, in precedenza amministrata dalla Mauritania) da parte del Marocco e considerata illegale dalle Nazioni Unite. Nonostante l'apparente ritorno alla calma, la crisi di Perejil ha confermato quanto da tempo appare evidente: gli USA stanno tessendo una quadruplice alleanza per rinserrare il mondo arabo entro un quadro di fedeltà americana. Oggi manipolano quattro potenze musulmane, ben situate a tutte le estremità geografiche dell'area islamica: il Marocco all'estremo occidente, contro la Spagna e per assicurarsi il controllo della costa atlantica africana fino al Senegal e un ancor più facile transito attraverso lo Stretto di Gibilterra; l'Arabia Saudita per mantenere l'egemonia sulla zona del Golfo e del Corno d'Africa e per minacciare l' Iran; la Turchia a nord, per costituire una minaccia nel Mar Nero, nei Balcani, nell'Egeo, a Cipro e nel Cauca-so contro l'Europa e la Russia, contro la Siria e l'Iraq nelle valli del Tigri e dell' Eufrate ed eventualmente contro l'Iran; il Pakistan è infine usato a est contro l'India e la Russia. La validità di tale analisi trova conferma, del resto, nello svolgimento della vicenda i esame: 1. il ministero degli Esteri spagnolo aveva fatto sapere che non occorreva nessuna mediazione internazionale per risolvere la controversia. Il segretario di Stato americano Colin Powell si è invece intromesso pesantemente nella trattativa, operando in prima persona e dichiarando: "Gli Stati Uniti danno il benvenuto al compromesso raggiunto tra Marocco e Spagna sull' isola di Perejil in seguito alle consultazioni tenute a Washington con ambo le parti". 2. A fine luglio si è riaperta la partita sull' ex-colonia spagnola del Sahara Occidentale (che fra l’altro dispone di importanti risorse minerarie). Il Consiglio di Sicurezza dell' ONU si è riunito per definire il futuro della missione per il referendum nel Sahara occidentale iniziata nel 1991 ed il cui mandato scadeva il 31 luglio. La battaglia diplomatica verteva sulla votazione dell' "Accordo Quadro" proposto dagli USA, che sostengono una soluzione a senso unico: in sostanza, fare del Sahara Occidentale una provincia, "auto-noma" per modo di dire, del Marocco, scartando l'ipotesi del referendum e della separazione territoriale, rifiutata dal Marocco. Washington fa il gioco della dinastia alawita e viceversa. La Spagna è stata ascoltata in sede ONU come parte in causa, pur non stando nel Consiglio di Sicurezza, e ha difeso ancora una volta il diritto al referendum rivendicato dal Fronte Polisario. L'Unione Europea (dove Londra - come al solito - ha appoggiato a spada tratta la politica americana), si è dimostrata incapace di sostenere una posizione comune. Così il Consiglio di Sicurezza ha dovuto prorogare fino al gennaio 2003 il mandato della missione per il referendum di autodeterminazione del popolo sahrawi (Minurso). La risoluzione approvata ha rimandato qualunque decisione e ha dimostrato l' Parole magiche «La parola magica è “pragmatismo”. E poi “realismo”, “responsabilità”. In quindici minuti, spesi ad illustrare cifre e a tormentare un nuovo paio di lenti da presbite, l’ex ministro diessino Pierluigi Bersani cattura la platea degli industriali. Sale al palco in un silenzio poco promettente. Scende tra gli applausi» Corriere della Sera, 10 settembre 2002 Riassumendo … «Riassumendo. Cofferati resta convinto che l’unica carta vincente resta l’Ulivo (…) Bertinotti propone la rottura della prigione ulivista, per costruire una “sinistra plurale”, dove sinistra “riformista” e sinistra d’alternativa definiscono un’alleanza (…) E chi ha detto che il campo dell’alternativa non possa aspirare alla direzione politica? Questa sin istra plurale discuterà su quali contenuti ci si allea, o non ci si allea, con il Centro. Curiosamente, Bertinotti e Cofferati hanno discusso molto di “politica pura”, non avendo né l’uno né l’altro nessuna particolare propensione alla medesima» Liberazione, 18 settembre 2002 Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 7 Operai o classe operaia? Nel 1980 André Gorz pubblicava il noto libro Addio al proletariato, in cui profetizzava esplicitamente la fine del lavoro e del proletariato, avviando così un acuto dibattito sulla realtà e sulla attualità di questa “ f in e” . E ra un dibattito che non poteva avere una conclusione precisa e certa, ma in cui hanno acquistato cittadinanza alcune nozioni a m b i g u e o francamente pericolose come quelle che postulano la perdita di senso della teoria del valore, la sostituzione del lavoro da parte della scienza nel processo creatore di ricchezza, la nascita di nuovi “para-digmi sociali” che avrebbero al loro centro «la vigenza di una logica sociale intersoggettiva e interattiva, informatica, che si collocherebbe in posizione analitica di superiorità di fronte alla formulazione marxiana della centralità del lavoro e della teoria del valore». Va da sé che da questo quadro teorico “ast ratto” discendono conseguenze molto concrete e “forti” nell’universo dei rapporti politici tra le classi sociali e delle azioni politiche dei partiti che in qualche modo si rifanno al mondo del lavoro. Sulla stessa “onda”, nel numero 0 di Cassandra (settembre 2001) Enrico Melchionda si domanda «per-ché gli operai non ce l'hanno fatta a creare un sistema socio-economico alternativo al capitalismo». Egli è convinto che sia «più appropriato parlare di fallimento che di sconfitta» e non crede che l'esito sia stato determinato da cause esogene. E tanto meno dal “tradimento” di qualcuno. Afferma che, per capirci qualcosa, dobbiamo guardare piuttosto «a fattori e limiti soggettivi e oggettivi della classe operaia. Non solo di quella sovietica, ma della classe operaia in quanto tale». «L'origine e la radicalità del suo revisionismo ideologico-culturale (“di una parte, di gran lunga maggioritaria, della sinistra e del movimento operaio”), non a caso senza precedenti, sta (...) proprio nella coscienza disincantata del fatto che ci troviamo di fronte a un fallimento, prima che a una sconfitta». Fallimento che consisterebbe «nell'incapacità/ impossibilità di creare o perfino immaginare un sistema economicosociale migliore del capitalismo, per capacità di produrre ricchezza e di soddisfare bisogni. (...) E' un rilievo forte (...). Se vogliamo conservare quel che di buono c'è nel marxismo, l'opzione anticapitalista dev'essere qualcosa di più di una scelta di principio: una possibilità reale, basata su una teoria scientifica. E soprattutto basata su un vero soggetto antagonista, com'è stato o abbiamo immaginato che fosse la classe operaia». Quel che è certo per Melchionda è che, appunto, «la classe operaia non ce l'ha fatta (…) e oggi paga lo scotto del fallimento con la marginalizzazione e forse addirittura con il rischio dell'evaporazione». Purtroppo essa «ha dimostrato di non essere in alcun modo la “classe generale” profetizzata dal marxismo, nonostante vi disponesse di tutte le condizioni favorevoli. Ecco perché gli interrogativi sulla soggettività comunista di questa classe non lasciano in fin dei conti molto spazio all'ottimismo»1. Come se non bastasse «le identità etnico-nazionali che fino a pochi anni prima sembravano superate, meri residui atavici» hanno avuto un’impennata, dimostrando di essere solo sopite. «Probabilmente qui c'è la sfida più seria e insidiosa al progetto comunista basato sulla lotta di classe. Se è vero, infatti, che per gli stessi operai il richiamo della nazione è più forte di quello di Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 8 sorta di eclissi della classe o p e r a i a . Natur almente, nessuno con un minimo di buon senso dubita oggi del fatto che gli operai esistano ancora, ma è sempre più arduo affermare che esista una classe operaia. Il problema (...) è che non può esistere una tale entità senza la coscienza di classe e senza un movimento o p e r a i o organizzato, insom-ma senza una soggettività classe, allora vuol dire che il fondamento materiale da cui per Marx dovrebbe nascere il soggetto rivoluzionario è meno solido di quanto supponessimo. (...) Rispetto a quella di classe, l'identità etniconazionale non sembra certo un'alternativa progressiva, consona ai valori universalistici e illuministici della sinistra. Eppure, è proprio questo incubo che sembra emergere dal collasso dell'esperienza sovietica, dilagando - a ulteriore conferma della sua serietà - in tutte le società ex socialiste, quasi a mò di reazione e supplenza all'ideologia comunista. In realtà, la supremazia del conflitto etnico su quello classista si era già manifestata in altre occasioni. Il primo shock in questo senso si era già avuto all'epoca della prima guerra mondiale, quando il movimento operaio fu dilaniato dai nazionalismi contrapposti (...) Ci sono molti argomenti che possono aiutarci a capire e relativizzare il fenomeno. (...) Rimane il fatto che oggi ci troviamo di fronte a una politica». Cercherò di rispondere a questi argomenti prendendo spunto da alcuni libri pubblicati di recente. Il primo libro che consente di rispondere a questa vera e propria costellazione di problemi è Addio al lavoro? Metamorfosi del mondo del lavoro nell’età della globalizzazione, di Ricardo Antunes, pubblicato nel 2002 dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa (pp 128, Euro 10,33). Il libro è stato recensito con grande risalto e interesse da Luigi Cavallaro su il manifesto del 1° marzo 2002 e da Aldo Meccariello su liberazione del 3 marzo 2002. Il sociologo brasiliano rifiuta esplicitamente la tesi della fine del lavoro (e del proletariato), della perdita di senso e significato del lavoro, facendo appello a due argomentazioni “forti”. Innanzitutto ricordando la natura duplice del lavoro nella presente società e, cioè, la differenza che passa tra il “lavoro concreto” (quello che permettendo la mediazione con la natura e producendo valori d’uso consente all’uomo di appropriarsi della ricchezza della natura stessa, definita da Marx l’unica fonte della ricchezza in Critica del programma di Gotha) e “lavoro astratto”, cioè quel lavoro che, all’interno del ciclo capitalistico - producendo merci produce valore, quindi denaro, quindi capitale. Nell’ambito della produzione capitalistica «il capitale può dimi-nuire il lavoro vivo, non può eliminarlo; può intensificare la sua utilizzazione, può renderlo precario e anche lasciarne disoccupate parcelle immense, ma non può estinguerlo». D’altra parte, osserva argutamente l’A., «non essendo consumatori, né salariati, i robot [dell’industria] non potrebbero partecipare al mercato. La semplice sopravvivenza dell’economia capitalistica sarebbe, in questo modo, compromessa». Proprio perché «il capitale non può eliminare completamente il lavoro vivo dal processo di creazione di valori, deve aumentarne l’utilizzazione e la produttività in modo da intensificare le forme di estrazione di plusvalore in tempo sempre più ridotto. Pertanto, una cosa è avere la necessità imperiosa di ridurre la dimensione variabile del capitale e la conseguente necessità di espandere la sua parte costante. Un’altra, molto diversa, è immaginare che eliminando il lavoro vivo, il capitale possa continuare a riprodursi. La riduzione della classe operaia stabile (…), l’ampliamento del lavoro “più intellettualizzato” all’interno degli impianti produttivi moderni e di punta e l’ampliamento generalizzato delle forme del lavoro precarizzato (…) nell’”era dell’impresa flessibile” e della deverticalizzazione produttiva, sono esempi significativi della vigenza della legge del valore». Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 9 Il secondo argomento “forte” è l’equazione posta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale nella sfera della produzione. Infatti dal momento in cui «con la conversione del lavoro vivo in lavoro morto (…) per lo sviluppo dei software, la macchina informatica passa a disimpegnare attività proprie dell’intelligenza umana, ciò a cui si può assistere è un processo denominato “oggettivazione delle attività cerebrali nella macchina”, di trasferimento del sapere intellettuale e cognitivo della classe lavoratrice nella macchina informatizzata»; questo processo «ac-centua la trasformazione del lavoro vivo in lavoro morto»2. Insomma c’è la tendenza a una «crescente articolazione tra lavoro materiale e immateriale, nella misura in cui si assiste, nei settori più avanzati del mondo contemporaneo, all’espansione del lavoro dotato di maggiore dimensione “intellettuale” (…) sia nelle attività industriali più informatizzate, sia nelle sfere comprese dal settore di servizi o nelle comunicazioni (…). Inoltre l’espansione del lavoro nei servizi, nelle sfere non direttamente produttive, ma che molte volte disimpegnano attività articolate con il lavoro produttivo, si mostra come un’altra caratteristica importante della nozione ampliata del lavoro. (…) L’ampliamento delle forme di lavoro immateriale diventa, pertanto, un’altra caratteristica del sistema di produzione». Conclude Antunes che ciò che accade oggi «è una maggiore interpenetrazione, tra attività produttive e improduttive, tra attività di fabbrica e di servizio, tra attività lavorative e di concetto, che si espandono nel contesto della ristrutturazione produttiva del capitale. Una concezione ampliata del lavoro rende possibile intendere il ruolo che esso esercita nella società contemporanea (…) il che è molto differente dal propugnare la fine del lavoro». Pur essendo pienamente d’accordo sul ragionamento dell’A., riteniamo superflua e innecessaria la sua “con-cezione ampliata del lavoro”. Infatti il ragionamento resta valido, anzi acquista vigore, se usciamo dalle sabbie mobili della vecchia polemica tra lavoro produttivo e improduttivo: dovrebbe esser chiaro a tutti che - ai fini del Capitale - qualsiasi lavoro si esplichi nella sfera della produzione, dell’estrazione e/o della realizzazione (di plus valore) è un lavoro produttivo e i lavoratori inseriti in questi settori sono lavoratori produttivi a tutti gli effetti3. Il ragionamento prosegue, più estesamente nel Capitolo 2, Le metamorfosi del mondo del lavoro, in cui Antunes osserva i processi contraddittori che si manifestano nel mondo del lavoro oggi: « (…) da un lato nei paesi a capitalismo avanzato si è verificata una deproletarizzazione del lavoro industriale, di fabbrica (…). In parole povere, è calato il numero degli appartenenti alla classe operaia industriale tradizionale. Ma, parallelamente, si è realizzata una palese espansione del lavoro salariato a partire dall’enorme ampliamento del processo di salarizzazione nel settore dei servizi; si è verificata una significativa eterogeneizzazione del lavoro, espressa anche mediante la crescente incorporazione di un contingente femminile nel mondo operaio; si è vissut a una sottoproletarizzazione intensificata, grazie all’estensione del lavoro parttime, temporaneo, precario, subappaltato, interinale, che caratterizza la società duale del capitalismo avanzato». Il risultato brutale di queste trasformazioni è stato «l’espansione senza precedenti nell’era moderna della disoccupazione strutturale, che colpisce il mondo su scala globale. (…) c’è una processualità contraddittoria che, da un lato riduce la classe operaia industriale e di fabbrica; e dall’altro, aumenta il sottoproletariato, il lavoro precario e la salarizzazione nel settore dei servizi. Incorpora il lavoro femminile ed esclude i più giovani e i più vecchi. C’è, pertanto, un processo di maggiore eterogeneizzazione, complessificazione e frammentazione della c lasse lavoratrice». All’interno della tendenza alla riduzione del numero degli operai dell’industria vi sono poi tendenze contrastanti. Antunes cita quelle a una progressiva, maggiore qualificazione di alcuni settori della forza lavoro e - allo stesso tempo alla dequalificazione di altri gruppi operai. Si produce così una nuova segmentazione della classe lavoratrice per cui possiamo individuare «al centro del processo produttivo (…) il gruppo di lavoratori, in processo di arretramento su scala mondiale, ma che permane a tempo pieno dentro le fabbriche, con maggior sicurezza Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 10 nel lavoro e più inserito nell’impresa». La periferia della forza lavoro comprende, secondo l’A., sottogruppi differenziati in base al livello di precarietà, flessibilità, sostituibilità. Tutto ciò gli permette di concludere che «la classe operaia non sparirà tanto rapidamente e, cosa fondamentale, che non è possibile prospettare, neanche in un lontano futuro, alcuna possibilità di eliminare la classe-che-vive-di-lavoro». Nel Capitolo 3, Dimensioni della crisi contemporanea del sindacalismo: ostacoli e sfide, Antunes mostra le ripercussioni che questa metamorfosi ha avuto sul movimento dei lavoratori. Il primo sintomo è la tendenza alla caduta dei tassi di sindacalizzazione4. La crisi dei sindacati è spiegata con l’allargamento del fossato che divide i lavoratori stabili da quelli precari. Storicamente la forza dei sindacati si è basata sui lavoratori stabili, mentre non sono stati capaci di coinvolgere i precari. Oggi è debole proprio il sindacalismo verticale, erede del fordismo, incapace di trasformarsi in sindacalismo orizzontalizzato e quindi di coinvolgere l’insieme dei lavoratori, in senso intercategoriale e intersettoriale, dagli stabili ai precari. Infatti «la frammentazione, la eterogeneizzazione e la complessità della classe-che-vive-di-lavoro pone in questione alla radice il sindacalismo tradizionale e rende difficile anche l’organizzazione sindacale degli altri segmenti che compongono la classe lavoratrice». È vero che parallelamente a questo processo il sindacalismo ha riportato importanti successi nei settori dei salariati medi (con questo termine l’A. fa riferimento agli impiegati sia pubblici, che privati), «ma tale espansione nella maggior parte dei paesi non è stata sufficiente a compensare, in termini di tasso di sindacalizzazione, il declino del sindacalismo dei lavoratori manuali». Un’altra conseguenza di queste trasformazioni è stata «l’intensificazione della tendenza neocorporativa che cerca di preservare gli interessi della classe operaia stabile, vincolata ai sindacati, contro i segmenti che comprendono il lavoro precario, interinale, part-time, ciò che abbiamo denominato sottoproletariato». Si tratta di un “corporativismo societario” sempre più escludente e parzializzato che si intensifica di fronte al processo di frammentazione dei lavoratori, anziché cercare nuove forme per riunificarli, che riduce l’efficacia delle azioni di lotta o gli scioperi e «rende ancor più difficile lo sviluppo e il consolidamento di una coscienza di classe dei lavoratori, fondata su un sentimento di appartenenza di classe», mentre fa aumentare «il rischio di espansione di movimenti xenofobi, c orpor ativi, r azzis ti e paternalistici all’interno dello stesso mondo del lavoro». Tutto ciò comporta la crisi dei modelli sindacali vigenti e almeno tendenzialmente - il rischio di una loro implosione (Antunes sceglie di non occuparsi della rappresentanza politica dei lavoratori e della sua crisi speculare). Assieme all’Autore possiamo, quindi, rispondere a Melchionda che non il “richiamo della nazione è più forte di quello della classe”, bensì che quel richiamo (sempre latente anhe per l’azione cosciente degli apparati ideologici dello Stato e delle sue istituzioni) riemerge e prevale dopo la crisi e la frantumazione del movimento operaio e delle sue istituzioni, dopo la disarticolazione e la cooptazione delle sue avanguardie politiche, dopo il tracollo della sua cultura. In conclusione Antunes fornisce le basi teoriche elementari per affrontare la problematica molto ambigua della “fine del lavoro”. Una critica va rivolta, però, all’uso non sempre preciso di termini quali classe operaia, proletariato e sottoproletariato. Nonostante Antunes coni l’espressione classe-che-vive-dilavoro 5e la usi spesso come sinonimo di proletariato, in vari momenti torna a fare confusione tra i tre termini. Questa critica non è frutto di ortodossia nominalistica, ma nasce dall’esigenza di avviare un lavoro di ricerca scientifica e sperimentazione politica e sindacale adeguata alle nuove forme di esistenza del proletariato (che include, ma non si identifica esclusivamente con la classe operaia). In questo ambito, la confusione tra concetti quali classe operaia e proletariato (ed altre confusioni terminologiche) può essere fonte di errori e sbandamenti a non finire, come dimostra proprio su questo argomento - la tenace, allucinata traiettoria della Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 11 cultura operaista6. Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva, a cura di Paolo Favilli e Mario Tronti (FrancoAngeli editore, 2001, pp 391, Euro 30,99), è “una ricerca a più voci oggi sull’identità operaia, sulla sua storia, sulle sue prospettive” come recita sulla quarta di copertina la veloce presentazione di questo libro che riunisce gli atti dell’omonimo convegno tenuto a Piombino nel 2000. Si tratta di contributi molto differenti per argomento, ispirazione e valore, che spaziano dal passato al futuro e il cui filo conduttore è quello della “identità”. Qui il lettore potrà leggere il saggio originale che ha mosso le osservazioni di Melchionda sull’URSS e sulle “possibilità” della classe operaia. Si tratta di “Perché non ce l’hanno fatta? Riflettendo sugli operai come classe” di Aris Accornero, il quale scrive: «l’esperienza storica ci dice che in Occidente gli operai non ce l’hanno fatta a diventare ruling class, a essere classe di governo, e che là dov’erano riusciti a esprimere una classe dirigente, come nell’ex Unio-ne Sovietica, tutto è poi crollato miseramente». Si tratta di un lungo excursus storico sugli esiti politici delle battaglie della classe operaia, animato da uno sprezzante pregiudizio antioperaio e da un freddo astio per tutto ciò che il movimento operaio e sindacale hanno fatto in quasi un secolo di lotte, tanto in Occidente quanto in URSS. Partendo dalla constatazione (inconte-stabile) delle sconfitte subite dalla classe operaia, Accornero indaga con toni classisti (ma alla rovescia!) le cause della sconfitta e giunge alla condanna inappellabile di qualsiasi ipotesi di protesta operaia: «in Occidente il Movimento operaio si è trovato insomma, per sua propria scelta, a oscillare fra una contro-cultura tagliata fuori dal circuito e una subcultura racchiusa in sé stessa». Anche se sgradevole, la lettura di questo saggio è consigliabile perché rappresenta una raccolta di motivi e idee antioperaie che oggi circolano molto in ambienti socialmente borghesi e politicamente “di sinistra”. Molto più utili per la riflessione che qui proponiamo sono i due saggi di uno dei curatori del volume, Paolo Favilli. Nel primo, Gli storici italiani e le identità di classe: appunti sulle fasi ideologiche e sulle fasi scientifiche, si può cogliere il processo di disarticolazione e tracollo delle sue avanguardie politiche e culturali del movimento operaio. Il saggio si apre con la constatazione che «Non esiste più la classe operaia (…). Ci sono soltanto gli operai. Un’affermazione di senso comune che può essere considera-ta come il corollario di un’altra più generale e radicale, frutto della “rivoluzione liberale” che ha caratterizzato l’ultimo ventennio: non esiste la società, ci sono soltanto gli individui». L’A. sostiene che nell’ambito degli studi storici è passata definitivamente la tesi secondo cui tutta la vecchia storiografia del movimento operaio era totalmente ancillare alla politica, al punto che si starebbe consolidando una periodizzazione della storia del movimento operaio articolata sostanzialmente in due fasi: «la prima, considerata a netta prevalenza ideologica produttrice di storia “etico-politica”, la seconda considerata a netta prevalenza scientifica, produttrice di storia sociale. Il punto di svolta sarebbe da collocarsi agli inizi degli anni ottanta, quando (…) gran parte dei giovani storici italiani si sono addormentati storici politici e si sono svegliati storici sociali». Favillli ripercorre tutte le tappe della storiografia del movimento operaio (che, lo ricordiamo, in Italia a causa della dittatura fascista nacque solo nel secondo dopoguerra e dovette «ricostruire dal nulla» una tradizione di studi, gli strumenti e le fonti) e le problematiche che sin dall’inizio essa affrontò: il rapporto con le Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 12 scienze sociali, «il primato della politica, e in particolare dell’ideologia, sulle logiche interne delle discipline storico-sociali», il primato tributato alla tematica dell’”organizzazione” e della “coscienza di classe”. L’A. riporta i termini delle discussioni avvenute negli anni ’50 e ’60 fra gli storici del movimento operaio, contestualizza quel dibattito e ripercorre l’esperienza di alcune riviste famose quali Rivista Storica del Socialismo, Movimento Operaio, Quaderni Rossi, Classe, Studi Storici. Nel suo excursus Favilli tratta anche gli storici di matrice operaista i quali, con la loro determinazione a fare «una storiografia che realizzasse compiutamente l’unione tra pensiero storico e pensare politico, tra ricerca e operare militante» portarono la storiografia e la riflessione sul movimento operaio sul pericoloso piano inclinato della mitologia8. Il secondo saggio, L’«invenzione» della classe operaia: Marx e il «partito come classe», è altrettanto interessante perché, ricostruendo il percorso seguito dalla riflessione di Marx ed Engels sulla classe operaia, ci da qualche indicazione (sia pure di larga massima) sulla strada che potrebbe seguire un partito oggi, se volesse compiere una conversione dall’idea religiosa e dogmatica di “classe operaia” a una idea empirica e concreta. All’interno di una riflessione sulla «difficile combinazione tra “volontarismo” e “determinismo” che caratterizza tanta parte dell’opera marxiana, l’A. descrive l’evoluzione del pensiero di Marx ed Engels sulla classe operaia e i loro rapporti politici con quella classe operaia che, sebbene già compiutamente costituita in Inghilterra, era ancora in piena evoluzione nel resto del continente europeo e che essi conobbero in differenti momenti storici, nel corso del loro esilio. «La “classe operaia” appare per la prima volta, nel 1844, nell’opera di Marx come categoria filosofica e come momen to desunto dall’esperienza della rivoluzione francese. Categoria filosofica (…). Filosofico il linguaggio, filosofici i presupposti. (…) Nello stesso tempo (…) si tratta di una classe empiricamente e storicamente rilevabile. Il modello è quello che Seyès aveva applicato alla funzione del terzo stato (…) Negli anni immediatamente seguenti la riflessione di Marx va nella direzione di rendere sempre più concreta, più empiricamente verificabile, la sua concezione della classe operaia, del suo ruolo nello sviluppo storico. (…). Il processo di concretizzazione risulta (…) da uno slittamento progressivo delle categorie filosofiche in categorie economiche e poi, soprattutto, nella lettura di quest’ultime come espressione di rapporti sociali. La tendenza è quella ad una attenzione sempre più feconda per il lavoro degli uomini associati come fatto empirico, con tutte le sue determinazioni. Tendenza ad una analisi del lavoro associato non regolata da categorie filosofiche, neppure quelle più “concretamente” antropologiche, ma che abbisogna invece di indagini empiriche e di costruzioni teoriche che su tale empirica dimensione poggino le basi. In verità durante quegli anni Marx non si dedicò principalmente a quell’indagine empirica (…) che aveva giudicato essenziale. Attraverso il confronto con la tradizione filosofica tedesca (Ideologia tedesca), attraverso il confronto con Proudhon (Miseria della filosofia), prese piuttosto forma, si consolidò (…) la cornice teorica generale in cui avrebbe potuto essere inserita un’analisi sociologica». Come si vede non c’è molto da aggiungere a questo itinerario di individuazione della classe operaia in Marx ed Engels. Purtroppo i due non arrivarono ad una teoria Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 13 organica delle classi (e di quella operaia in particolare) e la riflessione posteriore di altri marxisti (anche di valore), pur abbondante e ricca, non ha dato luogo a una sintesi di grande valore teorico e politico. Nel prosieguo del saggio l’A. tratta molti altri temi importanti ai fini di una discussione scientifica sulla classe operaia. Cominciamo dal tema dell’identità operaia: le Trade Unions che nella seconda metà del XIX Secolo crescevano e si rimodellavano nel lungo periodo di crescita economica apertosi con l’inizio degli anni ‘50 «si trovarono di fatto ad essere fortemente influenzate dal sistema di idee e valori prevalenti nella classe media. Nello stesso tempo, però, erano portatrici di una identità lavoratrice, di una identità operaia che le rendeva irriducibili a quella stessa classe media». La classe operaia inglese, pur non essendo affatto politicamente radicale (anzi era accusata – e giustamente - di essere una “aristocrazia operaia”) praticava uno scontro duro con il padronato e in funzione di questo scontro «era necessario creare e consolidare strumenti organizzativi adeguati e a n c h e a d e g u a t o s p i r i t o di antagonismo. Coltivare insomma quel particolare “senso di classe” senza il quale non sarebbe stato possibile successivamente nessuna “coscienza di classe”». Se accettiamo questo punto di vista, certe filippiche contro la classe operaia che non sarebbe più “quella di una volta” si rivelano per delle critiche surreali provenienti da persone che non riescono a valutare in tutta la sua importanza la distruzione della cultura e dell’identità operaia verificatasi negli ultimi decenni. Lo stesso possiamo dire con riferimento a un altro tema del saggio di Favilli: il ruolo che il rapporto “resistenza/azione politica” aveva nell’elaborazione di Marx e nel suo lavoro politico dentro la Prima Internazionale. «Resistenza e azione politica erano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana concernente l’organizzazione operaia e il filo rosso che percorse tutta l’esperienza dell’Internazionale. Naturalmente la prospettiva generale in cui Marx inseriva momenti di elaborazione ed indicazioni operative sul movimento operaio organizzato non coincidevano quasi per niente con quelle largamente prevalenti nell’Unionismo inglese. Ma le logiche di una resistenza e di una iniziativa politica tese a allargare gli spazi di operatività per le Trade Unions finivano inevitabilmente per allargare lo stesso orizzonte di riferimento dell’organizzazione sindacale. Il conflitto sociale nell’Inghilterra vittoriana connetteva stabilmente sia la resistenza che l’iniziativa politica». Come afferma Marx nella lettera a Lafargue del 19 aprile 1870 «ogni movimento di classe in quanto movimento di classe è ed è sempre stato necessariamente un movimento politico». Il terzo tema è quello del rapporto sette/partito/classe operaia. Qui l’A., con un eccesso di sinteticità che non giova alla comprensione del suo pensiero, spezza una lancia a favore della teoria del “partito come classe”, cioè di un «modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale». Subito dopo sostiene che «la crisi del soggetto sociale, della classe generale marxiana, non ci libera dall’esigenza, ancora tutta marxiana, di ancorare qualsiasi progetto politico “alto” all’interno dei processi reali di trasformazione in atto. (…) Non ci libera altresì da un’altra consapevolezza marxiana, quella per cui, comunque, la creazione di un soggetto sociale, o di un tessuto unificante tra diversi soggetti sociali, è anche un’operazione culturale di lungo periodo». Questa citazione, però, è in contrasto con quanto lo stesso Favilli sostiene a pag. 181, laddove afferma «Una concezione del partito nel quale risulti fondamentale la funzione di un’elite non coincidente necessariamente con la classe, ma che abbia maturato la “coscienza” degli interessi generali della classe e la “scienza” del “movimento reale” è (…) tipica di un periodo contrassegnato o da rivoluzioni in atto o dalla speranza di una rapida ripresa del ciclo rivoluzionario e insieme dalla presenza di una “massa di lavoratori” non ancora nelle condizioni di trasformarsi in “classe”». E infatti, che cos’è una “operazione culturale di lungo periodo”, se non un partito che, per forza di cose, non può coincidere con tutta la classe, né essere composto soltanto da elementi della classe? Favilli conclude invitandoci a pensare radicalmente, ma con realismo, perché un mutamento di ciclo non è cosa marginale che consenta solo deboli aggiustamenti analitici. Esso «può comportare, come in questo caso, una ridislocazione complessiva della maggior parte dei fattori sociali. Noi non sappiamo che cosa verrà dopo, se un altro ciclo del tutto interno alle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, o un’economia-società postcapitalistica dalle caratteristiche ancora del tutto non configurabili. Non necessariamente un’economia e una società migliori». E qu i, purtroppo, Favilli materializza un incubo ricorrente. Nonostante le speranze, che ormai vanno al di là di qualsiasi ragionevole previsione, sempre più spesso viene in mente quell’assioma della dialettica per cui «oltre un certo Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 14 Dibattito Potere politico e pianificazione nell’URSS L’URSS e – in minor misura – i paesi del “socialismo reale” sono stati oggetto di numerosissimi studi e analisi che ne hanno accompagnato l’esistenza già all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, sino al crollo. In proporzione, le pubblicazioni militanti sull’argomento nell’ultimo decennio sono state di gran lunga minori, nonostante l’apertura degli archivi e la desecretazione di decine e decine di migliaia di documenti. L’URSS ha continuato ad essere oggetto del lavoro di studiosi professionisti, in particolare storici; ma, salvo un qualche interesse nei primissimi anni ’90, scompare d all’ o ri z z o n t e d e l l a r icerca militante – con alcune pregevoli, rare eccezioni - quella che era stata un tempo materia di appassionate contese ideologico-po-litiche, che avevano declinato tutta la gamma di possibili interpretazioni sulla “natura sociale”, o, tout court, sulla natura della società – delle società – di tipo sovietico: era il socialismo realizzato nelle forme e modi che la storia aveva dato? era capitalismo di Stato, o di partito? era la rivoluzione tradita da una casta – o classe? – di burocrati dagli interessi separati e/o contrapposti a quelli del proletariato che dichiaravano di rappresentare? era un ibrido destinato a non sopravvivere e impossibilitato a riprodursi? era un mammut sopravvissuto e spaesato nei tempi della rivoluzione hi-tech? era l’inferno del totalitarismo? una versione moderna del dispotismo orientale? era una parassitaria e stagnante forma di compromesso regressivo tra dominanti e dominati, tra manager aziendali e maestranze operaie? Era, ad onta dell’apparente immobilismo e staticità degli anni della “stagnazione” brezneviana, una società instabile, intimamente contraddittoria, in cui confliggevano elementi di capitalismo ed elementi di socialismo? La questione di cosa fosse stato effettivamente partorito dalla rivoluzione d’Ottobre e di come la società postrivoluzionaria si fosse evoluta – o involuta? – rispetto agli assunti originari della rivoluzione, al progetto, tratteggiato, certo, a grandi linee, ma linee sufficientemente chiare, della società dei produttori associati, la società comunista, è stata parte integrante del movimento comunista del ‘900, tanto nella sua componente “ortodossa”, che ha assunto l’URSS come modello da imitare o, comunque, quale punto di riferimento essenziale per qualsiasi progetto di trasformazione sociale in senso socialista, quanto nella sua componente “eretica”, che l’ha assunta come modello negativo da rigettare, come esempio classico di tradimento e involuzione della rivoluzione (trockismo), di “ r e s t a u r a - z i o n e capitalistica” (maoismo), o della più elevata e al contempo più stagnante forma di capitalismo monopolistico di Stato che sia apparsa nella storia (bordighismo). La demolizione dell’URSS era la ragion d’essere degli eretici, quanto la sua difesa lo era degli ortodossi. Ma corposi lavori sull’URSS e i paesi socialisti sono stati prodotti anche dall’avversario di classe: si trattava di mostrare al mondo quanto violento, criminale, dispotico e inefficiente fosse il comunismo. Ciò che fa problema non è tanto la cristallizzazione per diversi decenni della polemica ideologico-politica condotta in alcuni casi ad alto livello, in altri con rozzezza e uso improprio e meccanico delle categorie marxiane - degli “ortodossi” e degli “eretici” su cosa fosse veramente e dove andasse l’URSS; è comprensibile (anche se non giustificabile), sulla base della ragione stessa di esistenza di “ortodossi” ed “eretici”, il fatto che l’analisi della società sovietica si Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 15 piegasse ad un fine immediatamente e strumentalmente politico. Ciò che fa problema è che dopo il crollo dell’URSS la questione sia stata semplicemente accantonata, rimossa, proprio da quanti dichiaravano di voler risollevare le bandiere ammainate del comunismo, e “rifondarlo”. Non affronto in questa sede questo problema – il perché di questa rimozione (che Costanzo Preve in interventi e saggi precedenti ha posto con una radicalità che avrebbe meritato maggiore a t t e n z i o n e , indipendentemente dal fatto che si accolgano o meno le sue conclusioni). Ma qualsiasi discorso che guardi alla prospettiva di una società comunista – o, anche solo a quella di una società non capitalistica, e superiore a quella capitalistica (l’indefinito “altro mondo possibile” dei noglobal) - non può prescindere dal fare seriamente i conti con l’esperienza sovietica, indipendentemen-te dal giudizio – anche il più totalitariamente negativo – che su di essa si sia giunti a formulare. Qualsivoglia progetto politico di trasformazione sociale – che non limiti, quindi, la prospettiva politica alla battaglia quotidiana, giusta e necessaria, ma non sufficiente, della opposizione e della resistenza – non può illudersi di ripartire da un incontaminato grado zero, in cui tutta l’esperienza del comunismo del ‘900 sia annullata e vanificata. Si può discutere sugli errori, le involuzioni, o anche le aberrazioni di quell’esperienza, non la si può rimuovere. Perché essa è stata il primo tentativo significativo per durata ed estensione – diversamente dalla Comune di Parigi o di altre meno rilevanti esperienze di piccole comunità autogestite – di trasformazione rivoluzionaria consapevole dei rapporti sociali esistenti; il primo tentativo di lunga durata di applicare le indicazioni che i giovani rivoluzionari Marx ed Engels davano nel II capitolo del Manifesto del partito comunista: per la posizione subalterna che il proletariato occupa nella società, la trasformazione dei rapporti sociali non può intervenire in misura significativa prima della conquista del potere politico, come avvenne con la borghesia nella F r a n c i a prerivoluzionaria, ma solo d o p o , con l’adozione, da parte del proletariato al potere che esercita la sua dittatura di classe, di misure che, in un processo di transizione, portino alla trasformazione della società in senso comunista. La rivoluzione sociale del proletariato, a differenza di quella borghese – assunta, e a volte assolutizzata, a paradigma nell’analisi, nella propaganda e nella polemica comunista del ‘900 (si pensi alle categorie di bonapartismo e Termidoro; agli studi degli storici marxisti sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo; e alle analogie suggerite dallo stesso Marx) – non può non essere prima di tutto (proprio nel senso letteralmente temporale di questo “prima”) politica: non può realizzarsi che attraverso un uso sapiente delle leve del potere statale. Il successo di questa rivoluzione dipende dal-la sfera politica non solo prima della conquista del potere politico, ma, soprattutto, dopo. Quindi, la questione della direzione politica, del modo in cui funziona il meccanismo di elaborazione, assunzione e messa in atto delle decisioni politiche, diviene essenziale. Come essenziale è il modo in cui interviene la formazione politica, o, più ampiamente, la formazione culturale e morale dei quadri dirigenti e delle masse. Il passaggio Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 16 al comunismo non potrà mai essere meccanico o automatico, per il concetto stesso di comunismo, che implica proprietà collettiva dei mezzi di produzione, e quindi, capacità e volontà dei soggetti di esserne effettivamente proprietari c o l l e t t i v i , c o n m e c c a n ismi decisionali e di controllo sul modo in cui si dispone della proprietà comune, tali da consentirne effettivamente l’esercizio (meccanismo difficilissimo, se solo pensiamo a come non funzionano oggi la gran parte delle cooperative qui da noi, o più banalmente un condominio...). Il ruolo della politica è di gran lunga più importante nel comunismo che non nel capitalismo, che implica, certo, l’esistenza di uno Stato e di un diritto borghese di proprietà, ma non dipende dalla politica dello Stato, tanto che ha funzionato altrettanto bene sotto regimi parlamentari che in assenza di questi. Per questo ruolo determinante della politica, il comunismo, oltre che un nuovo modo di produzione, non può che essere anche una nuova civiltà, caratterizzata, come scriveva Gramsci nei Quaderni, da un progresso intellettuale di massa, da una qualità umana elevata – intellettuale e morale – non di ristrette élites dirigenti, ma di tutti gli individui che compongono la società. Cosa molto più facile a dirsi che a farsi. E tanto difficile a farsi anche oggi, nella misura in cui il capitalismo mondializzato tende a conformare individui culturalmente passivi e subalterni, nonostante il maggior tempo libero dal lavoro necessario (tempo che – nelle condizioni del capitalismo attuale - è di gran lunga minore delle potenzialità che la rivoluzione tecnologica consentirebbe). Indagare materialisticamente sui processi di formazione culturale e politica dei comunisti russi, su come abbia effettivamente funzionato (o non abbia funzion ato) il meccanismo di assunzione e messa in atto delle decisioni politiche, su quale fosse il retroterra culturale che ha portato a delineare un determinato modello di economia pianificata (sce-gliendo il piano “teleologico”, piuttosto che quello “genetico”1) e una determinata concezione dello sviluppo economico (grande industria ed economia di scala) mi sembra prioritario se si vuole riprendere un discorso militante sull’esperienza sovietica e del “socia-lismo reale”. Sui problemi della pianificazione in particolare, bisognerebbe ritornare con grande attenzione. Nella sua fase iniziale, la pianificazione sovietica – nonostante tutti i limiti e le contraddizioni che la caratterizzarono – colse comunque successi significativi e non credo che possa ridursi nella gabbia semplificatrice della industrializzazione dall’alto. Fu ben altro, nel suo tentativo embrionale di realizzare una produzione “cosciente e secondo un piano”, sottratta all’anarchia della concorrenza capitalistica. Nell’attuazione della pianificazione dell’intera economia del paese (e non solo di una singola fabbrica o di un singolo settore industriale) i comunisti russi si muovevano su un terreno affatto nuovo e inesplorato, privi di ogni riferimento o modello nei classici del ma rxismo. Quell’esperienza andrebbe studiata e ristudiata attentamente da parte di chi si propone un superamento del capitalismo. Altre esperienze (piccole comunità autogestite, “bilanci partecipativi”, e tutto quanto è diventato di moda tra i no global) appaiono ben poca cosa a fronte della pianificazione sovietica e degli altri paesi del “socialismo reale”. E’ su questi due grandissimi nodi intimamente interconnessi nel Giustizia e girotondi Lo storico Paul Ginsborg sostiene che i girotondi esprimono il punto di vista del "ceto medio riflessivo": spero che sia così, e che quindi un invito a un supplemento di riflessione non sia accolto con fastidio. La mia impressione, in realtà, è che in questo "movimento", certamente animato dalle migliori intenzioni, ci siano poca chiarezza di idee e poco spi rito critico. Salutato come segno di risveglio della "società civile", come protesta della parte più colta e illuminata dell'elettorato ulivista contro i politici di professione, in realtà non fa che ribadire le posizioni del ceto politico all'opposizione, proprio quelle più connotate come manovre di corridoio o furberie elettoralistiche, chiedendo in pratica che si faccia più forte, con maggiore determinazione, quello che si sta già facendo. Il movimento dei girotondi ribadisce infatti, in primo luogo, un'interpretazione assai riduttiva del centrodestra, liquidandolo come un'anomala vicenda di interessi privati che hanno preso in ostaggio la cosa pubblica. Se questo è vero, allora l'eliminazione del centro destra è solo una faccenda giudiziaria, e da questo consegue poi che la questione della giustizia rappresenta l'oggetto della battaglia politica fondamentale. Questo piccolo teorema rappresenta, mi pare, il vero cuore delle argomentazioni girotondine, al quale Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 17 naturalmente si aggiungono meglio, si giustappongono - altre variegate tematiche in ordine sparso, a seconda del momento e dei partecipanti. Personalmente ho molti dubbi sulla premessa del teorema. Berlusconi farabutto che va al governo per sistemare i propri affari privati è una caricatura buona per la campagna elettorale, ma non spiega certo un successo del centrodestra così pieno e così condiviso nel resto d'Europa, per cui sarebbe forse l'ora di mettere da parte le barzellette e di tentare un'analisi più seria delle condizioni economiche e sociali che stanno dietro questo fenomeno. Ma non è tanto su questo punto che voglio qui soffermarmi, quanto sulle conseguenze che da questa premessa vengono tratte. L'idea che debba essere il potere giudiziario a eliminare una classe dirigente è chiaramente l'eredità della mitica stagione di Mani Pulite: un pugno di solerti magistrati regalò allora alla sinistra quel sogno di "non morire democristiani" che la politica non riusciva a realizzare, e molti certamente sperano che il sogno possa continuare. Per la verità, oggi il ceto politico ulivista ha molto ridimensionato il sogno: senza arrivare a sperare che Berlusconi finisca in galera, si accontenrebbe che la segnalazione dell'ennesimo interesse privato, o anche semplicemente dell'ennesima gaffe o mancanza di bon ton, facesse abbastanza scalpore da costringere gli altri partiti al governo a chiederne le dimissioni, aprendo così la possibilità di "ribaltoni", assai più auspicabili di una nuova prova elettorale. Bassa cucina politica, direi: stupisce che essa possa giovarsi dell'appoggio di un "ceto medio riflessivo", riesca a usare come cassa di risonanza personaggi prestigiosi, diventi il senso comune di quella che si vuole la parte migliore dell'elettorato di sinistra. L'unica spiegazione è che su questo elettorato faccia ancora presa l'equazione Berlusconi-ugualefascismo, anch'essa a mio avviso molto forzata ed elettoralistica (perfetto pendent dell'altrettanto poco credibile D'Alema-ugualecomunismo agitato dalle destre): ma, se ci si crede, si può pensare che il pericolo sia tanto grande da giustificare qualsiasi mezzo per sventarlo, anche un mezzo che rischia di sacrificare gli equilibri tra poteri previsti dalla nostra Costituzione. Delegare la politica alla magistratura comporta infatti questo rischio, non è in fondo molto diverso dal delegare la politica ai militari. L'azione penale non può e non deve diventare la prosecuzione della politica con altri mezzi. Piuttosto - e in questo il disagio espresso dai girotondi è condivisibile, anche se rischia di incanalarsi in direzioni sbagliate vediamo di tornare a una politica degna di questo nome, capace di coinvolgere il paese anziché esaurirsi nei balletti istituzionali e nelle manovre della nomenklatura. Ma è soprattutto sulla centralità data alla questione della giustizia, conseguente ai due punti precedenti, che vorrei portare la riflessione. E' abbastanza paradossale sentire una piazza che invoca il "giudice naturale" e condanna la "legittima suspicione", per citare solo i più noti istituti processuali chiamati in causa di questi tempi. Certo, è logico aspettarsi che il "ceto medio riflessivo" abbia le capacità di trovare slogan più astrusi del "pane, lavoro e pace" del vecchio proletariato o del "panem et circenses" dell'antica plebaglia. Tuttavia non sono affatto sicura che le idee sui principi invocati siano sempre chiare: mi darete della spocchiosa, girotondini, ma mettetevi una mano sulla coscienza. La mia impressione è che qualsiasi provvedimento dell'attuale governo in materia di giustizia venga automaticamente interpretato come "salva Berlusconi" e con ciò rifiutato a priori, senza - appunto - un supplemento di riflessione. Il che ha almeno due controindicazioni. La prima, è che la sinistra impedisce qualsiasi riforma del sistema penale, cosa di cui ci sarebbe invece un bisogno estremo. La seconda, è che in tal modo finisce spesso per sposare cause antigarantiste, in quanto tali antidemocratiche, per schierarsi in generale contro un'evoluzione del processo penale in senso accusatorio anziché inquisitorio e per sostenere, dunque, una posizione conservatrice. In Italia il processo penale è passato attraverso terribili temperie, negli ultimi vent'anni. Ha subito prima le emergenze degli anni di piombo, poi quelle della recrudescenza mafiosa, che ne hanno scardinato il sistema probatorio a colpi di leggi speciali sui pentiti. Ha conosciuto un coraggioso tentativo di riforma in senso accusatorio, credo in parte motivato proprio dagli eccessi inquisitori della legislazione Un crumiro «Sul prossimo sciopero generale di ottobre non posso non notare che la situazione oggi è obiettivamente cambiata rispetto al 12 giugno quando fu indetto. A mio avviso è possibile un’iniziativa molto più larga e molto più mirata, mentre i contenuti di questo sciopero sono ancora piuttosto legati all’articolo 18» Francesco Rutelli, Corriere della Sera, 22 settembre 2002 Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 18 d'emergenza, che tuttavia ha avuto la mala ventura di cadere proprio a ridosso di Mani Pulite, della guerra tra potere giudiziario ed esecutivo combattuta a colpi di avvisi di garanzia esplosivi e di decreti scellerati: il clima meno adatto per far prendere piede a una riforma. Sconta gravissime disfunzioni dovute a carenze di organico, ma anche a comportamenti corporativi di avvocati e magistrati. E' diventato un sistema che presenta contraddizioni abnormi - ad esempio, dà garanzie minime agli imputati e massime ai condannati e soprattutto uno strumento che non funziona per l'ordinaria amministrazione - non foss'altro che per i tempi lunghissimi - privando i cittadini dei diritti elementari di giustizia e di difesa. Avrebbe bisogno di essere ripensato in modo sostanziale e coraggioso, ma questo si può fare soltanto assumendo il punto di vista ampio delle funzioni generali del processo e del sistema penale rispetto ai bisogni del paese, non quello ristretto delle vicende giudiziarie di Berlusconi e Previti e del loro impatto sugli equilibri politici. Facciamo un esempio. Qualunque proposta di ritocco della figura e del ruolo del pubblico ministero - ad esempio, la separazione delle carriere - viene interpretata dalla sinistra come una misura punitiva nei confronti dei procuratori milanesi e bocciata con la motivazione che "così si attenta all'indipendenza della magistratura". Ora, anche se può essere credibile che il governo Berlusconi remi contro il processo Berlusconi, questo non significa che la separazione delle carriere di chi svolge la funzione di pubblica accusa e chi svolge la funzione giudicante non possa essere una scelta in generale condivisibile. Va infatti ricordato, in primo luogo, che l'indipendenza che veramente conta è quella del giudice, e che essa verrebbe semmai rafforzata da tale scelta: non essere più "colleghi" condividendo orari, uffici, carriera di chi rappresenta l'accusa - vale a dire una parte del processo penale rafforzerebbe infatti la posizione super partes della magistratura giudicante. In secondo luogo, non è affatto detto che una carriera separata rispetto a quella dei giudici sia lesiva dell'indipendenza dei pubblici ministeri - a meno che non si scelga di farli dipendere dall'esecutivo, come avviene in Francia: ma mi sembra che nessuna proposta in questo senso sia mai stata avanzata. Naturalmente auspicare la separazione delle carriere perché va nella direzione di un maggiore equilibrio tra accusa e difesa, sottraendo alla pubblica accusa il vantaggio di un rapporto giocoforza privilegiato con i giudici, ha senso nella misura in cui si ritiene un processo di tipo accusatorio preferibile a un processo di tipo inquisitorio. Personalmente sono di questo avviso, perché ritengo i diritti della difesa un'irrinunciabile garanzia di libertà e di democrazia. Ci sono certamente molte ragioni, ideologiche e pratiche, per pensarla diversamente. Dal punto di vista pratico si può sostenere, per esempio, che solo un paese con una criminalità "nor -male" può permettersi un sistema accusatorio, non l'Italia che deve affrontare il problema eccezionale di una vastissima e consolidata criminalità organizzata. Dal punto di vista ideologico, senza dubbio l'anima autenticamente fascista della destra e quella autenticamente stalinista della sinistra simpatizzano per metodi inquisitori. Ma il "ceto medio riflessivo" come la pensa? Forse dovrebbe riflettere di più, perché bocciando ogni misura che va nella direzione delle garanzie della difesa, interpretate Lo stupore del “correntone” «Lunedì sera, subito dopo la direzione diessina, si è riunito l’esecutivo del correntone. (…) Quelli che, alla vigilia, avevano insistito per puntare su Piero Fassino, per tentare di incunearsi tra lui e D’Alema, hanno riconosciuto per primi di aver completamente sbagliato previsione. (…) Lo stupore del correntone (…) è del tutto giustificato da una virata tanto rapida quanto radicale. (…) Resta da chiarire come abbia potuto prodursi una così repentina e completa inversione di rotta. I motivi sono fondamentalmente tre. Il primo, probabilmente quello determinante, è la rottura tra governo Berlusconi e Confindustria, che ha riaperto di fronte agli occhi dei leader diessini uno scenario assai rimpianto, che credevano precluso: l’alleanza cioè univocamente come garanzie per Berlusconi, rischia di sostenere una posizione conservatrice. I diritti della difesa non sono solo diritti di Berlusconi: sono anche di Sofri, dei no global accusati di violenza, dei ragazzini che spacciano, delle puttane e, sì, anche dei ladri e degli assassini. Il garantismo funziona così. Lo "Stato di diritto" funziona così. E non si dica che solo i "ricchi" possono giovarsene. Le acrobazie procedurali all'esclusiva portata degli avvocati più costosi servono quando le garanzie non ci sono, non quando ci sono per tutti. Certamente, fin che ci sono ricchi e poveri rimane un problema irrisolto di diseguaglianza sostanziale: ma non si può usare questo argomento per arretrare rispetto alle conquiste di uguaglianza formale. Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 19 libri Diego Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della c o n t e s t a z i o -n e , Biblioteca Fran co Serantini, Pisa, 2002, pp 240, Euro 18,00 La tesi di fondo di questo libro è che sia esistita una stretta correlazione fra la musica beat, rock e i fenomeni di rivolta giovanile che si manifestarono nel mondo anglosassone, in Francia, in Italia negli anni Sessanta e Settanta. In effetti, oggi che la distanza temporale è maggiore, ci è più facile vedere la contiguità tra il movimento del '68 italiano e quello dei "figli dei fiori", i loro legami si rivelano più stretti e articolati di quanto non apparissero al momento. E' riscontrabile cioè una stretta parentela tra la rivolta di matrice politica e di classe e quella di tipo esistenziale e generazionale. Quest'ultima preparò e precorse nella prima metà degli anni Sessanta l'esplosione delle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-'69 (ad esempio, "Il Cantagiro", che scendeva nelle strade creando scompiglio, ne fu un preludio). Seguendo una precisa linea interpretativa, Giachetti individua una continuità tra i "ragazzi dalla magliette a strisce" (Genova, 1960), i "teddy boys" (Torino, 1962), gli studenti di Valle Giulia (Roma, 1968). L'incontro tra i due principali processi della radicalizzazione giovanile - il travaglio dell'ideologia politica e l ' e s p e r i e n z a dell'anticonformismo avvenne in particolare durante le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, all'insegna della lotta internazionalista. Interessante è, anche, l'analisi della composizione della classe protagonista dell'"autunno caldo" del 1969. Determinante, in quell'occasione, fu il ruolo svolto dai giovani operai dequalificati meridionali. La loro assunzione in massa era stata sia la conseguenza del p r o c e s s o d i ammodernamento produttivo, sia il frutto di un progetto mirato all'eliminazione del vecchio ceto operaio - formato da operai specializzati, quasi tutti milanesi, genovesi, torinesi da più generazioni- nel quale era ancora forte la presenza dei militanti comunisti e della Cgil. Ma proprio i nuovi operai diventarono i protagonisti di una nuova stagione di lotta. Una lotta radicale, estremista, poco timorosa della repressione e che cominciava a contestare lo stesso sindacato, fino a contrapporvi una nuova forma di organizzazione in fabbrica: i Cub (Comitati unitari di base). Il fenomeno, nuovo e inatteso, vedeva entrare in scena strati marginali esclusi dalla partecipazione a quei beni materiali che la prosperità induceva a consumare, nseriti in ambienti urbani degradati nei quali avveniva la rottura degli assetti familiari tradizionali. L'inizio della "strategia della tensione" (Piazza Fontana, dicembre 1969) innestò nel "mo-vimento" un altro tema fondamentale, quello dell'"antifascismo militante", in cui venivano ripresi i toni resistenziali classisti, anticapitalistici, di lotta attiva al fascismo e allo Stato borghese, che erano stati tipici delle formazioni comuniste e socialiste. Ma il termine "fascismo" si dilatò di significato, finendo con l'indicare non tanto il movimento politico italiano ed il regime sviluppatisi nel periodo 1919-1943, quanto una sorta di categoria metastorica, in un processo di dissoluzione nichilista: "Ribellarsi ai genitori, alla f a m i g l i a , alla scuola, all'oppressione del lavoro in fabbrica, voleva dire lottare contro il fascismo inteso come autoritarismo opprimente che limitava il pieno dispiegarsi della vita di ogni individuo" (p.38). La nuova lotta di liberazione diventava per i giovani la lotta Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 20 di liberazione contro la famiglia, per romperne l'involucro autoritario. I padri andavano semplicemente dimenticati. A partire dai primi anni Settanta si affermò infine la prospettiva dell'uso della forza per "affossare il sistema". Il rischio fisico giornaliero, continuato per mesi, anni nei cortei, negli scontri di piazza con la polizia e i "fascisti" sembrò la forma giusta ed esaltante della condizione esistenziale. La necessità di superare la nozione di legalità, legata al rispetto per le regole democratiche, sfociò nella aspettativa della guerra civile, intesa come scontro frontale tra le classi opposte: la borghesia e il proletariato. Avere tutto e subito, alzare sempre più il prezzo della contrattazione, senza mai trovare punti di convergenza con l'azienda e i sindacati fu la tattica seguita in questa fase dai gruppi extraparlamentari di sinistra. Emersero così, in tali frangenti, altre due caratteristiche del movimento: la violenza rabbiosa cantata da noti autori come Paolo Pietrangeli ("Mio caro padrone domani ti sparo/ farò di tua pelle sapon di somaro/ ti stacco la testa che è lucida e tonda/ così finalmente iparo il bowling") o Pino Masi ("tanti e tanti poliziotti con la testa fracassata"); cui si univa il vittimismo per la "repressione", per i genitori che non capivano, per l' autorità che puniva, per l' indifferenza della gente. Questa, dunque, la descrizione dei fatti. Molto più complessa si presenta la loro interpretazione. Come per ogni fenomeno storico, la nottola di Minerva si leva solo al crepuscolo: così, noi soltanto oggi – nel momento di più profonda crisi per le prospettive della sinistra- siamo in grado di valutare la valenza distruttiva di quel periodo per la sinistra stessa, non solo italiana. Se appare incontestabile l'intreccio tra le forme di espressività nuova giovanile, le lotte studentesche di tipo politico e quelle delle fabbriche di tipo sociale, altrettanto innegabile è il fatto che la diffusione mediante la televisione, il cinema, la radio, di modelli culturali e comportamentali provenienti dal mondo anglosassone (il movimento dei "figli dei fiori") segnò la fase finale della colonizzazione dell'immaginario collettivo da parte del capitalismo, dando l'egemonia direttamente agli Stati Uniti, introducendo il consumo degli allucinogeni, in particolare dell'LSD, e la mistica del "trip" (viaggio). In Italia la musica beat era letteralmente copiata dai testi inglesi arrangiati in proprio. La canzone di "Lotta Continua" L'ora del fucile usava come base musicale un successo americano degli anni Sessanta. Le organizzazioni giovanili dei partiti conobbero non a caso proprio in quell'epoca una caduta di iscritti, di adesioni e di partecipazione. Il fenomeno era frutto della "rivoluzione antropologica", per la quale i giovani sostenevano di preferire ai partiti della tradizione politica europea i "gruppi di pressione" (le lobby) statunitensi. L'omologazione nel modo di vestire (jeans stretti, giubbotti), nel trascorrere il tempo libero (bar, juke box, flipper), nei gusti musicali (rock, twist), nell'adorazione dei divi rese i giovani della "generazione yè-yè" fruitori delle stesse merci e degli stessi dischi, delle stesse mode che duravano una breve stagione. Il processo di mercificazione progressiva di tutti gli aspetti della vita, tipica della fase neocapitalistica, contribuì a diffondere anche l' idea nuova del sesso e dell'amore, facendone una "merce da vendere" come ogni altra produzione materiale sul mercato capitalistico. Era evidente che questo p r o c e s s o d i modernizzazione imposto dalla nuova morale del libero mercato capitalistico, con i modelli propagandati dai rotocalchi e dal cinema entrava in contrasto con la morale e le tradizioni vigenti nel nostro paese. Le canzonette dei giovani rockers italiani colsero e diffusero in migliaia di dischi questo nuovo messaggio, divennero un fenomeno sociale, culturale e di costume che investiva la massa dei consumatori facendo nascere un linguaggio comune fra i giovani. Bobby Solo, Gianni Morandi, Adriano Celentano, Caterina Caselli, Rita Pavone, più i vari complessi (Rokes, Equipe 84, Nomadi, Dik Dik) furono decisivi in questo senso. Giachetti riesce a farci cogliere l'assimilazione operata dal sistema nei confronti della contestazione e della protesta, mediante la sussunzione dei comportamenti ribellistici in forma di merci, mode da distribuire a basso prezzo sul mercato. Resta così Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 21 impressa nella memoria quell' immagine della libreria di sinistra per eccellenza, la Feltrinelli di Roma in via del Babuino, che negli anni Sessanta apre al beat introducendo nei locali una macchina distributrice di Coca-Cola, le foto di James Dean, Bogart, Rolling, Stones, Mao-Tze-Tung; manifesti con Mandrake, Ho Chi Minh, Flash Gordon, Che Guevara e Tarzan, mentre "capelloni" trasgressivi dormivano sugli scalini di piazza di Spagna, suonavano la chitarra, indossavano blue jeans, magliette colorate, scarponi con il tacco alto e giubbotti fantasiosi. E' in tale contesto che nacque e si sviluppò l'ideologia dei gruppi extraparlamentari di sinistra, nella quale l'assemblearismo (visto come e-spressione di democrazia diretta) sostituì il principio di rappresentanza, le strade e le piazze furono mitizzate come il luogo della politica. Il “maoismo”, il neoanarchismo, lo spontaneismo, il luxemburghismo, il trotsckismo, il Marx dei "Grun-drisse", il castrismo, il guevarismo e lo stalinismo di ritorno; ma anche linguistica, psicoanalisi, sociologia critica, strutturalismo, esistenzialismo, francofortismo si mescolarono in un pudding ideologico che costituì la vivanda delle poco più di 100mila persone coinvolte nell'attività politica a tempo pieno della "nuova sinistra. Oggi la "rifondazione" di un pensiero comunista passa anche attraverso il superamento (senza r i m p i a n t i ) d i questo guazzabuglio. fi.r. _____________________ Giuseppe Muraca, Utopisti ed eretici nella letteratura i t a l i a n a contemporanea, Rubettino Editore, 2000, pp 161, Euro 10,33. Il libro riunisce otto saggi che analizzano il rapporto tra cultura, letteratura e politica attraverso la vita e le opere di alcuni intellettuali italiani (Silone, Bilenchi, Fortini, Pasolini, Bianciardi, Roversi e Bellocchio) in un arco di tempo che va dagli anni ’30 agli anni ’80. I saggi più interessanti sono quelli dedicati a Fortini, Pasolini e al loro reciproco rapporto, che fu molto conflittuale. Fortini rientra a pieno diritto tra quelle esigue minoranze di intellettuali che nell’Italia divisa in blocchi contrapposti dalla “guerra fredda” e in cui «l’azione e la vita interna dei partiti di sinistra furono (...) pesantemente condizionati dallo stalinismo», continuarono a lavorare per mantenere aperti, all’interno delle organizzazioni del movimen-to operaio, spazi di libertà per la ricerca e la discussione politica e culturale. Il saggio “Cultura, Letteratura e impegno politico nei Dieci inverni di Franco Fortini” parte dalla ricostruzione del “ca-so” r a p p r e s e n t a t o , nell’immediato dopoguerra, dalla rivista il Politecnico, per passare poi all’impegno di Fortini nel rinnovamento dei metodi della critica letteraria, per la fondazione di una critica materialistica della letteratura e dell’arte, in contrapposizione al “marxismo nazionalpopolare“, allo “storicismo crocio-gram-sciano” ovvero alla cultura “ristretta e provinciale” che dominava nel PCI. Muraca ricorda «la polemica aspra, tagliente, martellante» di Fortini sull’URSS e il regi- Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 22 me staliniano, sul servilismo dei partiti del movimento operaio (PSI e PCI) e della stampa di sinistra nei confronti del regime sovietico. Polemica che era accolta con scandalo e disapprovazione dai vertici di quei partiti per la forza polemica e la contrapposizione all’ipocrisia ufficiale, al regime di “unanimismo autoritario” e di “doppia verità”. Nel saggio “Il giornalismo corsaro e luterano di P. P. Pasolini” Muraca si sofferma sulla «funzione di stimolo, di provocazione politica e culturale che spesso lo ha posto al centro di animate discussioni e di (...) vivaci polemiche, ad occupare una posizione di netto contrasto nei confronti dell’establishment e del potere, tanto da condannarlo a una condizione di sempre più accentuato (auto)isolamento». L’attività giornalistica era diventata nell’ultimo periodo quasi dominante e, secondo l’A., è quella che meglio di ogni altro genere, nella multiforme produzione intellettuale di Pasolini, ha espresso il valore e il senso della sua personalità di scrittore e polemista. Negli articoli pubblicati sul Corriere della Sera, il Tempo e altri periodici, «ha dato vita ad un’analisi spregiudicata delle trasformazioni sociali e culturali avvenute nel nostro paese nel corso del precedente ventennio. Da questi scritti emerge un universo unidimensionale, infernale, apocalittico, dove tutte le antinomie e contraddizioni politiche e sociali sono state assorbite, integrate» Le sue polemiche sul consumismo, l’edonismo di massa, l’omologazione e il livellamento dell’inter a società, l’affermarsi di un film nuovo modello di vita conformistico e borghese, la polemica contro la “piccola borghesia universale”, “il genocidio di massa” e la distruzione delle culture particolaristiche (quella contadina e quella popolare), sono i temi agitati in modo intransigente e disincantato dall’ultimo Pasolini. Purtroppo «la sua crisi interiore e le sue laceranti e tormentate contraddizioni», esplose con maggiore evidenza proprio in quel periodo, hanno reso molto contraddittoria e – aggiungerei – poco feconda la sua critica radicale della “società di massa”, facendo si che essa possa essere oggi facilmente usata e rivendicata dalle parti politiche più varie e opposte. Per cui, di fronte all’innegabile interesse che gli Scritti corsari hanno anche per noi, oggi, sarebbe bene utilizzare con prudenza gli spunti critici di Pasolini, evitando di “in-namorarsi” in toto dell’Autore, pena l’accettazione e la riproposizione qui ed ora di un fantasmagorico complesso di principi, valori, idee, preconcetti e contraddizioni, tanto affascinanti, quanto laceranti, tormentati e, in fondo, incapaci di arrivare ad esiti positivi e costruttivi, come si può vedere dal confronto accanito, a tratti violento, che si svolse tra Pasolini e Fortini, oggetto del terzo saggio che segnaliamo: “Fortini e Pasolini”. li.te 11’ 09’’ 01 Undici registi di undici paesi - i registi sono Chahine, Gitai, Imamura, Inarritu, Lelouch, Loach, Maakhamalbaf, Nair, Ouedraogo, Penn, Tanovic hanno interpretato in undici cortometraggi (cia-scuno della durata “simbo-lica” di undici minuti, nove secondi e un istante: 11’ 09’’ 01, appunto) l’attentato terroristico dell’11 Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 23 settembre 2001 contro le Twin Towers di New York. Presentato al Festival di Venezia, il film ha suscitato polemiche ed è stato giudicato “antiamericano” da una parte della critica “benpensante”. Di qui lo scandalo. In realtà, è un’opera che nell’insieme costituisce un affresco incisivo (e perturbante) dell’attuale “stato delle cose”, dello straniamento in cui si trova oggi il mondo: il suo significato va, dunque, oltre la tragica contingenza dalla quale ha avuto origine. Evitando ogni retorica celebrativa dell’evento, gli Autori hanno scavato nella condizione umana contemporanea. L’ “antiamericanismo” è, diremmo, oggettivo e scaturisce dal rifiuto della rimozione, dall’individuazione e dallo svelamento delle r e s p o n s a b i l i t à dell’imperialismo in genere (e degli USA in particolare), che ha determinato la situazione nella quale siamo ora costretti a vivere. Tutti i cortometraggi sono di buon livello, alcuni hanno uno spessore ed una forza emotiva notevoli. Faremo alcuni esem-pi. Nell’episodio diretto dall’iraniano Chahine una classe di bambini apprende dalla maestra dell’attacco alle torri newyorkesi. La notizia viene recepita dai piccoli, che non sanno neppure dove sia New York, nè cosa sia una torre, come l’annuncio di un fatto misterioso, incomprensibile («chi sarà stato?» - bisbigliano fra loro «Dio?», « ma perché?», «perché Dio fa quello che gli pare»). Mentre nel villaggio si apprestano rudimentali ripari nell’eventualità di un attacco americano («ma pensiamo davvero di salvarci dalla bomba atomica alzando dei muretti?», dice qualcuno), l’insegnante porta gli alunni ai piedi di una ciminiera perché possano farsi l’idea di cosa sia una torre. Dalla ciminiera esce, e incombe minacciosa, una nuvola di fumo nero: evidente è il richiamo ad Auschwitz, a Hiroshima. Il regista inglese Loach ci richiama invece, attraverso il racconto e le immagini evocate da un esule, ad un altro 11 settembre: l’11 settembre del 1973, il giorno del golpe cileno benedetto dalla CIA, del bombardamento della Moneda, della fine di Salvador Allende. Sulla crisi di un cineasta arabo al ritorno da un viaggio di lavoro in Palestina è incentrato lo spezzone dell’egiziano Maakhamalbaf. Le domande e i dubbi che tormentano l’uo-mo sono rappresentati dai fan- tasmi di un marine morto in Libano e di un giovanissimo “kamikaze” palestinese. Si svolge, nella mente del protagonista (che immagina di incontrare anche i genitori di entrambi i caduti), un dialogoscontro a distanza, che non riesce a superare le rispettive barriere. « Tu sei arabo, non dimenticarti degli occhi di mia madre» (cioè della mia terra invasa e del mio popolo oppresso): con queste parole del fantasma del ragazzo suicida l’episodio si chiude. Un vecchio vive nel ricordo ossessivo della moglie morta, immerso nel buio perché le Twin Towers, all’ombra delle quali abita, impediscono alla luce di penetrare nella casa. Quando le Torri crollano, la luce entra nel suo appartamento e il vecchio scoppia in un pianto disperato. La luce gli ha fatto infine scoprire la realtà: una realtà che è soltanto di desolazione e di morte. Questa la sconsolata metafora proposta dall’americano Penn. Un pezzo agghiacciante, del giapponese Imamura, conclude il film. Un soldato dell’Impero del Sol Levante è rimasto traumatizzato per gli orrori cui ha assistito e le umiliazioni che ha subito durante il secondo conflitto mondiale (un ufficiale, in una landa sovrastata dal “sole di Hiroschima”, lo ha calpestato come un verme, ritenendolo tiepido nei confronti di “questa santa guerra”). Al villaggio avevano atteso un glorioso reduce, di cui essere orgogliosi. Ma il soldato ha rifiutato ogni contatto e si è trasformato in una specie di serpente (striscia, sibila, mangia i topi, morde). Verrà infine cacciato dai familiari e dalla comunità. Si allontanerà per sempre dagli uomini immergendosi nelle acque del fiume. Una scritta compare alla fine, a suggello di tutto 11’ 09’ 01: «Non esistono guerre sante». Come non esistono guerre “umanitarie” (o “preventive”). Si tratta di ossimori orribili. Jacopo Chiron _____________________ Laissez-passer B. Tavernier, “mostro sacro” del cinema francese, ha attirato su di sè le critiche della stampa di sinistra del suo paese (in particolare dell’Humanité, organo del PCF, e di Liberation), che ha giudicato questo lungometraggio (della durata Questo documento è stato generato PDFmail con (Copyright RTE Multimedia) http://www.pdfmail.com 24 WWW: su internet potete La home page della Fondazione Feltrinelli offre un testo marxiano raro, ma di cui si parla tanto: il questionario per una inchiesta operaia scritto personalmente da Marx. Forse è il primo esempio di “inchiesta operaia” a cui fare riferimento nella storia del movimento operaio. Per leggerlo andate all’indirizzo www. feltrinelli.it/Fondazione/testo-ritrovatointerna.htm e da lì passate a www. feltrinelli.it/Fondazio-ne/donwload/ Marx.pdf il testo non si può scaricare, ma solo leggere sullo schermo. Come dice la presentazione della Fondazione Feltrinelli «Questo testo di Marx, scritto nei primi mesi del 1880 e pubblicato sulla rivista "Revue socialiste" (n. 4, 20 aprile 1880) nasce con l’intento (...) di indagare la classe operaia non tanto nelle sue convinzioni ideologiche, quanto nelle sue condizioni pratiche, ovvero nella sua quotidianità. L’indagine costituiva più che un termometro conoscitivo sulla vita reale una procedura che permetteva anche ai proponenti di riappropriarsi di una realtà sociale e culturale a distanza di un lungo e "freddo" decennio inaugurato con la sconfitta della Comune di Parigi (maggio 1871) e da tutto il socialismo europeo vissuto come un momento di chiusura di una intera fase politica. Sotto questa veste lo spirito dell’indagine e spesso molte delle questioni sollevate nelle domande torneranno culturalmente nella pratica conoscitiva sindacale e politica di tutto il Novecento, pratica spesso intesa come desiderio di tornare a conoscere la realtà reale, in contrapposizione a una dimensione ideologica o "costruita" della quotidianità. Nel corso degli anni ’60 in Italia, dietro suggestione di Raniero Panzieri, sarà il gruppo di "Quaderni rossi" a riproporre il testo di Marx (in "Quaderni rossi", n. 5, aprile 1965)» § § § Tempo fa abbiamo segnalato la rivista Cultural Logic, an electronic journal of marxist theory and practic, sito http://eserver.org/clogic/ che classificavamo come ”una finestra sul marxismo accademico anglosassone”. Torniamo a segnalarla perché ha pubblicato una lunghissima recensione a un libro che sembra molto interessante: The Wages of Whiteness: Race and the Making of the American Working Class. Second Edition (New York, 1999), di David Roediger. Si tratta di una « psycho-cultural investigation of the development of "white" identity among EuropeanAmerican workers in the North during the ante-bellum period», del 1991, ripubblicato nel 1999. L’Autore «divides his book into four parts. In Part I, in Chapter 1, Roediger sets forth the conceptual approach to his subject, posing a set of questions of key importance that he has found Marxist labor historians to have ignored, or neglected, or misconceived: 1) "the role of race in defining how white workers look not only at Blacks but at themselves"; 2) "the pervasiveness of race"; 3) "the complex mixture of hate, sadness and longing in the racist thought of white workers"; 4) the relationship between race and ethnicity." "Marxism as presently theorized," he says, does not help us focus on "why so many workers define themselves as white." He classifies Marxist and presumably Marx-influenced writings into two categories, the "traditional Marxists," who are distinguished by their emphasis on class, combined with a subordination of "race;" and the "neo-Marxists," who subscribe to the perspectives of E. P. Thompson in Britain and Herbert Gutman in the United States, whom he credits with opening the way for the emergence of "a new labor history," particularly by "call[ing] into question any theory that holds that racism simply trickles down the class structure from the commanding heights at which it is created." A set of "new labor historians" has emerged who are awake to the viciousness of "whiteness" in the labor movement. These new historians take the working class as a self-motivated agency of history, says Roediger, but their works are flawed by a "tendency to romanticize members of the white working class, by not posing the roblem of why they came to consider themselves white. David takes on the task of correcting this error by his thesis that white supremacism was "in part" a creation of the EuropeanAmerican workers, in the early nineteenth century. Come si vede Roediger “prende di petto” una delle questioni sollevate da Melchionda nel suo intervento pubblicato su Cassandra di settembre 2001, perciò lo segnaliamo ai lettori. Il sito web di Cassandra Cassandra dispone di un sito web: www.cassandra-rivista.it I compagni ci troveranno gli articoli pubblicati sui primi tre numeri della Cassandra Trimestrale di politica e cultura ——————————————— Reg. Tribunale di Roma N. 401/2001 del 19.9.2001 ———————— Direttore responsabile: Mario Ronchi ——————— Stampato in proprio ———————— distribuzione gratuita ———————— redazione.cassandra@flashnet. it —————— n. 4/2002